Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

MANETTOPOLI

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

MANETTOPOLI

  

“Chi di manette facili ferisce, di forca perisce. Chi in cielo sputa, in faccia gli cade. Non guardar la pagliuzza negli occhi altrui, ma togliti la trave dai tuoi occhi.”

Di Antonio Giangrande

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

 

SOMMARIO

 

INTRODUZIONE.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

POTERE A 5 STELLE.

GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.

IL PAESE DEI PREDICATORI.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

QUEI COMPAGNI CHE FREGANO...

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

I FORCAIOLI SI DELEGITTIMANO DA SOLI.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!

IO NON SONO RAZZISTA, MA….NON SONO RAZZISTA, MA CHI PENSA AGLI ITALIANI?

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.

I FORCAIOLI CON IL CASO KNOX SOLLECITO ED IL CASO SCATTONE.

GLI IMPRESENTABILI E LA DERIVA FORCAIOLA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

IL SUD TARTASSATO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

GLI IMPRESENTABILI TRA POPULISMO, DEMAGOGIA E MENZOGNA.

QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.

ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.

PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

QUANTI GUAI CON LA GIUSTIZIA PER GLI EX AN.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

LA METAMORFOSI DEI FORCAIOLI: LUIGI DE MAGISTRIS.

GUERRA DI TOGHE.

LA BANDA DEGLI ONESTI.

BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

I MANETTARI INFILZATI.

IN GALERA....!!!!!! IN GALERA.....!!!! I VIZIETTI DEI MORALISTI.

E POI. PARTEGGIARE PER CHI?!? CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

LE MINACCE ED I RICATTI DELLE TOGHE A BERLUSCONI E L'IPOCRISIA DEGLI INDEGNI MIRACOLATI.

LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.

LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.

I GARANTISTI A GIORNI ALTERNI.

LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.

GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.

IL PARLAMENTO DEI POMPINI E DELLE BOTTE DA ORBI.

TUTTI I GUAI DI BEPPE GRILLO.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.

IL NUOVO CHE AVANZA.

INDULTO ED AMNISTIA SECONDO CONVENIENZA.

ANCHE I MANETTARI PIANGONO.

TRAVAGLIO. DELINQUENTE A CHI?

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

GIUDICI IMPUNITI.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

LE TOGHE IGNORANTI.

L’ITALIA VISTA DALL’ESTERO.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

ESEMPI DI PERSECUZIONE SINISTRA

BERLUSCONISMO ED ANTIBERLUSCONISMO: CHE PENA!

LA STAMPA ROSSA BRINDA ALL’ODIO.

QUANDO IL PCI RICATTO’ IL COLLE PER LA GRAZIA ALL’ERGASTOLANO.

CASILLO IL CANDIDATO IDEALE CONTRO LE TOGHE ROSSE.

GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

MANETTARI E PATACCARI.

PROCESSI DI MAFIA: L’ALTRA VERITA’. PAROLA A MORI E LO GIUDICE.

IL CASO FITTO.

E SULLE FOTO DI VENDOLA SPUNTA CAROFIGLIO.

TARANTO. CASO ILVA. TUTTI DENTRO. FLORIDO E GLI ALTRI. L’ARRESTO DI GIANNI FLORIDO NON E’ MICA UNA RIPICCA? SE NON LO E’, PERCHE’ ORA?

CHI SONO I MANETTARI O GIUSTIZIALISTI? SONO GLI IDOLATRI DEI MAGISTRATI!

PARLIAMO DELLA SINISTRA.

PARLIAMO DEI GRILLINI A 5 STELLE.

PARLIAMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.

PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO.

PARLIAMO DI SANTORO.

PARLIAMO DI MILENA GABANELLI.

V-DAY PER TUTTI.

GRILLO, L’ARCANGELO DELLA LEGALITA’ TRA CONDANNE E CONDONI.

ASSOLTI SE A GIUDICARE E’ UN’AMICA.

I GIUSTIZIALISTI ALLA RESA DEI CONTI.

IL PARTITO DEI MAGISTRATI.

IDV: IL PARTITO DEI VALORI IMMOBILIARI.

GRILLO E DI PIETRO: COME BERLUSCONI. (MA IMPUNITI).

L’IDV DIVERSA DAGLI ALTRI?

L'AUTO BLU AL MARE: FIGURACCIA DEL MORALISTA IDV.

IDV: GLI SFRUTTATI AL PARLAMENTO.

IDV ED IL SEX-GATE.

IDV E LA QUESTIONE MORALE.

COLPO ALLO STATO. LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI...SALVO ALCUNI.

DI PIETRO. LA STORIA VERA.

TUTTI GLI INTRALLAZZI DEL CLAN DI PIETRO: SE LI CONOSCI LI EVITI.

TUTTI GLI UOMINI DI ANTONIO DI PIETRO. BEPPE GRILLO E MARCO TRAVAGLIO E MICHELE SANTORO E GLI ALTRI.

IL DOSSIER SUL MORALIZZATORE ED I SUOI ACCOLITI.

PD. SCANDALI DALL'EMILIA ALLA CALABRIA.

ANNA CHE SOGNA IL CSM AZZOPPATA DAL MARITO INQUISITO.

SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME.

INCHIESTE ECLATANTI.

LE GRANE GIUDIZIARIE.

DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.

LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.

A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.

SPUTTANATI E SPUTTANANDI.

CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE PER I MAGISTRATI.

REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.

LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.

TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.

TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE. 

TANGENTOPOLI E L’ELUSIONE DELLA GARA CON LA DIVISIONE DEGLI INCARICHI.

SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.

 

 

 

 

 

INTRODUZIONE

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

INTRODUZIONE.

La corsa nel fango. Le corse dei partiti nel fango minano democrazia e informazione, scrive Piero Sansonetti il 25 Febbraio 2018 su "Il Dubbio". Quando si dice giustizia ad orologeria, si dice giustizia ad orologeria. E c’è poco da scherzare. Noi siamo abituati da molti anni ad avere Silvio Berlusconi come vittima designata di questa pratica politica. Berlusconi ha pagato prezzi altissimi. Però recentemente è capitato anche ad altri, in particolare al partito democratico. Da ieri nell’elenco entrano a pieno titolo i 5Stelle che, dopo essere stati travolti dalla vicenda dei falsi bonifici (in quel caso per iniziativa giornalistica e non giudiziaria) sono stati colpiti dal siluro Caiata. Una botta dura.

Non solo perché stavolta il reato imputato al candidato grillino è “riciclaggio”, cioè proprio uno di quei reati tra i più vituperati dalla tradizionale cultura politica dei Cinque stelle. E non solo perché Caiata non era un candidato qualsiasi, ma proprio uno di quei candidati scelti personalmente dal leader Di Maio, e con Di Maio si era fatto fotografare tante volte. Ma soprattutto per la vicinanza con l’appuntamento elettorale. Mancano solo otto giorni. Di Maio è corso ai ripari espellendo Caiata dal movimento. Ma si sa benissimo che le espulsioni, o le dimissioni, o simili altri stratagemmi burocratici contano pochissimo. Anche Renzi li ha usati tutte le volte che qualche esponente democratico è rimasto impigliato nelle reti gettate dai Pm. Qualche volta anche in modo assai più drastico, perché espellere dal partito vale poco, cacciare dal governo è più pesante. Ma i sondaggi hanno sempre detto che gli elettori, delle espulsioni – o sospensioni, o dimissioni – se ne infischiano altamente. E le quotazioni del Pd andavano giù. Né poi risalivano quando – come è successo spessissimo – si scopriva che le accuse erano infondate. Non è detto che per i Cinque Stelle funzioni lo stesso meccanismo. L’opinione pubblica è una “macchina” molto complessa e non facile da capire. Lo stesso avvenimento, o la stessa colpa, o lo stesso sospetto, non hanno identico contraccolpo su tutti i partiti. Oggi come oggi non siamo in grado di valutare come possa influire sul voto Cinque Stelle la giustizia ad orologeria. Se può danneggiarli come ha danneggiato in passato Berlusconi e il Pd, o se li danneggerà molto meno. Resta il fatto che la giustizia ad orologeria, e in genere (anche a prescindere dai tempi) la smania di alcuni pezzi della magistratura italiana di farsi largo in politica a colpi di avviso di garanzia, sono un bel problema. Non perché non sia giusto che i magistrati indaghino, se sentono odore di bruciato. Ma perché non è giusto che le indagini dei magistrati – che molto, molto frequentemente finiscono nel nulla – possano modificare i risultati elettorali. Di chi è la colpa di questo inquinamento del voto? Sicuramente una parte della colpa è di quel pezzetto della magistratura ammalato di protagonismo, che sovente apre indagini sui politici anche senza avere in mano indizi sufficienti (e potrebbe essere il caso anche di Salvatore Caiata). In parte – in parte preponderante – la colpa è dei giornalisti che usano gli avvisi di garanzia come fionde, e che li considerano “condanne”; e di un bel pezzo del mondo politico che quando vede un avversario in difficoltà per ragioni giornalistico- giudiziarie gli si avventa addosso e lo massacra, anche se c’è il fondatissimo sospetto che sia innocente. Il problema del grado sempre più alto di giustizialismo della stampa italiana è un problema molto grande. Perché danneggia fortemente sia il nostro sistema democratico sia il nostro sistema di informazione. L’ultima vicenda, quella dei giornalisti e dei camorristi provocatori che hanno cercato di incastrare il figlio del governatore della Campania (senza successo), è un campanello d’allarme da non sottovalutare. L’impressione è che il nostro giornalismo stia scivolando sempre più giù. L’informazione sul “reale” è praticamente scomparsa. La ricerca è tutta sul “virtuale”. Una volta c’era il gossip, poi il sospetto, poi la fake news, ora addirittura il tentativo di creare il reato e di costruirci sopra il colpevole (vi ricordate quel fantastico film americano con Kirk Douglas che si chiamava l’” Asso nella manica”? Beh, una cosa simile). Lo hanno fatto i giovani colleghi di Fanpage e anche i colleghi di Millennium, la rivista del Fatto. I quali sono arrivati a tentare di corrompere un alto dirigente del PD, Verini, ma si sono presi da lui una bella lezione di etica e sono andati via con la coda tra le gambe. Come mai gran parte di voi non la conosce questa vicenda di Verini? Perché la tecnica è questa: io tento di corromperti, magari con l’aiuto di un camorrista, se riesco a farti dire qualche idiozia ti denuncio, se tu invece fai una bella figura mi limito a scriverlo in piccolo, tra le righe, così nessuno se ne accorge. La trasformazione del giornalismo italiano in sede centrale dell’azienda forcaiola è un problema. È un problema la fine di ogni etica del mestiere. Ed è un problema l’uso di questo tipo di giornalismo nella lotta politica. Per smontare questa macchina dell’infangamento occorrerebbe un accordo politico. Tra tutti i partiti. L’impegno a non usare più le schifezze contro i propri avversari. Questo lascerebbe a bocca asciutta anche i giornalisti manettari. Tanti anni fa, nei primi anni 50, la sinistra (i comunisti) costruirono un clamoroso scandalo contro il figlio di un dirigente della Dc candidato a succedere a De Gasperi. Si chiamava Attilio Piccioni, il dirigente Dc, e suo figlio si chiamava Piero ed era un musicista di prim’ordine. Fu accusato di aver partecipato a un festino sulla spiaggia di Torvajanica nel corso del quale sarebbe morta una ragazza romana che si chiamava Wilma Montesi. Non era vero. Quella sera Piero era con Alida Valli, però non lo disse, per discrezione e per rispetto verso l’attrice. Non si seppe mai come era morta Wilma, sicuramente Piero Piccioni non c’entrava niente. Questo però lo si accertò dopo un paio d’anni. Intanto Attilio Piccioni aveva perso la sua partita nella Dc e Piero era stato riempito di melma. La Dc si vendicò, qualche anno dopo, e incastrò un intellettuale vicino al Pci fotografandolo e coinvolgendolo in uno scandalo sessuale. Il poveretto fu costretto a ritirarsi dalla politica. Subito dopo i partiti più importanti sottoscrissero una specie di patto segreto: «Mai più useremo scandali sessuali o simili, uno contro l’altro». Il patto resse una quarantina d’anni, più o meno fino al caso Ruby… Sarebbe una bella idea riprendere alcune abitudini della Prima Repubblica. Mica era poi così male la Prima Repubblica.

Iacona, dimmi, questo è giornalismo? La puntata di “Presa diretta” sulla mafia a Reggio Calabria è stato uno spot a un paio di magistrati, senza rispettare il diritto alla difesa. Pessimo servizio pubblico, scrive Piero Sansonetti il 30 Settembre 2017 su "Il Dubbio". Conosco Riccardo Iacona da molti, molti anni, da quando lavorava con Santoro, mi pare che fossero gli anni Ottanta. E lo stimo, mi è sempre sembrato molto bravo, in Tv, nelle inchieste sociali. Per questo sono rimasto davvero stupito, l’altra sera, vedendo la puntata della sua trasmissione, “Presa Diretta” (sulla Rai), intitolata i “mammasantissima”, presentata come una inchiesta giornalistica sulla mafia e la massoneria a Reggio Calabria. Più che una inchiesta, più che un lavoro giornalistico, sembrava un lunghissimo spot pubblicitario a un paio di Pm, e questo non è una bella cosa, specie sul servizio pubblico. Ma soprattutto sembrava un lavoro ordinato e organizzato dalla Santa Inquisizione, in un modo così sfacciato da lasciare interdetti. Non so se è giusto usare i vecchi aggettivi ormai consumati: manettaro forcaiolo… Ma è difficile non farlo. Quello che so è che Riccardo stavolta ha reso un servizio pessimo all’informazione. Non c’era nessuna inchiesta giornalistica, nella sua trasmissione, c’era una tesi e questa tesi era sostenuta da dichiarazioni – prive di qualunque riscontro – rilasciate dagli inquirenti e da qualche pentito: da nessun altro. Voci contrarie? Zero virgola zero. Parola alla difesa? Ma per carità! La tesi era questa. Che al di sopra della ‘ndrangheta c’è una super- cupola, la quale detta la strategia e dirige la ‘ndrangheta, e della quale fanno parte quattro persone, forse cinque. Le quattro persone sono l’avvocato De Stefano e tre politici: il senatore Caridi, l’ex parlamentare Romeo, e l’ex assessore Sarra. Poi, forse, c’è anche l’ex presidente della Regione, Scopelliti. Accanto a questa cupola c’è anche una cupoletta, costituita da un ex magistrato (Tuccio) e da un prete (il parroco di San Luca, don Pino Strangio). La tesi si sorregge su alcuni pezzi dell’inchiesta giudiziaria del Pm Giuseppe Lombardo, il quale, un anno e mezzo fa circa, ha ordinato l’arresto della presunta cupola (pre- sun- ta), con il benestare del Senato della Repubblica che ha acconsentito senza fiatare – nonostante la vistosa carenza di indizi – all’imprigionamento del senatore Caridi. Ho scritto “alcuni pezzi dell’inchiesta”, perché solo alcuni (quelli che sembrano a sostegno della colpevolezza) vengono utilizzati. Altri restano avvolti nel silenzio. E ho scritto “carenza di indizi” perché così ha detto la Corte di Cassazione, di fronte al ricorso della difesa di Caridi contro il suo arresto. La Cassazione ha accolto il ricorso della difesa e ha precisato che non gli sembravano sufficienti gli indizi contro Caridi, e questo la dice lunga sulla superficialità del Parlamento, che invece ha sùbito chinato la testa di fronte alla richiesta dei Pm e – da allora – di Caridi ha dimenticato persino il nome. Questa notizia della Cassazione che ha ritenuto insufficienti gli indizi e ha chiesto al tribunale del riesame di ripensarci (il riesame però non ci ha ripensato, e ora pende un nuovo ricorso in Cassazione) la trasmissione “Presa Diretta” l’ha bellamente ignorata. Del tutto. Perché? Perché disturbava la tesi. La trasmissione non ha mai nemmeno per un secondo messo in dubbio la colpevolezza di Caridi e degli altri. Ha indagato su quanto esteso fosse il loro potere mafioso, non sull’ipotesi di colpevolezza o innocenza. E naturalmente, in un’ora e 43 minuti, neppure un secondo è stato lasciato alla difesa. A che serve la difesa se già sappiamo chi è colpevole? Detto tra prentesi, Presa Diretta ha persino aumentato il numero degli imputati, tirando in ballo il nome di Scopelliti che non è tra gli accusati. La tesi di Iacona, è basata, dicevamo, sulle testimonianze di alcuni pentiti. Precisamente due pentiti: Nino Fiume e Salvatore Aiello. Nino Fiume, che è stato arrestato nel 2001 e dunque conosce gli affari di mafia del secolo scorso (quando almeno alcuni degli imputati erano poco più che ragazzi) nelle interviste mandate in onda dice solo cose molto generiche e tutte per sentito dire. Usa termini che certo non sono mafiosi, ma sono suggeriti evidentemente dagli inquirenti, o dai giornalisti, tipo “zona grigia” della mafia (espressione che in gergo giudiziario, e anche sociologico, indica un settore della società che sta a metà strada tra mafia e Stato). Dice Fiume: «me l’hanno detto… le lascio immaginare… i burattinai che guidano il treno… chi sta al di sopra della ‘ ndrangheta…». Nomi niente, fatti niente. Aiello dice ancora meno, ma lui è il pentito che aveva indicato Caridi come mafioso e aveva raccontato di un incontro avuto da Caridi con un certo boss, il quale, si è saputo poi, al momento dell’incontro presunto era al 41 bis… E’ possibile dar credito a un pentito di questo genere? Nella trasmissione di Iacona non viene mai, neppure di sfuggita, messa in discussione la credibilità dei pentiti, né della tesi dei magistrati. E non viene mai detto che gli inquirenti hanno solo quello in mano: vecchie dichiarazioni di pentiti e intercettazioni nelle quali si parla per sentito dire, o si gridano dichiarazioni che possono tranquillamente essere interpretate come “millantato credito”. A un certo momento Iacona cita anche Falcone, dimenticando che l’ipotesi della super- cupola, con Caridi e gli altri, è esattamente il rovesciamento delle ipotesi alle quali lavorava Falcone (e che perciò fu isolato e sommerso dalle polemiche): Falcone escludeva che la mafia fosse eterodiretta da una super- cupola. Poco prima di morire fu linciato in Tv per queste sue posizioni. La seconda parte della trasmissione è stata dedicata alla massoneria. Qui la tesi era veramente molto molto vaga. Più o meno era questa: non sappiamo bene perché, non abbiamo neppure un indizio, non c’è nessuna ragione perché sia così, ma noi pensiamo che massoneria e ‘ ndrangheta, se non sono la stessa cosa, poco ci manca. Il finale è stato lasciato, come si poteva prevedere, a Nicola Gratteri. La stella televisiva dei Pm. Il quale, peraltro, stavolta ha fatto la parte del moderato. L’intervista davvero era un po’ imbarazzante. Due tre volte le risposte di Gratteri sono state commentate dall’intervistatore con una esclamazione: “Bravo! Bravo! Bene!”. Diciamo che nei manuali di giornalismo non c’è mai scritto che l’intervistatore deve applaudire l’intervistato…Gratteri ha detto anche alcune cose sagge, e accanto a queste ha spiegato di nuovo la sua vecchia tesi, un po’ singolare: secondo la quale in Italia c’è stato un decadimento etico e quindi la mafia non ha più bisogno di uccidere ma corrompe. Abbiamo scritto altre volte che questa tesi secondo la quale bisogna essere molto allarmati perché non s’uccide più, non ci convince molto: ma questo non c’entra con l’inchiesta di Iacona. A Riccardo vorrei dire solo questo: torna a fare le inchieste sociali, che le sai fare. Questo tuo lavoro su Reggio Calabria, diffuso attraverso il servizio pubblico ( e peraltro realizzato in modo eccellente dal punto di vista tecnico e di scena) è stato un disastro. I magistrati fanno il loro lavoro come credono, ma poi i processi devono farli in aula, non in Tv. Davanti a un giudice terzo, non a un giornalista loro tifoso. Non ti pare?

Saviano, Rodotà e gli altri: ecco tutti i guru dei Cinque Stelle, scrive Filippo Burla il 5 giugno 2015 su "Ilprimatonazionale.it". Rispetto alle ultime elezioni regionali, a molti commentatori, troppo impegnati a discettare della prevedibile cannibalizzazione del centrodestra da parte della Lega, sembra essere sfuggito il vero nocciolo della questione, preoccupante per il futuro del paese: il Movimento 5 Stelle ha sostanzialmente confermato il suo bacino elettorale che stimiamo approssimativamente in un 20% dell’elettorato. È incomprensibile come non si capisca che questo vuol dire che un quinto degli elettori è oramai entrata in un pericolosissimo loop mentale fatto di fanatica devozione ad un leader buffonesco ed eterodiretto, nonché ad una narrazione dell’Italia e dei suoi problemi irrealistica e dettata più che altro da una serie di guru fuori dal mondo. Gente alla Podemos o Syriza per cui tutti i problemi sono da imputare alla corruzione, o che addirittura punta esplicitamente a fomentare una guerra civile fra le classi più sfigate del nostro paese. Prendiamo il principe dei guru grillini, quello che con i Ray Ban parla dei bei vecchi tempi quando eravamo “poveri ma belli”, l’ineffabile Massimo Fini. Fra i tanti deliri del nostro eroe, questo ci pare il più indicativo del suo modo di pensare, che si può riassumere in una affermazione apodittica: “il debito pubblico è colpa dei dipendenti pubblici e dei pensionati”. Buono a sapersi caro Fini, anche se si scontra con due dati di fatto banalotti. Innanzitutto, il bilancio pubblico italiano registra un avanzo primario da 20 anni, ovvero la spesa pubblica al netto degli interessi sul debito pubblico è inferiore al gettito fiscale. Gli stipendi pubblici non contribuiscono perciò al deficit e men che meno aumentano il debito stesso. In secondo luogo, la previdenza era già in attivo prima della riforma Fornero, che ha fatto risparmiare ulteriori 3.2 miliardi, per cui nemmeno i pensionati, nemmeno quelli “d’oro” sono la causa del debito pubblico. Certo, Fini è in ottima compagnia nella cloaca grillina, per esempio rispetto a Saviano. Questo figuro, per dire, sostiene che sono i cravattari della mafia ad aver spinto i Greci nella morsa della disoccupazione di massa, del debito inestinguibile, della recessione cronica. E che dire di un autentico fuoriclasse, quel Travaglio fustigatore dei pubblici costumi per cui negli Usa, che sono una “democrazia seria”, non esiste conflitto d’interessi? Cioè, se l’intera Amministrazione federale è espressione della lobby petrolifera e di quella militare dal 2001 al 2008, e se successivamente (con il passaggio da Bush ad Obama) Wall Street entra pesantemente nel governo e dirige la più colossale opera di salvataggio di interessi privati con soldi pubblici della Storia, questo non è conflitto d’interessi? E allora cosa sarebbe, di grazia? Obama ha ricevuto (secondo la Federal Election Commission) un totale di 166 milioni di dollari durante la sua prima campagna elettorale da Wall Street, assicurazioni e farmaceutici. Qualcuno, vedendo i clamorosi salvataggi attuati senza nemmeno rinchiudere i banchieri a Guantanamo, oppure i 90 miliardi di dollari che la “riforma sanitaria” regalano ogni anno alle assicurazioni private ed alle multinazionali farmaceutiche potrebbe pensare male. Ma secondo l’eccellente Travaglio, questo non è conflitto d’interessi. C’è poi Pallante, per cui la crescita dell’occupazione è intrinsecamente perniciosa. Splendida la logica usata dai malthusiani di ogni epoca: la crescita è la causa della crisi, che è esattamente come dire che la vita è la causa della morte. Credo che nessuno se la senta di smentire questo assunto, che però calato nella attualità politica (disoccupazione ufficiale al 13% e perdita del 25% della nostra capacità produttiva) equivale a mettere in guardia un ipotetico Cristo, dopo 40 giorni di digiuno nel deserto, dai pericoli del colesterolo. Satana, che è persona seria e molto concreta, viceversa lo tentò con il pane, perché chi ha fame ha bisogno di cibo, chi è disoccupato ha bisogno di lavoro, chi decresce ha bisogno di crescita, chi è indebitato ha bisogno di danaro, chi ha figli ha bisogno di poterli crescere in relativa sicurezza socioeconomica. Chiudiamo questa sconfortante carrellata con un guru ad honorem, il venerabile maestro Rodotà, quello a cui cospetto noi miseri peccatori, che in vita è capitato persino di avere delle emozioni, dobbiamo inchinarci. Il purissimo Rodotà, il forcaiolo d’acciaio, il re dei manettari e dei difensori ad oltranza della Costituzione, salvo quando essa contrasti con l’integrazione europea, ergo salvo che nella sua intera struttura economica. In quel caso, anche i parrucconi tacciono. Ma non è questo, in fondo, l’importante. Quello che forse il grillino medio non sa è che anche Rodotà ha peccato in pensieri, parole, opere ed omissioni, almeno una volta nella sua vita. Per una volta, una sola volta, è stato tentato dal garantismo, quella cosa che oramai è appannaggio esclusivo solo di chi scrive e dei sostenitori di Berlusconi. Il peccato capitale per la feccia radical-chic. In che occasione? Riportiamo un breve passo di una conferenza del 1985, quando Rodotà era deputato della Sinistra Indipendente: “Se si tiene conto del fatto che una persona fosse o no irata o avesse o no bevuto un bicchiere di più, volete che i giudici non abbiano l’obbligo giuridico di tenere conto del contesto in cui quella vicenda si è complessivamente maturata?”. A cosa si riferisce il Maestro? Ce lo spiega il libro “Le vere ragioni”, che raccoglie gli atti dell’omonimo convegno organizzato da Democrazia Proletaria a Milano nell’ottobre dell’85. Si parlava dell’assassinio di Ramelli, controllare per credere. La sinistra italiana aveva necessità, in quel frangente, di fare quadrato e riscoprire i valori del ’68 e degli anni ’70. Da lì l’idea di organizzare un convegno con l’obiettivo di rivalutare le battaglie del movimentismo antagonista, in primis agli occhi dell’opinione pubblica. Avete presente quel bel periodo in cui, a quanto pare, “uccidere un fascista non è reato”? Beh, per quanto illuminato, pare che alla fin fine un comunista rimanga sempre un comunista. Cosa vogliamo dire con questo? Semplicemente, constatare in con una certa malinconia che qualcosa come il 20% degli elettori in Italia, senza dubbio animato da buone intenzioni, ha la testa infarcita di una quantità sesquipedale di castronerie che occultano le cause della spirale recessione-disoccupazione-deflazione in cui stiamo sprofondando.

Non è antagonismo seguire adoranti i portavoce delle procure o i vecchi nichilisti, nemmeno i veterocomunisti spocchiosi o i finti nemici del “potere” con ricche sponsorizzazioni e lucrosi contratti. Perché alla fine si finisce come con il reddito di cittadinanza: una bufala neoliberista ideata appositamente per distruggere lo Stato sociale ed abituare i lavoratori al precariato che diventa una sorta di panacea a tutti i mali della società.

Filippo Facci il 6 Giugno 2014 su "Libero Quotidiano": Travaglio in delirio manettaro, vuole uno Stato di polizia grillino. Marco Travaglio ha finalmente scritto il Manifesto del forcaiolo, ossia un articolo che cerca di fiancheggiare la comprensibile rabbia legata ai vari scandali - Venezia, l’Expo - così da evidenziare i suoi autentici desideri in tema di giustizia. Darne conto è interessante, perché sintetizza che Paese diventeremmo se certe soluzioni venissero effettivamente adottate: una sorta di Germania Est, coi Cinque Stelle al posto della Stasi. Intanto va segnalato che il pentastelluto Mario Giarrusso ha proposto seriamente il ripristino della ghigliottina - lo ha detto alla Zanzara, su Radio24 - spiegando pure che gli arresti domiciliari andrebbero aboliti. Diceva sul serio. Ma veniamo alle analisi e alle proposte di Travaglio. 

1) Travaglio fornisce una disamina della seguente profondità: «Destra, sinistra e centro rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente... Esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare». Tutti. Insieme. Sempre. Quindi anche il governo delle larghe intese: «Continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo». Il governo Pd-Ncd, dunque, serve a rispecchiare l’amicizia trasversale tra Frigerio e Greganti (Expo) o tra Galan e Orsoni (Expo). E Renzi? Ruba anche lui? No, «i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio». Renzi, quindi, è la copertura della gigantesca associazione per delinquere. Va rilevato che il Travaglio-pensiero - si fa per dire - è un’evoluzione recente: nel 2010, sul Fatto, elogiava il piddino Giorgio Orsoni (ora arrestato) definendolo «persona seria e normale».

2) Adesso però è cambiato tutto, e le garanzie democratiche e costituzionali andrebbero sospese. Lo scrive Travaglio, e tra le righe non si scorge alcun tono satirico: «L’art. 27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini... non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero». Basta Il Fatto Quotidiano che legga per noi le carte: carte infallibili scritte da pm infallibili, come dimostra la storia giudiziaria italiana. C’è da sentirsi tranquilli. 

3) La terza proposta è di conseguenza: «Cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali». È sufficiente essere inquisiti e non importa per che cosa: anche per atto dovuto, anche per una qualsiasi delle scemenze per le quali in Italia non esiste politico che non sia stato inquisito almeno una volta: o condannato, come Grillo, o come Travaglio. Del resto «a certi livelli non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi», scrive il nostro. Bene. Si allarga il clima di fiducia. 

4) Anche la quarta proposta è di conseguenza: «Radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti». E siccome «in storie di tangenti» sono state coinvolte praticamente tutte le più importanti aziende italiane ed estere (comprese Eni, Finmeccanica, Fiat, Autostrade, Coop) i lavori della Salerno-Reggio Calabria saranno conclusi da Casaleggio via internet. 

5) Ma è un falso problema, perché prima c’è altro da fare: «Cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico». C’è uno scandalo a Venezia e allora rinunciamo alla Torino-Lione, che è in fase embrionale come può esserlo un ragazzino di 14 anni. Non è un discorso pretestuoso, no.

6) Ma restiamo allo stato di polizia che piacerebbe a Travaglio. Che cosa servirebbe? Questo: «Introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori... imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato». Viene il sospetto che Travaglio abbia visto American Hustle o, più indietro nel tempo, Le vite degli altri. E resta la curiosità di sapere che cosa accadrebbe nel nostro Paese se, oltre alle mazzette vere, ci fossero anche quelle false offerte da agenti provocatori e cioè corruttori: questo nello stesso Paese post-sovietico in cui chiunque partecipasse a un appalto (anche quello per la fontana del paesello) dovrebbe mettere a disposizione del maresciallo tutte le proprie conversazioni e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello. 

7) Il problema è che in galera c’è poca gente: occorre «piantarla con le svuotacarceri», costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, «riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro». È così semplice. E la scuola dell’amico Piercamillo Davigo, già ispiratore anche della battuta sui colpevoli non ancora scoperti: in Italia ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione, diversamente dagli Stati Uniti. Ma segnaliamo un problema: Usa e Italia adottano sistemi diversi. Comunque tutto si può fare: ma bisognerebbe, anche qui, cambiare la Costituzione. 

7) Nell’attesa, si possono «radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni». Tutte. Proprio tutte. Soprattutto quella che bruciò di più alla magistratura, cioè la riforma dell’articolo 513 che costrinse a cambiare la Costituzione nel 1999: si tornerebbe, cioè, a quando un accusatore poteva tranquillamente denunciare chicchessia, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza neanche presentarsi in aula per confrontarsi con la persona che aveva accusato. Very Germania Est. 

8) «Tutto il resto non è inutile: è complice». 

9) Per qualche misteriosa ragione - scrive infine, cioè: in realtà lo scrive all’inizio - dopo lo scandalo di Venezia dovremmo tutti chiedere scusa a Beppe Grillo: «Milioni di persone perbene - elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori - dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi». Perché? Travaglio non lo spiega, se non deplorando gli «anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo... intanto destra e sinistra e centro rubavano». Tutti. Insieme. Sempre. Travaglio ne approfitta per correggere la rotta sull’alleanza grillesca con Nigel Farage: «L’abbiamo denunciata anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia». Traduzione: c’è stato lo scandalo del Mose e allora Grillo potrebbe anche allearsi con Farage. Travaglio l’ha deciso mercoledì. Martedì aveva scritto il contrario. 

Il comunismo latente del M5S. Il comunismo e il MoVimento 5 Stelle. Così i grillini hanno ereditato geograficamente i consensi del Pci, ma non solo. Ecco tutte le analogie, scrive Francesco Boezi, Sabato 03/02/2018 su "Il Giornale". L'associazione tra comunismo e MoVimento 5 stelle farà sorridere i grillini. La questione, però, è politologica e merita un'analisi approfondita. Il populismo promosso da Luigi Di Maioe compagni, infatti, è definito dalla letteratura "undefined populism", populismo indefinito. Una tipologia di stile politico che non calvalca né le issues sovraniste di Marine Le Pen né l'ecosocialismo alla Hugo Chavez. In Italia, però, le mappe elettorali dimostrano l'esistenza di una sovrapposizione storica del consenso tra M5S e Partito Comunista Italiano. Luigi Pietroselli, sindaco comunista di Roma, capitale da sempre politicamente sperimentale, e Virginia Raggi, la rossa Livorno e Filippo Nogarin, Stefano Lavagetto e Federico Pizzarotti a Parma, la "Pietrogrado d'Italia", cioè Torino, e il sindaco Appendino: non a caso, insomma, i grillini hanno espugnato città italiane erette a simbolo del comunismo. Anche Napoli, almeno inizialmente, era a trazione grillina: Luigi De Magistris, che vuole essere ricordato come il Che Guevara partenopeo, ha sempre flirtato con le istanze pentastellate. " Il movimento - ha scritto un anno fa il vicedirettore de Il Giornale Del Vigo - muove i primi passi, e raccoglie i primi consensi, a cavallo tra gli orfani dell'antiberlusconismo più violento, del popolo viola e del movimentismo da centro sociale: no global, no tav, no tap, no vax e chi più ne ha più ne metta". Il cosiddetto "Popolo Viola" e il giustizialismo alla Di Pietro, del resto, hanno rappresentato "i cavalli di Troia" tramite i quali i grillini si sono palesati sulla scheda elettorale. Il Movimento non è riuscito a sfondare nelle zone rosse: il sistema delle coop tosco-emiliano e l'eredità organizzativa del Pd non consentono, almeno per ora, di raggiungere grossi risultati. Il consenso racimolato in passato dai grilllini al Sud può essere interpretato come un voto di protesta, ma Grillo ha fatto breccia soprattutto tra gli isolani, dove anche il Partito Comunista Italiano raggiungeva picchi di consenso. E i candidati "selezionati" dalle primarie supportano questa tesi. Prendiamo la Toscana: Alfonso Bonafede, ex legale dei NoTav, è candidato a Firenze; Gianluca Ferrara, blogger de Il Fatto Quotidiano, capolista al Senato per la Toscana nord, è - secondo quanto scritto da Il Tirreno - un antimilitarista e in qualche modo un simpatizzante di Maduro; Laura Bottici ha "radici nella Carrara anarchica"; Riccardo Ricciardi, capolista alla Camera a Massa Carrara, è soprannominato il "Guevara" del meet-up; Chiara Yana Ehm, candidata nel proporzionale con Bonafede, è una volontaria delle ong; I candidati toscani dei grillini, quindi, dieci anni fa si sarebbero trovati a loro agio nelle liste da post-comunismo di Rifondazione. A Torino Di Maio ha arruolato Paolo Biancone, che in passato ha organizzato un forum per costruire una città a misura di Sharia. E sempre nell'ex capitale d'Italia, poco dopo l'ultimo G7, era emersa la presenza di amministratori grillini "che strizzano l'occhio ad autonomi e centri sociali". Anche in Piemonte, quindi, ideologia postcomunista e cinque stelle sembrano andare a braccetto. Di giacobinismo e purghe interne, poi, non vale la pena parlare. Le rimostranze di alcuni iscritti, le stesse di cui si interessa da mesi l'ormai celebre avvocato Borrè, sono lì a testimoniare l'esistenza di una tendenza a non tollerare troppo il pensiero dissidente, lo spirito dialogico e il confronto interno. Il giustizialismo, ancora, è sempre stato il paradigma del comunismo italico prima e dell'essere grillini ora. "A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura", sottolineava Pietro Nenni. E così, persino il MoVimento, dopo aver appreso che avere a che fare con la politica senza essere interessati dalle indagini della magistratura risulta difficile, ha deciso di cambiare le regole per candidarsi. Il "comunismo digitale", ancora, è l'unico fenomeno politico che continua a paventare l'eventualità di un'imposta patrimoniale ordinaria. Il Leviatano di Hobbes ha trovato un nuovo alleato in questo atipico centro sociale del web. La Casaleggio Associati, poi, è la "Botteghe Oscure" del nostro tempo. L'atto notarile pubblicato da Il Foglio qualche giorno fa dimostra come il centralismo sia la direttrice partitocratica di un'organizzazione politica che vorrebbe apparire come diversa dai partiti. Il Partito Comunista Italiano, però, aveva una piattaforma valoriale, nel campo della bioetica ad esempio. I grillini no. Il MoVimento 5 Stelle spazia dalla proposta di estendere il concetto di famiglia tradizionale dando la possibilità a più di due soggetti di contrarre un matrimonio a posizioni ondivaghe su migranti e vaccini. Il comunismo pentastellato ha tratto geograficamente i consensi, ma non la preparazione. Una versione camaleontica, che del comunismo ha ereditato la dottrina e le formulazioni teoriche, ma non la tensione intellettuale e l'uniformità ideologica.

“TRATTATIVA”: SENTENZA A 5 STELLE, scrive Dimitri Buffa il 20 aprile 2018 su "L'Opinione". Adesso tutti professeranno rispetto per le sentenze e diranno di volere attendere i 90 giorni canonici - magari ci si metterà di più visto che il processo è durato oltre cinque anni - ma queste condanne per il cosiddetto “processo trattativa” all’ex capo dei Ros Mario Mori e al suo vice Antonio Subranni (12 anni), oltre a quella al tenente colonnello Giuseppe De Donno (8 anni), per non parlare di quella – sempre otto anni – al solito ex senatore Marcello Dell’Utri, vengono come il cacio sui maccheroni per chi sogna un bel governo forcaiolo a Cinque Stelle. Non fosse altro perché il pubblico ministero che più ha incarnato l’accusa in questa inchiesta e in questo dibattimento, Nino Di Matteo, meno di una settimana fa era applaudito come una rockstar proprio alla kermesse “Sum#02” organizzata dai grillini in onore del defunto ex padrone della Casaleggio Associati. Fossimo in campo calcistico, qualcuno sospetterebbe il cosiddetto “aiutino”. Per tutti i manettari d’Italia, che già ieri a Palermo dopo la lettura della sentenza agitavano le famose agende rosse inneggiando ai pm come se si trattasse di celebrità dello spettacolo, questa sentenza può essere percepita come un “verdetto a Cinque stelle”. E infatti puntuale è arrivato il commento via Twitter del candidato premier Luigi Di Maio: “La trattativa Stato-mafia c’è stata, oggi muore la Seconda Repubblica, grazie magistrati di Palermo”. Anche Leoluca Orlando, predecessore di Luigi Di Maio come referente del partito degli onesti, ha esultato dicendo che “finalmente una verità storica è diventata anche giudiziaria”. Il pm Di Matteo ha detto pure che adesso sarebbe dimostrata la complicità politica di Silvio Berlusconi mentre Alessandro Di Battista ha parlato di “Caimano cui sta crollando sotto i piedi tutto il sistema di potere”. Quasi un’orgia di dichiarazioni in un’ipotetica cerimonia mediatica di un dio Pan del giustizialismo, si potrebbe dire. Per la cronaca c’è anche un assolto eccellente, Nicola Mancino, la cui testimonianza non è stata ritenuta falsa. E il cui calvario giudiziario, che ha coinvolto anche l’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (per tacere di quello del suo ex consigliere Loris D’Ambrosio, il magistrato che morì di crepacuore nelle more della polemica), oggi sembrerebbe finito. L’unico dei mafiosi rimasto in vita alla fine di questo processo, Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina, si è beccato 28 anni. Giovani Brusca, quello che sciolse il piccolo Giuseppe Di Matteo nell’acido se l’è cavata con la prescrizione. Mentre a Massimo Ciancimino, famosa “icona dell’antimafia”, come fu definito durante un talk-show di Michele Santoro, ha avuto “solo” 8 anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della polizia Gianni De Gennaro, indicato come il fantomatico “signor Franco”. In compenso contro Ciancimino junior il reato di associazione mafiosa è stato ritenuto non dimostrato. Nel bailamme del dopo lettura della sentenza era palpabile – come si accennava – l’entusiasmo mediatico dei fan del pm simbolo di questo processo Nino di Matteo, ad esempio cori di “siamo tutti Di Matteo”. Un processo che è anche il clone nel merito di almeno altri due dibattimenti che già trattarono – assolvendo Mori, Subranni e De Donno – i fatti di merito come la mancata perquisizione del covo di Riina e la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Per la prima volta in un’inchiesta di mafia, un teorema è stato dimostrato quasi avesse valenza matematica. Per ora ci tocca credere al fatto che Riina avesse mandato un papello di richieste al padre di Ciancimino perché lo trasmettesse a Oscar Luigi Scalfaro per accettazione, se non voleva che continuassero le stragi di mafia, e che Provenzano fosse “uno sbirro” e si fosse venduto Totò Riina. In cambio sarebbe stato protetto nella propria latitanza per altri 14 anni prima della cattura. E siamo obbligati anche a ritenere che gli eroi che presero Riina nel 1993 – dopo 43 anni di latitanza – nonché i loro capi, abbiano fatto il doppio gioco tra mafia e istituzioni. Una sentenza che condanna la popolazione italiana, oltre che ad attendersi un Antonino Di Matteo al dicastero della giustizia in caso di governo grillino, a future serie televisive su Sky e su Netflix (è aperta la gara a chi girerà per primo “La trattativa”). Serie che potranno contribuire così all’incremento del Pil nazionale con un prodotto nostrano che da tempo si esporta in tutto il mondo, meglio dell’alta moda: la narrazione di uno Stato che è consustanziale con la criminalità organizzata.

Sentenza grillina sulla Trattativa. La Corte d’assise di Palermo condanna Mori, Subranni e Dell’Utri e apre una nuova stagione di assedio giudiziario contro il Cav. Le sentenze ignorate, il mistero del pataccaro Ciancimino, il trionfo del circo mediatico, i populismo dei giudici popolari, scrive Giuseppe Sottile il 20 Aprile 2018 su "Il Foglio". Chapeau. Il galateo istituzionale insegna che di fronte a una sentenza emessa in nome del popolo italiano non c’è altro da fare che scappellarsi. Dopo cinque anni di discussioni e di polemiche la Corte di assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, ha stabilito che negli anni delle stragi di mafia, alcuni funzionari dello Stato scesero a patti con i boss di Cosa nostra. Magari con la migliore intenzione, che poi era quella di fermare il fiume di sangue. Ma la trattativa ci fu. Ed è bastata questa convinzione per spingere i giudici togati e i giudici popolari a distribuire condanne pesantissime a tutti gli imputati. A cominciare dai due generali dei carabinieri, Mario Mori e Antonio Subranni, che tra il 1992 e il 1994 si trovarono nell’inferno di Palermo e, da bravi investigatori, attivarono tutti i mezzi per contrastare il disegno eversivo di Totò Riina e dei sanguinari corleonesi. La sentenza non gli riconosce una sola attenuante e li condanna a dodici anni di carcere. Prima di restare impigliati nel processo istruito dal procuratore aggiunto Antonio Ingroia e sostenuto in aula con particolare forza dal pubblico ministero Antonino Di Matteo, i due alti ufficiali dell’Arma erano addirittura convinti di dovere ricevere prima o poi una medaglia a nome di tutti gli italiani: perché erano riusciti a fermare la strategia delle bombe; e perché avevano arrestato e sepolto nel carcere duro Totò Riina, il capo dei capi. Invece sono stati costretti per oltre dieci anni a salire e scendere le scale dei tribunali. E pur avendo collezionato assoluzioni nei processi specifici – a cominciare da quello per la mancata cattura di Bernardo Provenzano, il boss che secondo il teorema della trattativa avrebbe tradito il capo dei capi, consegnandolo agli sbirri – si sono ritrovati oggi nell’aula bunker del Pagliarelli sotto il maglio impietoso di una condanna difficilmente sopportabile. Ovviamente, i loro avvocati presenteranno appello. Ma ci vorranno almeno altri due o tre anni prima che si possa arrivare a una sentenza di secondo grado. Intanto il calvario si allunga: da qui al 2021, se tutto filerà liscio, avranno collezionato quindici anni di sofferenze, di sospetti, di gogna, di disperazione di morte civile. Né Mori né Subranni sono più dei giovanotti. E quando si è vecchi, annotava Luis de Góngora, “ogni caduta è un precipizio”. Farà i conti con la propria età e con una giustizia senza fine anche Marcello Dell’Utri, l’ex braccio destro di Silvio Berlusconi, in carcere già da quattro anni per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo i giudici di Palermo ha avuto anche lui un ruolo nella Trattativa e ai sette anni precedenti, quelli inflitti per concorso esterno, andranno cumulati altri dodici anni. Fine pena mai. In fondo è andata meglio ai mafiosi. Leoluca Bagarella, cognato di Riina, sulle cui spalle gravavano già una decina di ergastoli, aggiunge al suo casellario giudiziario un’ulteriore condanna a ventotto anni. Ma il pluriassassino Giovanni Brusca, l’uomo che nel maggio del ’92, premette il telecomando e fece saltare in aria a Capaci il giudice Giovanni Falcone, se l’è cavata alla grande: il reato gli è stato prescritto, forse in virtù del fatto che da quando è stato catturato – con grande clamore e giubilo delle forze dell’ordine – lui ha molto opportunamente abbracciato la professione di “pentito” con un programma a maglie larghe che gli ha consentito anche di godersi un po’ di bella vita. Ma la sorpresa più clamorosa sta nella condanna inferta a Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo, e testimone centrale di tutta la trama accusatoria. Al giovane Massimuccio – già in carcere pure lui per altre ribalderie consumate mentre Ingroia lo elevava al rango di “icona dell’antimafia” e il fratello di Paolo Borsellino lo abbracciava e lo baciava nelle pubbliche manifestazioni – la Corte d’assise ha riconosciuto il ruolo di pataccaro: difatti lo ha condannato a otto anni per le calunnie rivolte all’ex capo della polizia, Gianni De Gennaro e non per concorso esterno in associazione mafiosa. Dimenticando, probabilmente, un dettaglio: che Massimo Ciancimino era il teste chiave di questo processo. Anzi. Questo processo non si sarebbe potuto imbastire senza le sue clamorose “rivelazioni”. Lui, furbissimo, si era trasformato nel ventriloquo di suo padre e in quanto tale raccontava non solo a Ingroia ma anche a tutti i giornalisti che lo intervistavano gli incontri che il vecchio Don Vito, corleonese e amico di Riina e Provenzano, aveva avuto non solo con il generale Mario Mori, ma anche con il capitano Giuseppe De Donno, anch’egli processato e condannato a otto anni di carcere. Come si dice in questi casi, per chiarire un dubbio bisognerà doverosamente aspettare le motivazioni della sentenza. Intanto però il dubbio resta in piedi: se il principale teste è un pataccaro, su quali elementi i giudici hanno costruito le granitiche certezze che li hanno spinti a formulare condanne così gravi e ferrose? Ciancimino – giudiziariamente parlando, per carità – era stato fatto a pezzi già nel novembre del 2015 dal giudice Marina Petruzzella che con rito abbreviato aveva giudicato e assolto l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, imputato nella trattativa alla stregua di Mori, di Subranni e di Dell’Utri. Le sue dichiarazioni, stando alla valutazione di Marina Petruzzella, erano da considerare “contraddittorie, confuse, divagatorie e incoerenti”. Eppure quelle dichiarazioni hanno trovato spazio e accoglimento nel maxi processo concluso oggi con sette durissime condanne. (L’unica assoluzione è stata quella dell’ex ministro dell’Interno, Nicola Mancino, imputato di falsa testimonianza). Come mai? La credibilità assegnata dalla Corte al pataccaro Ciancimino non è tuttavia l’unico mistero che i giudici dovranno chiarire nel momento in cui si siederanno a un tavolo per scrivere le motivazioni. Bisognerà capire anche per quali ragioni siano stati ignorati i verdetti delle precedenti assoluzioni. Secondo l’impostazione originaria data da Antonio Ingroia la presunta Trattativa tra i boss e alcuni settori, ovviamente deviati, dello Stato si basava su alcuni riscontri, su alcuni fatti strani e inquietanti: primo, Mori e i suoi carabinieri avevano tutti gli elementi in mano per catturare Bernardo Provenzano, il numero di due di Riina, ma non lo hanno fatto per avere in cambio la “soffiata” che li avrebbe portati alla cattura del mammasantissima; secondo, sempre Mori e i suoi carabinieri, dopo avere ammanettato Riina, avrebbero dovuto immediatamente perquisire il covo di via Bernini dove il capo dei capi aveva vissuto la latitanza, ma non lo hanno fatto per consentire ai più stretti complici del boss, come Leoluca Bagarella, di fare sparire tutte le carte, soprattutto quelle che avrebbero potuto portare le indagini ai santi protettori, anche politici, della mafia. Ma questi riscontri, chiamiamoli così, erano stati polverizzati da due sentenze di assoluzione pronunciate dai tribunali chiamati a giudicare, per quei reati, sia Mori che De Donno. Con quale criterio la Corte d’assise li ripesca e li fa propri? Quali solidi argomenti, insomma, hanno spinto il collegio presieduto da Alfredo Montalto a ignorare la sentenza di Marina Petruzzella e i due verdetti dei tribunali che non hanno trovato macchia nel comportamento dei carabinieri? Probabilmente – e non sarebbe il primo caso – una spiegazione andrebbe ricercata nel fatto che, nelle Corti d’assise, un peso non indifferente viene assegnato ai giudici popolari. I quali, per definizione, risentono maggiormente degli umori che pervadono la comunità. Il giudice togato ha un distacco professionale, ha una “terzietà” costruita con i propri studi e lungo la propria carriera. I giudici popolari, no. Hanno assistito e probabilmente assimilato un processo mediatico durato quasi dieci anni. Ricordate Ingroia che, pur di collegarsi con tutti i talk-show e predicare le sue verità sulla trattativa se n’era persino andato in Guatemala? E ricordate Massimo Ciancimino che parlava in nome del padre e denunciava le più improbabili nefandezze di uomini, come Mori o De Gennaro, che invece avevano rischiato la vita pur di arginare la litania dei massacri testardamente voluta da Totò “u’ curtu”, da Bagarella, da Brusca e dagli altri scellerati corleonesi? E ricordate quanti altri giudici e quanti giornalisti si erano accodati al populismo facile della tesi secondo la quale Berlusconi, tramite Dell’Utri, palermitano e amico del boss Antonino Cinà, era sceso a patti con la mafia? E ricordate i riconoscimenti e le cittadinanze onorarie che i magistrati della Trattativa, primo fra tutti Nino Di Matteo, andavano raccogliendo nei comuni piccoli e grandi d’Italia per il semplice fatto di credere nelle accuse che Ingroia e Ciancimino avevano costruito e che altri tribunali avevano invece demolito? Comizi, conferenze, riconoscimenti, associazioni adoranti – come Agende rosse, come Scorta civica – avevano trasformato i pubblici ministeri di questo processo in eroi, in campioni buoni per le piazze soprattutto grilline. E non è certamente un caso che proprio Di Matteo fosse stato indicato da Beppe Grillo come probabile ministro di un eventuale governo a cinque stelle. Potevano i giudici popolari girarsi dall’altra parte? Oggi, dopo la lettura della sentenza il pm Di Matteo si è presa la sua legittima soddisfazione. “Nella nostra impostazione accusatoria, che ha retto completamente, si sostiene che Dell’Utri sia stato la cinghia di trasmissione tra Cosa nostra e il governo Berlusconi”, ha detto. E così dicendo ha sollevato un altro dubbio. Nella sentenza che quattro anni fa ha spedito in carcere l’ex senatore per concorso esterno era scritto e stabilito che l’imputato aveva mantenuto rapporti con i boss fino al 1992. La sentenza smentisce questo assioma, verificato persino dalla Cassazione, e sostiene che Dell’Utri entra in gioco nel ’93 e continua a mafiare tranquillamente fino al ’94 quando Berlusconi è già a Palazzo Chigi. Su quali prove? Lo diranno, se sapranno dirlo, le motivazioni. Intanto la squadra che fa capo a Di Matteo prepara una nuova stagione giudiziaria. Bisognerà tornare alle stragi, alle trame oscure, ai registi occulti e a tutto il campionario della giustizia populista. Per altri vent’anni, se Dio gli darà vita, Berlusconi non avrà pace.

Stato- mafia: seconda requisitoria: «Niente prove, ma non servono», scrive il 17 Dicembre 2017 "Il Dubbio". Per i magistrati ci sarebbe “un elemento costituito dalle stesse perle di Mori e De Donno alla Corte d’Assise di Firenze”. Davanti alla Corte d’assise di Palermo, presieduta da Alfredo Montalto, va in scena la seconda puntata della requisitoria dei pm del processo per la “trattativa” Stato- mafia. È stata la volta di sostituto della Procura nazionale antimafia, Nino Di Matteo, che cita in primo luogo l’audizione, il 20 marzo 1992, nelle commissioni parlamentari dell’allora capo della Polizia Vincenzo Parisi e del ministro dell’interno, Vincenzo Scotti. “Il decreto sul carcere duro, il 41 bis, – ha detto Di Matteo – nacque esclusivamente sull’asse Martelli- Scotti, ministri della Giustizia e dell’Interno. Fu varato l’otto giugno 1992 anche se la prima vera applicazione avvenne dopo la strage di via D’Amelio. Il clima nel nostro Paese era di scontro totale: il 41 bis era una questione che assillava Cosa nostra ed è su questo terreno che si assiste in quel periodo alla contrapposizione tra due linee: quella della fermezza (Scotti- Martelli) e quella della prudenza dettata dal timore che dopo Capaci, Cosa nostra proseguisse nel suo progetto contro i politici. In quello che Riina ave- va definito la “puliziata dei piedi”, ovvero eliminare i rami secchi, cioè i politici che non avevano rispettato i patti, prima di iniziare un nuovo percorso con nuovi referenti’. ‘ In questo clima arroventato – ha continuato Di Matteo – si inserisce il dialogo, la mediazione o per meglio dire la trattativa – tra il Ros, i suoi massimi vertici, cioè Subranni, Mori e De Donno, con Vito Ciancimino’. E Vito Ciancimino viene individuato quale ‘ canale privilegiato per avviare la trattativa – ha aggiunto – in virtù dei pregressi rapporti esistenti tra Mario Mori e l’avvocato Ghiron, quest’ultimo divenuto poi legale di Vito Ciancimino’. Il pm traccia lo scenario: ‘ Voglio partire da una elemento di prova acquisito quando nessuno ipotizzava di aprire una indagine sui vertici del Ros e su Vito Ciancimino. Questo elemento di prova è costituto dalle stesse parole di Mori e De Donno davanti alla Corte d’assise di Firenze. Parole chiare – secondo Di Matteo – inequivoche che non lasciano spazio al dubbio sull’esistenza della trattativa”.

La farsa di Palermo, scrive Piero Sansonetti il 20 gennaio 2018 su "Il Dubbio". La grande stampa nazionale ha deciso di risolvere il problema tacendo, o scrivendo solo qualche riga. Un po’ per pudore, un po’ probabilmente per imbarazzo. Come si fa a riferire delle fantasiosissime requisitorie che in questi giorni vengono pronunciate al processo di Palermo – quello sulla trattativa stato mafia – senza riderne un po’ o senza chiedersi come sia possibile che nella solennità di un aula di tribunale vengano lanciate accuse folli, e senza il briciolo di un briciolo di un briciolo di prova, verso personaggi che hanno avuto una grande rilievo nella storia recente dell’Italia? Non sembra più neanche un processo, sembra la ribalta di uno spettacolo trash, dove tutti tirano palle di fango. Perciò la maggior parte dei direttori ha deciso di glissare. Perché le possibilità sono solo due: o fai finta di niente, vista la assoluta inattendibilità delle cose che vengono dette; oppure t’indigni e chiedi che qualcuno intervenga. Purtroppo, a occhio e croce, nessuno è in grado di intervenire. E così ieri abbiamo sentito un Pm dire che Riina è stato venduto da Provenzano agli inquirenti. In particolare al generale Mori e probabilmente al capitano Ultimo, che lo catturò. Il Pm ha detto che la cattura di Riina è stata una vergogna per l’Italia. E ha finito per mettere sul banco degli imputati i giudici, che hanno già ampiamente assolto Mori da questa accusa, e anche l’ex procuratore di Palermo Caselli, che ancora recentemente ha sostenuto che la cattura di Riina è stata la salvezza per il paese. Poi i Pm hanno indicato l’ex presidente della Repubblica Scalfaro come responsabile, a occhio e croce, del reato di alto tradimento. E con lui il ministro Conso, il ministro Mancino e qualcun altro. Indizi? Prove? No: «Fidatevi di noi». Davvero non c’è nessuna possibilità che qualche autorità intervenga, interrompa questo scempio della storia e del diritto, e disponga, se serve, anche un po’ di aiuto psicologico per i Pm?

Il processo Stato-mafia finisce in farsa, scrive Piero Sansonetti il 27 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Il pm Di Matteo chiede sei anni di galera per Mancino, 12 per Dell’Utri, 15 per il generale Mori e zero per il boss Brusca. Se volete leggere questo articolo dovete mettervi nello stato d’animo di chi non si stupisce di niente. Altrimenti lasciate stare. I Pm del processo di Palermo (il famoso processo sulla presunta trattativa Statomafia) hanno chiesto una novantina d’anni di galera per alcuni degli imputati. Tra i quali un paio di mafiosi e una decina tra esponenti della politica e dell’arma dei carabinieri. Cinque anni li hanno chiesti per il giovane Ciancimino, Massimo, figlio di Vito (ex famigerato sindaco di Palermo), accusato di calunnia contro gli altri imputati. La sua testimonianza, giudicata calunniosa, è in realtà l’unico puntello alle tesi dell’accusa (ma questa cosa naturalmente fa un po’ sorridere, o sobbalzare, l’osservatore poco informato – non è l’unico non sense prodotto dal processo). Poi hanno chiesto 15 anni per il generale Mori, 12 per Marcello Dell’Utri e 6 per l’ex presidente del Senato Nicola Mancino. Non hanno potuto chiedere anni di galera per l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, perché nel frattempo è morto, ma nelle loro requisitorie lo hanno più volte indicato come il capintesta di tutta la congiura. Naturalmente è molto complicato qui dirvi di quale congiura si tratti. Perché i Pm ne hanno delineate almeno un paio e tra loro in netta contraddizione. Basta dire che al vertice del gruppo criminale, secondo le requisitorie, ci sarebbero stati lo stesso Scalfaro e Berlusconi. Capite? Scalfaro e Berlusconi, cioè i due personaggi più lontani tra loro di tutto lo scenario politico degli anni novanta. Del resto i Pm hanno mostrato una conoscenza molto superficiale di quello scenario politico, e dunque non c’è molto da stupirsi che possano confondere la sinistra Dc con Forza Italia e cose del genere. Tuttavia l’aspetto più preoccupante di questa vicenda non sta neanche nelle richieste cervellotiche, o nell’osservazione che non c’è uno straccio di prova a carico degli imputati, e neppure nel fatto che si chiedano pene per delitti che altri processi (a Mori stesso, all’on Calogero Mannino e ad altri) hanno già accertato non esistere. L’aspetto più preoccupante è l’impostazione dell’accusa. Leggete qui con quali parole il Pm Di Matteo (che ora è diventato uno dei procuratori nazionali antimafia) ha spiegato il senso del processo: «Questo è un processo che punta a scoprire livelli più alti e causali più complesse. Legati non a un fatto criminoso ma a una strategia più ampia».

Che vuol dire? Vuol dire che i Pm di Palermo (o quantomeno Di Matteo, non sappiamo se gli altri si dissociano da questa idea) ritiene che il suo compito non sia quello di perseguire i reati ma di stabilire, con la sua autorità, la verità storica, e poi di sanzionare questa verità con delle esemplari punizioni. In questo modo Di Matteo aggira l’ostacolo principale di questo processo, e cioè il fatto che non c’è uno straccio di prova dei reati contestati agli imputati. Dice Di Matteo, in sostanza: «E che io devo stare lì col misurino a vedere se c’è qualche reato? Io sto più in alto: a me interessano le grandi strategie». Per dirla con parole ancora più semplici, il Pm dichiara in modo esplicito che quello di Palermo non è un processo penale ma un processo politico. Veniamo al merito della vicenda. Dunque, questo è un processo che è stato avviato dieci anni fa, il dibattimento va avanti da cinque anni, si riferisce ad avvenimenti di 26 anni fa, nessuno è in grado di stabilire quanto sia costato ai contribuenti. La tesi dell’accusa è che quando la mafia, all’inizio degli anni novanta, alzò il tiro sullo Stato, compiendo stragi, uccidendo magistrati, leader politici e comuni cittadini, ci fu un pezzo dello Stato (pezzo di governo, pezzo dei carabinieri e pezzo dei servizi segreti) che si adoperò per cercare di frenare queste stragi, ed evitare nuovi morti, trattando con i vertici mafiosi. Scambiò la fine delle stragi con alcuni benefici carcerari, compresa l’abolizione del 41 bis. Il punto però è che non esiste nessun indizio che questa trattativa ci fu. Anche perché nei processi paralleli a questo di Di Matteo e degli altri Pm palermitani, sono piovute assoluzioni. Il generale Mori, ad esempio, è stato già dichiarato innocente. E così Calogero Mannino, ex ministro, che fin qui è l’unico rappresentante del governo che è stato accusato di aver trattato.

Ora uno si chiede: ma se noi sappiamo che non trattò il governo, non trattarono i servizi segreti, non trattarono i carabinieri, ma che diavolo di trattativa fu? E poi sappiamo anche che nessuno dei benefici indicati dagli accusatori fu concesso. Mancano i protagonisti del reato e manca il bottino. Voi capite che sembra una commedia surreale. Ma è più surreale ancora perché assieme all’accusa verso lo Stato (e fondamentalmente verso la sinistra Dc) di avere trattato con la mafia, c’è anche l’accusa a Dell’Utri (e quindi a Berlusconi) di avere fatto la stessa cosa, ma, sembrerebbe, con un intento opposto. Perché l’accusa immagina i berlusconiani che trattano con la mafia per destabilizzare la Dc, la quale intanto tratta con la mafia per stabilizzare. C’è da diventare pazzi. Sembra una farsa. Una farsa, però, fino a un certo punto. Oltre il quale diventa davvero un dramma. E un po’ indigna. Indigna per esempio il modo nel quale è stato trattato l’ex presidente del Senato. Nessuno al mondo riesce a capire di cosa sia accusato Nicola Mancino, 86 anni, prestigiosissimo leader democristiano, più volte ministro, ex presidente del Senato. Dicono che non si ricordi di un incontro che forse ha avuto con il magistrato Borsellino, prima che Borsellino fosse ucciso dalla mafia, e che non si ricordi nemmeno di una telefonata di Claudio Martelli, che l’avrebbe messo in guardia su alcuni comportamenti dei Ros che non lo convincevano. Embé?

Si tratta di cose avvenute un quarto di secolo fa. E nessuno sa se l’incontro e la telefonata ci furono oppure no. E comunque, anche se ci furono, furono episodi normalissimi che non c’è nessun bisogno di nascondere. Eppure i magistrati chiedono che Mancino trascorra sei anni in carcere. Qui c’è poco da scherzare. C’è da avere seriamente paura. Qualche Pm una mattina si sveglia e ha il potere, sulla base di nulla, di riempire di fango un padre della democrazia italiana, e di chiedere, con arroganza, che sia sbattuto in carcere. E per di più questo Pm confessa bellamente che lui non cerca reati, ma “strategie più complessive”. Siamo sicuri che non esistano le condizioni per intervenire, da parte delle istituzioni? Sicuri che sia giusto che un magistrato rivendichi che la sua funzione non è quella di accertare i reati ma quella di processare la politica seguendo sue idee e teorie? Diceva Piero Calamandrei: «Non spetta alle toghe giudicare la storia di un paese». Già, Calamandrei. Chissà se i Pm di Palermo conoscono il nome di Calamandrei. Certo che se Calamandrei avesse conosciuto i Pm di Palermo, sarebbe inorridito…

La sentenza tra politica, circo e populismo giudiziario. Tortora in primo grado fu condannato come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, commenta Di Maio, scrive Massimo Bordin il 21 Aprile 2018 su "Il Foglio". E’ stata una sentenza politica quella di ieri sulla “trattativa”. Da vari punti di vista. C’è un aspetto, diciamo così, tecnico e qui se ne era già parlato un paio di mesi fa, presentandolo come l’unico rischio che la difesa correva: rispetto alle quattro sentenze che hanno assolto Mario Mori su vicende relative alla trattativa, questa di ieri a Palermo è stata pronunciata da una corte d’assise, ovvero è stata l’unica con giuria popolare. Leoluca Orlando, commentando entusiasta la sentenza, ha parlato di verità storica che diviene verità giudiziaria, laddove per verità storica devono intendersi le intere mensole di libri, molti scritti da magistrati, che per una decina d’anni hanno consacrato le tesi dell’accusa prima del giudizio. La verità storica di Orlando si costruisce nelle procure, si ufficializza nelle pubblicazioni dei pm e dei loro addetti stampa e consente al pregiudizio di sostanziarsi in verità giudiziaria grazie a una giuria popolare, nel tripudio in aula del popolo delle agende rosse e della “scorta civica” del dottore Di Matteo. Fosse solo un problema giudiziario saremmo nel campo di un orrore ben noto. Enzo Tortora in primo grado fu condannato a dieci anni come camorrista. In questo caso è diverso. A Napoli si limitarono a brindare alcuni giornalisti, qui si è applaudito in aula. E’ iniziata la terza repubblica, quella dei cittadini, ha commentato Luigi Di Maio. Forse precorre i tempi, siamo ancora a Weimar, ma almeno in Germania, un magistrato che trovò il modo di assolvere Dimitrov pure ci fu, quando le cose erano già precipitate e la “Terza Repubblica” si stava già insediando. Ieri ci si è limitati a Mancino.

Con una fuga di notizie infilzarono Craxi. 25 anni fa la congiura che lo escluse da palazzo Chigi, scrive Francesco Damato il 10 giugno 2017 su "Il Dubbio". Dopo la strage di Capaci e l’elezione in 48 ore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, dove per quindici votazioni avevano inutilmente tentato di arrivare, con candidature formali o sotterranee, Arnaldo Forlani, Giulio Andreotti e persino il presidente uscente e dimissionario Francesco Cossiga, nulla fu più uguale sul piano politico. Terminato di comporre il suo staff al Quirinale il 4 giugno con la nomina del generale Paolo Scaramucci a consigliere militare, Scalfaro predispose le consultazioni per la formazione del nuovo governo: quello di esordio della legislatura nata con le elezioni del 5 e 6 aprile. Ma la prima sfilata delle delegazioni dei partiti davanti al capo dello Stato terminò il 10 giugno senza altro risultato che la constatazione di un clima politico irrespirabile, con veti e controveti all’interno e all’esterno della maggioranza uscente composta da democristiani, socialisti, socialdemocratici e liberali. Era una maggioranza peraltro troppo risicata per fronteggiare una difficile situazione economica e un’ancora più difficile situazione politica nel contesto delle indagini giudiziarie in corso a Milano su Tangentopoli. Scalfaro non riuscì a venirne a capo neppure moltiplicando le sue preghiere alla Madonna di Lourdes, dove peraltro si era proposto prima della imprevista elezione a capo dello Stato di recarsi in pellegrinaggio. Si scusò della rinuncia esortando gli organizzatori del viaggio a pregare anche perché lui venisse illuminato. In attesa di un secondo giro di consultazioni formali, il presidente della Repubblica vide o sentì privatamente un’infinità di amici, fra i quali i ministri uscenti dell’Interno e della Giustizia: il democristiano Enzo Scotti e il socialista Claudio Martelli, invitati insieme al Quirinale formalmente per discutere di un provvedimento in gestazione per intensificare la lotta alla mafia dopo la strage di Capaci. Ma il discorso scivolò subito sul tema della formazione del governo. Vuoi su sollecitazione di Scalfaro, come poi avrebbe raccontato Martelli, vuoi di iniziativa dei due ministri, il capo dello Stato ricavò l’impressione, a torto o a ragione, che fossero entrambi convinti di potere insieme tentare la formazione di un governo di decantazione, scambiandosi i ruoli di presidente e vice presidente, capace di guadagnarsi se non l’appoggio, almeno la benevola opposizione del Pds- ex Pci guidato da Achille Occhetto. Informato, non si è mai ben capito se dallo stesso Scalfaro, col quale aveva allora eccellenti rapporti, tanto da averne sostenuto con la solita baldanza l’elezione prima a presidente della Camera e poi a capo dello Stato, Marco Pannella confidò la cosa a Bettino Craxi. Che – convinto di avere ancora buone carte da giocare per tornare a Palazzo Chigi, da dove riteneva di essere stato allontanato malamente da Ciriaco De Mita nel 1987, con la storia di una staffetta con Andreotti prima promessa per l’ultimo anno della legislatura e poi negata – a sentire Pannella cadde dalle nuvole. Ma di brutto, perché se la prese subito con Martelli, essendo ancora convinto che Scalfaro gli fosse leale, come lo era stato al Ministero dell’Interno nei quattro anni di governo da lui presieduto: tanto leale non solo da avere rifiutato di prestarsi a fare il governo elettorale offertogli da De Mita, come ho già ricordato qui, ma anche da avere cercato e trovato una decina d’anni prima negli archivi del Viminale un documento da tutti negato in precedenza, ma utile alla difesa dei socialisti finiti sotto processo a Milano per gli attacchi ai pubblici ministeri che avevano indagato per l’assassinio di Walter Tobagi. Era un’informativa dei servizi segreti che nel 1980 aveva inutilmente segnalato il pericolo di un imminente agguato mortale delle brigate rosse al famoso giornalista del Corriere della Sera, peraltro amico personale del leader socialista. Notizia di quell’informativa era stata data personalmente a Craxi all’indomani dell’uccisione del povero Walter dal generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa. Craxi girò la confidenza di Pannella sull’incontro di Scotti e Martelli con Scalfaro al segretario della Dc Arnaldo Forlani, facendo cadere dalle nuvole pure lui. Ed entrambi si ripromisero di punire, diciamo così, i due giovani aspiranti alla guida del nuovo governo o non confermandoli ai loro posti o lasciandoli proprio fuori. Ma né l’uno né l’altro ebbero poi la voglia di raccontare come fossero veramente andate le cose, dopo molti anni, ai magistrati di Palermo che li interrogarono sulle presunte trattative fra lo Stato e la mafia della stagione stragista. Essi diedero agli inquirenti l’impressione di essere stati sacrificati perché contrari a quelle trattative, contribuendo così all’impianto accusatorio del processo contro mafiosi, generali e uomini politici ancora in corso a Palermo. Ma da cui è stato già assolto, avendo scelto il rito abbreviato, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino, che pure era stato accusato di essere stato addirittura il promotore della trattativa per scongiurare una minaccia della mafia alla sua vita. Non ci fu tuttavia soltanto l’incidente o l’equivoco della coppia Scotti- Martelli durante le consultazioni informali di Scalfaro per la formazione del nuovo governo. Ci fu anche, fra l’altro, una rovinosa fuga di notizie sui documenti pervenuti dalla Procura di Milano alla Camera, e assegnati subito alla giunta delle cosiddette autorizzazioni a procedere per Tangentopoli sul conto degli ex sindaci di Milano Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli, entrambi socialisti. Il “verde”, ed ex direttore del Manifesto, Mauro Paissan fu indicato, a torto o a ragione, come fonte di quella fuga con interpretazioni troppo estensive di alcune parti dei fascicoli, da cui avrebbe ricavato, come esponente dell’apposita giunta di Montecitorio, l’impressione di un coinvolgimento anche di Craxi nelle indagini chiamate Mani pulite. Ricordo ancora nitidamente quella giornata in cui le agenzie avevano inondato le redazioni dei giornali di lanci a dir poco allarmanti sulla posizione giudiziaria del segretario socialista ancora in corsa per il ritorno a Palazzo Chigi. Nelle prime ore del pomeriggio, tornando a piedi da casa alla redazione del Giorno, di cui ero direttore, incrociai per caso in Piazza della Scala Antonio Di Pietro, il magistrato ormai simbolo di quell’inchiesta che stava demolendo la cosiddetta prima Repubblica. Allontanata la scorta con un cenno di mano, “Tonino” mi disse che nelle carte partite da Milano per la Camera non c’erano elementi contro Craxi, di cui lui parlava volgendo lo sguardo verso la Galleria, cioè verso gli uffici milanesi del segretario del Psi. E mi preannunciò un comunicato della Procura, che in effetti fu diffuso dopo qualche ora per precisare che nulla risultava “allo stato” delle indagini contro Craxi. Il quale tuttavia il giorno dopo si trovò su tutte le prime pagine dei giornali ugualmente come uno ormai compromesso nell’inchiesta. Non ricordo se l’ho già riferito ai lettori del Dubbio in altre circostanze riferendo del biennio “terribile” 1992- 93, ma il clima nei giornali, ormai di tutte le tendenze, era tale che la sera di quel giorno mi telefonò l’amico Ugo Intini, portavoce di Craxi, per chiedermi come avessi deciso di uscire con la prima pagina del Giorno. Alla confidenza che sarei uscito col titolo sul comunicato di smentita diffuso dalla Procura, che ai miei occhi costituiva l’unica notizia certa della giornata rispetto a tutte le voci col condizionale diffuse dalle agenzie, Ugo mi chiese se poteva consigliare al comune amico Roberto Villetti, direttore dell’Avanti, di chiamarmi. Cosa che Villetti fece subito, ma non per consultarsi, come si aspettava il povero Intini, bensì per dissentire fermamente dal modo garantista in cui avevo deciso di titolare. Rimasi francamente di stucco. Neppure Scalfaro al Quirinale dovette rimanere convinto del comunicato della Procura milanese se volle parlarne direttamente col capo Francesco Saverio Borrelli, peraltro figlio di un suo vecchio collega ed amico. L’impressione che ne ricavò l’uomo del Colle fu di paura di mandare a Palazzo Chigi un “amico” – quale ancora egli considerava il suo ex presidente del Consiglio – destinato prima o dopo ad essere davvero coinvolto nelle indagini, come avvenne a fine anno con i primi avvisi di garanzia, e poi anche con richieste di arresto. Lo stesso Craxi mi raccontò di essersi sentito dire da Scalfaro all’incirca così: “Tu sai quanto ti stimi e ti voglia bene, ma è opportuno, anche nel tuo interesse, che tu faccia un passo indietro in questo momento. Dimmi tu stesso il nome di un socialista al quale io possa dare l’incarico”. E il 10 giugno, nel secondo ed ultimo giro di consultazioni, Craxi maturò la decisione del doloroso passo indietro. Che annunciò personalmente all’uscita dall’ufficio del capo dello Stato dicendo di avergli indicato “in un ordine non solo alfabetico” Giuliano Amato, già ministro con De Mita e suo sottosegretario a Palazzo Chigi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli. La delegazione della Democrazia Cristiana, ricevuta per ultima, non ebbe così neppure la possibilità di proporre Craxi, contro la cui destinazione si erano già espressi nel partito alcuni esponenti, fra i quali De Mita, convinti che Palazzo Chigi spettasse ancora alla Dc, nonostante il ritorno di un democristiano al Quirinale dopo il movimentato settennato di Cossiga. Pertanto fu Amato l’uomo al quale Scalfaro diede l’incarico, che fu espletato con una certa difficoltà, avendo impiegato il nuovo presidente del Consiglio una decina di giorni, sino al 28 giugno, per la definizione del programma e soprattutto della lista. Dove Scotti risultò spostato dal Viminale alla Farnesina, che formalmente era una promozione, da lui però rifiutata perché Forlani aveva deciso di sperimentare dentro la Dc la incompatibilità fra le cariche di ministro e di deputato o senatore. Scotti reclamò inutilmente una deroga per conservare il mandato parlamentare, che alla fine preferì alla guida della diplomazia italiana. Martelli invece entrò nella lista all’ultimo momento, dopo essere andato da Craxi, su suggerimento dello stesso Amato, per chiedergli di essere confermato al Ministero della Giustizia, come poi mi avrebbe raccontato lo stesso Craxi, per portare a termine il lavoro svolto col povero Giovanni Falcone, suo prezioso collaboratore sino alla morte – e che morte – come direttore degli affari penali del dicastero di via Arenula. E Craxi acconsentì, parendogli – mi disse – “una richiesta umanamente ragionevole”, lungi forse dall’immaginare che Martelli fosse destinato pure lui dopo qualche mese ad essere investito da Tangentopoli e costretto alle dimissioni. Comunque, Martelli fu l’ultimo ministro e il primo governo di Amato l’ultimo sul quale il leader socialista riuscì a dire la sua, perché di fatto in quel mese di giugno di 25 anni fa al falconicidio col sangue, preceduto dall’ostracismo in vita praticatogli da tanti colleghi, seguì il craxicidio senza sangue. I rapporti di Craxi con Scalfaro rimasero buoni ancora per poco. Col procedere delle indagini e del linciaggio politico da cui pochi lo difesero, neppure quando subì il famoso lancio di monetine e insulti davanti all’albergo romano dove abitava, e donde usciva per andare ad una trasmissione televisiva dopo essere scampato a scrutinio segreto ad alcune, le più gravi, delle autorizzazioni a procedere chieste contro di lui dalla magistratura, il leader socialista si fece del presidente della Repubblica l’idea da lui stesso espressa in una serie di litografie raffiguranti falsi “extraterrestri”: finti inconsapevoli del finanziamento generalmente illegale della politica e delle forzature con le quali la magistratura aveva deciso di trattarlo. Oltre a Scalfaro, furono definiti extraterrestri anche Achille Occhetto, Eugenio Scalfari, Giorgio Napolitano e l’ormai compianto Giovanni Spadolini, la cui foto fu sostituita con un manifesto bianco listato a lutto. Craxi stesso mi raccontò nel suo rifugio di Hammamet di avere scritto più volte al presidente della Repubblica, anche come presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, contro gli eccessi che stavano compiendo i magistrati, ma di non avere mai ricevuto una risposta, né diretta né indiretta. Il Quirinale non lo considerò più degno di riconoscimento alcuno. Ci vollero del resto la morte di Craxi e l’arrivo sul colle più alto di Roma di Giorgio Napolitano perché un presidente della Repubblica parlasse di lui riconoscendone il servizio politico reso al Paese e lamentando, fra le solite proteste dei manettari in servizio permanente effettivo, irriducibili anche di fronte alla morte, “la severità senza uguali” con cui era stato trattato dalla magistratura. Proprio alla magistratura, vantando di averne fatto parte, Scalfaro nel suo discorso di insediamento, pronunciato il 28 maggio a Montecitorio, davanti alle Camere in seduta congiunta con la partecipazione dei delegati regionali, aveva chiesto “energia, serenità e perseveranza” parlando della “questione morale”. Di energia e perseveranza sicuramente i magistrati si dimostrarono capaci nei mesi e negli anni successivi. Di serenità, francamente, un po’ meno, nella sostanziale e incresciosa disattenzione proprio di chi l’aveva reclamata insediandosi al vertice dello Stato sull’onda peraltro di una strage neppure citata per luogo e per nomi nel discorso alle Camere, essendosi Scalfaro limitato a parlare di una “criminalità aggressiva e sanguinaria”, forse aiutata anche da qualche mano straniera. Di cui nessuno, a dire il vero, aveva avuto sentore a Capaci e dintorni.

È Stato contro la mafia. Chi era per la linea dura. Il caso di Scotti e Martelli, scrive Francesco Bechis su Formiche.net il 22 aprile 2018. Dalle rogatorie dei pm del processo "Stato-Mafia" emerge un volto (buono) della politica che nessuno vuole raccontare: il caso degli ex ministri Vincenzo Scotti e Claudio Martelli. La politica esce malconcia, ma non distrutta, dalla sentenza della Corte d’Assise di Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia, in cui vertici dello istituzioni e delle forze armate si sarebbero ritrovati a scendere a patti con Cosa Nostra per porre fine alla stagione stragista del 1992-1993. Una sentenza di primo grado, che dunque lascia intatta la presunzione di innocenza degli imputati: è bene ricordarlo a chi, preso dall’euforia, ha dato per chiusa la fase processuale apertasi nel 2013. Se è giusto sottolineare l’impatto dirompente che la sentenza letta venerdì pomeriggio dal presidente della corte Alfredo Montalto avrà sullo scenario politico italiano, è altrettanto doveroso ricordare che non tutta la politica di quegli anni è finita sul banco degli imputati. Oltre all’ex ministro Nicola Mancino, assolto dall’accusa di falsa testimonianza perché “il fatto non sussiste”, la chiusura della prima fase del processo lascia integra, fra le altre, la figura di due uomini di Stato protagonisti di quella stagione politica che a più riprese sono stati sentiti dai magistrati in questi anni: l’ex ministro dell’Interno democristiano Vincenzo Scotti e l’ex ministro della Giustizia socialista Claudio Martelli. E in particolare gli atti, le dichiarazioni e le vicende politiche dell’attuale presidente della Link Campus sono state usate come supporto delle tesi accusatorie, confermando la totale estraneità di Scotti e Martelli ai fatti al vaglio dei pubblici ministeri. La lunga requisitoria dei pm ha fatto ampio ricorso alla vicenda pubblica di Scotti, che fu a capo del Viminale dall’ottobre del 1990 al giugno del 1992. Significativi a riguardo alcuni stralci tratti dall’esposizione degli elementi accusatori da parte del pm Roberto Tartaglia il 14 dicembre del 2017 e del pm Nino Di Matteo il 15 dicembre e l’11 gennaio 2018. Secondo l’accusa tre sono i passaggi che provano la ferrea volontà dell' “asse Scotti-Martelli” nella lotta senza compromessi contro la mafia. Il primo consiste nel “cambio di passo” impresso da Scotti alla politica di contrasto alla criminalità organizzata una volta ottenuto l’incarico agli Interni. Spiega Tartaglia il 14/12: “Cosa Nostra vede in questi tre soggetti e in questi tre poli (Scotti, Martelli, Falcone), l’emblema, l’immagine del cambiamento dell’azione politica […]”. Un cambio di passo che prese forma in una serie di iniziative concrete. Decisivo, ha spiegato Tartaglia, fu il decreto legge n. 60 del 1 marzo 1991 che delegava all’ “interpretazione autentica” del governo il calcolo della decorrenza dei termini di custodia cautelare. Un intervento che rimise in carcere 43 imputati mafiosi del maxi-processo che meno di un mese prima erano stati liberati dopo una condanna di primo grado e che il pm nella requisitoria definisce “un segnale devastante per le aspettative di Cosa Nostra”. Rilevanti nella lotta alla mafia furono due riforme giudiziarie introdotte dall’allora guardasigilli: la regola della turnazione nei ricorsi di mafia in deroga del principio di competenza per materia, e infine l’introduzione, il 15 gennaio del 1993, del 41-bis, il regime carcerario duro per i mafiosi la cui paternità ancora oggi Martelli rivendica con orgoglio. Poi il secondo passaggio della requisitoria che sottolinea la linea di fermezza del ministro Scotti con il crimine organizzato: si tratta delle sue prese di posizione pubbliche durante il mandato, dove non mancò mai di mettere al corrente l’opinione pubblica e gli organi dello Stato di un piano “sovversivo” di Cosa Nostra. Riecheggiano ancora oggi le dure parole del titolare del Viminale, a pochi giorni dall’omicidio di Salvo Lima, in un’audizione parlamentare del 17 marzo 1992: “Oggi, dopo questo omicidio, siamo in presenza di un fenomeno che non mira a distruggere le istituzioni ma a piegarne gli apparati ai propri fini, a condizionarli”. Preoccupazioni ribadite il 20 marzo successivo davanti alla commissione Affari Costituzionali del Senato: “Nascondere ai cittadini che siamo di fronte ad un tentativo di destabilizzazione delle istituzioni da parte della criminalità organizzata è un errore gravissimo. Io ritengo che ai cittadini vada detta la verità e non edulcorata, la verità: io me ne assumo tutta la responsabilità”. L’allora premier Giulio Andreotti definì “una patacca” l’allarmismo del suo ministro, scatenando involontariamente un polverone mediatico che non fu privo di strumentalizzazioni. A dare ulteriore conferma della rettitudine dell’operato di Scotti e Martelli, secondo i pm del processo sulla “trattativa”, ci sarebbe infine la tesi del “golpe bianco”. Nella requisitoria dello scorso 11 gennaio il pm Nino Di Matteo sostiene che la “prima condizione essenziale nel 1992 per portare avanti la linea del dialogo con la mafia era quella di cacciare Scotti dalla titolarità del Viminale”. L’avvicendamento del ministro dell’Interno con Nicola Mancino nel giugno 1992, che portò Scotti alla guida della Farnesina (su indicazione del presidente della Dc Ciriaco De Mita) mentre Giuliano Amato entrava a Palazzo Chigi, fu letto da molti come un promoveatur ut amoveatur. Anche l’uscita di Martelli dal Ministero della Giustizia nel febbraio del 1993 attirò gli stessi sospetti. Di Matteo è sicuro che non si è trattato di due semplici avvicendamenti: il pm palermitano l’11 gennaio ha affermato che è stata messa in atto piuttosto una strategia per “liberarsi di chi della contrapposta linea del rigore e delle intransigenza aveva fatto la sua bandiera e lo aveva dimostrato con i fatti”. Chiamato a parlare davanti alla Corte d’Assise di Palermo, Martelli in questi anni ha confermato la tesi della “rimozione forzata” del 1993, dovuta soprattutto, a suo parere, all’introduzione del 41-bis. Scotti invece ha preferito una linea di maggior riserbo, pur avendo manifestato davanti ai giudici le sue perplessità su quel cambio di vertice al Viminale.

Trattativa Stato mafia, anomalo riferimento a Berlusconi nella sentenza, scrive il 21 aprile 2018 Affari Italiani. "Marcello Dell'Utri è colpevole del reato ascrittogli limitatamente alle condotte contestate come commesse nei confronti del Governo presieduto da Silvio Berlusconi": così i giudici della corte d'assise, nel dispositivo della sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, "circoscrivono" la responsabilità penale di Marcello Dell'Utri. L'ex senatore di Forza Italia, imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato, è stato condannato a 12 anni. Un dispositivo ritenuto dagli addetti ai lavori "anomalo" perchè la corte non si limita a un riferimento temporale "dopo il '93", ma fa espressamente riferimento a Berlusconi. Anomalia ancora più evidente se si ritiene che per gli altri imputati, i vertici del Ros, condannati per lo stesso reato nel lasso temporale precedente al '93 la formula cambia. E manca completamente il riferimento specifico al premier in carica all'epoca. E tra i politici di Forza Italia c'è chi grida alla sentenza politica, sottolineando la vicinanza tra il pm Di Matteo e il M5s. 

Altro che patti con la mafia, ecco tutti i boss messi in galera dai governi Berlusconi. L'assurda sentenza di Palermo non dice che il centrodestra ha raggiunto i maggiori risultati sul campo. Scovati i latitanti più pericolosi, scrive Luca Fazzo, Domenica 22/04/2018, su "Il Giornale". Una casupola bianca e un po’ malconcia in una masseria sulle colline di Montagna dei Cavalli, fuori Corleone: un braccio che si allunga per ritirare un pacco di biancheria lasciato da poco lì fuori. «Via, entriamo», dice la radio dei trenta poliziotti arrivati fin lassù, nel silenzio del martedì di aprile. Finisce così, dopo quarantatré anni, la latitanza di Bernardo Provenzano, Binnu u’ Tratturi. Era l’11 aprile 2006. Da tredici anni, dalla cattura di Totò Riina, Binnu era il numero uno di Cosa Nostra, il latitante più importante d’Italia. Bisogna ripartire da quel fotogramma, dal braccio che si sporge, per capire quanto stia in piedi la teoria di un governo Berlusconi addomesticato ai voleri di Cosa Nostra, come sostengono trionfanti i pm di Palermo dopo la indiscutibile vittoria ottenuta nel processo per la presunta trattativa Stato- Mafia. Bisogna partire da quella foto, guardare le date, ragionare. Provenzano viene arrestato nella fase finale della XIV legislatura. Ministro dell’Interno è Beppe Pisanu, capo del governo è Silvio Berlusconi: cioè l’uomo politico che secondo la tesi della Procura di Palermo, fatta propria dalla sentenza di ieri, avrebbe ricevuto «una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa Nostra». Una trattativa in tre fasi, l’ultima - secondo i pm - gestita in prima persona da Provenzano medesimo. Che però viene catturato e sepolto in un carcere di massima sicurezza. Ne uscirà solo dieci anni dopo, ormai demente, per andare a morire in una stanza d’ospedale. Cosa era accaduto tra il 1993 della presunta trattativa e l’arresto di Provenzano? Si potrebbe ipotizzare che gli accordi di non belligeranza tra Stato e mafia avessero dispiegato un qualche effetto, almeno nella prima fase. Macché. Berlusconi va a Palazzo Chigi la prima volta il 10 maggio 1994, ci resta fino al 17 gennaio successivo; ministro dell’Interno è Roberto Maroni. Una manciata di mesi: ma nello stesso periodo finiscono in galera quasi cento latitanti per reati di mafia, criminali inseguiti da anni da mandati di cattura. Sono camorristi, ’ndranghetisti, ma il prezzo più alto lo paga Cosa Nostra, anche nelle sue propaggini internazionali: il 20 luglio 1994 a Long Island viene catturato dallo Sco, Paolo Lo Duca, latitante dal 1990, l’uomo di raccordo tra Cosa Nostra, i clan americani e il cartello di Medellin, un personaggio chiave nell’economia mafiosa. Tre mesi dopo a Palermo la Mobile arresta Francesco Inzerillo, cugino del boss ammazzato dai Corleonesi nel 1980, e interfaccia in Sicilia dei Gambino di New York. A novembre in Canada viene individuato e preso Salvatore Ferraro, successore di «Piddu» Madonia alla testa di Cosa Nostra a Caltanissetta. Si azzannano i tentacoli della Piovra oltreconfine. Berlusconi torna al governo nel 2001, al Viminale vanno prima Scajola e poi Pisanu. E la musica non cambia. La «Lista dei Trenta», l’elenco dei latitanti più pericolosi, deve venire aggiornata di continuo, perché uno dopo l’altro i boss cadono nella rete. Il 16 aprile 2002 a Roccapalumba tocca a Antonino Giuffrè: è il sanguinario braccio destro di Provenzano, in fuga da nove anni, condannato a otto ergastoli. Appena arrestato si pente e comincia ad accusare Marcello Dell’Utri e Forza Italia. L’anno dopo, a luglio, finiscono le latitanze anche di Salvatore Rinella e Salvatore Sciarabba: sono gli uomini che proteggono Provenzano. Il cerchio intorno a «Binnu» si sta stringendo. Saranno questi, i «benefici di varia natura» di cui parla la Procura di Palermo? Ad aprile 2006 tocca a Provenzano. Due settimane più tardi si vota, il centrodestra lascia Palazzo Chigi. Ci torna due anni dopo, l’8 maggio 2008. Premier è di nuovo Berlusconi, ministro degli Interni di nuovo Bobo Maroni. E la musica riprende. È il periodo d’oro della caccia ai boss, quello in cui Maroni a conti fatti potrà vantare l’arresto di 6.754 mafiosi, compresi ventotto della «Lista dei Trenta». Vengono smantellati santuari della criminalità organizzata in tutto il Mezzogiorno. La ’ndrangheta, che nel 2004 aveva visto la fine della interminabile latitanza di Giuseppe Morabito, «Peppe Tiradrittu» tra il 2008 e il 2009 vede finire in cella imprendibili di lungo corso come Francesco e Antonio Pelle; il 10 dicembre 2008 termina la fuga di Giuseppe De Stefano, «il top della ’ndrangheta» nelle parole del procuratore Giuseppe Pignatone. Il 17 novembre 2010 catturano nella sua Casal di Principe il superboss della camorra Antonio Iovine: «Abbiamo preso un re nel suo regno», commenta il procuratore antimafia Piero Grasso. «Questa è l’antimafia dei fatti», dice Maroni. Ma è in Sicilia, nella terra dove il progetto della trattativa avrebbe preso forma e sostanza, che l’assedio alla criminalità mafiosa continua con i risultati maggiori. Matteo Messina Denaro non si trova, ma - come all’epoca di Provenzano polizia e carabinieri fanno terra bruciata intorno al padrino in fuga. A settembre 2009 viene catturato Domenico Raccuglia, il collaboratore che gestisce la latitanza di Messina Denaro. A dicembre nello stesso giorno vengono presi a Palermo il giovane boss rampante Giovanni Nicchi e a Milano Gaetano «Tanino» Fidanzati, 78 anni, uno dei primi uomini d’onore a sbarcare al nord. Nel giugno successivo prendono Giuseppe Falsone, il capo di Cosa Nostra ad Agrigento: vive sotto falso nome a Marsiglia, la città dove Provenzano era riuscito a farsi operare alla prostata durante la latitanza. E poi centinaia di arresti solo apparentemente minori, esponenti di seconda fila dei clan e anche semplici gregari: che però costituiscono l’ossatura dei clan, la pianta organica senza la quale il potere dei boss diventa una scatola vuota. Sono risultati imponenti, figli del lavoro oscuro e tenace delle forze dell’ordine. E di una volontà politica.

Il giurista che definì il processo sulla trattativa Stato-Mafia una "boiata" non cambia idea dopo la sentenza: "Non andava fatto". Lo studioso di diritto penale Giovanni Fiandaca critico verso l'accusa, scrive il 21/04/2018 "Huffingtonpost.it". Qualche anno fa, in piena bufera mediatica, quando quello sulla trattativa Stato-mafia veniva definito il processo del secolo, usò parole dure, bollando l'atto di accusa della Procura di Palermo come una "boiata pazzesca". Oggi Giovanni Fiandaca, tra i massimi studiosi italiani di diritto penale, non usa la scure, ma ribadisce dubbi e perplessità manifestati da sempre sul lavoro dei pm palermitani dicendo che il processo non si doveva fare. Il commento arriva dopo il verdetto che, invece, ha accolto praticamente in pieno l'impianto dei magistrati condannando a pene pesantissime quelli che sarebbero stati i protagonisti del dialogo tra pezzi delle istituzioni e Cosa nostra negli anni delle stragi: dall'ex generale del Ros Mario Mori, all'ex senatore di Fi Marcello Dell'Utri condannati a 12 anni di carcere. Le critiche di Fiandaca sono tutte in diritto. "Fermo restando che aspettiamo di leggere le motivazioni della sentenza - dice - rimangono invariate le mie perplessità sul reato ipotizzato: la minaccia a Corpo politico dello Stato. Il Governo italiano non è un organo politico ma costituzionale e la tutela degli organi costituzionali è assicurata da un'altra norma del codice penale: l'articolo 289 che, peraltro, è stato modificato nel 2006. La nuova formulazione non parla di minaccia ma di 'atti violenti', ed è questo il motivo per cui la Procura alla fine ha ripiegato sull'articolo 338. Resta il nodo di fondo: la pressione sul governo da parte della mafia e dei concorrenti, ipotizzata dall'accusa, ricade solo nella previsione dell'articolo 289. La scelta del reato dunque è sbagliata". Questioni in diritto complesse che - e questa è un'altra criticità individuata da Fiandaca - troppo spinose per una Corte d'Assise composta da giudici popolari. "Io ritengo che siano questioni di competenza di un giudice solo professionale", dice. La Corte d'Assise come competente a celebrare il processo venne individuata dal gup che dispose i rinvii a giudizio sulla base della ricostruzione della procura che vedeva nell'omicidio dell'eurodeputato Salvo Lima, reato di competenza della corte, uno degli snodi da cui avrebbe preso il via la cosiddetta trattativa. Che quella della Procura sia stata comunque una vittoria a 360 gradi il professore non lo crede. "Ciancimino è stato assolto dal concorso in associazione mafiosa - dice - e Mancino dalla falsa testimonianza: a mio avviso in questo modo vengono meno due punti chiave della ricostruzione. Sono curioso di capire il ragionamento seguito dai giudici". Di una cosa Fiandaca è sicuro. Nonostante il verdetto. Quello sulla trattativa è un processo che non si doveva avviare. "La mia - spiega - è un'opinione condivisa anche da altri giuristi, ma negli ultimi anni sempre meno noi professori e i magistrati ci siamo capiti, nel senso che la magistratura in buona fede ricorre a interpretazioni estensive delle norme incriminatrici anche sorvolando su questioni di stretto diritto pur di arrivare ai risultati repressivi che ritiene necessari". "E un problema generale - conclude - che prescinde dal processo trattativa. C'è la tendenza, diventata crescente, di alcuni magistrati a percepire il proprio ruolo come quello di difensori contro il crimine a dispetto del garantismo individuale".

La sentenza di Palermo. C’era una volta il Diritto. La sentenza di Palermo sulla presunta trattativa Stato-mafia lascia perplessi, scrive Piero Sansonetti il 21 Aprile 2018 su "Il Dubbio". È una sentenza che lascia perplessi. Dico meglio: lascia un po’ sbigottiti. Per cinque ragioni.

La prima è che non ci sono prove contro gli imputati. Soprattutto contro gli imputati di maggiore valore mediatico: il generale Mori (e i suoi collaboratori) e l’ex senatore Dell’Utri. Non ci sono neanche indizi. La tesi dell’accusa si fonda tutta o su alcune testimonianze giudicate false da questo e da altri tribunali, o sulla parola di qualche mafioso, o su ricostruzioni dei pubblici ministeri molto interessanti ma costruite esclusivamente su ipotesi o sulla letteratura.

La seconda è che prima che si concludesse questo processo se ne erano svolti altri, paralleli e sulle stesse ipotesi di reato, e si erano conclusi tutti, logicamente, con le assoluzioni degli imputati (tra i quali lo stesso Mori e l’on. Mannino). Questa sentenza, nella sostanza, ci dice che sì, probabilmente non ci fu il reato, ma ci sono i colpevoli.

La terza ragione dello stupore è il reato per il quale sono stati condannati gli imputati eccellenti. Il reato si chiama così: «Attentato e minaccia a corpo politico dello Stato». Gli esperti e i professori dicono che nella storia d’Italia questo reato è stato contestato una sola volta. Nessuno però ricorda bene quando. Ma comunque quella volta non fu per minacce nei confronti del governo – ed è di questo che sono accusati Mori e Dell’Utri – perché esiste nel codice un reato specifico, scritto nell’art 289 del codice penale, che prevede appunto l’attentato contro un organismo costituzionale (cioè il governo).

La quarta ragione non è di diritto ma è di buon senso. E sta nella assoluzione (seppure per prescrizione) del capo della mafia (Giovanni Brusca, uno dei boss più feroci del dopoguerra) che sarebbe l’autore della minaccia, contrapposta alla condanna del generale Mori che è forse il militare che ha catturato più mafiosi dai giorni dell’Unità d’Italia ad oggi e che dalla mafia è stato sempre considerato nemico acerrimo.

La quinta ragione del nostro sincero sbigottimento sta nello scenario kafkiano che viene disegnato da questa sentenza. Lasciamo stare per un momento il dettaglio dell’assenza di prove. Cerchiamo di capire cosa l’accusa e la giuria ritengono che sia successo nel 1993- 94. Sarebbe successo questo: la mafia, guidata da Riina avrebbe minacciato lo Stato, prima e dopo le uccisioni di Falcone, Borsellino e delle loro scorte. Avrebbero chiesto l’allentamento del rigore carcerario con un ricatto: «Altrimenti seminiamo l’Italia di stragi». In una prima fase questa minaccia sarebbe stata mediata sempre da Dell’Utri e Mori, evidentemente con Ciampi e Scalfaro. Questa però è solo la tesi dell’accusa, perché la giuria non ci ha creduto, gli è parsa davvero troppo inverosimile. Poi succede che Mori – evidentemente mentre trattava con lui – arresta Riina assestando alla mafia il colpo più pesante dal dopoguerra. In una seconda fase, dopo gli attentati del ‘ 93 (uno dei quali contro un giornalista Mediaset molto legato a Berlusconi, e cioè Maurizio Costanzo) la minaccia sarebbe stata portata a Berlusconi, che nel frattempo era diventato Presidente del Consiglio, attraverso Marcello Dell’Utri e forse attraverso lo stesso Mori, evidentemente colpito da un fenomeno grave di schizofrenia. Nessuna delle richieste dei mafiosi, però, fu accolta. E questo, in teoria, dimostrerebbe un comportamento rigorosissimo di Berlusconi: uomo davvero incorruttibile. E infatti la sentenza condanna gli imputati a risarcire con 10 milioni la presidenza del Consiglio, cioè Berlusconi. Le richieste mafiose che Dell’Utri, e forse Mori, avrebbero portato a Berlusconi (e forse a Mancino, ministro dell’Interno, che però ha negato, è stato imputato per falso e poi assolto) erano contenute in un “papello” consegnato dall’ex sindaco Ciancimino, così sostiene il figlio dell’ex sindaco che però è stato a sua volta condannato per calunnia (e dunque il papello è falso).

Ma una persona che legge queste cose qui e ha un po’ di sale in zucca, che deve pensare? Beh, probabilmente gli viene in mente un’idea molto semplice: che quello di Palermo sia stato semplicemente un processo politico. E qualche conferma a questo sospetto viene da un paio di elementi. Il primo è che il Pubblico ministero che ha condotto l’accusa fino all’ultimo minuto, si è candidato a fare il ministro coi 5 Stelle, ha partecipato a diversi convegni politici dei 5 Stelle, ha presentato a nome dei 5 Stelle un programma per riformare la giustizia, e, appena emessa la sentenza, ha rilasciato dichiarazioni feroci contro Berlusconi, che oltretutto è parte lesa e non imputato. Possiamo tranquillamente dire che il Pubblico ministero era un uomo politico. Il suo predecessore, quello che avviò il processo (si chiama Antonio Ingroia) ha partecipato recentemente alle elezioni in qualità di candidato premier con una lista di sinistra. Anche questa circostanza (almeno in forma così esplicita) è senza precedenti, credo, in tutti i paesi dell’Occidente. Il secondo elemento sta in tutto quello che ha preceduto il processo. E cioè il processo mediatico, che difficilmente non ha condizionato fortemente la giuria di Palermo. Ho sentito molti commentatori dire che comunque ci sarà un processo di appello, che potrà correggere gli errori del primo grado. Vero. Per fortuna l’impianto della nostra giustizia è solido. Però è difficile digerire l’arroganza del processo di Palermo, e la sua superficialità, e l’ingiustizia palese di alcune condanne, come quella contro il generale Mori. Ed è difficile non considerare il fatto che l’ex senatore Dell’Utri, che sta in cella in condizioni di salute gravissime, difficilmente, dopo questa nuova stangata, potrà sperare di ottenere cure adeguate e di rivedere il cielo senza sbarre. No, non è stata una bella giornata.

Ingroia, torna l'ossessione per Silvio Berlusconi: "Andrebbe arrestato immediatamente", scrive il 23 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". Ci sono ossessioni difficili da metabolizzare, come quella dell'ex magistrato Antonio Ingroia per Silvio Berlusconi. Non pago dell'umiliazione elettorale subita con l'omonima lista nel 2013, Ingroia è tornato in pista accanto al giornalista Giulietto Chiesa per lanciare una roboante Lista del Popolo. Il programma del nuovo partito è chiaro già dai primi passi, l'antiberlusconismo è tornato vivo e vibrante come ai tempi d'oro, tanto che Ingroia lo ripropone in una epocale rispolverata a Un giorno da pecora su Radiouno. All'ex magistrato è stato chiesto se avesse mai incontrato Berlusconi. Così ha ripescato quell'incrocio memorabile di qualche anno fa: "È capitato solo quando si faceva l'ultima campagna elettorale, lui mi fece il gesto delle manette". Che il senso dell'umorismo facesse un po' difetto all'ex pm era fatto noto, con il passare del tempo però sembra essere molto peggiorato. Al punto che ricordando quel gesto simpatico, Ingroia ha sparato: "Un gesto simpatico sì, ma lui sotto sotto lo sa che meriterebbe di essere arrestato". Ancora? Gli chiedono in studio, lui non ha dubbi: "Sempre lo meriterebbe". Raddrizza il tiro però quando gli viene chiesto come si dovrebbe fermare uno come il Cav: "Bisogna abbatterlo politicamente". Roba da brividi.

Grasso, la persecuzione di Ingroia. Si può capire l'ex pm quando critica su Repubblica il presidente del Senato, ma a tutto c'è un limite, scrive Massimo Bordin il 5 Dicembre 2017 su "Il Foglio". In fondo Antonio Ingroia, se non giustificare, si può comprendere. Non ci sono solo questioni professionali, ormai antiche ma tutt'ora presenti alla memoria. Il problema è che l’ascesa politica di Pietro Grasso rischia di essere vissuta dall’ex pm dei due mondi come una persecuzione personale. La storia, che ricorda quella di Paperino e Gastone, inizia nel 2013 quando Ingroia si sospende da magistrato per candidarsi a presidente del Consiglio alla testa di un raggruppamento a sinistra del Pd. Fu un disastro di notevolissime proporzioni e mentre Ingroia rimaneva fuori non solo da Palazzo Chigi ma anche da Montecitorio, Grasso entrava a palazzo Madama, eletto nel Pd, e diventava presidente del Senato nel giro di pochi giorni. Ora Ingroia ritenta con una lista bizzarramente battezzata "La mossa del cavallo" senza che nemmeno i circoli degli scacchi se ne siano accorti, mentre Grasso raccoglie ovazioni, titoli di apertura sui giornali e grandi foto, sia pure con Speranza, Fratojanni e Civati che non sono un gran che ma sempre meglio di Giulietto Chiesa. Si può capire dunque l’ex pm quando critica Grasso su Repubblica, è una reazione umana. A tutto c’è comunque un limite, che viene ampiamente superato quando da parte sua si sostiene la necessità di facce nuove in politica e quando, dopo aver comunque perorato la candidabilità dei magistrati si aggiunge che "dovrebbe essere loro vietato di tornare in magistratura dopo aver fatto politica" contando evidentemente sul fatto che tutti si siano dimenticati come si comportò dopo la sua mancata elezione.

Tutti i silenzi sul caso Ingroia. Quando gli indignati tacciono, scrive Salvo Toscano Martedì 19 Dicembre 2017 su "Live Sicilia". Dopo la prima inchiesta un'altra. Ma i professionisti dell'indignazione non se ne sono accorti. C'è qualcosa che colpisce dopo la notizia della nuova indagine per peculato a carico di Antonio Ingroia. Non si sente ma colpisce. È un'assenza pesante, un rumoroso silenzio. Quello dell'esercito dei professionisti dell'indignazione. Quelle truppe di moralizzatori in servizio permanente effettivo pronte a intonare il peana a ogni avviso di garanzia o notizia d'inchiesta finita sui giornali. I cantori devoti delle gesta delle italiche procure, insofferenti verso ogni forma di garantismo, che da quelle parti è sempre per definizione “peloso”, confermano una prassi ben collaudata: si distraggono quando il moralizzatore finisce moralizzato e disinnescano in quel caso l'automatismo della richiesta di dimissioni. Quella che scatta quando sotto la lente d'ingrandimento dei magistrati inquirenti finisce il quisque de populo slegato dalla conventicola dell'indignazione o peggio ancora l'avversario politico da fare a pezzi. E' la parrocchia del mantra degli "impresentabili", che rinfaccia l'avviso di garanzia anche al cugino di secondo grado. Farà lo stesso con l'ex pm oggi politico che alle prossime elezioni battezzerà la sua Lista del Popolo? Vedremo. Per ora tutto tace. Non pervenute le penne fustigatrici, l'antimafia col bollino blu e la politica dell'onestà. Quella che per una Monterosso s'è vestita da sanculotto e che adesso non si fa sentire, vedi alla voce Cinque stelle. E dire che la vicenda presenta delle peculiarità che colpiscono. In particolare la circostanza che per una storia che sembrerebbe analoga, un'inchiesta c'era già stata a carico dell'ex pm. La precedente indagine, giunta alle battute finali come ha ricostruito Riccardo Lo Verso, si concentrava sulle retribuzioni dal 2013 al 2016. Ora i pm indagano sul 2017. La questione riguarda i suoi emolumenti tra stipendi, premi e rimborsi spese, anche per hotel di lusso e noti ristoranti, per l'incarico di sottogoverno attribuitogli da Rosario Crocetta alla guida di Scilia e-servizi. Nel marzo scorso, ricorda Livesicilia, Ingroia era stato pure interrogato dai suoi ex colleghi. L'ex pm, che spera di mantenere il posto dopo il cambio a Palazzo d'Orleans, ha sempre rivendicato la correttezza del suo operato. E sembrerebbe che dopo le prime contestazioni dei suoi ex colleghi, Ingroia abbia ritenuto di tirare dritto – era “una storia totalmente infondata", disse all'epoca, “correggendo” i pm (da quando ha lasciato la toga l'avvocato Ingroia ha dispensato diverse bacchettate ai meno celebri ex colleghi) – finendo così nella seconda inchiesta. Quando forse prudenza, vista l'inchiesta in corso, avrebbe potuto suggerire altra condotta. Ma questa è in effetti una annotazione che spetterebbe ai professionisti dell'indignazione. Se non fossero distratti. 

Travaglio di bile

Il Fatto vuole dimostrare che Berlusconi è un "delinquente naturale". Ma anche il condannato Travaglio è delinquente, scrive Vittorio Sgarbi, Venerdì 20/04/2018, su "Il Giornale". Se le dicono e se le cantano fra loro. Sul Fatto, sono sempre loro, Travaglio o Gomez. E adesso anche Gregorio De Falco. Questa volta Travaglio si è messo in testa di dimostrare che Berlusconi è un «delinquente naturale». Perché delinque, egli dice. Più o meno come lui, condannato a pagare 150mila euro per diffamazione degli onesti magistrati del processo Mori. Numerose sono le condanne di Travaglio. Per accusare Berlusconi, Travaglio e i suoi ricorrono spesso al tema della corruzione di un senatore. Se le sentenze che lo dimostrano sono quelle del caso De Gregorio, stiamo freschi. Conclusioni insensate, basate sulle dichiarazioni di un personaggio palesemente in contrasto con tutto quello che è agli atti del Senato. Ma è inutile dirlo: i Travaglio e i Gomez, innamorati del «delinquente naturale», non ascoltano e non verificano. Perché comprare un senatore che non era più di centrosinistra, non era più nel gruppo di «Italia dei valori», ma era passato, fin dal 2006 (due anni prima della caduta del governo Prodi), nel Gruppo misto, per stare con il centrodestra, che lo avrebbe nominato presidente della commissione Difesa del Senato? Basta leggere gli atti. Solo quando non le critica lui, per Travaglio le sentenze sono infallibili. E se dobbiamo ritenerle tali, anche il condannato Travaglio è delinquente, e per di più recidivo, e per di più contro magistrati. Insomma, l'altra faccia della medaglia di Berlusconi.

La beffa di Travaglio che ora deve risarcire quei magistrati che ha sempre beatificato. Il direttore del «Fatto» condannato a pagare 150mila euro a tre giudici, scrive Luca Fazzo, Mercoledì 24/01/2018, su "Il Giornale". Adesso anche Marco Travaglio sperimenta sulla sua pelle una legge che non sta scritta in nessun codice ma che viene applicata in modo ferreo: la reputazione dei giudici vale più di quella di qualunque altro cittadino. Quando nei processi per diffamazione a mezzo stampa la vittima (presunta) è un magistrato, volano risarcimenti che sono dieci o venti volte quelli riconosciuti alle vittime normali: per il semplice, umanissimo motivo che a quantificare il danno è un collega della vittima, un giudice come lui, e come lui convinto che infangare una toga sia un vulnus alla democrazia. E che come tale vada represso con eccezionale severità. Del canale preferenziale di cui godono i magistrati quando si sentono offesi da un articolo di stampa, il Giornale in questi anni ha sperimentato sulla sua pelle tutta l'asprezza: effetti collaterali della sua battaglia contro la malagiustizia. Ma quando bussano a risarcimenti, i giudici non guardano in faccia a nessuno. Nemmeno se il presunto diffamatore è un opinionista che da sempre è dalla parte delle toghe; un giornalista che nel secolare faccia a faccia tra giudice e imputato ha scelto risolutamente di stare col primo. Così tre giudici hanno fatto causa a Travaglio. E sul direttore del Fatto Quotidiano è piombata una batosta da lasciarlo tramortito: condanna per diffamazione, e centocinquantamila euro di risarcimento. É una cifra importante, oggettivamente intimidatoria per la libertà di stampa. Nel bilancio del Fatto (da cui probabilmente Travaglio attingerà i soldi per il risarcimento) centocinquantamila euro si sentono. Verrebbe da dire: benvenuto, caro Marco, nel circolo dei giornalisti mazzolati per avere criticato il potere irresponsabile che amministra la giustizia in questo paese. Peccato che la vicenda che ha portato alla condanna di Travaglio racconti un'altra storia. A querelarlo furono infatti tre giudici palermitani - Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere - colpevoli unicamente di avere osato assolvere due ufficiali del Ros, Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di avere protetto la latitanza di Bernardo Provenzano. Per la Procura di Palermo, la mancata cattura di «Binnu» era prova lampante della trattativa occulta tra Stato e mafia, e il processo a Mori e Obinu un prequel dell'interminabile maxiprocesso sulla presunta trattativa. Ma nel luglio 2013 la quarta sezione del tribunale palermitano assolse i due ufficiali. Opacità, scrissero i giudici, nell'operare: ma nessuna traccia di una volontà di aiutare Cosa Nostra. La procura di Palermo si indignò, e ancora più si indignò Travaglio, che scagliò sui tre giudici colpevoli di assoluzione un articolo violento, indicandoli con nome e cognome come autori di una «sentenza cluster», una bomba a grappolo destinata a devastare tutti gli altri processi sulla trattativa: «possibilmente scomodi per il potere». Asservimento al potere politico, questa l'accusa che i tre ritennero indigeribile. Denunciarono Travaglio. E la eclatante sentenza dà loro ragione. Travaglio ha affermato di avere esercitato il suo diritto di satira e di critica. Ma il problema è un altro: a Travaglio non piacciono le assoluzioni. Gli avvisi di garanzia, per lui sono sufficienti a marchiare un uomo come colpevole; e se poi una sentenza assolve, allora è la sentenza ad essere un errore giudiziario, e magari anche frutto di corruttela. La vera giustizia è quella delle indagini preliminari, amministrata dai pm; di sentenze e di giudici si potrebbe fare serenamente a meno. Ma il codice, per ora, si ostina a prevedere entrambi: e se un giudice assolve non è per forza un mariuolo.

Il vizietto dei grillini: forcaioli con gli altri e garantisti con se stessi. Nogarin, Capuozzo e Pizzarotti "graziati". Per gli avversari richieste di dimissioni, scrive Patricia Tagliaferri, Martedì 06/09/2016, su "Il Giornale". Eccolo Luigi Di Maio l'intransigente, come del resto tutti quelli del Movimento 5 Stelle: «Non sono a favore della presunzione d'innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare». Era il dicembre 2015. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti grillini. Il giustizialismo dei primi tempi non c'è più. O meglio, c'è solo quando fa comodo ai pentastellati, ora che hanno scoperto che rispettare le loro regole lì dove governano non è sempre semplicissimo. Il caos del Comune di Roma, con l'assessore all'Ambiente Paola Muraro indagata, gliel'ha ricordato. E subito il Movimento è andato a rispolverare quella doppia morale che già in altre occasioni aveva mostrato: forcaioli con gli altri, garantisti con se stessi. E tutto fa molto più rumore ora che la sindaca Virginia Raggi ha ammesso che sapeva da fine luglio dell'esistenza in Procura di un fascicolo sulla Muraro, già sotto inchiesta quando è stata nominata. Sapeva la Raggi, ma ha sempre taciuto. Del resto non c'è ancora un avviso di garanzia e nessuno ha ancora letto le carte. Anche Di Maio si aggrappa a questo e sospende il giudizio senza accanirsi come avrebbe fatto con qualsiasi altro indagato. Per eventuali provvedimenti, ora che sulla graticola c'è uno di loro, c'è sempre tempo. Chi non aspetta è il Pd. «Doppia morale, doppio gioco e zero governo di Roma», scrive su Twitter il deputato Andrea Romano. «Un avviso di garanzia non è una condanna, ma mentire a sangue freddo sulla propria condizione di indagata come ha fatto la Muraro è un atto di enorme gravità», commenta Stella Bianchi, deputata Pd. Mentre Stefano Fassina, di Sinistra italiana, e il capogruppo di FdI-An alla Camera, Fabio Rampelli, chiedono le dimissioni dell'assessore. Come fu anche per la vicenda degli scontrini dell'ex sindaco Ignazio Marino.Gli esempi del «doppiopesismo» grillino si sprecano: quando sbagliano gli altri, via al minimo sospetto. Mentre per i politici del Movimento vale sempre la presunzione di innocenza. Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, finita nell'inchiesta sui condizionamenti della camorra sulle elezioni, venne difesa a spada tratta. Quando a finire nel registro degli indagati per bancarotta fraudolenta fu il primo cittadino di Livorno, Filippo Nogarin, i pentastellati partirono in quarta per difenderlo. Lo stesso Grillo gli telefonò per confermargli la sua fiducia. E le dimissioni slittarono dopo un eventuale rinvio a giudizio. Un grande imbarazzo e il silenzio dei vertici del Movimento accolsero la notizia dell'avviso di garanzia all'assessore Gianni Lemmetti, finito nella stessa inchiesta sull'azienda dei rifiuti livornese. Lui non si dimise e M5S rispose dicendo anche in quel caso che non si conoscevano ancora le contestazioni specifiche. Il sindaco M5S di Parma, Federico Pizzarotti, invece, fu sospeso quando finì indagato per le nomine del teatro Regio. Ma era da tempo in rotta con il Movimento. Ora si gode la rivincita: «In effetti stando seduti sulla riva del fiume passa un sacco di gente #noleggiosalvagenti», ha twittato ieri. Per lui un trattamento diverso da quello ricevuto da Nogarin perché - disse allora Di Maio - Pizzarotti aveva nascosto l'avviso di garanzia. Come adesso ha fatto la Muraro. Per l'ex ministro Maurizio Lupi non ci fu nemmeno bisogno di inchieste giudiziarie. Fu crocifisso dai Cinque Stelle senza essere indagato per lo scandalo dell'orologio ricevuto in regalo da una persona coinvolta nell'indagine sulle tangenti per le grandi opere. In aula i grillini lo attaccarono con violenza, chiedendone le dimissioni. E le ottennero. Dimissioni che sollecitarono anche per il ministro Angelino Alfano, quando saltò fuori la storia del fratello assunto in una società delle Poste, e per la ministra Maria Elena Boschi per lo scandalo di Banca Etruria che coinvolge suo padre.

Beppe Grillo, le bufale giornalistiche e il bizzarro garantismo a 5 stelle, scrive Bruno Manfellotto su "Foemiche.net" l'08/01/2017. Allora, Beppe Grillo ha impresso o no una svolta garantista ai Cinque Stelle? Si parla naturalmente del nuovo codice etico scritto dal Capo, Garante e Padrone del movimento e poi approvato via web da un numero esiguo di iscritti, circa 30mila su 135mila, significativamente in calo rispetto pure agli 87mila che a settembre si espressero sul Non Statuto che aboliva (finalmente) le espulsioni on line dei militanti dissidenti, sgraditi o poco coerenti per lasciare a Grillo l’ultima parola. I media tanto odiati da Grillo, hanno parlato appunto di nuovo garantismo; lui s’è affrettato a definirla l’ennesima bufala dopo che la solita rete era insorta indignata: niente svolta. Per capire come davvero stanno le cose, è utile confrontare il nuovo codice con quello in vigore in occasione delle ultime amministrative che hanno eletto sindache Virginia Raggi e Chiara Appendino. Ieri si diceva (Sanzioni, punto 9) che sindaco, assessori, consiglieri hanno l’obbligo di dimettersi non solo in caso di condanna penale di primo grado, ma anche qualora il loro nome sia iscritto nel registro degli indagati per fatti penalmente rilevanti, e la rete o i garanti del Movimento decidano in tal senso. Insomma, per capirci, fuori Paola Muraro, assessora all’Ambiente indagata per reati ambientali (e comunque ce n’è voluta per convincere lei e la sindaca a rispettare il diktat), ma domani anche la Raggi qualora venisse raggiunta, come da un po’ si sussurra, da avviso di garanzia. Il nuovo codice, invece, è meno drastico e più completo. Tutto uguale (Presunzione di gravità, punto 4) per la condanna in primo grado: dimissioni, anche in caso di patteggiamento o di prescrizione intervenuta dopo il rinvio a giudizio. Purché si tratti di reato commesso con dolo, e con l’eccezione dei reati d’opinione e di diffamazione sui quali può però decidere in senso contrario, a sua discrezione, il Garante (Grillo) o il collegio dei probiviri. E ricevere un avviso di garanzia? “Non comporta alcuna automatica valutazione di gravità”, recita il nuovo codice, che però anche in questo caso lascia a Grillo la discrezionalità di comminare la sanzione. Per molti commentatori, le nuove norme sono state scritte solo ed esclusivamente per mettere in sicurezza Virginia Raggi sulla quale potrebbero abbattersi nuovi provvedimenti giudiziari. Tra i tanti, originale l’intervento di Marco Taradash sul “Foglio”: fa notare che Grillo, condannato in primo grado per omicidio colposo (un incidente stradale di molti anni fa) e più volte per diffamazione, ora potrebbe candidarsi alle prossime elezioni: il nuovo codice del Movimento glielo consentirebbe. Ora, al di là delle illazioni e delle post verità, resta la realtà di un regolamento che non condanna più alle dimissioni obbligate chi riceva un avviso di garanzia (era ora, aggiungo io), ma nello stesso tempo regala al capo del movimento sempre più potere discrezionale: alla fine sarà lui a decidere se quella comunicazione giudiziaria debba tradursi nelle dimissioni. Non so come la vedete voi, ma un sistema in cui decide uno solo, un movimento in cui “uno vale uno” ma – peggio che tra gli animali di Orwell – uno solo comanda, a me sembra assai poco garantista. E più che la democrazia mi ricorda qualche dittatorello da repubblica delle banane. Forse cominciano a pensarlo anche i fan del movimento, visto il numero risibile di chi ha votato il codice. Ma quest’ultima per Grillo sarà certamente l’ennesima bufala giornalistica…(Post pubblicato su Facebook)

M5s, Di Maio contro Pd: "Impresentabili e soldi da Mafia Capitale". Renzi: "Attacca perché in difficoltà". Il candidato premier per il Movimento 5 stelle attacca gli avversari, elencando sul blog i candidati del Pd e del centrodestra che sarebbero coinvolti in vicende giudiziarie: "Devono sparire dalle liste". L'ex presidente del Consiglio: "Smetti di scappare e facciamo confronto serio", scrive Piera Metteucci il 4 febbraio 2018 su "La Repubblica". È un botta e risposta a suon di post e accuse pesanti tra M5s e Pd quello che infiamma la giornata politica. A dare il via allo scontro a distanza è il candidato premier del Movimento 5 stelle, Luigi Di Maio, che fa nomi e cognomi. Sul blog del movimento, snocciola una lista dettagliata dei candidati del Partito Democratico e del centrodestra che sarebbero coinvolti in vicende giudiziarie e, dunque, 'impresentabili'. L'attacco del candidato M5s arriva in risposta a Matteo Renzi, che aveva parlato degli impresentabili pentastellati presenti nelle liste per le prossime elezioni: "Ieri ho sentito dal segretario del Pd Matteo Renzi", ha esordito Di Maio, "un'affermazione infamante del Movimento 5 Stelle: ha infatti detto che abbiamo candidato degli impresentabili nelle nostre liste. Siamo, invece, una forza politica che non solo vieta ai condannati di entrare nelle loro liste, ma anche in molti casi ai semplici indagati. Questo signore gli impresentabili li ha candidati lui". La replica del segretario arriva su Facebook: "Di Maio in difficoltà fa sempre la stessa cosa: attacca me e il PD. E sempre con la solita mossa: il ritornello dei candidati impresentabili", scrive Matteo Renzi, che questa volta dice di voler replicare punto per punto alle accuse perché, dice, "le bugie hanno le gambe corte". Ma lo scontro non si ferma: in serata da Nuoro la reazione ancora più aspra del capo politico M5s: "Renzi ci dice che noi abbiamo candidato nelle nostre liste un amico degli Spada. Rispondo io: ma lo dici proprio tu che hai preso i soldi da Buzzi e da Mafia capitale per le elezioni?". Il riferimento è a una cena del Partito democratico alla quale partecipò anche il presidente della cooperativa "29 giugno".

A prendere per primo la parola in giornata è Di Maio, che sul web scandisce una serie di nomi di "veri impresentabili" che, sostiene "devono sparire dalle liste", a partire dal presidente della Regione Abruzzo, Luciano D'Alfonso, "indagato a Pescara e all'Aquila in un'inchiesta sugli appalti regionali", proseguendo poi con il capolista del Pd al collegio plurinominale del Senato in Liguria, "coinvolto nella vicenda dei rimborsi regionali", così come altri quattro candidati nel Lazio. Di Maio ha poi elencato altri tre candidati in Calabria, "rinviati a giudizio nel luglio scorso" e un altro imputato a Roma in un processo "per una storia falsi appalti pubblici". Nella lista, anche l'assessore regionale all'agricoltura del Molise, "indagato nell'ambito di un'inchiesta sui Progetti edilizi unitari". Una 'menzione speciale', il leader del M5s l'ha dedicata alla sua regione, la Campania, citando "De Luca junior candidato a Salerno" ma, ha spiegato, "siccome segue le orme del padre non solo per quanto riguarda la carriera politica, imputato per bancarotta fraudolenta". Di Maio ha proseguito con il sottosegretario ai Trasporti, Umberto Del Basso De Caro, indagato per "tentata concussione", passando quindi per Franco Alfieri, sempre in Campania, "quello che prometteva fritture in cambio di voti con la benedizione del governatore campano". Alla fine del lungo elenco, il ministro Luca Lotti che, ha ricordato Di Maio, "è indagato per favoreggiamento e rivelazione di segreto istruttorio nel caso Consip". Nessuno sconto neanche per esponenti del centrodestra perché, ha aggiunto Di Maio, "fanno a gara tra di loro sugli impresentabili". Tra loro, oltre a Luigi Cesaro, c'è "Antonio Angelucci, premiato per la sua assidua presenza in Parlamento (99.59% di assenze) e per i risultati - scrive il leader M5S - sul fronte giudiziario con una condanna in primo grado a un anno e 4 mesi per falso e tentata truffa per i contributi pubblici percepiti tra il 2006 e il 2007 per i quotidiani 'Libero' e 'il Riformista'; oltre un indagine in corso in merito a un'inchiesta sugli appalti nella sanità della procura di Roma. Per lui il posto di capolista alla Camera nel Lazio". E poi Ugo Cappellacci e Michele Iorio, ma anche Umberto Bossi "condannato a 2 anni e 3 mesi per aver usato i soldi del partito, quindi "provenienti dalle casse dello Stato" a fini privati" e Formigoni "condannato per corruzione a sei anni e imputato in altri processi: è candidato al Senato come capolista nella formazione del centrodestra "Noi con l'Italia" in Lombardia".

Non solo gli avversari politici entrano nel mirino di Di Maio. Duri attacchi il candidato pentastellato riserva anche alla stampa: "Tutti i giornali italiani per giorni hanno sbattuto in prima pagina tutta la vita di Emanuele Dessì, cittadino incensurato candidato al Senato con il MoVimento 5 Stelle" e che ha accettato - ricorda Di Maio - di rinunciare al seggio, mentre sul capolista Giggino 'a purpetta, esponente del centrodestra, hanno "osservato un omertoso silenzio, un insulto ai lettori", accusa.

Il primo punto che il segretario del Pd mette nero su bianco è quello che riguarda Dessì: "Chi in Lazio vota per il Movimento Cinque Stelle vota uno scroccone, amico del clan Spada. Punto. Qualcuno può smentire? No, nessuno", si legge nel post, nel quale Renzi ricorda i motivi per i quali il candidato pentastellato è al centro delle polemiche ("Questo signore è molto vicino agli Spada, di Ostia (ricordate la testata di Spada che spaccò il naso al giornalista Piervincenzi a novembre?) ed è coinvolto in quella che i grillini chiamano "scroccopoli", vale a dire il problema delle case pubbliche pagate poco, 7 euro al mese"). Per l'ex premier, "impresentabile rimane Dessì, per le sue amicizie. Anche se non ha avvisi di garanzia. Talmente impresentabile che se ne vergognano anche i Cinque Stelle. Ok, è chiaro: Dessì vi mette in imbarazzo. E siamo pronti a non parlarne se questo vi fa stare più tranquilli. Possiamo fare politica, adesso?". Ma Renzi non si ferma qui: ribadisce all'avversario qual è la differenza tra 'indagato' e 'condannato': "Caro Di Maio, quello che ancora non hai capito è che un avviso di garanzia non è una condanna. Non si diventa 'impresentabili' per un avviso di garanzia o per essere indagati. Perché altrimenti per voi sarebbe un dramma. Perché tu, caro Di Maio, sei stato indagato. Perché il sindaco di Torino Chiara Appendino è indagata per omicidio colposo e falso. Perché il sindaco di Livorno Filippo Nogarin è indagato per omicidio colposo. Perché il sindaco di Roma Virginia Raggi non è solo indagata, ma direttamente a processo per falso. E perché da Bagheria alla Sardegna sono numerosi i sindaci a cinque stelle indagati". Poi l'affondo finale, con l'invito all'aspirante premier M5s a non fuggire più a confronti con gli avversari: "Di Maio è un aspirante leader politico che vorrebbe confrontarsi con Trump e con Putin e che non trova ancora il coraggio di fare un dibattito con me o con Salvini. Caro Di Maio, lascia stare le liste di presunti impresentabili: presentati tu, a un dibattito tv, se trovi il coraggio di non fuggire come hai fatto fino ad oggi. Con i Cinque Stelle vorremmo discutere di vaccini, di come creare lavoro altroché reddito di cittadinanza e assistenzialismo, di Europa, di grandi eventi come l'Expo, di Venezuela e di periferie. Vorremmo un dibattito politico alto. Caro Di Maio, quando avrete finito con il fango, ci troverete qui, al solito posto. Perché noi non scappiamo, noi".

Di Maio non ci sta e rincara la dose contro il segretario Pd anche su Facebook: "Proprio lui, che è segretario di un partito che in 4 anni ha ricevuto 9 milioni di euro di finanziamenti che nessuno sa da dove vengono (da gente come Buzzi?). Lui che ha spifferato a De Benedetti il decreto sulle popolari che ha permesso all'editore di Repubblica un plusvalore di 600.000 euro alla faccia dei risparmiatori sul lastrico. Lui che non ha detto una parola sui candidati impresentabili del suo vero alleato Berlusconi. Non una parola su Giggino a purpetta, ex autista del boss che ha fondato la nuova camorra organizzata, indagato per voto di scambio in riferimento alle ultime elezioni regionali e per minacce a pubblico ufficiale aggravato dalla finalità mafiosa: avrebbe fatto pressioni su una funzionaria del comune di Marano, che si occupava dei controlli su opere costruite dall'impresa di Aniello e Raffaele Cesaro, suoi fratelli. Ci risparmi le sue parole gonfie di retorica e ipocrisia. Ci dica quanti soldi gli ha dato Buzzi dei 9 milioni di euro arraffati dal Pd che non hanno un nome e un volto e ritiri gli impresentabili".

Al grido di "onestà, onestà", il Movimento 5 Stelle fa il pieno di indagati. Si allunga la lista dei sindaci pentastellati destinatari di un avviso di garanzia: prima Pizzarotti e Nogarin, poi la Raggi e l'Appendino, scrive Margherita Conte, Martedì 17/10/2017, su "Il Giornale". Ancora una tegola sulla testa del Movimento 5 Stelle. Dopo l'avviso di garanzia recapitato a Chiara Appendino, si allunga la lista dei sindaci grillini indagati. I primi cittadini delle principali città conquistate dal Movimento 5 Stelle sono finiti sotto la lente d'ingrandimento della magistratura. Il primo caso riguarda Federico Pizzarotti, eletto sindaco di Parma nel 2012. Quattro anni dopo finisce però tra gli indagati per abuso d'ufficio in un'inchiesta sulle nomine al Teatro Regio. Storia che avrà come conseguenza una querelle con Beppe Grillo, e quindi la fuoriuscita di Pizzarotti dal Movimento. È poi la volta di Filippo Nogarin, sindaco di Livorno, indagato per bancarotta fraudolenta, abuso d'ufficio e falso in bilancio nell'inchiesta relativa alla revoca del cda di Aamps e all'approvazione del bilancio della municipalizzata dei rifiuti. L'avviso di garanzia è arrivato poi anche a Virginia Raggi. Il sindaco di Roma è accusata di falso in merito all'inchiesta per la nomina di Renato Marra, fratello di Raffaele, a capo del dipartimento Turismo. Nella lista anche Patrizio Cinque, sindaco di Bagheria, nell'ambito di un'inchiesta della procura di Termini Imerese sull'affidamento del servizio dei rifiuti, sulla gestione del palasport e sull'abusivismo edilizio che coinvolge altre 22 persone, tra cui il vicesindaco. In questo caso le ipotesi di reato formulate per Cinque sono di rivelazione di segreto d'ufficio, abuso d'ufficio, omissione di atti d'ufficio e turbativa d'asta. Ultimo sindaco pentastellato a ricevere un avviso di garanzia è Chiara Appendino, accusata falso ideologico in atto pubblico.

Dopo la messa in onda del servizio delle Iene sulla senatrice guarita "miracolosamente" dopo l'elezione su Facebook si è scatenata la caccia a Vittoria Bogo Deledda e i più inferociti sono gli elettori pentastellati. Nel frattempo il M5S - in nome della trasparenza e del garantismo - non ha ancora preso posizione sulla questione, scrive Giovanni Drogo martedì 10 aprile 2018 su "Next Quotidiano". Luigi Di Maio, si sa, ha problemi ben più seri per la testa che occuparsi delle questioni di partito. C’è da telefonare a Salvini, trattare con il PD, formare un governo insomma bisogna avviare la Terza Repubblica. Deve essere per questo che ancora non ha fatto causa “per danno d’immagine” a tutti quegli impresentabili che non solo non hanno rifiutato l’elezione ma addirittura si sono presentati alla Camera e al Senato. Deve essere per questo che non ha molto tempo di occuparsi del caso di Vittoria Bogo Deledda, la senatrice sarda accusata dalle Iene di essere stata in malattia per otto mesi e di essersi assentata così dal suo lavoro di dirigente dei servizi sociali del comune di Budoni. Secondo una testimonianza anonima la senatrice, dopo aver vinto le Parlamentarie di febbraio è “miracolosamente” tornata al lavoro salvo mettersi in ferie per poter seguire la campagna elettorale. In un video pubblicato ieri la senatrice pentastellata “risponde” a tutte le accuse fatte da Filippo Roma delle Iene. Il video è un breve estratto di una telefonata tra la Bogo Deledda e Roma dove la senatrice dice all’inviato delle Iene che avrebbe dovuto controllare le fonti. Quali? La registrazione telefonata purtroppo si interrompe sul più bello ma dal post si capisce bene quali “prove” e quali “fonti” intenda la Deledda. Ad esempio le sue “agente degli appuntamenti socio-assistenziali di 25 anni” e “la corposa cartella INAIL con fitta relazione e ben 60 allegati”. Le prime non c’entrano visto che le viene contestata l’assenza da lavoro negli ultimi otto mesi mentre la seconda non poteva essere utilizzata da Roma perché coperta dalla privacy. Certo per amore di trasparenza (che è pur sempre uno dei valori fondanti del M5S) la senatrice potrebbe mostrare lei stessa le prove. Ma non lo fa. E nemmeno il MoVimento 5 Stelle sembra intenzionato a voler fare chiarezza sulla questione. Quasi che la caccia alle “mele marce” sia prerogativa esclusiva del periodo di campagna elettorale. “Accerteremo tutto” ha detto Di Maio alle Iene, e come è noto il 5 Stelle prima di emettere sentenze su uno dei loro è spudoratamente garantista. Di diverso avviso è Michele Anzaldi (PD) che annuncia un’interrogazione parlamentare e chiede che «Il ministero del Lavoro e l’Inps avviino un’ispezione sul caso della neo senatrice Vittoria Bogo Deledda, in malattia per un anno come dipendente pubblico del Comune di Budoni in Sardegna e improvvisamente guarita al momento della sua candidatura al Senato con il Movimento 5 stelle, come documentato da un’inchiesta delle Iene». Su Twitter Augusto Minzolini ironizza sull’etica della politica della dipendente comunale sarda “da un anno in malattia rientrata tre giorni prima di diventare senatrice” mentre Daniele Capezzone grida al miracolo. La senatrice, nella breve intervista, spiega di aver avuto una sindrome da burnout che le ha impedito di lavorare per molto tempo, è stata curata per una patologia connessa alla sua attività professionale ed è stata seguita da specialisti che per un anno intero l’hanno aiutata a guarire. Un percorso di guarigione che su Facebook descrive come “lungo e graduale”. Su Facebook il post di Vittoria Bogo Deledda con la telefonata a Filippo Roma è stato preso d’assalto da decine di commentatori infuriati che non credono alle sue giustificazioni ma solo alle accuse fatte dall’anonimo dipendente del Comune di Budoni. Diversi utenti applicano alla senatrice il “metodo a 5 Stelle”. Ovvero: sicuramente è innocente ma per il momento, fino a che non avrà dimostrato la sua innocenza, deve fare un passo indietro per il bene del M5S. Un passo indietro che la Bogo Deledda non sembra intenzionata a fare e che del resto il MoVimento 5 Stelle non le ha ancora chiesto. Sono molti gli utenti che si dichiarano sostenitori o elettori del M5S, quando non addirittura elettori della senatrice, che le chiedono di “ritirarsi a vita privata” o che dichiarano di essere “molto delusi” dal comportamento della senatrice (e del marito, che ha picchiato il cameraman delle Iene). Non mancano coloro che invece fanno ironia sulla malattia della senatrice “consigliandole” di non imbarcarsi nel lavoro da parlamentare, che è senza dubbio più stressante. Questi utenti non concedono minimamente il beneficio del dubbio alla senatrice e dimostrano di non avere alcuna pietà. In fondo anche se la portavoce del MoVimento 5 Stelle non ha prodotto alcuna prova che dimostri il contrario di quanto affermato dalle Iene la malattia di cui dice di aver sofferto esiste ed è una patologia grave, soprattutto se ti costringe a stare a casa per quasi un anno. La vicenda della senatrice a 5 Stelle “guarita” grazie all’elezione ha tirato fuori il peggio di molti che si sfogano sul suo profilo Facebook confrontando il proprio caso personale – di cui ovviamente sanno tutto – con uno di cui per ora si sa ben poco. Certo sarebbe nell’interesse della senatrice fare chiarezza e spiegare la sua posizione. Anche perché non tutti i commentatori pentastellati sono disposti ad essere clementi nei suoi confronti. Qualcuno le ricorda il principio della “casa di vetro” del M5S nel quale la privacy non ha un grande valore, soprattutto per gli eletti. Nel giudizio pesa soprattutto il comportamento tenuto dal marito della senatrice che viene visto come “espressione di malafede”. Cosa dovrebbe fare allora la senatrice? Dimettersi e lasciare il posto ad un altro candidato del M5S, che non ha problemi di salute e che “avrà più tempo da dedicare agli obiettivi di tutto il MoVimento”. Come a dire: uno vale uno, in salute e in malattia.

Mulè (Fi) contro il «comizio» del «ministro della Giustizia» a 5S Di Matteo: «Sconvolgente monologo». Durissimo attacco del deputato di Forza Italia Giorgio Mulè contro Nino Di Matteo, intervenuto al Sum #02 del M5s, scrive il 9 aprile 2018 diariodelweb.it. Nino Di Matteo interviene durante il convegno "SUM #02 Capire il Futuro" del M5S presso l'associazione Gianroberto Casaleggio a Ivrea. "Ho ascoltato con attenzione i trenta minuti del 'comizio' del pubblico ministero Nino Di Matteo davanti alla platea dei 5Stelle, che lo vorrebbe ministro della Giustizia, a Ivrea. Si tratta di un monologo sconvolgente, che avrebbe dovuto già provocare una sollevazione in tutti coloro che hanno a cuore lo stato di diritto in Italia». Giorgio Mulè, deputato di Forza Italia, durissimo in una nota contro il pm.  "Tacciono i titolari dell'azione disciplinare, tace il Consiglio superiore della magistratura e ovviamente tace l'Associazione nazionale magistrati" prosegue. "E se è vero che chi tace acconsente, allora siamo davvero a una sottovalutata e pericolosissima vigilia di un periodo del terrore ove mai i 5Stelle dovessero avere la responsabilità di governare il Paese".

"Anticamera della morte delle garanzie". Le parole del magistrato con l'indicazione dei provvedimenti da adottare in materia di giustizia, con i massimi dirigenti del Movimento a spellarsi le mani in segno di approvazione, sono infatti - insiste Mulè - l'"anticamera della morte delle garanzie" in Italia. Tra le perle del programma sulla giustizia consegnato da Di Matteo agli adoranti pentastellati c'è l'affievolimento del rito accusatorio nel nostro processo, che significherebbe il ritorno al sistema inquisitorio con annessa mortificazione dei diritti della difesa, l'estensione delle intercettazioni telefoniche e ambientali, l'allargamento all'infinito dei termini di prescrizione, che è la condanna alla morte civile degli indagati, l'estensione delle misure di prevenzione patrimoniali durante le indagini preliminari e dunque in assenza di qualsiasi condanna.

Via D'Amelio docet...A Di Matteo, che "in spregio a qualsiasi valore di terzietà che dovrebbe stare in capo a un magistrato sventola sentenze di Cassazione come fossero verità divine per attaccare Silvio Berlusconi", è appena il caso di ricordare - osserva il deputato azzurro - che non sono affatto rari i casi di macroscopici errori commessi dalla Cassazione: "Lui ne è diretto testimone avendo partecipato e avallato l'inchiesta che portò alla condanna definitiva in Cassazione all'ergastolo di nove innocenti per la strage di via D'Amelio». Parliamo di nove innocenti rimasti per diciotto anni in carcere facendo scempio di verità e giustizia per un processo che giusto tre mesi fa il Procuratore generale di Caltanissetta ha commentato così: 'L'epilogo di questa vicenda deve indurci a riflettere sulla fallacia della giustizia umana e sul rischio sempre incombente dell'errore giudiziario'. "Inizi a impararlo Di Matteo" conclude Mulè, "lui preferisce pronunciare invettive dense di livore e pregiudizio nei confronti di chiunque non sia allineato al suo fragilissimo e pericolosissimo pensiero. Sia chiaro: ad essere in pericolo non è il garantismo, ma le stesse radici della convivenza civile".

Sgarbi: "Il processo di Di Matteo è un processo alla politica contro la vera antimafia". Interviene anche Vittorio Sgarbi, che bolla la vicenda così: "L'unica mafia attiva nel quadro politico, con l'applicazione sistematica e criminale del voto di scambio, è quella del M5S; ed è emblematico che essi sostengano un magistrato esaltato contro i diritti civili che si ostina a processare, contro l'evidenza e la verità, un vero eroe dell'antimafia come il generale Mori». Il processo di Di Matteo è un "processo alla politica contro la vera antimafia" attacca Sgarbi. "E lo prova il fatto che il M5S sia tra i sostenitori della produzione di energia eolica, primo affare della mafia, come ha rivelato Riina. Alle loro accuse la politica deve rispondere con la difesa dei diritti civili, della verità e della integrità del paesaggio. L'esaltazione di Di Matteo è la prova della collusione tra la magistratura e la politica - insiste Sgarbi -. Quello che Caselli ha sempre negato ora accade, alla luce del sole. Di Matteo esalta 5 stelle, 5 stelle esaltano Di Matteo. Lode a Emilio Carelli che ha mantenuto la sua dignità di giornalista contro il fanatismo talebano. Biasimo a Nuzzi, emulo di Scanzi nell'inginocchiarsi davanti ai fascisti di 5stelle".

Giù la maschera: ecco il M5s delle procure. Da “portavoce dei cittadini” a portavoce dei pm pronti a fare politica senza smettere di fare i giudici. Di Matteo, Davigo e il programma grillino che “coincide con le proposte dell’ex pm di Mani Pulite”. Appunti sulla repubblica giudiziaria, scrive Claudio Cerasa il 13 Luglio 2017 su "Il Foglio". Basta scemenze. La maschera di Beppe Grillo, da oggi, non esiste più. E la storia dei grillini puri, duri, romantici e genuini che interpretano il loro ruolo con lo spirito dei semplici e angelici “portavoce dei cittadini attivi ed esecutori del programma” è una storia che, se mai ci fosse ancora qualche dubbio, sta diventando sempre più una magnifica barzelletta. E al disegno del dolce e ingenuo grillino portavoce delle istanze dei cittadini si sta sostituendo un profilo diverso, sempre più chiaro, sempre più evidente, sempre più raccapricciante: la figura del burattino grillino impegnato a essere prima di ogni altra cosa il portavoce delle procure, o quantomeno di alcuni magistrati. La maschera di Beppe Grillo, come dicevamo, non esiste più e il dato spettacolare di questa operazione verità sulla natura grillina è che nel magnifico teatrino della politica il vero volto del Movimento cinque stelle viene ora mostrato senza paura dagli stessi protagonisti della sceneggiata grillina. E di questo dobbiamo essere infinitamente grati al partito del clown genovese, senza il quale l’Italia non avrebbe capito fino in fondo quali sono alcuni orrori della repubblica giudiziaria. Bisogna dire grazie al Movimento cinque stelle per aver contribuito a mostrare con grande chiarezza la presenza non secondaria nel nostro paese di magistrati che tendono a mettere al servizio di una parte politica il proprio curriculum costruito all’interno delle procure. Bisogna dire grazie al Movimento cinque stelle per aver contribuito a mostrare con grande chiarezza la presenza non secondaria nel nostro paese di magistrati che riescono a condizionare la politica, e a dettare letteralmente legge, senza essere neanche costretti a scendere in campo e a fare direttamente politica. Bisogna dire grazie al Movimento cinque stelle per aver contribuito a mostrare con grande chiarezza la presenza non secondaria nel nostro paese di uomini vicini alle procure che, magari con l’utilizzo di indagini manipolate o l’uso sapiente di fughe di notizie ben calibrate, offrono materiale utile ad alcune forze politiche per alimentare campagne diffamatorie contro altri soggetti politici. Bisogna infine dire grazie al Movimento cinque stelle per aver contribuito a mostrare con grande chiarezza la presenza non secondaria nel nostro paese di magistrati smaliziati che accettano di mettere al servizio di alcuni partiti (in realtà parliamo sempre dello stesso partito) il consenso mediatico costruito grazie a spettacolari indagini costruite per arrivare nei talk show più che per arrivare a sentenza. E’ grazie al Movimento cinque stelle, per essere più chiari, che un magistrato naturalmente scomodo come Nino Di Matteo, volto simbolo dell’inchiesta sulla trattativa stato mafia e idolo dei presunti paladini dell’onestà, arriva a dire con grande nonchalance, lo ha fatto ieri in un’intervista alla Stampa, di “non essere pregiudizialmente contrario all’impegno di un magistrato in politica, soprattutto se questo significasse la naturale prosecuzione del lavoro svolto con la toga addosso”, e che, pensando probabilmente anche a se stesso, “a determinate condizioni un magistrato può contribuire in maniera positiva all’elaborazione di linee politiche che rappresentazione la prosecuzione dell’impegno in toga”. E’ grazie al Movimento cinque stelle che, per essere ancora più concreti, è possibile rendersi conto che esistono magistrati che fanno politica senza fare davvero politica e dobbiamo ringraziare in questo caso anche il Fatto Quotidiano che ieri ci ha informato con grande enfasi su un punto non secondario: il programma sulla giustizia del Movimento cinque stelle, ma chi lo avrebbe mai detto, “in larga parte coincide con le proposte dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo”. Ed è ancora grazie al Movimento cinque stelle – movimento gestito dalla stessa azienda privata, la Casaleggio Associati, che ha tentato, non con grande fortuna, di aiutare un altro magistrato, Antonio Di Pietro, a scalare le vette della politica italiana con il suo partito dei valori presunti – se oggi possiamo fare i conti, a viso aperto, con magistrati spettacolari come l’ex pm di Trani Michele Ruggiero che dopo aver costruito inchieste appunto molto spettacolari, quantomeno per i media, non ha trovato niente di meglio da fare che affiancare il suo percorso a quello del Movimento cinque stelle. La maschera di Beppe Grillo, e più in generale quella di un partito guidato da un blog solo al comando teleguidato da un’azienda privata che ha trasformato la truffa della democrazia diretta in una forma di maoismo digitale che non può che andare a nozze con il totalitarismo delle repubbliche giudiziarie, oggi non esiste più, e questo è pacifico. Ma accanto alla trasformazione progressiva dei “portavoce dei cittadini” in “portavoce delle procure” grazie all’involontaria operazione verità portata avanti dal Movimento 5 stelle abbiamo potuto capire qualcosa in più anche rispetto a un principio che in teoria dovrebbe essere garantito dalla nostra Costituzione. Un principio che ricorda il Consiglio superiore della magistratura sul suo sito: “Terzietà e imparzialità sono assunte come le caratteristiche che consentono di distinguere i giudici dagli altri organismi che esercitano funzioni statali diverse”. Grazie al Movimento 5 stelle, e ai suoi portavoce delle procure, ogni giorno ciascuno di noi potrà rendersi conto se questo principio in Italia viene costantemente rispettato oppure viene costantemente calpestato. In questi giorni abbiamo avuto qualche indizio per orientarci sul tema. Tra una settimana esatta, quando Palermo ricorderà con dolore il venticinquesimo anniversario dell’omicidio di Paolo Borsellino e quando magistrati con grande passione politica come Antonino Di Matteo (che con straordinario tempismo il prossimo 25 luglio riceverà dal sindaco di Roma Virginia Raggi la cittadinanza onoraria della Capitale) non perderanno occasione per spiegare le proprie idee sull’universo mondo, tutto probabilmente sarà ancora più chiaro.

"Non capisco i magistrati che simpatizzano per il M5s". Carlo Nordio va in pensione e ci racconta tutto su gogne mediatiche, intercettazioni e giustizia ingiusta. Dalle Brigate rosse a Tangentopoli, passando per il Mose. Un pm può essere garantista? Sì, scrive Ermes Antonucci il 7 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Carlo Nordio è nato a Treviso il 6 febbraio del 1947 ed è magistrato dal 1977.  Ha indossato la toga per quarant’anni, preferendo il lavoro sodo ai trampolini mediatici, la professionalità alle scorciatoie corporative, la sincerità intellettuale alle comodità del politicamente corretto. Oggi, spente da poche ore le candeline dei settant’anni, Carlo Nordio, celebre procuratore aggiunto di Venezia, va in pensione, complice la riforma voluta nel 2014 dal governo Renzi che ha abbassato l’età pensionabile delle toghe da 75 a 70 anni. In un lungo colloquio con il Foglio, il magistrato veneto racconta le sue sensazioni sull’addio, analizzando i mali della giustizia italiana e ripercorrendo le principali tappe della sua prestigiosa carriera, a partire proprio dalla scelta di rimanere per tutti questi anni procuratore aggiunto. Scelta curiosa in un panorama togato particolarmente attento alle promozioni di carriera, ma anche qui c’entra il tradizionale spirito controcorrente del magistrato veneto: “Credo di essere il magistrato che è stato per più tempo nello stesso ufficio – spiega Nordio – Non mi sono mai interessato a posti direttivi, perché fare il capo significa fare alta amministrazione del proprio ufficio a discapito delle indagini. La posizione ideale, invece, è quella del procuratore aggiunto, perché non hai lo stress della primissima linea, ma continui a fare indagini o quantomeno a coordinarle. Non ho neanche mai guardato i bollettini dei posti per cui candidarsi, perché non mi interessava”. Tante le indagini importanti condotte da Nordio, a partire da quelle compiute negli anni Ottanta sulle Brigate Rosse venete e sui sequestri di persona: “Quello è stato senza dubbio il periodo più esaltante della mia carriera”, spiega Nordio al Foglio. “Non mi è mai piaciuto usare il termine ‘lotta’, perché il magistrato è chiamato solo ad applicare la legge, ma in quel momento la magistratura era così sola e aveva dato un così alto contributo di sangue che si può parlare effettivamente di lotta”. Basti ricordare che in quattro giorni, tra il 16 e il 19 marzo 1980, caddero sotto i colpi delle Brigate Rosse le toghe Nicola Giacumbi (procuratore a Salerno), Girolamo Minervini (procuratore generale della Cassazione) e Guido Galli (giudice istruttore a Milano): “Sentivamo di avere sulle spalle l’intera nazione e di stare facendo qualcosa di estremamente utile, anche se eri solo”, racconta Nordio. “Nonostante fosse molto pericoloso, posso dire di non aver mai avuto paura, forse perché per carattere concentro tutte le mie paure sulle malattie, essendo un po’ ipocondriaco… Nel mio lavoro ho seguito tutta la colonna veneta delle Brigate Rosse, che era una delle più pericolose d’Italia, composta anche da elementi che venivano da altre città come Roma o Torino. Certamente era la più importante in termini di armi, perché quasi tutte erano state portate e sepolte nel Nord-Est. Alla fine la guerra è risultata vittoriosa. Negli anni successivi ci sono stati dei colpi di coda delle Brigate Rosse, ma questi non hanno più messo in pericolo la democrazia come era avvenuto durante il sequestro Moro”. Giunsero poi gli anni Novanta. Gli anni di Tangentopoli e della maxi inchiesta veneziana sui finanziamenti illeciti da parte delle cooperative rosse a Pci e Pds. Le indagini finirono per toccare anche i segretari nazionali dei due partiti di sinistra, Achille Occhetto e Massimo D’Alema, ma alla fine fu lo stesso Nordio a chiedere l’archiviazione per i due: furono raggiunte prove evidenti del finanziamento illecito ai partiti, ma non delle responsabilità penali individuali dei due segretari. Una certa sinistra non perdonò mai a Nordio di aver messo in luce l’insussistenza della propria “superiorità morale”: “Quando le indagini si concentrarono sui democristiani e sui socialisti non ci furono polemiche e fummo anche dipinti come degli eroi. Poi quando iniziai a indagare sulle cooperative rosse e sull’onorevole D’Alema sono scoppiate molte polemiche, anche con i colleghi di Milano”, spiega il pm. L’onorevole Pietro Folena (Pds) dichiarò che Nordio stava usando “metodi fascisti”, ma ci fu tensione anche con l’Associazione nazionale magistrati: “Dopo aver scritto diversi articoli e un libro sulla giustizia molto garantisti fui richiamato dai probiviri dell’Anm a rispondere delle mie idee eterodosse”, ricorda il magistrato. “Io li mandai letteralmente al diavolo, dicendo che non mi sarei presentato neanche dipinto. Di fronte a questa mia reazione poi loro non fecero nulla. La vicenda ebbe poi qualche riflesso, perché quando un paio di anni dopo fui promosso consigliere di Cassazione, nel Consiglio superiore della magistratura alcuni rappresentanti di Magistratura Democratica vollero mettere a verbale le loro riserve, unico caso tra oltre cento magistrati. Risposi che per me era un onore avere le riserve da parte di una corrente come Md”. Negli ultimi anni, Nordio ha coordinato le indagini sul Mose, l’ambizioso e costoso progetto di messa in sicurezza della laguna veneziana. Anche qui un’inchiesta gigantesca, che ha finito per coinvolgere oltre cento persone, tra cui il sindaco della città Giorgio Orsoni e l’ex presidente della regione Giancarlo Galan: “Mi dispiace abbandonare ora l’inchiesta – confida Nordio al Foglio – perché avrei voluto partecipare almeno in parte alla requisitoria finale, ma comunque il processo è in ottime mani. Abbiamo concluso le indagini in tempi ragionevoli e già sono stati ottenuti importanti risultati, come moltissimi patteggiamenti, restituzioni di maltolto e irrogazione di alcune pene. Pene forse non adeguate alle aspettative forcaiole di molta opinione pubblica, ma secondo noi congrue, tenendo anche conto del rischio della prescrizione”. “Un altro grande orgoglio – prosegue il pm – è che di tante ore di intercettazioni realizzate nel corso dell’inchiesta, neanche una riga è finita sui giornali, a dimostrazione del fatto che se si vuole mantenere il segreto lo si può fare e soprattutto a conferma che le intercettazioni non possono essere concepite come strumento di prova, ma solo come mezzo di ricerca della prova, come peraltro vorrebbe il codice di procedura penale. Le intercettazioni possono essere uno stimolo alle indagini, ma quando quest’ultime sono fondate solo sulle intercettazioni, come è avvento e continua ad avvenire in molti casi in Italia, sono destinate al fallimento totale”. Ciò che preoccupa, però, è il particolare quadro corruttivo emerso dall’inchiesta sul Mose, talmente esteso da coinvolgere non solo politici e imprenditori, ma anche esponenti di organismi di controllo: “Abbiamo incriminato un generale della Guardia di finanza, magistrati contabili, alta burocrazia – spiega Nordio – Si tratta di una corruzione più capillare e più diffusa, che rispecchia anche la distribuzione del potere di oggi. Vent’anni fa il potere era diviso tra alcuni partiti e gli imprenditori, mentre oggi è molto più distribuito e coinvolge anche gli organi che hanno il potere di interdizione, cioè quello di impedire un’opera, e che devono essere ‘addolciti’ affinché l’opera vada avanti. Questa è la ragione per cui la corruzione non sarà mai vinta in Italia finché non si semplificheranno le procedure e non si elimineranno tutte le leggi inutili che abbiamo e che conferiscono a questi soggetti un potere discrezionale e arbitrario”. Insomma, non piacerà agli indignati di professione e agli oracoli dell’anticorruzione, ma la verità è che per combattere la corruzione nel nostro paese non servono pene più severe, bensì una burocrazia più leggera: “Le leggi penali severe non sono mai servite a prevenire il delitto, ancora meno in Italia dove l’applicazione della pena è molto futura, incerta e platonica – ribadisce il procuratore aggiunto di Venezia – La strategia nei confronti della corruzione non deve essere quella di intimidire il potenziale corrotto, ma di disarmarlo. A me non interessa niente di mandare in galera chi si è fatto corrompere, ma mi interessa togliergli le armi con le quali si fa corrompere. E queste armi sono le leggi: più sono le porte alle quali devi bussare per avere un provvedimento, e più leggi devi invocare per ottenerlo, più è probabile che queste porte restino chiuse e che qualcuno venga a dirti che occorre oliare le serrature per aprirle”. Qual è la soluzione allora? “Il cittadino deve poter bussare a una porta sola, invocando una legge chiara. La parola d’ordine è semplificazione delle procedure e individuazione delle competenze e delle responsabilità. Sotto questo profilo ho trovato disastrosa la legge Severino, che punisce anche chi è concusso per induzione, cioè colui che è indotto con un comportamento concludente a pagare. Questa persona ha tutto l’interesse a tacere, perché se rivela che è stato indotto a pagare la mazzetta finisce a processo anche lui. In teoria non si dovrebbe punire chi dà, ma soltanto chi riceve, perché in questo modo dal punto di vista processuale il corruttore è obbligato a dire la verità, non rischia l’incriminazione”. Impossibile, a questo punto, non evocare l’altra discutibile norma introdotta dalla legge Severino, cioè quella che prevede l’incandidabilità e la decadenza nei confronti di sindaci e consiglieri locali condannati anche solo in primo grado, con buona pace del principio costituzionale di presunzione di innocenza: “Peggio ancora della legge Severino – commenta Nordio – è stata l’interpretazione che ne è stata data nel caso della decadenza di Silvio Berlusconi, perché in quel momento politico l’interpretazione retroattiva della legge è stata fatta in malam partem e ad personam. La decadenza, essendo una sanzione afflittiva, non poteva essere retroattiva e invece è stata resa tale. A quel punto qualcuno ha detto che non era una norma penale, ma questa è una sciocchezza colossale perché anche le norme amministrative afflittive non possono essere retroattive”. Insomma, probabili sorprese in arrivo dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Le vicende giudiziarie che recentemente hanno travolto le giunte comunali a Roma e Milano hanno riportato all’attenzione il tema dello strapotere (soprattutto mediatico) della magistratura nei confronti della politica. Per Nordio si è di fronte alla conferma dell’incapacità della politica di assumersi la responsabilità di difendere il proprio ruolo istituzionale: “Le procure fanno il loro dovere. L’avviso di garanzia e l’iscrizione nel registro degli indagati sono atti dovuti, se poi i politici per farsi la guerra tra di loro strumentalizzano questi istituti che hanno un significato completamente diverso, questo è un affare della politica, non della magistratura. È la politica che deve dire chiaro e tondo che finché una persona non è condannata definitivamente è un presunto innocente. Noto che un po’ di garantismo adesso sta circolando anche tra i Cinque stelle, meglio tardi che mai!”. Ma a proposito dei Cinque stelle, colpisce il sostegno smodato manifestato da molti colleghi magistrati per il progetto politico dei pentastellati. Come spiegarlo? “Il Movimento 5 stelle – risponde Nordio – ha avuto e, nonostante le vicende giudiziarie, continua ad avere successo in virtù della delusione che gli italiani hanno provato nei confronti di tutti i partiti politici. Quando però si arriva alla proposta, il programma politico del M5s può essere definito con le stesse parole che Churchill usò per definire l’Unione Sovietica: ‘Un enigma dentro un indovinello, avvolto in un mistero’. Non so quale sia il programma e non l’ho capito. Meno che mai lo capisco sulla giustizia, e meno che mai comprendo le simpatie di certi miei colleghi per il Movimento. Ma poiché molti miei colleghi hanno dimostrato nel tempo simpatie per le idee più bizzarre, non mi stupisco neanche di questo”. Ma torniamo alle beghe dell’amministrazione della giustizia. Uno dei temi più caldi è costituito dalla responsabilità civile dei magistrati. Le norme sono state riformate nel 2015, ma il sistema giudiziario italiano è lungi dal conoscere un meccanismo sostanziale di valutazione degli errori delle toghe: “L’errore giudiziario è sempre in agguato perché fa parte della natura umana – afferma il pm – Il problema si pone per l’errore grave, cioè quello dovuto a mancanza di professionalità. La strada non dovrebbe essere far pagare con la responsabilità civile, perché a pagare poi è l’assicurazione, come sta avvenendo regolarmente. Il magistrato, invece, dovrebbe essere rimosso o comunque punito sulla carriera”. Negli ultimi anni, il procuratore aggiunto di Venezia si è occupato di un’altra questione sempre più attuale, cioè la lotta al terrorismo islamico. Anche qui in modo controcorrente, Nordio è stato tra i pochi – forse l’unico magistrato – a parlare esplicitamente di “guerra santa”. Parole che conferma al Foglio: “Siamo in una situazione di guerra e la riluttanza ad ammetterlo deriva dal fatto che quando la verità è amara si cerca sempre di evitarla. Il fatto che a Capodanno tutte le città d’Italia siano state protette da autoblinde ha dato ragione a quello che dicevo io. Certamente si tratta di una guerra diversa da quella di settant’anni fa”. Ma il compito di combattere questa guerra, tiene a precisare il pm veneziano, non spetta alla magistratura: “In questa guerra la magistratura non c’entra niente. La guerra la deve fare la politica con le sue responsabilità politiche. La magistratura deve soltanto garantire la legalità delle operazioni antiterroristiche, perché tutto deve essere fatto nel rispetto della legge. Già trentacinque anni fa è stato fatto l’errore di devolvere alla magistratura la lotta al terrorismo, perché la politica non sapeva che pesci prendere”. Insistendo sul rapporto tra politica e magistratura, in conclusione, c’è il rischio di vedere Nordio tra pochi anni candidato in qualche lista elettorale, come spesso avviene tra le ex toghe? “Ho sempre detto che il magistrato non deve fare politica neanche dopo essere andato in pensione – ribadisce Nordio – E soprattutto non devono farlo i magistrati che hanno acquistato notorietà e prestigio da inchieste che hanno colpito personaggi politicamente rilevanti. Ciò sia perché sarebbe estremamente improprio cercare di prendere il posto di coloro che si è indagati, sia perché sarebbe una concorrenza sleale verso gli altri candidati politici, perché approfitteremmo di un prestigio e di una credibilità che abbiamo acquistato facendo il nostro lavoro”. Cosa farà allora l’ex magistrato Nordio? “Con la pensione potrò dedicare interamente il mio tempo alla lettura e alla scrittura, oltre che ai miei hobby sportivi. Vorrei tanto tornare a nuotare e ad andare a cavallo”.

Gli errori della giustizia ci costano 42 milioni di euro. Ma per Davigo i magistrati sbagliano poco (per fortuna). Nel 2016 lo Stato ha dovuto sborsare oltre 40 milioni di euro. La maggior parte a causa di "ingiuste detenzioni", scrive "Il Foglio" l'1 Febbraio 2017. Dice Piercamillo Davigo, presidente della Anm e nuovo eroe della resistenza dei magistrati dagli attacchi della politica: "Il problema della responsabilità civile non esiste, ciò che dà fastidio è la mancanza di un filtro, per cui ciascuno può essere chiamato in giudizio dal suo imputato e se interviene per difendersi non può più fare il processo. Per fortuna i magistrati sbagliano relativamente poco". La frase è solo uno dei passaggi del forum con Davigo organizzato dall'Agi. Meriterebbe una citazione anche il passaggio in cui il magistrato spiega che chi, come lui, indossa la toga, "non dovrebbe mai fare politica. Si getta un'ombra su ciò che si è fatto prima. Di solito i magistrati sono cattivi politici di media non lo sanno fare". Suggerimento sacrosanto che il presidente dell'Anm, di certo, avrà dato anche a Antonio Di Pietro, Gerardo D'Ambrosio e Tiziana Parenti, passati dall'aula del tribunale a quella del parlamento. Ma questa è un'altra storia. Quello che vale la pena analizzare è quel "i magistrati sbagliano relativamente poco". Che andrebbe accompagnato con un bel "per fortuna". Perché basta guardare i dati dei pagamenti effettuati dallo Stato per "riparazioni per ingiusta detenzione ed errori giudiziari" nel 2016, per capire quanto ci costano quei pochi (?) errori.

Nel 2016 i casi sono stati 1001 e per la maggior parte, ovviamente, si tratta di ingiuste detenzioni. Il conto totale è stato di 42.082.096,49 euro. La Corte d'Appello che ha fatto registrate il maggior numero di errori è stata quella di Napoli (145), seguita da Catanzaro (104) e Catania (76). La cifra più alta sborsata riguarda errore giudiziario a Reggio Calabria: 6.567.180,47.

Peggio era andata nel 2015 quando gli errori e le ingiuste detenzioni erano stati 1.188. Il conto, però, era stato meno salato: "solo" 36.987.834 euro. Anche la classifica era stata diversa con Napoli sempre in testa (144) seguita da Roma (106) e Bari (105). La più costosa? La Corte d'Appello di Catanzaro con pagamenti per 5.514.849 euro. Ora prova a immaginare cosa succederebbe se i magistrati sbagliassero "relativamente tanto". 

Anche gli innocenti sono colpevoli. Davigo e il rovescio dello stato di diritto. Anche a "Porta a Porta" il presidente dell’Anm insiste nel dire che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni, e la vittima in questi casi è solo il magistrato, scrive Luciano Capone il 2 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Ascoltare Piercamillo Davigo è sempre istruttivo, soprattutto per la sua spiccata inclinazione alla chiarezza: “Sia il vostro parlare sì, sì; no, no; il di più viene dal maligno”, ama dire citando il Vangelo. L’avevamo lasciato, nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, che teorizzava l’inesistenza dell’errore giudiziario. Nel giorno dell’inaugurazione dell’anno giudiziario, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati (Anm) spiegava in televisione, da Corrado Formigli a “Piazza pulita”, che quando un innocente viene condannato non è colpa dei magistrati: “Il giudice non è presente quando viene commesso il reato, sa le cose che gli raccontano. Se si scopre dopo che un teste ha mentito, non lo può sapere. E’ stato ingannato”. La vera vittima dell’errore giudiziario è quindi il magistrato, fuorviato e ingannato dai testimoni. Ieri sera Davigo, ospite di Bruno Vespa a “Porta a porta” per parlare dei 42 milioni di euro per risarcimenti giudiziari nel 2016 (648 milioni dal ’92), ha allargato il campo della sua visione alle ingiuste detenzioni: come gli errori giudiziari non sono errori, così le ingiuste detenzioni non sono ingiuste (in pratica l’unico errore sembra quello di pagare le vittime). Spiega Davigo che tutti questi risarcimenti a persone incarcerate e poi assolte avvengono perché nel nostro sistema “le prove assunte nelle indagini preliminari di regola non vale nel processo”. C’è questo problema del dibattimento e di dover ripetere le testimonianze rilasciate agli inquirenti davanti a un giudice. Quindi succede che una persona viene arrestata sulla base di prove schiaccianti, come le accuse di tre testi, “dopodiché questi testi magari minacciati dicono che si sono sbagliati. Le loro indicazioni non possono essere più utilizzate. È un innocente messo in carcere – si chiede retoricamente Davigo – o è un colpevole che l’ha fatta franca?”. Ovviamente la seconda, da cui si capisce che gli unici errori giudiziari sono le assoluzioni. Le ingiuste detenzioni sono quindi quelle in cui una persona ha subìto un provvedimento di custodia cautelare e poi è stato assolto, “il che – dice Davigo – non significa che siano tutti innocenti, anzi”. Esiste quindi, per il presidente dell’Anm una presunzione di colpevolezza che va anche oltre l’assoluzione definitiva. A questo punto, più che fare processi per sanzionare i colpevoli di qualche reato, sarebbe più logico processare tutti per rilasciare alla fine patenti d’innocenza (magari temporanee, da rinnovare ogni tot anni). Quando però Vespa racconta casi di malagiustizia come quello di Giuseppe Gulotta, per 36 anni in carcere da innocente con l’accusa di essere un assassino, il presidente dell’Anm dice che non si tratta di un errore dei magistrati perché “quel caso clamoroso è stato frutto di tortura da parte delle forze di polizia. Il giudice non sa che sono stati torturati”. È stato ingannato. La giustificazione di Davigo però in teoria cozzerebbe con la sua intenzione di far valere nel processo le dichiarazioni rilasciate agli inquirenti (in quel caso sarebbero proprio quelle estorte attraverso la tortura, come dice lo stesso Davigo), che è uno strumento per non ingannare il giudice. In sintesi se una persona viene assolta non è innocente e se viene condannata ingiustamente il giudice non è colpevole. Le interviste di Davigo sono molto interessanti perché ci ricordano sempre che esiste il rovescio della medaglia, in questo caso il rovescio dello stato di diritto.

Le post verità di Davigo su giustizia, gogna e velocità dei processi smontate con tre storie anti fake news. Taranto, Torino, Napoli. Vicende di giustizia ingiusta che troveranno poco spazio nella Repubblica dei pm, scrive Claudio Cerasa il 24 Febbraio 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia delle post verità – dove il capo dei magistrati italiani, Piercamillo Davigo, può dire con serenità che nel nostro paese non esiste alcun problema legato alla gogna mediatica, alla lentezza della giustizia, alla produttività dei pm, alla reiterazione degli errori giudiziari, alla sovrapposizione tra magistratura e politica e all’abuso delle intercettazioni telefoniche – capita che ogni tanto le notizie fuffa, le fake veline, debbano fare i conti con i fatti e persino con le notizie vere. In un paese come il nostro, dominato da un’alleanza perversa tra magistratura, politica e opinione pubblica – che ha reso accettabile il fatto che ci siano partiti che si presentano agli elettori con il profilo da portavoce delle procure (il Movimento 5 stelle) e che ha reso ammissibile che ci siano magistrati che usano il consenso costruito nelle procure per arrivare alla guida di importanti istituzioni della Repubblica (Pietro Grasso), di importanti città (Luigi de Magistris), di importanti regioni (oggi Michele Emiliano, domani forse Antonino Di Matteo) e forse un giorno anche di importanti partiti (ancora Michele Emiliano) – è difficile e persino eretico parlare di giustizia ingiusta. Ogni volta che si ricordano i numeri dei disastri della magistratura (negli ultimi venticinque anni sono stati spesi 648 milioni per errori giudiziari e ingiusta detenzione, 42 milioni solo nel 2016, AD, Anno Davigi) si viene accusati di concorso esterno in associazione anti procure e si capisce che è molto più comodo e molto meno rischioso trasformare i giornali in una buca delle lettere per i pm. Eppure, a volte, la cronaca è più forte persino delle Post Piercamillo Verità Davigo. Prima notizia, notizia di ieri. Taranto. Un uomo condannato a ventiquattro anni di carcere per omicidio, dopo aver scontato quasi tutta la sua pena, è stato assolto per non aver commesso il fatto. L’uomo era stato arrestato sulla base (a) di una dichiarazione di un collaboratore di giustizia che sosteneva di aver appreso da altri del presunto coinvolgimento dell’uomo del delitto e (b) di un’intercettazione telefonica che lo avrebbe inchiodato per una frase chiara detta in dialetto al telefono con la moglie sette giorni dopo l’omicidio: “Tengo stu muert”. I magistrati avevano interpretato la frase come se “muert” significasse “il morto”. Ma ad appena vent’anni dall’inizio della detenzione, come direbbe Davigo, giustizia è fatta e gli inquirenti (anche grazie a una serie di interrogazioni parlamentari voluta dai Radicali) hanno scoperto che l’uomo al telefono non disse “muert” ma disse “muers”, che in dialetto pugliese significa solo materiale ingombrante. In un paese normale, la notizia farebbe scalpore e rappresenterebbe un’occasione importante per interrogarsi sui metodi d’indagine dei magistrati italiani, che spesso si accontentano di una dichiarazione de relato o di un mozzicone di intercettazione per sbattere un uomo in galera per vent’anni o per sputtanarlo sulle prime pagine dei giornali. Sappiamo però che questo non accadrà anche perché il capo dei magistrati sostiene che gli errori giudiziari non esistono e che quando esistono non sono colpa dei magistrati: ovviamente, la colpa è sempre di coloro che “imbrogliano i magistrati”. Nulla o quasi si dirà dunque del caso di Taranto, che dovrebbe far riflettere sui tempi della giustizia italiana almeno come il caso del processo di Torino, dove non sono bastati vent’anni per condannare un uomo accusato di aver violentato la figlia della sua compagna nel 1997 – anche qui la colpa naturalmente non è mai della produttività dei magistrati ma è sempre o dei tempi della prescrizione o della mancanza di risorse per lavorare, ed è un peccato che Post Piercamillo Verità Davigo non ricordi un fatto semplice. Ovvero che la magistratura non ha le risorse che meriterebbe anche perché l’aumento del budget della giustizia registrato nell’ultimo decennio è stato assorbito completamente dall’aumento del costo degli stipendi dei giudici a fine carriera, cresciuto negli ultimi quattro anni del 37 per cento, aumento più grande di tutta Europa, come certificato dall’ultimo rapporto per la Commissione per l’efficacia della giustizia dell’Unione europea. Oggi non si parlerà di questo – la colpa dei disastri della casta dei magistrati è sempre colpa della casta della politica, si sa – così come non si parlerà neppure di un altro caso di cronaca che scaldò molto i cuori un anno fa, quando la Direzione distrettuale antimafia di Napoli indagò Stefano Graziano, consigliere regionale e presidente del Pd campano, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Il vice Davigo, Marco Travaglio, dedicò un duro editoriale al caso – “il presidente del partito di Renzi in Campania preferiva la subalternità alla camorra, per la precisione al clan dei Casalesi” – e utilizzò non proprio le stesse guarentigie da vice Rocco Casalino adottate oggi per il dottor Raffaele Marra. Sempre in quei giorni, Roberto Saviano su Repubblica scrisse che la vicenda simboleggiava “la resa del Pd al meccanismo criminale” e sempre in quei giorni, il Movimento 5 stelle condannò “la Gomorra del Pd” e tutta la classe dirigente grillina cercò di dimostrare che un politico del Pd indagato per camorra era il simbolo di un partito colluso con la camorra. Pochi mesi dopo quelle indagini, la Dda di Napoli chiede l’archiviazione per il concorso esterno in associazione mafiosa per Graziano e invia gli atti alla procura di Santa Maria Capua Vetere per valutare gli elementi per l’ipotesi di voto di scambio. Ieri anche questa ipotesi è stata archiviata ma immaginiamo che oggi Travaglio, Di Maio e Saviano abbiano cose più importanti di cui scrivere. Sono tre storie queste – Taranto, Torino, Napoli – che apparentemente non hanno nulla in comune ma che in realtà ci dicono una cosa semplice: che nell’Italia del processo mediatico-giudiziario – un’Italia coccolata dai magistrati politicizzati con le truppe di spalatori di fango quotidiano al seguito – non solo non esiste il garantismo, ma non esiste neppure un’opinione pubblica sufficientemente attrezzata per ricordare ogni giorno che la gogna mediatica, la lentezza della giustizia, la produttività dei pm, le reiterazioni degli errori giudiziari e gli abusi delle intercettazioni sono una verità che forse meriterebbe le prime pagine dei giornali più delle fake news contenute nelle veline delle procure.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

L’invidioso cerca di svalutare l’altro agli occhi del maggior numero possibile di persone, soprattutto di quelle che contano. Appena conoscono qualcuno gli trovano da subito dei difetti: il loro sguardo corre a cercare i limiti, le debolezze e sentono l’esigenza di metterli subito in evidenza, di renderli noti e di provocare il commento negativo degli altri. Solitamente gli invidiosi entrano in azione quando il personaggio da svalutare non è presente, mettendo in moto le “chiacchere da cortile”. (Antonio Giangrande, aforisticamente.com/2018/03/26/frasi-citazioni-aforismi-su-svalutare)

Vuoi scrivere un libro? Leggine cento, scrive il 16 aprile 2018 Paolo Gambi su “Il Giornale”.

“Se scrivo la mia storia vinco il Nobel per la letteratura”.

“Ti racconto il libro che ho in testa, tu lo scrivi e dividiamo gli utili”.

“La mia vita è così incredibile che voglio farne un romanzo da un milione di copie”.

Da quando faccio lo scrittore più o meno ogni giorno vengo approcciato da qualcuno con una frase del genere. La qual cosa mi lusinga molto: ciascuno di noi è un intreccio di parole che si sono fatte carne e pensare di metterle per iscritto, e di chiedere il mio aiuto per farlo, è per me fonte di soddisfazione ed autostima. E contando che ho scritto libri molto diversi che partono dai romanzi e arrivano a biografie di personaggi molto disparati – dal Cardinal Tonini a Raoul Casadei – non trovo strano che ci sia chi mi interpella. Infatti da qualche tempo a questa parte ho deciso di iniziare a costruire una risposta a chi mi pone queste domande. Solo che se poi alle stesse persone che vogliono scrivere un libro chiedo: “qual è l’ultimo libro che hai letto?”, la risposta di solito è qualcosa come:

“Non mi ricordo, alla sera guardo la televisione”.

“È da quando ero alle superiori che non leggo più”.

“Dai valà, non posso mica perdere il mio tempo così”.

Che è un po’ come se qualcuno volesse vincere la medaglia d’oro alle Olimpiadi per i 100 metri stile libero ma si rifiutasse di andare in piscina ad allenarsi. I dati sulla lettura in Italia continuano ad essere impietosi. Sei italiani su dieci, nel 2016, non hanno letto neppure un libro in un anno. Tutti vogliono scrivere. Pochissimi vogliono leggere. Allora, è meraviglioso sognare di diventare la nuova Rowling o scrivere delle nuove sfumature di grigio (possibilmente meno disgustose) impastate con la propria storia. Però se vuoi scrivere un libro inizia a leggerne almeno cento.

Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.

Bisogna studiare.

Bisogna cercare le fonti credibili ed attendibili per poter studiare.

Bisogna studiare oltre la menzogna o l’omissione per poter sapere.

Bisogna sapere il vero e non il falso.

Bisogna non accontentarsi di sapere il falso per esaudire le aspirazioni personali o di carriera, o per accondiscendere o compiacere la famiglia o la società.

Bisogna sapere il vero e conoscere la verità ed affermarla a chi è ignorante o rinfacciarla a chi è in malafede.

Studiate “e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi” (Gesù. Giovanni 8:31, 32).

Studiare la verità rende dotti, saggi e LIBERI!

Non studiare o non studiare la verità rende schiavi, conformi ed omologati.

E ciò ci rende cattivi, invidiosi e vendicativi.

Fa niente se studiare il vero non è un diritto, ma una conquista.

Vincere questa guerra dà un senso alla nostra misera vita.

Dr Antonio Giangrande

Immigrazione/emigrazione. Dimmi dove vai, ti dirò chi sei.

L'immigrato/emigrato italiano o straniero è colui il quale si è trasferito, per costrizione o per convenienza, per vivere in un altro luogo diverso da quello natio.

Soggetti: L’immigrato arriva, l’emigrato parte. La definizione del trasferito la dà colui che vive nel luogo di arriva o di partenza. Chi resta è geloso della sua terra, cultura, usi e costumi. Chi arriva o parte è invidioso degli altri simili. Al ritorno estemporaneo al paese di origine gli emigrati, per propria vanteria, per spirito di rivalsa e per denigrare i conterranei di origine, tesseranno le lodi della nuova cultura, con la litania “si vive meglio là, là è diverso”, senza, però, riproporla al paese di origine, ma riprendendo, invece, le loro vecchie e cattive abitudini. Questi disperati non difendono o propagandano la loro cultura originaria, o gli usi e costumi della terra natia, per il semplice motivo che da ignoranti non li conoscono. Dovrebbero conoscere almeno il sole, il mare, il vento della loro terra natia, ma pare (per soldi) preferiscano i monti, il freddo e la nebbia della terra che li ospita. 

Tempo: il trasferimento può essere temporaneo o permanente. Se permanente le nuove generazioni dei partenti si sentiranno appartenere al paese natio ospitante.

Luoghi di arrivo: città, regioni, nazioni diverse da quelle di origine.

Motivo del trasferimento: economiche (lavoro, alimentari, climatiche ed eventi naturali); religiose; ideologiche; sentimentali; istruzione; devianza.

Economiche: Lavoro (assente o sottopagato), alimentari, climatiche ed eventi naturali (mancanza di cibo dovute a siccità o a disastri naturali (tsunami, alluvioni, terremoti, carestie);

Religiose: impossibilità di praticare il credo religioso (vitto ed alloggio decente garantito);

Ideologiche: impossibilità di praticare il proprio credo politico (vitto ed alloggio decente garantito);

Sentimentali: ricongiungimento con il proprio partner (vitto ed alloggio decente garantito);

Istruzione: frequentare scuole o università o stage per elevare il proprio grado culturale (vitto ed alloggio decente garantito);

Devianza: per sfuggire alla giustizia del paese di origine o per ampliare i propri affari criminali nei paesi di destinazione (vitto ed alloggio decente garantito).

Il trasferimento per lavoro garantito: individuo vincitore di concorso pubblico (dirigente/impiegato pubblico); trasfertista (assegnazione temporanea fuori sede d’impresa); corrispondente (destinazione fuori sede di giornalisti o altri professionisti). Chi si trasferisce con lavoro garantito ha il rispetto della gente locale indotto dal timore e rispetto del ruolo che gli compete, fatta salva ogni sorta di ipocrisia dei locali che maschera il dissenso all’invasione dell’estraneo. Inoltre il lavoro garantito assicura decoroso vitto e alloggio (nonostante il caro vita) e civile atteggiamento dell’immigrato, già adottato nel luogo d’origine e dovuto al grado di scolarizzazione e cultura posseduto.

Il trasferimento per lavoro da cercare in loco di destinazione: individuo nullafacente ed incompetente. Chi si trasferisce per lavoro da cercare in loco di destinazione appartiene ai ceti più infimi della popolazione del paese d’origine, ignari di solidarietà e dignità. Costui non ha niente da perdere e niente da guadagnare nel luogo di origine. Un volta partiva con la valigia di cartone. Non riesce ad inserirsi come tutti gli altri, per mancanza di rapporti adeguati amicali o familistici, nel circuito di conoscenze che danno modo di lavorare. Disperati senza scolarizzazione e competenza lavorativa specifica. Nel luogo di destinazione faranno quello che i locali non vorrebbero più fare (dedicarsi agli anziani, fare i minatori o i manovali, lavorare i campi ed accudire gli animali, fare i lavapiatti nei ristoranti dei conterranei, lavare le scale dei condomini, fare i metronotte o i vigilanti, ecc.). Questo tipo di manovalanza assicura un vergognoso livello di retribuzione e, di conseguenza, un livello sconcio di vitto ed alloggio (quanto guadagnano a stento basta per sostenere le spese), oltre l’assoggettamento agli strali più vili e razzisti della popolazione ospitante, che darà sfogo alla sua vera indole. Anche da parte di chi li usa a scopo politico o ideologico. Questi disperati subiranno tacenti le angherie e saranno costretti ad omologarsi al nuovo stile di vita. Lo faranno per costrizione a timore di essere rispediti al luogo di origine, anche se qualcuno tenta di stabilire la propria discultura in terra straniera anche con la violenza.

Ecco allora è meglio dire: Dimmi come vai, ti dirò chi sei.

Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?

Quel che si rimembra non muore mai. In effetti il fascismo rivive non negli atti di singoli imbecilli, ma quotidianamente nell’evocazione dei comunisti.

Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.

Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.

Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.

Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.

Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.

Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.

Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.

Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.  

Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.

Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono poveri da aiutare, io vedo degli incapaci o degli sfaticati, ma, in specialmodo, vedo persone a cui è impedita la possibilità di emergere dall’indigenza per ragioni ideologiche o di casta o di lobby. 

Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.

Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.

Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.

Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.

Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.

Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).

Se questa è democrazia… 

I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.

I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.

I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.

I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.

Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.

La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria. 

I giornalisti in ogni dove, ormai, esprimono opinioni partigiane del cazzo. In relazione alle elezioni politiche del 4 marzo 2018 alcuni di loro dicono che il movimento 5 stelle ha sfondato al sud con i voti dei nullafacenti per il reddito di cittadinanza: ossia la perpetuazione dell’assistenzialismo. Allora dovrebbe essere vero, anche, che al nord ha stravinto il razzismo della Lega di Salvini, il cui motto era: "Neghèr föra da i ball", ossia immigrati (che hanno preso il posto dei meridionali) tornino a casa loro. La verità è che l’opinione dei giornalisti vale quella degli avventori al bar; con la differenza che i primi sono pagati per dire stronzate, i secondi pagano loro la consumazione durante le loro discussioni ignoranti.

A chi votare?

Nell’era contemporanea non si vota per convinzione. Le ideologie sono morte e non ha senso rivangare le guerre puniche o la carboneria o la partigianeria.

Chi sa, a chi deve votare (per riconoscenza), ci dice che comunque bisogna votare e votare il meno peggio (che implicitamente è sottinteso: il suo candidato!).

A costui si deve rispondere:

Votare a chi non ci rappresenta? Votare a chi ci prende per il culo?

I disonesti parlano di onestà; gli incapaci parlano di capacità; i fannulloni parlano di lavoro; i carnefici parlano di diritti.

Nessuno parla di libertà. Libertà di scegliersi il futuro che si merita. Libertà di essere liberi, se innocenti.

La vergogna è che nessuno parla dei nostri figli a cui hanno tolto ogni speranza di onestà, capacità, lavoro e diritti.

Fanno partecipare i nostri figli forzosamente ed onerosamente a concorsi pubblici ed a Esami di Stato (con il trucco) per il sogno di un lavoro. Concorsi od esami inani o che mai supereranno. Partecipazione a concorsi pubblici al fine di diventare piccoli “Fantozzi” sottopagati ed alle dipendenze di un numero immenso di famelici incapaci cooptati dal potere e sostenuti dalle tasse dei pochi sopravvissuti lavoratori.

Ai nostri figli inibiscono l’esercizio di libere professioni per ingordigia delle lobbies.

Ai nostri figli impediscono l’esercizio delle libere imprese per colpa di una burocrazia ottusa e famelica. Ove ci riuscissero li troncherebbero con l’accusa di mafiosità.

Ai nostri figli impediscono di godere della vita, impedendo la realizzazione dei loro sogni o spezzando le loro visioni, infranti contro un’accusa ingiusta di reato.

E’ innegabile che le nostre scuole e le nostre carceri sono pieni, come sono strapieni i nostri uffici pubblici e giudiziari, che si sostengono sulle disgrazie, mentre sono vuoti i nostri campi e le nostre fabbriche che ci sostentano.

L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. E non sarei mai votato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Si deve tener presente che il voto nullo, bianco o di protesta è conteggiato come voto dato.

Quindi io non voto.

Non voto perché un popolo di coglioni votanti sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Informato da chi mette in onda le proprie opinioni, confrontandole esclusivamente con i propri amici o con i propri nemici. Ignorata rimane ogni voce fuori dal coro.

Se nessuno votasse?

In democrazia, se la maggioranza non vota, ai governanti oppressori ed incapaci sarebbe imposto di chiedersi il perché! Allora sì che si inizierebbe a parlare di libertà. Ne andrebbe della loro testa…

Se questa è democrazia. Questo non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996

Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

quasi tutte le canzoni son di destra

se annoiano son di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po’ di destra

ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate

è da scemi più che di sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po’ di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La patata per natura è di sinistra

spappolata nel purè è di destra

la pisciata in compagnia é di sinistra

il cesso é sempre in fondo a destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po’ di destra

mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione l’ossessione della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera é di destra

la nutella é ancora di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La tangente per natura è di destra

col consenso di chi sta a sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po’ degli anni '20 un po’ romano

è da stronzi oltre che di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

L’ideologia, l’ideologia 

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c’è

se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.

Canticchiar con la chitarra è di sinistra

con il karaoke è di destra

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze é più che mai di destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

Son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è a destra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po’ più di destra

ma un figone resta sempre un’attrazione

che va bene per sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa é nostra

é evidente che la gente é poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Ma cos'é la destra cos'é la sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra

Destra sinistra 

Destra sinistra

Basta!

Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.

E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.

Nuntereggae più

Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè con le canzoni

senza fatti e soluzioni

la castità (NUNTEREGGAEPIU')

la verginità (NUNTEREGGAEPIU')

la sposa in bianco, il maschio forte

i ministri puliti, i buffoni di corte

ladri di polli

super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')

ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori

diete politicizzate

evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')

auto blu

sangue blu

cieli blu

amore blu

rock and blues

NUNTEREGGAEPIU'

Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi (NUNTEREGGAEPIU')

dc dc (NUNTEREGGAEPIU')

pci psi pli pri

dc dc dc dc

Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')

Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli

Susanna Agnelli, Monti, Pirelli

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')

Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')

Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno

Villaggio, Raffa, Guccini

onorevole eccellenza, cavaliere senatore

nobildonna, eminenza, monsignore

vossia, cherie, mon amour

NUNTEREGGAEPIU'

Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')

abbasso e alè

il numero 5 sta in panchina

s'è alzato male stamattina

mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')

il nostro è un partito serio

disponibile al confronto

nella misura in cui

alternativo

aliena ogni compromess

ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

ci sarà la ress

se quest'estate andremo al mare

solo i soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia

dove sei tu? non m'ami più?

dove sei tu? io voglio tu

soltanto tu dove sei tu?

NUNTEREGGAEPIU'

Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')

il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')

il quindici-diciotto

il prosciutto cotto

il quarantotto

il sessantotto

le pitrentotto

sulla spiaggia di Capocotta

(Cartier Cardin Gucci)

Portobello e illusioni

lotteria trecento milioni

mentre il popolo si gratta

a dama c'è chi fa la patta

a settemezzo c'ho la matta

mentre vedo tanta gente

che non c'ha l'acqua corrente

non c'ha niente

ma chi me sente

ma chi me sente

e allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

ci giurerei

sei meglio tu

che bella sei

che bella sei

NUNTEREGGAEPIU'

L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.

Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.

La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.

Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.

Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.

L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.

Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.

Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.

Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.

Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.

Erano dei Ladri!!!

Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Sono dei ladri!!!

Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?

Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.

Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.

Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!

Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza. 

Una vita senza libertà è una vita di merda…

Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.

Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.

La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.

È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.

Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.

Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.

In Italia, purtroppo, vigono due leggi.

La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.

La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».

Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.

Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.

Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.

L'ITALIA ED IL DNA DEGLI ITALIANI.

La bella Italia di Aban feat. Marracash & Gue Pequeno

Ehi, è la mia nazione, niente cambia qua,

Marra, Guè Pequeno, vi porto a fare un giro nella Bella Italia

E dovrei leggere il giornale e guardare il tg, in tv,

per accorgermi che stato e mafia sono intimi,

Dogo Gang, lo sanno già tutti,

Southfam, lo sanno già tutti,

il peggio è che lo sanno già tutti.

Vengo al mondo con il piombo nel '79

con il cielo rosso sangue sopra la nazione

l'anno prima della bomba dentro la stazione

il Paese inginocchiato ai piedi del terrore

l'ambientazione non cambia quando passiamo agli '80

quando è lo stato assassino, sai non esiste condanna

basta una botta di pala per insabbiare la trama

e tutti morti ammazzati dentro le stragi in Italia

poi la nuova alleanza tra politica e mala

la faccia buona e pulita, la mano armata e insanguinata

i pilastri di cemento con i cristiani dentro

l'acido e le vasche, e il primo pentimento

sono gli anni dei maxi processi, la verità viene a galla

lo stato primo assassino, strinse la mano alla mala,

e se volevi lavorare dovevi pagare

l'impiegato, il sindaco, l'appalto comunale.

I nuovi clan del 90 sotto il nome d'azienda

i soldi sporchi riciclati dalle banche di Berna

la politica assassina che soffoca i cittadini

e ruba dallo stipendio per finanziare i partiti

i loro vizi esauditi col sangue degli operai

e i soldi delle pensioni che non bastano mai

12 teste al mese per ogni parlamentare

e 8000 euro all'anno per la fascia popolare

l'onorevole a puttane, l'ha detto il telegiornale

bamba pura di Colombia per l'alto parlamentare

tra i banchi di tribunale c'è chi ha rubato per fame

una vita di lavoro e 5 bocche da sfamare

ma la legge della Bella Italia valuta il prefisso

che davanti al nome è presidente o ministro

e non conta il reato, il verdetto è fisso,

non va dentro Barabba, sconta il povero Cristo.

Non c'è il diavolo contro l'angelo che consiglia

L'alternativa per me è il diavolo o la scimmia

in testa ho merda, fogli in fretta, potere, droga e tette

come in Quirinale, il criminale che non si dimette

ho l'oro bianco al collo frà, ed è gelido come il mio cuore

devo inventarmi soldi, voi vi inventate storie

l'uomo di successo qui è il balordo legalizzato

(???) ci ha promesso che lui non si è mai drogato

la mafia e la politica frà andranno sempre insieme,

come al cesso mano nella mano le due amiche sceme

ed è per questo che molta della mia gente, no, non vota

nella merda frà ci nuota, mentre in tele svolta un altro idiota

questa è la Bella Italia, tira una bella raglia

faccia da galera del magnaccia sul Carrera

scorda i problemi, sogna il montepremi

il frà sul lastrico progetta fuga nel Sud-Est Asiatico.

In Italia di Fabri Fibra feat. Gianna Nannini.

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Pistole in macchine in Italia

Machiavelli e Foscolo in Italia

I campioni del mondo sono in Italia

Benvenuto in Italia

Fatti una vacanza al mare in Italia

Meglio non farsi operare in Italia

Non andare all'ospedale in Italia

La bella vita in Italia

Le grandi serate e i gala in Italia

Fai affari con la mala in Italia

Il vicino che ti spara in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

I veri mafiosi sono in Italia

I più pericolosi sono in Italia

Le ragazze nella strada in Italia

Mangi pasta fatta in casa in Italia

Poi ti entrano i ladri in casa in Italia

Non trovi un lavoro fisso in Italia

Ma baci il crocifisso in Italia

I monumenti in Italia

Le chiese con i dipinti in Italia

Gente con dei sentimenti in Italia

La campagna e i rapimenti in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi? In Italia

Le ragazze corteggiate in Italia

Le donne fotografate in Italia

Le modelle ricattate in Italia

Impara l'arte in Italia

Gente che legge le carte in Italia

Assassini mai scoperti in Italia

Volti persi e voti certi in Italia

Ci sono cose che nessuno ti dirà…

Ci sono cose che nessuno ti darà…

Sei nato e morto qua

Sei nato e morto qua

Nato nel paese delle mezza verità

Dove fuggi…

Dove fuggi...

La terra dei cachi di Elio e le Storie Tese

Parcheggi abusivi, applausi abusivi, villette abusive, abusi sessuali abusivi;

tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati, motorini truccati che scippano donne truccate;

il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo, una lacrima sul visto:

Italia sì Italia no Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

c'è un commando che ci aspetta per assassinarci un po'.

Commando sì commando no, commando omicida.

Commando pam commando papapapapam, ma se c'è la partita

il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

sventolando il bandierone non più sangue scorrerà;

infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì primario dai, primario fantasma,

io fantasma non sarò e al tuo plasma dico no.

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò

"fi fi fi fi fi fi fi fi ti devo una pinza, fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze. Viva il crogiuolo di panze.

Quanti problemi irrisolti ma un cuore grande così.

Italia sì Italia no Italia gnamme, se famo du spaghi.

Italia sob Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo; un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifì' fufafifì' Italia evviva.

Italia perfetta, perepepè' nanananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo:

in totale molto pizzo, ma l ' Italia non ci sta.

Italia sì Italia no, Italia sì

uè, Italia no, uè uè uè uè uè.

Perché la terra dei cachi è la terra dei cachi. No

L'italiano medio degli Articolo 31

Io mi ricordo collette di Natale

Campi di grano ai lati della provinciale

Il tragico Fantozzi, la satira sociale

Oggi cerco Luttazzi e

Non lo trovo sul canale

Comunque sono un bravo cittadino

Ho aggiornato suonerie del telefonino

E un bicchiere di vino con un panino

Provo felicità se Costanzo fa il trenino

Ho un santino in salotto

Lo prego così vinco all'enalotto

Ho Gerry Scotti col risotto ma è scotto

Che mi fa diventare milionario come Silvio

Col giornale di Paolo e tanta fede in Emilio

Quest'anno ho avuto fame ma per due settimane

Ho fatto il ricco a Porto Cervo. Che bello!

Però ricordo collette di Natale

Campi di grano ora il grano è da buttare

M'importa poco oggi io vado al centro commerciale

E il mio problema è solo dove parcheggiare

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Io sono un bravo cittadino onesto

Bevo al mattino un bel caffè corretto

Dopo cena il limoncello in vacanza la tequila

La Gazzetta d'inverno e d'estate novella 2000

Che bella la vita di una stella

marina o Martina o quella della velina

La mora o la bionda è buona e rotonda

Finchè la barca va finchè la barca affonda

E intanto sto perdendo sulla patente il punto

E un auto blu mi sfreccia accanto

Che incanto

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

Ma spero che un sogno così non ritorni mai più

Mi voglio svegliare, mai più

Ti voglio fare vedere

Che sono proprio un bravo cittadino

Ho il portafoglio di Valentino

E l'importante è quello che ci metto dentro

Vado con il vento a sinistra a destra

Sabato in centro fino a consumare le suole

Ballo canzoni spagnole così non mi sforzo

A seguire le parole e penso a fare l'amore

Alla villa di Briatore alla nonna senza

Ascensore alla donna del calciatore

A qual è il male minore, l'onore, sua eccellenza

Monsignore ancora baciamo la mano

Che del miracolo italiano

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

E datemi Fiorello e Panariello alla tv

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di blu

Ohoo Ohoo

Ma a me non me ne frega tanto

Ohoo Ohoo

Io sono un italiano e canto

Non togliermi il pallone e non ti disturbo più

Sono l'italiano medio nel blu dipinto di bluuuuu

Ohoo

C'era una volta

E non solo una

Un re che amava così tanto i vestiti nuovi

che spendeva in essi tutto quello che aveva

Possedeva un abito diverso per ogni ora della giornata

Niente importava per lui

Eccetto i suoi vestiti

Eppure non trovava soddisfazione

Il sarto era sull'orlo della disperazione

Disse al re di avere inventato un nuovo tessuto

Che cambiava colore e forma ad ogni momento

Ma rivelava anche coloro che erano stolti, ignoranti e stupidi

A loro il tessuto sarebbe stato invisibile

E pensate, e pensate

Quelli Che Benpensano di Frankie HI-NRG MC

Sono intorno a noi, in mezzo a noi, in molti casi siamo noi

A far promesse senza mantenerle mai se non per calcolo

Il fine è solo l'utile, il mezzo ogni possibile

La posta in gioco è massima, l'imperativo è vincere

E non far partecipare nessun altro

Nella logica del gioco la sola regola è esser scaltro

Niente scrupoli o rispetto verso I propri simili

Perché gli ultimi saranno gli ultimi se I primi sono irraggiungibili

Sono tanti, arroganti coi più deboli,

zerbini coi potenti, sono replicanti,

Sono tutti identici, guardali,

stanno dietro a maschere e non li puoi distinguere.

Come lucertole s'arrampicano,

e se poi perdon la coda la ricomprano.

Fanno quel che vogliono si sappia in giro fanno

spendono, spandono e sono quel che hanno

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

e come le supposte abitano in blisters full-optional,

Con cani oltre I 120 decibel e nani manco fosse Disneyland,

Vivono col timore di poter sembrare poveri

Quel che hanno ostentano, tutto il resto invidiano, poi lo comprano,

In costante escalation col vicino costruiscono

Parton dal pratino e vanno fino in cielo,

han più parabole sul tetto che S.Marco nel Vangelo..

Sono quelli che di sabato lavano automobili

che alla sera sfrecciano tra l'asfalto e I pargoli,

Medi come I ceti cui appartengono,

terra-terra come I missili cui assomigliano.

Tiratissimi, s'infarinano, s'alcolizzano

e poi s'impastano su un albero

Nasi bianchi come Fruit of the Loom

che diventano più rossi d'un livello di Doom

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Ognun per se, Dio per se, mani che si stringono tra I banchi delle chiese alla domenica

mani ipocrite, mani che fan cose che non si raccontano

Altrimenti le altre mani chissà cosa pensano, si scandalizzano

Mani che poi firman petizioni per lo sgombero,

Mani lisce come olio di ricino,

Mani che brandisco Manganelli, che Farciscono Gioielli,

che si alzano alle spalle dei Fratelli.

Quelli che la notte non si può girare più,

quelli che vanno a mignotte mentre i figli guardan La TV,

Che fanno I boss, che compra Class,

che son sofisticati da chiamare I NAS, incubi di Plastica

Che vorrebbero dar fuoco ad ogni zingara

Ma l'unica che accendono è quella che da loro l'elemosina ogni sera,

Quando mi nascondo sulla faccia oscura della loro luna nera

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sono intorno a me, ma non parlano con me.

Sono come me, ma si sentono meglio

Sabbie Mobili di Marracash

Non agitarti

Resta immobile

Non agitarti

Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda Nelle sabbie mobili

Si perde Nelle sabbie mobili

Penso spesso che potrei farlo

Andare via di punto in bianco

Così altra città. Altro Stato

Potrei se avessi il coraggio

Ho un orizzonte limitato

E' follia stare qua nel miraggio

Che basti essere capaci

Quanti ne ho visti scavalcarmi

Rampolli Rapaci. Raccomandati

Quanti ne ho visti fare viaggi

E dopo non tornare

Restare. Spaccare. Affermarsi

Qui non c'è il mito di chi si è fatto da solo

Perché chi si è fatto da solo di solito è corrotto

Se sei un ragazzo ambizioso

In un sistema corrotto

Non puoi fare il botto

E non uscirne più sporco

Nessuno lascia le poltrone

Niente si muove

Nessuno osa e nessuno dà un occasione

Impantanati in queste sabbie mobili

Si muore comodi

Lo Stato spreca i migliori uomini

Non agitarti. Resta immobile.

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che Affonda

Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Parto dal principio

Io della scuola ricordo un ficus

Cioè la pianta che aveva il preside in ufficio

Vale più un mio testo letto in diretta da Linus

Il paese ha un virus

Una paralisi da ictus

Come prima più di prima

Madonna potrebbe essere mia nonna

A 50 anni è ancora a pecorina

E' il nulla

Come la storia infinita

Come la mummia

Che si sveglia e torna in vita

Puzza di muffa

The beautiful people

The beautiful people

La bella gente pratica il cannibalismo

Sa di già visto

Come un film di cui capisci la fine

Già dall'inizio

I vecchi stanno al potere

Non vanno all'ospizio

E se MTV sta per music television

Vorremmo più video e meno reality e fiction

Sono pesante apposta come chi fa sumo

Tu fai musica che piace a tanti

E non fa impazzire nessuno

Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare ogni cosa che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Niente di nuovo. Niente di che

Quel rapper che ti piace

Non dice niente di sé

Solo cliché

Attacca il premier

Come se quando cadrà il premier

Vincerà il bene

Se non ci fosse di che parlerebbe

Chi comanda è lì da sempre

E non si elegge con il voto

E prende decisioni senza cuore e senza quorum

E se tornassi indietro io lo rifarei

Il mio incubo era fare la vita dei miei

Sì quella vita strizzata in otto ore

Compressa. La sera sei stanco e c'hai mal di testa

Compressa. Fuori onda il direttore dice che ho ragione

Ma non ci crede

Come chi brinda

Ma poi non beve

Non prendere la bufala

Che tanto non è bufala

E' una bufala

Hai una chance di andartene frà. Usala

Se riesci sei un genio

Se fallisci sei uno zero

Se fai quello che fanno gli altri

Rischi di meno

Quindi. Non agitarti. Resta immobile

Puoi metterci anni

E guardare il paese che

Affonda. Nelle sabbie mobili

Si perde. Nelle sabbie mobili

Io Non Mi Sento Italiano di Giorgio Gaber

Parlato: Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Non è per colpa mia

Ma questa nostra Patria

Non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

Che sia una bella idea

Ma temo che diventi

Una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

Non sento un gran bisogno

Dell'inno nazionale

Di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

Non voglio giudicare

I nostri non lo sanno

O hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Se arrivo all'impudenza

Di dire che non sento

Alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

E altri eroi gloriosi

Non vedo alcun motivo

Per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

Ma ho in mente il fanatismo

Delle camicie nere

Al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

Questa democrazia

Che a farle i complimenti

Ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Pieno di poesia

Ha tante pretese

Ma nel nostro mondo occidentale

È la periferia.

Mi scusi Presidente

Ma questo nostro Stato

Che voi rappresentate

Mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

Agli occhi della gente

Che tutto è calcolato

E non funziona niente.

Sarà che gli italiani

Per lunga tradizione

Son troppo appassionati

Di ogni discussione.

Persino in parlamento

C'è un'aria incandescente

Si scannano su tutto

E poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

Dovete convenire

Che i limiti che abbiamo

Ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

Noi siamo quel che siamo

E abbiamo anche un passato

Che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

Ma forse noi italiani

Per gli altri siamo solo

Spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

Son fiero e me ne vanto

Gli sbatto sulla faccia

Cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

Forse è poco saggio

Ha le idee confuse

Ma se fossi nato in altri luoghi

Poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

Ormai ne ho dette tante

C'è un'altra osservazione

Che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

Noi ci crediamo meno

Ma forse abbiam capito

Che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

Lo so che non gioite

Se il grido "Italia, Italia"

C'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

O forse un po' per celia

Abbiam fatto l'Europa

Facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

Ma per fortuna o purtroppo

Per fortuna o purtroppo

Per fortuna. Per fortuna lo sono.

Mamma L'Italiani di Après La Classe

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Rivoluzione di Renato Zero

Protesterai

ogni tregua è finita oramai

dalla sabbia la testa alzerai

dritto al cuore colpirai.

Libererai

quello che soffocavi in te

la tua voce è più forte se vuoi

del silenzio e l'omertà

C'è una guerra giusta e devi farla tu

è la tua risposta a chi non chiede più

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

su la testa adesso tocca te

Ti accorgerai

che il nemico è nascosto tra noi

che il futuro non viene da sé

e ogni brivido ha un suo perché

E sentirai

che resistere è pura follia

ci sarà poi chi ride di te

ma è soltanto paura la sua

Perché niente al mondo viene come vuoi

Perché tutto al mondo ha un prezzo d'ora in poi

Rivoluzione è la promessa che mi fai

di calci e sputi non avere mai paura

Non posso andare sempre avanti io

ho già dato e adesso tocca te

Politica assente famiglia vacante

quaggiù si congeda anche Dio

Se la corda si spezza s'incendia la piazza

E ritorno a lottare con te!

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione è il grido che solleverai

e devi metterci la faccia finché puoi

perché ho pagato il conto ai tuoi caffè

fuori il cuore adesso tocca te

Rivoluzione! Rivoluzione.

Rivoluzione di Frankie hi-nrg mc

In Italia c'è lavoro in qualche punto nero – capita:

ogni volo che finisce sotto a un telo irrita, noi che

qui pure Peppone sa il Vangelo e lo agita, un po' si

esagita, dopo un po' si sventola: senti un po' che

caldo fa… Afa tutto l'anno – più brevemente

“affanno” – non sanno a quale conclusione non

Approderanno. Noi l'Italia siamo e non la stiam

Rappresentando: ciurma! Ai posti di comando!

Mettiamo al bando i vertici politici con tutti i loro

Complici, amici degli amici di chi ha svuotato i

Conti: incassano tangenti celandosi le fonti e han

Cappucci e cornetti sulle fronti.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

Troppi furbetti nel nostro quartierino e tutti ci

intercettano con il telefonino, ci piazzano vallette

nude sopra allo zerbino e paparazzi sui terrazzi del

vicino: ragazzi che casino! Senza via di

scampo, chiusi dentro al plastico di quel villino ci è

venuto un crampo, siamo titolari confinati a bordo

campo, ci fan pagare l'acqua più salata dello

shampoo. Boh? Magari mi sbaglio, ma vedo tutti

quanti allo sbaraglio, meglio darci un taglio… Figli

mai usciti dal travaglio: qui da masticare non ci

resta che il bavaglio.

Qui si fa la rivoluzione senza alcuna distinzione,

sesso, razza o religione: tutti pronti per l'azione.

L'Italia, non lo sai, ha problemi araldici: i baroni

sono pochi e han troppi conti per dei medici. Poi

ha problemi etici, politici, geografici, geologici, ma

i peggio restan quelli genealogici… Visto che la

base del sistema è la clientela e siamo separati

da 6 gradi sì, ma di parentela, maglie di una

ragnatela a forma di stivale, tutti collegati in linea

collaterale come un'unica famiglia in un immenso

psicodramma: sta bravo che altrimenti piange

mamma. Cambio di programma: annulliamo la

rivolta. Abbiamo una famiglia e non dev'essere

coinvolta…

Non si fa la rivoluzione, l'hanno detto in

Televisione… chi c'è andato che delusione! Era

chiuso anche il portone.

"Chi comanda il mondo?" di Povia

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

C’è una dittatura di illusionisti finti

economisti equilibristi

terroristi padroni del mondo peggio dei nazisti

che hanno forgiato altrettanti tristi arrivisti stacanovisti

gli illusionisti, che ci hanno illuso con le parole libertà e democrazia

fino a portarci all’apatia

creando nella massa, una massa grassa di armi di divisione di massa

media, oggetti, nomi, colori, simboli

la pensiamo uguale ma siamo divisi noi singoli

dormiamo bene sotto le coperte

siamo servi di queste sorridenti merde

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, dice sempre che va tutto bene

La libertà e la lotta contro l’ingiustizia

non sono né di destra né di sinistra

la musica può arrivare nell’essenziale

dove non arrivano le parole da sole

gli illusionisti ci hanno incastrati firmando i trattati

da Maastricht a Lisbona

siamo tutti indignati perché questi trattati

annullano ogni costituzione

quì bisogna dare un bel colpo di scopa

e spazzare via ogni stato da quest’Europa

se ogni stato uscisse dall’Euro davvero

magari ogni debito andrebbe a zero

perché per tutti c’è un punto d’arrivo

nessuno lascerà questo mondo da vivo

vogliamo una terra sana, sana

meglio una moneta sovrana (che una moneta puttana)

Fate la nanna bambini, verranno tempi migliori

Fate la nanna bambini e disegnate i colori

Fate la nanna che la mamma, vi cullerà sui suoi seni

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Ma un giorno un bambino di questi si sveglierà

e l’uomo più forte del mondo diventerà

portando in alto l’amore

Chi comanda il mondo, c’è una dittatura, c’è una dittatura

Chi comanda il mondo, non puoi immaginare quanto fa paura

Chi comanda il mondo, oltre che il potere vuole il tuo dolore

e dovrai soffrire, e sarai costretto ad obbedire

Chi comanda il mondo, voglia di sapere, voglia di capire

Chi comanda il mondo, sotto questo cielo che ci può sentire

e chi ha creato il mondo, Torre di Babele, Torre di Babele

chi ha creato il mondo, messo sulla croce in Israele

Fate la nanna bambini volati nei cieli

Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.  

«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».

Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?

«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».

Cosa racconta nei suoi libri?

«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».

Qual è la reazione del pubblico?

«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».

Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?

«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».

Qual è la sua missione?

«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché è orgoglioso di essere diverso?

«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».

Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.

La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.

La Democrazia non è la Libertà.

La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.

La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.

Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.

Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.

"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI

Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.

Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.

Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.

Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.

Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.

Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.

Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?

"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)

«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.

Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!

Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.

Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013. 

Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.

Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...

Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa". 

Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.

La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.

Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.

Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.

Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.

Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.

Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.

Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.

Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.

E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.

Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.

E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.

Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.

Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.

Ergo. Ai miei figli ho insegnato:

Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;

Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;

Le banche vi vogliono falliti;

La burocrazia vi vuole sottomessi;

La giustizia vi vuole prigionieri;

Siete nati originali…non morite fotocopia.

Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere. 

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

Lettera ad un amico che ha tentato la morte.

Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.

Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.

Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza. 

Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.

Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.

Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.

Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.

Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.

La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!

Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.

Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.

Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.

Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.

Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.

Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.

Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.

Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.

Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.

Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.

Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.

Volere è potere.

E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.

Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!

Non si deve riporre in me speranze mal riposte.

Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?

Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.

Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.

E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.

Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.

Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.

Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.

La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.

Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.

Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.

Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.

Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo? 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.

Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.

Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.

Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.

Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite. 

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.

Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba

Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.

Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.

CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”. 

IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier. 

LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”. 

IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”. 

LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.

Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.

Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?

Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.

E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.

Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.

Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.

A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.

I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".

(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).

Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.

Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.

Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.

Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.

Quando ritardano anni una sentenza.

Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.

Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.

Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.

Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.

Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.

Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.

Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.

Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.

Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.

Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.

Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.

Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.

Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.

Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.

Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.

Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.

Quando si inventano i reati per finire sui giornali.

Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.

Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.

Quando indagano sui politici per ideologia.

Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.

Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.

Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.

Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.

Quando non indagano sui colleghi che delinquono.

Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.

Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.

Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.

Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.

Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.

Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.

Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.

Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.

Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.

Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.

Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.

Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.

A proposito di interdittive prefettizie.

Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.

Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.

Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.

La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.

A proposito di sequestri preventivi giudiziari.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.

 Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.

Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio".  I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?

Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.

PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.

Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.

UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.

L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.

LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.

Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.

Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?

Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.

Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.

Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.

Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.

Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.

Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.

"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.

La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.

L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.

LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.

LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.

I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.

IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa

L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.

La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.

Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.

Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.

Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.

Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.

Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.

Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.

I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?

La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.

La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.

Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”

I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)

 “L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.

La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)

Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.

Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.

È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt

Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.

"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta". 

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?

Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.

Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."

Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.

Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.

I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.

Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.

L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.

Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.

La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.

Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.

Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.

Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.

Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.

Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.

Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio".  Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».

Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).

Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.

Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.

Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.

I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.

«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.

Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.

E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.

La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.

Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.

Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.

L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.

Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.

E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”

Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.

Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.

Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.

Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.

Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.

In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…

Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.

Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.

«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.

«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".

Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.

Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.

Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.

I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.

Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso.  Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.

Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.

Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.

La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.

Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.

In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.

Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.

In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.

RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".

I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".

IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.

Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.

Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.

Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).

Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.

E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.

E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.

E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.

Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.

Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...

Quindi, viva il referendum…secessionista 

A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».

Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.

Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.

Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.

“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.

“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.

In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.

L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.

Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.

In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.

L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron. 

Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.

“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.

Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?

«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.

«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato.  Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».

Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?

«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».

E sull’indifferenza…

«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”

E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?

“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.

"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".

Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...

"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»

Come commenta...

«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».

Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.

«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».

Concludendo?

«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti»

L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.

Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.

Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.

Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.

DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".

Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.

«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.

I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:

Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);

Troppi pubblicisti;

Troppa informazione web;

Troppi italiani non leggono.

La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici.  Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.

FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.

Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.

Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.

Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».

Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.

Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana. 

“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:

·      Il certificato di nascita

·      Il codice fiscale

·      La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).

Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?

Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?

Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità». 

COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti». 

POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata». 

“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto.  2. Applica con rigore il mansionario.  3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti.  5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate.  6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio.  7. Non regalare mai un minuto.  8. Otto, undici, tredici, quindici.  9. Vai in ferie a giugno o a settembre.  10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.

La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.

N QUESTO MONDO DI LADRI.

In Questo Mondo Di Ladri di Antonello Venditti.

Eh, in questo mondo di ladri

C' ancora un gruppo di amici

Che non si arrendono mai.

Eh, in questo mondo di santi

Il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Non siamo molto importanti

Ma puoi venire con noi.

Eh, in questo mondo di debiti

Viviamo solo di scandali

E ci sposiamo le vergini.

Eh, e disprezziamo i politici,

E ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo,

Piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi.

Voi, vi divertite con noi

E vi rubate tra voi.

In questo mondo di ladri,

In questo mondo di eroi,

Voi siete molto importanti

Ma questa festa per noi.

Eh, ma questo mondo di santi

Se il nostro cuore rapito

Da mille profeti e da quattro cantanti.

Noi, noi stiamo bene tra noi

E ci fidiamo di noi.

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri...

In questo mondo... in questo mondo di ladri... 

Aspiranti avvocati, esame-lotteria in locali pericolanti. 4717 i partecipanti a Napoli. Criteri di correzione poco chiari, che portano ad un 20% di promossi tra i concorrenti a Fuorigrotta, nonostante la scuola napoletana sia tra le più rinomate. Probabile la presenza di un inviato de Le Iene, scrive Giovanni Palma su “Meridiano News” il  18 Dicembre 2015. Come tutti gli anni, alle soglie delle festività natalizie, presso la Mostra d’oltremare si sono tenuti gli esami per l’abilitazione all’esercizio della professione di avvocato; ben 4.717 aspiranti legali, provenienti da gran parte della Campania, per tre giorni a partire da martedì, si sono riversati presso i locali di piazzale Tecchio sin dalle prime luci dell’alba, per sostenere tre diverse prove nelle materie forensi. Dalle prime impressioni, la maggior parte dei candidati avrebbe risolto, senza particolare affanno le, seppur impegnative, tracce d’esame. Gli esaminandi, tuttavia, lamentano le pessime condizioni in cui si sono svolte le prove, rese difficoltose sotto il profilo fisico prima che mentale: difatti riferiscono di lunghe file per l’accesso ai varchi, anche agli ingressi riservati ai portatori di disabilità; inoltre i candidati descrivono code interminabili per l’utilizzo dei pochi servizi igienici presenti e del pessimo stato di funzionamento ed igiene degli stessi, nonché delle bassissime temperature dei locali, apparsi in generale non idonei a garantire un livello di accoglienza adeguato ad una prova così delicata ed importante, fra polvere di intonaco in caduta e sistemi di areazione non funzionanti, oltre che pericolanti, al punto da rendere necessario l’intervento dei vigili del fuoco per verificare lo stato di una tubazione aerea, il tutto condito dalla voce circolata nei padiglioni (non ancora confermata) della presenza di un inviato della trasmissione “Le Iene” infiltratosi fra i candidati. Tuttavia le doglianze principali riguardano la fase di correzione degli elaborati, che per i candidati napoletani viene svolta, ad anni alterni, dalle commissioni di Milano Roma. La percentuale di promossi negli ultimi anni rasenta il 20%, circostanza strana considerato che la media nazionale è nettamente più elevata e soprattutto tenendo conto che la scuola forense Napoletana è, da sempre, considerata fra le più prestigiose del mondo. I futuri avvocati riferiscono di criteri di correzione incomprensibili e poco chiari, fra bocciature assurde e valutazioni differenti per compiti dal contenuto del tutto similare accompagnate della totale assenza di motivazioni, al punto da far sorgere il dubbio che la discriminante fra chi sarà avvocato e chi dovrà affrontare nuovamente le tre prove d’esame consista in un mero colpo di fortuna. E così, ognuno dei 4717 aspiranti avvocati, dovrà attendere i mesi estivi per sapere se quest’anno “la fortuna” gli avrà sorriso oppure se dovrà nuovamente partecipare alla lotteria natalizia di Fuorigrotta, sperando in miglior sorte.

Sanità, bocciati dal «quizzone» ma i manager vengono ripescati. I rottamati dal presidente Maroni rientrano come direttori sociosanitari. Al Pirellone la riunione dei nuovi dirigenti: tornano i «generali» dell’era Formigoni, scrive di Simona Ravizza l'8 gennaio 2016 su “Il Corriere della Sera”. Fuori dalla porta, dentro dalla finestra. Alle 15 nell’aula Biagi di Palazzo Lombardia saranno in molti a riconoscersi. Anche tra la vecchia guardia. La riunione è convocata per i manager ospedalieri, nominati sotto Natale al motto: «Meno politica nella Sanità». Ma all’incontro saranno presenti anche gli esclusi eccellenti. Loro, i bocciati al quizzone utilizzato per la prima volta dalla Regione per selezionare gli uomini che devono fare funzionare i nostri ospedali. Eliminati dalla prima linea, i generali dell’epoca di Roberto Formigoni ricompaiono in seconda fila. Sempre in pista. Comunque. Non tutti, ma numerosi. E l’interrogativo che si pone adesso è uno: sul ripescaggio ha prevalso la capacità di figure che per anni sono state in grado di offrire buone cure e mantenere i conti degli ospedali in ordine oppure alla fine hanno contato le solite logiche politiche? Il dubbio è legittimo visto che la lottizzazione per decenni ha governato la Sanità. E il sistema degli amici degli amici è duro a morire. Ancora negli ultimi giorni i vertici dell’assessorato hanno telefonato ai supermanager degli ospedali per ribadire il messaggio del governatore Roberto Maroni: «Se d’ora in avanti si farà vivo qualche politico non fatevi condizionare. E siate autonomi nelle scelte, a partire dalla composizione della vostra squadra (i direttori generali devono scegliere i direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari, ndr)». Ma l’invito è stato raccolto solo in parte. Gli elenchi con i nomi dei direttori sanitari, amministrativi e sociosanitari appena scelti sono infarciti di bocciati eccellenti. Armando Gozzini, già medico sociale del Milan e assessore di Forza Italia al Comune di Segrate, ha dovuto rinunciare alla poltrona da direttore generale dell’ospedale di Busto Arsizio (dove comunque aveva dato buona prova delle sue capacità), per sedersi su quella da direttore sociosanitario dell’azienda ospedaliera di Pavia. Angelo Cordone, un pezzo da novanta nel Pavese del Faraone Giancarlo Abelli, è il nuovo direttore sociosanitario dell’ortopedico Pini-Cto. Roberto Bollina, sempre in quota Forza Italia, è stato defenestrato da direttore generale dell’Asl di Como, ma rientra come direttore sanitario di Garbagnate. Ermenegildo Maltagliati, uomo vicino alla Lega, passa dai vertici dell’ospedale di Garbagnate alla direzione sanitaria di Vimercate. Enzo Brusini, altro manager in quota Lega, ha lasciato la spinosissima guida del San Paolo per diventare direttore sociosanitario a Busto Arsizio-Gallarate. Stesso partito per Simona Bettelini, altro riciclo: dal San Gerardo di Monza passa alla direzione sanitaria dell’Asl Mantova-Cremona (trasformata dalla riforma in Agenzia per la tutela della Salute, Ats; così come gli ospedali sono diventati Aziende sociosanitarie territoriali, Asst). In base alla situazione attuale, i ripescaggi ufficiali sono tre a testa, divisi tra Forza Italia e Lega. Per ora gli esclusi eccellenti che non risultano ricollocati sono Giorgio Scivoletto, indagato nell’inchiesta che ha portato in carcere l’ex assessore Mario Mantovani; Daniela Troiano, coinvolta nella stessa indagine ma senza risultare indagata; eppoi Giovanni Michiara, Danilo Gariboldi, Marco Votta e Cesare Ercole, però tutti praticamente al termine della carriera per età. Ma le nomine sono ancora in corso e non sono da escludere colpi di scena dell’ultimo minuto. Pietro Caltagirone invece, dopo vent’anni ai vertici, a fine dicembre ha deciso di andare in pensione. Anche se il rinnovamento voluto da Maroni nelle squadre di manager che guideranno gli ospedali resta importante, la più massiccia rottamazione della Sanità lombarda è stata in qualche modo controbilanciata. E alla fine ai bocciati eccellenti non è andata malissimo. Stesso stipendio (o quasi), qualche responsabilità in meno. 

INFERMIERE PESCARESE AL TOP DI LONDRA: ''IN ITALIA LA SANITA' STA DEGENERANDO''. La lettera pubblicata da "Abruzzo Web" il 7 gennaio 2016. "Non azzarderei se affermassi che il numero degli infermieri formatisi e laureatisi in Italia e poi emigrati solo qui in Inghilterra rasenti le 10 mila unità. È un dato che sgomenta e fa riflettere. Nemmeno se venissimo assorbiti tutti in massa ed in un giorno solo nel nostro Servizio sanitario nazionale riusciremmo a colmare le disastrose lacune di personale che stanno lentamente ed inesorabilmente portando il sistema pubblico vicino al collasso, come in molti prevedono accadrà nei prossimi anni, a meno che non si adotti una decisa inversione di rotta ma non privatizzandolo, come presumo sia nella testa di molti amministratori pubblici!". Questo un passaggio di una lettera scritta da Luigi D'Onofrio, infermiere pescarese dello staff Nurse Moorfields Eye Hospital di Londra, emigrato per necessità professionali e di vita come lui stesso ammette, alla sezione di Pescara del Nursind, il sindacato delle professioni infermieristiche.  "Leggendo pubblicazioni online - scrive D’Onofrio - noto che da alcuni mesi fa tendenza parlare della pletora di infermieri italiani che stanno abbandonando le patrie corsie ospedaliere per raggiungere obiettivi di lavoro e carriera in altre nazioni, prevalentemente in Inghilterra, Germania e Svizzera. Molti giornali se ne sono già occupati, ma ho notato tuttavia che ogni articolo ha affrontato la tematica da un solo punto di vista: quello degli infermieri Italiani che lanciano un'occhiata al sistema sanitario inglese ed operano paragoni con il nostro. Io vorrei invece offrire una prospettiva completamente differente ed atipica". "Sono infatti un emigrante di nuova generazione - prosegue - uno tra i tanti professionisti laureati che ha messo in valigia competenze ed esperienze e si è stabilito da un anno e per un tempo indefinito nel Regno Unito per realizzare quelle aspettative professionali a lungo negatemi in Italia e soprattutto nella mia terra natìa, l'Abruzzo. Siamo in tanti, tantissimi. Le ultime statistiche ufficiali, prevenute dal registro UK, il Nmc, parlano di 2.500 infermieri di nazionalità italiana, ma gli iscritti alla più popolare pagina di Facebook in materia sono oltre 4.500, quindi si tratta di cifre approssimate per difetto e comunque in costante evoluzione. Non considero infatti nel conto tutti i colleghi che, frenati da una scarsa conoscenza dell'inglese, hanno comunque deciso di espatriare per cimentarsi in mestieri per i quali non è richiesta una approfondita conoscenza linguistica, come l'health care (più o meno l'equivalente del nostro Oss, se non addirittura il barista od il cameriere". Ma, lamenta D’Onofrio, "le nostre prospettive di ritorno sono complesse e travagliate. Abbiamo molte barriere da varcare e quella doganale è la più semplice di tutte. Il nostro ritorno è infatti possibile solo una volta superati gli ostacoli economici e culturali che rendono oggi drammatico anche l'inserimento di chi è rimasto in patria. La realtà, infatti, non è che in Italia manca il lavoro, o meglio le opportunità di lavoro. Mancano i datori di lavoro, le persone che sanno far lavorare altri. Abbiamo manager, ma non dirigenti in grado di far lavorare e costruire il successo di un'azienda sanitaria nel tempo, formando e valorizzando personale qualificato".

IL RESTO DELLA LETTERA

Mi perdonino il paragone gli appassionati di calcio: abbiamo un'Italia di Mourinho, di gente che costruisce una squadra in poche settimane reclutando persone dappertutto e ponendosi obiettivi a breve termine, mai nel lungo periodo. Almeno loro provano ad attrarre giocatori con elevate qualità sfruttando le cascate di soldi messe a loro disposizione ma imprenditori miliardari. Da noi si pensa solo a tappare buchi. Quanti bravi colleghi ho visto abbandonare un posto di lavoro solo perché il contratto era scaduto e non era più fiscalmente conveniente convertire il loro contratto in uno a tempo indeterminato! Per non parlare dell'ormai obsoleto sistema dei concorsi pubblici, che nella mente dei Padri Costituenti avrebbe dovuto permettere di scegliere i più preparati e meritevoli in modo trasparente, mentre succede oggi di assistere a preselezioni oceaniche in palazzetti strabordanti di giovani con lo zainetto pieno di manuali e di belle speranze. Ultimamente ci si ritrova poi a pagare tasse di selezione senza avere la certezza che il concorso effettivamente si svolgerà, o verrà organizzato in breve; a prove truccate e finite nel mirino della magistratura; ad assistere professionisti di grande esperienza che rispondono a quiz di cultura generale insieme a ragazzi neolaureati, mentre sarebbero già capaci di dirigere interi reparti), solo perché sognano di rientrare nella loro terra, ma magari la mobilità è impossibile o bloccata da anni. Io invece non ho sostenuto nessun concorso. La mia assunzione è stata decisa in tre intensissimi quarti d'ora di colloquio con tre dirigenti infermieristiche dell'ospedale pubblico in cui mi sono ritrovato ad essere dipendente di ruolo, il Moorfields Eye Hospital di Londra, il più grande e noto ospedale oculistico del mondo. È stato dal momento del mio inserimento, accuratamente guidato, che ho dovuto iniziare a dimostrare il mio valore e la mia capacità di fronte ai miei colleghi ed ai miei manager. Non credo finora di aver sfigurato: il mito della grande Florence Nightingale, la “dama con la lanterna” che proprio in Inghilterra ha ideato la moderna professione infermieristica, è in quanto tale un mito che ai giorni nostri sopravvive conservando solo un fondo di verità: l'infermiere italiano non ha affatto competenze inferiori quello inglese ed anzi il suo livello di preparazione, specialmente dal punto di vista tecnico è mediamente più elevato di quello di molti colleghi extraeuropei. Noto spesso, ad esempio, gli sguardi sorpresi di colleghi quando affermo che in Italia la figura del flebotomist, cioè dell'infermiere specialista addetto al prelievo del sangue od all'incannulamento, non esiste e che anch'io svolgevo regolarmente e quotidianamente questa prestazione: qui in Inghilterra è richiesto il superamento di un training (della durata di un giorno!) che non sempre l'ospedale (a meno che non ne abbia immediata necessità) consente di seguire gratuitamente. Paese che vai, paradossi che incontri. Non sarà un caso, quindi, se nel regno Unito si stanno reclutando principalmente italiani ma anche spagnoli, che vantano una preparazione universitaria simile alla nostra. Anche il sistema sanitario della Corona non può ancora, a mio parere, considerarsi superiore al sistema sanitario nazionale, nonostante le mutilazioni subite da quest'ultimo in anni recenti. Ma qui sta la vera differenza: l'Inghilterra sta investendo nella sanità pubblica, destinando ad essa ancora più risorse (+10% nei prossimi cinque anni), ottimizzando le spese senza tagliare servizi, incrementando e formando più accuratamente il personale sanitario, ricercato disperatamente in tutto il mondo, nonostante il fabbisogno lavorativo sia stimato in 20 mila infermieri, circa un terzo di quello italiano e nonostante si stiano cominciando a porre paletti più severi, come il superamento di test di conoscenza della lingua inglese. Tutto il contrario di quanto avviene da noi, dove si risparmia e si taglia alla cieca invece di investire, soprattutto sulla forza lavoro, non consapevoli (o forse sì?) che in un periodo di 3-5 anni una politica così miope determinerà organici drammaticamente insufficienti ed insufficientemente preparati. Purtroppo si persiste su questa scia, nonostante recenti direttive europee ci costringano ad assumere migliaia di unità per rispettare regole sull'orario di lavoro violate in anni di blocco del turnover, che hanno portato gli infermieri e tutto il personale sanitario a coprire turni massacranti. Il sistema lo fanno le persone, non le strutture o le apparecchiature diagnostiche tecnologicamente avanzate. Qui in Inghilterra, ora, anche gli Italiani stanno contribuendo alla costruzione di un sistema sanitario sempre più avanzato, mentre in Italia perfino i Collegi Ipasvi incentivano all'espatrio, pubblicando offerte di lavoro di agenzie straniere e perfino stringendo accordi di cooperazione con esse (come il Collegio Ipasvi di Chieti), invece di prodigarsi presso le nostre istituzioni per promuovere assunzioni e concorsi in loco! Trovo queste iniziative francamente vergognose ed invito in primis alcuni dirigenti e rappresentanti della categoria infermieristica a trascorrere una (lunga) esperienza di lavoro all'estero, lasciando il posto ad altri colleghi più propensi ad invertire la rotta dell'emigrazione. Mi si perdoni il lungo sfogo, ma di storie ne ho già da raccontare tante e comunque la vita dell'emigrante non è semplice, nonostante una città come Londra sappia addolcire l'amara pillola di chi non sa se e quando tornerà a casa. L'Italia resta sempre nel cuore di tutti noi ed è ad essa che guardiamo ogni giorno, con speranza dura a morire.

Concorsi, bandi, dottorati, cattedre: se all’università è tutto truccato. Rivelazioni shock di un insegnante della Statale, scrive “Leggi Oggi” il 18 marzo 2015. Concorsi truccati, sprechi, favoritismi a non finire. Il ritratto dell’università italiana, certo non al top della sua popolarità, firmato da Matteo Fini, dottore di ricerca con dieci anni in ateneo alle spalle. Lo racconta l’Espresso, in un articolo inchiesta che mette in evidenza tutte le leve che muovono l’istruzione accademica e definiscono le possibilità di carriera nelle cattedre del nostro Paese. “Non si sopravvive al sistema universitario italiano”, scriveva il giovane dottore di ricerca sulla sua pagina Facebook, dove puntualmente aggiornava, senza troppi sottintesi, sui peggiori vizi del sistema universitario italiano. Una protesta che gli ha procurato anche una diffida legale, con il suo editore, per cui aveva pubblicato un libro dal titolo “Non è un Paese per bamboccioni” di non pubblicare i post più polemici e ambigui. Docente di metodi quantitativi per l’economia e la finanza alla Statale di Milano, dottore di ricerca per il Dipartimento di scienze economiche dell’Università meneghina, Matteo si è però rifiutato di eliminare le sue riflessioni dalla pagina Facebook. E racconta, ancora oggi, un sistema che lo ha portato a fare di tutto: le lezioni, i ricevimenti, gli esami: un professore a tutti gli effetti, se non per il titolo e, ovviamente, lo stipendio. Come si diventa ricercatore? “È il professore stesso che ti precetta, quando tu magari nemmeno ci pensavi alla carriera universitaria. Ti dice: “ti va di fare il dottorato?”. E tu rispondi ok, e cominci. E pensi che sei davvero bravo. Un eletto. A quel punto però vieni risucchiato”. Cosa spinge ad andare avanti? La fiducia nella figura del docente che ha aperto la strada. “Fin dal primo giorno, mi ha detto: Tu fa’ quel che ti dico, seguimi, e alla tua carriera ci penso io”. Avanti così per anni, peccato che nel frattempo i contatti tra i due si fanno sempre più radi fino a che, un giorno, non viene indetto il concorso che proprio lui avrebbe dovuto vincere e il professore “chioccia” nemmeno si fa vivo. Matteo capisce che il suo posto non è più suo. “In Italia, prima si sceglie un vincitore e poi si bandisce un concorso su misura per farlo vincere. Anche per un semplice assegno di ricerca. All’università è tutto truccato”. I concorsi. Si arriva così al capitolo dei concorsi, dall’esito puntualmente scontato. “Tutti i concorsi a cui ho partecipato erano già decisi in partenza. Sia quando ho vinto, sia quando ho perso. Vinci solo se il tuo garante siede in commissione. Il concorso è una farsa, è manovrato fin dal momento stesso in cui si decide di bandirlo.” I fondi. C’è poi, nel suo racconto, un capitolo fondamentale sul gettito di fondi pubblici che arriva nelle casse delle università: “Quando vengono assegnati i fondi di ricerca, i professori e i dipartimenti si associano e mettono su un progetto. Dentro questi bandi vengono infilati anche dei ragazzi giovani, con la promessa che verranno messi poi a lavorare. Il bando viene vinto, arrivano i fondi, ma del progetto che ha portato ad accaparrarseli nessuno dice più niente. Viene accantonato, e i quattrini sono dilapidati nelle maniere più arbitrarie”. Un quadro deprimente, che sullo sfondo dei recenti scandali sui test di ammissione, prove sbagliate, ricorsi e qualità dell’insegnamento sempre più bassa, rende l’università italiana poco credibile anche da chi la fa.

Concorsi Pubblici: tutti i casi sospetti. Il pasticciaccio delle scuole di specializzazione in medicina, per il quale i giovani medici manifestano a Roma, è l’ultimo episodio di un lungo elenco di irregolarità, favoritismi e trucchi. Dalla Farnesina alla Polizia penitenziaria nessuno è escluso. A partire dalle selezioni per insegnanti e ricercatori, scrive Michele Sasso il 4 novembre 2014 su “L’Espresso”. Una manifestazione di specializzandi di medicina a RomaLe prove, l’errore e il dietrofront. Dopo giorni di polemiche, il ministero dell’Istruzione cerca di mettere una pezza al pasticciaccio del concorsone per l’accesso alla scuole di specializzazione in medicina. Un test fondamentale per accedere alle oltre cinquemila borse di studio diventato tristemente famoso per l'annullamento che ha colpito più di 11mila candidati. Dopo avere rilevato una “grave anomalia” il ministro Stefania Giannini ci ripensa e annuncia: «Le prove per l’accesso del 29 e 31 ottobre non dovranno essere ripetute. Abbiamo trovato una soluzione che ci consente di salvare i test». Una pezza dopo l’annuncio di una valanga di ricorsi. Le dimissioni di Emilio Ferrari, il responsabile del Consorzio universitario che ha preparato il test di ingresso, non sono servite a stoppare la manifestazione davanti al Miur. In piazza i giovani medici che la settimana scorsa hanno partecipato alle selezioni. Non è la prima volta che un concorso pubblico finisce con una figuraccia e una protesta di piazza. Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose. Tra caos, ricorsi, graduatorie ritoccate e interventi della Magistratura non c’è settore della pubblica amministrazione immune all’aiutino. Il prestigioso posto di ambasciatore junior del ministero degli Esteri si è trasformato, secondo le critiche, in una corsia preferenziale per chi ha parentele famose. In ballo 35 posti per il gradino più basso della carriera alla Farnesina: la questione è finita con otto interrogazioni parlamentari e ombre pesanti sul ministero degli Esteri. Perfino alle prove per diventare poliziotti si scoprono bluff. Lo scorso maggio alla scuola di formazione della Polizia penitenziaria di Roma si aprono le porte ai concorrenti al concorso pubblico per 208 posti di agente. Test e prove attitudinali per andare a lavorare nelle carceri italiane. Durante gli scritti la commissione esaminatrice scopre tre aspiranti con in tasca le risposte esatte ai quiz di selezione. L’elenco delle valutazioni sballate, superficialità e grossolani errori per scegliere gli insegnanti della scuola italiana è lungo. Nel 2010 nel concorso per dirigente scolastico il Ministero mette online i temi delle prove e arrivano una valanga di segnalazioni. Tanti, troppi errori e un quiz su sei viene ritirato. Nonostante gli accorgimenti all‘apertura delle buste nei cento quiz c’erano ancora degli strafalcioni. Per i tirocini formativi attivi (Tfa) obbligatori per diventare insegnanti si replica con ancora quiz errati e si ottiene ammissione dei ricorrenti alle prove scritte. Per l’ultimo concorso a cattedra la Giannini è stata costretta a un decreto correttivo. «Ogni volta è la stessa storia», commenta Marcello Pacifico del sindacato Anief: «Non sono le dimissioni di un presidente ma la gestione delle prove selettive che non trova mai un responsabile. Non è possibile che proprio le domande e le risposte per accertare il merito contengano degli errori». Tra le maglie delle selezioni anche casi clamorosi di familismo amorale e concorsi truccati su misura. A Palermo la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio dell'ex preside della facoltà di Medicina Giacomo De Leo e di Salvatore Novo, professore ordinario e direttore della scuola di specializzazione in Cardiologia dell'università locale insieme ad Alberto Balbarini, docente di malattie cardiovascolari a Pisa. Complici e menti (con l’accusa di truffa, soppressione di atto pubblico e falsità ideologica) di un presunto concorso truccato per un posto da ricercatore universitario nel loro dipartimento bandito nel lontano 2004. Il concorso, secondo gli inquirenti, venne truccato per consentire alla figlia di Novo, Giuseppina, l'aggiudicazione del posto. L'inchiesta parte da Bari, e indaga su una serie di concorsi truccati in diverse facoltà della Penisola. Secondo gli investigatori, ci sarebbe stato un vero e proprio accordo tra Novo e De Leo per far vincere il concorso alla figlia del cardiologo. A garantire il posto assegnato a tavolino doveva essere Mario Mariani, altro docente universitario di Pisa, nominato membro della commissione esaminatrice. All'ultimo momento, però, Mariani scopre di essere indagato dai pm baresi e fa un passo indietro. È allora che, secondo i magistrati, i due docenti distruggono il verbale con cui Mariani era stato designato commissario d'esame e lo sostituiscono con uno identico in cui mettono il nome di Balbarini. Quest'ultimo, vicino a Mariani, sarebbe stato al corrente di tutto. Dopo dieci anni la ricercatrice ha fatto carriera e oggi può vantare il titolo di docente alla scuola di specializzazione in cardiochirurgia. L’ateneo? Quello di Palermo, naturalmente.

Farnesina, ombre sul concorso per diplomatici e tra i vincitori non mancano "I figli d'arte". Il ministero degli Esteri ha bandito 35 posti per il gradino più basso della carriera da ambasciatore ignorando gli idonei dello scorso anno, che andavano riassorbiti. Una vicenda su cui ora tutti i partiti, con otto interrogazioni, chiedono di fare luce. E fra chi ha passato lo scritto anche candidati dalle parentele famose, scrive Paolo Fantauzzi il 14 ottobre 2014 su “L’Espresso”. AAA ambasciatore cercasi. C’è un settore che sembra non conoscere crisi. Al punto che continua ad assumere mentre le pubbliche amministrazioni sono costrette a ridurre le piante organiche e a non rimpiazzare il personale andato in pensione. È il ministero degli Esteri che, grazie a una particolare deroga, dal 2010 ha diritto di prendere ogni anno fino a 35 segretari di legazione. Un incarico ambito, dato che rappresenta il gradino più basso della carriera diplomatica e che - fra stipendio tabellare, retribuzione di posizione e di risultato - l’emolumento si aggira sui 5 mila euro al mese. Forse anche per questo quasi ogni concorso è stato puntualmente accompagnato da una ridda di contestazioni e ricorsi. Col picco esponenziale raggiunto proprio quest’anno, con l’eco delle polemiche che è approdata perfino in Parlamento, dove sono state depositate ben otto fra interpellanze e interrogazioni per fare luce su presunte irregolarità nelle selezioni svolte a luglio: due del Partito democratico e del Movimento cinque stelle e una di Sel, Udc, Fratelli d’Italia e Ilic (gli ex grillini al Senato). Irregolarità che riguarderebbero innanzitutto le immancabili furbate di ogni concorso che si rispetti: non solo qualcuno sarebbe riuscito a utilizzare tablet, smartphone, libri e manoscritti perché non era stata allestita una sala deposito accanto all’aula d’esame, ma - in base a quanto denunciato da un commissario nel corso delle prove - alcuni candidati si sarebbero perfino agganciati alla rete wi-fi del suo cellulare, riuscendo così a navigare su internet. Il punto centrale riguarda tuttavia il numero di posti banditi: 35, il numero massimo consentito, nonostante lo scorso anno i vincitori siano stati 42. Per i 7 rimasti fuori - secondo la formula di “idonei non vincitori” che ben conosce chi partecipa ai concorsi pubblici - si sarebbero dovute aprire le porte quest’anno: dal 2013 la legge prevede infatti lo scorrimento delle graduatorie prima di effettuare una nuova selezione. Una questione di risparmio ma anche di buon senso che la Farnesina stessa ha adottato prima ancora che fosse obbligatorio: nel 2010 gli idonei non vincitori furono sei e l’anno seguente furono banditi 29 posti anziché 35. Quest’anno è andata diversamente. Come mai? Il ministero sostiene la regolarità della scelta in base a un parere consultivo e un paio di sentenze del Consiglio di Stato più un’altra emessa dal Tribunale amministrativo del Lazio. Atti che però sono tutti precedenti o relativi a fatti antecedenti la legge del 2013, contestano gli idonei, che hanno fatto ricorso al Tar. Quel che è certo è che quest’anno scade la deroga al blocco delle assunzioni e quindi il concorso potrebbe rappresentare l’ultima grande infornata prima di un lungo digiuno. Anche così si spiegano i numeri record: poco meno di 700 quanti hanno partecipato alle prove scritte, che prevedono un esame di storia, diritto, economia, inglese e una seconda lingua a scelta fra tedesco, francese e spagnolo. Quasi il triplo dell'anno scorso. Di questi, però, solo il 5 per cento ce l’ha fatta: gli ammessi agli orali, che si terranno a fine mese, sono appena 34. In pratica tutti quanti hanno già il posto assicurato e non ci saranno nuovi casi di idonei non vincitori. Nella graduatoria non mancano cognomi famosi, come Francesco Calderoli, nipote del leghista Roberto, che si è piazzato al 29esimo posto in classifica. Penultimo è arrivato invece Ferdinando Stagno d’Alcontres, primogenito di Francesco, ex deputato di Forza Italia e cugino dell’ex ministro degli Esteri Antonio Martino (anche lui berlusconiano della prima ora) e dell'ex ambasciatore in Russia e Usa, Ferdinando Salleo. Una circostanza ricorrente, quella di cognomi e parentele importanti, dal momento che la diplomazia è uno dei settori della pubblica amministrazione in cui il tasso di "figli d'arte" è più alto. Nel 2009, ad esempio, tramite lo scorrimento della graduatoria (quello non effettuato quest’anno) fu “ripescato” Stefano La Tella, figlio di Guido, ex ambasciatore in Argentina e presidente di commissione dell'attuale selezione: La Tella junior l’anno prima era risultato quinto degli idonei non vincitori e a essere assorbiti - come ha rilevato il sindacato Flp-Affari esteri in un volantino ironico intitolato “Il divino concorso” - furono proprio i primi cinque (su un totale di 13). Lo scorso anno però andò ancora peggio, quanto a contestazioni: delle 60 domande del test di preselezione, sei erano errate e il ministero, anziché eliminarle, decise di "abbonarle" a tutti i partecipanti, facendo in questo modo lievitare gli ammessi alle prove scritte.

Le persone perbene non riescono a fare carriera all’interno della pubblica amministrazione. Un giudizio lapidario che viene dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, scrive “Blitz Quotidiano” il 28 ottobre 2015. Un giudizio appena mitigato dai due minuti di spiegazione dell’affermazione: Cantone spiega che, a volte, questo avviene anche per colpe dei diretti interessati. “Spesso le persone perbene all’interno della pubblica amministrazione sono quelle che hanno meno possibilità di fare – dice Cantone – Spesso fanno meno carriera. Spesso sono meno responsabilizzati perché considerati per bene”. Secondo Cantone è ora di recuperare parole che non si usano nel nostro mondo del lavoro. Una è la parola “controllo”. E il presidente dell’anticorruzione si riferisce a chi osserva i colleghi timbrare il cartellino e poi lasciare il posto di lavoro senza denunciare nulla. Quello che serve, secondo Cantone, è una “riscossa interna” e un recupero non imposto dall’alto di moralità e cultura dello Stato, il terzo settore e di conseguenza il nostro Paese si salveranno dalla mala gestione della cosa pubblica.

Commenti disabilitati su Cantone: “Non sono tutti fannulloni ma nella Pubblica amministrazione, le persone perbene hanno meno possibilità”, scrive Antonio Menna il 28 ottobre 2015 su “Italia Ora”. “Non sono tutti fannulloni nella Pubblica amministrazione. Meno che mai sono tutti corrotti. Ma è vero che le persone perbene sono quelli che vengono meno coinvolti nelle scelte, meno responsabilizzati. Sono quelli che hanno meno possibilità di fare carriera”. Lo dice chiaro e tondo, Raffaele Cantone, magistrato anticamorra, e presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione. Lo dice nel corso di una intervista pubblica al Sermig di Torino e il segmento sulla corruzione nella pubblica amministrazione (rilanciato da un video del Corriere della Sera) è quello che impressiona di più. Quante volte lo abbiamo pensato che essere onesti è una penalizzazione? Chi è onesto non va lontano. “A volte, però”, chiarisce Cantone, “anche per sue responsabilità. Dobbiamo trovare il coraggio di ripristinare alcune parole che nel nostro lessico si sono dimenticate: la parola controllo, per esempio. Se il mio amico, vicino di stanza, usa il badge per coprire i colleghi che magari sono in vacanza, devo stare zitto? Perché devo stare zitto? Queste apparenti distrazioni sono complicità. La società dei piccoli favori, magari banali, magari che non portano necessariamente alla corruzione, ci abitua all’idea che ci sia uno spazio dove tutto si può comprare.” “Il problema – conclude Cantone – non è solo la disonestà ma, a volte, anche non capire con chi parlare. Ci sono cento centri di costo solo nella città di Roma, cento uffici che fanno appalti e spesa. Come li controlli? La deresponsabilizzazione la fa da padrona, ed è essa stessa una delle ragioni che giustifica la corruzione.”

In Italia si fa carriera solo se si è ricattabili, scrive il 5 giugno 2015 Claudio Rossi su "L'Uomo qualunque". “Il nostro Paese sta sprofondando nel conformismo (…) siamo usciti da una consultazione elettorale che ha dato il risultato a tutti noto, ma la cosa che colpisce è questo saltare sul carro del vincitore. Tacito diceva che una delle abitudini degli italiani è di ruere in servitium: pensate che immagine potente, correre ad asservirsi al carro del vincitore. Noi tutti conosciamo persone appartenenti al partito che ha vinto le elezioni che hanno opinioni diverse rispetto ai vertici di questo partito. Ora non si tratta affatto di prendere posizioni che distruggono l’unità del partito, ma di manifestare liberamente le proprie opinioni senza incorrere nell’anatema dei vertici di questo partito (…) Queste persone, dopo il risultato elettorale, hanno tirato i remi in barca e le idee che avevano prima, oggi non le professano più. Danno prova di conformismo. (…) La nostra rappresentanza politica è quella che è (…) La diffusione della corruzione è diventata il vero humus della nostra vita politica, è diventata una sorta di costituzione materiale. Qualcuno, il cui nome faccio solo in privato, ha detto che nel nostro Paese si fa carriera in politica, nel mondo della finanza e dell’impresa, solo se si è ricattabili (…) Questo meccanismo della costituzione materiale, basato sulla corruzione, si fonda su uno scambio, un sistema in cui i deboli, cioè quelli che hanno bisogno di lavoro e protezione, gli umili della società, promettono fedeltà ai potenti in cambio di protezione. È un meccanismo omnipervasivo che raggiunge il culmine nei casi della criminalità organizzata mafiosa, ma che possiamo constatare nella nostra vita quotidiana (…) Questo meccanismo funziona nelle società diseguali, in cui c’è qualcuno che conta e che può, e qualcuno che non può e per avere qualcosa deve vendere la sua fedeltà, l’unica cosa che può dare in cambio (…) Quando Marco Travaglio racconta dei casi di pregiudicati o galeotti che ottengono 40 mila preferenze non è perché gli elettori sono stupidi: sanno perfettamente quello che fanno, ma devono restituire fedeltà. Facciamoci un esame di coscienza e chiediamoci se anche noi non ne siamo invischiati in qualche misura. (…) Questo meccanismo fedeltà-protezione si basa sulla violazione della legge. Se vivessimo in un Paese in cui i diritti venissero garantiti come diritti e non come favori, saremmo un paese di uomini e donne liberi. Ecco libertà e onestà. Ecco perché dobbiamo chiedere che i diritti siano garantiti dal diritto, e non serva prostituirsi per ottenere un diritto, ottenendolo come favore. Veniamo all’autocoscienza: siamo sicuri di essere immuni dalla tentazione di entrare in questo circolo? (…) Qualche tempo fa mi ha telefonato un collega di Sassari che mi ha detto: “C’è una commissione a Cagliari che deve attribuire un posto di ricercatore e i candidati sono tutti raccomandati tranne mia figlia. Sono venuto a sapere che in commissione c’è un professore di Libertà e Giustizia…”. Io ero molto in difficoltà, ma capite la capacità diffusiva di questo sistema di corruzione, perché lì si trattava di ristabilire la par condicio tra candidati. Questo per dire quanto sia difficile sgretolare questo meccanismo, che si basa sulla violazione della legge. Siamo sicuri di esserne immuni? Ad esempio, immaginate di avere un figlio con una grave malattia e che debba sottoporsi a un esame clinico, ma per ottenere una Tac deve aspettare sei mesi. Se conosceste il primario del reparto, vi asterreste dal chiedergli il favore di far passare vostro figlio davanti a un altro? Io per mia fortuna non mi sono mai trovato in questa condizione, ma se mi ci trovassi? È piccola, ma è corruzione, perché se la cartella clinica di vostro figlio viene messa in cima alla pila, qualcuno che avrebbe avuto diritto viene posposto. Questo discorso si ricollega al problema del buon funzionamento della Pubblica amministrazione: se i servizi funzionassero bene non servirebbe adottare meccanismi di questo genere. Viviamo in un Paese che non affronta il problema della disonestà e onestà in termini morali. (…) Se non ci risolleviamo da questo, avremo un Paese sempre più clientelarizzato, dove i talenti non emergeranno perché emergeranno i raccomandati, e questo disgusterà sempre di più i nostri figli e nipoti che vogliono fare ma trovano le porte sbarrate da chi ha gli appoggi migliori. È una questione di sopravvivenza e di rinascita civile del nostro Paese. Ora, continuiamo a farci questo esame di coscienza: non siamo forse noi, in qualche misura, conniventi con questo sistema? Quante volte abbiamo visto vicino a noi accadere cose che rientrano in questo meccanismo e abbiamo taciuto? Qualche tempo fa, si sono aperti un trentina di procedimenti penali a carico di colleghi universitari per manipolazione dei concorsi universitari (…) Noi non sapevamo, noi non conoscevamo i singoli episodi (…) e per di più non siamo stati parte attiva del meccanismo, ma dobbiamo riconoscere che abbiamo taciuto, dobbiamo riconoscere la nostra correità. Proposta: Libertà e Giustizia è una associazione policentrica che si basa su circoli, che sono associazioni nella associazione, radicati sul territorio e collegati alla vita politica. Non sarebbe il caso che i circoli si attrezzassero per monitorare questi episodi, avendo come alleati la stampa libera e la magistratura autonoma? Potrebbe essere questa una nuova sfida per Libertà e Giustizia, controllare la diffusione di questa piovra che ci invischia tutti, cominciando dal basso, perché dall’alto non ci verrà nulla di buono, perché in alto si procede con quel meccanismo che dobbiamo combattere.” Gustavo Zagrebelsky.

“I cittadini silenziosi possono essere dei perfetti sudditi per un governo autoritario, ma sono un disastro per una democrazia”. Robert Alan Dahl

Il volume più letto dai politici? Un manuale per ottenere l'immunità. Alle Biblioteca delle Nazioni Unite non hanno più nemmeno una copia. Spiega i vari tipi di immunità e chi può usufruire, scrive Gabriele Bertocchi Venerdì, 08/01/2016, su “Il Giornale”. Non è un semplice libro, è il libro che ogni politico dovrebbe leggere. E infatti è cosi, tutto lo vogliono. È diventato il libro più richiesto alla biblioteca delle Nazioni Unite. Vi starete chiedendo che volume è: magari se è un'opera di letteratura classica, oppure un trattato sulla politica internazionale. Nessuno di questi, si chiama "Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali", è uno scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum che spiega e illustra che tipo di immunità esistono per tali soggetti. "Più che un libro è una star" commenta Maria Montagna sulle pagine de La Stampa, una delle addette alla gestione banca dati di Dag Hammarskjold Library, libreria dedicata al'ex segretario generale, alle Nazioni Unite. "È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier" continua l'addetta. Il successo lo si deve anche a Twitter, infatti la Dag Hammarskjold Library ha pubblicato il "primato" del libro, creando così un vero e prioprio cult da leggere. Ma all'interno cosa si può imparare, come scrive la Pedretti, autrice del volume, si può scoprire che esistono due dtipi di immunità: quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. La Montagna spiega che "ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social", ma prima era perlopiù composta da funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. E intanto, come si legge su La Stampa, arriva la conferma da parte della libreria: "Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile".

Va a ruba all’Onu il libro che insegna ai leader come avere l’immunità. Esaurito in biblioteca. Tesi di laurea. Il pamphlet è stato scritto da Ramona Pedretti ex studentessa dell’Università di Lucerna, scrive Francesco Semprini su “La Stampa” l’8 gennaio 2016. Basta entrare nella biblioteca delle Nazioni Unite e menzionare il nome del libro per capire che non stiamo parlando di un volume qualunque. Maria Montagna, una delle addette alla gestione della banca data di Dag Hammarskjold Library - la libreria dedicata all’ex segretario generale - guarda la collega Ariel Lebowitz e sorride. «Più che un libro è una star - dice - aspetti qui, controlliamo subito». L’opera in questione è «Immunità di capi e funzionari di Stato per crimini internazionali», un pamphlet scritto da Ramona Pedretti, ex studentessa oriunda dell’Università di Lucerna. È una tesi di dottorato, un vademecum per capire che tipo di immunità esistono per tali soggetti. Ne esistono due, come spiega Pedretti nel suo scritto, quella ratione personae che mette i capi di stato al riparo dalla giurisdizione penale straniera, e quella ratione materiae che protegge atti ufficiali e funzionari che agiscono per conto dello Stato dal giudizio di tribunali di altri Paesi. «È senza dubbio il libro più richiesto del 2015, anche più di classici della letteratura Onu o grandi dossier», dice Maria. Twitter ha fatto il resto, visto che Dag Hammarskjold Library ha rilanciato sul social network il «primato» del libro moltiplicandone notorietà e richieste. Ma chi lo chiede in prestito? All’inizio erano soprattutto funzionari degli uffici legali e storici Onu, interessati in particolare alle conclusioni tratte da Pedretti. La tesi dell’autrice è che capi o alti esponenti di Stato in carica non possono essere perseguiti da corti straniere, al contrario degli ex. È questo il principio ad esempio che ha portato all’arresto di Adolph Eichmann da parte di Israele e Augusto Pinochet dalla Spagna. «Ora però la platea di lettori si è allargata vista la pubblicità dei social», chiosa Maria. E arriva la conferma: «Mi spiace, al momento non abbiamo neanche una copia disponibile».  

Fondazioni, i soldi nascosti dei politici. Finanziamenti milionari anonimi. Intrecci con banchieri, costruttori e petrolieri. Società fantasma. Da Renzi a Gasparri, da Alfano ad Alemanno, ecco cosa c'è nei conti delle fondazioni, scrivono Paolo Biondani, Lorenzo Bagnoli e Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Finanziamenti milionari ma anonimi. Un intreccio tra ministri, petrolieri, banchieri e imprenditori. Con una lunga inchiesta nel numero in edicola “L'Espresso” ha esaminato i documenti ufficiali delle fondazioni che fanno capo ai leader politici, da Renzi a Gasparri, da Alfano a Quagliarello, tutte dominate dall'assenza di trasparenza. Nel consiglio direttivo di Open, il pensatoio-cassaforte del premier, siedono l’amico che ne è presidente Alberto Bianchi, ora consigliere dell’Enel, il sottosegretario Luca Lotti, il braccio destro Marco Carrai e il ministro Maria Elena Boschi. Il sito pubblica centinaia di nomi di finanziatori, ma omette «i dati delle persone fisiche che non lo hanno autorizzato esplicitamente». Il patrimonio iniziale di 20 mila euro, stanziato dai fondatori, si è moltiplicato di 140 volte con i contributi successivi: in totale, 2 milioni e 803 mila euro. Sul sito compaiono solo tre sostenitori sopra quota centomila: il finanziere Davide Serra (175), il defunto imprenditore Guido Ghisolfi (125) e la British American Tobacco (100 mila). Molto inferiori le somme versate da politici come Lotti (9.600), Boschi (8.800) o il nuovo manager della Rai, Antonio Campo Dell’Orto (solo 250 euro). Ma un terzo dei finanziatori sono anonimi per un importo di 934 mila euro. Ad Angelino Alfano invece fa oggi capo la storica fondazione intitolata ad Alcide De Gasperi, che ha «espresso il suo dissenso» alla richiesta ufficiale della prefettura di far esaminare i bilanci: per una fondazione presieduta dal ministro dell’Interno, la trasparenza non esiste. Nell’attuale direttivo compaiono anche Fouad Makhzoumi, l’uomo più ricco del Libano, titolare del colosso del gas Future Pipes Industries. Tra gli italiani, Vito Bonsignore, l’ex politico che dopo una condanna per tangenti è diventato un ricco uomo d’affari; il banchiere Giovanni Bazoli, il marchese Alvise Di Canossa, il manager Carlo Secchi, l’ex dc Giuseppe Zamberletti, l’ex presidente della Compagnia delle Opere Raffaello Vignali, l’avvocato Sergio Gemma e il professor Mauro Ronco. Ma tutti i contributi alla causa di Alfano sono top secret. Invece la fondazione Magna Carta è stata costituita dal suo presidente, Gaetano Quagliariello, da un altro politico, Giuseppe Calderisi, e da un banchiere di Arezzo, Giuseppe Morbidelli, ora numero uno della Cassa di risparmio di Firenze. Gli altri fondatori sono tre società: l’assicurazione Sai-Fondiaria, impersonata da Fausto Rapisarda che rappresenta Jonella Ligresti; la Erg Petroli dei fratelli Garrone; e la cooperativa Nuova Editoriale di Enrico Luca Biagiotti, uomo d’affari legato a Denis Verdini. Il capitale iniziale di 300 mila euro è stato interamente «versato dalle tre società in quote uguali». I politici non ci hanno messo un soldo, ma la dirigono insieme ai finanziatori. Nel 2013 i Ligresti escono dal consiglio, dove intanto è entrata Gina Nieri, manager di Mediaset. L’ultimo verbale (giugno 2015) riconferma l’attrazione verso le assicurazioni, con il manager Fabio Cerchiai, e il petrolio, con Garrone e il nuovo consigliere Gianmarco Moratti. La fondazione pubblica i bilanci, ma non rivela chi l’ha sostenuta: in soli due anni, un milione di finanziamenti anonimi. La Nuova Italia di Gianni Alemanno invece non esiste più. “L’Espresso” ha scoperto che il 23 novembre scorso la prefettura di Roma ne ha decretato lo scioglimento: «la fondazione nell’ultimo anno non ha svolto alcuna attività», tanto che «le raccomandate inviate dalla prefettura alla sede legale e all’indirizzo del presidente sono tornate al mittente con la dicitura sconosciuto». Ai tempi d’oro della destra romana sembrava un ascensore per il potere: dei 13 soci promotori, tutti legati all’ex Msi o An, almeno nove hanno ottenuto incarichi dal ministero dell’agricoltura o dal comune capitolino. All’inizio Gianni Alemanno e sua moglie Isabella Rauti figurano solo nel listone dei 449 «aderenti» chiamati a versare «contributi in denaro». I primi soci sborsano il capitale iniziale di 250 mila euro. Tra gli iscritti compaiono tutti i fedelissimi poi indagati o arrestati, come Franco Panzironi, segretario e gestore, Riccardo Mancini, Fabrizio Testa, Franco Fiorito e altri. La “Fondazione della libertà per il bene comune” è stata creata dal senatore ed ex ministro Altero Matteoli assieme ad altre dieci persone, tra cui politici di destra come Guglielmo Rositani (ex parlamentare e consigliere Rai), Eugenio Minasso, Marco Martinelli e Marcello De Angelis. A procurare i primi 120 mila euro, però, sono anche soci in teoria estranei alla politica, come l’ex consigliere dell’Anas Giovan Battista Papello (15 mila), il professor Roberto Serrentino (10 mila) e l'imprenditore, Erasmo Cinque, che versa 20 mila euro come Matteoli. La fondazione, gestita dal tesoriere Papello, pubblica i bilanci: tra il 2010 e il 2011, in particolare, dichiara di aver incassato 374 mila euro dai «soci fondatori», altri 124 mila di «contributi liberali» e solo duemila dalle proprie attività (convegni e pubblicazioni). Gli atti della prefettura però non spiegano quali benefattori li abbiano versati. Espressione di Massimo D'Alema, ItalianiEuropei nel 1999 è stata una delle prime fondazioni. I fondatori sono l'ex premier Giuliano Amato, il costruttore romano Alfio Marchini, il presidente della Lega Cooperative, Ivano Barberini, e il finanziere esperto in derivati Leonello Clementi. Il capitale iniziale è di un miliardo di lire (517 mila euro), quasi totalmente versati da aziende o uomini d’affari: 600 milioni di lire da varie associazioni di cooperative rosse, 50 ciascuno da multinazionali come Abb ed Ericsson, la Pirelli di Tronchetti Provera, l’industriale farmaceutico Claudio Cavazza, oltre che da Marchini (50) e Clementi (55). ItalianiEuropei deposita regolari bilanci e ha autorizzato la prefettura di Roma a mostrarli. L’ultimo è del 2013. Gli atti identificano solo i finanziatori iniziali del 1998. A quei 517 mila euro, però, se ne sono aggiunti altri 649 mila sborsati da «nuovi soci», non precisati. Nei bilanci inoltre compare una diversa categoria di «contributi alle attività» o «per l’esercizio»: in totale in sei anni i finanziamenti ammontano a un milione e 912 mila euro. Italia Protagonista nasce nel 2010 per volontà di due leader della destra: Maurizio Gasparri, presidente, e Ignazio La Russa, vicepresidente. Tra i fondatori, che versano 7 mila euro ciascuno, c’è un ristretto gruppo di politici e collaboratori, ma anche un manager, Antonio Giordano. Dopo la fine di An, però, La Russa e i suoi uomini escono e la fondazione resta un feudo dell’ex ministro Gasparri. Come direttore compare un missionario della confraternita che s’ispira al beato La Salle, Amilcare Boccuccia, e come vice un suo confratello spagnolo. Tra i soci viene ammesso anche Alvaro Rodriguez Echeverria, esperto e uditore del sinodo 2012 in Vaticano, nonché fratello dell’ex presidente del Costarica. L’ultimo bilancio riguarda il 2013, quando il capitale, dai 100 mila euro iniziali, è ormai salito a 231 mila. Le donazioni di quell’anno, 56 mila euro, non sono bastate a coprire le spese, con perdite finali per 63 mila, però in banca ci sono 156 mila euro di liquidità. Ma sui nomi dei benefattori, zero informazioni. «Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici», dichiara Raffaele Cantone a “l'Espresso” : «Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori». 

«Non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi», scrive Gianluca De Feo il 7 gennaio 2016 su "L'Espresso". «È una situazione che ha raggiunto i limiti dell’indecenza». Un anno fa Raffaele Cantone fu il primo a lanciare l’allarme sui fondi opachi trasferiti alla politica attraverso le fondazioni. Con un’intervista a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione sottolineò il problema della carenza di controlli. Negli ultimi mesi le indagini hanno poi evidenziato altri sospetti sui soldi passati attraverso questi canali per finanziare l’attività dei partiti.

Raffaele Cantone, ma da allora è cambiato qualcosa?

«Non è cambiato nulla. Ma questo più che un finanziamento ai partiti è un modo di sovvenzionare gruppi interni ai partiti, quelle che un tempo si chiamavano correnti. Nel tempo le correnti si sono organizzate in realtà di tipo associativo: questa scelta potrebbe essere positiva, perché in qualche modo dà una struttura evidente alle correnti. Quello che è assolutamente inaccettabile è l’assenza di una regolamentazione che quanto meno adegui le fondazioni alle regole dei partiti politici. Fermo restando che la riforma Letta sulla pubblicità ai partiti si è rivelata inadeguata, perché il sistema delle verifiche è assolutamente ridicolo, ma almeno ha introdotto un meccanismo di controllo. Sulle fondazioni invece c’è totale anarchia. Viene previsto solo il controllo formale e generico delle prefetture, che non hanno capacità di incidere sui bilanci: non si possono conoscere entrate e uscite, non c’é trasparenza sui finanziatori. I conti delle fondazioni possono essere fatti in modo semplicistico e semplificato, senza rendere noto come arrivano i soldi e come vengono spesi».

Molte di queste fondazioni politiche sono semplici associazioni, che non depositano neppure una minima documentazione.

«Bisogna tenere presente che nel nostro Paese per ragioni culturali queste realtà sono state un momento significativo della libertà di associazione. Nel diritto civile sono previste le associazioni non riconosciute, tutelate perché si tutela la libertà di associazione, che devono avere una loro possibilità di operare. Il problema è che in questi casi viene a mancare persino quel minimo di controllo esercitato dalle prefetture: sono in tutto uguali a una bocciofila. Non ci sono né regole, né rischi legali quando vengono usate per incassare finanziamenti sospetti: possono solo incorrere in verifiche fiscali della Guardia di Finanza se emergono pagamenti in nero. È una carenza normativa che si fa sentire e più volte il Parlamento ha espresso esigenza di intervenire. Sono stati presentati diversi disegni di legge, alcuni dei quali validi, ma non sono mai andati in discussione».

Negli organi che gestiscono le fondazioni politiche c’è poi una diffusa commistione tra centinaia di imprenditori e di politici. È una confusione che può alimentare i conflitti di interesse?

«In sé non è un aspetto deleterio. Che ci sia un legame nelle attività delle fondazioni tra chi svolge politica attiva e chi si occupa di attività economiche, imprenditoriali e professionali, non è un dato atipico delle moderne democrazie. Anzi, avviene in tutte le democrazie occidentali. Il problema è che i potenziali conflitti di interesse possono essere contrastati o attenuati solo attraverso meccanismi di trasparenza. Se l’imprenditore Tizio finanzia la fondazione del politico Caio e questo dato è noto, come avviene ad esempio negli Usa, questo sterilizza il conflitto d’interessi perché quando si discuterà di provvedimenti che riguardano l’imprenditore Tizio, direttamente o indirettamente, tutti potranno rendersi conto dei legami. Quello che è grave è l’assenza di pubblicità nel modo in cui le due situazioni si interfacciano all’interno delle fondazioni».

Alfano nasconde i soldi perfino ai suoi prefetti. La Fondazione presieduta dal ministro non pubblica l'elenco dei finanziatori. E il dg Rai è sponsor di Renzi, scrive Paolo Bracalini Sabato, 09/01/2016, su “Il Giornale”. Un investimento da appena 250 euro che ne rende ogni anno 650mila (di stipendio), un posto di assoluto comando nella tv pubblica e prima ancora il Cda di Poste italiane. In epoca di rendimenti bassi o negativi, l'investimento di Antonio Campo Dall'Orto è da manuale di finanza. Il nuovo direttore generale della Rai ha donato 250 euro alla Fondazione Open, la cassaforte renziana, entrando così nel cerchio ristretto degli amici dell'ex sindaco di Firenze, che poi da premier ha ricambiato quelli che aveva creduto in lui nominandoli nelle partecipate pubbliche. Dall'Orto è uno dei molti finanziatori «in chiaro» della fondazione guidata da Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Marco Carrai. I donatori, cioè, che hanno dato il consenso alla pubblicazione dei propri nomi nell'elenco dei finanziatori del think tank legato a Renzi.Ma c'è una zona grigia. Sui 2.803.953,49 euro raccolti dalla Open, infatti, quasi un terzo (913mila euro) arriva da ignoti sostenitori del renzismo che preferiscono restare anonimi. E nemmeno tirando in ballo le prefetture, che per legge vigilano (poco) su enti di diritto privato come le fondazioni, si riesce a sapere di più. Il test lo ha fatto l'Espresso, contattando via mail sette prefetti di altrettanti città italiane (da Roma a Napoli) dove hanno sede le associazioni politiche espressione di qualche leader o presunto tale. Ma anche l'intervento dello Stato, nella figura del prefetto, non sembra illuminare granché di quella zona d'ombra che nasconde le modalità di finanziamento delle fondazioni. Il paradosso è che persino quella che fa capo ad Angelino Alfano, ministro dell'Interno e dunque riferimento istituzionale dei prefetti, «esprime dissenso» alla richiesta di fornire bilanci e informazioni sulla Fondazione De Gasperi, presieduta appunto dal leader di Ncd e capo del Viminale. L'unico patrimonio tracciabile risale all'eredità della vecchia Dc, 400 milioni di lire, passati alla fondazione intitolata al grande statista democristiano. Il resto dei finanziatori si può solo immaginare guardando i membri del consiglio di amministrazione (Bazoli di Intesa San Paolo, il miliardario libanese Makhzoumi Fouad...), visto che la fondazione del ministro non si rende trasparente ai prefetti. E donatori ne servono, visto che anche il 5 per mille per l'associazione di Alfano è andato molto male: l'ultima volta solo 59 contribuenti hanno espresso la preferenza nella dichiarazioni dei redditi, per complessivi 6.700 euro. Spiccioli. Di fondazioni politiche ce n'è un centinaio, ma le più importanti (e ricche) sono una ventina. Ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - e non devono rendere pubblici i bilanci. Tanti vantaggi che ne spiegano la proliferazione. Una di quelle storiche è ItalianiEuropei di Massimo D'Alema. Quando nasce, nel 1999, viene innaffiata di soldi da cooperative rosse, grosse multinazionali, colossi della farmaceutica. La fondazione dell'ex premier Ds ha autorizzato la prefettura a rendere pubblici i suoi bilanci. Dai quali, però, non si ricavano le informazioni complete sui finanziatori. In totale dai rendiconti fino al 2013 risultano quasi 2 milioni di euro di donazioni, registrate genericamente come «contributi all'attività» da «nuovi soci». Ma quali siano i loro nomi non è dato saperlo.

Figuraccia italiana nella visita a Riad: rissa per il Rolex regalato a Renzi & C. I 50 membri della delegazione si sono azzuffati per i regali offerti dalla famiglia reale. Il premier li fa sequestrare ma a Palazzo Chigi non sono ancora arrivati, scrive TGCOM il 9 gennaio 2016. Monta la polemica per il viaggio diplomatico e commerciale compiuto da Matteo Renzi e una delegazione politico-economica in Arabia Saudita l'8 novembre 2015. E non c'entrano gli appalti miliardari o la crisi internazionale con l'Iran a causa delle esecuzioni capitali compiute da Riad. Il problema sono i Rolex, i regali che i ricchi sauditi avevano preparato per alcuni membri della delegazione italiana ma che alla fine tutti avrebbero preteso. Stando alle indiscrezioni di stampa questi Rolex non è chiaro che fine abbiano fatto. E' il Fatto Quotidiano a ricostruire la vicenda: i 50 ospiti arrivati da Roma (tra cui vertici di aziende statali e non come Finmeccanica, Impregilo e Salini) sono a cena con la famiglia reale. Arrivano gli omaggi preparati dagli sceicchi, pacchettini con nomi e cognomi, in italiano e arabo. C'è il pacchettino di serie A, con il Rolex svizzero, e quello, diciamo, di serie B con un cronografo prodotto a Dubai che vale "solo" 4mila euro. Il fattaccio avviene quando un furbetto della delegazione italiana scambia il suo cronografo arabo col pacchetto luccicante svizzero. Il "proprietario" del Rolex se ne accorge e scoppia una quasi rissa. Tutti vogliono il Rolex, i reali sauditi sarebbero anche pronti a cambiare tutti i regali pur di non vedersi di fronte questa scena da mercato del pesce. Ma interviene la security di Renzi che sequestra tutti i pacchetti. Ora, denuncia il Fatto Quotidiano, di questi orologi si è persa traccia. Va ricordato che il governo di Mario Monti varò una norma che impedisce ai dipendenti pubblici di accettare omaggi del valore superiore a 150 euro. I Rolex e gli altri cadeau avrebbero dovuto essere depositati nella stanza dei regali al terzo piano di Palazzo Chigi. Ma qui non si trovano. Interpellata sul caso, Ilva Saponara, padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non risponde, dice di avere la febbre e di non ricordare nemmeno il contenuto dei doni offerti dai sauditi. Anche l’ambasciatore Armando Varricchio, consigliere per l'estero di Renzi, non parla ma annuisce di fronte alla ricostruzione del caso. Non dice che fine hanno fatto i Rolex ma rassicura: "I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali". Se ne deduce che qualcuno ancora non ha restituito il Rolex in questione. E chissà se mai lo farà.

Governo in visita in Arabia Saudita. La missione finisce in rissa per i Rolex in regalo. Durante la trasferta a Ryad dello scorso novembre, i delegati italiani si sono accapigliati per dei cronografi da migliaia di euro, un omaggio dei sovrani sauditi. Per questo la delegazione del premier li ha sequestrati. Nota di Palazzo Chigi: "Sono nella nostra disponibilità", scrive Carlo Tecce l'8 gennaio 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Parapiglia tra dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renziper i Rolex elargiti dagli amici di Ryad. Questo racconto, descritto da testimoni oculari, proviene dall’Arabia Saudita. È una grossa figuraccia internazionale per l’Italia. È ormai la notte tra domenica 8 e lunedì 9 novembre. Il palazzo reale di Ryad è una fonte di luce che illumina la Capitale saudita ficcata nel deserto. La delegazione italiana, che accompagna Matteo Renzi in visita ai signori del petrolio, è sfiancata dal fuso orario e dal tasso d’umidità. La comitiva di governo è nei corridoi immensi con piante e tende vistose, atmosfera ovattata, marmi e dipinti. Gli italiani vanno a dormire. Così il cerimoniale di Palazzo Chigi, depositario degli elenchi e dei protocolli di una trasferta di Stato, prima del riposo tenta di alleviare le fatiche con l’inusuale distribuzione dei regali. Quelli che gli oltre 50 ospiti di Roma – ci sono anche i vertici di alcune aziende statali (Finmeccanica) e private (Salini Impregilo) – hanno adocchiato sui banchetti del salone per la cena con la famiglia al trono: deliziose confezioni col fiocco, cognome scritto in italiano e pure in arabo. Gli illustri dipendenti profanano la direttiva di Mario Monti: gli impiegati pubblici di qualsiasi grado devono rifiutare gli omaggi che superano il valore di 150 euro oppure consegnarli subito agli uffici di competenza. Qui non si tratta di centinaia, ma di migliaia di euro. Perché i sovrani sauditi preparano per gli italiani dei pacchetti con orologi preziosi: avveniristici cronografi prodotti aDubai, con il prezzo che oscilla dai 3.000 ai 4.000 euro e Rolex robusti, per polsi atletici, che sforano decine di migliaia di euro, almeno un paio. A Renzi sarà recapitato anche un cassettone imballato, trascinato con il carrello dagli inservienti. Il cerimoniale sta per conferire i regali. Il momento è di gioia. Ma un furbastro lo rovina. Desidera il Rolex. Scambia la sua scatoletta con il pacchiano cronografo con quella dell’ambito orologio svizzero e provoca un diverbio che rimbomba nella residenza di re Salman. Tutti reclamano il Rolex. Per sedare la rissa interviene la scorta di Renzi: sequestra gli orologi e li custodisce fino al ritorno a Roma. La compagine diplomatica, guidata dall’ambasciatore Armando Varricchio, inorridisce di fronte a una scena da mercato di provincia per il chiasso che interrompe il sonno dei sauditi. Anche perché i generosi arabi sono disposti a reperire presto altri Rolex pur di calmare gli italiani. Non sarà un pezzo d’oro a sfaldare i rapporti tra Ryad e Roma: ballano miliardi di euro di appalti, mica affinità morali. Nonostante le decapitazioni di Capodanno, tra cui quella dell’imam sciita che scatena la furia dell’Iran, per gli italiani Ryad resta una meta esotica per laute commesse. E che sarà mai una vagonata di Rolex? Il guaio è che degli orologi, almeno durante le vacanze natalizie, non c’era più traccia a Palazzo Chigi. Non c’erano nella stanza dei regali al terzo piano. Chi avrà infranto la regola Monti e chi l’avrà rispettata? E Renzi ce l’ha o non ce l’ha, il Rolex? La dottoressa Ilva Sapora, la padrona del cerimoniale di Palazzo Chigi, non rammenta il contenuto dei doni. Ha la febbre e poca forza per rovistare nella memoria. Varricchio ascolta le domande e la ricostruzione dei fatti di Ryad: annuisce, non replica. Varricchio è il consigliere per l’estero di Renzi, nonché il prossimo ambasciatore italiano a Washington. Allora merita un secondo contatto al telefono. Non svela il destino del Rolex che ha ricevuto, ma si dimostra comprensivo: “I cittadini devono sapere. Queste vicende meritano la massima attenzione. Le arriverà una nota di Palazzo Chigi. Che la voce sia univoca”. Ecco la voce del governo, che non smentisce niente, che non assolve la Sapora, ma precisa i ruoli: “I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali”. Il racconto non finisce. Cos’è accaduto dopo la notte di Ryad? Chi non voleva restituire o non ha ancora restituito i Rolex? Da il Fatto Quotidiano di venerdì 8 gennaio 2016.

Renzi, Caporale vs Fiano (Pd): “Ci fu rissa tra dirigenti per Rolex regalati dai sauditi”. “Scena ignominiosa, ma per me non c’è notizia”, continua "Il Fatto Quotidiano tv". Polemica vivace tra Antonello Caporale, inviato de Il Fatto Quotidiano, e il deputato Pd Emanuele Fiano, durante Omnibus, su La7. Lo scontro è innescato dall’articolo di Carlo Tecce, pubblicato sul numero odierno del Fatto, circa il parapiglia esploso nello scorso novembre tra i dirigenti del governo in viaggio con Matteo Renzi in Arabia Saudita: la rissa tra i dirigenti governativi della folta delegazione italiana è stata scatenata dalla generosa elargizione di circa 50 Rolex di varia fattura ad opera del re saudita. Come spiega Caporale nella trasmissione, nella hall dell’hotel di Ryad alcuni dirigenti italiani si sono ribellati perché avevano ricevuto l’orologio meno lussuoso, peraltro in barba alla legge Monti che impone di rifiutare doni oltre i 150 euro. Successivamente la scorta di Renzi ha dovuto sequestrare gli orologi, tutti prodotti a Dubai e dal valore oscillante tra3mila e 4mila euro. Caporale commenta: “Temo che la mediocrità del gruppo dirigente e di coloro che dovrebbero guidare l’Occidente a risolvere questa crisi internazionale sia tale che anche i dettagli illustrino il pessimismo generale. E questo episodio è un dettaglio significativo”. Il giornalista definisce il caso dei Rolex d’oro donati dagli ‘amici di Ryad’ un dettaglio di costume non certo folkloristico: “E’ indicatore della nostra ambiguità che ovviamente non è solo italiana, e simboleggia la debolezza dell’Occidente. Che non riesce non solo a porre un’idea generale cu come far fronte a una guerra così asimmetrica, pericolosa, atipica, difficile da condurre, ma nemmeno a misurare le forze per far fronte a cose più banali”. Insorge Fiano, che ribadisce di aver letto l’articolo de Il Fatto Quotidiano ‘parola per parola': Qui c’è un grande titolo, ma di notizie certe non c’è nulla”. “E’ notizia certa che i Rolex siano stati dati”, replica Caporale. “L’unica fonte che viene citata” – obietta il parlamentare Pd – “è un consigliere diplomatico di Palazzo Chigi”. “C’è la nota di Palazzo Chigi alla fine dell’articolo– ribatte la firma de Il Fatto – “lo legga tutto”. Ma il deputato Pd, pur definendo “ignominiosa” la rissa descritta nell’articolo di Tecce, ripete che non c’è notizia, né la nota di Palazzo. In realtà, la versione del governo c’è e non smentisce nulla, ma precisa i ruoli: I doni di rappresentanza ricevuti dalla delegazione istituzionale italiana, in occasione della recente visita italiana in Arabia Saudita, sono nella disponibilità della Presidenza del Consiglio, secondo quello che prevedono le norme. Come sempre avviene in questi casi, dello scambio dei doni se ne occupa il personale della presidenza del Consiglio e non le cariche istituzionali.

Quei magistrati calabresi iscritti alla massoneria. Tre dossier che scottano per un unico filone investigativo. Al centro i rapporti inconfessabili tra 'ndrangheta, politica e istituzioni all'ombra delle logge, scrive il direttore Paolo Pollichieni su "Il Corriere della Calabria", sabato, 09 Gennaio 2016. Un filone investigativo che scotta quello che si ritrovano in mano diversi magistrati calabresi: porta a rivisitare e riattualizzare i rapporti tra l'élite della 'ndrangheta e pezzi importanti del mondo massonico. Non bastasse, ecco ricomparire anche il nodo dell'appartenenza alla massoneria, in maniera diretta o velata ("all'orecchio"), di magistrati con ruoli particolarmente delicati dentro le strutture giudiziarie della Calabria e non solo della Calabria. Singoli filoni che fin qui non hanno avuto una lettura unitaria, tracce e piste seguite dalle inchieste condotte da Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Dda reggina, da Giuseppe Lombardo, della stessa Dda reggina, e da Pierpaolo Bruni, che invece lavora alla Dda di Catanzaro. Va ribadito che affiliarsi alla massoneria non è reato, in quanto la massoneria non è tra le "associazioni segrete" proibite dalla Costituzione italiana con l'articolo 18 («Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare»). Diverso è dimostrare che alcune logge massoniche, magari sfuggite al controllo della fratellanza universale, fanno da punto di ritrovo per rapporti e sinergie inconfessabili tra mafiosi, politici e rappresentanti delle istituzioni. A questo lavorano le singole inchieste e su questo stanno tornando a rendere dichiarazioni importanti faccendieri che hanno rappresentato la cerniera tra nomine, affari, appalti e riciclaggio riconducibili al mondo criminale. Ma quando ci si imbatte nel nome di magistrati affiliati alla massoneria il discorso cambia, perché se pure non si può qualificare l'affiliazione massonica come reato, c'è tuttavia quanto statuito dal Consiglio superiore della magistratura che ha affermato con chiarezza «l'incompatibilità fra affiliazione massonica e l'esercizio delle funzioni di magistrato», perché le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezione a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell'immagine e del prestigio del magistrato e dell'intero ordine giudiziario». A dare manforte al Csm c'è anche una sentenza della Suprema corte: «Il giudice massone può essere ricusato dall'imputato, in quanto l'appartenenza a logge preclude "di per sé l'imparzialità" del magistrato» (la Cassazione, 5a sezione penale numero 1563 / 98), in altre parole, perché – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – «essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l'unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi a interessi individuali nell'emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia». Come regolarsi, dunque, se nell'acquisizione di documenti o nella raccolta di deposizioni sotto giuramento, arriva sul tavolo del magistrato inquirente il nome di un collega indicato come affiliato alla massoneria? Se lo stanno chiedendo in queste ore all'interno delle Procure calabresi più esposte sul fonte delle indagini sui rapporti apicali tra 'ndrangheta, politica e affari. I dossier che scottano sono sostanzialmente tre. Il primo trae origine dalle denunce incrociate tra il gran maestro Gustavo Raffi e uno dei massimi esponenti storici della massoneria calabrese, il gran maestro Amerigo Minnicelli. Quest'ultimo, in sostanza, ha accusato pubblicamente il Grande Oriente di aver consentito una dilatazione delle iscrizioni in Calabria al fine di condizionare l'esito dell'elezione del nuovo gran maestro Stefano Bisi, giornalista e vicedirettore de Il Corriere di Siena, scelto da Raffi e vittorioso grazie al fatto che attorno a lui si sono schierate compatte le logge calabresi, forti di 2mila maestri votanti. I rivali di Bisi non hanno apprezzato il sostegno plebiscitario di una regione, la Calabria, che durante la gestione Raffi ha acquisito un peso elettorale e politico pari a quello di Toscana e Piemonte, molto più popolate e di lunga tradizione massonica, e molto superiore a regioni molto più estese come la Sicilia o la Lombardia. Un contenzioso interno? Non più, dopo le feroci critiche del fratello calabrese Amerigo Minnicelli, che ha denunciato brogli alle elezioni precedenti ed è stato trascinato davanti al tribunale, prima massonico poi ordinario. «Raffi ha ritenuto di ampliare la base», dice Minnicelli, «e questo non è certo un delitto. Ma l'esplosione degli iscritti nella mia regione fa riflettere. E l'operazione "Decollo money" che ha portato in carcere nel 2011 l'imprenditore Domenico Macrì, calabrese con residenza in Umbria e agganci in banca a San Marino, amico personale di Raffi, lambisce la Gran maestranza». Raffi ha risposto a modo suo. Ha sospeso Macrì ma ha espulso Minnicelli. Illuminanti, invece, sono le parole di Pantaleone Mancuso (alias "Vetrinetta"), mammasantissima del crimine calabrese, deceduto il 3 ottobre scorso, che ha teorizzato la confluenza della 'ndrangheta nella massoneria. Una preziosa intercettazione ambientale, infatti, ci consegna il boss mentre spiega che la 'ndrangheta «non esiste più», è roba da paese, la 'ndrangheta vera si è trasferita all'interno della massoneria, anzi è «sotto la massoneria». Un poco quanto va spiegando, e siamo al secondo filone investigativo, in queste ore ai magistrati reggini un altro esponente di spicco della massoneria che ha ripreso a collaborare con la magistratura. Spiega perché, negli anni, il potere in Calabria si è concentrato sull'asse Reggio-Gioia Tauro-Vibo e nel farlo chiama in causa anche magistrati che avrebbero agito a protezione del "sistema" ogni qualvolta le inchieste si sono avvicinate pericolosamente a tale cabina di comando criminale. Il terzo nasce dal materiale sequestrato dal pm Pierpaolo Bruni in casa e nei locali che ospitano la loggia massonica fondata da Paolo Coraci, originario di Messina e residente a Roma ma con amicizie salde nel Vibonese e nel Reggino, tra queste quelle con alcuni magistrati calabresi. Dall'archivio del gran maestro Coraci sono saltate fuori anche le schede di valutazione e i curricula di adepti da segnalare per l'ingresso nei consigli d'amministrazione di 15 enti pubblici. Non solo, anche tre Questure sarebbero state elevate al livello di dirigenza generale attraverso un intreccio di interessi tra la loggia, un sacerdote ed esponenti politici. L'intervento della loggia massonica avrebbe riguardato due Questure del sud Italia e una in una regione del Centro. Secondo la Dda di Catanzaro, la loggia massonica fondata da Coraci aveva interesse a creare un intricato sistema di potere che portava anche alla nomina di consiglieri d'amministrazione in enti pubblici. C'è quanto basta a mettere in fibrillazione più di un "palazzo", più di una "loggia" e più di una "cosca", specialmente alla vigilia di una serie di scelte importanti che proprio il Consiglio superiore della magistratura è chiamato a compiere per via del turnover ai vertici di uffici giudiziari delicatissimi, quali ad esempio le procure di Catanzaro e Cosenza.

POTERE A 5 STELLE.

L’ipocrita Di Maio. La colpa dei padri non ricade sui figli, ma vale solo per lui.

Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Non andrò a Corleone". Candidato sindaco col nipote di Provenzano, la foto imbarazza Di Maio: "Va espulso". Il vicepremier: "Non vado a Corleone. Un ministro, lo Stato, non può partecipare a un comizio dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci, aspirante primo cittadino del M5S: "Sto valutando il ritiro", scrive Daniele Ditta il 23 novembre 2018 su Palermo Today. Il vicepremier Luigi Di Maio stasera non parteciperà al comizio finale del candidato sindaco del M5S di Corleone Maurizio Pascucci, finito nell'occhio del ciclone dopo la foto pubblicata su Facebook col nipote di Provenzano. La rinuncia pochi minuti dopo l'atterraggio a Punta Raisi. Di Maio, con un video diffuso sulla sua fanpage di Facebook, ha comunicato la sua decisione. "Mi dispiace - ha detto rivolgendosi agli elettori del M5S di Corleone - ma stasera non ci sarò. Anche se mi avrebbe fatto piacere. Poco fa ho aperto lo smartphone e tra le news c'era la notizia del nostro candidato sindaco M5S che voleva aprire al dialogo con i parenti dei mafiosi. Questa dichiarazione fa il paio con la foto sua con il nipote del boss Provenzano, uno dei capi della mafia stragista degli anni '80 e '90. Sono sicuro che foto e dichiarazioni siano state fatte in buona fede, ma è il concetto ad essere pericolosissimo. Non posso correre il rischio che un ministro, lo Stato, partecipi ad un comizio elettorale dopo un appello al dialogo con i mafiosi". Pascucci si è lasciato immortalare con Salvatore Provenzano, nipote di Binnu 'u tratturi, nel bar che a Corleone gestisce con la moglie. "Un buon caffè con Salvatore. Delusione per i maldicenti..." questo il commento di accompagnamento. L'istantanea ha sollevato un vespaio di polemiche. Per il ministro Di Maio "se ti fai una foto col nipote di Provenzano stai comunicando qualcosa - anche involontariamente - a quelli lì. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo". Un vero e proprio terremoto politico, tanto da mettere in discussione la candidatura di Pascuccia. "Il ritiro della mia candidatura? Sto valutando. Tra un po' mi incontrerò con il mio staff e decideremo tutti insieme", ha detto Pascucci all'AdnKronos. "Chiedo scusa a Di Maio, ma quella foto con il nipote di Provenzano è stata concordata con lo staff e il deputato di riferimento di Corleone (Giuseppe Chiazzese, ndr). E' stata frutto di una scelta precisa, perché volevamo dare un segnale e non per chiedere i voti dei mafiosi, anzi per evidenziare la presa di distanza del nipote di Provenzano dalla mafia". Pascucci, dopo aver visto il video del vicepremier Di Maio, ha parleto di "incomprensione". E ha ribadito: "Io non li voglio i voti dei mafiosi e lo dirò al comizio stasera. Sono a Corleone da 14 anni e combatto contro la mafia e i mafiosi, quindi mai e poi mai posso pensare di arrivare a un compromesso con loro. Il fatto è molto semplice - ha provato a spiegare Pascucci - ci sono dei parenti di mafiosi condannati che prendono le distanze dai loro congiunti e non è giusto che questi parenti siano esclusi per tutta la loro vita dalla comunità. Solo a questa condizione, se loro prendono le distanze dai loro congiunti che hanno commesso dei reati gravissimi penso che si possa aprire con loro un dialogo per farli uscire da una dinamica che li colpevolizza in quanto i parenti dei mafiosi non hanno commesso dei reati". Pascucci non ha ancora parlato con Di Maio, che stasera incontrerà alcune categorie di lavoratori in difficoltà, mentre domani visiterà lo stabilimento della Fincantieri e farà un meeting con un centinaio di imprenditori. "Spero - ha concluso - di incontrarlo domani a Palermo". Un addio al M5S? "No, nessuna rottura. Io mi scuso con Di Maio e con i cittadini che hanno pensato che io volessi i voti dei mafiosi". Visto che, malgrado le scuse, Pascucci ha organizzato il comizio, Di Maio ha annunciato sanzioni: "Lo denunceremo ai probiviri, va espulso dal M5S. Qualora qualcuno della lista fosse eletto, gli verrà subito ritirato il simbolo. Sulla mafia - ha concluso Di Maio - non è concesso neppure peccare d'ingenuità da parte di chi si candida a ricoprire cariche pubbliche. Non ci aspettavamo questa arroganza. Non è un comportamento da Movimento 5 Stelle e come tale deve essere sanzionato immediatamente". Preoccupazione è espressa dalla Camera del Lavoro di Corleone. "Fermo restando che la lotta alla mafia non si fa emarginando i parenti dei mafiosi ma condividendo con chiunque i valori di giustizia e legalità, la scelta di Pascucci appare preoccupante perché il tema dei rapporti con la mafia doveva essere affrontato sia da lui che dai suoi avversari in modo del tutto diverso e con modalità più serie - dice Cosimo Lo Sciuto, segretario della Camera del Lavoro - La città di Corleone ritorna al voto dopo due anni di commissariamento per mafia. Solo questo avrebbe dovuto spingere chi si è candidato alla guida della città a prendere delle posizioni nette e inequivocabili contro il sistema mafioso ancora presente nella nostra realtà. Purtroppo, si è parlato più di pacchetti di voti che di programmi o di ripudio della mafia. Riteniamo gravissima la scelta del vice presidente del Consiglio Luigi Di Maio di non essere presente a Corleone, ricordandogli che prima di essere capo politico di un partito è uno dei massimi rappresentanti dello Stato. Parlando di mafia, Di Maio avrebbe dovuto dismettere i panni dell’uomo di partito e da uomo delle istituzioni assicurare vicinanza ai cittadini corleonesi, stanchi di essere etichettati come mafiosi, e garantire vigilanza, possibilmente incontrando tutti i candidati. L’antimafia non va fatta solo nelle stanze del governo, ma soprattutto nei territori che questa situazione la vivono. La nostra non può solo essere terra di consensi".  "Ricordiamo al vicepresidente del Consiglio Di Maio che la legalità e l'antimafia non si praticano lasciando spazio ai concetti e alle interpretazioni e riteniamo che con le sue dichiarazioni abbia offeso gente che quotidianamente lotta per scrollarsi di dosso etichette, figlie di una storia triste come quella che riguarda Corleone. Dispiace dover constatare che ancora una volta questo paese, in barba ai proclami elettorali che urlano al cambiamento, risulti essere anche vittima di abbandono di Stato".

Corleone, Di Maio e la morte del garantismo, scrive Domenico Ferrara il 24 novembre 2018 su "Il Giornale". I fatti ormai sono noti. Maurizio Pascucci, candidato sindaco M5s a Corleone, dichiara di voler “aprire un dialogo coi parenti dei mafiosi” perché “spesso un condannato per mafia coinvolge tutta la famiglia e i parenti vengono individuati anche loro come colpevoli”. Poi posta su Facebook una foto che lo ritrae con il nipote di Provenzano. Su di lui scoppia la bufera, Di Maio annulla il comizio nella città de Il Padrino e minaccia l’espulsione di Pascucci dal Movimento. Sul caso però a mio avviso sono stati commessi errori e c’è tanta ipocrisia. E sintetizzo il tutto con delle domande e delle considerazioni.

1) Pascucci ha motivato le sue dichiarazioni basandosi sul fatto che il nipote di Provenzano è incensurato e ha preso le distanze dai fatti sanguinosi commessi dalla mafia. Ma allora perché rimarcare pubblicamente la volontà di dialogare con lui? Se è un cittadino come gli altri, perché evidenziare in una intervista a un quotidiano di voler riaprire il dialogo coi parenti dei mafiosi e non, per esempio, di volerlo riaprire con gli agricoltori over 60? L’errore è stato proprio questo, l’aver riposto maggiore attenzione a una fetta di potenziali elettori, quasi a voler conferire loro una superiorità di considerazione rispetto agli altri, differenziandoli da tutto il resto della popolazione.

2) Di Maio, invece di attaccare la stampa cattiva, dovrebbe ringraziarla perché è stata proprio la stampa cattiva a dargli la possibilità di conoscere l’accaduto. E questa per lui potrebbe essere l’occasione per migliorare dai propri errori.

3) Di Maio, però, piuttosto che scatenare la sua rabbia sui social, avrebbe dovuto, almeno per coerenza, andare al comizio di Corleone e ribadire lì in pubblico la sua dura condanna verso il candidato e verso la mafia e tutto il mondo che le ruota attorno. Quello sì che sarebbe stato un segnale concreto. Invece, rimanendo nell’ambito dei social e non scendendo sul territorio, ha di fatto abbandonato il suo candidato bollandolo come colluso per una dichiarazione e per una foto con un incensurato.

4) Un altro errore è stato quello di criminalizzare ed esporre al pubblico ludibrio una persona, Salvatore Provenzano, che, almeno fino al momento, è un cittadino incensurato che gode degli stessi diritti civili e politici di cui gode il vicepremier. “Sono sicuro che la foto e la dichiarazione sono state fatte in buona fede ma il concetto è pericolosissimo. I voti di quelli non li vogliamo e ci fanno schifo. Faremo piazza pulita dei corrotti e dei mafiosi”, ha dichiarato Di Maio. Ma nella foto incriminata non c’è nessun corrotto e nessun mafioso. Altrimenti bisognerebbe ghettizzare i parenti dei mafiosi (fino al primo, secondo, terzo grado?), privarli di ogni diritto e condannarli a vita solo per il cognome che portano. E sarebbe la morte del garantismo.

5) Tempo fa Di Maio è finito nella bufera per una foto del 2016 scattata a Cesa, in provincia di Caserta, in cui compariva accanto a Salvatore Vassallo, inquisito per traffico illecito di rifiuti e fratello di Gaetano, pentito del clan dei Casalesi. Il grillino si è giustificato dicendo che erano stati gli attivisti a portarlo a cena in quel ristorante e che non sapeva chi fosse quell’uomo. Bene. Ma Di Maio è finito alla gogna lo stesso. Come ci è finito Salvatore Provenzano. Ma come non è colpevole il grillino non lo è nemmeno il parente del boss.

Ma se si seguissero i principi cari all’estremizzazione del giustizialismo pentastellato allora si dovrebbero chiedere le dimissioni anche di Di Maio.

Lavoro nero nella ditta del padre di Di Maio, la denuncia delle Iene. La replica: "E' vero, consegnerò i documenti". La trasmissione Mediaset ricostruisce la vicenda di Salvatore Pizzo, ex dipendente dell'azienda edile del padre del ministro del Lavoro. Il vicepremier: "Mio padre ha fatto degli errori", scrive Carmine Saviano il 25 novembre 2018 su "La Repubblica". Casi di lavoro nero nella ditta del padre del ministro del Lavoro. Emerge tutto in un servizio de Le Iene andato in onda durante la trasmissione di domenica. Parte tutto dalla denuncia di Salvatore Pizzo, di Pomigliano d'Arco, ex dipendente della ditta edile della famiglia di Luigi Di Maio. Che denuncia di aver lavorato in nero per due anni, tra il 2009 e il 2010 e che a pagarlo era Antonio Di Maio. Non solo. Pizzo racconta anche di un suo infortunio sul lavoro "coperto" dal padre del vicepremier. Che gli avrebbe consigliato di non denunciare l'accaduto per non incorrere in sanzioni. E la trasmissione di Mediaset ha anche richiesto un commento al capo politico del Movimento 5 Stelle. Di Maio nega ogni personale coinvolgimento, si dichiara all'oscuro dei fatti e promette di verificare immediatamente la veridicità delle affermazioni di Salvatore Pizzo. I fatti, precisa il programma di approfondimento di Italia 1 nella puntata in onda questa sera, risalgono a un periodo antecedente di due anni a quando Luigi Di Maio è diventato proprietario al 50% dell'azienda di famiglia, impresa in cui lo stesso attuale vicepremier ha lavorato per un periodo come operaio. Subito dopo la messa in onda del servizio arriva la replica del vicepremier. Affidata a un post su Facebook. Ammette l'errore. E prende le distanze dal padre: "Mio padre ha fatto degli errori nella vita e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. Ancora: "A maggior ragione - aggiunge- se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio”.

Luigi Di Maio 25 novembre 2018. "Avrete visto il servizio delle Iene. E avrete visto anche la mia intervista. Come sapete, in tutti questi anni, alle Iene abbiamo sempre dato il massimo della disponibilità, non abbiamo chiesto di non mandare in onda servizi, a differenza di altri; non abbiamo mai chiesto alcun trattamento di favore e quando ci hanno rivelato qualcosa di importante li abbiamo ringraziati. Il caso di stasera riguarda un lavoratore che 8 anni fa ha lavorato in nero per mio padre. Sono contento che Salvatore - l’operaio - abbia trovato il coraggio di denunciare pubblicamente dopo 8 anni. Ho letto dei commenti che lo attaccano per averlo detto pubblicamente solo ora, personalmente non credo lo si debba aggredire, inoltre credo che Salvatore Pizzo abbia anche votato il Movimento alle ultime elezioni, visto che ha aderito alla nostra campagna di maggio #ilmiovotoconta. Salvatore Pizzo all’epoca dei fatti si è rivolto al Sindacato CGIL che gli consigliò di trovare un accordo con mio padre per farsi assumere, e infatti poi ha ottenuto un contratto regolare. Successivamente gli fu corrisposto anche un indennizzo. 8 anni fa, come avrete visto dal servizio io non ero né socio dell’azienda, né mai mi sono occupato delle questioni di mio padre. Mio padre ha fatto degli errori nella sua vita, e da questo comportamento prendo le distanze, ma resta sempre mio padre. E capirete anche che sia improbabile che un padre racconti al figlio 24enne un accaduto del genere. A maggior ragione se, come ho detto nel servizio, abbiamo anche avuto un rapporto difficile, che sono contento sia migliorato negli ultimi anni. Come sempre, manterrò gli impegni presi e domani consegnerò a Filippo Roma i documenti su questa vicenda in particolare, che intanto ho chiesto di procurare a mio padre, e faremo tutte le verifiche che servono su quanto raccontato da Salvatore nel servizio. Buona serata a tutti".

I dubbi sulla ditta di famiglia. Usava il magazzino fantasma? Da cinque anni l'azienda è intestata per metà al capo grillino. E nel cortile dell'edificio ci sono materiali edili, scrive Pasquale Napolitano, Lunedì 26/11/2018, su "Il Giornale". Nel 2015 il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio ha pubblicamente dichiarato che la sua famiglia ha alle spalle una lunga tradizione nel settore edilizio. Circostanza che pare confermata, visionando i terreni di proprietà (al 50 %) del padre Antonio Di Maio nel Comune di Mariglianella e su cui è spuntato un manufatto fantasma che ad oggi non risulta censito nel database dell'Agenzia del Territorio (ex catasto). Mettendo bene a fuoco le foto si notano infatti a pochi metri dal manufatto fantasma attrezzi in un uso a una ditta edile. Si vedono, tavole in legno che potrebbero servire per l'installazione di impalcature nei cantieri edili. Ma anche mattoni e residui di cemento. Tutto materiale che un'impresa edile utilizza sia per l'allestimento di un cantiere che per la realizzazione di case e altri interventi. La presenza di materiale edile non dimostrerebbe nulla ma ovviamente fa sorgere alcuni sospetti. Che si aggiungono alle domande già poste dal Giornale al ministro del Lavoro sul manufatto realizzato sui terreni di proprietà della famiglia Di Maio. Il primo dubbio che andrebbe chiarito riguarda le attività svolte nel manufatto fantasma. Potrebbe essere stato utilizzato come deposito per le attrezzatture della ditta edile della famiglia Di Maio? La presenza sui terreni e all'interno del manufatto di mattoni e tavole in legno farebbe ipotizzare un uso di quei vani per l'attività edile. Ma potrebbe essere solo una coincidenza. E magari i Di Maio potrebbero aiutare a risolvere l'enigma. C'è un secondo passaggio che andrebbe chiarito: il periodo. In questo caso, la data è importante perché potrebbe scagionare Di Maio da ogni legame (fatta eccezione per quello familiare) con la storia del manufatto fantasma. In caso contrario potrebbe chiamarlo direttamente in causa. Ma bisogna andare indietro nel tempo. Nel 2014, la società di famiglia Ardima Srl viene ceduta al capo politico dei Cinque stelle e alla sorella. Il vicepremier diventa socio al 50% della società di famiglia che ha come principale scopo sociale la costruzione di edifici residenziali. La società, in realtà, è stata costituita nel 2012 mentre nel 2014 passa a Di Maio e la sorella. Il ministro ha sempre chiarito di non essersi mai occupato delle attività della società e di non aver mai versato un euro. Mentre la società è stata sempre attiva. Ma c'è un passaggio da chiarire: se terreni e immobile (fantasma) che si trovano nel Comune di Mariglianella siano stati usati per le attività edilizie. E soprattutto in quali anni. Prima del 2014, il vicepremier non avrebbe alcun legame societario con Ardima Srl. Dopo il 2014 sì. E c'è il rischio che la società, di cui è azionista al 50%, abbia utilizzato come deposito per le attività edilizie un immobile che non risulta censito negli archivi dell'Agenzia del Territorio. I dubbi aumentano. E anche il silenzio. Restano senza risposte alcune domande: perché quell'immobile non risulta censito? C'è una autorizzazione edilizia? Una pratica di condono in corso? Da ieri non solo per il catasto il manufatto è sconosciuto. Ma anche per Equitalia che nel 2010 ha iscritto un'ipoteca solo sui due terreni. E non sull'immobile. Come si spiega?

Il silenzio di Di Maio sull'edificio fantasma intestato a suo papà. L'immobile non risulta al catasto, il Comune avvia accertamenti. Il leader non chiarisce, scrive Pasquale Napolitano, Sabato 24/11/2018, su "Il Giornale". Il vicepresidente del Consiglio Luigi di Maio imbocca la strada del silenzio. Tace dopo l'articolo de il Giornale nel quale vengono sollevati sospetti di irregolarità edilizie su immobile fantasma costruito su un terreno nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli, intestato al padre Antonio Di Maio. Il capo politico dei Cinque stelle parla di Babbo Natale ma non preferisce parola sul proprio Babbo e la storia del manufatto non censito. Eppure, ieri, il ministro del Lavoro ha inondato le agenzie e i seguaci con una raffica di dichiarazioni. Dal summit «Wide opportunities world» di Samsung Italia, il ministro ha parlato di innovazione imprese, reddito di cittadinanza, Europa. Ha elogiato l'abbattimento delle case abusive dei Casamonica a Roma e annullato il comizio elettorale a Corleone. Ma nessun cenno alla storia dell'immobile fantasma beccato con una foto satellitare sul terreno di proprietà di Di Maio senior. Il numero uno dei grillini ha optato per il profilo basso. Per un silenzio sospetto, senza dare spiegazioni sia al Giornale, che aveva provato ad avere un commento attraverso l'ufficio stampa, che agli attivisti dei Cinque stelle. La platea pentastellata è molto sensibile su questi temi. Quando è saltata fuori la storia del condono edilizio, il ministro non ha perso tempo per chiarire la vicenda. Ieri invece nulla: bocche cucite. Il caso crea imbarazzo nel M5S. Sarebbe bastata una diretta Facebook di una cinquanta secondi per fugare i dubbi. Rispondere agli interrogativi posti da il Giornale. Nel 2000 il padre del vicepremier acquista due terreni e un fabbricato a Mariglianella. Ne rileva però solo il 50 per cento, sia dei terreni che del fabbricato. I due appezzamenti ricadono in un'area che il Prg del 1983 del Comune (ancora vigente) destina alla realizzazione di attrezzature sportive ed edifici scolastici. Al momento del passaggio di proprietà non risulterebbero immobili realizzati sui due terreni. Le domande che pone il Giornale sono semplici: nei documenti presenti nel database in dell'Agenzia del Territorio (ex catasto), Di Maio padre è titolare solamente delle due particelle di terreno: la n.1309 e n.811. Ma visionando gli estratti satellitari salterebbe fuori un immobile sulla particella 1309. La struttura in muratura non risulterebbe censita al catasto. E non figurerebbe nemmeno nell'elenco dei fabbricati intestati a Di Maio senior. Quell'immobile è stato costruito sulla base di un'autorizzazione edilizia? C'è una pratica di condono in corso? Ma quale? La Campania non ha aderito all'ultimo condono mentre le altre sanatorie risalgono agli anni antecedenti al passaggio di proprietà dei terreni. E quindi, la richiesta di condono pendente andava inserita nell'atto notarile. Domande semplici alle quali Di Maio non ha risposto. Le risposte potrebbero arrivare, presto, dagli uffici del Comune di Mariglianella. Il caso è finito all'attenzione del settore antiabusivismo che ora predisporrà i controlli per accertare eventuali irregolarità. In attesa dell'iter amministrativo, il Pd incalza il vicepremier, chiedendo di riferire in Aula: «Il vizietto di casa Di Maio. Dopo la casa abusiva, anche le tasse evase. Ma tanto ci pensa il figlio ministro a fargli un altro condono. Di Maio riferisca in Parlamento. Eccola l'onestà dei 5 Stelle», scrive su Twitter la senatrice Laura Garavini. Mentre la deputata Alessia Morani lo stuzzica: «Di Maio perché taci?».

Tutto quello che Di Maio non ci dice, scrive Alessandro Sallusti, Domenica 25/11/2018, su "Il Giornale". Da tre giorni stiamo raccontando la storia dell'immobile fantasma costruito su un terreno di proprietà della famiglia Di Maio nel Comune di Mariglianella, in provincia di Napoli. Il fabbricato esiste nella realtà, ma non risulta al catasto e non ve n'è traccia nelle modeste, anzi modestissime, dichiarazioni dei redditi della famiglia del vicepremier grillino. Questa vicenda non ha nulla a che fare, apparentemente, con i condoni edilizi dei Di Maio, recentemente saliti agli onori della cronaca e sbrigativamente liquidati dagli stessi come «vecchie storie». Qui stiamo parlando di una storia attuale, probabilmente legata all'attività della società di famiglia, la Ardima srl che opera nel campo dell'edilizia e di cui Luigi è proprietario al 50 per cento. La restante metà figura in capo alla sorella Rosalba, di professione architetto e di fatto la persona che si occupa dell'azienda insieme all'altro fratello Giuseppe che, secondo notizie mai smentite, sarebbe l'amministratore unico. Di che cosa si occupi la Ardima non è chiaro. Ammesso che si occupi di qualche cosa perché i Di Maio sono poco più che nullatenenti, almeno stando alle loro dichiarazioni dei redditi. Il padre dichiara un imponibile di 88 euro nonostante risulti proprietario di terreni e fabbricati, il fratello Giuseppe zero, la sorella Rosalba poco più di 11mila. A mandare avanti la famiglia pare essere la madre, con i suoi 52mila euro all'anno. Il fabbricato fantasma c'entra qualcosa con gli apparentemente non floridi affari della società di famiglia? Non lo sappiamo ancora, stiamo lavorando per capirlo anche perché attorno alla vicenda si è alzato un muro di omertà. Abbiamo chiesto spiegazioni a Luigi Di Maio stesso attraverso i canali istituzionali ma niente, nessuno al momento ha intenzione di chiarire. Può essere che la spiegazione dell'anomalia sia il classico uovo di Colombo, ma anche no. Nel dubbio noi insistiamo, non perché siamo «prostitute» come sostiene Di Maio, ma perché è il nostro mestiere. Le case dei politici e dei loro congiunti, come insegna la vicenda Fini-Montecarlo, non sono case come tutte le altre. Sono speciali, soprattutto se di proprietà di chi ha raccolto voti al motto di «onestà» e «trasparenza».

La figuraccia di Di Maio: condoni a gogò a casa. Nell'abitazione di famiglia a Pomigliano sanati 150 mq di abusi nel 2006. Lui s'infuria: «Era di mio nonno», scrive Lodovica Bulian, Giovedì 08/11/2018, su "Il Giornale". Centocinquanta metri quadri di abusi edilizi, su due livelli, condonati con 2mila euro grazie a una legge del governo Craxi del 1985. Dopo il caso Ischia, il Movimento Cinque Stelle scivola, ancora, sul condono. Dopo le polemiche sul caso Ischia Repubblica scova un'istanza di sanatoria della casa di famiglia del vicepremier Luigi Di Maio a Pomigliano D'Arco. Una pratica presentata nel 1986, intestata ad Antonio Di Maio, padre del leader grillino: la richiesta di condono viene esaminata, e accolta, ben vent'anni dopo, nel 2006. Il conto per mettersi in regola e sanare l'abuso è composto da due rate da 594 euro più altri 410 euro di oneri di concessione, per un totale di duemila euro. «Ampliamenti su secondo e terzo piano», recita la domanda presentata da Di Maio senior, che negli anni in quanto geometra avrebbe anche dato una mano agli esaminatori delle tante pratiche di condono confluite nei comuni dopo il terremoto. La ristrutturazione per ricavare camere e bagni genera una superficie fuorilegge pari a 74 metri quadri abitabili, più altri 3 qualificati come «non residente». Questi solo su un piano. Sull'altro piano i metri quadri da sanare con i lavori realizzati fuori norma sono 73. In totale fa 151 metri di abitazione da condonare. «Adesso si capisce perché il ministro abbia un problema anche solo a pronunciare la parola condono», lo attacca il quotidiano, ricordando come l'espulsione della prima sindaca pentastellata, quella di Quarto (Napoli), Rosa Capuozzo, nacque proprio da un abuso edilizio: la prima cittadina viveva in una casa con un'opera ancora da condonare. Il vicepremier, che da giorni respinge le accuse sulle norme per Ischia inserite nel decreto Genova, risponde all'attacco frontale con un lungo post su Facebook, in cui rivendica la legalità della pratica, mentre sui social scoppiano le polemiche con l'hashtag #condonodifamiglia. «Stamattina Repubblica si è inventata questo scoop sul condono sulla casa di famiglia di Di Maio - ribatte -. Andiamo a pagina 10 - scusate ma ho dovuto comprarla - dove è sbattuta la foto della mia famiglia, una famiglia che è sempre stata onesta. Allora io questa mattina ho chiamato mio padre e chiesto: ma cosa hai combinato? E lui mi ha detto che nel 2006 ci è arrivata una risposta di una domanda fatta nel 1985 su una casa costruita nel 1966. La casa era stata costruita da mio nonno in base al Regio decreto del 1942». La sua Pomigliano è uno dei tanti comuni dove in passato è dilagato il fenomeno dell'abusivismo: la Campania, secondo Legambiente, ha una quota record di 50,6 immobili fuorilegge ogni 100. Nel 1985, precisa Di Maio, «mio padre chiese la regolarizzazione della casa, presentò la domanda ad aprile 86 e nel 2006 è arrivata la risposta in cui il Comune dice: devi pagare 2000 euro e regolarizzi la casa costruita nel 1966. Così mio padre regolarizza un manufatto costruito da mio nonno quando lui aveva 16 anni, io chiaramente non ero ancora nato ma Repubblica non me la perdonerà, questo è il grande scoop di Repubblica. A queste persone che ogni giorno sputano veleno su di me, sul M5s e forse solo così riescono ad andare sui quotidiani dico: metteteci un po' più di amore e meno rabbia». Il quotidiano risponde a sua volta, e punta il dito sulle «omissioni» del vicepremier: «Due terzi della casa, ovvero secondo piano e terzo piano, sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo. Ciò non toglie che si sia trattato di ampliamenti per complessivi 150 metri quadri».

La supercazzola di Di Maio sull’abuso edilizio del padre, scrive Giovanni Drogo il 7 novembre 2018 su Next Quotidiano. Oggi Repubblica ha raccontato la curiosa vicenda del signor Antonio Di Maio, padre del Capo Politico del MoVimento 5 Stelle Luigi Di Maio, che nel 1986 usufruì del condono edilizio varato dal governo Craxi. Per quell’abuso edilizio il signor Di Maio pagò nel 2006 appena 2mila euro, un affarone visto che in totale stiamo parlando di circa 150 metri quadri di superficie abitabile in più creati in maniera abusiva.

Di Maio ammette che suo padre ha usufruito del condono edilizio del 1985. Luigi Di Maio all’epoca del condono aveva vent’anni e non ha nulla a che fare con l’abuso edilizio, commesso prima che lui nascesse. Durante una diretta su Facebook dopo aver ripetuto per l’ennesima volta che a Ischia – dove guarda caso il governo ha deciso di consentire il ricorso a condono edilizio del 1985 per i proprietari di immobili abusivi danneggiati dal terremoto – non c’è nessun condono ci ha tenuto però a smentire le fake news di Repubblica sul condono di cui ha usufruito il padre. Il Capo Politico del M5S spiega che il quotidiano Repubblica «si è inventato questo scoop» relativo al condono dell’abuso edilizio richiesto dal padre.  Di Maio si lamenta che Repubblica ha “sbattuto la foto” della sua famiglia. Foto che però non è stata rubata visto che è stato proprio il vicepremier a pubblicarla il giorno di Pasqua sulla sua pagina Facebook. Il ministro del Lavoro racconta di aver chiamato il padre per chiedere «ma nel 2006 che cosa hai combinato?». Il signor Di Maio ha spiegato al figlio che «nel 2006 è arrivata una risposta del 1985 che riguarda la casa a una casa costruita nel 1966».  Questa risposta conferma quello che è scritto nell’articolo di Repubblica che dice appunto che nel 1986 il signor Di Maio ha presentato una richiesta di sanatoria che è stata concessa vent’anni dopo.

La storia della casa abusiva del papà di Di Maio. Il Capo Politico del M5S la prende alla lontana: «Nel 1966 mio nonno costruisce la casa in cui vivono oggi i miei genitori e vive mio fratello e mia sorella con suo marito. Nel 1966 aveva all’incirca sedici anni. Mio padre costruisce una casa in base ad una legge che era il regio decreto del 1942». Immaginiamo che qui il vicepremier stia facendo riferimento alla legge quadro urbanistica che imponeva l’obbligo di licenza edilizia per chiunque volesse costruire un immobile o fare ampliamenti ad edifici esistenti (legge poi integrata dalla Legge Ponte n. 765/1967 dell’agosto 1967). Non dice però se il nonno avesse ottenuto la licenza edilizia oppure se la licenza era per una metratura inferiore a quella sanata grazie al condono del 1985. Il fatto che il padre del vicepremier abbia chiesto di accedere al condono edilizio varato dai famigerati e cattivissimi governi precedenti però è un chiaro indizio. Scrive Repubblica che nella casa dove ha abitato il vicepremier: «il secondo piano e terzo piano sono connotati da abusi che, secondo quanto registrato negli atti, sono stati realizzati almeno dieci anni dopo». Quindi non nel 1966. Gli abusi in questione sono «nuove camere da letto, tinello e studiolo con lucernai ed altro», in pratica – vista l’entità della metratura condonata – una casa abusiva aggiunta successivamente al “nucleo originario” della dimora Di Maio. «Mio padre nel 1985 da geometra viene a conoscenza della legge che permette di regolarizzare qualsiasi manufatto costruito in precedenza». Quella legge non è una legge qualsiasi, è la legge 47 del 1985 nota anche come condono Craxi. Una legge che permetteva di sanare gli abusi edilizi e a cui ovviamente hanno fatto ricorso molti italiani che erano proprietari di una casa abusiva o di un immobile dove erano stati commessi abusi. Secondo Luigi Di Maio invece il padre ha fatto ricorso a quella legge – di cui parlavano tutti, non stiamo parlando di un codicillo “da geometra” – sostanzialmente “per scrupolo” perché «nell’85 è difficile che esistessero tutte le carte di quella casa» (costruita vent’anni prima, non duecento anni prima). Ora è chiaro anche ad un bambino che le carte possono “non esistere” perché sono andate perse (dove? nei cassetti di casa o al catasto?) ma anche perché quelle carte – essendo stato commesso un abuso – non sono mai esistite. Nel 2006 «diversi decine di anni dopo» (due, per l’esattezza) il padre riceve la risposta da parte del Comune. Di Maio non dice che si tratta – come riporta Repubblica – di un condono per opere di ampliamento fatte in anni diversi che tecnicamente si configurano come “ampliamento di un fabbricato esistente al secondo e terzo piano”. Dice invece che il Comune ha risposto: «devi pagare duemila euro e regolarizzi quella casa costruita nel 1966». Ma come è possibile? Se la casa era stata costruita dal nonno rispettando le prescrizioni della legge urbanistica del 1942 allora era già in regola. Viceversa se magari, nel corso degli anni, erano state fatte delle aggiunte – per un totale di 150 metri quadri – significa che dal 1966 al 1985 la casa ha subito qualche ampliamento non autorizzato. Modifiche che in italiano si chiamano abusi edilizi. Proprio come quelli di Ischia.

Pd e M5S, è guerra in nome della legalità. L'ombra della camorra sul comune di Quarto e la condanna dell'ex assessore Pd Ozzimo per Mafia Capitale incendiano lo scontro tra renziani e grillini. La campagna elettorale delle amministrative è così ufficialmente aperta, scrive Susanna Turco l'8 gennaio 2016 su “L’Espresso”. Alla faccia dei Cinque stelle “stampella” del Pd: è invece guerra (mediatica) senza esclusione di colpi, quella che si combatte sotto la bandiera della legalità tra i democratici e i grillini. Chiamati in causa, entrambi, dall’azione della magistratura. Da un lato, infatti, c’è l’inchiesta sull’amministrazione comunale di Quarto, comune flegreo guidato dai Cinque Stelle su cui pesa l’ombra dell’infiltrazione camorristica nell’elezione e nell’attività dell’ex consigliere De Robbio (indagato dalla Dda); dall’altro, c’è la condanna in primo grado di Daniele Ozzimo, ex assessore Pd a Roma, accusato di corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio nell’ambito di uno dei processi stralcio di Mafia Capitale. E se per la prima parte della giornata è il Pd che va all’attacco dei grillini, chiedendo chiarimenti sul caso, in un crescendo nel quale si invoca anche l’intervento di Alfano per valutare se sia il caso di commissariare il comune, nel pomeriggio invece, poco dopo la condanna di Ozzimo, sono i Cinque stelle a partire al contrattacco. Prima arriva il commento di Alessandro Di Battista, che parla di “macchina del fango” fatta partire dal Pd “contro M5S” “proprio nel giorno della condanna di Ozzimo” e attacca: “Accusano noi ma condannano loro!”. Poi, peraltro invocato più volte dai dem, interviene Beppe Grillo in persona. Con un post sul suo sito, fatto di otto domande e risposte, il leader pentastellato chiarisce che la camorra “non condiziona il M5S di Quarto”, che la sindaca Rosa Capuozzo “non ha mai ceduto alle richieste dell’ex consigliere” (sospeso una decina di giorni prima di essere indagato), e puntualizza che i voti raccolti da De Robbio non sono stati determinanti (ne ha presi 840, il M5S “ha vinto con 70.79 per cento, pari a 9.744 voti contro i 4.020 degli avversari”). Insomma, spiega Grillo, “sindaco e amministrazione sono parte lesa”, nella vicenda di Quarto. Anche se, fa notare il deputato renziano Ernesto Carbone, “esiste un dato politico sul quale sorvolano con leggerezza: Quarto è il feudo elettorale degli stessi Di Maio e Fico. Da quella sede, nella loro campagna elettorale, facevano grandi rampogne moraliste senza però mai accorgersi che l'onda che spingeva i 5 stelle era un'onda sporca”. Insomma, se la condanna di Ozzimo arriva a riaprire le ferite mai chiuse di un Pd romano devastato da Mafia Capitale, l’ombra della camorra – pur arginata quanto si vuole - tra le fila dei Cinque stelle, dove peraltro quattro su cinque componenti il direttorio è campano, è la novità che contribuisce a movimentare il quadro. Volano tra i due partiti accuse a tutti i livelli: i Cinque stelle rinfacciano al Pd l’elezione di De Luca, il salvataggio dell’Ncd Azzollini la legge anticorruzione che “di anti ha solo il nome”, parlano di un partito di “condannati e rei confessi”, invitano Orfini a “portare le arance in carcere a Ozzimo”. Il Pd dal canto suo rinfaccia il no grillino alla legge sul reato per voto di scambio politico-mafioso, la mancata denuncia da parte di Rosa Capuozzo per le minacce ricevute e domanda perché i Cinque stelle, così pronti a invocare la “ghigliottina” per gli altri, stavolta non si pongano “neanche il problema delle dimissioni del sindaco”. Su twitter, giusto per la cronaca, l’hashtag lanciato da Grillo (#condannovoi) prevale come era prevedibile su quello dem (#malgoverno5stelle). Complessivamente, non un bel vedere. Probabilmente, al netto degli sviluppi giudiziari, un assaggio della campagna elettorale per le amministrative, ormai ufficialmente cominciata.

M5S e il caso dei voti camorristi. Le intercettazioni nel comune campano retto dai 5 Stelle. Gli uomini ritenuti vicini alle cosche: al sindaco Capuozzo l'assessore lo diamo in pratica noi...La replica: noi parte lesa, voi a braccetto con la mafia, scrive Alessandro Trocino su “Il Corriere della Sera” il 7 gennaio 2016. Dopo un lungo silenzio, il Movimento 5 Stelle reagisce alle notizie sulle intercettazioni di personaggi in odore di camorra che avrebbero invitato a votare il sindaco M5S di Quarto. Accusati e sbeffeggiati per tutto il giorno dai parlamentari del Pd, i 5 Stelle reagiscono non sul blog di Beppe Grillo (che ancora riporta un post di novembre sulla «trasparenza di Rosa Capuozzo»), ma con una nota: «A Quarto abbiamo espulso Giovanni De Robbio prima ancora che fosse indagato e oggi siamo parte lesa. Fa ridere che sia il Pd, che con la mafia ci è andato a braccetto finora, a ergersi a cattedra morale della politica. Abbia la decenza di restare in silenzio». Nelle intercettazioni, presunti esponenti camorristici spiegano che porteranno a votare per il sindaco a 5 Stelle, Capuozzo, «anche le vecchie di ottant'anni» e che «l'assessore glielo diamo praticamente noi». Il sindaco spiega: «Dalle intercettazioni esce una visione distorta dei fatti». Per tutta la giornata, dal Pd è arrivata una gragnuola di tweet e dichiarazioni. Debora Serracchiani: «Inquietante, Di Maio e Fico, che hanno fatto la campagna elettorale a Quarto, chiariscano». Stefano Esposito: «A Quarto i 5 Stelle mangiano nello stesso piatto della camorra?». Simona Bonafè: «Perché Grillo tace?». Ettore Rosato: «Fatti gravissimi». Ernesto Carbone: «Chiederò che il sindaco sia audita in Antimafia». Matteo Orfini: «Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S». Ma proprio a Orfini è rivolto un passaggio della nota dei 5 Stelle: «Ha difeso fino all'ultimo l'ex presidente pd di Ostia Andrea Tassone, nonostante avesse avuto contezza dei suoi legami con i clan». I 5 Stelle ricordano che «dal '91 a oggi un centinaio di comuni amministrati dal centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose. E hanno il coraggio di parlare? La verità è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd, ci ha fatto affari. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S, invece, è stata messa alla porta». Alessia Rotta, Pd, commenta: «Dopo un assordante silenzio, i 5 Stelle se ne escono sotto tg con una nota anonima che non dice nulla sulle pesantissime accuse. Di Maio che faceva campagna elettorale ora fischietta, Fico starà in vacanza, Di Battista e la Ruocco dai loro amici a Ostia, Casaleggio nella sua azienda a epurare dissidenti, Grillo in tournée. Non hanno il coraggio di mettere neanche la faccia, si nascondono dietro alle veline anonime».

Orfini: "Di Maio mi criticò da Quarto, dove la camorra vota M5S". Tutto il Pd attacca la giunta M5S del comune campano dopo l'inchiesta del pm Woodcock. La replica: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". Il sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti", scrive Cristina Zagaria il 6 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il voto inquinato a Quarto diventa un caso nazionale. Basta un tweet e dall'inchiesta giudiziaria si passa allo scontro politico tra il Pd e il Movimento Cinque Stelle. "A Quarto la camorra vota M5S", poco dopo le 13 il presidente del Pd Matteo Orfini in 140 caratteri cita le intercettazioni dalle quali emerge che alle comunali di Quarto del giugno scorso un clan camorrista locale avrebbe sostenuto il candidato pentastellato Rosa Capuozzo (poi eletta sindaco) e attacca i Pentastellati. Il Pd compatto lo segue. Sinistra Italiana e Verdi chiedono l'invio di una commissione d'accesso nel Comune, per valutare l'ipotesi di uno scioglimento anticipato. Ncd vuole le dimissioni del sindaco. Un attacco concentrico. E poco prima delle 19, un comunicato M5S - senza nessun nome - risponde alle accuse: "Noi parte lesa. Il Pd va a braccetto con la mafia". E mezz'ora dopo la dichiarazione del sindaco Capuozzo: "Visione distorta dei fatti". Il Tweet di Orfini. "Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S". Così, in un tweet, il presidente del Pd Matteo Orfini fa diventare le intercettazioni dell'inchiesta sul Comune di Quarto un caso politico nazionale. Il PD si compatta. Sempre Twitter Ernesto Carbone, deputato del Pd e componente della segreteria nazionale del partito, chiede che il sindaco di Quarto sia ascoltato dalla commissione Antimafia, chiosando "spero che i colleghi del M5S non si oppongano". E il Pd fa quadrato e attacca i Cinque Stelle. Sandra Zampa, vice presidente del Partito Democratico pone l'accento di Di Maio e Fico: "Il quadro che le indagini della magistratura sulle amministrative del comune campano di Quarto ci consegnano è grave e inquietante. Ancora più grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l'attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico".  Emanuele Fiano, responsabile sicurezza del Pd"Ma come mai il movimento Cinque Stelle non manifesta davanti alla prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del comune di Quarto, da loro amministrato? Ma come mai? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri, i vari di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura, oppure ci impartirebbero lezioni di morale dai banchi parlamentari". Debora Serracchiani, vicesegretario Pd: "Di Maio e Fico a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni". Anche Ettore Rosato, capogruppo del Pd alla Camera chiede "ai vertici del movimento grillino di chiarire la natura di quei rapporti con personaggi collusi con la malavita capogruppo del Pd alla Camera". E Andrea Romano, deputato Pd, parla di "modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle". "Rosa, tu hai un problema". Così, alla fine di ottobre, il consigliere comunale pentastellato di Quarto, Giovanni De Robbio, si sarebbe rivolto a Rosa Capuozzo, sindaco di Quarto, cittadina dell'area flegrea, eletta con il Movimento fondato da Beppe Grillo. "Mi mostrò una foto aerea di casa mia sul suo cellulare", ha raccontato Capuozzo in Procura. Comincia così, l'inchiesta sul ricatto a "cinque stelle" coordinata dal pm Henry John Woodcock e condotta dai carabinieri di Pozzuoli. Secondo l'accusa, De Robbio avrebbe minacciato il primo cittadino mostrandole più volte una foto dell'area dove si trova la casa di proprietà del marito alludendo a un presunto problema di abusi edilizi.  Nella ricostruzione della Procura, De Robbio voleva imporre in questo modo al sindaco l'affidamento ad un imprenditore di sua fiducia, Alfonso Cesarano (titolare e gestore di fatto di una ditta di pompe funebri) il campo sportivo di Quarto, la struttura, ora di gestione comunale, che fino all'insediamento della giunta Capuozzo era affidata alla Nuova Quarto calcio per la legalità, la squadra antiracket che, una volta privata del campo, ha dovuto chiudere i battenti. A questo capitolo dell'inchiesta è strettamente collegato l'altro filone al vaglio degli investigatori, quello sul voto di scambio. Il fulcro delle indagini è appunto una intercettazione telefonica che risale al primo giugno scorso, tra il primo e secondo turno delle comunali di Quarto, unica città della Campania amministrata da una giunta del M5S. Un imprenditore legato al clan camorrista dei Polverino, Alfonso Cesarano, dà indicazioni di appoggiare il candidato a sindaco dei Cinque Stelle, Rosa Capuozzo: "Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stel". Capuozzo, che non aveva denunciato De Robbio, è stata sentita due volte dal pm Woodcock. Nel secondo verbale ha parlato espressamente di "ricatto" specificando di avere "paura" di De Robbio. Anche se poi in un secondo momento ha corretto il tiro e ha dichiarato di "non aver mai subito minacce". E oggi dice: "Le intercettazioni telefoniche non aggiungono nulla a quanto già letto nei giorni scorsi. Sono le stesse già note da 15 giorni. C'è solo una visione distorta dei fatti. Riguarda il campo sportivo di proprietà comunale. Ne abbiamo ripreso la gestione non per affidarlo a privati ma per promuovere lo sport per il sociale". Il campo sportivo era stato gestito negli ultimi anni dalla Nuova Quarto calcio per la legalità, sodalizio nato dopo le indagini della Dda di Napoli che avevano scoperto collusioni della vecchia società col clan Polverino. "Ci siamo mossi - dice la Capuozzo - nella direzione di creare una rete di associazioni che operano anche nel settore sociale. Con quote basse possono usufruire della struttura. Inoltre le società e le associazioni che accoglieranno casi di ragazzi indigenti, su indicazione dei nostri servizi sociali, potranno usufruire di ulteriori sconti. Ciò - aggiunge - per operare in senso sociale e puntare a togliere i ragazzi dalla strada". La Capuozzo insiste: "Sin dal primo momento ci siamo mossi in questa direzione non prendendo in considerazione un affidamento a privati".  "Con De Robbio - aggiunge- il rapporto tra noi si era deteriorato proprio per la questione dello stadio. Io sentivo la pressione politica, non le minacce. Mi chiedeva di programmare una gestione affidata a privati. Non ero d'accordo. Era anche contro il nostro programma amministrativo. Per questo motivo non appoggiai la sua candidatura a presidente del consiglio comunale. Si era creata una situazione, come dire, non simpatica". "L'espulsione dal movimento - conclude il sindaco - è avvenuta perché si era allontanato dal piano operativo predisposto per amministrare e rilanciare la città e dalle linee guida del movimento". Intanto De Robbio, il più votato tra i candidati al Consiglio comunale di Quarto alle ultime elezioni amministrative, dopo le polemiche seguite all'inchiesta della Dda di Napoli, già espulso dal partito il 14 dicembre 2015, si dimette dal Consiglio comunale il 28 dicembre. Il 31 dicembre, nel pieno della bufera scatenata dall'inchiesta condotta dal pm Henry John Woodcock, la giunta della Capuozzo perde altri pezzi: rassegnano le dimissioni anche l'assessore al Bilancio, Umberto Masullo ed il consigliere comunale Ferdinando Manzo. Masullo e Manzo hanno escluso collegamenti tra l'indagine e la scelta di dimettersi. L'assessore Masullo parla di "motivi professionali ", mentre il consigliere Manzo scrive una lettera in cui indica "ragioni familiari". In precedenza si era dimesso anche l'assessore alla Cultura, Raffaella Iovine. Oltre a De Robbio, sono indagati anche il geometra Giulio Intemerato, coinvolto nel filone del tentativo di estorsione ai danni del sindaco, e Mario Ferro, il cui nome entra invece nella vicenda del voto di scambio perché sospettato di aver ricevuto, da De Robbio, la promessa di assunzione del figlio presso il cimitero di Quarto in cambio di sostegno elettorale. "Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che con la mafia ci è andato a braccetto finora, che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Luca alla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita. Fa ridere sì, che sia il Pd, che oggi ha fatto della questione morale una reliquia, ad avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell'unica forza politica onesta e pulita, qual è il M5S". Dichiara il M5S. "Per non parlare di Orfini - aggiungono i parlamentari - colpevole non solo di aver trascinato Roma nel fosso, ma soprattutto di aver difeso fino all'ultimo l'ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante - come lui stesso dichiarò - avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale. Dal 91 ad oggi - prosegue il 5 Stelle - circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l'amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose ed hanno anche il coraggio di parlare, di dispensare lezioni di democrazia". "La verità - prosegue il 5 Stelle - è che sono decenni che la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa. Questa è la grande differenza tra una forza di cittadini onesti e puliti come il 5 Stelle e la vecchia classe politica: noi - conclude la nota - camminiamo a testa alta, loro dovrebbero avere almeno la decenza di restare in silenzio". Appena uscito da un commissariamento per infiltrazioni camorristiche, il Comune è per questo "sorvegliato speciale" da parte della prefettura e vive l'incubo di un nuovo scioglimento. Arturo Scotto capogruppo alla Camera di Sinistra Italiana chiama in causa l'invio di una commissione d'accesso al Comune: "A Quarto da anni la sinistra si batte a viso aperto contro la camorra. Vedere in questi mesi le ambiguità del movimento Cinque stelle è davvero insopportabile. Serve subito una commissione d'accesso in comune". Anche i Verdi locali si chiedono perchè non venga nominata la commissione.  Luigi Barone, componente della direzione nazionale del Nuovo Centrodestra e dirigente campano del partito chiede le "dimissioni" del sindaco Capuozzo. E sul caso Quarto interviene anche Fi, con i vicepresidente della Camera, Simone Baldelli: "E poi i vertici di M 5s vanno in tv a Difendere le preferenze...".

M5S e camorra, Pd all’attacco: “Vertici in silenzio su Quarto”. La replica: “Fate ridere, avete sostenuto De Luca”. Grillo e i parlamentari campani Di Maio e Fico accusati di non aver preso posizione sulle infiltrazioni camorristiche che emergono dall'inchiesta che vede indagato per voto di scambio e tentata estorsione il più votato del movimento, già espulso. Serracchiani: "In campagna elettorale davano lezioni di onestà". Carbone: "Audire il sindaco in Antimafia". Sel prefigura lo scioglimento per mafia. La nota M5S: "Molti comuni di centrosinistra già sciolti", scrive "Il Fatto Quotidiano" il 6 gennaio 2016. Il Pd va all’attacco del Movimento 5 Stelle sui rapporti con la camorra. Il caso è quello di Quarto, in provincia di Napoli, dove un’inchiesta della magistratura ha fatto emergere le pressioni sulla nuova giunta comunale grillina da parte di un imprenditore ritenuto vicino al clan Polverino. E dove il più votato del Movimento, Giovanni De Robbio, già espulso, è indagato per voto di scambio tentata estorsione nei confronti del sindaco Rosa Capuozzo. I dem contestano soprattutto “il silenzio dei vertici”, da Beppe Grillo ai parlamentari campani Luigi Di Maio e Roberto Fico e rinfacciano due pesi e due misure rispetto alle tante denunce di malaffare provenienti dal Movimento. E ci si mette anche Sinistra Italiana, prefigurando lo scioglimento per mafia del Comune conquistato dall’M5s appena sei mesi fa. In serata arriva la replica, in una nota del Movimento: “Fa francamente ridere che sia il Pd a ergersi a cattedra morale della politica, un partito che è persino stato in grado di sostenere un condannato come De Lucaalla presidenza della Regione Campania in una lista-ammucchiata sostenuta da Ciriaco De Mita”. Ad accendere lo scontro un articolo della Stampa che riporta alcune intercettazioni agli atti dell’inchiesta coordinata da Henry John Woodcock, già pubblicate da ilfattoquotidiano.it il 24 dicembre. Conversazioni nelle quali il figlio dell’imprenditore Alfonso Cesarano, Giacomo, afferma di aver spinto il boom elettorale di De Robbio e di voler continuare a sostenere i 5 Stelle al ballottaggio: “Adesso si deve portare a votare chiunque esso sia, anche le vecchie di ottant’anni. Si devono portare là sopra, e devono mettere la X sul Movimento 5 Stelle”. Convinto della vittoria finale, Cesarano aggiunge: “L’assessore glielo diamo noi praticamente. E lui – il riferimento è ancora a De Robbio – ci deve dare quello che noi abbiamo detto che ci deve dare. Ha preso accordi con noi. Dopo, così come lo abbiamo fatto salire così lo facciamo cadere”. “Dite a Grillo che Quarto non è uno scoglio di Genova ma uno dei comuni amministrati dal M5S Silenzio su voto di scambio con camorra?”, twitta l’eurodeputata Pd Simona Bonafè. Un silenzio rimproverato anche dal vicesegretario Debora Serracchiani a Di Maio e Fico, che “a Quarto hanno fatto campagna elettorale a tappeto, dando lezioni di onestà. Credo sia quindi legittimo chiedere chiarimenti e spiegazioni”. Sulla stessa linea il vicepresidente Sandra Zampa: “Grave è il silenzio dei vertici del Movimento 5 stelle che proprio in quel territorio vanta la presenza e l’attività di due suoi esponenti di primissimo piano, Di Maio e Fico”, dichiara. Ai due parlamentari chiede spiegazioni anche il senatore Stefano Esposito: “Nei pochi posti dove amministrano o falliscono o sembra abbiano rapporti perversi con la malavita organizzata”, afferma Esposito, che si chiede se il Movimento di Grillo a Quarto “mangi nello stesso piatto della camorra”. E se non stia diventando “un facile cavallo di troia per i poteri malavitosi. Certo”, conclude, “aver detto, come fece Grillo, che la mafia non esiste non aiuta proprio per nulla”. Dal fronte dem è un fuoco di fila: “La prossima settimana chiederò che in commissione parlamentare Antimafia venga audito il sindaco di Quarto. Spero che i colleghi del Movimento 5 Stelle non si oppongano”, annuncia su Twitter il deputato Ernesto Carbone. Mentre il presidente Pd Matteo Orfini si toglie un sassolino dalla scarpa: “Quando segnalai che a Ostia i clan inneggiavano al M5S, Di Maio disse che mi dovevano ricoverare. Lo disse da Quarto, dove la camorra vota M5S”. E ancora, Andrea Romano punta sui meccanismi di selezione dei candidati tanto caro a Grillo e Casaleggio: “Certo le modalità opache di reclutamento dei candidati a 5 Stelle e la stessa opacità dei rapporti tra blog e movimento non aiutano”. Non è solo il Pd a sollevare il caso. Mentre Scelta civica, con Gianfranco Librandi, parla di “pericolosi intrecci”, il capogruppo alla Camera di Sinistra italiana Arturo Scotto prefigura l’onta, per il Comune conquistato a giugno dal Movimento di Grillo, di una “commissione d’accesso”, anticamera del possibile scioglimento per condizionamento mafioso. E tornando al Pd osserva Emanuele Fiano: “Ma come mai il Movimento 5 Stelle non manifesta davanti alla Prefettura di Napoli per chiedere lo scioglimento del Comune di Quarto, da loro amministrato? Strano, io sono certo, che se questo fosse successo in un comune amministrato dal Pd o da altri i vari Di Maio, Di Battista o Fico, si starebbero stracciando le vesti di fronte alla prefettura”. La nota dell’M5s ribadisce che le accuse del Pd “fanno ridere”, perché il partito di Matteo Renzi “oggi ha fatto della questione morale una reliquia”, dunque non può “avanzare lezioni di trasparenza nei confronti dell’unica forza politica onesta e pulita”. Il Movimento rinfaccia a Orfini “di aver difeso fino all’ultimo l’ex presidente Pd di Ostia Andrea Tassone nonostante – come lui stesso dichiarò – avesse avuto contezza ben prima della magistratura dei suoi legami con i clan mafiosi del litorale”. E ricorda poi che “dal ’91 a oggi circa un centinaio di Comuni, se non di più, sotto l’amministrazione di centrosinistra sono stati sciolti e commissariati per infiltrazioni mafiose”. Da decenni, inoltre, “la mafia prova a infiltrarsi nella politica e quando ha incontrato Forza Italia e il Pd ci ha fatto affari, piazzando anche i suoi uomini in Parlamento. Quando ha provato ad avvicinarsi al M5S è stata messa alla porta. Questo è accaduto a Quarto, dove il M5S ha espulso De Robbio prima ancora che fosse indagato ed oggi è parte lesa”.

Saviano: quella sesta stella nera che rischia di diventare una macchia indelebile. La vicenda di Quarto e i 5 Stelle. La delusione per l'incapacità di reggere una sfida come questa può condizionare il giudizio sul Movimento alle amministrative, scrive Roberto Saviano il 10 gennaio 2016 su “La Repubblica”. Il Consiglio comunale di Quarto va sciolto per infiltrazione camorristica. Non importa quanti siano i voti portati dal consigliere espulso Giovanni De Robbio: quanto accaduto rischia di diventare un punto di non ritorno per il Movimento 5 Stelle. Il balletto sulle dimissioni del sindaco Rosa Capuozzo rischia di diventare una macchia indelebile, la sesta stella, la blackstar che offusca tutte le altre. Quarto è la storia di un cortocircuito. La prassi di raccogliere dossier per poter screditare l'avversario politico (che abbiamo chiamato macchina del fango), ha finito per trovare una sinistra corrispondenza, anche se sottile e camuffata, nei processi sui blog o in televisione. Quello che pare essere accaduto a Quarto è un caso di scuola. Da una parte la conferma della terribile regola che vede la camorra schierarsi sempre al fianco di chi vince o quanto meno attiva nello strumentalizzare quelle vittorie; dall'altro un sindaco che ora dopo ora si è mostrato sempre più inadeguato al ruolo, soprattutto in quella realtà così complessa, dove niente è come sembra. Ma la storia di Rosa Capuozzo ha una ricaduta ancora più drammatica poiché conferma che la politica in Italia è solo arte del ricatto; non si esce da questa logica, chiunque sia al governo. Del resto la purezza è un concetto non applicabile alla vita reale: tutti gli esseri umani commettono errori e hanno contraddizioni, che stranamente non vengono valutati se non quando si ha un ruolo istituzionale. E come un serpente che si morde la coda, quanto più in alto abbiamo posto l'asticella della "purezza&onestà", più grande sarà lo scandalo a prescindere dall'entità e dalla natura dell'errore, commesso o meno. Ma il nodo per comprendere questa situazione è la analisi della prassi delle espulsioni, che nei propri opachi contorni è sempre più vissuta dall'opinione pubblica come una pratica di epurazione. Del resto, cosa sono le espulsioni se non il mettere alla gogna chi non ha rispettato il programma, l'additare alla folla il reo? Rosa Capuozzo è colpevole, non eventualmente di abusivismo edilizio (di cui non conosciamo la portata e la natura), ma di essersi presentata come parte lesa invece che come amministratrice inadeguata; d'altro canto, lo scioglimento per infiltrazioni camorristiche del Consiglio comunale non farebbe giustizia alla storia di un Movimento, intrisa di ingenuità politica ma non di disonestà o peggio di connivenze con la camorra. C'è una storia che riguarda Quarto che voglio raccontare. Come spesso accade, i clan investono in società di calcio per ottenere consenso sul territorio, ma anche per riciclare denaro e camuffare il racket con le sponsorizzazioni imposte ai commercianti e agli imprenditori locali. La "Quarto Calcio" apparteneva al clan Polverino - storica cosca attiva nell'area nord di Napoli e legata alla famiglia Nuvoletta, a sua volta in rapporto con la mafia di Corleone -, un clan potentissimo e particolarmente attivo nel traffico di stupefacenti, che ha da sempre avuto un ruolo di primo piano proprio per lo storico legame con Cosa Nostra. A febbraio 2011 la DDA di Napoli sequestra la squadra di calcio ai Polverino e la affida a "Sos Impresa", un ente antiracket. Il sostituto procuratore Antonello Ardituro, oggi al Csm, diventa il presidente onorario della "Nuova Quarto Calcio". Nel 2013 la squadra viene promossa in Eccellenza e sembra prendere corpo il mantra che a Quarto ci si ripeteva: "Con la legalità si vince sempre". Ma il territorio non fa cerchio, gli atti di sabotaggio sono sempre più frequenti e prendono di mira anche lo stadio Giarrusso, quello stesso stadio tornato in gestione al comune sotto il sindaco pentastellato. L'anno scorso l'avventura della squadra della legalità si è conclusa a dimostrazione che la legalità non vince sempre, non vince se la società civile è distratta e impaurita. Non vince se la politica non comprende come queste esperienze siano un collante vero. Che Quarto non fosse un comune come un altro era evidente sin dal principio ed è per questo che la vittoria alle amministrative del Movimento 5 Stelle ha costituito un fatto per certi versi epocale, ma purtroppo per la cittadinanza, dopo sei mesi sembra già venuto il momento del bilancio finale, per un'amministrazione che esce del tutto delegittimata. Il piano politico è quello dunque più significativo oggi ed è bene dire, senza esitazioni, che la delusione per l'incapacità di reggere il confronto con una sfida davvero probante, non può che condizionare il giudizio sulla capacità strutturale del Movimento di proporsi credibilmente alle amministrative che si terranno quest'anno nelle tre più grandi città italiane. Se alle criticità il Movimento è in grado di opporre la sola prassi dell'espulsione, allora il futuro è tutt'altro che roseo e la provocatoria invocazione "onestà, onestà", risuonata nell'aula del consiglio comunale di Quarto, e proveniente dal pubblico di militanti del Partito Democratico, ha finito per essere un amaro contrappasso, una grottesca inversione di ruoli. Ciò che è accaduto a Quarto, ma qualche giorno fa anche a Gela (mi si potrebbe obiettare che le giunte guidate dal Movimento sono 16 e che non è giusto citare solo i casi critici: rispondo che sono i casi critici a mostrare le potenzialità di un movimento politico), ci dice chiaramente che le espulsioni non servono a creare gli anticorpi necessari per amministrare realtà complesse. Mi domando, infatti, cosa accadrà se e quando il Movimento dovesse governare realtà metropolitane in cui politica è giocoforza compromissione, nel senso positivo del termine di dover condividere decisioni importanti anche con altre forze sociali e più in generale con il territorio. Di fronte alle accuse, che ci sono e che ci potrebbero essere, non si può rispondere: voi siete peggio di noi. Non funziona così, i conti non tornano: se il nuovo è solo sentirsi migliori di quello che c'era prima, non è detto che questo sentimento basti a creare le condizioni per essere in grado di amministrare. Io stesso, quando il Movimento 5 Stelle vinse a Quarto, pensai e parlai di un successo del voto di opinione, in un contesto storicamente condizionato dagli interessi della camorra. Invece oggi il caso Quarto rischia di confermare nel cittadino l'idea che la politica in Italia viva solo nelle possibilità di ricatto e che non si possa uscire da questa logica. Rischia di confermare l'idea che non esista davvero la possibilità di evitare di candidare soggetti che prima o poi potrebbero risultare impresentabili. Ma questo non è vero: la conoscenza del territorio, insieme a strutture interne democratiche di pesi e contrappesi, sono le uniche prassi sicure di selezione e metterebbero al riparo da procedimenti di espulsione tipici di una logica da imbonitore. Invece il caso Quarto, per mancanza di competenze e di conoscenza del territorio, finisce per confermare la convinzione distruttiva che viviamo in una democrazia strutturalmente corrotta e arretrata, dove nessuno può ergersi a moralizzatore, perché i giustizieri, prima o poi, finiscono giustiziati. Chi può escludere oggi che l'inconveniente verificatosi a Quarto non possa ripetersi a Roma, a Milano o a Napoli? E se dovesse capitare di nuovo? Se altre criticità dovessero riguardare la figura del sindaco eletto o di un importante assessore - a oggi nulla sappiamo sulla identità dei potenziali candidati e anche questa è vecchia, cattiva politica - cosa ha da proporre come rimedio politico il Movimento, oltre all'espulsione? Che sarà anche catartica, ma che non risolve i problemi enormi di realtà complesse. La fedina penale immacolata non è sufficiente a evitare futuri imbarazzi: il boss Zagaria ha utilizzato come suoi referenti persone che lo avevano denunciato per racket e che quindi indossavano abusivamente la maglia dei "giusti". Le mafie da anni cercano di utilizzare persone senza precedenti, cercano tra i parenti di vittime delle mafie, cercano insospettabili. Quindi come avere soltanto la garanzia della fedina penale? Bisogna munirsi di altri meccanismi di valutazione che non siano inquisitoriali ma semplicemente presenza sul territorio e approfondimento. Sono anni che diciamo quanto le mafie non siano più riconducibili allo stereotipo di coppola e lupara, e abbiano come elementi interni faccendieri dai curricula immacolati, il cui ruolo è proprio fare da collegamento tra l'imprenditoria legata ai clan e la politica. E allora è lecito chiedersi: se le mafie avvicinano il Movimento lo fanno perché è mafioso? Assolutamente no. Lo fanno perché con le sue logiche di reclutamento è facile infiltrarlo, perché sospettano che l'inesperienza di governo possa lasciare spiragli (come sarebbe accaduto a Quarto) per ottenere appalti, ricattare assessori, consiglieri comunali e sindaci. Le mafie stanno provando a infiltrare M5S perché dove la parola d'ordine è purezza e onestà, sanno benissimo come gettare ombre, come far cadere una persona, come bloccare un percorso politico. Se predichi onestà qualsiasi graffio ti farà cadere, mentre dall'altra parte resterà in sella chi il problema dell'onestà non se l'è mai nemmeno posto. E se il Movimento non sarà in grado di imparare e trarre profitto dallo sbandamento di queste ore, il caso Quarto potrebbe pesare come un macigno sulle possibilità di offrire una credibile ed efficiente alternativa ai partiti tradizionali, nonostante i venti di tempesta giudiziaria che oramai soffiano sempre più impetuosi dalle parti di Palazzo Chigi. Eppure il meccanismo inquisitoriale che sottende la logica delle epurazioni, in continuità con la matrice puritana propria della tradizione comunista, è in contrasto con l'ammirazione che il Movimento 5 Stelle prova verso Sandro Pertini, riformista socialista che sull'esempio di Filippo Turati e Anna Kuliscioff, contrastò l'intransigenza bolscevica "o tutto si cambia o nulla serve", spingendo al contrario verso trasformazioni graduali per rafforzare i meccanismi di legalità e giustizia. Negli anni più bui furono loro che salvarono il sentire democratico e socialista dalle derive totalitarie. Quando è il momento di governare e di assumersi responsabilità, il cortocircuito innescato dai processi sommari a mezzo blog a soggetti infedeli ti presenta il conto: oggi è fin troppo chiaro che non basta candidare incensurati per avere la certezza che non commettano reati nel corso del loro mandato. Ed è altrettanto chiaro che non basta espellere chi non rispetta le "regole" per preservare un percorso politico. Il rischio – non faccio ironia – è che ne resti uno solo, il più puro, che finirà per espellere tutti gli altri.

I giusti allo specchio, scrive Marco Bracconi su “la Repubblica” il 10 gennaio 2016. Il tic giustizialista è un automatismo consolidato del grillismo. A tal punto da far dire (e ribadire) all’enfant prodige Di Maio che della presunzione di innocenza – cardine dello stato di diritto – lui farebbe volentieri a meno. Eppure fare dell’onestà non una pre-condizione dell’agire politico ma un programma politico in quanto tale è pericoloso e fuorviante per il funzionamento della vita democratica. Intanto perché con l’alibi della corruzione si spaccia l’idea che la cosa pubblica possa essere gestita non grazie a competenze tecniche e culturali ma solo in virtù di una presunta attitudine morale. In secondo luogo perché rende inevitabile il corto circuito tra media, magistratura e politica che troppo spesso ha condizionato il rapporto tra poteri e opinione pubblica. Infine -­ e conseguentemente - perché crea un clima in cui il sospetto diventa certezza, l’avviso di garanzia una condanna, l’intercettazione un versetto evangelico. Per questo la reazione del Pd sul caso Quarto è miope e sbagliata. Perché volendo cogliere nel breve una (ghiotta) opportunità di propaganda ripropone e alimenta nel medio e lungo periodo uno schema che non può che nuocere alla nostra vita pubblica. Alzare in Campania gli stessi cartelli che i Cinque Stelle alzano nelle altre aule consiliari; costruire un tweet-bombing che riassume i medesimi toni e le stesse modalità degli hastag pentastellati; invocare immediate conseguenze politiche per una vicenda ancora tutta da chiarire sul piano giudiziario: tutto questo significa perpetuare il regime di ambiguità in cui da decenni è intrappolato nel nostro Paese il rapporto tra politica e giustizia. Invece davanti al caso Quarto appropriarsi del mantra l’onestà andrà di moda non era la sola scelta possibile. L’altra avrebbe potuto essere approfittare di quanto sta avvenendo in Campania per dire agli avversari grillini (e al Paese) che il tema della legalità andrebbe posto, nell’interesse di tutti, in modo più equilibrato e meno istintivo. Ma nessuno sfugge - sa sfuggire - al timing dell’istantaneità e del dinamismo pop. Perché la politica è stanca ed è inutile chiedergli di scegliere tra una scorciatoia e un discorso pubblico dai tempi più lunghi e complessi. E perché malgrado lo storytelling imperante in troppi hanno dimenticato la prima lezione delle favole: la via più breve non sempre è la migliore.

La morale a Cinque Stelle è un calcolo variabile, scrive Marco Demarco su “Il Corriere della Sera” l'8 gennaio 2016. L’imbarazzo è difficile da gestire, si sa. Specialmente in pubblico, specialmente in politica. Ed ecco, dai grillini alle prese con il caso Quarto, l’ultima clamorosa conferma. Dopo un lungo silenzio, quando sono venute fuori le intercettazioni dei camorristi che nel Comune flegreo si mobilitavano per far votare e portare alle urne anche le nonnine sulle sedie a rotelle, i pentastellati si sono finalmente decisi a dire qualcosa. Ma se già le prime risposte all’incalzante campagna di stampa e a quella particolarmente accusatoria del Pd erano apparse poco pertinenti, non parliamo poi delle successive, firmate dallo stesso Grillo e postate sul blog ufficiale. «Zitti voi, che avete eletto un condannato come Vincenzo De Luca», avevano infatti detto i vari Fico e Di Maio ai «democrat». D’accordo, è così che sono andate le cose, tanto è vero che alla Regione Campania è poi successo quello che è successo con la legge Severino, i ricorsi, le sospensioni e le sospensioni delle sospensioni. Ma cosa c’entra l’abuso d’ufficio del governatore con una sospetta collusione con la criminalità organizzata nell’unico comune della regione amministrato da una sindaca a cinque stelle? Il peggio però è venuto ieri, quando il leader massimo ha calato l’argomento a suo dire decisivo. I voti di Quarto — si è chiesto Grillo — sono stati determinanti? Risposta: «No è falso. Il M5S ha vinto con il 70.79 per cento pari a 9.744 voti contro i 4.020 degli avversari. L’ex consigliere De Robbio ha raccolto 840 preferenze». Premesso che De Robbio è stato successivamente espulso, e aggiunto che l’espulsione dal M5s è una pratica, come si sa, tutt’altro che eccezionale, sarebbe dunque questo l’alibi di ferro? Chi ha elevato il moralismo a religione politica riduce, oggi che gli conviene, il dato etico a mero calcolo aritmetico.

"Se i boss scelgono i 5 Stelle perché paga solo il sindaco?". Orellana: "Fico è andato in Procura per "spiegare le regole" Se lo avesse fatto il ministro Boschi l’avrebbero massacrata", scrive Alberto Di Majo su “Il Tempo” del 11 gennaio 2016. È stato il candidato del MoVimento 5 Stelle alla presidenza del Senato. Poi, nel corso della legislatura, è stato espulso dal «non partito». Per Luis Alberto Orellana quello che sta succedendo a Quarto è un film già visto. Ma stavolta i 5 Stelle rischiano di perdere la credibilità conquistata negli ultimi anni.

Senatore Orellana, il sindaco Capuozzo deve dimettersi?

«Valuterà lei, ovviamente. Dico soltanto che il sindaco è di tutti i cittadini e non del MoVimento 5 Stelle. La Capuozzo deve difendere un’intera comunità, peraltro in una realtà difficile. E poi quale sarebbe la sua colpa? Poteva denunciare le minacce ricevute dal consigliere che poi è stato cacciato dal MoVimento ma non è nemmeno indagata».

Dunque lei è garantista, a differenza dei suoi ex compagni di partito...

«Loro sono giustizialisti. Al sindaco di Roma Marino hanno chiesto le dimissioni per quattro scontrini. Ieri Roberto Fico (uno dei membri del direttorio del M5S, ndr) è stato sentito dai magistrati napoletani sull’inchiesta. Ha detto che gli ha spiegato le regole del MoVimento. Pensate cosa sarebbe successo se fosse stata chiamata dalla Procura che indaga sull’affaire banche la Boschi per illustrare il decreto del governo. Cosa avrebbero fatto i 5 Stelle?».

Cosa avrebbero fatto?

«Avrebbero chiesto almeno di mettere il ministro in carcere e di buttare la chiave. Mentre Fico è andato a spiegare le regole...».

Però la situazione a Quarto sembra compromessa.

«Un tema c’è: dalle intercettazioni sembra proprio che la camorra abbia scelto come referente il MoVimento 5 Stelle. Hanno cacciato il consigliere De Robbio che avrebbe avuto parecchi voti sospetti ma i presunti camorristi dicono "Portiamo a votare tutti il MoVimento 5 Stelle" e non "De Robbio". Cioè l’ombra del voto di scambio si estende su tutta la lista di Grillo e non solo su un consigliere. Dunque, semmai, dovrebbero dimettersi tutti i 5 Stelle e non soltanto il sindaco».

Il blog del comico genovese è stato chiaro: una nota del M5S chiede alla Capuozzo di lasciare. Se non lo fa, le toglieranno l’uso del simbolo? Cioè la cacceranno?

«Certo. Grillo è l’unico titolare del simbolo dei 5 Stelle. Lo dà e lo toglie quando vuole. Gli manderà una lettera dell’avvocato».

Il caso Quarto peserà sul MoVimento?

«Hanno perso la verginità. Loro si difendono col dire che se la Capuozzo dovesse essere convocata dalla commissione Antimafia, allora dovrebbe andarci anche una cinquantina di esponenti del Pd che si trovano in condizioni peggiori. È soltanto propaganda. Il MoVimento guida 15 città, il Pd ha migliaia di amministratori. Non voglio difendere i Democratici ma la sproporzione mi sembra evidente».

Qualcuno maliziosamente pensa che dietro la «resistenza» della Capuozzo ci sia il sindaco di Parma Pizzarotti, che già da tempo ha molti dissidi con Grillo e Casaleggio...

«Peraltro il "direttorio" è nato subito dopo che Pizzarotti propose di organizzare una serie di incontri tra gli amministratori del MoVimento. Invece il sindaco di Parma ha ragione: ci sono consiglieri che non sanno che differenza c’è tra la Giunta e il Consiglio, che non sanno scrivere una delibera. Eppure nel MoVimento sugli enti locali c’è il vuoto assoluto».

Perché non hanno mai creato una rete degli amministratori a 5 Stelle?

«Grillo e, credo, soprattutto Casaleggio hanno paura di perdere il controllo del MoVimento. Capiterà comunque».

Pensa che i 5 Stelle abbiano esagerato con il «moralismo» nei confronti degli altri partiti?

«Penso di sì. Invece dovrebbero ragionare su come gestire queste situazioni che in Italia sono putroppo molto frequenti. Dovrebbero evitare di arroccarsi nella loro presunta purezza e valutare su come fronteggiare le mafie che, chiaramente, cercano sempre di salire sul carro del vincitore».

Come pensa che andrà a finire la storia di Quarto?

«Spero che non massacreranno il sindaco come hanno fatto tante volte. A me hanno detto anche che ero un verme, che volevo tenere i soldi del mio incarico. Tutte falsità, che io combatto come posso, ma la loro forza mediatica è superiore. Finché saranno convinti, come lo è Casaleggio, che la politica è soltanto comunicazione, le persone saranno messe in secondo piano».

L'anomalia Casaleggio leader senza un voto. Si apre però un grosso problema nel M5S. Ormai Casaleggio esercita un potere assoluto sul nuovo partito, scrive Paolo Becchi Mercoledì 6/01/2016 su “Il Giornale”. Le trasformazioni all'interno del Movimento fondato da Grillo e Casaleggio sono sotto gli occhi di tutti. Grillo, dopo aver fatto togliere il suo nome dal logo, ha ormai altri pensieri (e tra questi, anche se ora non se ne parla, sicuramente lo spettacolino in programma per questo anno). A quanto pare ci siamo: Grillo è ormai assente, anche se ancora si sente la presenza della sua assenza. Si limita ormai a fare il presidente del nuovo partito che invia gli auguri di Natale, ben guardandosi dal riconoscere onestamente il fallimento del suo originario progetto rivoluzionario. Ormai è diventato, come lui stesso ammette, un ologramma in un paese di ologrammi. Più che un augurio di fine d'anno sembra uno spot pubblicitario per lo spettacolino in programma. Si apre però un grosso problema. Nonostante questi cambiamenti resta ancora Grillo, in ultima istanza, il garante delle regole? Il dato di fatto è che all'uscita di scena di Grillo non ha fatto seguito anche quella di Casaleggio, il quale a questo punto da solo esercita un potere assoluto sul nuovo partito, senza esserne il leader, anzi rivendicando di non esserne la guida, pur prendendo tutte le decisioni politiche. Da Weber in avanti è divenuto comune pensare che, nelle democrazie di massa, il leader carismatico funzioni come la reale forza che crea consenso e legittimazione. Il Movimento, volente o nolente, di fatto ne aveva uno: Grillo. E Grillo ci aveva insegnato «la nostalgia del mare vasto e infinito». Ora invece abbiamo una figura quasi invisibile sulla scena pubblica, che decide in segreto la linea politica della maggiore forza politica di opposizione. Insomma, si potrà dire tutto il male che si vuole di Berlusconi, Renzi e Salvini, ma sono leader che ci «mettono la faccia». Nel caso del Movimento, invece, abbiamo una forza politica pilotata da chi è in grado, utilizzando il blog che comunque porta ancora il nome di Grillo, di manipolare l'informazione e al contempo (come nel caso della Consulta) di controllare i parlamentari e, nell'ipotesi del futuro governo pentastellato, di controllare persino l'esecutivo. Una persona, Gianroberto Casaleggio, che non è stata mai eletta e votata da nessuno, controlla il maggior partito di opposizione, imponendo decisioni prese da lui con il ristretto gruppo del Direttorio, che funge da cinghia di trasmissione per controllare tutti gli altri parlamentari ridotti al ruolo di marionette, una persona che ormai utilizza la rete come mezzo per manipolare le coscienze e che domani potrebbe addirittura controllare dall'esterno l'intero governo. Stiamo andando verso una nuova forma di democrazia, non quella diretta, bensì quella eterodiretta. Forse per l'oligarchia finanziaria dominante è ancora meglio della democrazia di facciata di Renzi. Del resto non è un caso che sin dall'inizio la diplomazia americana e le grandi banche d'affari abbiano avuto un occhio di riguardo per il Movimento. Forse un partito ibrido, ma dichiaratamente filoatlantico e che ormai ha archiviato Grillo come un fenomeno da baraccone, è ancora meglio del partito personale di Renzi.

Vi racconto la dittatura a 5 stelle di Casaleggio. Parla Orellana (ex M5s) con Michele Pierri. Conversazione di Formiche.net del 2 gennaio 2016 con Luis Alberto Orellana, senatore, ex grillino, oggi nel gruppo Per le Autonomie. Le ultime epurazioni nel Movimento 5 Stelle, i ruoli di Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio, le fibrillazioni in vista delle prossime elezioni e la lotta per la leadership tra Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Sono alcuni degli aspetti analizzati in una conversazione di Formiche.net con Luis Alberto Orellana, senatore, ex grillino, oggi nel gruppo Per le Autonomie.

Senatore, che succede al M5s? Come mai ci sono tribolazioni mentre i sondaggi continuano a dare il partito in crescita?

«​Innanzitutto va detto che i sondaggi vanno presi con le pinze. Sicuramente il movimento tiene, ma se è cresciuto davvero lo vedremo nelle urne. Molte delle fibrillazioni di questi giorni sono anche frutto di una valutazione: checché se ne dica, non si arriverà a scadenza naturale del mandato. Dopo il referendum sulle riforme costituzionali, è prevedibile che si vada al voto, probabilmente nel 2017. Quindi meglio epurare prima i parlamentari poco graditi. Per quelli in cerca di riconferma è stata un’occasione per dimostrarsi fedeli e allineati alle scelte del capo».

Da cosa dipendono, invece, le tensioni a livello locale, come nel caso di Gela?

«In alcuni posti è risultato chiaro che mentre a livello nazionale alcune carenze riescono per il momento ad essere mascherate non essendo chiamati a governare, negli enti locali è più evidente che la selezione della classe dirigente non ha funzionato. È difficile mettere mano ai problemi, anche se non è il caso del sindaco di Gela. Mentre le espulsioni e il modo in cui vengono attuate non sono altro che una parte di una strategia di comunicazione del M5s che purtroppo abbiamo imparato a conoscere bene nel tempo. Di fronte a delle divergenze, legittime in politica, si tende a rappresentare un mondo diviso in buoni e cattivi, bianco o nero. Naturalmente dalla parte della ragione c’è sempre e solo chi la pensa come i vertici del movimento, dall’altro tutti gli altri, epurati compresi. Invece la storia è ben diversa e più complessa di come viene raccontata».

Quali sono i veri motivi delle ultime epurazioni, come quella di Serenella Fucksia, ma anche del sindaco di Gela?

«​Nel M5s si assiste sin dalla sua nascita a una vera e propria dittatura politica. Il sindaco di Gela ha provato a lavorare autonomamente per il bene dell’intera comunità, saltando gli steccati ideologici e di parte, come dovrebbe fare ogni amministratore locale. Evidentemente questo è bastato a farlo fuori. Ma anche il caso della Fucksia è esemplare. Nel suo caso si è trattato di differenti opinioni politiche. Ad esempio, sul voto al Jobs act si era astenuta, invece di votar contro. Non conosco le ragioni della sua scelta, ma evidentemente non condivideva la posizione del suo partito su quello specifico argomento. In quel momento il M5s, invece di aprire una discussione sul tema, come sarebbe stato giusto e normale in politica, è stata inserita nella lista nera. Poi al momento giusto è stata accompagnata alla porta, con la scusa della rendicontazione effettuata in ritardo. Una motivazione francamente ridicola».

Perché non la convince?

«Nel regolamento dei Cinque stelle non c’è nessun obbligo di rendicontazione a intervalli regolari. Paradossalmente, un parlamentare potrebbe rendicontare una sola volta al termine del suo mandato. Detto ciò, la Fucksia ha effettuato in ritardo solo una rendicontazione, adducendo fra l’altro motivi di salute. Ho fatto questo esempio, ma se ne potrebbero fare molti altri. La verità è che nel M5s si vogliono soldatini, non teste autonome e pensanti».

Perché nel caso di Gela non c’è stata una consultazione on line ma solo un comunicato del M5s regionale?

«​Nel M5s le regole ci sono e non ci sono, si inventano o si usano a piacimento. La stessa Fucksia non è stata espulsa a termini di regolamento. Avrebbe dovuto essere prima decisa dall’assemblea dei parlamentari del partito e poi semplicemente ratificata dalla Rete. Senza contare che, questo modo di giudicare le persone in modo sommario, di denigrarle sul piano personale evitando il confronto politico, non fa altro che far leva sugli istinti più bassi e scatenare reazioni inquisitorie che spesso sfociano in insulti, quando non proprio in minacce, come è accaduto anche al sottoscritto».

Walter Rizzetto ha detto che ormai è Gianroberto Casaleggio a dominare mentre Beppe Grillo ormai conta poco. Lei cosa pensa a riguardo?

«​Tutte le decisioni vengono prese dai Casaleggio, padre e figlio. Sono loro a gestire il blog di Grillo, che è un organo di partito a tutti gli effetti, ma sfugge ad ogni controllo interno ed esterno. Innanzitutto non si sa chi scrive, perché la maggior parte degli articoli non sono nemmeno firmati. E poi è agghiacciante che un partito sia gestito da una srl, è una cosa fuori da ogni logica democratica. Non è un caso che il M5s si opponga a qualsiasi riforma della costituzione per forme di controllo democratico e più stringenti nei partiti. Io stesso mi sono fatto promotore in Parlamento di una proposta di questo tipo. Grillo, sin dall’inizio, è stato il megafono del movimento, forse non ha mai deciso nulla. Ora però sta venendo meno anche a questo ruolo, si sta estraniando a poco a poco».

Come mai?

«Credo si sia stancato e, come ha detto lui stesso più volte, voglia tornare a fare più l’artista».

Sarà Luigi Di Maio il candidato premier​ del M5s alle prossime elezioni?

«​In questo momento sì. Il suo teorico avversario interno, Alessandro Di Battista, sembra non essere in grado di giocarsela. Non ha la stessa capacità mediatica, a mio parere. E poi Di Maio è stato bravo a ritagliarsi un ruolo più pacato e istituzionale, mentre Di Battista è rimasto ancorato al personaggio dell’attivista».

Come si concilia l’atteggiamento intransigente e anti sistema del M5s con la votazione insieme a Pd e Area Popolare per le nomine della Consulta?

«Rappresenta di sicuro ​un cambiamento, anche se momentaneo e calcolato. Penso che abbiano deciso di farlo perché si sono resi conto che il danno di reputazione che stava subendo il Parlamento per quello stallo iniziava a intaccare anche loro, a causa del loro ostruzionismo. Hanno portato alla situazione al limite estremo, per poi raccogliere quello che potevano con un nome a loro gradito, nella più classica logica della politica. Vogliono comunque non fare accordi seri, perché in vista delle prossime elezioni, che credono di poter vincere, vogliono sentirsi liberi di criticare tutti senza che qualcuno possa dire loro che quando hanno governato non hanno fatto nulla. Nel caso della Consulta si può dire che nel complesso la partita l’abbiano giocata bene, a differenza di quanto è accaduto con la mozione di sfiducia al ministro Boschi».

Perché quella mozione non l’ha convinta?

«Si trattava di un testo scritto male, senza fondamento, portato poi alla Camera, dove i numeri della maggioranza sono senz’altro più ampi che al Senato. L’operazione aveva solo fini propagandistici. È servita a occupare un po’ di spazio in TV e a marcare subito una distanza dagli altri partiti dopo il voto sulla Consulta».

Ha letto l’ultimo libro di Casaleggio? Fabrizio Rondolino ci ha visto un delirio ideologico.

«​Non ho letto il libro, ma ricordo bene il filmato che diffuse tempo fa, Gaia. Non mi stupiscono le frasi di Rondolino, Casaleggio ha sempre farneticato di una democrazia diretta basata sulla Rete. Per lui pare essere un dettaglio se la gente sia informata o meno di ciò che accade, basta che voti con un clic o che creda di farlo. Ma questo sistema porterebbe con sé un rischio fortissimo di derive autoritarie. La nostra, come ogni democrazia occidentale, è fondata sui partiti ed è bene che rimanga così. Le uniche nazioni a non averne sono, non a caso, i regimi totalitari, che al massimo ne hanno uno solo».

Una testata come il Financial Times ha scritto nei giorni scorsi che il M5s è cresciuto molto, anche nell’esperienza. Crede che sarebbe in grado di governare l’Italia?

«Non li ritengo assolutamente capaci di governare da soli un Paese complesso come il nostro. E non sono il solo, malgrado l’endorsement, probabilmente interessato, del Financial Times. Se già a livello locale non riescono a farlo, figuriamoci cosa potrebbe accadere sul piano nazionale. La verità è che il M5s non ha una ancora una classe dirigente degna di questo nome. I suoi parlamentari sono a stento capaci di fare buona opposizione. Non si potranno certo improvvisare ministri e sottosegretari. Sicuramente hanno compreso alcune dinamiche e hanno scelto buoni collaboratori. Ma da qui a poter governare una nazione come la nostra li separa un abisso».

Perché dico addio al Movimento 5 Stelle. Parla Paolo Becchi con Giovanni Bucchi su. “Formiche” del 5 gennaio 2016. L'affondo dell'ex ideologo dei grillini: "Il Movimento si sta trasformando in un partito ibrido e ha stretto con il Pd un nuovo patto dopo quello del Nazareno facendo da stampella al governo Renzi". Ecco la conversazione di Formiche.net con il docente universitario di Filosofia del diritto. A Roma si profila un nuovo accordo in stile Patto del Nazareno, questa volta tra Pd renziano e Movimento 5 Stelle. Scaricato Silvio Berlusconi e la sua Forza Italia alla deriva, il premier Matteo Renzi ha capito che sui singoli temi può trovare una sponda favorevole nei tanto avversati grillini. A differenza del precedente, il nuovo patto non viene annunciato, anzi è ripetutamente negato a gran voce e protetto dalle contrapposizioni di facciata. Si potrebbe sintetizzare così l’analisi sulla situazione del Movimento 5 Stelle fatta da Paolo Becchi in questa conversazione con Formiche.net, nella quale il professore annuncia l’addio ufficiale al Movimento con tanto di cancellazione dell’iscrizione lo scorso 31 dicembre. Un intervento che rientra nell’approfondimento avviato con l’intervista al senatore ex 5 Stelle Luis Alberto Orellana. Docente di Filosofia del Diritto all’Università di Genova, descritto in passato come l’ideologo dei 5 Stelle prima che avanzasse alcune critiche e che Beppe Grillo ne prendesse le distanze sul blog, Becchi ora parla della delusione per la piega presa dal Movimento, anticipando alcuni contenuti di un suo intervento in uscita a febbraio su Mondo Operaio dopo quello di qualche mese fa.

Professor Becchi, lei qualche mese fa ha dichiarato che il Movimento 5 Stelle si sta trasformando in un partito vero e proprio, sul modello del vecchio Pci. Ne è ancora convinto?

«Quel processo è progredito, al di là della battuta fatta. Oggi preciserei che il Movimento si sta trasformando in un partito ibrido, nel quale si cerca di fare convivere diversi aspetti. Prendiamo le elezioni amministrative: dove si può vincere ma si ha paura di farlo e magari non lo si vuole proprio, come a Roma, si sceglie di seguire l’intero e impegnativo percorso democratico per la selezione delle candidature con non so quanti passaggi in rete, facendo mostra di questo dispiegamento di energie per la democrazia diretta. Dove invece si vuole lottare per vincere davvero, il candidato e la lista vengono blindati e imposti dall’alto come accaduto con Massimo Bugani a Bologna. Questo è il partito ibrido che da un lato acchiappa chi ancora crede negli ideali di rottura del vecchio Movimento e dall’altro si avvicina alla logica partitica».

L’elezione dei giudici della Corte costituzionale rientra in questa logica?

«Certamente. Lì si è capito come il Patto del Nazareno tra Pd e Fi sia finito del tutto e ne sia nato un altro tra Pd e M5S, tenuto segretissimo tanto che chi ne parla viene ricoperto di insulti in rete, ma questa è la sostanza. Basta andarsi a leggere cosa ha scritto il blog di Grillo nel giro di due settimane: prima si critica il costituzionalista del Pd Augusto Barbera ricordando alcuni scandali concorsuali nei quali è spuntato il suo nome, poi si sposta l’attenzione sull’avversione al berlusconiano Francesco Paolo Sisto e infine si dice di aspettare le proposte di Renzi avanzando la candidatura di Franco Modugno e votando Barbera in accordo con Renzi. Tutto ciò per il sistema dei partiti è perfettamente normale, rientra nella loro logica, ma non per un Movimento che si dichiarava anti-sistema. Perché i parlamentari 5 Stelle non hanno tenuto la linea di opposizione sulle votazioni dei giudici della Consulta? Dopo 30 fumate nere sarebbe dovuto intervenire il Presidente della Repubblica, si sarebbe creato un caos istituzionale, invece loro hanno tolto le castagne dal fuoco a Renzi. Da mesi si discute su questa elezione, e Gianroberto Casaleggio va invece a dire al Corriere della Sera che non c’era tempo per coinvolgere la rete. Ma vogliamo scherzare?»

Quali altri passi prevede?

«Il prossimo sarà quello sulle unioni civili. Sulla votazione del ddl Cirinnà ci sarà l’accordo tra Renzi e l’M5S, il quale finisce così a fare nuovamente da stampella al governo, quando invece sarebbe andato incontro a grosse difficoltà. Poi la legge sullo ius soli, anche qui sconfessando Grillo. E magari per finire anche l’eutanasia. Non rendendosi conto che in questo modo si fa soltanto il gioco di Renzi».

Grillo non ha più il controllo?

«E’ stato sconfessato dal vicepresidente della Camera addirittura sul Financial Times, al quale Luigi Di Maio ha detto che loro non sono favorevoli all’uscita dell’Italia dalla Nato come invece ha sostenuto Grillo. Agli inizi del Movimento se qualcuno si fosse azzardato a dire una cosa del genere, peraltro su un giornale così importante, sarebbe stato radiato, ora invece l’intervista viene ripresa dal blog di Grillo».

E invece adesso comanda Casaleggio?

«Guardi, il mio nuovo intervento per Mondo Operaio l’ho proprio titolato “Dal Movimento liquido di Grillo al partito ibrido di Casaleggio”. Si apre però il problema del garante; Grillo ha detto che è “un po’ stanchino”, ma che sarebbe rimasto il garante delle regole. Peccato però che qui non venga rispettata nessuna regola, come sull’espulsione della senatrice Serenella Fucksia: indubbiamente c’erano motivazioni valide e l’obiettivo sarebbe stato raggiunto ugualmente, ma non c’è stata nessuna assemblea dei parlamentari con voto poi ratificato dalla rete. Ormai regna l’arbitrio, al posto del rispetto delle regole. Si critica chi non rispetta le regole e ci si comporta allo stesso modo».

E dietro l’angolo ci sono le comunali, per le quali però i sondaggi danno l’M5S in forte crescita.

«Sono convinto che alle amministrative il Movimento avrà un risultato favorevole, ma ritengo che ai vertici queste elezioni interessino poco. Ciò che conta per loro è andare al governo, ma non si sa bene per fare cosa, tranne le politiche anti-casta. Il M5S aveva una visione il nuovo partito deve ancora costruirsela».

Sono state abbandonate alcune battaglie politiche? Ad esempio quella sull’euro?

«Grillo aveva promesso agli italiani che entro il dicembre 2015 o al massimo nel gennaio 2016 ci sarebbe stato il referendum sull’euro. Ora più nessuno ne parla, salvo per i banchetti fatti in estate quando il tema appassionava di più e c’era da soffiare qualche voto alla Lega. Ma cosa pensa il Movimento sull’euro? Perché non si porta avanti con convinzione in Parlamento la legge di iniziativa popolare per il referendum? E sulla politica estera, in particolare sul tema della Nato, qual è la posizione? Grillo o Di Maio? Perché non si lancia una forte campagna di opposizione alla riforma costituzionale in vista del referendum sul quale Renzi punta tutto quest’anno? Si pensa troppo a fare opposizione di facciata, come nel caso della mozione di sfiducia alla Boschi su Banca Etruria. Insomma, il Movimento sta diventando opportunistico, nel senso che cerca di guadagnare qualcosa in ogni situazione. E per la verità al momento ci riesce benissimo. La democrazia diretta è stata da tempo accantonata e sostituita dalla democrazia eterodiretta da Casaleggio».

Becchi, è deluso?

«Sì, tanto che il 31 dicembre ho cancellato la mia iscrizione al Movimento al quale avevo aderito con grande convinzione e entusiamo; l’ho fatto perché non corrisponde più a quella speranza dell’inizio. Non sono nella testa di Beppe, e non so se questo suo progressivo farsi da parte sia sintomatico di un po’ di delusione anche da parte sua, ma è sempre più politicamente assente. Ha fatto un discorso di fine anno che era uno spot pubblicitario al suo spettacolo, un intervento teatrale nel quale dice che tutti siamo ologrammi ma, ahimé, è diventato un ologramma pure lui. Forse era inevitabile che il Movimento si istituzionalizzasse, ma il sogno è finito».

Fatti, tesi e bufale...Tutte le ultime panzane a 5 stelle del blog di Beppe Grillo, scrive Simona Sotgiu il 4 gennaio 2016 su "Formiche". Lo smog che uccide 68mila vittime in più all’anno, l’endorsement del Financial Times che definirebbe il Movimento 5 stelle “maturo per il governo”, le espulsioni e le parole di Gianroberto Casaleggio al Corriere della Sera hanno riportato i pentastellati sulle prime pagine dei giornali. Sul sito dei 5 stelle negli ultimi giorni sono apparsi alcuni articoli che si sono rivelati incompleti (nessuno studio individua lo smog come unica causa della crescita dei decessi in Italia) o falsi (il Financial Times non ha scritto che il Movimento 5 stelle è maturo per il governo, ma che vuole essere preso sul serio). “L’incremento delle morti c’è stato eccome. Ma di qui a imputare la causa solo all’inquinamento ce ne vuole”. A parlare è Gian Carlo Blangiardo, demografo, citato sul blog di Beppe Grillo a sostegno di un post in cui si legava l’aumento dei decessi in Italia allo smog. “Ci sono invece un mix di motivi – ha spiegato il docente dell’Università di Milano Bicocca – tutti fondanti. Primo, l’invecchiamento della popolazione”. Lo smog, dunque, è sì tra le possibili cause dell’aumento dei decessi, ma non certamente l’unica. Tra le cause individuate da Blangiardo e pubblicate nello studio di Neodemos ci sono l’invecchiamento della popolazione, il crollo delle vaccinazioni e, ha spiegato Blangiardo al Mattino, “a questo aggiungiamo la forte crisi del sistema sanitario: a furia di tagliare, risparmiare e spostare si è finito col costringere i pazienti a pagare di tasca propria gli esami in strutture private”. Una traduzione italo-grillesca, ha svelato l’economista Giampaolo Galli sul suo blog, quella comparsa sul blog di Grillo relativa all’articolo del Financial Times dedicato ai pentastellati, in cui il Movimento sarebbe stato definito “Maturo”, “Un partito dal passato eccentrico” che “si reinventa come seria alternativa a Renzi”. Ma la traduzione, sottolinea il deputato Galli, già in Bankitalia e alla direzione generale di Confindustria, non è troppo fedele. Sul FT, infatti, si legge: “Protest group has come a long way since its eccentric start and is now the country’s second party”. Il FT, spiega Galli, non definisce il M5s né maturo né serio, ma prende atto del percorso politico che l’ha portato dall’essere un partito eccentrico alla seconda forza politica in Italia. Nella traduzione del FT si dimentica, poi, l’aggettivo “populista” usato da giornalista James Politi proprio nelle prime righe dell’articolo, di cui Di Maio sostiene che il movimento sia l’antidoto e non la tossina. Ma è vero che il movimento di Grillo e Casaleggio aspira a governare l’Italia e così anche le principali città, come Milano e Roma. “Roma è una tappa obbligata prima del governo  ha dichiarato Casaleggio al Corriere della Sera  Un banco di prova. Se avessimo paura di governare Roma non potremmo neppure pensare di voler governare il Paese”. Ma secondo il senatore ex grillino Luis Alberto Orellana sentito da Formiche.net La verità è che il M5s non ha una ancora una classe dirigente degna di questo nome. I suoi parlamentari sono a stento capaci di fare buona opposizione. Non si potranno certo improvvisare ministri e sottosegretari. Sicuramente hanno compreso alcune dinamiche e hanno scelto buoni collaboratori. Ma da qui a poter governare una nazione come la nostra li separa un abisso”. Il blog di Beppe Grillo ha ospitato, nel corso del tempo, numerose “notizie” considerate bufale, soprattutto relative a temi scientifici. Un articolo del 2014 di Wired ne ricorda le più rilevanti: scie chimiche, campagne contro la vivisezione che hanno rischiato di bloccare la ricerca in Italia, sostegno al metodo Stamina di Davide Vannoni, campagne anti vaccini considerati causa dell’autismo (il calo dei vaccini, peraltro, sostiene lo studio di Blangiardo, è proprio una delle cause dell’aumento dei decessi in Italia nell’ultimo anno). Le bufale a 5 stelle sembrano avere tutte un punto in comune: la critica e messa in discussione del sapere riconosciuto dalla comunità scientifica che, per quanto criticabile, viene in alcuni casi messo da parte a favore di un sapere ancora in costruzione, che per gli esperti è privo di fondamento e metodo.

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

GLI ONESTI DI SINISTRA. CENTRI SOCIALI ED ILLEGALITA’.

Viaggio nei centri sociali occupati, tra droghe, alcol e stanze del sesso. Una serata al Ri-Make di Milano, durante una festa omosessuale con un unico motto: “Sesso e droghe libere”, scrive Giuseppe De Lorenzo martedì 22/12/2015 su “Il Giornale”. "Questa è una festa in cui la normalità resta fuori dalla porta”. Sesso, droghe, musica, alcol, scambi di coppia. I “centri sociali” italiani non sono solo quelli che manifestano in piazza, gli antagonismi vari, noTav e noExpo. C’è dell’altro, ovvero le attività notturne organizzate durante l’anno. Feste, discoteche, party di autofinanziamento: tutto in maniera più o meno illegale, realizzato senza autorizzazioni di sorta in locali spesso occupati. Sabato era in programma a Milano un “Queer party”. Non una serata come tutte le altre, ma un momento - si legge nell’invito che mi ha incuriosito - in cui “provare a mettere in discussione la monogamia, le dinamiche di coppia e la sessualità a due”. Orge, insomma. Ma non solo. Il “Ri-Make”, luogo della festa, è un enorme stabile un tempo sede della Banca Nazionale del Lavoro ed ora trasformato in un centro sociale “occupato, autogestito e antiproibizionista". Nessun divieto comportamentale. Il collettivo femminista e Lgbt “Le Luccione” che ha organizzato il raduno parla di un “QuEeR Party con 'Marx, Engels, Lenin & Beyoncè'", personaggi che campeggiano sulla locandina chi con la barba rosa e chi con le sopracciglia colorate. E’ una serata omosessuale da cui non sono esclusi gli etero. L'importante è "liberare la sessualità e sperimentare i propri desideri". Per entrare viene chiesta un’offerta libera, prezzo che comprende anche la libertà di usufruire di preservativi e lubrificanti distribuiti gratuitamente. Come debba finire la serata è chiaro sin da subito. Il foglio informativo sul "Bon ton" da tenere non lascia spazio ad immaginazioni: "Divertiti, balla e, per una sera, libera i tuoi orgasmi". All’interno trovo anche un bar completo di tutto, tranne che del registratore di cassa. Ma questi son luoghi in cui non ci si formalizza, in cui la vendita di bevande diventa autofinanziamento e atto rivoluzionario. Mentre provo a bere la mia birra da 2,50 euro si avvicina un ragazzo, di 20 anni o poco più. Parrucca in testa, piumato foulard rosso al collo, tacchi a spillo, calzamaglia nera e minigonna. “Non stare da solo, vieni a ballare con me”. Declino l’offerta, ma sono costretto a fingere di apprezzare la musica e le movenze del ragazzo per non essere scoperto. Tra i ballerini noto anche qualche uomo di mezza età. Uno di loro veste una pelliccia molto appariscente. La cosa più interessante, però, è nell’angolo della sala da ballo. Una tenda trasparente “nasconde” la “stanza del sesso”, da utilizzare “come vuoi, con chi vuoi”. Prima di entrare bisogna leggere il cartello informativo: “Non esiste alcun divieto - c'è scritto - e il sesso non si può fermare. Stai solo attento alle malattie. Dentro trovi preservativi e guanti in lattice. Usali”. Non ci sono turni. Ognuno entra quando vuole e con chi vuole. Non ci si formalizza nemmeno sul numero di persone che possono consumare il rapporto. Entro nella stanza, è tutta buia ma prima di me sono entrate tre persone. Ho visto abbastanza. Prima di lasciare la festa (che a seguire prevede gnoccata notturna e sex games), intravedo “l’angolo trucco e parrucco”. Qui chi lo desidera può mettersi cipria e ombretto, e la maggioranza di chi si sottopone al make up è di sesso maschile. Evito di varcare la soglia, per non rischiare di entrare uomo ed uscire donna. Questa è la Milano notturna nei centri sociali occupati. Che qualcuno si ostina a considerare esempi positivi di socialità.

E’ vergognoso che in Italia, nel 2015 e nonostante un’infinità di leggi e leggine, vengano ancora tollerati i Centri Sociali, ricettacolo di gente senza arte né parte, luoghi di illegalità legalizzata dove molto spesso si formano i criminali di domani, scrive “Italia Insieme” il 19 maggio 2015. Nella maggior parte dei casi, poi, chi fa parte ed è membro attivo di queste strutture le occupa abusivamente (strutture per lo più di proprietà dei comuni, magari momentaneamente in disuso) ed esaltano pubblicamene il loro reato come fosse un “diritto”. In pratica: è come se qualcuno rubasse e utilizzasse a piacimento la vostra auto poiché voi la usate poco o non la usate affatto. Però qualcosa non torna: perché per un furto d’auto la magistratura e le istituzioni intervengono all’istante (giustamente!) mentre per le occupazioni abusive (di strutture statali per altro!) fanno orecchie da mercante o, peggio ancora, chiudono un occhio e fingono di non vedere? Urgono immediatamente provvedimenti seri e concreti: i Centri Sociali devono essere sgomberati e chiusi, e devono essere puniti severamente tutti coloro i quali continuano e perseverano in questa dubbia ‘attività’. E’ impensabile tollerare che ci sia gente che per anni utilizza gratuitamente edifici altrui (leggi: furto continuato e aggravato) senza che lo Stato muova un dito. Tollerare un simile atteggiamento vuol dire, di fatto, dare il placet a questi individui nel perseguire indisturbati le proprie attività e rendersi complici.

Okkupazioni e scontri, illegalità antagonista, scrive Francesca Musacchio su “Il Tempo” del 9 novembre 2014. Occupazioni abusive di immobili e spazi pubblici, manifestazioni, proteste, blitz, scontri con le forze dell’ordine durante i cortei, muri della città imbrattati dalle scritte e caos. È il mondo degli antagonisti della Capitale che vivono in una sorta di mondo parallelo dove la contestazione al governo, di qualunque colore politico, è il dogma. A Roma l’universo antagonista gestisce un centinaio di occupazioni abusive di immobili, tra pubblico e privato. Tra queste ci sono anche le sedi storiche di alcuni centri sociali che tengono in ostaggio alcuni edifici ormai da decenni. Nel quartiere San Lorenzo, infatti, esistono numerosi luoghi dove hanno sede diversi collettivi della sinistra estremista. Una situazione di stallo e disagio sociale, dunque, che va avanti da anni e che sembra essere destinata a non terminare, almeno non nell’immediato. Della galassia antagonista fanno parte, però, non solo i centri sociali, ma anche i Movimenti per la casa, i collettivi studenteschi, gli anarchici, le associazioni antirazziste e i sindacati di base. Queste realtà, nel corso degli ultimi anni, a Roma si sono rese protagoniste degli scontri più duri con le forze dell’ordine durante manifestazioni di piazza. L’ultimo episodio, in ordine di tempo, è quello del 12 aprile scorso quando, durante la manifestazione organizzata dai Movimenti per il diritto all’abitare, è stata violentata e vandalizzata via Veneto, una delle strade della Capitale più note al mondo. Al termine di quella giornata il bilancio è stato di 22 feriti e 6 fermati. Inoltre, un peruviano di 45 anni ha perso la mano destra a causa dell’esplosione di un petardo. Tra i partecipanti, mascherati con cerate di colore blu e il volto coperto da maschere antigas, c'era anche Andrea Coltelli, un 20enne di Viareggio, ripreso dalle telecamere mentre ha tra le mani una bottiglia spezzata. Nei mesi precedenti, però, gli antagonisti hanno messo ancora a ferro e fuoco il centro della Capitale, il 19 e 31 ottobre 2013, con altri feriti, fermati e danni alla città. Il fine di queste frange estreme, quindi, è sempre la contestazione ovunque e comunque, schierandosi di volta in volta con i vari fronti di lotta, che vanno dai No Tav ai No Muos o all’opposizione cruenta alle politiche sociali del governo.

Mappa Occupazioni di Centri sociali a Milano: Segnalazione a Milano, scrive Milano Today.

NESSUNO TOCCHI MILANO? MA MILANO LA TOCCANO GIÀ! Ipocrisia a 180 gradi sui fatti del 1 maggio. Indignazione a buon mercato da parte di chi tollera da anni il sistema di illegalità costituita dei Centri Sociali.

CENTRI SOCIALI: UN SISTEMA DI ILLEGALITA' PROTETTA E TOLLERATA. A Milano sono circa 25 (stima per difetto) i cosiddetti "centri sociali occupati", che vivono sulla pratica e l'esaltazione di ogni genere di reato. E non stiamo parlando solo delle occupazioni abusive (che comunque sono il principale emblema della arroganza e prepotenza di queste persone), ma anche di molte altri reati connessi; dagli imbrattamenti di muri, alla sistematica affissione abusiva di manifesti, al disturbo alla quiete pubblica, alla resistenza alla forza pubblica, ai picchetti "antisfratto" , alle scorribande nelle scuole e nelle università, alla creazione di esercizi commerciali abusivi e privi di norme igieniche e di sicurezza, all' evasione fiscale (totale). E a ciò si aggiunga l'arroganza di chi, non contento di calpestare ogni legge e regola e rivendicare per sé la libertà assoluta (la chiamano "autogestione"), ha la pretesa di voler tappare la bocca a quelli che non la pensano come loro (chiamati "fascisti", "razzisti", "omofobi", "clericali" o come vogliano loro.

VANDALISMI NON OCCASIONALI, MA SISTEMATICI. Anche se non sempre succedono cose della gravità di venerdì scorso, tuttavia ogni anno, il MayDay organizzato dalla galassia antagonista provoca danni e vandalismi. Se non altro causa l'imbrattamento sistematico di tutti i muri e talvolta anche vetrine lungo il percorso della manifestazione. Questi imbrattatori di professione vengono lasciati fare impunemente dagli altri partecipanti al corteo (quelli cosiddetti "bravi").

NON SI PUO' CONCEDERE LA PIAZZA AI DELINQUENTI E DITTATORI. La libertà di manifestare è un diritto sacrosanto, ma non ha nulla a che vedere con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere. Non si può concedere la piazza a chi professa ed esalta la delinquenza, a chi vive sulla rivendicazione del "diritto di reato". Che succederebbe se si desse la libertà di manifestazione ad una gang di ladri di auto che vanno in giro a dire che è giusto rubare auto? o ad una banda di spacciatori di droga che fanno un corteo per esaltare il diritto a spacciare, o ad una associazione di "torturatori di animali" che vorrebbero seviziare i gatti? La libertà di manifestazione non c' entra con l'apologia di reato e l'istigazione a delinquere (anzi è cosa diametralmente opposta). I Centri Sociali sono una istigazione a delinquere vivente per il fatto stesso di esistere; in quanto rivendicano con orgoglio le loro occupazioni abusive (cioè dei furti). Figurarsi se poi gli si può permettere loro di fare pure "manifestazioni"..."

NECESSARIO L' USO DELLE ARMI. Qualcuno, dopo i fatti del 1 maggio parla di "successo delle istituzioni", perché non ci sono stati morti. Ma che vuol dire? Che, per evitare il morto, allora di deve lasciar devastare una città? E' ora di finirla di essere schiavi dei nuovi dittatori e umiliati da essi. Abbiamo appena festeggiato il 25 Aprile che è stata guerra di liberazione. Guerra, non noccioline. Si sono usate anche le armi, e sono state uccise delle persone, Ma nessuno si scandalizza. Anzi, fanno le celebrazioni in pompa magna. E allora, se ci siano liberati da una dittatura, perché dobbiamo soggiacere ad un'altra? Le forze dell'ordine hanno (uniche fra i cittadini) la prerogativa di usare le armi. E allora le usino! Non si può stare ad assistere impunemente a gente che da fuoco alle auto e sventra le vetrine dei negozi.

Chiudete i centri sociali Culle dei black bloc difese dai magistrati. Sono le culle dei black bloc italiani, ma sindaci progressisti e magistrati li difendono. E' il momento di dire basta. Le bestie di Roma vanno arrestate, scrive Alessandro Sallusti Lunedì 17/10/2011 su “Il Giornale”. Non vengono da Marte. E neppure da Berlino o Londra come qualcuno vuole farci credere. I criminali che sabato hanno di­s­trutto Roma e attentato alla vita di poliziotti e carabinieri proveni­vano da città italianissime, da Bari a Torino. Dietro la sigla «black bloc» si cela il teppismo nazionale che cresce e si organizza impuni­to, nonostante le evidenti illegali­tà, nei centri sociali che pullulano nelle nostre città. Disagio giovani­le, lo chiamano i sociologi (altra categoria pericolosa). Ragazzi senza speranza, li difendono quel­li della sini­stra che siedono in Par­lamento a ventimila euro al mese. Teppisti, li chiamo io, giovani an­noiati e frustrati che non hanno vo­glia di diventare grandi, di misu­rarsi con i problemi della vita. Di­cono: la colpa non è loro ma della società. Balle, la colpa è tutta e so­lo loro, non certo nostra. Se com­plici ci sono, vanno cercati in chi li finanzia, in chi (sindaci e magistra­ti buonisti) permette loro di com­piere ogni tipo di illegalità. Possi­bile che l’obbligatorietà dell’azione amministrativa e penale valga soltanto per punire chi lascia un minuto l’auto in sosta vietata o per inseguire le ragazze ospiti di Berlusconi? Dove sono vigili e magistra­ti q­uando una banda di sfaccenda­ti occupa case e palazzi pubblici e privati? Perché è in quelle oasi sfuggite al controllo dello Stato che i peggiori di loro organizzano i piani della guerriglia, nascondo­no armi improprie, preparano le molotov da lanciare per le nostre strade il sabato pomeriggio. I centri sociali sono una minac­cia, non una risorsa della società. Vanno chiusi, se serve, con la for­za. Perché la Guardia di finanza e l’ispettorato del lavoro devono po­ter mettere sottosopra le aziende mentre un centro sociale può stare tranquillo nella sua assoluta ille­galità incubatrice di violenza? Non prendiamoci in giro. Solo a volerlo, le Procure possono sapere chi sono questi signori in mezza giornata. Anzi, probabilmente già lo sanno e non fanno nulla. Perché se si muovono poi si arrabbia­no Vendola e Di Pietro, Bersani e Santoro. Dopo quello che si è visto ieri, sarebbe meglio farli infuriare e darsi una mossa. Prendere le distanze dai violen­ti e difendere i centri sociali è una contraddizione in termini. Chi punta il dito sui criminali di ieri e celebra la memoria di Carlo Giu­liani (il no global morto durante gli scontri del G8 di Genova men­tre cercava di spaccare la testa a un carabiniere con un estintore) è un furbo in malafede. Carlo Giulia­ni era un delinquente esattamen­te come quelli visti all’opera a Ro­ma. Dedicargli, come fece Rifon­dazione comunista, un’aula di Montecitorio (presidente della Camera era Bertinotti) è stato un insulto all’Italia intera. La poesia che a Giuliani ha dedicato Nichi Vendola, possibile candidato pre­mier della sinistra moderata, è sta­t­o un invito a tanti giovani a seguir­ne l’esempio, a spaccare la testa ar­mati di estintore. Contro i cattivi maestri non possiamo fare nulla, chiudere i centri sociali è un dirit­to- dovere di chi amministra le cit­tà e la giustizia. Non bisogna avere paura. Non l’ha avuta Obama, pre­sidente nero e democratico degli Stati Uniti, ad arrestare oltre mille «indignati» turbolenti. Anzi, l’America tutta l’ha solo ringrazia­to. Proviamoci anche da queste parti.

Strasburgo ipocrita e teleguidata dagli antagonisti, scrive Angelo Mandelli. CHI CI DIFENDE DALLA TORTURA DEI CENTRI SOCIALI? Squadracce dei cosiddetti "centri sociali" si scontrano con le Forze dell'Ordine in Piazza della Scala a Milano.  Questa immagini si reiterano continuamente nelle nostre città.  Gruppi di disgraziati si ritengono in diritto di aggredire la Polizia e i Carabinieri, ma non si può far nulla per fermarli. Grazie all' opera di delegittimazione delle Forze dell'Ordine in corso da decenni, se un dimostrante viene toccato, ... apriti cielo!    I tormentoni contro la "violenza della polizia" si trascinano per decenni, mentre si tace sulle continue illegalità da parte dei Centri Sociali.  Il risultato è un sistema di dittatura "al contrario"; dove i violenti e i dittatori di estrema sinistra possono imporre la loro legge e tenere schiavo il popolo italiano. La sedicente "corte europea dei diritti dei diritti umani" ha sentenziato che l'Italia la Polizia tortura e lo Stato "non ha una legislazione adeguata per perseguire le torture"...Bell' esempio di faziosità ipocrita e teleguidata dalla lobby antagonista. Ormai il nostro mondo appare sempre di più come un mondo ribaltato, dove gli scandali che emergono sono il contrario esatto di quelli che dovrebbero emergere. E dove l'agenda di tutto ciò che ha rilevanza mediatica viene dettata dalle lobby degli intellettuali di sinistra: quelli che erano in piazza a Genova nel 2001 a "contestare il sistema", fra canti, balli, bottiglie molotov ed ... estintori. Se l'Italia non ha una legislazione per impedire la tortura da parte delle forze dell'ordine, tanto meno ha una legislazione per impedire le torture che i cittadini italiani devono subire da parte di Centri Sociali, anarchici, antagonisti, no-tav, no-global, ecc. In tutte le principali città italiane sono decine i cosiddetti "centri sociali", che effettuano sistematiche occupazioni abusive, inneggiano alla illegalità, si scontrano con le forze dell'ordine, imbrattano i muri, disturbano la quiete pubblica, e commettono tutta una serie di altri reati (compresa evasione fiscale totale). Io scrivo da Milano e so quello che dico.  Ho seguito direttamente le vicende di alcuni di questi centri sociali (ma penso che tutti siano nelle stesse condizioni), dove la gente che abitava nei dintorni viveva in un incubo, perennemente perseguitata da feste, schiamazzi, rumori che si protraevano fino all' alba del giorno dopo e impedivano di riposare (si può pensare ad una tortura peggiore?). Quando i cittadini protestavano venivano fatti oggetto di insulti, minacce e aggressioni. Potrei citare come esempio quello dei residenti che abitavano di fianco al centro sociale "lambretta", di cui si è molto parlato sui giornali. Inoltre questi "centri sociali" esercitano una azione di intimidazione e dittatura politica e culturale, con aggressioni, intimidazioni e "contestazioni" verso tutti quelli che non la pensano come loro e osano manifestare idee diverse. Basti pensare alle aggressioni ai gruppi pro-life, alle "sentinelle in piedi", ai partiti di centro-destra, che sono sistematiche e quasi sempre fomentate dai militanti dei Centri Sociali. Il problema è che questi gruppi eversivi vengono lasciate agire indisturbati, per anni e decenni.  Compresi i loro siti internet che inneggiano alla illegalità, alla eversione, a commettere reati e a resistere alla Forza Pubblica. In pratica i cittadini sono indifesi da questa gente.  Se capita (raramente) che qualcuno di questi covi viene sgomberato, subito dopo occupano altrove, con ancora più arroganza. Molti si chiedono come sia possibile una cosa del genere. Come sia possibile che gente che commette e reitera reati, di fatto non venga perseguita da nessuno, o venga perseguita in modo ridicolo e totalmente inefficace. Ma tant' è che la corte di Strasburgo se ne stras-frega di queste cose; guarda la pagliuzza e ignora la trave. Solita storia miserevole e infame.

Voto di scambio di de Magistris: regala un palazzo ai no global. Il sindaco affida al collettivo «la Balena» la gestione di un edificio pubblico occupato del valore di 10 milioni. La denuncia di Forza Italia: «Porteremo il caso in tribunale», scrive Simone Di Meo Martedì 5/01/2016 su “Il Giornale”. A Napoli occupare un edificio pubblico conviene. Il collettivo «La Balena» da tre anni è asserragliato nell'ex Asilo Filangieri, un palazzone che si erge alle spalle di San Gregorio Armeno, la strada dei pastori del centro storico. La sigla raccoglie un po' di tutto: centri sociali, no global e indignados, lavoratori del mondo dello spettacolo e personaggi in cerca d'autore. Un bel giorno del 2012, hanno forzato i cancelli e si sono presi l'immobile appena ristrutturato dal Comune per la modica cifra di 5 milioni di euro (tutto il complesso vale esattamente il doppio). Invece di sgomberare l'area, l'ultimo giorno dell'anno il sindaco Luigi de Magistris ha premiato gli abusivi con una delibera di giunta che li autorizza non solo a restarci ma a continuare la loro attività di organizzazione di spettacoli a pagamento, vendita di alcolici e corsi di recitazione. «Siamo davanti a un palese voto di scambio» ha attaccato il presidente della IV Municipalità, Armando Coppola (Fi). Perché gli occupanti sono tutti o quasi tutti sostenitori arancioni. Addirittura, si vocifera che Giggino potrà schierare alle prossime elezioni una lista che dovrebbe chiamarsi «Massa critica» che fa riferimento proprio all'ex Asilo.Il provvedimento di Palazzo San Giacomo, scritto con l'aiuto di due giuristi d'eccezione come Stefano Rodotà e Paolo Maddalena, ha fatto urlare allo scandalo il capo dell'opposizione in consiglio comunale e candidato sindaco del centrodestra, Gianni Lettieri. «Che dovrebbero dire si chiede tutte quelle famiglie che vengono sgomberate e che non hanno un tetto di fronte ad un'amministrazione che non tutela il loro diritto alla casa, ma salvaguardia la prepotenza estremista di centri sociali che occupano beni comuni? Ho dato già mandato ai miei legali di esaminare tutta la documentazione e sollevare la questione a tutti i livelli, giudiziari ed istituzionali». In realtà, l'autorità giudiziaria non è intervenuta nemmeno quando, per prendere possesso delle sale, gli occupanti hanno violato i sigilli apposti per mancanza di agibilità. Nessuno vede dalle parti di San Gregorio Armeno. Chi invece aveva una prospettiva chiara dell'abuso è l'ex assessore comunale Bernardino Tuccillo, ex IdV. «Con un'ultima nota del 7 novembre 2012 inviata al capo di gabinetto del sindaco fui costretto a sollecitare lo sgombero degli occupanti abusivi dal prestigioso stabile, purtroppo senza essere ascoltato, poco prima di perdere la delega al Patrimonio ricorda oggi Con la delibera appena approvata giunge a compimento un percorso sull'uso distorto e dissennato di utilizzo dei nostri beni pubblici. Da un ex magistrato diventato sindaco sarebbe stato lecito attendersi l'introduzione di una cornice di regole e norme valide per tutti e non privilegi e favoritismi accordati a centri sociali ed amici degli amici». Parole al vento.Collettivo e Amministrazione comunale si difendono sostenendo che sì, c'è stata un'occupazione abusiva, ma non è il caso di farne una tragedia perché ora, in quella struttura, si fa cultura «partecipata e inclusiva». Quella che piace all'estrema sinistra movimentista che vota de Magistris e che deve respingere la spietata concorrenza grillina. Per uno scherzo del destino, il M5S di Napoli, fino alla rottura definitiva col sindaco un paio di mesi fa, si riuniva proprio presso l'ex Asilo Filangieri.

Frascaroli indagata, il Pd di Bologna: "Rispetto per i pm ma libertà di critica". L’assessore al welfare risulta iscritta al registro dai registrati: si ipotizza l'abuso d'ufficio in merito alla vicenda delle occupazioni. La posizione dei democratici, scrive Giuseppe Baldessarro il 7 gennaio 2016 su “La Repubblica”.  C'è anche il nome dell’assessore comunale al Welfare, Amelia Frascaroli, nel fascicolo che la Procura della Repubblica di Bologna ha aperto sul capitolo delle occupazioni. Risulta indagata per abuso di ufficio, in concorso con il sindaco Virginio Merola, per la decisione di riallacciare l'acqua a due immobili occupati abusivamente.Il Pd: rispetto per la magistratura ma libertà di critica. Nel primo pomeriggio, appresa la notizia, è arrivato il comunicato del Pd bolognese. "Il Partito Democratico non ha mai fatto mancare il suo sostegno all’azione delle autorità competenti, anche quando ad essere oggetto di indagine sono stati suoi esponenti: questo atteggiamento non muterà neanche ora", è il messaggio. Però, "se alla politica spetta la capacità di essere sobria, nei comportamenti e nei linguaggi, ciò non può significare il non poter esprimere, liberamente e nel pieno esercizio delle proprie funzioni, valutazioni politiche critiche in merito alle decisioni, prese da un pubblico potere, che riguardano la vita di Bologna".  E ancora, riguardo all'indagine sui consiglieri di Pd e Sel Claudio Mazzanti e Cathy La Torre, il Pd "esprime piena fiducia" nel loro operato, visto che non c'era "volontà di diffamare". E infine: "Le valutazioni politiche, condivisibili o meno, devono avere piena libertà di espressione". Adesso, però, il Pd "auspica che si possano stemperare e superare questi momenti di rapporti delicati tra le diverse Istituzioni cittadine". Frascaroli sarebbe dunque responsabile di quando affermato poche ore dopo lo sgombero dell’edificio dell’Istituto per ciechi Cavazza, occupato a febbraio precedente, dal collettivo, nel quale vivevano una trentina di persone compresi cinque minori. In quella occasione, incontrando i militanti del movimento in comune, l’assessore affermò: "Sono ben consapevole che queste esperienze, lo dico con molta tranquillità, stanno creando valore sociale", spiegando poi il lavoro che l’amministrazione, stava compiendo con una "fatica, istituzionale e complessiva, enorme". Per Frascaroli all’amministrazione aveva la volontà sistemare le cose sia pure a «partire da esperienze anche di occupazione per cogliere il segnale, pur con un gesto illegale» alla base di queste azioni. Insomma nessuna condanna alle occupazioni, anzi, concludendo: "Quante volte da gesti illegali sono nati poi percorsi che hanno trovato spazio giuridico e amministrativo e che hanno contribuito a modificare anche le leggi?". Frasi che furono riportate dai media e acquisite dalla Digos. "Come già detto a suo tempo si ribadisce che non esiste alcun fascicolo relativo alle opinioni espresse da esponenti politici dopo l'esecuzione del sequestro dell'immobile di via Solferino". Lo dice il procuratore aggiunto di Bologna, delegato ai rapporti con la stampa, Valter Giovannini. La precisazione arriva dopo che si era ipotizzato che la Frascaroli fosse indagata per aver istigato all'illegalità quando disse che "le occupazioni creano valore sociale". Frasi che furono riportate dai media e acquisite dalla Digos. I consiglieri indagati. Un tema spinoso quello delle occupazioni di case, che alimenta lo scontro tra la Procura e parte della politica bolognese sempre più critica sull’operato della magistratura. Tanto che proprio nei giorni scorsi i pm Scandellari e Gustapane, sentitisi diffamati da alcune loro dichiarazioni, sono arrivati a querelare i consiglieri comunali Claudio Mazzanti (capogruppo Pd) e Cathy La Torre (capogruppo di Sel). "Da qualche tempo c'è qualcosa che non funziona a Bologna nel rapporto fra politica e magistratura - sostiene Sergio Lo Giudice, senatore del Pd - Quando la Procura ha messo sotto indagine amministratori locali o regionali per questioni legate all'utilizzo dei fondi pubblici, l'atteggiamento della mia parte politica è stato improntato alla massima fiducia nell'operato dei magistrati. Quando si è iniziato ad intervenire sulle scelte amministrative con l'apertura di indagini o con valutazioni negative in sede pubblica (come per la chiusura del Cie di Bologna) ho ribadito il mio rispetto nei confronti dell'azione dei magistrati bolognesi ma ho rivendicato il diritto della politica a commentare". "Adesso - ha aggiunto - vengono trasportate in sede giudiziaria anche queste valutazioni, e vengono sottoposte a indagini giudizi politici". Sandra Zampa, parlamentare bolognese del Pd, esprime "sconcerto e sofferenza" sul caso della Frascaroli indagata. "Le esprimo non solo la mia solidarietà più piena ma le ribadisco la mia stima e la mia amicizia". Di opposto parere il consigliere comunale di Fi Marco Lisei che chiede le dimissioni dell'assessore al Welfare: "è venuta meno al ruolo di responsabilità che il suo ufficio le imporrebbe". Mentre Giovanni Paglia, deputato di Sinistra Italiana, commenta così: "A Bologna se non quereli, indaghi, arresti chi difende gli ultimi, non sei nessuno. Questa pare la regola, ultimamente".

IL PAESE DEI PREDICATORI.

Raffaele Cantone, sparando nel mucchio, offende i dirigenti pubblici che hanno ben meritato. Chi è bravo non fa mai carriera. Al Paese, come predicatore, basta e avanza Roberto Saviano, scrive Domenico Cacopardo su “Italia Oggi” del 3 Novembre 2015.  Un vecchio adagio, del tutto ignorato ai nostri giorni, diceva più o meno così: «È meglio tacere e lasciare negli ascoltatori il dubbio, piuttosto che parlare e dire sciocchezze.» Basta aprire un qualsiasi giornale di quelli che si ritengono attenti ad alcuni personaggi o si propongono di promuoverli in vista di chissà quali prospettive future per leggere ogni giorno un florilegio di citazioni, il cui peso e il cui valore non vengono mai valutati prima di andare in pagina. Beneficiario e vittima di un simile trattamento è Raffaele Cantone, commissario anticorruzione, candidato a sostituire Roberto Saviano nel ruolo di «guru» tuttologo con una speciale tendenza a insegnare a tutti la morale e il diritto (che, per Cantone a differenza di Saviano, è roba propria). In specie a coloro che rivestono significative responsabilità o che sono chiamati a risolvere problemi particolarmente difficili. Ci vengono in mente due recenti esternazioni del commissario anticorruzione. La prima riguarda i pubblici funzionari. Secondo il nostro «esperto», tra di essi ci possono essere persone oneste, ma non fanno carriera. Una sciocchezza concettuale che diffama decine di persone dello Stato che hanno svolto e svolgono compiti di vertice in modo inappuntabile, senza cedere di un millimetro alle eventuali sirene del malaffare. Purtroppo, il fatto che si tratti di un magistrato penale (aduso alla autoreferenzialità) fuori ruolo, influisce sulla sua capacità di misurare le proprie parole («refrain yourself») e lo spinge a sparare sul mucchio. Cantone, commissario anticorruzione, faccia i nomi e non si comporti come colui che, guardando dal buco della serratura una camera da letto, ritenga che la vita sia solo fornicazione. Ci sono stati pubblici funzionari che, per la loro dirittura morale e amministrativa, hanno perso la vita per mano di mafiosi e delinquenti vari. Fra l'altro, una dichiarazione quale quella attribuitagli sui dirigenti pubblici ne stimola l'ostilità in un momento in cui ci dovrebbe essere la massima collaborazione tra di loro e il commissario. Un commissario che, difficilmente, aggiusterà il tiro, viziato com'è dall'essere protetto e coccolato dall'informazione. Un atteggiamento accettabile, quando il giudice parla per propria scienza e coscienza. La seconda uscita di Cantone riguarda il rapporto tra Milano e Roma. Intendiamoci, personalmente ammiro Milano e i milanesi. Da Roma, me ne sono andato nel 2005 per la crescente invivibilità della città, per l'abbandono del centro-storico e il degrado costante di zone cruciali, frutti avvelenati di un'amministrazione, quella di Veltroni, attenta solo alle cose che gli facevano immagine, indifferente ai fatti di tutti i giorni, quelli che rendono meno difficile la vita dei cittadini. Ma formulare un paragone secco tra Milano e Roma, dichiarando che a Roma non ci sono gli anticorpi di rifiuto e ostacolo della criminalità è un'altra sciocchezza a ruota libera, che incide, almeno per me, sull'opinione che m'ero fatta di Raffaele Cantone. Di sicuro si considerava e si considera «troppo demiurgo», «troppo risolutore» della vicenda corruzione nel contesto nazionale, a dispetto della sottovalutazione del diritto amministrativo e del procedimento amministrativo, chiavi, queste, per una prevenzione veramente risolutiva, e della sopravvalutazione delle proprie funzioni e dell'onniscienza dei propri collaboratori. Su un punto mi preme richiamarlo. Una sciocchezza pappagallescamente ripetuta dal ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio, endocrinologo. Si tratta della demonizzazione del «massimo ribasso», il sistema che affida i lavori pubblici al migliore offerente cioè a colui che offre il prezzo minore. Perché questo metodo funzioni occorre che si verifichino una premessa e una condizione. Da quando, con la regionalizzazione, lo Stato ha abolito il Genio civile e distrutto gli uffici tecnici dell'amministrazione dei lavori pubblici, non si elaborano più progetti esecutivi come si deve. Le progettazioni sono approssimative e si ricorre troppo spesso all'appalto concorso o all'offerta prezzi per sopperire alle carenze progettuali. Non è una deficienza casuale né un destino cinico e baro. È una scelta dolosa scientemente operata (dai due principali agenti del procedimento, la politica e l'imprenditoria di rapina) per provocare costosi aggiustamenti in corso d'opera, dai quali trarre extrautili illeciti. La condizione per rendere il massimo ribasso praticabile e utile, è imporre cauzioni integrali a copertura del valore dell'intera opera da eseguire (così si fa nei «tender» internazionali indetti da Paesi nei quali non si tollera il «bashish» cioè la mazzetta). Cauzioni bancarie a prima chiamata moralizzerebbero gli appalti e anche il sistema imprenditoriale, giacché escluderebbero i soggetti che concorrono (e magari vincono con ribassi demenziali) solo per poter poi «sistemare le cose» con la costosa protezione del politico di turno e l'acquiescenza di qualche corruttibile funzionario. Concetti questi, di difficile comprensione per un endocrinologo, ma di sicuro alla portata del dottor Raffaele Cantone. Un vero passo innanzi, quindi, sarebbe rappresentato dalla valutazione della qualità delle progettazioni, non lasciandosi tirare per la giacchetta delle urgenze, ma rispettando i tempi tecnici per la definizione di progetti veramente esecutivi. Nel clima delle dichiarazioni a ruota libera, sembra trovarsi a proprio agio l'esimio prefetto Francesco Paolo Tronca. Si tratta di un prefetto di carriera prefettizia e quindi attrezzato dal punto di vista amministrativo. Coopererà con un prefetto di provenienza Polizia, come Franco Gabrielli che, sul Giubileo, potrà far valere competenze specifiche. Tralascio le accuse rivolte a Tronca dall'Unità di Concita de Gregorio, mai contestate da una querela, ma sulle quali sarebbe opportuna una sua parola di chiarimento. Non voglio farmi influenzare da pregiudizi. Mi faccio però influenzare dal pacco di luoghi comuni che Tronca ha riversato su Roma e Milano. Il modello Milano, a mio modo di vedere e con riferimento all'Expo, si basa su due circostanze precise: la presenza di un galantuomo come Giuliano Pisapia e la collaborazione di una squadra di tecnici che, alla fine, ha compiuto il miracolo. Il resto, da Paolo Glisenti in poi, e con l'esclusione di quel grande manager che è Lucio Stanca, impedito di operare, è meglio dimenticarlo: liti da cortile e ripicche intorno alla guida dell'operazione. Per il resto, la città e i milanesi, che godono di uno specialissimo «drive», hanno subito in misura rilevante i danni prodotti dalla corruzione che ha colpito soprattutto l'istituto Regione, ma non ha tralasciato, in passato e di recente, la sanità. E non sono stati immuni dalle infiltrazioni mafiose, 'ndranghetiste e camorriste: basta chiedere in procura o in questura. Roma, da questo punto di vista, presenta una sola diversità importante: è la sede dell'amministrazione statale e, come tale, è meta di tutti coloro che intendono ottenere qualcosa dal sistema. Ed è questo l'elemento più inquinante, rispetto al quale non è possibile organizzare alcuna civica risposta. Ma Roma è anche la sede di decine di istituzioni civiche, laiche e religiose, che danno un esemplare contributo alla convivenza cittadina. Le più recenti vicende hanno messo in rilievo un sistema corruttivo nato e sviluppatosi intorno alla macchina comunale: i romani ne sono stati vittime. Non complici. A questo punto, non è prevedibile che aria tirerà in Campidoglio dall'insediamento di Tronca. C'è da sperare che, al di là delle dichiarazione roboanti, il commissario si occupi di ripulire la macchina municipale e di amministrare, ben sapendo che non bastano sei mesi e un Giubileo in corso per il risanamento burocratico e lo svolgimento di una normale campagna elettorale. E, comunque, prima di parlare e togliere ogni dubbio sulla propria saggezza, è meglio per tutti riflettere, tacere e operare con serietà.

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

Lettera da Crispi a Garibaldi - Caprera. Torino, 3 febbraio 1863.

Mio Generale! Giunto da Palermo, dove stetti poco men che un mese, credo mio dovere dirvi qualche cosa della povera isola che voi chiamaste a libertà e che i vostri successori ricacciarono in una servitù peggiore di prima. Dal nuovo regime quella popolazione nulla ha ottenuto di che potesse esser lieta. Nissuna giustizia, nissuna sicurezza personale, l'ipocrisia della libertà sotto un governo, il quale non ha d'italiano che appena il nome. Ho visitate le carceri e le ho trovate piene zeppe d'individui i quali ignorano il motivo per il quale sono prigionieri. Che dirvi del loro trattamento? Dormono sul pavimento, senza lume la notte, sudici, nutriti pessimamente, privi d'ogni conforto morale, senza una voce che li consigli e li educhi onde fosser rilevati dalla colpa. La popolazione in massa detesta il governo d'Italia, che al paragone trova più tristo del Borbonico. Grande fortuna che non siamo travolti in quell'odio noi, che fummo causa prima del mutato regime! Essa ritien voi martire, noi tutti vittime della tirannide la quale viene da Torino e quindi ci fa grazia della involontaria colpa. Se i consiglieri della Corona non mutano regime, la Sicilia andrà incontro ad una catastrofe. E' difficile misurarne le conseguenze, ma esse potrebbero essere fatali alla patria nostra. L'opera nostra dovrebbe mirare ad evitare cotesta catastrofe, affinchè non si sfasci il nucleo delle provincie unite che al presente formano il regno di Italia. Con le forze di questo regno e coi mezzi ch'esso ci offre, noi potremmo compiere la redenzione della penisola e occupar Roma. Sciolto cotesto nucleo, è rimandata ad un lontano avvenire la costituzione d'Italia. Della vostra salute, alla quale tutti c'interessiamo, ho buone notizie, che spero sempre migliori. Di Palermo tutti vi salutano come vi amano. Abbiatevi i complimenti di mia moglie e voi continuatemi il vostro affetto e credetemi. Vostro ora e sempre. F. Crispi.

La verità è rivoluzionaria. Gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incommensurabili. Non credo di aver fatto del male. Nonostante ciò, non rifarei oggi la via dell'Italia meridionale, temendo di essere preso a sassate, essendosi colà cagionato solo squallore e suscitato solo odio. Giuseppe Garibaldi (da una lettera scritta ad Adelaide Cairoli, 1868) 

Cronologia moderna delle azioni massoniche e mafiose.

27 marzo 1848 - Nasce la Repubblica Siciliana. La Sicilia ritorna ad essere indipendente, Ruggero Settimo è capo del governo, ritorna a sventolare l'antica bandiera siciliana. Gli inglesi hanno numerosi interessi nell'Isola e consigliano al Piemonte di annettersi la Sicilia. I Savoia preparano una spedizione da affidare a Garibaldi. Cavour si oppone perchè considera quest'ultimo un avventuriero senza scrupoli (ricordano impietositi i biografi che Garibaldi ladro di cavalli, nell' America del sud, venne arrestato e gli venne tagliato l'orecchio destro. Sarà, suo malgrado, capellone a vita per nascondere la mutilazione) [Secondo altre fonti l’orecchio gli sarebbe stato staccato con un morso da una ragazza che aveva cercato di violentare all’epoca della sua carriera di pirata, stupratore, assassino in America Latina, NdT]. Il nome di Garibaldi, viene abbinato altresì al traffico di schiavi dall'Africa all'America. Rifornito di denaro inglese da i Savoia, Garibaldi parte per la Sicilia. 

11 maggio 1860 - Con la protezione delle navi inglesi Intrepid e H.M.S. Argus, Garibaldi sbarca a Marsala. Scrive il memorialista garibaldino Giuseppe Bandi: I mille vengono accolti dai marsalesi come cani in chiesa! La prima azione mafiosa è contro la cassa comunale di Marsala. Il tesoriere dei mille, Ippolito Nievo lamenta che si trovarono pochi spiccioli di rame. I siciliani allora erano meno fessi! E' interessante la nota di Garibaldi sull'arruolamento: "Francesco Crispi arruola chiunque: ladri, assassini, e criminali di ogni sorta". 

15 maggio 1860 - Battaglia di Calatafimi. Passata alla storia come una grande battaglia, fu invece una modesta scaramuccia, si contarono 127 morti e 111 furono messi fuori combattimento. I Borbone con minor perdite disertano il campo. Con un esercito di 25.000 uomini e notevole artiglieria, i Borbone inviano contro Garibaldi soltanto 2.500 uomini. E' degno di nota che il generale borbonico Landi, fu comprato dagli inglesi con titoli di credito falsi e che l'esercito borbonico ebbe l'ordine di non combattere. Le vittorie di Garibaldi sono tutte una montatura. 

27 maggio 1860 - Garibaldi entra a Palermo da vincitore!....Ateo, massone, mangiapreti, celebra con fasto la festa di santa Rosalia. 

30 maggio 1860 - Garibaldi dà carta bianca alle bande garibaldine; i villaggi sono saccheggiati ed incendiati; i garibaldini uccidevano anche per un grappolo d'uva. Nino Bixio uccide un contadino reo di aver preso le scarpe ad un cadavere. Per incutere timore, le bande garibaldine, torturano e fucilano gli eroici siciliani. 

31 maggio 1860 - Il popolo catanese scaccia per sempre i Borbone. In quell'occasione brillò, per un atto di impavido coraggio, la siciliana Giuseppina Bolognani di Barcellona Pozzo di Gotto (ME). Issò sopra un carro un cannone strappato ai borbonici e attese la carica avversaria; al momento opportuno, l'avversario a due passi, diede fuoco alle polveri; il nemico, decimato, si diede alla fuga disordinata. Si guadagnò il soprannome Peppa 'a cannunera (Peppa la cannoniera) e la medaglia di bronzo al valor militare. 

2 giugno 1860 - Con un decreto, Garibaldi assegna le terre demaniali ai contadini; molti abboccano alla promessa. Intanto nell'Isola divampava impetuosa la rivoluzione che vedeva ancora una volta il Popolo Siciliano vittorioso. Fu lo stesso popolo che unito e compatto costrinse i borbonici alla ritirata verso Milazzo. 

17 luglio 1860 - Battaglia di Milazzo. Il governo piemontese invia il Generale Medici con 21.000 uomini bene armati a bordo di 34 navi. La montatura garibaldina ha fine. I contadini siciliani si ribellano, vogliono la terra promessagli. Garibaldi, rivelandosi servo degli inglesi e degli agrari, invia loro Nino Bixio. 

10 agosto 1860 - Da un bordello di Corleone, Nino Bixio ordina il massacro di stampo mafioso di Bronte. Vengono fucilati l'avvocato Nicolò Lombardo e tre contadini, tra i quali un minorato! L'Italia mostra il suo vero volto.

21 ottobre 1860 - Plebiscito di annessione della Sicilia al Piemonte. I voti si depositano in due urne: una per il "Sì" e l'altra per il "No". Intimorendo, come abitudine mafiosa, ruffiani, sbirri e garibaldini controllano come si vota. Su una popolazione di 2.400.000 abitanti, votarono solo 432.720 cittadini (il 18%). Si ebbero 432.053 "Sì" e 667 "No". Giuseppe Mazzini e Massimo D'Azeglio furono disgustati dalla modalità del plebiscito. Lo stesso ministro Eliot, ambasciatore inglese a Napoli, dovette scrivere testualmente nel rapporto al suo Governo che: "Moltissimi vogliono l'autonomia, nessuno l'annessione; ma i pochi che votano sono costretti a votare per questa". E un altro ministro inglese, Lord John Russel, mandò un dispaccio a Londra, cosí concepito: "I voti del suffragio in questi regni non hanno il minimo valore". 

1861 - L'Italia impone enormi tasse e l'obbligo del servizio militare, ma per chi ha soldi e paga, niente soldato. Intanto i militari italiani, da mafiosi, compiono atrocità e massacri in tutta l'Isola. Il sarto Antonio Cappello, sordomuto, viene torturato a morte perchè ritenuto un simulatore, il suo aguzzino, il colonnello medico Restelli, riceverà la croce dei "S.S. Maurizio e Lazzaro". Napoleone III scrive a Vittorio Emanuele: "I Borbone non commisero in cento anni, gli orrori e gli errori che hanno commesso gli agenti di Sua Maestà in un anno”. 

1863 - Primi moti rivoluzionari antitaliani di pura marca indipendentista. Il governo piemontese instaura il primo stato d'assedio. Viene inviato Bolis per massacrare i patrioti siciliani. Si prepara un'altra azione mafiosa contro i Siciliani.

8 maggio 1863 - Lord Henry Lennox denuncia alla camera dei Lords le infamie italiane e ricorda che non Garibaldi ma l'Inghilterra ha fatto l'unità d'Italia. 

15 agosto 1863 - Secondo stato d'assedio. Si instaura il terrore. I Siciliani si rifiutano di indossare la divisa italiana; fu una vera caccia all'uomo, le famiglie dei renitenti furono torturate, fucilate e molti furono bruciati vivi. Guidava l'operazione criminale e mafiosa il piemontese Generale Giuseppe Govone. (Nella pacifica cittadina di Alba, in piazza Savona, nell'aprile 2004 è stato inaugurato un monumento equestre a questo assassino. Ignoriamo per quali meriti.)

1866 - In Sicilia muoiono 52.990 persone a causa del colera. Ancora oggi, per tradizione orale, c'è la certezza che a spargervi il colera nell'Isola siano state persone legate al Governo italiano. Intanto tra tumulti, persecuzioni, stati d'assedio, terrore, colera ecc. la Sicilia veniva continuamente depredata e avvilita; il Governo italiano vendette perfino i beni demaniali ed ecclesiastici siciliani per un valore di 250 milioni di lire. Furono, nel frattempo, svuotate le casse della regione. Il settentrione diventava sempre più ricco, la Sicilia sempre più povera. 

1868 - Giuseppe Garibaldi scrive ad Adelaide Cairoli:"Non rifarei la via del Sud, temendo di essere preso a sassate!". Nessuna delle promesse che aveva fatto al Sud (come quella del suo decreto emesso in Sicilia il 2 giugno 1860, che assegnava le terre comunali ai contadini combattenti), era stata mantenuta. 

1871 - Il Governo, con un patto scellerato, fortifica la mafia con l'effettiva connivenza della polizia. Il coraggioso magistrato Diego Tajani dimostrò e smascherò questa alleanza tra mafia e polizia di stato e spiccò un mandato di cattura contro il questore di Palermo Giuseppe Albanese e mise sotto inchiesta il prefetto, l'ex garibaldino Gen. Medici. Ma il Governo italiano, con fare mafioso si schiera contro il magistrato costringendolo a dimettersi. 

1892 - Si formano i "Fasci dei Lavoratori Siciliani". L'organizzazione era pacifica ed aveva gli ideali del popolo, risolvere i problemi siciliani. Chiedeva, l'organizzazione dei Fasci la partizione delle terre demaniali o incolte, la diminuzione dei tassi di consumo regionale ecc. 

4 gennaio 1894 - La risposta mafiosa dello stato italiano non si fa attendere: STATO D'ASSEDIO. Francesco Crispi, (definito da me traditore dei siciliani a perenne vergogna dei riberesi) presidente del Consiglio, manda in Sicilia 40.000 soldati al comando del criminale Generale Morra di Lavriano, per distruggere l'avanzata impetuosa dei Fasci contadini. All'eroe della resistenza catanese Giuseppe De Felice vengono inflitti 18 anni di carcere; fu poi amnistiato nel 1896, ricevendo accoglienze trionfali nell'Isola. 

Note di "Sciacca Borbonica": Sono molti i paesi del mondo che dedicano vie, piazze e strade a lestofanti e assassini. Ma pochi di questi paesi hanno fatto di un pirata macellaio addirittura il proprio eroe nazionale. Il 27 luglio 1995 il giornale spagnolo "El Pais", giustamente indignato per l’apologia di Garibaldi fatta dall’allora presidente Scalfaro (quello che si prendeva 100 milioni al mese in nero dal SISDE, senza che nessuno muovesse un dito) nel corso di una visita in Spagna, così gli rispose a pag. 6:  “Il presidente d'Italia è stato nostro illustre visitante...... Disgraziatamente, in un momento della sua visita, il presidente italiano si è riferito alla presenza di Garibaldi nel Rio della Plata, in un momento molto speciale della storia delle nazioni di questa parte del mondo. E, senza animo di riaprire vecchie polemiche e aspre discussioni, diciamo al dott. Scalfaro che il suo compatriota [Garibaldi] non ha lottato per la libertà di queste nazioni come egli afferma. Piuttosto il contrario". Il 13 settembre 1860, mentre l'unificazione italiana era in pieno svolgimento, il giornale torinese Piemonte riportava il seguente articolo. (1): «Le imprese di Garibaldi nelle Due Sicilie parvero sin da allora così strane che i suoi ammiratori ebbero a chiamarle prodigiose. Un pugno di giovani guidati da un audacissimo generale sconfigge eserciti, piglia d'assalto le città in poche settimane, si fa padrone di un reame di nove milioni di abitanti. E ciò senza navigli e senz'armi... Altro che Veni, Vedi, Vici! Non c'è Cesare che tenga al cospetto di Garibaldi. I miracoli però non li ha fatti lui ma li fecero nell'ordine: 1°)-L'oro con il quale gli inglesi comprarono quasi tutti i generali borbonici e col quale assoldarono 20.000 mercenari ungheresi e slavi e pagarono il soldo ad altri 20.000 tra carabinieri e bersaglieri, opportunamente congedati dall'esercito sardo-piemontese e mandati come "turisti" nel Sud, altro che i 1000 scalcinati eroi...... 2°)-il generale Nunziante ed altri tra ufficiali dell'esercito e della marina che, con infinito disonore, disertarono la loro bandiera per correre sotto quella del nemico eccovi servito un piccolo elenco di traditori al soldo degli anglo-piemontesi, oltre al Nunziante: Generale Landi, Generale Cataldo, Generale Lanza, Generale Ghio, Comandante Acton, Comandante Cossovich,ed altri ancora; 3°)-i miracoli li ha fatti il Conte di Siracusa con la sua onorevolissima lettera al nipote Francesco II° (lettera pubblicata in un post a parte); 4°)-li ha fatti la Guardia Nazionale che, secondo il solito, voltò le armi contro il re che gliele avea date poche ore prima; 5°)-)li ha fatti il Gabinetto di Liborio Romano il quale, dopo aver genuflesso fino al giorno di ieri appié del trono di Francesco II, si prostra ai piedi di Garibaldi; 6°)- La quasi totalità della nobiltà siciliana. Beh, Con questi miracoli ancor io sarei capace di far la conquista, non dico della Sicilia e del Reame di Napoli, ma dell'universo mondo. Dunque non state a contare le prodezze di Sua Maestà Garibaldi I. Egli non è che il comodino della rivoluzione. Le società segrete (la massoneria) che hanno le loro reti in tutto il paese delle Due Sicilie, hanno di lunga mano preparato ogni cosa per la rivoluzione. E quando fu tutto apparecchiato si chiamò Garibaldi ad eseguire i piani [...]. Se non era Garibaldi sarebbe stato Mazzini, Kossuth, Orsini o Lucio della Venaria: faceva lo stesso. Appiccare il fuoco ad una mina anche un bimbo può farlo. Di fatto vedete che dappertutto dove giunge Garibaldi la rivoluzione è organizzata issofatto, i proclami sono belli e fatti, anzi stampati. In questo modo credo che Garibaldi può tranquillamente fare il giro del mondo a piantare le bandiere tricolori del Piemonte. Dopo Napoli Roma, dopo Roma Venezia, dopo Venezia la Dalmazia, dopo la Dalmazia l'Austria, caduta l'Austria il mondo è di Garibaldi, cioé del Piemonte! Oh che cuccagna! Torino capitale dell'Europa, anzi dell'orbe terracqueo. Ed i torinesi padroni del mondo!». Dai Savoia agli Agnelli, da una famiglia di vampiri ad un altra.....per il Sud sempre lo stesso destino.......dar loro anche l'ultima goccia di sangue. Comunque la Giustizia Divina arriva sempre........i savoia son finiti nella merda e nel ludibrio, gli Agnelli nella tomba e nella droga che certamente sarà il mezzo con quale ci libereremo di questa gente maledetta.

Gli eurobond che fecero l'Unità d'Italia quando il Regno di Napoli era come la Germania, scrive Giuseppe Chiellino il 30 giugno 2012 su “Il Sole 24 Ore”. Il vertice europeo di fine giugno ha cancellato gli eurobond dall'agenda. Almeno per ora. Angela Merkel è stata drastica: «Mai finchè sarò viva» aveva detto in pubblico qualche giorno prima. Chissà se la cancelliera tedesca aveva avuto il tempo di leggere lo studio di Stéphanie Collet, storica della finanza della Université Libre de Bruxelles che è andata a spulciare negli archivi delle Borse di Parigi e Anversa per studiare l'unico precedente assimilabile agli Eurobond: l'unificazione del debito sovrano dei sette stati che 150 anni orsono, su iniziativa del Piemonte e sotto tutela di Francia e Inghilterra, costituirono il Regno d'Italia. Nella storia dello stato moderno è l'esperienza storicamente più vicina al faticosissimo tentativo di dare maggiore consistenza politica all'Unione europea, anche attraverso l'integrazione delle politiche economiche e fiscali, compresi debiti sovrani dei 17 paesi dell'euro. Un precedente prezioso, secondo la Collet, per cercare di capire – mutatis mutandis - come potrebbero comportarsi i mercati finanziari di fronte all'unificazione del debito pubblico dei paesi della zona euro. «Come l'Italia di allora, l'Europa oggi è fatta da stati eterogenei, con economie di dimensioni e condizioni diverse, che parlano lingue diverse e hanno sistemi di imposizione fiscale separati» ricorda la studiosa. Grazie al fatto che anche dopo l'unificazione i titoli del Regno d'Italia conservarono fino al 1876 l'indicazione della loro origine (per esempio, ad Anversa le emissioni del Regno delle Due Sicilie erano indicate come "Italy-Neapolitean") la Collet è riuscita a ricostruire le serie storiche dei prezzi settimanali tra il 1847 e il 1873. Un lavoro certosino di raccolta manuale dei dati dagli archivi e dai database originali per capire come si sono mosse le quotazioni, prima e dopo l'unità, politica ed economica. 25 emissioni suddivise in quattro gruppi: Regno di Piemonte e Sardegna, Lombardo-Veneto, Due Sicilie e Stato Pontificio. La prima cosa che balza agli occhi è lo spread (anche allora!) tra i rendimenti dei diversi gruppi di bond prima e dopo l'Unità. Quelli del Regno delle Due Sicilie (che erano un quarto del totale) prima del 1861 pagavano i tassi più bassi: 4,3%, 140 punti base in meno delle emissioni papali e di quelle piemontesi (che rappresentavano rispettivamente il 29% e il 44% del debito unitario dopo la conversione) e 160 in meno rispetto a quelle Lombardo-Venete (che però erano solo il 2%). Insomma, a voler utilizzare le categorie di oggi, il Regno di Napoli economicamente era per l'Italia quello che oggi la Germania è per l'Eurozona. «Come il Regno di Napoli prima dell'integrazione del debito sovrano, la Germania di oggi è l'economia più forte dell'eurozona e beneficia del costo del debito più basso in assoluto» scrive Collet. Considerazioni, queste, che faranno storcere il naso a molti, ma sicuramente non di parte. Del resto, come ricorda Collet, Napoli era di gran lunga la città più importante del neonato Regno d'Italia. E le regioni del Sud avevano una discreta struttura industriale, un'agricoltura fiorente sia pure basata sul latifondismo, e importanti porti commerciali. Subito dopo il 1861, però, lo scettiscismo dei mercati nel processo unitario italiano impose un "risk premium" comune a tutti i bond degli stati preunitari, anche a quelli che fino a quel momento avevano goduto di maggiore fiducia e dunque di rendimenti più bassi. Proprio quello che oggi la Germania teme possa avvenire con gli eurobond: l'anno successivo, infatti, i rendimenti dei titoli convertiti in "Regno d'Italia" si allinearono ben al di sopra dei tassi precedenti, al 6,9%. Per gli "Italy – Neapolitean" 260 punti base in più che diventarono 460 nel 1870, per poi cominciare a ripiegare dopo il 1871, quando cioè l'annessione di Venezia e di Roma e il trasferimento della capitale nella città del papato convinsero gli investitori, e non solo, che l'Unità era ormai irreversibile. L"Italia" non era più una mera "espressione geografica", come l'aveva definita Metternich nel 1847, ma dopo tre guerre d'indipendenza e più di vent'anni di manovre diplomatiche era diventata uno stato unitario. «L'integrazione dei debiti sovrani era stato uno strumento per portare avanti l'integrazione politica, come sarebbe oggi per l'Europa» afferma Collet, ma nota anche che «un aumento del premio di rischio aggraverebbe la crisi del debito che sta vivendo l'Europa piuttosto che risolverla. Significherebbe che, se fossero introdotti gli eurobond, la Germania perderebbe il suo rating elevato». Questo portava Collet a definire, già nei mesi scorsi, «remote» le speranze di vedere nel breve termine un mercato integrato dei titoli di debito dell'eurozona. Nel lungo termine, invece, i risultati della ricerca sul caso italiano dimostrano che «nel tempo i rendimenti dei titoli diminuirono». Alla luce di questo, oggi la domanda è: quanto tempo ci vorrà perché anche l'Europa sia considerata come un blocco unico e in grado di dotarsi di un vero e proprio piano di salvataggio per l'euro? Per l'Italia ci volle all'incirca un decennio. Considerato che quella italiana fu un'annessione anche militare e quella europea è un'integrazione consensuale, e che i mercati dei capitali si muovono a ritmi diversi rispetto alla seconda metà dell'800, anche Collet concorda che un aumento del costo del debito nel breve termine sarebbe un prezzo che potremmo permetterci di pagare se avessimo la certezza di avere, tra qualche anno, un'Europa più unita. Ma questa certezza nessuna ricerca, per quanto accurata, potrà mai darla. Serve, forse, la capacità di andare oltre il breve periodo, di guardare un po' più lontano rispetto alla prossima scadenza elettorale, superando la "veduta corta" che per Tommaso Padoa Schioppa è stata «la radice» della crisi.

QUEI COMPAGNI CHE FREGANO...

Quei compagni che fregano: condannati Comunisti e Idv. Nel 2005 intascarono ingiustamente i rimborsi elettorali in Calabria. Ora dovranno restituire 143mila euro a un'associazione. Il ruolo di Bianchi, l'ex ministro dei Trasporti del governo Prodi, scrive Gianpaolo Iacobini Domenica 20/12/2015 su "Il Giornale". A chi i soldi? A noi. Compagni alle urne, capitalisti all'incasso. Ciò che resta di Idv e Pdci, decimati dagli italiani col voto, dovrà restituire più di 142.000 euro ad un'associazione insieme alla quale dieci anni fa s'era presentato alle Regionali calabresi, guadagnando col 4,6% dei voti il diritto a godere dei rimborsi elettorali. In totale, un bonus da quasi 450.000 euro finito, al momento della spartizione, solo nelle casse di dipietristi e postcomunisti. E lì destinato a rimanere ancora per poco, visto il Tribunale di Roma ha riconosciuto che quei denari andavano invece equamente divisi. La sentenza dei giudici capitolini chiude (per il momento) la storia d'una faida consumata tutta a sinistra, tra gli alfieri della lotta alla casta e della giustizia sociale. Brandite come scimitarra contro gli avversari, accortamente riposte al momento di spartire il bottino. Della (presunta) purezza Idv e Pdci avevano fatto un marchio ideologico anche in Calabria, accettando l'invito all'unità delle forze progressiste lanciato da «Progetto Calabrie», il soggetto politico fondato da esponenti del mondo accademico e presieduto dall'ex deputato comunista Giuseppe Pierino. È il 2005: il triciclo elegge un consigliere e mette insieme i consensi necessari a far scattare i rimborsi elettorali. Ed il vento soffia talmente forte nelle vele che l'anno dopo, alle Politiche, l'esperimento porta alla confluenza nelle liste dell'Unione prodiana ed alla chiamata al governo di uno degli alchimisti della sperimentazione, Alessandro Bianchi, all'epoca rettore dell'università di Reggio Calabria. Bianchi va a dirigere il ministero dei Trasporti, ma presto rompe coi suoi sponsor. E i professori, rimasti soli, si vedono scippare finanche il portafogli. Il 12 ottobre del 2007 Pierino prende carta e penna e scrive presidente della Camera, Fausto Bertinotti, visto che a saldare i conti deve essere Roma. Reclama le somme spettanti alla sua associazione, circa 150.000 euro, considerato che l'impegno di procedere ad una divisione in parti uguali delle somme spettanti era stato ratificato con tanto di scrittura privata. Ma il subcomandante fa orecchie da mercante. E poco importa che dell'ufficio di presidenza che rigetta la richiesta faccia parte pure Silvana Mura, uno dei tre soci del movimento dipietrista e custode delle chiavi della cassa dell'Italia dei valori: il conflitto d'interessi non vale per la sinistra. Inizia allora la trafila giudiziaria. Al centro della scena, il meccanismo escogitato per rastrellare fino all'ultimo centesimo: una semplice ma infondata autocertificazione con la quale si attesta essere nata la lista calabrese destinataria di contributi pubblici «da un accordo congiunto tra Idv e Pdci». Tesi smentita, l'altro ieri, dal Tribunale. Con i due partiti condannati a restituire ciascuno 71.579 euro a «Progetto Calabrie» ed a pagare altri 25.000 euro di spese legali. Il prezzo della finta superiorità morale.

Il dipietrista e il superboss. "Riciclava soldi per il clan". La fine ingloriosa dell'Idv giustizialista con le accuse all'ex capogruppo nel Lazio, scrive Paolo Bracalini Mercoledì 28/10/2015 su "Il Giornale". Da Savonarola dipietrista a Batman (nel senso di Fiorito, quello dei rimborsi regionali del Lazio) dell'Idv, e adesso persino «prestanome del clan 'ndranghetista Mancuso» secondo l'Antimafia della Procura di Roma. Vincenzo Maruccio, uno dei principali indagati (insieme alla moglie, alla madre e pure alla colf) nell'inchiesta «Hydra» sui traffici dei clan tra Vibo Valentia e Roma, è l'ex enfant prodige del partito di Di Pietro, già capogruppo Idv in Regione Lazio, già giovanissimo assessore ai Lavori pubblici della giunta Marrazzo, nonché socio dello studio legale Scicchitano, di cui proprio Di Pietro è partner dal 2010 nelle vesti di avvocato. Colleghi di studio, compagni di partito, amici, la carriera del trentasettenne Maruccio lanciatissimo dal leader Di Pietro sembrava spianata, ma poi l'Idv è stato spazzato via da Grillo e da qualche scandalo, protagonista tra gli altri, appunto, Maruccio. Nel 2012 l'allora tesoriere e capogruppo Idv viene arrestato con l'accusa di peculato per essersi appropriato di 1 milione di euro dei fondi regionali destinati al partito. La Guardia di finanza ricostruisce i movimenti di denaro, tra sale di videopoker e dieci conti correnti diversi riferibili a Maruccio. Ed è proprio da quell'indagine che emergono le relazioni del pupillo dipietrista, originario di Vibo Valentia, con le cosche calabresi, e i nuovi capi di accusa che lo vedono - secondo le accuse - al centro di un'attività di riciclaggio per conto del clan Mancuso. Secondo gli inquirenti Maruccio aiutava a riciclare il denaro ottenendo in cambio il dieci per cento circa di transazioni di migliaia di euro. Maruccio aveva un rapporto quasi familiare con l'imprenditore Ferruccio Bevilacqua, uno dei sei arrestati nell'operazione. Bevilacqua, amico del padre di Maruccio prima ancora che suo, utilizzava come prestanome l'intera famiglia dell'ex consigliere Idv: madre, moglie e perfino la colf, tutti indagati. Prestanome di Bevilacqua era lo stesso Vincenzo Maruccio, sui conti del quale i finanzieri hanno trovato oltre 650mila euro di trasferimenti a Bevilacqua. «Tipico della struttura ndranghetista è quello di basarsi su una componente familiare parentale e amicale in questo caso Maruccio e parenti del Maruccio legati a Bevilacqua da amicizia che hanno fornito una rete tesa appunto alla ripulitura del denaro frutto dell'usura» spiega il colonello Roberto Ribaudo, comandante del gruppo investigativo antiriciclaggio e valutario della Guardia di Finanza. La nuova inchiesta in cui è indagato Maruccio (è stata chiesto l'arresto ma il gip ha rigettato la misura cautelare) si mescola con l'altro processo, quello sul peculato in Regione Lazio. Si legge nell'ordinanza: «Maruccio non ha esitato ad utilizzare, per le operazioni di riciclaggio, disponibilità che gli venivano dalla illecita appropriazione di somme delle quali aveva il possesso in quanto tesoriere del gruppo dell'Italia dei Valori alla Regione Lazio». Il nome di Maruccio, come se non bastasse, viene fuori (non indagato) anche nelle intercettazioni di Mafia Capitale, con il «ras» Buzzi che al telefono si lamenta della difficoltà di «ripulire» i soldi: «O te compri un benzinaio o non li trovi, non c'è un cazzo da fa'. Maruccio aveva legato con i gestori di sale gioco per poter riciclare». L'Idv - esiste ancora - ha annunciato di costituirsi parte civile contro Maruccio nell'inchiesta sul riciclaggio, «perché abbiamo subìto un gravissimo danno all'immagine» scrive l'Idv in una nota. Da partito dei manettari alle manette vere, dalla pulizia, ai soldi ripuliti. In effetti peggio di così, per l'immagine del partito, non si poteva.

COS'E' IL TERRORISMO? TERRORISTI E FIANCHEGGIATORI.

Parigi, 13 novembre 2015: il racconto della strage. La storia della Francia e dell'Europa è cambiata in 40 minuti. E' passata una settimana, 130 innocenti uccisi in sei attacchi, anche i jihadisti sono morti. Resta però il mistero su uno di loro. Ecco la cronaca di una notte che nessuno potrà dimenticare, scrivono Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Daniele Mastrogiacomo, Fabio Tonacci, su “La Repubblica” il 20 novembre 2015.

La chiamano l'Estate di san Martino. E la sera di Parigi è mite. La temperatura è di 15 gradi. Assenza di vento. Allo Stade de France, banlieue nord di Saint-Denis, è in programma alle 21.00 l'amichevole Francia-Germania. I caffè hanno i tavolini all'aperto. Nella città che non ha terrazzi, le chiamano terrasse. Il cartellone del teatro Bataclan, al 50 di Boulevard Voltaire, ha in programma il concerto degli "Eagles of Death Metal", gruppo garage rock californiano. Prima tappa di una tournée che deve toccare altre città della Francia. Da settimane non si trova più un solo biglietto.

Alle 19.30 il ministro dell'Interno, Bernard Cazeneuve è a Montrouge, periferia sud di Parigi, per consegnare le onorificenze agli agenti della polizia municipale che, l'8 gennaio, ventiquattro ore dopo la strage di Charlie Hebdo, hanno per primi intercettato Amedy Coulibaly, l'assassino della vigilessa Clarissa Jean-Philippe, impedendogli di consumare una carneficina che, purtroppo, avverrà il giorno successivo.

Alle 20.30, il ministro è di ritorno a Place Beauveau, sede del Ministero dell'Interno. I giorni di Charlie sono lontani. O almeno così sembra. Cazeneuve discute brevemente con i suoi collaboratori dei due falsi allarmi terrorismo della giornata. Alla Gare de Lyon, in parte evacuata, e al "Molitor", vecchio hotel art decò sulla riva sinistra della Senna che ospita la nazionale tedesca. Non c'è motivo di ansia. "#Diemannschaft ist zuruck im Hotel. Voller Fokus auf #Frager", "Siamo tornati in albergo. La testa è solo alla Francia", twitta la nazionale tedesca. A duecento metri da Place Beauvau, il presidente François Hollande sta lasciando l'Eliseo diretto allo stadio. I titoli del telegiornale danno notizia dello sciopero dei medici contro la riforma del Governo e dell'annunciata uccisione di Jihadi John in Siria. Consigliano di anticipare i regali di Natale, annunciano la riapertura del museo Rodin e l'attesa per la partita della sera. "Il primo match contro la Germania dopo l'eliminazione ai quarti nel mondiale del Brasile". Almeno nove uomini si salutano per l'ultima volta e salgono su tre macchine di colore nero. Una Volkswagen Polo, una Seat Leon, una Renault Clio. Hanno tutte e tre targa e immatricolazione belga. Sono state affittate pochi giorni prima in un'agenzia di noleggio auto di Bruxelles a nome Salah Abdeslam e Ibrahim Abdeslam. Due fratelli residenti nel quartiere Kareveld di Molenbeek. Sono arrivate a Parigi giovedì sera a distanza di dieci minuti l'una dall'altra, in convoglio. Hanno depositato i loro passeggeri in un appartamento di Bobigny affittato per una settimana attraverso il sito homeholidays e in due stanze al terzo piano del residence Apart'City Paris di Alfortville. In avenue Jules Rimet, il vialone che costeggia il settore est dello Stade de France, un giovane siriano è chiuso in un bomber nero. Ha un passaporto in cui dice di chiamarsi Ahmad Almohammad, nato il 10 settembre 1990 a Edlib, Siria. Ha raggiunto l'Europa cinque settimane prima. Il 3 ottobre, un barcone di profughi lo ha sbarcato sull'isola di Leros. Le autorità greche lo hanno fotografato, gli hanno preso le impronte digitali e riconosciuto un lasciapassare temporaneo nello spazio di Schengen. Un timbro che gli ha consentito di raggiungere la Serbia e, da lì, la Croazia. L'ultimo tratto di strada verso i fratelli che lo aspettano a Molenbeek, Bruxelles, Belgio. La città di Abdelhamid, di Salah, di Ibrahim. La porta verso il Paradiso. Ahmad non ha il biglietto. La partita Francia-Germania è cominciata da 10 minuti. Il risultato è sullo 0-0. Hollande, in tribuna, contempla lo spettacolo degli 80 mila dello Stade. Ahmad ha caldo. È fradicio di sudore. Entra nei bagni della birreria di fronte al cancello D. Il bomber che nasconde la cintura imbottita di perossido di acetone (Tatp) e bulloni lo soffoca. Si dirige verso i lavabi. Si appoggia con le braccia tese di fronte allo specchio. Incrocia lo sguardo di Blay Mokono, un uomo di colore. Il cronometro del tabellone segna il minuto 10 della partita. Blay recupera il figlio tredicenne Ryan e l'amico Rashid al bancone della birreria. Sono in ritardo. Devono entrare. Ahmad lo urta con la spalla. Non chiede scusa. Prosegue verso i tornelli e la biglietteria del cancello D. Lo affronta con garbo uno degli steward. "Non può entrare, monsieur ". Ahmad rincula. Ma non si dà per vinto. Avanza di nuovo di qualche passo. "Monsieur, le ho già detto che non può entrare senza biglietto". Ora il tabellone indica il minuto 16 e 24 secondi. Sull'ala sinistra, lavora il pallone Martial con un profondo retropassaggio. Il boato è avvertito in tutto il catino ed è confuso con un petardo. Un innocente è morto in un lampo di fuoco e bulloni. Si chiama Manuel Dias. Ha 63 anni. E' il primo di 130 vittime. La folla ondeggia in una ola. Sulle tribune si alzano felici i 1.000 impiegati della compagnia aerea GermanWings in trasferta premio, per cancellare il lutto dello schianto sulle Alpi francesi. Il pallone ora è dei tedeschi. Un rimpallo lo riconsegna a Evra. Diciannovesimo minuto e 35 secondi. Di fronte al cancello H, lungo le vetrine di Decathlon, in corrispondenza dell'insegna Gaumont, un altro "fratello" muove i suoi ultimi passi. Un secondo boato. Un uomo della sicurezza presidenziale si avvicina in tribuna ad Hollande. Si china leggermente e sussurra all'orecchio del Presidente. "Monsieur le Président le Quick a sauté". Il presidente sa cosa significa. Per sessanta secondi fissa il vuoto. Quindi si alza senza una parola. Frank Walter Steinmeier, ministro degli Esteri tedesco seduto alla sua sinistra, lo insegue con lo sguardo mentre prende la via dei sotterranei. Un corteo di macchine nere esfiltra Hollande verso Place Beauvau. Dieci chilometri lo separano dal bunker del ministero dell'Interno.

21.53. A Bilal Hadfi resta l'ultimo giro di orologio dei suoi vent'anni. In piedi, sotto un palo arrugginito fissa le indicazioni stradali. Autostrada A86, La Courneuve centre, Aubervilliers, S33. Lo stadio è un rumore di fondo lontano un chilometro. Quasi quanto il ricordo dei mesi da foreign fighter in Siria. Bilal pigia l'interruttore che lo spegne per sempre. Un brandello di carne e sangue imbratta le indicazioni per la S33. Negli spogliatoi dello Stade, Sebastian Lowe, ct della Germania e Didier Dechamps, collega francese, annuiscono uno di fronte all'altro con accanto i funzionari Uefa e agenti della polizia. Ora sanno. Ma non devono dire. Ne va della vita degli 80mila. Per nessuna ragione al mondo devono sapere. La partita deve continuare. All'angolo tra rue Bichat e rue Alibert, Ouidad Bakkali, 29 anni, assessore alla cultura di Ravenna, marocchina di seconda generazione nata in Italia, ordina una birra. Intorno a lei, ai tavolini del "Carillon" una folla di universitari ride tra uno "waikiki" e l'altro di rhum e pera. Shot da due euro a bicchierino. Tra Bastille e canale Saint Martin, questo spicchio dell'undicesimo arrondissement non parla più della sapienza dei faubourg artigiani. Ha la gioia e l'energia della movida e la più alta densità di locali della città. Nella Seat Leon nera con targa belga GUT 18053, tre uomini hanno di fronte 4 chilometri, 15 minuti e 39 vite umane da prendersi. Una vita ogni 100 metri. Al tavolo di Ouidad e del suo fidanzato sono arrivate le birre. Accanto ai due ragazzi, una coppia sta litigando. Una macchina fa manovra in corrispondenza dell'ingresso del locale. È una mamma con la bambina sul sedile posteriore. Deve togliersi di mezzo. Non fa in tempo. Il calibro 7.62 del kalashnikov imbracciato dall'uomo sceso dalla Seat le stacca la testa. Ouidad pensa a un petardo. Poi sedie e tavolini cominciano a volare. I ragazzi urlano. Il sangue imbratta l'asfalto. Le rose delle raffiche sono ad alzo zero. Da destra a sinistra. Da sinistra a destra. Sull'altro lato della strada, il proprietario del "Petit Cambodge" tira furiosamente giù la saracinesca e invita tutti a stendersi a terra dentro il locale. L'uomo col fucile si avvicina. Le raffiche sbriciolano il cartongesso del muro. Ouidad vede cadere due ragazze come fantocci. Prega e piange. La Seat riparte sulla rue Alibert lasciando dietro di sé 100 bossoli e 15 cadaveri.

21.32. In rue della Fontaine au Roi, ai piccoli tavoli della pizzeria "Casa Nostra", la pioggia di schegge di vetro anticipa di qualche secondo la morte che porta la Seat. Una donna, seduta all'esterno, si rannicchia a terra. "C'est pour la Syrie", sente gridare. L'uomo che le si avvicina alza il kalashnikov e lo rivolge verso il basso. Appoggia la canna al cranio della donna. Tira il grilletto. Una, due volte. L'arma è inceppata. Risale in auto. Non c'è tempo. E cinque cadaveri possono bastare.

21.36. Nella sua casa dell'undicesimo arrondissement, il primo ministro Manuel Valls ha appena chiuso la telefonata che lo avvisa che qualcuno ha dichiarato guerra alla Francia. Che il Presidente sta raggiungendo il bunker del ministero dell'Interno e che si sta sparando nel quartiere in cui il premier abita. Ancora. Ancora una volta a dieci mesi di distanza da quella mattina di Charlie Hebdo. Stesso quartiere. Stesso odio. In rue de Charonne, alla "Belle Equipe" si festeggia Houda Saadi. Compie 36 anni e si è presa una sera fuori. I suoi bambini sono a casa. Al tavolo con lei, insieme alla sorella, c'è, con altri amici, Ludovic Bombasse. Ha 40 anni, è nato in Congo, ama i libri e gli restano pochi secondi di vita. La Seat è alla sua ultima stazione di morte. Houda non ha il tempo di capire. Né lo ha sua sorella. Ludovic decide di fare scudo a Chloé, una ragazza che conosce appena e che le siede affianco. Nascosto dietro il bancone, Gregory Reibenberg, il proprietario del locale, stringe a sé sua moglie Djamila. La sente andarsene via, trafitta da una raffica. Lei è musulmana. Lui ebreo. La contabilità dell'orrore ha spuntato la sua trentanovesima vita. All'esterno della "Belle Equipe", una ragazza è seduta al tavolino. Nella mano stringe un calice di vino. La testa è reclinata sul tavolo. Come dormisse. La Seat nera è ripartita. Un poliziotto di quartiere corre con la pistola in pugno verso quel tavolo. E' del commissariato dell'undicesimo. Lo stesso che è intervenuto la mattina di Charlie. Il poliziotto si china sulla ragazza, che ha ancora gli occhi sbarrati. Crolla in ginocchio. Piange. Sul maxi-schermo televisivo del "Comptoir Voltaire", il rumore delle raffiche nel quartiere non ha fatto in tempo ad arrivare, né a farsi strada tra le risate e il vociare che accompagnano le immagini della partita. Ibrahim Abdeslam è sceso per l'ultima volta dalla Seat che prosegue verso Montreuil. E per l'ultima volta ha guardato negli occhi suo fratello Salah. Si siede a un tavolo.Catherine, la cameriera, gli chiede cosa gradisca. Ibrahim non muove un muscolo. Non le risponde. Si alza lentamente e dopo due passi salta in aria. C'è sangue dappertutto. La tv continua ad andare. Ha segnato Giroud. Da qualche minuto, in Rete, gira il tweet con la foto delle luci del caffè "Comptoir Voltaire". E' un'immagine singolare e sgranata. Scattata dal tetto di un edificio che guarda boulevard Voltaire e postata, alle 21.16, dal profilo twitter "OP_IS90". L'acronimo è corredato da una foto di al-Zarqawi, il macellaio di Falluja. In una Polo nera con targa belga, parcheggiata di fronte al teatro "Bataclan", degli uomini sono chiusi da due ore dentro l'abitacolo. I due sui sedili anteriori smanettano sul cellulare. E' arrivato il tweet di "OP_IS90". Si chiamano Ismael Mostefai, 29 anni e Samy Amimour, 28. Hanno lo stesso passaporto francese. Sono nati nella stessa città, Parigi, ma in due banlieue diverse. Hanno avuto due vite diverse. Samy, nel 2013, è fuggito dalla Francia verso i campi di Daesh. Non fuma più. Ha sposato la donna che le ha assegnato il Califfato. L'ultima volta che ha visto il padre, un venditore ambulante di vestiti, era ancora in Siria e gli ha riconsegnato la lettera con cui la madre lo implorava di tornare e i 100 euro che quella lettera nascondeva. "Non ne ho più bisogno", ha detto. Anche Ismael ha toccato l'orrore siriano. Ma, al contrario di Samy, che è inseguito da un mandato di cattura internazionale per terrorismo, lui è un invisibile. Dai tavoli del ristorante "Cellar", Cristophe continua a osservare quella Polo, dentro vede quattro ragazzi. Due ore prima ha chiesto loro di spostarla. Ma non ha avuto neppure risposta. Li ha fissati per un attimo negli occhi e ha avuto la sensazione di aver incrociato lo sguardo vuoto di zombie. Non ha insistito più. Anche se non può fare a meno di chiedersi per quale diavolo di motivo, da due ore, quella macchina in sosta abbia le luci spente ma il motore sempre acceso. Cristophe guarda per l'ultima volta l'orologio. Sono le 21.30. Decide di andarsene. È la migliore decisione della sua vita. Nella sala del Bataclan il concerto è cominciato. Da mezz'ora Jesse Hughes pesta sulla sua chitarra. La folla è felice. In mille e cinquecento tra platea e galleria ondeggiano e ballano facendo tremare le strutture in legno di questo bizzarro edificio dell'Ottocento. Una guazzabuglio architettonico che incrocia suggestioni cinesi. I flash dei cellulari che scattano selfie lampeggiano insieme alle luci stroboscopiche del palco. La band è su di giri come chi ascolta. Jesse ha piantato un coltello in uno degli amplificatori. Il rock degli Eagles and Death Metal è anche questa roba qui.

21.42. Il motore della Polo in sosta in boulevard Voltaire si spegne. I quattro uomini scendono dall'auto. Il cellulare torna a illuminarsi. Il messaggio ha 18 battute di testo. "On est parti. On commence". Siamo partiti. Cominciamo. Il destinatario del messaggio è Abdelhamid Abaaoud. Il mastermind della cellula. Lo psicopatico di origini marocchine con passaporto belga che trascina cadaveri nel deserto di Raqqa con il suo fuoristrada. L'uomo sfuggito in gennaio all'operazione che ha smantellato la cellula di Verviers. Quello che la Francia dà per certo in Siria, ma che in Francia è tornato per chiudere il conto. "Vite, vite! Partez, ça tire". Veloci, veloci, sparano. "Didi" è un'istituzione al Bataclan. Un po' buttafuori, un po' butta dentro, un po' angelo custode per chi, a notte, non si regge più in piedi per l'alcool. Ne ha viste tante. Non le ha viste tutte. Non quello che gli si è appena parato di fronte agli occhi. Due ragazzi usciti per fumare sono stati giustiziati da quei cavalieri dell'Apocalisse che ora puntano a passo svelto verso l'interno del teatro. Sono pochi passi. Tra la strada e la "fosse" dove si balla, si grida, si suda, sono pochi metri. Una porta a vetri, il guardaroba, due ante girevoli. "I meet the Devil and this is his song". Incontro il Diavolo e questa è la sua canzone, canta Jesse Hughes annunciando una delle loro hit, "Kiss the devil". Bacia il diavolo. La prima raffica sulla platea ne falcia una decina, ma suona come un effetto speciale. La seconda mette in fuga Hughes, mentre il chitarrista, Dave Catching, continua ancora per qualche istante a tenere il centro della scena. Poi, l'intera band si rifugia nel retro palco. La musica si interrompe e ora si sentono solo grida. Di dolore, di terrore, di implorazione. Le raffiche non cessano un solo istante. Chi non è riuscito a fuggire usando le uscite di emergenza sui lati della platea ora è sdraiato a terra. Sono centinaia. Qualcuno si finge morto. Qualcuno si copre con i morti. Altri strisciano in un lago di sangue e brandelli di carne. Gli uomini del commando hanno il volto di bambini e la voce da orchi vendicatori. "Avete ucciso i nostri fratelli in Siria, ora siamo qui". "È colpa del vostro presidente Hollande". In due, cominciano ad aggirarsi tra i corpi stesi. "Se qualcuno muove il culo, lo ammazziamo". Ma è una minaccia infame. Perché loro ammazzano anche chi resta immobile. Con un piede colpiscono chi è a terra per verificare se sia in vita o meno. E al primo cenno di reazione fanno fuoco alla nuca. Chi non è più in platea è in cerca di un qualunque nascondiglio. Le intercapedini del teatro, i camerini, i bagni, i locali della attrezzeria. In una delle toilette, un gruppo di ragazzi e ragazze sfonda il controsoffitto e si infila nei condotti della areazione. Una donna incinta si appende ad una delle finestre. Qualcuno salta giù chiudendo gli occhi fracassandosi gambe e bacino. Una colonna umana riesce ad arrampicarsi fino ai sottotetti. Qualcuno, guadagnate le scale antincendio, raggiunge il tetto del teatro e di lì salta sul palazzo prospiciente. Bussa disperatamente a porte e finestre.

22.01. Bfm, la televisione all news francese, annuncia: "Una sparatoria a colpi di kalashnikov ha provocato diversi morti in un ristorante nel decimo arrondissement di Parigi".

22.18. L'agenzia di stampa Reuters batte il primo take che annuncia l'orrore fuori dai confini del Paese. "Two dead, seven wounded in shooting in restaurant in central Paris". Due morti, sette feriti in sparatoria nel centro di Parigi. Nessuno immagina. Nessuno sa. Tranne chi è dentro il teatro e chi verso il teatro sta correndo impugnando una pistola. È un commissario di quartiere che ha raccolto il primo allarme e che resterà un angelo senza nome. Entra nell'edificio scavalcando decine di cadaveri. E nella hall distingue la sagome di uno dei macellai. Lo protegge soltanto un giubbotto antiproiettile. E quando le raffiche cominciano a raggiungerlo risponde al fuoco. Uno dei tre con il kalashnikov salito sul palco, crolla. Gli altri due fuggono verso la galleria. All'esterno del Bataclan arriva il furgone blindato nero della BRI la "Brigade recherche intervention", l'unità di élite della polizia giudiziaria. Gli uomini che ne scendono sono al comando di Christophe Molmy. È uno sbirro che, dieci mesi prima, ha condotto il blitz all'Hypercacher di Porte de Vincennes dove si era asserragliato Amedy Coulibaly. Ha scritto un romanzo, Loups blessés, lupi feriti, sull'umanità storta che ha combattuto per una vita: banditi, tossici, rapinatori. Gli mancano i martiri di Allah. Li ha trovati. Molmy è un uomo colto. Sa dare alle cose il loro nome. "E' l'inferno di Dante ", comunica alla centrale dall'interno del teatro. Pile di corpi smembrati, lamenti. Un silenzio di morte bucato dal concerto di decine di suonerie di cellulari che squillano a vuoto accanto a ragazze e ragazzi che non possono più rispondere. I due martiri in galleria si sono barricati in un locale con venti ostaggi. Vorrebbero negoziare. O almeno così dicono. Ma non si capisce cosa. Né a che prezzo. Molmy e le teste di cuoio che sono salite in galleria dove tutto è ancora buio e le uniche luci sono quelle dei puntatori laser dei fucili di precisione della BRI, raggiungono la porta che li separa dai due terroristi e dagli ostaggi. Uno di loro grida "Fermatevi o ci uccideranno tutti!". Convincono gli assediati a prendere un cellulare attraverso cui comunicare con il negoziatore della BRI. Lo stesso che aveva inutilmente trattato per ore con Coulibay. Con i due martiri va ancora peggio. Non riesce neppure il primo degli step del protocollo del negoziatore. Quello che impone di stabilizzare l'interlocutore. Raffreddarlo. Sgonfiarlo di adrenalina. Riportargli i battiti cardiaci a una condizione di lucidità. Dall'altra parte della porta si farfuglia soltanto di Siria e Hollande. Si minacciano decapitazioni e non si negozia nulla. Molmy capisce che i 20 ostaggi non sono e non saranno moneta di scambio. Sono solo animali sacrificali. E anche per questo quando i due provano a chiamare Bfm fanno cadere la linea del cellulare. Non vogliono che quello che sta per accadere vada in diretta televisiva e in mondovisione. Sono le 23.45. Negli ospedali di Parigi sono stati riaperti tutti i blocchi operatori d'emergenza e tutti i chirurghi richiamati. Dalle ambulanze vengono sbarcate lettighe su cui sono stesi uomini e donne che sembrano usciti da una trincea. Sul marciapiede di boulevard Voltaire il prefetto di Parigi Michel Cadot è in linea con Hollande e il ministro dell'Interno Cazeneuve. Il presidente ha appena parlato in tv alla nazione, visibilmente sconvolto. "Quello che vogliono è farci paura". Al telefono il Prefetto Cadot annuisce. La decisione è presa. Si dia l'assalto. Anticipate da lunghi minuti di scambio di fuoco, due deflagrazioni scuotono il piano superiore del Bataclan. È finita. Bisogna solo evacuare i feriti e contare i morti. Ottantanove. Ai tavolini del "Les Béguines", un pub nel cuore di Molenbeek, Bruxelles,Mohamed Hamri e Hamza Attou stanno fumando l'ennesima canna e buttando giù l'ennesima birra. Il locale ha riaperto da qualche giorno dopo essere stato chiuso dalla polizia belga per droga. Da due anni il proprietario èIbrahim Abdeslam. Da qualche ora, di quel proprietario è rimasto un tronco d'uomo carbonizzato in boulevard Voltaire. Ma questo Mohamed e Hamza non lo sanno. O, almeno, racconteranno di non saperlo. Squilla il cellulare. E' Salah, il fratello di Ibrahim. Chiama da Parigi. "Dimmi fratello". "Sono qui a Parigi. Ho bisogno che tu mi venga a prendere. Ora. Pago io la benzina e l'autostrada. Ti aspetto. Ci vediamo a Barbès", il quartiere arabo del diciottesimo arrondissement, dove verrà ritrovata la terza auto. La Clio nera. Alle tre del mattino una Volkswagen Golf 3 grigia targata ILJV 973 che percorre l'autostrada A2 Bruxelles-Parigi passa la frontiera tra il Belgio e la Francia. A bordo, Mohamed e Hamza, che dell'auto è il proprietario. Non c'è ombra di gendarme lungo la strada. La Francia ha appena annunciato la chiusura delle frontiere, ma il dispositivo fatica a mettersi in moto. Alle 5, la Golf è a Parigi e carica Salah.

Alle 9,15 del mattino di sabato 14 novembre, la Golf grigia va in senso inverso. All'altezza di Cambrai, accosta all'invito di una pattuglia della Gendarmerie francese. I quattro uomini mostrano i documenti. L'agente li controlla al terminale della banca dati del ministero dell'Interno. Tra le mani si ripassa il documento di quell'uomo indicato come Salah Abdeslam. Risultano precedenti per furto e spaccio di droga. Il gendarme torna alla Golf e restituisce i documenti ai tre uomini. "Bon voyage Monsieur".

L'attacco agli Usa dell'11 settembre 2001: gli schianti, il fumo e le vittime che cadono dal cielo, scrive la Redazione di Tiscali L'America subiva il peggior attacco della sua storia. E oggi quell'11 settembre del 2001 è ancora vivo perché alimentato da nuovi timori. Ecco la successione, minuto per minuto, della tragedia che ha cambiato anche gli equilibri politici internazionali. L'ora indicata è quella di New York e Washington, indietro di sei ore rispetto a quella italiana.

7.59 - Il volo American Airlines 11 decolla dal Logan International Airport di Boston. Sul Boeing 767, diretto a Los Angeles, vi sono 95 persone.

8.14 - Il volo United Airlines 175 decolla dallo stesso aeroporto con 65 persone a bordo. Anche questo è un Boeing 767 e anche questo è diretto a Los Angeles.

8.15 - Primo segnale di allarme. Il volo AA11 non rispetta le disposizioni dei controllori di volo.

8.15 - Il volo American Airlines 77 decolla dal Dulles Airport di Washington. E' un Boeing 757 con 64 persone a bordo, diretto a Los Angeles.

8.40 - Boston informa il Norad (North American Aerospace Defense Command) che il volo AA11 è stato probabilmente dirottato.

8.42 - Il volo UA93 decolla da Newark (New Jersey) alla volta di San Francisco. E' un Boeing 757, con a bordo 44 persone.

8.43 - La Faa (Federal Aviation Administration) notifica al Norad che anche il volo UA175 è stato dirottato.

8.46 - Il volo AA11 si schianta contro la Torre Nord del World Trade Center di New York. Il Norad ordina il decollo immediato di due caccia F-15 dalla base di Falmouth (Massachusetts).

8.49 - La Cnn interrompe le trasmissioni. "Un aereo ha colpito una delle torri del World Trade Center".

8.50 - La prima autopompa dei vigili del fuoco giunge al Wtc.

9.00 - Il presidente George W. Bush, in visita a una scuola elementare a Sarasota (Florida), viene informato dal consigliere per la sicurezza nazionale Condoleezza Rice che un aereo ha colpito un grattacielo del Wtc.

9.03 - Il volo UA175 colpisce la Torre Sud.

9.07 - Bush è informato dal capo di gabinetto Andrew Card che "un secondo aereo ha colpito la seconda torre".

9.16 - La Faa informa il Norad che anche il volo UA93 è stato dirottato.

9.21 - Le autorità di New York chiudono i ponti e i tunnel di accesso a Manhattan.

9.24 - Il Norad apprende che anche il volo AA77 è stato dirottato.

9.26 - La Faa ordina il blocco di tutti i decolli negli aeroporti Usa.

9.30 - Bush in Florida: "L'America è sotto attacco".

9.32 - Wall Street interrompe le operazioni.

9.37 - I controllori di volo di Washington avvertono che un aereo non identificato è diretto verso la capitale.

9.43 - Il Volo AA77 colpisce il Pentagono.

9.45 - La Casa Bianca viene evacuata. Il vicepresidente Dick Cheney è portato nel bunker blindato sotto la residenza. La Faa blocca il traffico aereo sugli Usa.

9.55 - L'Air Force One con a bordo Bush decolla dalla Florida. Bush telefona a Cheney e ordina l'allerta delle forze militari Usa nel mondo.

9.58 - I passeggeri del volo UA93, informati di quanto accaduto agli altri velivoli, si scagliano contro i dirottatori per prendere il controllo dell'aereo.

9.59 - Crolla la Torre Sud.

10.03 - Il volo UA93 precipita in un campo della Pennsylvania, nei pressi di Shanksville.

10.28 - Crolla anche la Torre Nord.

10.45 - Le autorità ordinano l'evacuazione di tutti gli edifici federali di Washington.

12.36 - Bush parla alla nazione da Barksdale, Indiana. "La nostra libertà è stata attaccata da un codardo senza volto. La determinazione della nostra grande nazione è stata messa alla prova. Supereremo questa prova".

13.02 - Il sindaco di New York Rudolph Giuliani ordina l'evacuazione di Manhattan a sud di Canal Street.

13.27 - Dichiarato lo stato di emergenza a Washington.

14.50 - Bush si sposta in aereo al quartier generale del Comando Strategico Usa nella base aerea Offut (Nebraska) dove presiede una video-conferenza con i membri del Consiglio per la Sicurezza Nazionale a Washington.

17.20 - Crolla anche il Seven World Trade Center, un edificio di 47 piani.

18.45 - Bush rientra alla Casa Bianca.

20.30 - Il presidente parla a reti unificate alla nazione. "I responsabili la pagheranno. L'America non farà distinzioni tra i terroristi e coloro che li ospitano".

21.00 - Bush torna a riunirsi con il Consiglio per la Sicurezza Nazionale. Viene discusso anche un primo piano di rappresaglia militare contro i terroristi.

Orgoglioso di essere cristiano e cattolico.

I sinistroidi e similari (5 Stelle) non si limitano a condannare la barbarie islamica di Parigi, punto e basta. Si sforzano di mistificare la realtà delle cose, contrapponendo le ipotetiche malefatte cristiane alla barbarie terroristica mussulmana, come per giustificare o sovvertire le responsabilità. Nascondono nei tg quel “Allah akbar” gridato nello stadio di Istanbul in Turchia il 17 novembre 2015 nella partita Turchia-Grecia durante il minuto di raccoglimento per le vittime degli attentati di Parigi, che inneggia ai terroristi, o quell’appoggio morale ai terroristi dato da parte dei mussulmani in Italia, interpellati sulla vicenda. Nei social network post che pubblicano le responsabilità occidentali per la vendita delle armi in medio oriente o gli eccidi commessi da occidentali da singoli (vedi attentati di Norvegia con autore Anders Behiring Breivik) o in seguito ai bombardamenti sui territori occupati dai taglia gole degli ostaggi innocenti. Atei che parteggiano per i mussulmani in tempi oscurati dalla morte di innocenti. Islamici, da loro ritenuti ultimo baluardo contro l’occidentalismo ed il capitalismo. Lì, dove il comunismo ha fallito. Sinistroidi che in nome della loro fede disprezzano la loro identità, cultura e tradizioni, imponendoci un politicamente corretto. Non sono i mussulmani ad invaderci ed ad imporre a casa nostra la loro fede, cultura e tradizioni, senza colpo ferire, ma sono i sinistroidi a permettere che ciò avvenga. La cultura dei sinistroidi è la discultura e l’oscurantismo. Atei che si spingono a farsi rapire per foraggiare il terrorismo con i loro riscatti o che condannano le guerre o gli attacchi per ritorsione, ma poi speculano finanziariamente con milioni di euro di finanziamenti sulla cura delle vittime delle stesse guerre.

Le puntualizzazioni saccenti della sinistra a sinistra.

DISINFORMAZIONE. Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. Doppia disinformazione: da una parte una frase associata ad Oriana Fallaci, ma non è sua, mentre il contenuto di quella frase è stato alterato riportando una considerazione errata sul terrorismo, scrive il 18 novembre 2015 David Tyto Puente su “Bufale”. Da qualche giorno, ma già a inizio 2015 in seguito all’attentato terroristico contro Charlie Hebdo, viene largamente condivisa questa frase associata erroneamente ad Oriana Fallaci e citata da Giuliano Ferrara durante una puntata di Servizio Pubblico: Non tutti gli islamici sono terroristi, ma tutti i terroristi sono islamici. In realtà si tratta di una frase del musulmano saudita Abdel Rahman al Rashed (all’epoca direttore della televisione Al Arabiya) tratta da un suo editoriale e riportata nel libro “Oriana Fallaci intervista se stessa – L’apocalisse”: Anche se non tutti i musulmani sono terroristi, la gran parte dei terroristi sono musulmani. Tornando alla frase diffusa online e citata da Ferrara a inizio 2015, in questo articolo raccoglieremo qualche esempio di terrorismo di matrice non islamica.

Che cos’è il terrorismo? Prima di parlare di terroristi bisogna capire che cos’è il terrorismo: Il terrorismo è una forma di lotta politica che consiste in una successione diazioni criminali violente, premeditate ed atte a suscitare clamore come attentati, omicidi, stragi, sequestri, sabotaggi, ai danni di enti quali istituzioni statali e/o pubbliche, governi, esponenti politici o pubblici, gruppi politici, etnici o religiosi. Le organizzazioni dedite a tale pratica vengono definite “organizzazioni terroristiche”, mentre l’individuo è definito come terrorista, termine che in storiografia indica un membro del governo in Francia durante il periodo del Regime del Terrore. In realtà non esiste una definizione accettata da tutti del terrorismo, ma ne è stata data una, nel 1937, dalla Società delle Nazioni: “fatti criminali diretti contro lo Stato in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone”. Fatti criminali in cui lo scopo è di provocare terrore nella popolazione o in gruppi di persone. Teniamolo a mente.

Le statistiche. Secondo gli studi svolti dall’FBI, nell’arco di tempo tra il 1980 e il 2005, il 94% degli atti terroristici negli Stati Uniti non sono di matrice islamica. In questo grafico possiamo vedere che il 6% è di matrice islamica, il 7% di matrice ebraica, il 42% dei latinos e via dicendo. È innegabile il fatto che il numero di vittime dell’11 settembre sia ben superiore rispetto agli altri episodi. Ricordiamo che per atti terroristici non si considerano solo esplosioni o kamikaze. Ecco le tipologie di atti terroristici registrati dallo studio dell’FBI: Tutti i terroristi sono musulmani è come dire che tutti gli italiani sono mafiosi. Tra tutti i pregiudizi che calano sugli italiani il peggiore è senz’altro l’assioma “italiani=mafiosi”. All’estero incontriamo sempre qualcuno che appena sa che siamo italiani casca in questo luogo comune che, in un modo o nell’altro a seconda della pazienza di ognuno di noi, ci fa imbarazzare per la sua stupidità. Sentirci dare dei “mafiosi” è un insulto, per molti anche molto grave. Per chi non se ne è reso ancora conto, la Mafia è un gruppo terroristico a tutti gli effetti e di certo non è di religione musulmana.

Il terrorismo in Italia – Gli “anni di piombo”. La storia del terrorismo italiano è ben impressa nella memoria del nostro Paese, terrorismo ad opera degli stessi italiani nostri connazionali. Il periodo tra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta viene ricordato con il nome “anni di piombo” di cui ricordiamo la “strategia della tensione” (strategia politica da realizzare mediante un disegno eversivo, tesa alla destabilizzazione o al disfacimento di equilibri precostituiti). Non possiamo assolutamente dimenticarci le stragi di quei periodi:

Strage di piazza Fontana a Milano (diciassette vittime e ottantotto feriti);

Strage di Gioia Tauro (sei vittime e sessantasei feriti);

Strage di Peteano a Gorizia (tre vittime e due feriti);

Strage della Questura di Milano (quattro vittime e una quarantina di feriti);

Strage di Piazza della Loggia a Brescia (otto vittime e centodue feriti);

Strage dell’Italicus (Strage sull’espresso Roma-Brennero, dodici vittime e centocinque feriti);

Strage della stazione di Bologna (ottantacinque vittime e oltre duecento feriti);

Così come non possiamo dimenticarci le Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra costituitasi nel 1970 per propagandare e sviluppare la lotta armata rivoluzionaria per il comunismo.

Il terrorismo in Italia – La Mafia. Come dicevamo in precedenza, non si può negare in alcun modo che la mafia sia un gruppo terroristico a tutti gli effetti, la storia ne è testimone. Non bisogna dimenticare le stragi compiute ad atto della malavita organizzata:

Strage del Rapido 904 (17 morti e 267 feriti);

Strage di Pizzolungo (l’obiettivo era il magistrato Carlo Palermo, ma invece vennero uccisi una donna e dei suoi due figli gemelli);

Strage di via dei Georgofili (cinque morti e una quarantina di feriti);

Strage di via Palestro (cinque morti);

La strage di Capaci (dove rimasero uccisi il giudice Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, mentre una decina di persone restarono ferite);

La strage di via d’Amelio (dove rimasero uccisi il giudice Borsellino e cinque agenti di scorta, mentre ventitré persone restarono ferite).

Il terrorismo cristiano. Nella storia non esistono solo terroristi di religione islamica o ebraica, ma anche di fede cristiana: Il Terrorismo Cristiano comprende atti di terrorismo compiuti da gruppi o individui che citano obiettivi o motivazioni da loro interpretati come "cristiani", o entro un contesto di base di violenza tra diverse fazioni e/o pregiudizi quali l’intolleranza religiosa. Come altre forme di terrorismo religioso, i terroristi cristiani hanno indicato interpretazioni di principi di fede – in questo caso interpretazioni del Vecchio Testamento (bibbia) – come propria ispirazione per giustificare violenza e omicidi.

Il massacro di Utøya. Non possiamo dimenticarci del Massacro di Utøya, in Norvegia, ad opera del terrorista cristiano protestante Anders Behring Breivik, dichiarato anti-multiculturalista, anti-marxista e anti-islamista. Lui stesso si autodefinisce “salvatore del Cristianesimo” e “il più grande difensore della cultura conservatrice in Europa dal 1950“. Il suo gesto portò alla morte ben 77 persone, ma l’obiettivo di Breivik fu quello di mandare un segnale al popolo norvegese contro il Partito Laburista e fermare la distruzione della cultura norvegese causata dall’immigrazione musulmana.

Il movimento ultracattolico Christian Identity e il gruppo Army of God. Un gruppo ultracattolico che ritiene i cattolici ariani la “Razza Eletta del Signore”, guidati dal terrorista Eric Robert Rudolph (foto sotto), furono i colpevoli dell’attentato alle Olimpiadi di Atlanta nel 1996 (111 feriti ed un morto), della bomba contro la clinica per aborti ad Atlanta ed il bar Otherside Lounge (bar frequentato da clientela lesbica) nel 1997, della bomba contro la clinica per aborti di Birmingham nel 1998. Negli Stati Uniti d’America è presente anche un gruppo terroristico chiamato “Army of God“, a cui era associato anche il terrorista Eric Robert Rudolph, i quali rivendicarono gli attentati del 1997 contro le cliniche per aborti ed inviarono oltre 500 lettere contenenti polvere bianca, spacciata per antrace, a 280 operatori nel 2001. Nel 1999 furono arrestati e deportati da Israele i membri del gruppo ultracristiano Concerned Christians grazie all’operazione “Operation Walk on Water”, la quale aveva sventato il loro attentato contro la moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme. Il gruppo terroristico ultracristiano era convinto di compiere un atto necessario per il ritorno di Gesù Cristo. Da non dimenticare il famoso gruppo terroristico americano Ku Klux Klan. Il gruppo terroristico americano giustificava la sua azione contro i neri e contro gli ebrei attraverso l’interpretazione di alcuni versetti della Bibbia tra cui quello della Genesi 9, 24-27: «Quando Noè si fu risvegliato dall’ebbrezza, seppe quanto gli aveva fatto il figlio minore; allora disse: Sia maledetto Canaan! Schiavo degli schiavi sarà per i suoi fratelli! Disse poi: Benedetto il Signore, Dio di Sem, Canaan sia suo schiavo! Dio dilati Iafet e questi dimori nelle tende di Sem, Canaan sia suo schiavo!» Per quanto possa sembrare strano, nella simbologia del KKK c’era anche la croce che brucia, simbolo usato per indurre terrore.

Il terrorismo ebraico. Non bisogna dimenticare il gruppo paramilitare sionista Irgun Zvai Leumi giudicato terrorista dal Regno Unito che operò durante il controllo britannico della Palestina dal 1931 al 1948, anno in cui il gruppo fu disciolto e i suoi membri vennero integrati nelle neo-costituite Forze Israeliane di Difesa. Da citare anche il gruppo paramilitare sionista Lohamei Herut Israel (chiamato dai britannici Banda Stern), di cui bisogna ricordare il massacro di Massacro di Deir Yassin, dove vennero uccise più di 100 arabi costringendo i superstiti a lasciare l’insediamento. Da non dimenticare l’attentato contro il King David Hotel di Gerusalemme nel 1946 (foto sotto), dove vennero uccise 91 persone di varie nazionalità. L’Italia se li dovrebbe ricordare soprattutto per l’attentato compiuto a Roma il 31 ottobre 1946, dove tre giovani terroristi attaccarono l’ambasciata britannica situata presso Porta Pia facendo esplodere due ordigni che causarono la totale distruzione dell’edificio.

L’Esercito di Resistenza del Signore in Uganda. Non tutti conoscono l’esistenza dell’Esercito di resistenza del Signore, un gruppo ribelle di guerriglia di matrice cristiana (che opera anche nel nord dell’Uganda, nel Sudan del Sud, nella Repubblica Democratica del Congo e nella Repubblica Centrafricana). Il gruppo è guidato da Joseph Kony (foto sotto), il quale si dichiara fondamentalista cristiano contro all’Islam e a favore della creazione di una teocrazia basata sui Dieci Comandamenti.

I massacri degli islamici in Africa centrale. Parliamo dei massacri ad opera dei cristiani ed animisti anti-Balaka nello Stato di Centr’Africa, dove la minoranza musulmana viene massacrata. Nel solo mese di gennaio 2014 vi furono circa 1000 vittime, ma il conflitto dura da anni. A denunciare questi massacri fu Amesty International nel 2014. Ciò causò la fuga di numerosi credenti musulmani verso i paesi vicini.

Libano e Palestina. Non bisogna dimenticare il Lebanese Phalanges Party, il “partito delle falangi” di matrice cristiana, le cui milizie compirono i massacri di Sabra e del campo profughi di Shatila ai danni delle popolazioni musulmane e palestinesi durante la guerra civile libanese (1975-1990).

Eppure Ayman Al-Zawahiri, terrorista egiziano, leader di Al-Qā'ida: ha pronunciato queste frasi:«Il nostro messaggio per voi è chiaro, forte e definitivo: non vi sarà alcuna salvezza fino a quando non vi ritirerete dalla nostra terra, smetterete di rubare il nostro petrolio e le nostre risorse, porrete fine al vostro supporto agli infedeli e alla corruzione dei governanti....E' un fatto certo che non tutti i musulmani sono terroristi, ma è altrettanto certo, ed eccezionalmente doloroso, che quasi tutti i terroristi sono musulmani.....Siamo una nazione fatta di pazienza. E noi resisteremo per combattervi, se Dio vorrà, fino all'ultimo minuto....Dobbiamo dissanguare economicamente l'America provocandola, in modo che continui a spendere massicciamente sulla sicurezza. [Dichiarazione del 13 settembre 2013].

Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano” del 19 novembre 2015: invece di denunciare l'Isis manifestano contro di noi. La Francia ieri si è svegliata con le notizie del blitz delle teste di cuoio contro i terroristi islamici e in tutta Europa, Italia compresa, si è seguito in tv l'evolversi dell'assedio di Saint Denis. Tuttavia, mentre in ogni diretta televisiva si parlava dell'azione delle forze speciali francesi e di quella ragazza che ha scelto di farsi esplodere per evitare l'arresto, Maryan Ismail si preoccupava di far sapere a tutti di aver organizzato a Milano una fiaccolata sotto la sede di Libero. Sì, avete letto bene. Un raduno davanti alla redazione perché io e i colleghi chiedessimo scusa ai musulmani per il titolo di sabato scorso, «Bastardi islamici». Mentre in Europa ci sono tizi che, nel nome di Allah, vanno in giro ad ammazzare centinaia di persone colpevoli di vivere in Occidente - e dunque di andare allo stadio, a teatro o al ristorante -, la signora Ismail si preoccupava del titolo di Libero. Non chiedeva a ogni islamico di condannare gli attentatori, di invitare ogni imam a tenere un sermone contro gli assassini, di lanciare una fatwa contro il califfo Al Baghdadi e i suoi seguaci. Domandava a noi di scusarci con i musulmani per aver accostato ai bastardi che hanno sparato contro giovani inermi il riferimento all'islam. Vi chiedete chi sia Maryan Ismail? La signora, di cui fino a ieri ignoravo l'esistenza, è nata a Mogadiscio, in Somalia, ma da anni vive a Milano. Figlia di un diplomatico e politico somalo, è arrivata in Italia in qualità di rifugiata politica e la politica da quel che si capisce è la sua passione, tanto da averla indotta a iscriversi al Pd, entrando a far parte della segreteria cittadina del partito. (...) La sua biografia l'ho desunta da Internet, dove tra l'altro si trova una sua polemica a proposito della costruzione della moschea nel capoluogo lombardo. A Maryan non va giù l'idea che il comune, guidato come è noto da un sindaco sostenuto dal Pd, abbia fatto un bando per assegnare un lotto di terreno su cui edificare il luogo di preghiera degli islamici locali. La signora avrebbe preferito che l'amministrazione comunale invece di cedere a questa o a quella associazione la costruzione e la gestione della moschea, gestisse in proprio il sito, in modo da averne il controllo. Fosse passata la sua tesi, oltre agli asili e alle scuole comunali, a Pisapia sarebbe toccato pure fare l'imam o il muezzin, chiamando a raccolta i fedeli. Perfino i suoi, cioè quelli del Pd, l'hanno giudicata una follia, al punto che il segretario cittadino le ha risposto un po' piccato, facendole capire che la moschea non è l'Atm e non tocca all'amministrazione municipale occuparsi del servizio. La sensazione è che Maryan sia in cerca di un po' di visibilità, soprattutto in vista delle prossime elezioni comunali, quando cioè in primavera si dovrà eleggere il nuovo sindaco. E allora, cosa c'è di meglio se non organizzare una bella fiaccolata in nome della pace per fare la guerra a Libero? Di certo sfilando in piazza dichiarandosi vittime di un'offesa a mezzo stampa non si rischia una pistolettata. Per quanto le nostre parole e i nostri titoli non piacciano, mi risulta che non abbiano ancora ammazzato nessuno. Cosa ben diversa invece è contestare integralisti e terroristi, che come si sa, e come si è visto in questi giorni, non vanno troppo per il sottile, anche con quelli che in apparenza dovrebbero essere fratelli. Come ha scritto l'altro ieri Ernesto Galli della Loggia, nel mondo islamico, anche quello moderato che non si riconosce nelle tesi più radicali e nello Stato islamico, si fa molta fatica a condannare senza se e senza ma le fazioni più estremiste che si ispirano al Corano. A parte le dissociazioni post attentati, non esistono infatti prese di posizione nette contro gli integralisti. Ho provato anche a chiedere a Stefano Dambruoso, uno che da pm si è occupato di terrorismo, quante volte gli sia capitato di ricevere da appartenenti alla comunità islamica delle denunce contro persone sospette di predicare odio o di intrattenere rapporti con organizzazioni terroristiche. La risposta è stata: mai. A volte si ottiene qualche confidenza, nella speranza che si chiuda un occhio su altre faccende, ma vere e spontanee dichiarazioni all'autorità neppure il magistrato che per primo si è occupato di integralisti ne ha mai ottenute. E allora siamo sempre al punto di partenza: ci si indigna per un titolo che associa i terroristi e gli islamici, ma anche tra chi si dichiara moderato si fa poco o nulla per fermare i soggetti più pericolosi. Per certi versi par di vedere l'atteggiamento della sinistra ai tempi degli anni di piombo, quando qualcuno sosteneva che i brigatisti erano sedicenti. Vedrete, tra un po' ci diranno che anche quelli del Bataclan sono sedicenti islamici. Eh sì, sta a vedere che i jihadisti invece che figli di Maria sono figli della Cia.

Libero e Bastardi islamici, ecco cosa pensa Vittorio Feltri, scrive “Libero Quotidiano” il 19 novembre 2015. Nel lungo elenco di persone dotate di razionalità e onestà intellettuale che hanno difeso la scelta di Libero del titolo "Bastardi islamici" va doverosamente aggiunto il fondatore di questo quotidiano, Vittorio Feltri, che a Un giorno da pecora su Raidue ha prima ironizzato: "E come vogliamo chiamarli, discoli o birichini? Non credo sia esagerato definire bastardi i terroristi che hanno compiuto una strage come quella di Parigi". Poi Feltri ha spiegato: "Bisogna leggere oltre il significato delle parole: bastardi è un termine che si riferiva a tutti i terroristi, non a tutti gli islamici. Il titolo - ha aggiunto - si riferiva al fatto che i terroristi che hanno colpito in Francia non sono dei frati trappisti o degli scout, ma degli islamici". Feltri risponde anche alla provocazione della conduttrice Geppi Cucciari, quando chiede se in caso di attentati terroristi compiuti da italiani bisognerebbe fare un titolo "Bastardi cristiani". Feltri dice: "Se ci fossero dei terroristi cristiani che vanno in un Paese a compiere degli attentati, perché non definirli cristiani? Se lo facessero si potrebbe fare, ma non lo fanno, quindi non possiamo definire i cristiani terroristi. Mentre quelli a Parigi, guarda caso, sono islamici o islamisti".

Giorgia Meloni su “Libero Quotidiano” del 17 novembre 2015, perché difendo il titolo di Libero: dagli altri giornali l'Islam è sparito. "Caro direttore, leggo delle polemiche scatenate da "Bastardi islamici", titolo di apertura del suo giornale all' indomani degli attentati di Parigi. C' è chi è arrivato a chiedere le sue dimissioni, altri hanno paventato denunce. L' hanno insultata, chiesto la sua radiazione dall' ordine dei giornalisti, qualcuno ha addirittura invocato la galera. Ma sono la sola ad aver visto dietro quel titolo, che colpisce come un pugno perché appare come un insulto sfrontato, un significato molto più profondo di quello che gli è stato attribuito da chi si lascia condizionare dai pregiudizi della propria visione ideologica? Perché personalmente ho interpretato quel «bastardi» come illegittimi, fasulli, impostori: «Bastardi islamici» ovvero «Impostori islamici», islamici deviati. Un messaggio che addirittura potrebbe piacere ai fan del politicamente corretto. Per intenderci, se lo stesso titolo lo avesse pubblicato il manifesto gli stessi che oggi attaccano Libero starebbero plaudendo al genio comunicativo. A proposito del manifesto, titoli ad effetto come questo che colpiscono allo stomaco e costringono a riflettere, ne fa parecchi (il titolista non lo conosco ma è un genio vero). Mi viene in mente il titolo «Niente asilo» sopra la foto del piccolo Aylan, il bambino siriano morto sulle spiagge turche. Il messaggio era chiaro: gli è stato negato il diritto di asilo politico, e ora che è morto non potrà andare all' asilo come gli altri bambini. Nessuno è stato così idiota da credere che il manifesto stesse facendo sarcasmo o insultando un bambino morto. Lo stesso sforzo di perspicacia non guasterebbe anche per cercare di capire i titoli (choc) dei quotidiani vicini alla destra. E quindi, col solito anticonformismo che ci contraddistingue, le scrivo direttore per esprimere a lei e al suo giornale la nostra solidarietà. Piuttosto approfitterei per fare una riflessione su titoli e prime pagine di altri quotidiani, come ad esempio Repubblica: non troverete mai le parole «islam» e «musulmani», quasi che gli attacchi a Parigi fossero stati compiuti da indefiniti gruppi terroristici di matrice sconosciuta. Ma questa è un'altra storia (e un altro giornalismo). Giorgia Meloni

E LI CHIAMANO MODERATI...Islam, sondaggio tra i musulmani in Italia: il 20% non condanna la strage di Parigi, scrive “Libero Quotidiano" il 20 novembre 2015. Qual è la reazione dei musulmani (moderati) alla strage di matrice islamica di Parigi. Bruno Vespa oggi su Il Giorno illustra un sondaggio che ha mostrato a Porta a porta condotto da Ipr su un campione dei due milioni di musulmani residenti in italia (di cui 800mila ormai cittadini italiani). Di questi, l'80% condanna la strage di Parigi, il 12% la giustifica e l'8% dice di non avere una opinione in merito. Il 75% degli intervistati dice che i terroristi si comportano male, il 15% sostiene che sbagliano, ma li comprende e un 5% dice che agiscono bene, perché bisogna combattere la cultura occidentale. Secondo il sondaggio, un musulmano su 4 pensa che la colpa degli attacchi sia degli occidentali e meno della metà dice che si tratta di singoli terroristi che non hanno niente a che fare con la religione islamica. Il 40% ritiene che Francia sbaglia a reagire e ad attaccare militarmente "perché così si fomenta il terrorismo". Ma voi denuncereste un terrorista o qualcuno che lo favorisce? Il 70% risponde di sì. Quanto all'integrazione, il 25% non si sente parte del tessuto italiano, mentre la metà non ha alcuna intenzione di farlo.

Portavoce Ppe: "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Fratoianni: "Frase gravissima". L'articolo sul sito internet del Partito popolare europeo che attacca la sinistra. L'esponente di Sinistra Italiana contro le affermazioni di Monika Hohlmeier: "L'eurodeputata tedesca sfrutta le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei". Forenza (L'Altra Europa con Tsipras): "Ci aspettiamo delle scuse", scrive Monica Rubino su “La Repubblica” 19 novembre 2015. Sul sito del Partito popolare europeo, nella sezione "Comunicati stampa", c'è un articolo dal titolo "I terroristi voterebbero allegramente la sinistra". Il pezzo riferisce che l'eurodeputata tedesca Monika Hohlmeier, coordinatrice del Comitato delle Libertà civili degli Affari Interni al Parlamento Europeo, ha criticato i colleghi di sinistra per il loro atteggiamento "lassista" nei confronti del terrorismo. Segue poi un virgolettato della Hohlmeier, che giustifica il titolo del comunicato: "Sembra che per i socialisti, i liberali, i verdi e i comunisti - sostiene l'esponente del Ppe - non ci sia nessuna lezione da trarre dagli attacchi di Parigi. Questi gruppi di sinistra invitano i terroristi a sfruttare le lacune della nostra legislazione sulla sicurezza al fine di perpetrare altri attentati". Per poi concludere: "Le buone intenzioni per prevenire il terrorismo non sono più sufficienti, è necessario cambiare le leggi". Il nesso stabilito dalla Hohlmeier fra i terroristi e il "lassismo della sinistra", come lei stessa dichiara, ha mandato su tutte le furie Sinistra Italiana, che interviene per bocca del deputato Nicola Fratoianni: "Trovo gravissime le affermazioni di Monika Hohlmeier  - afferma l'esponente di SI - La deputata tedesca afferma senza vergogna che i terroristi voterebbero allegramente la sinistra, ed utilizza i morti e le tragedie di questi giorni per sponsorizzare la restrizione delle libertà e dei diritti costituzionali per i cittadini europei, il respingimento dei profughi che scappano da Daesh, la chiusura delle frontiere. Esattamente le stesse posizioni che hanno i terroristi che insanguinano il Medioriente e le nostre città". "La destra estrema - prosegue il coordinatore di Sel - evidentemente ha fatto egemonia all’interno del Ppe. Quello che mi impressiona di più è quanto le posizioni della destra europea finiscano per fare il gioco dei terroristi, che nella loro agghiacciante propaganda scommettono proprio su questo: ridurci alle leggi speciali, alla paura, all’indifferenza verso chi soffre. I terroristi stanno già votando la destra estrema in Europa, a suon di morti e paura. Perchè odiano la democrazia. La signora Hohlmeier - conclude Fratoianni - farebbe bene a pensarci prima di parlare”. "Le parole della collega deputata europea Monika Hohlmeier – dichiara Eleonora Forenza, capodelegazione dell’Altra Europa con Tsipras al Parlamento europeo – sono inaccettabili. Da militante di sinistra ed europarlamentare del gruppo Gue/Ngl, voglio dire all’esponente popolare che noi siamo da sempre, e realmente, contro i terroristi, contro ogni forma di terrorismo: perchè lavoriamo per politiche di pace e giustizia sociale, difendiamo i diritti dei migranti, siamo contro chi usa la paura e l’odio per affermare la propria idea di società. Anche per queste ragioni ci opponiamo alle politiche della grande coalizione di cui fa parte il Ppe: fondare l’Europa sul neoliberismo e sulla solidarietà militare. Mi aspetto da Hohlmeier delle scuse per questa indecente dichiarazione, che strumentalizza in modo bieco e maldestro il dramma di Parigi".

Eppure…

Terrorismo, per Laura Boldrini l'Isis siamo noi: "Abbiamo seminato odio", scrive su “Libero Quotidiano” di Enrico Paoli il 19 novembre 2015. L’Europa parla di guerra, di attacco senza precedenti. Ed è un linguaggio che non è più isolato, fuori sincrono rispetto alle scene che ci passano davanti agli occhi nei telegiornali e nei servizi dedicati alla Francia. È semplicemente la dura realtà che i fatti di Parigi hanno messo al centro del dibattito politico di tutti i Paesi. Eppure l’illuminata e progressista presidentessa della Camera, Laura Boldrini, ha sentito ancora una volta l’urgenza, se non proprio l’impellenza, di marcare il proprio territorio, di mettersi fuori dal coro. Come se starci dentro fosse un problema, un neo da rimuovere. Quando il neo in questione, a dire il vero, è il fenomeno del terrorismo con tutte le sue complicazioni. Ma la Boldrini è così, un eterno salmone anche quando la storia richiederebbe ben altro. In una lunga intervista al settimanale L’Espresso, in edicola oggi, la terza carica dello Stato sostiene che la guerra all’Isis si combatte «con la politica», dialogando con gli attori in campo, esclusa ovviamente la stessa Isis». La presidente della Camera fa notare che «dopo cinque anni di guerra in Siria ci sono state 250mila vittime, oltre la metà della popolazione è fuori casa forzatamente», sostiene la Boldrini, «ci sono quattro milioni di profughi di cui due in Turchia». «La guerra è nefasta, crea odio e disfacimento», sostiene l’inquilina di Montecitorio, «abbiamo seminato odio, abbiamo creato contrapposizione. Abbiamo predicato lo scontro di civiltà, l’errore più grave di tutti. Ora proseguire su questa strada sarebbe miopia politica». Insomma, le forze della coalizione, la stessa Europa, l’America in particolare, avrebbero provocato il processo di reazione che si sta traducendo in atti terroristici, in stragi che colpiscono i civili nella loro quotidianità. La colpa è nostra, sembra essere la sintesi estrema del ragionamento fatto dalla Boldrini. Non solo. La presidente della Camera, sottolineando come la sua sia «una posizione realista, non buonista», rimarca il fatto di non essere mai stata «contro gli interventi militari a prescindere, mi è capitato anche di lavorare in situazioni in cui erano l’unico modo per fermare il massacro di civili innocenti. Ma bisogna evitare di creare odio su odio», sostiene la Boldrini, «fermarsi a riconsiderare gli strumenti con cui vogliamo combattere questa guerra. Tagliare i finanziamenti. Non comprare più il petrolio che arriva dai territori occupati dai tagliagole, un milione di dollari al giorno. Rafforzare l’intelligence: fare un salto nell’integrazione europea significa anche avere una sola politica di sicurezza e di difesa». Tutte belle ricette, tutte belle idee, ma che fanno drammaticamente a cazzotti con la realtà. Nel momento in cui prendi uno schiaffo, non puoi fermarti a chiedere perché, puoi solo reagire, con una forza simile se non addirittura superiore. Poi arriva il momento del dialogo, dunque della politica. Perché veniamo attaccati, perché hanno insanguinato Parigi è già passato. Le domande riguardano già il futuro. L’Europa, in questo momento non ha tutto questo tempo. Parigi ha dimostrato che siamo in una fase di emergenza. Soprattutto di carattere tecnico militare, inteso come sicurezza dei cittadini. E poi c’è il capitolo socio-economico, che la Boldrini ama in modo particolare. «I rifugiati sono le prime vittime del terrore. Chi vuole rimandarli indietro fa un regalo all’Is che si presenterebbe come l’unica protezione», sostiene la terza carica dello Stato, «chi dice che tutti i musulmani sono uguali consegna a poche migliaia di miliziani la rappresentanza di miliardi di persone. Una follia. Si pensa sempre che il nemico venga da fuori», fa notare la Boldrini, «invece è qui, in casa nostra. Le ricette semplici sono un inganno. E sono anche le meno efficaci. Perché il terrorismo è una minaccia globale, che colpisce ad ogni latitudine: a Parigi come a Beirut, ad Ankara come a Nairobi». Ecco, se le cose stanno esattamente così, è evidente la contraddizione in termini contenuta nel ragionamento della Boldrini, che spegne le ipotesi di risposta militare come soluzione ma parla di nemico già presente in casa nostra. Dobbiamo tenercelo? «Il governo ha finora tenuto una posizione ragionevole che condivido. Sulla lotta al terrorismo», ribadisce la Boldrini, «serve senso di responsabilità da parte di tutti». Già, la responsabilità. Noi riflettiamo, loro attaccano. Ancora. 

Bufera dopo il post del portavoce di Gabellone, la Sinistra chiede la rimozione. La polemica, nata sul web prosegue a colpi di comunicati stampa. Dopo il post delle scorse ore del portavoce del presidente della provincia di Lecce Antonio Gabellone ne chiedono la rimozione dall'incarico il gruppo “Salento bene comune”, Abaterusso e Carlo Salvemini. Gabellone non risponde, per l'interessato: mera strumentalizzazione, scrive “TeleRama il 18 novembre 2015. Continua a far discutere il post su Facebook scritto dal portavoce del presidente della Provincia Cosimo Carulli sulla morte di Valeria Solesin, negli attacchi terroristici a Parigi. Non portava la kefiah, non agitava bandiere della pace, dunque sarà dimenticata in fretta .– si legge – Solo una ragazza normale e studiosa, figuriamoci se la feccia della nostra società le riconoscerà qualche onore. Sta circolando tra le agenzie di stampa la notizia sulla morte di una nostra connazionale. Valeria, studentessa modello alla Sorbona di Parigi per mano di bastardi senza scrupoli; ma certamente non farà nessun effetto ai nostri tanti connazionali caproni comunisti vestiti del loro finto egualitarismo con il portafoglio pieno e del loro dialogo del niente con gente come loro, puzzolente e stragista, brigatista e violenta quanto loro. Scenderanno in campo per le varie Vanessa e Greta, le cooperanti in gita di piacere in Siria (piacere in tutti i sensi….), per la Sgrena a cui bastò un rapimento per un seggio in Parlamento e non per i Quattrocchi morti per l’Italia. Insomma, restano quelli che sono: il tumore maligno dell’Italia”.

Il Movimento 5 Stelle, da sempre dalla parte del terrorismo, scrive “Il Corriere del Giorno” il 16 novembre 2015. Degli attivisti del Movimento5Stelle dal baso della loro evidente “ignoranza” ci accusano di percepire contributi dello Stato, quando in realtà chi viene retribuito con i soldi pubblici (ed altro che gli sbandierati e promessi 2.500 euro in campagna elettorale!) sono i loro deputati e consiglieri comunali e regionali, ed i loro “portaborse”, che spesso sono loro parenti diretti o indiretti! Ma questa volta vogliamo ricordarvi alcuni comportamenti dei loro rappresentanti nelle sedi istituzionali.

Era il 12 novembre 2013 e la deputata Emanuela Corda, esponente del Movimento 5 Stelle, non poteva trovare giorno migliore… per commemorare a modo suo, l’attentatore kamikaze che ha ucciso 19 Carabinieri a Nassiriya. Infatti quel giorno, 12 novembre, ricadeva il decennale di quella strage. Con squallido e volgare tempismo, l’onorevole “grillina” ha voluto spendere parole d’affetto e di comprensione nei confronti del giovane attentatore. Nel suo discorso, pronunciato davanti agli attoniti colleghi deputati, Emanuela Corda ha ricordato, dopo una doverosa introduzione in memoria dei 19 italiani e 9 iracheni uccisi: “Nessuno ricorda il giovane marocchino che si suicidò per portare a compimento quella strage. Quando si parla di lui se ne parla come di un assassino, e non anche come vittima, perché anch’egli fu vittima oltre che carnefice”. Parole squallide, allucinanti, quasi incredibili, cui la deputata grillina sembra porre rimedio: “Una ideologia criminale l’aveva convinto che quella strage fosse un gesto eroico e lo aveva mandato a morire“, ma l’apparente rinsavimento durò poco, perché Emanuela Corda continuò così: “e non è escluso che quel giovane come tanti kamikaze islamici fosse spinto dalla fame, dalla speranza che quel suo sacrificio sarebbe servito per far vivere meglio i suoi familiari, che spesso vengono risarciti per il sacrificio del loro caro“. Avete letto bene. Si lo ha giustificato in quanto “spinto dalla fame”. Come se per logica conseguenza si potesse uccidere per fame. Anche il giovane marocchino, ricordato “affettuosamente” dalla deputata grillini, è stato una vittima. Vero, è morto anch’egli nell’attentato. Ma ha scelto di uccidere 28 persone. Commemorarlo in un giorno come questo, in ricordo delle vittime di Nassiriya, appare tanto fuori luogo quanto di cattivo gusto. Ancor più in una istituzione come il Parlamento italiano. Cosa ne penseranno i delusi dalla politica, che votando Movimento 5 Stelle hanno contribuito a portare persone come Emanuela Corda in Parlamento?

Il 12 novembre 2014, l’anno successivo e questa volta, sempre in occasione della ricorrenza dell’anniversario di Nassirya, è stato un consigliere regionale (candidato Governatore) della Regione Lazio per il M5S, a manifestare la sua “vicinanza” ideologica al terrorismo. Infatti, durante il minuto di silenzio che il presidente del Consiglio Regionale del Lazio Daniele Leodorifece osservare, tutti i consiglieri si sono alzati in piedi tranne quello del M5S, Davide Barillari. Il consigliere del Ncd, Giuseppe Cangemi, tra l’altro ex paracadutista, subito dopo gli si e” fatto sotto e stava per attaccarlo fisicamente se non fosse stato trattenuto da alcuni consiglieri, tra i quali Gino De Paolis di Sel e Daniele Mitolo di Per il Lazio. Barillari provo a replicare: “Vorrei alzarmi per ogni morto che abbiamo nel Lazio, in ogni scenario di lotta, comprese le morti bianche. Dovremmo alzarci continuamente. Semmai è questione di chiedersi perchè muoiono queste persone. Queste persone sono morte a causa di una guerra”. Le reazioni “Il consigliere Barillari si dovrebbe vergognare: rimanere seduto durante il minuto di silenzio per l’undicesimo anniversario della strage di Nassiriya e per la Giornata del ricordo dei caduti nelle missioni internazionali è una provocazione inaccettabile”. E’ quanto dichiarò Giuseppe Cangemi, consigliere Ncd della Regione Lazio. “Il consigliere grillino- aggiunse- ha oltraggiato la memoria dei militari che hanno perso la vita, dileggiato la sofferenza delle loro famiglie e offeso tutti gli italiani che si sono inchinati davanti alle bare dei nostri caduti a Nassiriya. Barillari dovrebbe chiedere scusa oppure dimettersi”. Lo sdegno nei confronti dell’esponente del M5S fu “bipartizan”. Marco Vincenzi, presidente del gruppo del Partito democratico al termine del minuto di silenzio per commemorare l’eccidio dei militari italiani a Nassiriya, dichiarò: “Il consigliere del M5SBarillari questa mattina si e” reso responsabile di un gesto grave che offende l’istituzione regionale, l’Italia e l’intera comunità internazionale. I nostri militari caduti a Nassiriya, e in altri teatri di guerra, erano in missione di pace, impegnati a difendere la popolazione civile. Strumentalizzare come ha fatto il consigliere Barillari, la barbarie di Nassiriya, rappresenta uno dei peggiori episodi per l’Aula consiliare della Regione Lazio che stigmatizzo e condanno con forza. Desidero esprimere, infine, a nome del gruppo del Partito democratico, solidarietà e vicinanza ai nostri militari, ringraziandoli per l’impegno quotidiano a difesa della pace nelle missioni internazionali”.

Era il 13 agosto 2014 ed i deputati “grillini” della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico. “Mogherini e Pinotti giocano a fare la guerra in Iraq senza aver consultato il Parlamento preventivamente. Si fermino e vengano a riferire in Aula prendendosi le loro responsabilità di fronte al Paese. Bombardamenti e forniture di armi non fanno altro che alimentare gli stessi fenomeni che si vogliono contrastare. Praticamente è come curare un diabetico con iniezioni di glucosio. “Il duo Ue-Usa decide di bombardare per mettere pace, con la giustificazione che tutto ciò serva a prevenire il genocidio, mentre per uguali situazioni nel vicinissimo Medio oriente non si procede certo con misure analoghe – concludevano – Violenza genera violenza e l’articolo 11 della costituzione non è un optional.” Una posizione molto netta, ribadita anche dal capogruppo M5S in commissione Esteri alla Camera Manlio Di Stefano in un’intervista a La Stampa: “Noi occidentali abbiamo dato per scontato che la nostra fosse l’unica democrazia possibile. Affrontare le cause con rispetto significa interrogarsi se non ci siano altre forme di governo e di democrazia che vanno bene per i posti dove sono.” Di Stefano attaccò anche gli Stati Uniti e il loro “interventismo accanito contro alcuni territori e il totale oblio di altri territori” (il riferimento era alla Palestina, ndr). Come soluzione, propose “un intervento diplomatico forte”, o al massimo interventi di corpi non armati e interventi umanitari, invece dei “bombardamenti veri e propri” che “polarizzano ulteriormente le divisioni”. “Vero, sono terroristi – concludeva Di Stefano – Ma siamo sicuri che ogni terrorista morto non ne nascano altri cento? Quella provocazione del Califfato di arrivare fino a Roma significa questo: più voi intervenite, più noi reagiremo.” Solo pochi giorni prima Di Stefano era stato al centro di una polemica politica dopo aver attaccato Israele, definendo “genocidio” quello in atto in questi mesi a Gaza. Contro di lui si erano espressi portavoce delle comunità ebraiche e anche l’ambasciata d’Israele in Italia.

Era il 16 agosto 2014 ed un post pubblicato sul blog di Beppe Grillo, i cui proventi pubblicitari non entrano nelle casse del M5S ma del loro “padre-padrone-comico-guru”, il deputato Alessandro Di Battista scriveva: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione”. Non a caso in quei giorni i deputati grillini della Commissione Esteri si erano espressi contro la scelta di Farnesina e Ministero della Difesa di appoggiare, anche militarmente, il tentativo del governo del Kurdistan iracheno di contenere l’espansionismo del Califfato islamico invitando alla “calma” e al “rispetto” per capire “fenomeni radicali come Isis“, adesso è la volta di Di Battista che nel post pubblicato sul blog di Grillo scriveva: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’ISIS, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la I guerra mondiale, ha una sua logica“. Ma l’apice del lunghissimo post arrivava quando il grillino parlava del terrorismo: “Dovremmo smetterla di considerare il terrorista un soggetto disumano con il quale nemmeno intavolare una discussione. Questo è un punto complesso ma decisivo. Nell’era dei droni e del totale squilibrio degli armamenti il terrorismo, purtroppo, è la sola arma violenta rimasta a chi si ribella. È triste ma è una realtà. Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana. Non sto ne giustificando né approvando, lungi da me. Sto provando a capire. Per la sua natura di soggetto che risponde ad un’azione violenta subita il terrorista non lo sconfiggi mandando più droni, ma elevandolo ad interlocutore”, scriveva Di Battista. Non era la prima volta che il M5S difende le posizioni più estreme dell’Islam. Ancor prima di impegnarsi attivamente in politica Beppe Grillo, durante i suoi spettacoli, attaccava le politiche occidentali e giustificava quelle islamiche. Fino ad arrivare all’intervista del 2012 a un giornale israeliano in cui si prodigava in una strenua difesa dell’Iran di Ahmadinejad: “Quelli che scappano, sono oppositori. Ma chi è rimasto non ha le stesse preoccupazioni che abbiamo noi all’estero. L’economia lì va bene, le persone lavorano. È come il Sudamerica: prima si stava molto peggio. Ho un cugino che costruisce autostrade in Iran. E mi dice che non sono per nulla preoccupati”. Non contento…. il deputato M5s disse la sua anche sull’11 settembre : “L’attentato alle Torri Gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano. Forse anche a New York qualcuno “alle 3 e mezza di mattina rideva dentro il letto” come capitò a quelle merde dopo il terremoto a L’Aquila. Quei 3.000 morti americani vennero utilizzati come pretesto per attaccare l’Afghanistan, un paese con delle leggi antitetiche rispetto al nostro diritto ma che con il terrorismo internazionale non ha mai avuto a che fare”.  Quelle parole di Di Battista riuscirono ad unire tutta la politica italiana, accomunata dallo sdegno: da Forza Italia al Partito Democratico, passando per l’Udc e Scelta Civica. Il coro fu unanime: “Siamo al game over per la credibilità e per il margine di tollerabilità del Movimento 5 Stelle” (Forza Italia).  “Di Battista a ferragosto deve aver preso un brutto colpo di sole” (Italia dei Valori), “l’ignoranza di Di Battista fa pena” (Ncd). Ma questa volta, alla luce dell’attentato di Parigi, riecheggiano le parole di Di Battista.  Ma cosa aspettarsi da uno che ha un padre che partecipando ad una manifestazione dei grillini, dichiarò: “Io di destra? Sono fascista, è un’altra cosa”. Ecco, cari lettori, da chi è composto il Movimento 5 Stelle. Con loro l’Italia ha definitivamente toccato il fondo.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano” del 20 novembre 2015 umilia Vauro: "Coniglio e bastardo: ti spiego pure perché". Allora sei un bastardo anche tu, Vauro Senesi, e di che religione non importa, anzi sei un coniglio, un coniglio mannaro, uno che mette sullo stesso piano i lettori di Libero e i plauditori della strage di Parigi, uno che ha trovato la soluzione allo scontro di civiltà, e cioè questa: arrestare Maurizio Belpietro e le sue sporche truppe. Ma prego, Vauro, a te la parola, come hai fatto nella mattinata di ieri nel vacuo parolaio che è L' aria che tira su La7: avevano appena trasmesso un servizio su un islamico di Catania (uno tutto contento per i morti di Parigi) e poi eccoti: «Sono il primo a condannare il pazzo che a Catania dice quelle cose, però...». C' è un però: «Quando quel pazzo lì sarà arrestato, perché è un fomentatore di odio, ma allora: il signor Belpietro? Quando lo arrestiamo il signor Belpietro, che scrive un titolone così "Bastardi islamici?"». Perché, che ha fatto in concreto Belpietro? «Il signor Belpietro mette a rischio la mia sicurezza, e la sicurezza di ognuno di noi, perché al pari - che non è al pari, perché quello è un poveraccio ignorante, mentre il signor Belpietro dovrebbe essere un intellettuale (voci che si sovrappongono, ndr) ... è criminale, mette in pericolo la vita dei nostri figli, perché se domani un cretino fomentato dal titolo di Belpietro prende a accoltella il primo che incontra... (voci che si sovrappongono, ndr) ... la paura che ho, è che quelli che ci dovrebbero difendere dal terrorismo sono gli stessi che hanno creato il terrorismo». Riassunto: il terrorismo l'ha creato Belpietro o quelli come lui, il quale, non pago, vuole altro sangue e allora aizza gli islamici col titolo «Bastardi islamici» dopo che degli islamici (bastardi) hanno fatto a pezzi dei civili; Belpietro dunque mette in pericolo i figli di Vauro e tutti gli altri. Parentesi: è record, perché l'altro giorno Giafar al Siqilli (come si è ribattezzato ridicolmente Pietrangelo Buttafuoco) aveva scritto sul Fatto che «se il musulmano è un bastardo, un coltello prima o poi se lo ritrova», ora invece arriva Vauro e aggiunge che lo stesso titolo «mette in pericolo la vita dei nostri figli». Insomma, con un solo titolo fai fuori tutti. Ecco spiegata vignetta che Vauro ha piazzato in prima pagina sul Fatto di lunedì: la scritta «Il sangue non si è ancora asciugato» e Belpietro e Salvini che dicono «possiamo sguazzarci». Ma dicevamo de La7 e de L' aria che tira: nel bailamme a quel punto interveniva la conduttrice Myrta Merlino (le cui pettinature sono l'unica giustificazione all' esistenza dell'Isis) e con vacuo cerchiobottismo cercava di sedare: «Belpietro ha fatto un titolo sbagliato, ma...». Ma. Però. Tuttavia. È anche vero che. Insomma, povero Vauro, forse no, forse non sei un bastardo: mettere sullo stesso piano Libero e gli assassini di Parigi è da bastardi e basta, ma è solo che hai una fottuta paura. Ce l'avevi nel 2006, quando attaccasti le vignette danesi anti-Maometto perché, detto con parole tue, «messaggi violenti provocano reazioni violente». Poi però andasti da Santoro con la maglietta di solidarietà, che nel tuo caso avrebbe dovuto essere: «Siano tutti Charlie, da oggi». E poi via, al calduccio a fare vignette su Berlusconi e su Renzi. Ti teneva compagnia Maurizio Crozza, secondo il quale era meglio sfottere il Papa o Bush «perché loro influenzano il nostro modo di vivere». I bastardi musulmani, in effetti, influenzano il nostro modo di morire.

I FORCAIOLI SI DELEGITTIMANO DA SOLI.

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

Il disco rotto dell'Anm: "Politica ci delegittima". "Come Associazione magistrati, in questi anni ci siamo mantenuti fedeli alla missione indicata nei principi del nostro statuto: tutela dell'indipendenza, dell'autonomia, del prestigio e delle prerogative della magistratura e contributo di pensiero nella fase di elaborazione delle riforme legislative e nei progetti di innovazione. Lo abbiamo fatto con una passione pari al rispetto che proviamo per la nostra funzione anche quando essa ci ha indotto a rivolgere critiche forti ma sostenute da null'altro che dal desiderio di essere ascoltati, per sostenere una giustizia in grave affanno". Così il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Rodolfo Sabelli, nella sua relazione di apertura del XXXII Congresso dell'Anm, a Bari il 23 ottobre 2015. Secondo Sabelli "un maturo sistema penale dovrebbe mirare anzitutto a realizzare il principio della durata ragionevole del processo, a recuperare l'efficacia del dibattimento, a restituire alle impugnazioni la loro funzione esclusiva di approfondimento e di verifica e a rendere pienamente alla Cassazione il suo ruolo di giudice della legittimità e la sua preziosa funzione di nomofilachia. La via intrapresa, purtroppo, va in altra direzione". Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati sottolinea come debba essere "introdotto un meccanismo di decisione anticipata sulle questioni di nullità e di competenza, accompagnato da termini più rigorosi per la loro eccezione. La rinnovazione dell'istruttoria per il caso di diversità del giudice andrebbe disciplinata in forma più aderente alle necessità realmente imposte dal principio di oralità. Va prevista la domiciliazione necessariadell'imputato presso il difensore di fiducia, per non vanificare i benefici della notifica telematica. Il ruolo della Cassazione andrebbe definito in misura più rigida, sull'esempio dell'esperienza europea. Sono solo alcuni esempi. I rapporti fra magistratura e politica, oggi sono restituiti a una dinamica meno accesa nella forma ma più complessa. Il principio di indipendenza e autonomia dei giudici che nessuno in astratto mette in discussione, costituisce uno dei cardini degli equilibri istituzionali, ma l’indipendenza non si alimenta di ossequio formale ma di una cultura fondata sul rispetto. Sono i temi sui quali oggi si sviluppano tensioni nuove o si riaccendono altre antiche e mai davvero sopite, che alimentano delegittimazione e sfiducia nel sistema giudiziario. Sul tema della prescrizione - prosegue Sabelli - è deludente il disegno in esame al Senato, che si limita timidamente a prevedere un aumento dei termini per le fasi di Appello e Cassazione, senza affrontare l’esigenza di una riforma strutturale dell’istituto, che ponga rimedio ai guasti prodotti dalla legge del dicembre 2005 e accolga i richiami che da tempo giungono dall’Europa, fino alla recente sentenza della Corte dell’Unione sulle frodi Iva". Insomma, il solito disco rotto dell'Anm.

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Scuola pubblica: professionisti di che? Scrive Cesare Alfieri su “L’Opinione”. Bisogna correre a sfatare un mito, un’idea errata, o meglio la presunzione che gli insegnanti della scuola pubblica italiana possano definirsi, sentirsi “professionisti” del mondo del lavoro vero. Non è così. Bisogna dire chiaramente che sono elemosinati degli italiani, parassiti elemosinati dai nostri soldi, quegli stessi soldi estorti a noi con la tassazione erosissima che, difatti, non esiste in nessuna parte del mondo. Un professionista è un libero professionista cioè colui (colei) che risponde di ciò che fa. Se sbaglia paga di suo. Come succede a tutti i professionisti, liberi professionisti italiani, dal corniciaio al fabbro, dall’avvocato all’imprenditore. Il tempo indeterminato, ovvero a vita dell’impiego pubblico, specificamente nella scuola pubblica, insieme alla inamovibilità pratica, effettiva, dallo stesso, insegnante pubblico, professore universitario statale o maestro di scuola pubblica che sia, magistrato o giudice pubblico, politico o avvocato dello Stato cioè pubblico, rendono il posto cosiddetto “pubblico” vale a dire stipendiato con i soldi di tutti noi italiani, ma guarda caso, ha come ulteriore requisito l’irresponsabilità verso tutti, verso tutti noi, i reali, effettivi datori di lavoro. Pertanto credere o sentirsi “professionisti” nell’apparato pubblico difetta gravemente del requisito essenziale, la responsabilità. Che porta con sé la “amovibilità” ovvero il cambio di lavoro quando non si ha funzionato nella scuola così come da giudice, e porta con sé così anche la determinatezza dell’occupazione e del lavoro, a maggior ragione quando incapaci di farlo. In Italia da una settantina d’anni si sono immesse masse di pecoroni irresponsabili pubblici, per carità persone tra cui, soprattutto nei primi trenta anni, si distingueva una loro maggioranza, financo la quasi totalità, di soggetti che hanno ritenuto “sacra” la propria funzione nel settore pubblico, ritenendo la responsabilità un optional, andava cioè da sé ritenere di risponderne non solo lavorativamente ma anche e soprattutto personalmente, si pensi solo al disdoro sociale dato dalla incapacità cui difatti era la stessa società, più stretta nelle sue maglie e moralmente pochissimo lasciva, a richiamare e fare rispondere delle conseguenze; nei successivi quaranta anni le maglie sociali si sono allargate e con la libertà sociale il posto pubblico è diventato il “lavoro” degli italiani, dai ministeri alle corti, dalle province ai comuni alle regioni, dalle pubbliche amministrazioni e così via fino ad avere più o meno in ogni famiglia un soggetto almeno a carico delle finanze pubbliche. E’ diventato cioè, per quanto potesse essere stato l’“agguanto” al concorso pubblico truccato, convenientissimo occupare il posto pubblico, perché in cambio di poche ore “lavorate”, ovvero di sola presenza fisica nell’odiato ufficio tra gli odiati colleghi uguali a sé, si è ricavato l’obolo pubblico con cui si è, come dicono al sud, “campata” la famiglia. Ecco quindi il posticino a Ferdinando Esposito in magistratura, con concorsino “pubblico” a hoc stante papà e zio Esposito (quello della Cassazione e della sentenza annunciata contro Berlusconi, altro che professionista della giustizia! la giustizia piuttosto come arma per “regolare i conti” e le acrimonie di un’intera classe, quella giudiziaria pubblica contro l’imprenditore privato resosi ricco e con l’arlìa di essere sceso in politica). O ecco il posticino a papà di Giulio Napolitano nell’università pubblica, come tutti gli altri nessuno escluso. Ecco il posticino pubblico al ministero: un esercito di italiani e di italiane acrimoniosi e insoddisfatti “da sistema”, lagnanti e mal mostosi negli improduttivi ministeri pubblici italiani. Ed ecco il folto popolo della scuola pubblica, tra cui svetta, arrivata vicino casetta sua, la moglie dell’imbroglione al governo rubato Renzi: una folla di rosiconi della scuola pubblica in grado di insegnare spesso la sola propria ignoranza condita della supposizione di sapere qualcosa ai poveri ragazzi italiani che, inseriti in un sistema nefasto siffatto, di fatto, non solo non imparano o si “arricchiscono” di quasi nulla, ma sono il bersaglio e lo sfogatoio della depressione e del disagio che mostrano i loro insegnanti. Ma ecco ancora i raccomandati ai “concorsi” pubblici nelle Regioni che vivono oggi, per la scemenza e l’insipienza di Renzi illegittimo al governo, un nuovo revival, dato che il beota con il suo governo di non eletti cerca di dare più rappresentanza e potere escludendo noi italiani. Ecco l’impiego pubblico degli italiani nell’intero apparato pubblico, vale a dire il regno dell’improduttività. Del parassitismo a nostre spese. E, ancora, gli impiegati pubblici dell’Agenzia delle entrate che tuttora immette altri mille a controllare chi non si sa, dato che chi ha potuto e che produceva qualcosa autonomamente è fuggito all’estero. Ecco i giudici e la giustizia pubblica, una mannaia ad orologeria prona e indifesa di fronte alle lerce ambizioni personali dell’ultimo venuto, e da ultimo sono venuti difatti Di Pietro, o Ingroia, De Magistris, i quali forti della inamovibilità e soprattutto dello stipendio a vita hanno dettato legge in un Paese letteralmente violentato dalla loro stolta cupidigia. Quando si vede un lavoro pubblico in Italia, in definitiva, bisogna dire ed avere ben presente che sono gli italiani ad esserne i datori di lavoro, si pensi alla Camera e al Senato, al Parlamento e a tutto l’apparato politico, e oggi è finalmente necessario chiamare tutto a risponderne, alla responsabilità. A cominciare con Napolitano il quale da presidente della Repubblica ha violato la nostra regola democratica di avere quali rappresentanti gli eletti, cosa che non è avvenuta né con Monti né con Letta e che non sta avvenendo neanche tuttora con Renzi. Monti, Letta o Renzi non sono mai stati eletti per rappresentare l’Italia da nessun italiano, è Napolitano ad avere, contrariamente ad ogni regola della nostra democrazia, “scelto” ed eseguito, dandoci i pensi incapaci di cui è necessario liberarsi. Rappresenta chi legittimato con voto a rappresentarci. Solo rappresentanti eletti spingeranno infatti il Paese a razionalizzare le proprie risorse umane ed economiche, non altri. Renzi getta fumo negli occhi, come pare abbia fatto tutta la vita, e i più c cascano, vedi Berlusconi o il popolo di destra che lo ha creduto suo erede, quando sarebbe bastato osservare bene da dove Renzi venisse, cioè dal veterocomunista Napolitano, per capire da subito chi è e sotto lo schiaffo di chi è, qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri. Si ripete, “qualsiasi cosa faccia o reciti o blateri”. Questo Paese si deve dare una svegliata! Il non lavoro pubblico va trasferito e fatto diventare lavoro produttivo privato nel mercato globale vero. Ci vuole produzione, investimenti produttivi, nuove industrie per il lavoro produttivo degli italiani improduttivi.

 “LA SAGRADA FAMILIA”. NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.

Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre.  Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!

Walter Virga: il figlio del giudice con 27 incarichi da centinaia di milioni, scrive Pierluigi Di Rosa su "Sud Press". Coinvolto nell’inchiesta che vede principale indagata l’ex presidente della sezione misure di prevenzione, Walter Virga ha appena 35 anni e nel 2014 è stato nominato amministratore di uno dei patrimoni mafiosi più consistenti, quello della famiglia Rappa. E’ in questo Il Fatto Quotidiano che ricorda l’origine dell’inchiesta della procura di Caltanissetta che sta terremotando il Tribunale di Palermo: “Già un anno fa la procura di Caltanissetta aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello, Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. “L’inchiesta – prosegue Il Fatto – è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto.” Occorre dire che il giudice Virga, indagato per induzione alla corruzione, ha smentito di essersi mai occupato di procedimenti disciplinari in capo a Silvana Saguto. Certo è che il figlio, Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro.

Beni confiscati alla mafia, favori e consulenze: nel caso Saguto altri tre magistrati indagati. Si allarga l'indagine della procura di Caltanissetta: un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di assunzioni e consulenze. Le toghe coinvolte sono accusate a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto, scrive "Il Fatto Quotidiano il 12 settembre 2015. Un occhio di riguardo al Csm in cambio di un incarico, il marito consulente dall’asso pigliatutto degli amministratori giudiziari, un figlio che lavora come chef nell’hotel dell’avvocato noto per le sue parcelle dorate. È una gestione familiare dei beni sequestrati a Cosa nostra quella che Silvana Saguto, da poche ore ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, è accusata di aver messo in piedi. Un complesso sistema che prevedeva incarichi a sei zeri distribuiti ad amministratori giudiziari amici in cambio di favori,assunzioni, consulenze. E che oggi ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di altri tre magistrati oltre alla stessa Saguto, più due amministratori giudiziari: sono accusati a vario titolo di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, violazione di segreto. È su questo che sta indagando la procura di Caltanissetta, che già un anno fa aveva ricevuto un esposto da parte di Pino Maniaci, direttore della piccola emittente Telejato, autore insieme a Salvo Vitale, storico compagno di battaglie di Peppino Impastato, di un’inchiesta sul cerchio magico degli amministratori giudiziari proliferato all’ombra della Saguto.  “Sono – scriveva Vitale – una decina di avvocati fidatissimi, che si chiamano Gaetano Cappellano Seminara, Andrea Dara, Aulo Gigante, Luigi Turchio, Salvatore Benanti, Salvatore Sanfilippo, Andrea Aiello,Walter Virga, e intorno a loro gravitano una serie di ‘collaboratori’ che girano da uno studio all’altro, perché agiscono tutti in accordo: questi sono figli di avvocati, di magistrati, di militari, di alti dirigenti e cancellieri che hanno trovato modo di come succhiare alle mammelle dei beni confiscati, visto che i loro emolumenti escono dagli incassi o dalle vendite dei beni loro affidati”. L’inchiesta è entrata nel vivo giovedì scorso con le perquisizioni operate dai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo ed è composta anche dalle intercettazioni telefoniche e dalle verifiche operate dalla procura nissena su Walter Virga, nominato dalla Saguto amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Si tratta del figlio di Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo: per gli inquirenti il giudice avrebbe favorito un procedimento disciplinare che pendeva a Palazzo dei Marescialli sul capo della Saguto. È per questo motivo che, come scrive il quotidiano Il Messaggero, è oggi indagato per induzione alla concussione. “Altri tre magistrati indagati nell’inchiesta sulla gestione dei beni sequestrati? Notizia che è di fonte romana e non ho nulla da dichiarare”, ha detto il procuratore di Caltanissetta Sergio Lari, senza in pratica smentire la notizia delle nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Il 15 settembre Lari prenderà possesso del nuovo incarico da procuratore generale di Caltanissetta mentre l’interim dell’ufficio inquirente passerà all’aggiunto Lia Sava. Ed è proprio Sava che sta portando avanti l’indagine sulla gestione dei beni sequestrati. Il cuore dell’inchiesta si focalizza su un legame particolare: quello che unisce l’avvocato Gaetano Cappellana Seminara direttamente alla famiglia Saguto.  Cappellano Seminara è titolare di uno studio con 35 professionisti nel centro di Palermo ed è considerato il re dei beni sequestrati, l’asso pigliatutto degli incarichi da amministratore giudiziario. Intervistato dalla trasmissione le Iene nel maggio scorso, dichiarava di avere solo 8 incarichi di amministrazione giudiziaria, e di non aver mai gestito più di 30-40 aziende in totale: la Camera di Commercio, però, gli attribuiva nello stesso periodo 93 “cariche attuali”, e indicava il suo nome come presente in 85 imprese. Secondo il prefetto Giuseppe Caruso, ex direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, per aver gestito l’Immobiliare Strasburgo, società del gruppo Piazza, l’avvocato Cappellano Seminara “ha preso una tranche di 7 milioni di euro, mentre per quanto concerne il cda percepiva 150 mila euro l’anno”. Secondo gli inquirenti, in cambio di una occhio di riguardo nelle nomine, Cappellano ha nominato l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto, consulente del suo studio: incarico che in una decina d’anni è stato retribuito con circa 750mila euro. Ma non solo. Il fil rouge che lega la Saguto a Cappellano Seminara non si ferma qui. L’avvocato avrebbe fatto assumere uno dei figli del magistrato, Elio Caramma, come chef di Palazzo Brunaccini, un hotel quattro stelle in pieno centro storico, controllato da Cappellano Seminara tramite la locietà L. G. Consulting srlgestita dalla madre e dalla figlia. “Il figlio della dottoressa Saguto, di professione chef non ha mai lavorato ne lavora presso la struttura alberghiera della mia famiglia e solo in qualità di visiting chef vi ha organizzato oltre due anni fa due serate”, ha replicato l’avvocato Cappellano Seminara. Che è stato anche amministratore giudiziario di una catena di hotel, mentre la sua famiglia è appunto proprietaria di un 4 stelle.  “Un conflitto d’interesse palese”, commenta Caruso. Ma non c’è solo il risiko delle nomine decise dalla Saguto al centro delle indagini della procura di Caltanissetta.Nel registro degli indagati sono finiti anche il pm Dario Scaletta e Lorenzo Chiaramonte: il primo è accusato di rivelazione di segreto perché avrebbe fornito notizie sull’indagine a carico della sezione misure di prevenzione al secondo; Chiaramonte, invece, è accusato di abuso d’ufficio: da magistrato della stessa sezione della Saguto non si sarebbe astenuto dall’affidare la gestione di beni per 10 milioni sequestrati al boss Luigi Salerno, nonostante l’amministratore designato fosse una persona a lui vicina. È questo l‘intricato reticolo di rapporti che negli ultimi tempi ha influito sulla gestione dei patrimoni “scippati” a Cosa nostra. Circa dodicimila beni, per un valore complessivo di 30 miliardi di euro: più del 40%, pari a 5.515, si trovano in Sicilia, 1.870 dei quali sono in provincia di Palermo. Ed è lì che secondo le indagini della procura nissena sarebbe andata in onda la gestione familiare delle ricchezze sequestrate alla mafia: la “robba” scippata ai boss e finita in mille rivoli gestiti da pochissimi amministratori dalle paghe dorate. Sempre gli stessi.

Scandalo beni confiscati a Palermo. Quando l'amministratore è il figlio del giudice...scrive TP24. Il Csm ha deciso di avviare accertamenti sui magistrati di Palermo coinvolti nell'inchiesta di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati alla mafia. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici.  Oltre all'ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, tra gli indagati ci sarebbero l'ex componente del Csm Tommaso Virga, ora presidente di sezione nel tribunale palermitano, il pm della Direzione distrettuale antimafia del capoluogo siciliano Dario Scaletta, che avrebbe dato alla Saguto conferma al sospetto di essere finita sotto indagine, e Lorenzo Chiaromonte, giudice della sezione misure di prevenzione, che non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona a lui molto vicina. In particolare è delicata la situazione del presidente di sezione del tribunale Tommaso Virga, il cui figlio Walter ha ricevuto dalla Saguto alcune tra le più consistenti amministrazioni giudiziarie, quella dell'impero da 800 milioni di euro sequestrato agli imprenditori Rappa e quello dei negozi Bagagli. Walter Virga, appena 35 anni e con un curriculum che alcuni ritengono non esattamente adeguato al carico di impegni conferitogli dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, ricopre attualmente 27 incarichi, gestendo patrimoni sequestrati per svariate centinaia di milioni di euro. Non è escluso che, nei prossimi giorni, i vertici del tribunale e della Procura, anticipando le mosse del Csm, possano decidere di trasferire ad altro incarico i magistrati indagati. Così come è possibile che anche le amministrazioni giudiziarie oggetto di indagine possano cambiare di mano per ragioni di opportunità. Continuano intanto le reazioni all'inchiesta palermitana. Scrive il direttore di Repubblica Palermo, Enrico Del Mercato: Anche se non dovesse essere provata l’accusa di induzione alla corruzione, non è pensabile che il marito della presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale riceva parcelle, autorizzate dal tribunale stesso. È un principio di etica che precede qualsiasi norma. E che in questo caso è più importante che in altri proprio perché qui è in gioco la credibilità dello Stato che decide di mettere in pratica il principio per cui alcuni uomini sono morti (Pio La Torre, per esempio) e secondo il quale la mafia si sconfigge togliendole i soldi, le proprietà, la potenza economica. Secondo l'inchiesta condotta dai pm di Caltanissetta, la giudice Silvana Saguto fece circolare finte notizie su probabili attentati ai suoi danni.  E' una delle pagine più amare, possiamo dire (e comunque tutta da verificare, siamo ancora in fase di indagine) nell'inchiesta nissena sulla gestione dei beni confiscati a Palermo,e che vede coinvolti quattro magistrati palermitani, Saguto, Tommaso Virga, Lorenzo Chiaramonte e Dario Scaletta. Mentre il Csm indaga per incompatibilità ambientale. La notizia la riporta oggi il Messaggero.  Gli inquirenti stanno passando al setaccio conti e materiale sequestrato alla Saguto, indagata per corruzione aggravata, abuso d'ufficio e induzione alla concussione, nonché presso studi e abitazioni dei più noti amministratori giudiziari della città che, in cambio di consulenze o favori al marito e ai figli del giudice, avrebbero ottenuto incarichi d'oro nella gestione milionaria dei beni sottratti alla mafia. Ed ecco cosa scrive Il Messaggero: "La Saguto avrebbe incaricato la sua scorta di svolgere compiti che nulla avevano a che vedere con ragioni di servizio, ma private. E ancora: per "sterilizzare" le voci maligne sul suo conto alimentate da inchieste giornalistiche, trasmesse da Telejato e dalle Iene, aveva deciso di passare al contrattacco. Come? Facendo circolare la notizia che la mafia la voleva morta. È il 22 maggio scorso. Alcuni siti web e agenzie riferiscono di una nota dei servizi segreti in allarme per l'incolumità della Saguto e di un altro magistrato, Renato di Natale. Per gli inquirenti di Caltanissetta si tratterebbe di un'operazione costruita a tavolino: un ufficiale della Dia avrebbe diffuso la notizia, molto vecchia, con il solo obiettivo di sollevare un clamore mediatico attorno alla giudice paladina dell'antimafia, per ottenere la solidarietà di colleghi e opinione pubblica". Era lo scorso Maggio, proprio alla vigilia della strage di Capaci, quando emerse fuori la notizia che la mafia voleva uccidere Silvana Saguto. Notizia ripresa, ovviamente, da tutti i media nazionali. "Per eliminare il magistrato - dicevano gli articoli apparsi dappertutto -  che fa la guerra ai clan a colpi di sequestri e confische patrimoniali, c'era un accordo fra i clan mafiosi gelesi e palermitani Uno scambio di favori tra boss: qualcuno legato agli Emmanuello avrebbe dovuto uccidere il giudice di Palermo e i palermitani, in cambio, si sarebbero dovuti sbarazzare di un altro magistrato.

La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura. Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia. L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei. Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia. Cosa più falsa non c’è. Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano. Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione. Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è. Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione. Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione. Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.

Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano

Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste. La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante, colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando?

Quando? Mai! Perchè gli anni passano. le leggi si riformano, ma tutto rimane fermo ed immobile.

E' stata definitivamente approvata, giovedì 17 luglio 2003, la legge di conversione del Dl 112/2003 relativa agli esami per l'accesso alla professione di avvocato. Il Senato ha stabilito che le nuove regole troveranno applicazione dalla prossima sessione di dicembre 2003. Nel provvedimento è stata individuata una nuova causa di incompatibilità per la designazione dei componenti. L'avvocatura infatti, nell'espressione dei nominativi dovrà tener presente l'articolo 1-bis comma 6 di tale Legge che stabilisce che non possono essere designati come commissari di esame, gli avvocati che siano membri dei consigli dell'Ordine o rappresentanti della Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense. Il principio affermato tende a impedire che i commissari di esame facenti parte di tali organismi, possano maturare crediti verso i candidati, sfruttando la benevolenza in occasione di nuove elezioni al Consiglio dell'Ordine o alla Cassa di previdenza. E' stato inoltre precisato che per le stesse ragioni gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni, una volta espletati gli esami, non possono candidarsi ai rispettivi Consigli dell'Ordine e alla carica di rappresentanti della Cassa alle elezioni immediatamente successive all'incarico ricoperto. La nuova legge precisa inoltre che rimangono in vigore le altre incompatibilità previste per la nomina di commissari, come ad esempio l'astensione per chi ha un parente (o coniuge) tra i concorrenti o per chi versa in stato di forte contrapposizione di interessi o, viceversa, chi è stato collega (come praticante) di studio. In questo ultimo caso, il limite alla possibilità di esaminare i propri ex praticanti, è circoscritto unicamente all'obbligo, per il commissario, di astenersi dal prendere parte alle prove orali, in quanto l'anonimato delle prove scritte è sufficiente garanzia di imparzialità nella correzione. Anonimato per la legge, di fatto conosciutissimi gli autori dell'elaborato.

In caso di naturale violazione penale delle norme concorsuali, tra cui l'abuso di ufficio o o la legge del 1925, il nuovo codice deontologico della professione forense presenta l’innovativo carattere della (tendenziale) tipicizzazione degli illeciti e delle sanzioni correlativamente applicabili. Ne consegue che, ai sensi dell’art. 72, la condotta dell’avvocato che, prima o durante la prova d’esame per l’abilitazione, faccia pervenire ad uno o più candidati testi relativi al tema proposto è punito con la sanzione disciplinare della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per un periodo compreso tra due e sei mesi. (Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza n. 3023/15; depositata il 16 febbraio).

Questo è quello esistente sulla carta, ma di fatto l'indicibile avviene perennemente ed impunemente.

Esami di avvocato con il trucco. Commissario scriveva compito a candidato: scatta l'inchiesta, scrive “Il Mattino di Napoli”. La scena è più o meno questa: scriveva il compito sul foglio di un candidato, poi quando è stato scoperto non si è perso d’animo. Ha strappato il compito, lo ha ridotto in mille pezzi, poi ha pensato bene di ficcarsi in tasca l’elaborato. Poi è scappato. È fuggito via, in un altro padiglione, provando a mimetizzarsi nel caos di quegli stand dove erano in corso le prove scritte. Brutta scena avvenuta lo scorso dicembre nel corso delle prove scritte dell’esame per diventare avvocato, tanto da rendere necessario un accertamento di natura penale. La Procura ha infatti deciso di aprire un fascicolo sugli esami di avvocati, a partire da una dettagliata relazione indirizzata da uno degli esponenti della commissione di esame. Mesi dopo l’episodio denunciato, c’è anche una sorta di svolta di natura investigativa: l’avvocato-commissario protagonista dell’impresa è stato infatti individuato, interrogato e indagato. Ora deve rispondere di falso per soppressione, in una storia che potrebbe riservare non poche sorprese. Ma andiamo con ordine, a partire da lontano, da quel giorno di metà dicembre in cui migliaia di praticanti avvocati si riversano negli stand della Mostra d’Oltremare per sostenere la prova della vita. Lo scritto poi è l’incubo di sempre. Si parte dalla trascrizione delle tracce, poi inizia il countdown. Tra i commissari però ce n’è uno che non passa inosservato: al telefono è riuscito ad avere il contenuto della traccia dopo aver contattato qualcuno in un altro distretto e non si è perso d’animo. Si è avvicinato ai banchi degli alunni e ha iniziato a scrivere sul foglio che recava il timbro del ministero e la firma delle commissioni di vigilanza. Una scena che non passa inosservata. Scrive, riempie almeno una facciata, quando un collega commissario se ne accorge e decide di vederci chiaro. A muoversi è un pm della Procura di Napoli, prestata per comporre la commissione di esame. Si avvicina e chiede spiegazioni: che cos’è questo industriarsi con quel foglio in mano? E cos’è quel foglio? Basta un’occhiata e appare chiaro che non si tratta di un appunto manoscritto, ma del documento con il timbro del Ministero, quindi si tratta di un elaborato originale destinato ad essere imbustato e presentato con la firma di un candidato alla commissione di esame. Colto sul fatto l’avvocato-commissario però non si perde d’animo e fa una cosa elementare: strappa il lembo del figlio con la firma del ministero, poi ci pensa su e fa a pezzi tutto il documento e se lo ficca in tasca. Momenti di caos. Mentre gli altri colleghi gli chiedono spiegazioni, lui arretra, volta le spalle e scappa. Fugge, se ne va in un altro padiglione, si cala nell’anonimato. Un episodio destinato a rimanere inesplorato, se non fosse per la decisione di un commissario-magistrato di mettere tutto nero su bianco, di denunciare quanto assistito. È l'inizio di una inchiesta condotta dal pool reati contro la pubblica amministrazione del procuratore aggiunto Francesco Greco, fascicolo affidato al pm Valter Brunetti. C’è un’ipotesi di reato abbastanza chiara: falso per soppressione, in relazione alla capacità del commissario di far sparire l’elaborato, nel tentativo di cancellare le tracce. Qualche mese di indagine e l’avvocato viene identificato e interrogato. Vicenda per molti versi amara, che ripropone il tema della correttezza delle prove di esame, mentre il presidente del Consiglio degli avvocati Francesco Caia assicura: «Speriamo sia un fatto isolato, appena avremo notizie ufficiali, interverremo in modo deciso».

Ed ancora.

Esame avvocato a Bari, la nipote candidata e lo zio commissario, scrive Giovanni Longo su “la Gazzetta del Mezzogiorno” il 7 settembre 2015. La nipote candidata. Lo zio in commissione. Nulla di penalmente rilevante. Ma quella che appare una evidente incompatibilità, sancita dallo stesso bando, rappresenta, almeno in termini d’immagine, un’altra tegola sull’esame d’avvocato edizione 2014-2015. La candidata era tra i banchi della Fiera del Levante, insieme a centinaia di aspiranti avvocati, mentre suo zio (un magistrato in pensione), fratello di suo padre, faceva parte della Commissione. Già l’anno prima si era verificata la stessa situazione, nonostante l’incompatibilità per i parenti sino al quarto grado. Ma non finisce qui. Perché dagli atti interni alla Commissione d’esame che la «Gazzetta» ha potuto consultare, risulta che per entrambe le prove, il commissario ha fornito per le comunicazioni interne, un indirizzo di posta elettronica con il nome e cognome della nipote candidata. Questo non vuole dire che le comunicazioni interne fossero lette dalla candidata, sia chiaro, ma, all’interno della Commissione, la circostanza non è sfuggita. Tutte vicende che non sarebbero finite nel fascicolo aperto dalla Procura di Bari per fare luce sui presunti aiuti che alcuni candidati (tra loro non figura la candidata che aveva suo zio in commissione) avrebbero ricevuto. Sul fronte penale (ribadiamo zio commissario e nipote candidata non risultano coinvolti), l’estate che volge al termine, è stata di grande lavoro per i Carabinieri del nucleo investigativo del comando provinciale di Bari. I telefonini del cancelliere della Corte di appello Giacomo Santamaria e della dirigente dell’Università di Bari Tina Laquale, indagati dalla Procura di Bari, iniziano a «parlare». Tracce delle prove scritte inviate via WhatsApp. Elaborati redatti in uno studio legale e poi consegnati a mano. Tecnologia e tradizione vanno a braccetto. L’inchiesta sui presunti «aiutini» che almeno una decina di candidati all’ultimo esame d’avvocato avrebbero ricevuto, si arricchisce di nuovi particolari. Santamaria e Laquale, ricordiamo, erano stati sorpresi durante la terza prova d’esame mentre nel quartiere fieristico si passavano di mano un plico contenente lo svolgimento del tema assegnato: la redazione di un atto giudiziario. Nella busta, pure un biglietto con nomi e destinatari. Dall’accertamento tecnico irripetibile disposto dal pm Luciana Silvestris, che coordina le indagini, sono giunte altre indicazioni utili per capire quali sarebbero state le modalità utilizzate per truccare la prova. Nel padiglione della Fiera del Levante ci sarebbe stato chi ha fotografato le tracce per poi inviare le foto all’esterno. Tramite WhatsApp. In uno studio legale, almeno Laquale, una sua stretta parente e un professionista avrebbero avuto il compito, codici alla mano, di scrivere gli elaborati. Da consegnare poi a domicilio. Nel mirino il ruolo che l’avvocato avrebbe avuto nella vicenda. Laquale si sarebbe messa in ferie proprio in concomitanza con la tre giorni di metà dicembre. Le ipotesi di reato, a vario titolo, sono: tentato abuso d’ufficio, violazione di una vecchia legge del 1925 sullo svolgimento degli esami di Stato per l’abilitazione all’esercizio delle professioni, e corruzione. Gli inquirenti sono al lavoro per capire se la presunta «collaborazione» rientrasse «solo» in un sistema più ampio di scambi di favori o se, come sospettano, fosse stata retribuita. Ovvero soldi in cambio di una prova impeccabile per superare l’esame.

Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....

All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.

Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.

Corruzione: ecco i dipendenti "infedeli" dell'Agenzie delle Entrate. Negli ultimi tre anni decine di impiegati e dirigenti sono finiti in carcere o ai domiciliari. Le operazioni più importanti delle Finanza, scrive Nadia Francalacci su “Panorama” il 24 settembre 2015. L'ultimo caso in Piemonte. Un commercialista, un dipendente dell'Agenzia delle Entrate, un funzionario di Equitalia. Come i Tre moschettieri, i tre professionisti erano uniti dall'idea di aiutare i contribuenti nei guai con il fisco ma solo in cambio di denari e favori. Così sono scattate ieri mattina, nei loro confronti, le tre ordinanze di custodia cautelare per corruzione, eseguite dalla Guardia di Finanza a Torino. Il terzetto è stato messo agli arresti domiciliari nelle stesse ore in cui le Fiamme Gialle del nucleo di polizia tributaria hanno eseguito 28 perquisizioni a carico di persone fisiche, aziende e studi professionali che a vario titolo avevano beneficiato dell'"aiutino". Gli indagati a piede libero sono diciassette. I contribuenti alle prese con le cartelle esattoriali o dei contenziosi con l'Erario si rivolgevano a uno dei componenti del gruppo, e in qualche modo riuscivano a chiudere la partita a loro favore. A dare il via all'indagine dei finanzieri è stata una segnalazione dell'Agenzia delle Entrate che parlava di dipendenti che si dedicavano a un "secondo lavoro" anche durante le ore d'ufficio. È così che, monitorando il tenore di vita degli indagati, gli investigatori hanno scoperto anche una serie di accessi anomali alle banche dati dell'amministrazione finanziaria scoprendo che erano tutti concentrati sui i clienti di uno studio di consulenza intestato alla sorella di uno degli indagati. Al centro di questa vicenda c’è un dipendente dell'Agenzia delle Entrate in servizio a Moncalieri (Torino), un funzionario Equitalia Nord e un commercialista. Ma negli ultimi tre anni sono decine i dipendenti o i dirigenti delle Agenzie delle Entrate ad essere arrestati per corruzione. Ecco le inchieste e gli arresti più importanti dal 2013 ad oggi.

Gli uomini del Comando Unità Speciali della Guardia di Finanza di Roma hanno arrestato, in flagranza di reato, per concussione, un funzionario dell'Agenzia delle Entrate della Direzione Provinciale di Roma 1 Trastevere e un noto commercialista della Capitale. Alle indagini ha collaborato la stessa Agenzia delle Entrate. Il commercialista, d'accordo con il funzionario, aveva preannunciato ad un imprenditore un controllo fiscale, e chiesto, in via preventiva, 12 mila euro per «ammorbidire» l'attività. La verifica, come da accordi, è stata effettuata da due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, con un accertamento che si è concluso con un verbale per violazioni amministrative per un importo di 258 euro.

10 dicembre 2014. A Ferrara si spartivano le tangenti. Li hanno arrestati in flagranza, con le mani su una tangente da 10.000 euro che si sarebbero dovuti spartire, un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Ferrara e un'altra persona che aveva fatto da intermediario con un imprenditore ricattato. Sono stati arrestati dalla Guardia di finanza per concussione, per aver preteso la tangente in cambio di un controllo blando in materia di studi di settore. L'imprenditore ha però denunciato le richieste.

17 ottobre 2014. 50 mila euro per non fare le verifiche fiscali. Mazzette dai ristoratori. È così che sono finiti in carcere funzionari dell'Agenzia delle Entrate di Roma. "50 mila euro per ammorbidire una verifica fiscale". Da mesi erano sotto indagine e già erano stati raggiunti da provvedimenti restrittivi ma solo dopo alcuni mesi i due ispettori sono stati arrestati dalla Guardia di finanza in esecuzione di un'ordinanza di custodia emessa dal gip, Simonetta D'Alessandro. All'operazione ha collaborato anche la Direzione generale del Lazio dell'Agenzia delle Entrate.

29 luglio 2014. 8 mila euro ogni 100 mila euro di tasse. Agenzia delle Entrate, arrestati due ispettori. Mazzette per “sconti” sulle tasse. Hanno chiesto una tangente tra i sette e gli ottomila euro a un ristoratore di Roma per ogni riduzione da 100mila euro sulla somma da versare al fisco. Erano intercettati da diverso tempo...

15 marzo 2015. Manette anche in provincia di Pesaro-Urbino. Ad Urbino un impiegato delle Agenzie delle Entrate finisce nei guai accusato di aver abusato della sua qualifica e delle sue funzioni. Le Fiamme Gialle di Urbino, in collaborazione con la Stazione di Acqualagna dell’Arma dei Carabinieri, hanno eseguito una misura cautelare nei confronti di un impiegato dell’Agenzia delle Entrate che chiedeva tangenti per sistemare le 'pratiche'. L'impiegato aveva abusato della sua qualifica e delle sue funzioni, talvolta incutendo soggezione e timore, per ottenere vantaggi economici. In un’occasione aveva tentato di ostacolare un controllo fiscale che una pattuglia della Guardia di Finanza stava per fare nei confronti di un ristoratore, asserendo di aver eseguito lui, poco prima, un controllo con esito regolare.

16 luglio 2015. Due dipendenti coinvolti nelle truffe auto: E' successo a Castellammare. Truffa delle auto con 15 indagati, due sono funzionari dell'Agenzia delle Entrate. Si è trattato di una maxi truffa ai danni dello Stato che utilizzando il traffico di auto dall'estero per evadere l'Iva, permetteva all'organizzazione di rivendere vetture usate a prezzi più competitivi. Un giro di automobili acquistate all'estero da società di noleggio - dunque esenti da Iva - che poi le rivendevano immediatamente a concessionarie della zona, evadendo due volte le imposte. L'ipotesi è che la truffa avvenisse con la complicità e la corruzione di due funzionari dell'Agenzia delle Entrate, in collaborazione con finte società e reali concessionarie auto, con basi a Castellammare e ramificazioni nel Lazio e in Veneto.

15 settembre 2014. Impiegato corrotto condannato a risarcire. Mazzette all'Agenzia delle Entrate, impiegato condannato al risarcimento. Il dipendente era riuscito a creare un sistema grazie al quale "cancellare" i debiti con il fisco, attraverso il pagamento di una quota pari al 30%, di numerosi imprenditori. La Corte dei Conti lo ha condannato al pagamento di 50 mila euro.  Il protagonista della storia è Umberto Giambertone, 66 anni, finito nel 2007 al centro di un'operazione della guardia di finanza che aveva accertato un sistema volto alla cancellazione dei debiti con il fisco a seguito del pagamento di una quota pari al 30% dell'importo dovuto.

23 luglio 2013. Cesti natalizie e denaro per chiudere gli occhi. San Severo viene arrestato impiegato Agenzia delle Entrate. L'uomo avrebbe intascato denaro contante per 500 euro per non comminare una sanzione. Protagonista un impiegato dell’Agenzia delle Entrate di 63 anni che dovrà scontare un anno ed un mese di detenzione domiciliare perché responsabile di concussione. Secondo quanto accertato dagli inquirenti, a seguito di una verifica ad un commerciante di Apricena, era emerso che questi aveva impiegato la moglie irregolarmente e pertanto era incorso in una sanzione di 15mila euro per evitare la quale, l'impiegato ed il suo collega, avevano ricevuto la somma di 500 euro e due cesti natalizi.

14 aprile 2014. L'impiegata "cieca" di Padova. Per tangenti viene arrestata dipendente dell'Agenzia delle Entrate a Padova.  L'impiegata, 60enne in servizio nella sede di via Turazza, avrebbe promesso a un imprenditore della provincia di rallentare l'iter delle cartelle esattoriali.  Per questo avrebbe intascato 16mila euro. L'accusa è di concussione.

Taormina 4 gennaio 2013. Incastrato mentre chiedeva tangenti alle palestre. Impiegato di Taormina dell'Agenzia delle entrate chiede mazzetta e viene arrestato per concussione. L'uomo è accusato di avere chiesto e ottenuto 800 euro (200 di anticipo, 600 a scampata denuncia) dal proprietario di diverse palestre. Gli è andata male. A incastrarlo sono state le immagini registrate da una telecamera nascosta.

A Caserta "cancellava" le tasse. Un impiegato dell'Agenzia delle Entrate di Caserta, è stato arrestato dai militari della Guardia di Finanza con l'accusa di essere entrato abusivamente nel sistema informatico della stesa Agenzia delle Entrate per "provvedere" alla regolarizzazione di omessi versamenti o azzerando sanzioni di un imprenditore. L’impiegato avrebbe arrecato un danno all'erario pari a 115 mila euro.

I casi di assenteismo dei dipendenti pubblici. Il malcostume di assentarsi dal luogo di lavoro per dedicarsi a fatti propri o addirittura per svolgere una seconda attività lavorativa risulta più facile da essere smascherato grazie ai sistemi di telecamere e videosorveglianza. Sono una consuetudine positiva le denunce delle forze dell'ordine che mirano a difendere i contribuenti sia dal punto di vista economico sia da quello dell'efficienza del servizio pubblico. Ricordando che l'assenteismo è un reato indicato dal codice penale come truffa più o meno aggravata ai danni dello Stato punita con la reclusione fino a cinque anni.

Ma a quanto ammontano le assenze dei dipendenti pubblici? Nel 2013 i dipendenti del settore pubblico hanno totalizzato in media 19 giorni di assenza retribuita, 6 in più rispetto a quelle stimate nel mondo Confindustria per gli impiegati nelle aziende con più di 100 addetti (il gruppo più comparabile al pubblico impiego). Dai dati del Conto annuale della Ragioneria dello Stato riferiti al 2013, si evince inoltre che nel settore pubblico ai 10 giorni di assenza pro capite per malattia, se ne sono aggiunti 9 di assenze retribuite. Un assenteismo pubblico che in totale tocca la soglia del 46,3%, ben più alto dei 13 giorni di assenze retribuite rilevate dall’indagine di Confindustria. Ma se il livello di assenze del settore pubblico venisse portato al pari di quello del privato si potrebbero risparmiare oltre 3,7 miliardi per minore fabbisogno di personale. Stima ottenuta dal Centro studi di Viale dell’Astronomia, applicando alle uscite pubbliche per costo del lavoro nel 2013 il differenziale di assenze pubblico-privato, in rapporto al monte giornate lavorative. A parità di costi quindi un minore assenteismo aumenterebbe l’efficienza dei servizi.

Dipendenti pubblici, 220 i licenziati in un anno: la metà per assenze. Quasi 7mila i procedimenti disciplinari avviati nei confronti del personale. In tanti (35%) cacciati per reati, scrive TGcom24. Duecentoventi dipendenti della Pubblica amministrazione sono stati licenziati nel 2013 in seguito a procedimenti disciplinari avviati nei loro confronti, 6.900 in tutto. Secondo i dati riportati sul sito della Funzione pubblica, quasi la metà dei provvedimenti sfociati appunto nel licenziamento sono dovuti ad assenze ingiustificate o non comunicate nei tempi previsti. Tra le motivazioni, ai 99 licenziamenti legati alle assenze seguono i 78 connessi a reati (il 36%), i 35 causati da comportamenti non corretti verso i superiori o i colleghi, da negligenza e inosservanza degli ordini di servizio (il 16%). Completano il quadro le uscite dovute al fenomeno del cosiddetto doppio lavoro, attività extralavorative non autorizzate (7, pari al 3%). Se si guarda, sempre con riferimento all'operazione dell'Ispettorato, ai diversi settori, il maggior numero di licenziamenti si osserva per scuole (81) e ministeri (66). Rispetto all'anno precedente la cifra complessiva risulta pressoché stabile (223 erano stati i licenziamenti nel 2012), ma allora la ragione principale per l'interruzione del rapporto di lavoro era collegata ai reati, che spiegavano il 47% dei licenziamenti (le assenze dal servizi erano al 29%). Sempre i reati erano il motivo di quasi la metà delle interruzioni del rapporto di lavoro nel 2011, quando però il numero complessivo di licenziamenti disciplinari risultò più alto (288). I procedimenti non sfociano comunque soltanto nei licenziamenti. Si possono concludere anche con una sospensione: di giorni, ma anche di mesi, in cui il dipendente viene privato della retribuzione. In tutto le sospensioni sono state quasi 1.400 nel 2013, sempre stando ai dati del sito della Funzione pubblica (aggiornati a gennaio). Il totale dei procedimenti disciplinari (6.935 quelli avviati e 6.302 quelli conclusi) si chiude quindi in un quarto dei casi con l'adozione di sanzioni gravi, quali sono considerate il licenziamento o la sospensione, fa notare l'Ispettorato nella sua relazione sull'attività condotta nel 2013. I dati emersi, sottolineano all'Ispettorato, segnalano un numero di procedimenti conclusi con sanzione grave, appunto circa il 25%, "stabile" nell'ultimo triennio (con la stragrande maggioranza corrisponde a sanzioni piuttosto che a licenziamenti).

E nel 2014 centinaia di arresti per assenteismo, scrive Diodato Pirone su “Il Messaggero”. Non lo sa nessuno ma in Italia l'assenteismo è un fenomeno criminologico. Secondo le statistiche delle forze dell'ordine gli arresti per truffa aggravata causati dalle assenze ingiustificate dal lavoro di dipendenti pubblici sono centinaia all'anno. Di certo si supera quota mille con denunce a piede libero e sospensioni. Contrariamente a quello che si crede, infatti, la vita dell'assenteista s'è fatta dura. Giusta o sbagliata che fosse, la crociata dell'ex ministro Renato Brunetta contro i fannulloni ha lasciato in eredità una regola ferrea. Eccola: «E' previsto l'arresto nei confronti dei dipendenti pubblici accusati di falsa attestazione della presenza in servizio». Poche righe che dal 2010 hanno trasformato gli uffici italiani in covi di microcamere e video-spia con codazzo di denunce, tribunali e manette. Una vitaccia, insomma, quella dell'assenteista. Giornaloni e tivvù non ne danno conto perché i singoli arresti, presi in sè, non fanno notizia e al massimo finiscono nelle brevi. Ma la loro massa critica è sbalorditiva: si resta basiti di fronte alla leggerezza con la quale tanta gente, convintissima che i furbi la facciano sempre da padrone in Italia, finisce per rovinarsi la vita. Qualche esempio? Gli arresti del 2014 sono addirittura tambureggianti: a gennaio scattano le manette per due ginecologhe (sorprese nei propri studi privati mentre risultano al lavoro per l'Azienda sanitaria) e quattro impiegati dell'Asl Napoli Nord; a febbraio tocca a 15 addetti ai servizi veterinari della Asl di Vibo Valentia in Calabria e a due giardinieri di un parco pubblico di Napoli. Il 7 marzo finisce in galera un agente della polizia penitenziaria di Piacenza che nei giorni di falsa malattia spacciava droga e qui - caso rarissimo - piovono sberle anche per il suo medico cui la Procura chiude lo studio per avere concesso certificati senza controllo. Ma l'elenco delle amministrazioni dove sono scattate le manette è infinito: ospedali Monaldi e Cotugno di Napoli; Comuni di Sant'Agnello e Torre Annunziata; Università di Trieste e Udine; ufficio del giudice di Pace di Latina; Day SurgerY di Cuneo; Comune di Ancona; provincia di Chieti (dove un capo cantoniere si assentava dal lavoro per effettuare traslochi con i mezzi pubblici di cui era responsabile). Non c'è pace, da Nord a Sud. A giugno si spara nel mucchio nel Consorzio di Bacino Salerno/1: 22 arresti per truffa aggravata e peculato (gli assenteisti si segnavano anche lo straordinario). Ma è da settembre che le retate si moltiplicano: a Montenero di Bisaccia (il paese di Di Pietro) viene arrestato il medico dell'Asl e un suo collaboratore per danni per 70 mila euro causati dalle loro assenze e poi la Calabria alza il tiro con la decisione della Regione di licenziare quattro assenteisti cronici di in un gruppo di impiegati finito totalmente fuori controllo. Impiegati che vengono puniti anche con 5 sospensioni e 41 rimproveri. Ma l'assenteismo di massa della Regione Calabria non è isolato. Alla Asl di Siracusa la Procura ha imposto 9 sospensioni dopo aver scattato 1.500 fotografie ed effettuato 600 ore di videoregistrazioni per provare l'abitudine di 33 fra medici e impiegati di recarsi spesso insieme in piscina invece che al lavoro. Naturalmente dopo aver fatto timbrare agli amici il loro cartellino.

Dipendenti pubblici, l’insopportabile scandalo dell’assenteismo, scrive Giancarlo Marcotti. La notizia la conoscete tutti, diciassette persone, dipendenti del servizio ospedaliero di Pizzo Calabro denunciate per assenteismo, ufficialmente erano al lavoro, nella realtà …Ma la cosa più scandalosa non è tanto che le persone timbravano il cartellino e poi se ne andavano per i fatti loro, questo succede ogni giorno a Pizzo Calabro come in tutte le strutture ospedaliere d’Italia. La cosa più scandalosa è che tutto ciò viene alla luce perché cittadini esasperati per le inefficienze del servizio pubblico protestano e dopo aver portato le loro istanze alla dirigenza della struttura pubblica coloro che hanno responsabilità dirette cosa fanno? Nulla! Non fanno nulla probabilmente per paura, perché se si fossero azzardati a prendere qualche provvedimento avrebbero rischiato la loro pelle, e perché “da sempre va così”. La cosa più scandalosa è che le misure cautelari “sono frutto di una complessa attività d’indagine coordinata dal sostituto procuratore Vittorio Gallucci”, ma quale “complessa”? Riflettete un attimo, cosa c’è di “complesso” nell’accertarsi che delle persone che dovrebbero essere al lavoro, dopo aver timbrato il loro cartellino vanno invece per fatti propri? Anzi la maggior parte delle volte non si sono neppure presi la briga di andare a timbrare il cartellino perché ci ha pensato un collega! Lo scandalo è che si viene a sapere (anzi ce lo dicono gli stessi Carabinieri!) che le indagini sono iniziate nel giugno del 2012!!! E cosa ci son voluti? Due anni? Due anni per vedere che le persone non andavano al lavoro? Ed a noi quanto ci son venuti a costare due anni di indagini dei Carabinieri? Quanto ci è costato in personale dell’Arma impiegato per queste “indagini” e quanto in telecamere ed attrezzature varie? Lo dico perché sapete come va a finire nella migliore delle ipotesi? Va a finire che tutte le persone denunciate rischiano “al massimo” la “sospensione di due mesi dal lavoro”, avete capito? Non il carcere, non il rimborso di tutto quanto truffato allo Stato e sarebbero decine di migliaia di euro in stipendi percepiti senza prestare alcuna attività, non il licenziamento! No nulla di tutto questo! Soltanto la sospensione per due mesi e poi di nuovo tutti al loro posto a riprendere a fare (cioè a non fare) quel che facevano prima!!! Questo è lo scandalo!!! Queste persone, invece, dovrebbero finire in galera, e poi, una volta usciti, avere il divieto assoluto di venire impiegati nuovamente in una struttura pubblica, se c’è un privato che li vuole assumere … buon per loro, altrimenti che vadano a trovare un posto all’estero, capiranno così che da altre parti si incassa uno stipendio soltanto dopo aver lavorato. Quando si parla di tagli alla spesa pubblica, cari lettori, bisognerebbe riferirsi soprattutto a questo, quante persone in Italia “rubano” uno stipendio? I tagli alla Sanità sono un tabù? Macché! Se tagliassimo metà del personale nessuno se ne accorgerebbe! E cosa dire degli sperperi? Dei pasti per i degenti che in alcune strutture ospedaliere costano dieci volte di più che in altre? Questo è il vero scandalo in Italia. Giancarlo Marcotti per Finanza In Chiaro.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del Cms sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Funzionari pubblici, tutti gli illeciti. Il caso degli affitti a sette euro. Il rapporto della Guardia di Finanza sui primi sei mesi del 2015: un buco da oltre tre miliardi di euro su sanità, Ferrovie e corsi di formazione, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In appena sei mesi hanno sottratto allo Stato oltre tre miliardi di euro. Sono 4.835 dipendenti pubblici che hanno rubato o sperperato i soldi della collettività. Funzionari, medici, politici, impiegati di primo livello: tutti citati adesso in giudizio dalla Corte dei conti, chiamati a restituire il maltolto. È il rapporto della Guardia di Finanza sui danni erariali contestati tra il 1 gennaio e il 30 giugno 2015 a rivelare quanto profondo sia il «buco» nei conti causato dai lavoratori infedeli. Con un dato che fa impressione: più di un miliardo di euro è stato perso con la cattiva gestione del patrimonio immobiliare. Case concesse in affitto a prezzi stracciati, terreni mai utilizzati, edifici svenduti rappresentano la voce più consistente della relazione. Sono 1.290 le segnalazioni inviate dalla magistratura ordinaria o direttamente dagli stessi finanzieri ai giudici contabili. I numeri dimostrano come nei primi sei mesi di quest’anno ci sia stata una vera e propria impennata con contestazioni pari a un miliardo e 357 milioni di euro, il 13 per cento in più di tutto il 2014. Vuol dire che aumenta il malaffare, ma anche che l’attività di controllo delle Fiamme gialle diventa più incisiva, si concentra in quei settori ritenuti maggiormente a rischio rispetto alla possibilità di un arricchimento personale. Le accuse per i dipendenti pubblici sono corruzione, concussione, truffa, ma anche turbativa d’asta, appropriazione indebita, abuso d’ufficio. Nell’elenco compare anche chi, per inerzia o incapacità ha provocato un disservizio e quindi deve essere sanzionato. Sono migliaia gli immobili dai quali lo Stato potrebbe ricavare guadagno e invece si trasformano addirittura in un costo. Un capitolo a parte riguarda le case popolari. Da Lecce ad Aosta i finanzieri sono impegnati in indagini e verifiche per stanare i morosi e tutti i privati che versano canoni irrisori. Perché in questi casi bisogna accertare se si tratti esclusivamente di cattiva gestione o se, come è stato scoperto in Puglia, la concessione dell’immobile sia in realtà una contropartita, ad esempio per ottenere voti alle elezioni. I casi sono diversi, la somma provoca una voragine nei conti. C’è il Comune in provincia di Bolzano che non riscuote l’affitto per l’occupazione di suolo pubblico e perde 350 mila euro, ma c’è anche il direttore dell’Agenzia territoriale di Asti noto per l’accusa di aver sperperato 9 milioni di euro. È ancora in corso la verifica sulle case del Comune di Roma affittate a sette euro al mese, e quella sul patrimonio dell’Inps, ma è già finita l’indagine sul Comune di Nepi, in provincia di Viterbo, dove «reiterati episodi di “mala gestio” tramite una serie di artifizi, raggiri e ammanchi di cassa al patrimonio» avrebbero causato un danno di un milione e 200 milioni di euro». Quello della sanità si conferma un settore dove continuano sprechi e abusi, non a caso in appena sei mesi il danno contestato supera gli 800 milioni di euro. Gli investigatori delle Fiamme gialle hanno aperto 264 pratiche, 2.325 sono le persone denunciate o arrestate. Un accertamento svolto in 18 Regioni dal «Nucleo speciale spesa pubblica» della Finanza ha consentito di individuare 83 dirigenti medici che hanno provocato un danno al servizio sanitario di 6 milioni di euro. Due le contestazioni principali: «Mancato rispetto degli obblighi di esclusività delle prestazioni da parte dei dirigenti medici per aver accettato incarichi extraprofessionali non autorizzati preventivamente dall’ente di appartenenza e impiego presso altre strutture private convenzionate». All’ospedale di Gallarate, in provincia di Varese, è stato raddoppiato il valore di un appalto a una società esterna incaricata della manutenzione passando da 15 milioni e mezzo di euro a ben 36 milioni per poter - questa è l’accusa per i manager dell’azienda sanitaria - ricavare una sostanziosa «cresta». La creatività nel settore della Pubblica amministrazione evidentemente non ha limiti. E così è diventato un caso da manuale quello del dipendente di un ente di Catanzaro che per sette anni ha percepito stipendio e pensione. Pochi giorni dopo essere stato congedato per limiti d’età e aver cominciato a incassare l’assegno dell’Inps «ha presentato domanda di riammissione in servizio presso la sua azienda confidando che le esigenze di organico gli avrebbero consentito di tornare immediatamente al proprio posto, cosa che è effettivamente accaduta». Il problema è che nessuno tra i dirigenti si è preoccupato di segnalare la nuova assunzione all’Istituto previdenziale e l’uomo ha incassato illecitamente ben 700 mila euro. Quello dei mancati controlli è uno dei problemi che emerge con evidenza nel dossier della Guardia di Finanza perché provoca danni immensi. Basti pensare a quanto accaduto in Sicilia con 47 milioni di euro sprecati tra il 2006 e il 2011 per corsi di formazione finanziati con soldi pubblici e in realtà mai svolti. Emblematico è il caso scoperto a Bari dove i manager delle Ferrovie Sudest hanno speso 912 mila euro per l’acquisto di 25 carrozze passeggeri, le hanno rivendute a una società polacca «incaricata di eseguire interventi di ristrutturazione per 7 milioni di euro» e qualche tempo dopo hanno deciso di riacquistarle a 22 milioni e mezzo di euro provocando un danno alla società pubblica che la Corte dei conti ha stimato in oltre 11 milioni di euro. 

Il ministro dell'Economia, critica i sindacati: "Mi pongo una domanda. Cosa ha bloccato il Paese? Sono due decenni che questo paese è bloccato. La responsabilità è diffusa, forse anche dei sindacati. Il Governo sta sbloccando il Paese che va sbloccato altrimenti rischiamo grosso". Lo ha detto il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan nel corso di "In mezz'ora" su Rai tre del 19 ottobre 2014.

“Il sindacato in Italia mediamente è stato un fattore di ritardo: ha fatto ritardare tanto l’efficienza e la competitività complessiva del Paese”: l’ultimo affondo ai rappresentanti dei lavoratori arriva dal presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi. Rispondendo ad una domanda sulla richiesta di lavoro a Ferragosto da parte dell’Electrolux alla Festa dell’Unità di Milano il 28 agosto 2015, il numero uno degli industriali italiani ha detto: “Un sindacato moderno dovrebbe avere la capacità di rispondere in tempi utili perché non si perdano opportunità di lavoro”, in riferimento allo stabilimento dei frigoriferi che ha faticato a trovare operai per aprire le linee produttive in pieno periodo di ferie. Ma quella sull’Electrolux non è l’unica critica che Squinzi muove alle sigle sindacali. “In un’epoca in cui l’economia si muove a una velocità supersonica il fatto che ci si possano mettere quasi due anni per poter scrivere un accordo specifico sulla rappresentanza, che è un fattore di democrazia, non è il modo giusto di fare le cose”.

Siamo ostaggio dei sindacati. Roma e Pompei, le rovine d'Italia. Disagio nei trasporti e assemblee sindacali bloccano il turismo, scrive Laura Eduati su L'Huffington Post del 24/07/2015. Cittadini esasperati nella lentezza dei trasporti romani, turisti impossibilitati ad ammirare le bellezze di due perle della storia dell'arte mondiale, Pompei e il Colosseo, a causa di una assemblea sindacale improvvisata che ha lasciato i visitatori sotto il sole, increduli.

Dopo la Grande Bellezza, il grande caos. In primo luogo il caos urbano di Roma, una città provata dopo settimane di disservizi dell'Atac, la rete dei trasporti che Ignazio Marino vuole ora privatizzare nella speranza di evitare il fallimento e nell'ottimismo di migliorare un servizio ormai colabrodo, africano. Dopo scioperi bianchi, vagoni bloccati nel tunnel senza aria condizionata, treni della Roma-Lido che sono ridotti a 3 su 12 per i guasti e la mancanza di manutenzione, questa mattina è esplosa l'ultima rivolta dei passeggeri contro un macchinista che stava tenendo fermo il treno lungo la linea B della metropolitana, all'altezza di San Paolo. Nelle stesse ore, a Pompei, i turisti trovavano le porte chiuse per tutta la giornata. Causa: assemblea sindacale. Una "assemblea selvaggia", ha ammesso in serata la Fp Cgil nazionale. E difatti nessuno era stato avvisato: né i tour operator, né i duemila visitatori arrivati con la canicola sognando di ammirare uno dei siti archeologici più affascinanti del pianeta. "Un danno incalcolabile", tuona il ministro Franceschini. Non è la prima volta che succede, e l'effetto è boomerang: difficile trovare qualcuno che simpatizzi con i lavoratori di Pompei, così come è impresa ardua scovare un moto di simpatia per i dipendenti dell'Atac. Soltanto 24 ore prima, il Colosseo era rimasto chiuso per tre ore, sempre per una assemblea sindacale: i dipendenti sono scontenti del fatto che l'organico è stato ridotto da 27500 a 17500 unità, "siamo al di sotto della spending review" e le ragioni per organizzare una lotta sindacale non mancano, eppure anche questa chiusura è parsa all'opinione pubblica un capriccio, un uso privato di luogo pubblico. A sentire gli autoferrotranvieri romani, nemmeno a loro mancano le ragioni dello scontento. "Prima dell'inserimento del badge potevamo fare straordinari coprendo le mancanze di personale, ora siamo costretti a fare un lungo turno di lavoro senza pause e dunque forzatamente mancano corse, non ci sono bagni nel capolinea, l'Atac ha acquistato nuovi treni che rimangono nel deposito perché mandano in black out la linea, succhiano molta più energia dei treni vecchi che comunque sono malandati", ci dice tutto d'un fiato un macchinista della linea B della metropolitana che naturalmente preferisce rimanere anonimo. È uno sfascio, soprattutto quello del trasporto romano, che riflette la malagestione di decenni e la penuria di soldi per un solido investimento: l'azienda è sull'orlo del fallimento. Eppure la rabbia dei cittadini si scarica, unicamente, sul singolo macchinista che in quella tratta guida un treno improvvisamente fermo: non è mai chiaro se si tratta di un guasto, di un sottile sabotaggio, di un "atto di pignoleria" come lo chiama il macchinista intervistato, e cioè "siccome l'Atac fa la pignola con il badge, allora noi siamo pignoli con i turni di lavoro e lo stato dei mezzi che guidiamo". Il New York Times è soltanto l'ultimo di una serie di prestigiosi quotidiani che mette il dito nella piaga: Roma, la bellissima Roma, è prigioniera della spazzatura, della protesta dei macchinisti e del malgoverno. Ma basta sfogliare qualsiasi giornale romano per leggere costantemente titoli che portano a uno sconforto estremo: "Mafia capitale, altri 2 arresti: erano fuggiti a Santo Domingo" oppure "Toppe per le buche: la procura indaga sulla truffa del bitume". O anche: "A Trastevere la raccolta differenziata è un flop". Non c'è molto altro. Non è soltanto sciopero selvaggio ma è la sfaldatura di un patto sociale, anche nel conflitto. Ognuno per sé, a volte con ottime ragioni, ma utilizzando modalità personalistiche, incuranti delle conseguenze, senza regole. Si salvi chi può.

Ora Renzi attacca i sindacati: "Scioperi fanno male all'Italia". Il premier (finalmente) all'attacco: "Nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea o allo sciopero, ma bloccare vacanze e turisti fa male all’Italia". Ma cosa intende fare per disarmare i sindacati? Si chiede Sergio Rame su “Il Giornale”. "Vedere che dopo tutto il lavoro fatto per salvare il sito e quindi i posti di lavoro a Pompei un’assemblea sindacale blocca all’improvviso migliaia di turisti sotto il sole o vedere che dopo le nottate insonni per coinvolgere Etihad e evitare il fallimento di Alitalia, gli scioperi dei lavoratori di quell’azienda rovinano le vacanze a migliaia di nostri concittadini, fa male". Matteo Renzi (finalmente) alza la voce e si scaglia contro i sindacati che sabotano le vacanze degli italiani e il mercato del turismo italiano. Alitalia e Pompei sono lo specchio di un Paese disastrato. Da una parte i cancelli chiusi agli scavi di Pompei per un'assemblea dei sindacati che ha provocato danni economici gravissimi per turisti e tour operator non avvisati dell'improvviso cambio di programma delle rappresentanze sindacali. Dall'altro lo sciopero di 24 ore dei piloti e assistenti di volo Alitalia proclamato dall'Anpac che ha provocato decine di voli cancellati e l'ira dei viaggiatori, da Linate a Fiumicino. Due gravissimi disagi che vanno a colpire indiscriminatamente il settore turistico, che dovrebbe essere uno dei veri motori della nostra economia. "Intendiamoci, per evitare le polemiche di domani - dice il premier sulla E-news - nessuno mette in discussione il diritto all’assemblea sindacale o allo sciopero. Sono diritti sacrosanti. Ma c’è anche bisogno di buon senso e di ragionevolezza, di responsabilità e di rispetto". E passa all'attacco: "In un momento come questo tenere migliaia di turisti venuti da tutto il mondo, sotto il sole per un’assemblea sindacale a sorpresa significa volere il male di Pompei. Significa fare il male di Pompei". "Io non ce l’ho con i sindacati - incalza - ma se continua così dovremo difendere i sindacati da se stessi. L’assemblea di ieri a Pompei, in quelle modalità, in quelle forme, è semplicemente scandalosa. Continueremo a lavorare per Pompei, nonostante loro". In realtà, davanto a una sindacatocrazia che sta uccidendo il Paese, Renzi parla ma non muove un dito.

Colosseo e Fori chiusi per assemblea. Marino: "Uno sfregio", Renzi: "No alla cultura ostaggio a sindacalisti". Scontro con la Camusso. Migliaia di turisti delusi. Il ministro Franceschini: "La misura è colma. Oggi in Cdm proporrò di inserire musei nei servizi pubblici essenziali". Scontro con la leader Cgil: "Si vuole togliere democrazia ai lavoratori?". Poi nel pomeriggio il titolare dei Beni culturali chiarisce: "Nessuno toccherà i diritti dei lavoratori". Verso sciopero nazionale su vertenza Beni culturali, scrive Viola Giannoli su "La Repubblica" del 18 settembre 2015. "Ora basta, la misura è colma". "Non lasceremo la cultura in ostaggio dei sindacalisti contro l'Italia". "Uno sfregio per il nostro paese". E' dura la reazione del ministro della Cultura Dario Franceschini, del premier Matteo Renzi e del sindaco di Roma Ignazio Marino dopo il nuovo stop, stamane, dei siti archeologici più importanti della Capitale per un'assemblea sindacale. E si accende lo scontro con le sigle dei lavoratori. A Roma sono rimasti chiusi per tre ore Colosseo, Foro Romano e Palatino, Terme di Diocleziano e Ostia Antica con l'apertura slittata dalle 8.30 alle 11.30, al termine della riunione del personale di custodia, e migliaia di turisti rimasti a bocca asciutta. "Non si è trattato di chiusure ma solo di aperture ritardate. Siamo dispiaciuti per i disagi ma era impossibile vietare l'assemblea" convocata in maniera legittima, precisa la Soprintendenza. Il caso è arrivato nel pomeriggio in Consiglio dei Ministri. D'accordo con Renzi, il titolare dei Beni culturali proporrà all'esecutivo di inserire musei e luoghi della cultura nei servizi pubblici essenziali. E Renzi twitta:"Non lasceremo la cultura ostaggio di quei sindacalisti contro l'Italia. Oggi decreto legge #Colosseo#lavoltabuona".

Il primo cittadino. "Sono arrabbiato quanto il ministro Dario Franceschini - dice sulla sua pagina Facebook, il sindaco di Roma Ignazio Marino - E' vero la gestione del Colosseo dipende dallo Stato ma il Comune ha fatto tutti gli sforzi possibili per migliorare l'immagine nei confronti dei romani e nei confronti dei turisti. Lo abbiamo liberato dalle auto, da quella brutta immagine dei camion bar. Adesso lo dobbiamo liberare anche dai ricatti. E' il singolo monumento più visitato di tutto il nostro Paese. Il fatto che sia chiuso e che una persona che arriva da Sydney o da New York e aveva solo quel giorno per poter vedere il monumento millenario, è uno schiaffo in faccia alle persone e uno sfregio per il nostro Paese. Intollerabile".

Il sindacato. A rispondere è la leader della Cgil Susanna Camusso: "Strano paese quello in cui un'assemblea sindacale non si può fare. Capisco che uno possa dire di fare attenzione nei periodi di maggiore presenza turistica - ha spiegato il segretario generale - ma se ogni volta si dice che l'assemblea non si può fare allora si dica chiaramente che non si può avere uno strumento di democrazia. Servizio pubblico - ha concluso - non vuol dire che non si può avere la possibilità di fare assemblee o scioperi". "Lo abbiamo detto e lo ripetiamo - aggiunge il segretario generale della Cisl Annamaria Furlan - è sbagliato prendere in ostaggio i turisti come è accaduto oggi a Roma a causa di un'assemblea sindacale, tra l'altro autorizzata dalla dirigenza". Il problema "non si risolve con un decreto legge" o sollevando "polveroni mediatici contro il sindacato e contro i lavoratori". Cgil, Cisl e Uil, anzi, annuncia Claudio Meloni, coordinatore nazionale Cgil per il Mibact, preparano già una "serrata", stavolta nazionale, che certo riguarderà anche Roma, dove potrebbe sovrapporsi a quella dei dipendenti comunali in agitazione: "La vertenza sui beni culturali potrebbe portare ad uno sciopero nazionale e le dichiarazioni odierne del ministro Franceschini certo non aiutano. Cgil, Cisl e Uil hanno già avviato le procedure previste dalle legge. Iniziative analoghe avvengono in tutta Europa. Solo in Italia i diritti sono negati". E il sindacato romano aggiunge: "Tentano di stringere i diritti sindacali non riconoscendo ai lavoratori neanche la possibilità di riunirsi in assemblea autorizzata e comunicata secondo le norme. Vogliono chiuderci in servizi essenziali in cui non ci sono diritti dei lavoratori, che da mesi attendono invano. Diciamo che la misura è colma per noi".

Il Colosseo chiuso. Questa mattina intanto erano in migliaia davanti ai cancelli del Colosseo: un coda di visitatori che si è andata ingrossando di ora in ora. Alla riapertura dei cancelli c'erano più di tremila persone in fila o sedute a terra a bivaccare in attesa di poter visitare l'Anfiteatro Flavio. Altri turisti invece arrivati davanti all'ingresso hanno deciso di tornare indietro. L'unico avviso al Colosseo si trovava praticamente oltre il cancello. E su quello in inglese campeggiava anche un errore. La traduzione, infatti, parlava di chiusura "from 8.30 am to 11 pm", cioè le 23 di stasera. E tra i turisti è nata un po' di confusione. Altri, avvisati per lo più dai centurioni presenti sulla piazza per le foto, se ne sono andati rassegnati: "Ok, we have to come back later". Nessuno, prima di arrivare lì davanti, sapeva nulla, nonostante gli annunci anche sulla stampa. Un gruppo di turisti inglesi ha comprato ieri il biglietto sul sito internet per saltare la fila: "Potevano scriverlo almeno lì, ci saremmo organizzati", dicono. "Abbiamo giusto due giorni, Roma è grande, avremmo fatto altre scelte", lamenta una donna polacca. Colte di sorpresa anche le guide turistiche: "Certo, è una bella delusione per i turisti". Qualche confusione anche tra le forze dell'ordine, che lamentano di "non essere state avvertite".

Le ragioni della protesta. Le rappresentanze sindacali unitarie avevano annunciato la protesta per "discutere della gravissima situazione in cui si trovano i lavoratori del Mibact". In particolare, tra le denunce snocciolate oggi nell'assemblea che raccontano altamente partecipata: il mancato pagamento delle indennità di turnazione e delle prestazioni per le centinaia di aperture straordinarie (dal primo maggio a quelle notturne) che rappresentano il 30% del salario; la mancata apertura di una trattativa per il rinnovo del contratto dei lavoratori pubblici bloccato per la parte economica da molti anni; la decisione tutta politica di costituire, in accordo con il Comune di Roma e senza un minimo confronto con le parti sociali, una sovrastruttura burocratica come il Consorzio per la gestione dell'area centrale; la mancata apertura di un confronto sulla organizzazione del lavoro all'interno della Soprintendenza in grado di ristabilire un benessere organizzativo che possa riqualificare il lavoro, innalzare la qualità dei servizi offerti non trascurando la sicurezza del personale che vi opera e dei visitatori che affollano i nostri siti". Un problema nazionale secondo la Uil che racconta di riunioni sindacali in diverse parti d'Italia: "A Firenze per esempio hanno ritardato l'apertura tutti i musei di Palazzo Pitti. Ci è stato attribuito un organico totalmente insufficiente e stiamo chiedendo assunzione di personale che manca dappertutto".

"Assemblea legittima". Inoltre l'assemblea sindacale "era perfettamente legittima, richiesta l'11 settembre scorso e svolta nel pieno rispetto delle norme che regolano i servizi essenziali, preceduta da un comunicato stampa della stessa RSU che segnalava possibili disagi per i visitatori", dichiarano in una nota congiunta Claudio Meloni (Fp Cgil), Giuliana Guidoni (Cisl Fp) e Enzo Feliciani (Uil PA). "L'assemblea, proprio per ridurre al minimo i disagi dei visitatori, è stata calendarizzata ad inizio turno, ha comportato la chiusura per due ore e mezza al pubblico e alle 11 i cancelli sono stati regolarmente riaperti", spiegano i sindacati.

Le reazioni. "Per ovviare a questi problemi nel tempo adottammo soluzioni diverse, come affidarci ad un'associazione di ex carabinieri volontari" commenta Adriano La Regina, per 28 anni soprintendente archeologico a Roma. Una proposta a cui il Soprintendente speciale per il Colosseo Francesco Prosperetti replica: "Tutto è fattibile, ma vorrei evitare misure che abbiano un sapore provocatorio nei confronti dei lavoratori". Concordi Federalberghi e Assoturismo nel giudicare la chiusura dei monumenti un "grave danno di immagine alla città e al Paese". Mentre il Codacons spara alto: "In questi casi dovrebbe intervenire l'esercito per garantire l'apertura di siti e musei". "Non dubitiamo che le rivendicazioni dei lavoratori del settore siano legittime, ma le chiusure sono inaccettabili, uno schiaffo a chi visita il Paese e la capitale, che fatalmente si riproporrà" dicono in una nota congiunta Fabrizio Panecaldo dicono, capogruppo Pd di Roma Capitale, e Gianni Paris, delegato bilancio Città Metropolitana, che poi spiegano: "Oggi, però, per le carenze in organico del personale dei musei, che danno poi la stura al conflitto e alla chiusura della cultura, si potrebbe giocare un jolly: i dipendenti delle ex province a rischio esuberi possono essere formati e reimpiegati proprio presso i musei e le aree archeologiche. Senza dover assumere, e con personale che già percepisce stipendio, cioè a costo zero, l'Italia, il più grande museo a cielo aperto del mondo, non vivrebbe più simili figuracce periodiche".

La replica del ministro. "Nessuno vuole limitare il diritto dei lavoratori" a fare assemblee o scioperi. "Ma servono delle regole chiare". Lo ha detto il ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, entrando a palazzo Chigi per la riunione del Consiglio dei ministri, in merito al decreto annunciato oggi dallo stesso ministro e dal premier Renzi.

Colosseo, i giornali non fanno sconti ai sindacati. Le notizie più importanti sui quotidiani di oggi, una breve rassegna della stampa nazionale. La chiusura del Colosseo e dei Fori Imperiali per un’assemblea è una delle principali notizie che spiccano sui giornali di oggi. Tutti risultano concordi nel condannare l’iniziativa sindacale che ha costretto migliaia di turisti a lunghe code. “Colosseo chiuso, interviene il governo” titola La Stampa evidenziando la reazione di Palazzo Chigi che tramite un decreto, di fatto, limita la possibilità di scioperare nei beni culturali, equiparandoli a servizi pubblici essenziali. La misura, approvata dal governo a poche ore di distanza dalla polemica, viene sottolineata anche dall’apertura de Il Messaggero "Colosseo chiuso, il pugno di Renzi". "Tutto il mondo politico applude, la Cgil parla di attacco alla democrazia", recita invece l’occhiello dell’apertura del Manifesto. Un gioco di parole poi, ispirato dalla frase con cui i gladiatori si rivolgevano dal centro dell’arena del Colosseo, emerge dalle colonne del Tempo “Morituristi te salutant”. E ancora, la scelta del Resto del Carlino: "Musei, scudo anti scioperi".

MORITURI(STI) TE SALUTANT. Custodi «imboscati». Ecco il Colosseo dei sindacati. Assunti come assistenti a vigilanza e accoglienza lavorano metà del tempo nell’amministrazione Alcuni sono sindacalisti: «È previsto dagli accordi», scrive Dario Martini il 20 settembre 2015 su “Il Tempo”. Il Colosseo due giorni fa è rimasto chiuso perché i custodi erano in assemblea sindacale. Tutto autorizzato e perfettamente in regola. Da un anno non prendono straordinari, il 25% dello stipendio. Accolgono fino a 30mila turisti al giorno e a turni di sette operatori alla volta. Ma i sindacati, che hanno organizzato e supportato la protesta, dimenticano un particolare. Un custode su quattro, assunto e inquadrato come «assistente all’accoglienza e alla vigilanza», ha scelto di svolgere mansioni amministrative per il 50% dell’orario di servizio. Semplificando, possiamo dire che hanno preferito la scrivania al gabbiotto. Ma partiamo dai numeri. In tutta la Soprintendenza ai Beni archeologici di Roma lavorano 650 persone, dagli archeologi ai tecnici, dagli impiegati fino ai custodi. Questi ultimi sono circa 300. Una settantina, come detto, ha optato per la migrazione verso una comoda poltrona. Restringendo questa fotografia al solo Colosseo, su 28 custodi sono 7 quelli che hanno scelto di lavorare al 50% in ufficio. Tre di loro sono sindacalisti mentre gli altri quattro sono iscritti al sindacato. Ovviamente, tutto nel rispetto delle regole, in base all’accordo tra sindacati e Soprintendenza siglato nel luglio 2009. Ecco cosa dice: «Il personale con profilo di "Assistente alla vigilanza, sicurezza, comunicazione, accoglienza e servizi al pubblico" ex Atm che su base volontaria aderirà all’innalzamento dell’orario di servizio al 71% svolgerà il proprio servizio con rotazione... su quattro turni settimanali» e «le attività svolte nell’ambito del progetto nazionale "utilizzazione assistenti tecnici museali oltre l’orario di lavoro per una migliore gestione dei modelli museali, archivisti e librari" verranno svolte per il 50% dell’orario di servizio». L’accordo permette che sia coinvolto «tutto il personale» e non solo gli ex atm. Inoltre, se si analizzano i curricula dei vincitori dell’ultimo concorso del 2009 (che nel Lazio infornò 80 custodi), si scopre che gran parte degli assunti è laureata in archeologia e conservazione dei beni culturali ed ha specializzazioni post-laurea. Non c’è da meravigliarsi, quindi, che abbiano chiesto di essere spostati altrove. Irene Baroni è una di queste lavoratrici ed è anche rappresentante Rsu. Lavora al Colosseo e spiega i motivi della protesta: «Ritado dei pagamenti (le indennità di turnazione non retribuite), carenza di personale e mancato rinnovo del contratto». Baroni svolge, appunto, il 50% del suo lavoro negli uffici per la tutela del territorio. E lo rivendica: «Ci sono accordi sindacali che lo permettono. Molti di noi si "sdoppiano" in entrambi i compiti. Il problema non è questo, ma il fatto che l’organico è troppo basso. Al Colosseo siamo 28, dovremmo essere almeno il doppio». C’è anche chi propone di cambiare questa situazione. Sidney Journo, storico addetto alla vigilanza del Foro e iscritto all’Associazione Beni culturali, sottolinea come non «ci si possa più permettere dipendenti gestiti in maniera improduttiva, come i custodi che lavorano in uffici o che fanno le segretarie ai funzionari». Ciò non toglie, aggiunge Journo, che «il diritto del personale di riunirsi in assemblea sia sacrosanto. Il mancato pagamento delle turnazioni e le carenze di personale non sono più tollerabili». E i sindacati, intanto, cosa fanno? Cgil, Cisl e Uil proprio ieri hanno annunciato uno sciopero da attuare entro ottobre. I turisti sono avvertiti.

«Il problema? Scippatori guide abusive e bagarini». Il viaggio tra i lavoratori dell’Anfiteatro Flavio, scrive Alessio Buzzelli il 20 settembre 2015 su “Il Tempo". «Are you kidding me?» («mi state prendendo in giro?»), è ciò che ha esclamato ieri mattina Kate, turista americana di 27 anni, davanti al cartello che informava i turisti della chiusura del Colosseo, causa assemblea sindacale. In fila con Kate, oggi, ci siamo anche noi de «Il Tempo», novelli “turisti per caso”, con l’obiettivo di raccogliere le impressioni e i racconti di turisti e lavoratori sulla concitata giornata di ieri. E Kate è ben lieta di dirci la sua: «Sono venuta New York - racconta - per vedere il Colosseo e non potevo credere ai miei occhi. È incredibile che nessuno abbia informato i turisti con l’anticipo dovuto. Fortunatamente ho avuto la possibilità di tornarci, ma non tutti possono dire la stessa cosa». La fila per entrare nell’anfiteatro simbolo di Roma, oggi, scorre veloce e il clima è rilassato. Niente a che vedere con il caos di ieri, come ci racconta Carlos, uomo di mezza età originario di Siviglia, che come Kate è tornato al Colosseo dopo aver subito anche lui la beffa della chiusura “improvvisa”: «Ieri c’erano migliaia di turisti increduli e tra loro c’ero anch’io. Ho chiesto come fosse stato possibile che la chiusura non fosse stata comunicata per tempo e mi hanno risposto che su alcuni giornali italiani, invece, la notizia era stata data. Il problema è che un turista straniero, di solito, i giornali italiani non li legge». Un discorso che non fa una piega. Ma non tutti, ovviamente, la pensano così. È il caso di chi nel Colosseo ci lavora e ha partecipato alla tanto criticata assemblea sindacale. «Bisogna innanzitutto chiarire - spiega Cristina (nome di fantasia, come i seguenti), assunta da due anni - che quello di ieri non è stato uno sciopero, come erroneamente riportato da molti media, bensì una regolare e autorizzata assemblea sindacale di tre ore». Cristina dice il vero, perché in effetti l’assemblea era stata comunicata al Ministero una settimana fa e autorizzata dalla Soprintendenza speciale per il Colosseo e l’area archeologica. «Bisogna anche precisare che - puntualizza Francesco, addetto alla sicurezza - non si è trattato di chiusura ma di apertura ritardata, che è una cosa molto diversa. Tanto è vero che alle 11.30 tutto è stato riaperto». Più critico è Massimo, che al Colosseo ci lavora da venti anni: «I politici si sono scagliati contro di noi, ma hanno sbagliato obiettivo. Fuori da questi archi è una terra di nessuno, tra guide abusive, bagarini che vendono al turista ignaro biglietti a prezzi maggiorati e borseggiatori che imperversano. Tutte cose arcinote che vanno avanti da anni. Non mi risulta però che chi oggi ci critica tanto abbia mai fatto nulla in proposito». Sulle responsabilità circa la mancata comunicazione della chiusura interviene invece Patrizia, la quale sostiene che «l’obbligo di comunicare cose come queste spetta ai funzionari della Soprintendenza e non alle rappresentanze sindacali, che hanno comunque comunicato l’assemblea con i mezzi a disposizione. Cioè con cartelli e affissioni varie. Noi lavoratori - chiosa la donna - non possiamo occuparci anche di questo». «Non ci pagano il salario accessorio da gennaio! – rincara la dose Fabrizio. Capite? Da ben otto mesi non percepiamo il salario che ci spetta e non avremmo nemmeno il diritto di fare una legittima e regolare assemblea?». La domanda è chiaramente retorica, come lo è quella di Silvia, che, unendosi alla discussione si chiede: «Perché tutto quello che riguarda il Colosseo diventa sempre un caso enorme? Tutti i lavoratori d’Italia indicono le proprie assemblee sindacali, non capisco perché noi non potremmo. So bene che parliamo di uno dei monumenti più famosi del mondo, ma non facciamo queste cose per nuocere a qualcuno. Vogliamo solo informare le istituzioni dei problemi che riguardano il sito». Quali siano questi problemi lo spiega bene Massimo: «Quello principale è che l’organico non è sufficiente per gestire le migliaia di turisti che vengono qui tutti i giorni di tutto l’anno. Siamo pochi e male organizzati. Tra poco ci sarà il Giubileo e i visitatori saranno ancora di più: per questo chiediamo un nuovo piano di assunzioni». «Noi lavoratori - prosegue - siamo i primi a ribadire la grande importanza che il patrimonio storico-archeologico ricopre per una città come Roma. E questo lo dimostriamo ogni giorno lavorando con serietà e professionalità. Un’assemblea di tre ore non può svilire il nostro lavoro quotidiano».

Il caravanserraglio del Colosseo. Altro che sindacati, il monumento è a tutte le ore ricoperto di abusi di ogni risma, scrive “Roma fa Schifo”. Il sindaco Ignazio Marino dice: "abbiamo fatto tanto per rendere più bello il Colosseo, ora non possiamo subire il ricatto dei sindacati". Belle parole. Ma è tutto vero? L'amministrazione ha fatto tanto, questo va ammesso. Dopo decenni non c'è più una bancarella di monnezza di fronte all'Arco di Costantino, non c'è più un banchetto di paccottiglie cinesi di fronte alle Colonnacce del Foro di Nerva, non c'è più un fruttarolo in mezzo ai Fori Romani. Ma proprio per questo, proprio per essere riusciti a togliere dalle palle cotanta schifezza, che è assurdo poi cedere a tutto quello che è venuto dopo. Già, perché al di là delle proteste sindacali, al Colosseo e ai Fori una volta mandata via una anomalia (camion bar e urtisti, oltre che macchine di passaggio), si sono sostituite altre anomalie. Ancor più gravi perché per lo più abusive, aggressive. Rimane l'annoso problema dei gladiatori, ma sempre più brutti, sempre più aggressivi, sempre più fastidiosi, sempre più di cattivo gusto e fuori luogo. C'è la faccenda dei venditori di acqua. Ci sono i risciò, un autentico cancro criminale che opera (la scusa delle cooperative per reinserimento di detenuti) con le stesse modalità che hanno reso Buzzi un gigante dell'imprenditoria. C'è poi lo scempio notturno, quando i controlli (serrati durante il giorno, ma solo rivolti ai vucumprà visto che le altre modalità - gladiatori e risciò appunto - sono sul crinale tra legale e illegale) praticamente scompaiono. Il Colosseo diventa sfondo di una squallida discoteca a cielo aperto. Il ritmo tuzzettaro degli stereo dà il ritmo a improvvisati pittori che con velenosissime bombolette spray performano su pezzi di carta acetata realizzando paesaggi trash da vendere a 10€ cadauno. Di fronte alla metro, sotto l'Anfiteatro, negli slarghi del cantiere della Linea C. Almeno tre postazioni, seguitissime. Ci sono poi i lanciatori di girandole luminose, i venditori di stick di selfie sempre più lunghi e pericolosi (ne riparliamo al primo spiedino). E poi i risciò stessi, che non mollano neppure dopo il tramonto. Questo sarebbe il Colosseo pronto per il Giubileo? Il Colosseo che l'amministrazione Marino ha riconsegnato ripulito alla città? Non basta, caro sindaco, l'aver eliminato i camion bar (sperando che il Tar ad ottobre non faccia scherzi). Non basta affatto se poi non riesci, in mesi e mesi, a sistemare uno scempio come quello ad esempio dei risciò. Non basta se poi non presidi il cambio della normativa per quanto riguarda i venditori di opere "del proprio ingegno". Normativa atroce che permette a chiunque di vendere e realizzare proprie opere in mezzo alla strada occupando suolo pubblico. 

Me lo merito un Rolex?”. Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa.

In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e,  distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara.  E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.

Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.

Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.

Delitto Meredith, così la Cassazione: «Mancano prove oltre ogni dubbio». Le motivazioni che hanno portato all’assoluzione di Knox e Sollecito: «Frutto di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni», scrive la Redazione online de “Il Corriere della Sera” il 7 settembre 2015. A carico di Amanda Knox e Raffaele Sollecito - accusati dell’omicidio di Meredith Kercher - manca un «insieme probatorio» contrassegnato «da evidenza oltre il ragionevole dubbio». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione dei due ex fidanzati depositate stamani dalla Quinta sezione penale della Suprema Corte. «Il processo - è scritto nelle motivazioni - ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o “amnesie” investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine». È un dato «di indubbia pregnanza» a favore di Knox e Sollecito - «nel senso di escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell’ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola» - la «assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. I Supremi giudici - nella sentenza 36080 di 52 pagine - rilevano che sul luogo del delitto e sul corpo di Meredith sono «invece state rinvenute numerose tracce riferibili al Guede», il giovane ivoriano condannato in via definitiva a 16 anni di reclusione per l’omicidio «in concorso», con il rito abbreviato. Per quanto riguarda il gancetto del reggiseno della vittima, i Supremi giudici rilevano che la «sola traccia biologica» rinvenuta su tale gancetto non offre «certezza alcuna» in ordine alla sua «riferibilità» a Raffaele Sollecito «giacché quella traccia - sottolinea la Cassazione - è insuscettibile di seconda amplificazione, stante la sua esiguità, di talché si tratta di elemento privo di valore indiziario». Ad avviso della Suprema Corte, se non ci fossero state tali defaillance investigative, e se le indagini non avessero risentito di tali «colpevoli omissioni», si sarebbe «con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità» di Knox e Sollecito rispetto all’accusa di avere ucciso la studentessa inglese Meredith Kercher a Perugia il 1 novembre 2007. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l’omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Lo sottolinea la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. La sentenza rileva che la calunnia è stata confermata dalla stessa Knox in un contesto «immune da anomale pressioni psicologiche». Per questo «una eventuale pronuncia della Corte di Giustizia Europea favorevole» al ricorso nel quale la Knox ha denunciato «un poco ortodosso trattamento degli investigatori nei suoi confronti», non potrebbe «in alcun modo scalfire» il definitivo passaggio in giudicato della sentenza di colpevolezza per la calunnia, «neppure in vista di possibile revisione della sentenza, considerato che le calunniose accuse che la stessa imputata rivolse al Lumumba, per effetto delle asserite coercizioni, sono state da lei confermate anche innanzi al pm, in sede di interrogatorio, dunque in un contesto istituzionalmente immune da anomale pressioni psicologiche». Inoltre tali accuse - prosegue la Cassazione - «sono state confermate anche nel memoriale» firmato dalla Knox «in un momento in cui la stessa accusatrice era sola con se stessa e la sua coscienza, in condizioni di oggettiva tranquillità, al riparo da condizionamenti ambientali».

Meredith, la Cassazione. «Tanti errori nelle indagini», scrive Margherita Nanetti su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. L'inchiesta sull'omicidio della studentessa inglese Meredith Kercher è afflitta da "colpevoli omissioni" nelle indagini, condotte con "deprecabile pressapochismo", ed inoltre le prove genetiche – nel processo indiziario imbastito a carico della giovane americana di Seattle Amanda Knox e del suo ex fidanzato pugliese, Raffaele Sollecito - sono state "acquisite in violazione delle regole consacrate dai protocolli internazionali". Nulla di quanto raccolto è in grado, dunque, di provare la colpevolezza "oltre ogni ragionevole dubbio". E’ questo il giudizio severo della Cassazione sull'operato degli inquirenti che si sono occupati del delitto – che rimane un caso irrisolto – avvenuto a Perugia il primo novembre del 2007, nell’abitazione di Via della Pergola dove quattro ragazze, due italiane e due straniere, convivevano quando Metz venne uccisa da più colpi di arma da taglio, soffocata dal suo stesso sangue mentre qualcuno, rimasto senza nome e a piede libero, le tappava la bocca mentre infieriva. Ad avviso della Suprema Corte, non è possibile altra soluzione che assolvere Amanda e Raffaele, come deciso lo scorso 27 marzo, dopo una altalena di verdetti. "Sono molto sollevata e contenta", ha detto a botta calda la Knox. "Emerge chiaramente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario", ha dichiarato Sollecito. Vincitrice della partita è senz'altro Giulia Bongiorno, il legale di Raffaele, alla quale la Cassazione riconosce di aver fornito "analisi ben più affidabili, ancorate a dati fattuali incontrovertibili" rispetto alle "approssimazioni" degli inquirenti, ad esempio sull'orario del delitto. E’ probabile – ricostruisce la Cassazione – che Amanda fosse in casa e che abbia sentito il terribile urlo di Metz, per poi essere raggiunta da Raffaele. Ma non si può andare oltre questa ipotesi dato che non c'è nessuna loro impronta genetica sulla scena del crimine. Anche se i loro alibi sono un pò pasticciati, sarebbe inutile un ennesimo processo: le perizie non possono essere ripetute per l’insufficienza del materiale genetico e i pc sequestrati sono andati distrutti per le "improvvide manovre degli inquirenti". L'unico condannato con rito abbreviato per omicidio in concorso con ignoti, resta l’ivoriano Rudy Guede, che sta scontando sedici anni. Tra le tante pecche, la Cassazione segnala che i due oggetti di "maggiore interesse investigativo", un coltello da cucina e il gancetto del reggiseno della vittima, sono stati il primo conservato "in una comune scatola di cartone", di quelle che contengono le agende che si regalano a Natale, mentre l’altro è stato raccolto da terra dopo essere stato lasciato, dai detective, sul pavimento della stanza di Metz per 46 giorni. E il giudice del rinvio – la Corte di Assise di Appello di Firenze - è incorso in "errore" nell’assegnare, invece, "valore indiziario" a elementi raccolti e repertati in tal modo. Questo processo – rilevano gli ermellini – ha avuto "un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative". Se non ci fossero state, si sarebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità" al delitto di Knox e Sollecito. Nel "percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio" di questa vicenda c'è un "solo dato di irrefutabile certezza": la colpevolezza di Amanda per aver accusato del delitto, calunniosamente, Patrick Lumumba. L’ex proprietario del pub dove Amanda lavorava ha ricordato di aver avuto la vita e la salute rovinata da quella menzogna. "L'inusitato clamore mediatico" e i "riflessi internazionali" del caso non hanno "certamente giovato alla ricerca della verità" perchè hanno provocato una "improvvisa accelerazione" delle indagini "nella spasmodica ricerca" di colpevoli "da consegnare all’opinione pubblica internazionale", osserva infine l'alta Corte mettendo anche l’informazione tra gli imputati di questa debacle investigativa e della giustizia.

I «pasticci»: dai pc bruciati al dna sul coltello, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Sarebbe inutile processare nuovamente Knox e, per il delitto Kercher dato che è "negativa" la risposta sulla "possibilità oggettiva" di condurre ulteriori accertamenti che "possano dipanare i profili di perplessità, offrendo risposte di certezza". Lo sottolinea la Cassazione rilevando che i pc della Knox e della vittima "che forse avrebbero potuto dare notizie utili, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti" e le tracce biologiche sono di "esigua entità" per essere rianalizzate. Ad avviso della Cassazione "per discutibile scelta strategica dei genetisti della Polizia Scientifica" si ritenne "di privilegiare l’indagine volta all’individuazione del profilo genetico nelle tracce repertate sul coltello, piuttosto che accertarne la natura biologica, dato che l’esigua quantità dei campioni non consentiva un doppio accertamento". Questa scelta, per la Suprema Corte, è stata una "opzione assai discutibile, in quanto l'individuazione di tracce ematiche, riferibili alla Kercher, avrebbe consegnato al processo un dato di formidabile rilievo probatorio, certificando incontrovertibilmente l’utilizzo dell’arma per la consumazione dell’omicidio". Ad avviso degli Ermellini, invece, "la riscontrata imputabilità delle tracce a profili genetici della Knox si risolve in un dato non univoco ed anzi indifferente, dato che la giovane statunitense conviveva con il Sollecito, dividendosi tra la sua abitazione e quella di via della Pergola", spiega la Cassazione nelle motivazioni dell’assoluzione di Knox e Sollecito.

Omicidio di Perugia, Corte di Cassazione: "Colpevoli omissioni nelle indagini, bruciati pc di Amanda Knox e Mex", scrive “Libero Quotidiano”. Amanda Knox e Raffaele Sollecito lo scorso 27 marzo 2015 sono stati assolti dall'accusa di omicidio di Meredith Kercher perché contro di loro manca un "insieme probatorio" contrassegnato "da evidenza oltre il ragionevole dubbio". Queste le motivazioni dell'assoluzione depositate oggi, lunedì 7 settembre, dalla Corte di Cassazione, che sottolinea: "Il processo ha avuto un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o amnesie investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine". Ma è quando la Suprema Corte entra nel dettaglio delle "colpevoli omissioni" che si scoprono particolari inquietanti. I pc di Amanda e di Meredith, "che forse avrebbero potuto dare notizie utili - recitano le motivazioni -, sono stati, incredibilmente, bruciati da improvvide manovre degli inquirenti". E se tutto si fosse svolto con rigore e puntualità che cosa sarebbe successo? La Corte rimarca le pesanti responsabilità degli inquirenti, affermando che un accurato lavoro di indagine avrebbe "con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quanto meno di tranquillante affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell'estraneità" dei due ex-imputati. Nelle 52 pagine della sentenza i Supremi giudici rilevano la "assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili" sia sul corpo della vittima sia nel luogo dell'omicidio, mentre ne sono state trovate numerose "riferibili al Guede", l'ivoriano condannato a 16 anni in via definitiva per l’omicidio "in concorso". Anche la tristemente famosa traccia sul gancetto del reggiseno della vittima non offre "certezza alcuna", poiché, "stante la sua esiguità" è un "elemento privo di valore indiziario".

Errore che rimarrà nella storia, scrive Claudio Sebastiani su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Raffaele Sollecito non ha dubbi che a coinvolgerlo nell’indagine sull'omicidio di Meredith Kercher sia stato "un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia". Lo ha detto dopo avere letto le motivazioni con le quali la Cassazione ha definitivamente assolto lui e Amanda Knox dall’accusa di avere ucciso a Perugia la studentessa inglese. Mentre dall’altra parte dell’oceano la sua ex fidanzata ha sottolineato di essere "molto contenta e sollevata". Nonostante le 52 pagine depositate dalla Cassazione siano arrivate via mail a Seattle quando nella città americana era ancora prima mattina, la Knox le ha subito lette tutte. "Grazie..." ha ripetuto ai suoi difensori, gli avvocati Carlo Dalla Vedova e Luciano Ghirga. "Sono contenta – ha aggiunto - perchè in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto". Motivazioni che ha subito esaminato anche Sollecito. "Da quello che ho letto – le sue parole – emerge chiaramente e definitivamente che sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Le indagini sono state estremamente lacunose e piene di errori. Grazie a tutto ciò ho trascorso quattro anni in carcere più altri quattro di tormento per nulla". Per il periodo passato in cella Sollecito "sicuramente" chiederà di essere risarcito per ingiusta detenzione, come annuncia l’avvocato Luca Maori. Mentre per l’altro difensore, l'avvocato Giulia Bongiorno la Cassazione conferma "una volta di più" che il suo assistito "è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente". E lo ha fatto con una motivazione che "prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini". Per Claudio Pratillo Hellmann, presidente della Corte d’assise d’appello di Perugia che aveva assolto i due giovani dopo la condanna in primo grado "i giudici della Cassazione sono stati più cattivi di noi parlando del modo in cui la polizia ha condotto le indagini sul delitto". "L'unico responsabile – ha aggiunto – è Rudy Guede (definitivamente condannato a 16 anni con l’abbreviato – ndr) e se con lui c'erano altre persone non si può verificare perchè le indagini sono state condotte male". "A distanza di anni – ha sottolineato ancora Pratillo Hellmann - confermo che l’unico elemento certo in questa vicenda giudiziaria è rappresentato dalla morte di Meredith". Secondo i Supremi giudici rimane però certa anche la colpevolezza della Knox per "le calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba". Che ora si chiede: "perchè lo ha fatto?". "Mi ha distrutto la vita – ha aggiunto – in tutti i modi, moralmente ed economicamente. Mi deve risarcire e mi deve chiedere scusa". Di "volontà da parte della giustizia italiana di mettere la parola fine su questa vicenda in ogni modo" ha parlato l'avvocato Francesco Maresca, parte civile nel processo per la famiglia Kercher. Che ha evidenziato "incertezze e dubbi". "Ma le sentenze – ha concluso – si rispettano. E noi rispetteremo questa sentenza tenendoci i nostri dubbi".

"L'Inchiesta Meredith fatta male". Le motivazioni della Cassazione e le dure accuse agli investigatori: "Su Amanda Knox e Raffaele Sollecito prove scarse e contraddittorie", scrive Ang. D. Pie. su “Il Tempo". Il processo contro Amanda Knox e Raffaele Sollecito, accusati di aver ucciso la coinquilina di lei, Meredith Kercher, il primo novembre 2007 a Perugia, ha avuto un iter "obiettivamente ondivago". Nessuna prova, accertamenti incongrui, risultanze investigative approssimative. Inchiesta fatta male insomma. Anzi malissimo. Nessun accento intriso di diplomazia nella motivazioni che ieri mattina ha depositato la Quinta Sezione della Corte di Cassazione, quella stessa Corte che il 27 marzo scorso aveva assolto definitivamente gli ex fidanzatini dall'accusa di essere gli autori del delitto insieme all'ivoriano Rudy Guede, condannato a sedici anni di reclusione. Dopo otto anni di incertezze giudiziarie, epiloghi che si sono susseguiti smentendosi a vicenda, dopo le grasse risate che la stampa estera ha riservato ad un’Italia giuridicamente ritenuta poco autorevole, un finale che è l'equivalente di una frenata a secco. Di più: è una bacchettata a tutti, giudici e investigatori. La Cassazione non palesa incertezze: «Si può escludere la loro partecipazione materiale all’omicidio, pur nell'ipotesi della loro presenza nella casa di via della Pergola, in virtù della assoluta mancanza di tracce biologiche a loro riferibili» nella stanza dell’omicidio o sul corpo della vittima. Sconfessate le analisi sul gancetto del reggiseno della vittima e sul coltello trovato in casa di Raffaele Sollecito. La Cassazione ha smentito con cinquantadue pagine le accuse di altri cinquanta giudici che avevano invece giudicato colpevoli i due ragazzi. Che l’inchiesta abbia avuto un percorso talvolta obliquo è vero. Troppa attenzione da parte dei media e soprattutto, troppa attenzione da parte degli Stati Uniti che si è mobilitata in favore di Amanda Knox arrivando a scomodare persino Hillary Clinton, all'epoca in piena campagna presidenziale. Inchiesta lacunosa, accertamenti svolti con piglio discutibile. Poca perizia utilizzata per un caso così delicato: un delitto che dispone di un movente poco solido e di una vittima che è morta sgozzata dopo aver ricevuto 47 coltellate. Nel «percorso travagliato ed intrinsecamente contraddittorio» del processo per l'omicidio Kercher c’è un «solo dato di irrefutabile certezza: la colpevolezza di Amanda Knox in ordine alle calunniose accuse nei confronti di Patrick Lumumba». Patrick Lumumba era (è) il gestore del bar in cui lavoricchiava la Knox. Lei lo aveva accusato dell’omicidio in maniera trasversale ma efficace, subito dopo la scoperta del corpo di Meredith, sgozzata, nella camera da letto della casa presepiale in cui viveva con altre studentesse fra le quali proprio Amanda Knox. Lumumba ieri ha reiterato i suoi dubbi: «Non riesco proprio a capire per quale motivo Amanda mi abbia accusato. Questa storia mi ha rovinato professionalmente, umanamente, psicologicamente». E c'è da stare certi che i suoi legali stiano preparando una richiesta di risarcimento congrua. Le motivazioni depositate nella giornata di ieri dalla Cassazione puntano il dito contro Rudy Guede, la cui impronta intrisa di sangue fu trovata sotto il corpo della vittima. Restano sparsi qua e là i punti interrogativi e qualche dubbio sul movente ma la storia si chiude senza altra possibilità. «Sono sollevata e contenta» - ha detto la Knox dagli Stati Uniti, parole di felicità avallate dal suo avvocato che ha dichiarato: «In queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto». Il legale ha anche parlato di "bacchettata" dei giudici e di "biasimo solenne". Una volta tanto, devono aver pensato i rigorosissimi americani, anche in Italia è stato usato, sia pur verbalmente, il pugno di ferro. Raffaele Sollecito conta i danni, anche lui: «Rimarrà alla storia il fatto che io sia stato vittima di un clamoroso errore giudiziario. Quattro anni in prigione e quattro anni di tormenti per niente e tutto a causa di indagini lacunose e piene di errori». La famiglia Kercher vive il suo dolore, immutato, in Inghilterra. Già nel marzo scorso, il ventisette, giorno della sentenza della Corte di Cassazione, i genitori si erano dichiarati distrutti ed avevano palesato un dolore mai guarito. «Noi cerchiamo la verità, solo la verità» dissero. Quella verità è arrivata ieri in maniera definitiva, nonostante l’Italia resti mediaticamente divisa fra innocentisti e colpevolisti.

Meredith, un’inchiesta sbagliata che sconvolge tante vite. Gli errori nell’indagine hanno compromesso la possibilità di arrivare alla verità, scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Sono impietosi i giudici della Corte di Cassazione nella scelta dei termini per descrivere le indagini sul delitto di Meredith Kercher e motivare l’assoluzione definitiva di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Perché arrivano a parlare di «amnesie investigative» e di «colpevoli omissioni», ma soprattutto perché chiaramente evidenziano come un’attività seria e accurata avrebbe consentito di raggiungere la verità su quanto accadde la notte del primo novembre 2007 nella villetta di via della Pergola a Perugia. E così rendere giustizia a lei e alla sua famiglia. I genitori e i fratelli di Mez non sapranno mai perché la loro ragazza bella e solare, venuta in Italia per studiare, abbia trovato la morte in una maniera tanto assurda. Quegli «errori gravi» e quelle «scelte discutibili» dei pubblici ministeri e degli investigatori hanno compromesso per sempre il loro diritto a conoscere l’identità dell’assassino e dei suoi eventuali complici. Eppure un appiglio era stato fornito proprio da Amanda, durante la famosa notte trascorsa in questura quando nulla ancora si sapeva dell’omicidio, e lei descrisse le fasi del delitto accusando ingiustamente Patrick Lumumba «in un contesto immune da anomale pressioni psicologiche», mettendolo al posto di Rudy Guede. È bene tenere a mente l’evoluzione di questo processo per comprendere che sbagli, anche apparentemente non gravi, rischiano di compromettere l’esito di un’intera inchiesta. Le moderne tecniche scientifiche possono fornire un supporto formidabile, ma deve appunto trattarsi di un supporto. Credere che tutto possa essere affidato ai risultati di test e analisi è un’illusione che può generare gravissime conseguenze. Bisogna ricordarsi che la ricerca della verità coinvolge tutti i protagonisti: parti lese, imputati, semplici testimoni. E dunque bisogna essere cauti, evitando di travolgere, spesso irreparabilmente, le loro esistenze.

Ciò, nonostante, il 27 marzo 2015, esattamente come il 3 ottobre 2011 fuori dal tribunale dopo la seconda sentenza che li aveva assolti, la città di Perugia si ribella ancora all'assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito. Un'attesa, per la decisione della Cassazione, che è cresciuta in città di ora in ora. Perché la ferita di quell'omicidio della giovane studentessa inglese è ancora avvertita viva nel capoluogo, e sette lunghi anni non sono riusciti a cicatrizzarla. Così, quando le agenzie e i giornali hanno iniziato a battere e condividere sui social network la notizia che i due ex fidanzati sono stati assolti, immediata è stata la reazione rabbiosa dei perugini: «E' una vergogna» è il commento lapidario e sdegnato, il sentimento più diffuso. «Che schifo». «Siamo un Paese allo sbaraglio».

E di questi scemi ne è pena l’Italia. Poveri italioti allo sbaraglio.

Il delitto Meredith e la Cassazione Amanda: mi sento come Alice fuori dal Paese delle Meraviglie. L’americana in lacrime al telefono con gli avvocati: «È tutto quello che sostenevamo» Lei e Raffaele Sollecito annunciano: pronti a chiedere i danni, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. «Io e Colin ci siamo scambiati uno sguardo di sollievo, come Alice quando si sveglia fuori dal Paese delle Meraviglie...». È il sollievo di Amanda Knox, nel giorno in cui la Cassazione - quasi otto anni dopo - fa a pezzi l’inchiesta sul delitto di Perugia, il delitto di Mez. Amanda lo scrive sul West Seattle Herald, il giornale della sua città, poche ore dopo l’uscita delle motivazioni della Suprema Corte. Il suo articolo è pubblicato sul sito del giornale in prima pagina, perché questo è il suo giorno ed è lei è la protagonista assoluta. L’avvocato romano Carlo Dalla Vedova le ha già mandato la mail con tutti i dettagli. La ragazza non sta nella pelle, l’incubo è svanito per sempre, allora parla e piange al telefono con lui e con l’altro legale, Luciano Ghirga: «Mi sono fatta quattro anni di carcere, quattro anni precisi, anzi quattro anni meno due giorni e questi di sicuro non me li ridarà indietro più nessuno. Ma è l’unico cruccio. Per il resto oggi sono contenta, contentissima e voglio dire grazie, grazie, grazie a lei avvocato Ghirga come ho già detto grazie all’avvocato Dalla Vedova. Sì, sono felice». E allora si mette a scrivere, Amanda. Collabora col West Seattle Herald ormai da quasi un anno e il suo articolo è pieno di sensazioni. Racconta di un viaggio, sabato scorso, da Seattle a Tacoma in compagnia del suo fidanzato, Colin Sutherland, un giovane musicista (27 anni come Amanda) che suona la chitarra basso in un gruppo rock e lo chiamano per questo Rombo di tuono. Amanda parla del viaggio, ma è come se parlasse del suo processo. Colin ha vissuto vicino a lei tutto il travaglio dell’ultimo periodo, l’ansia terribile, la paura di essere estradata in Italia in caso di condanna definitiva e, invece, a marzo scorso, la liberazione. Assolta. Forse un giorno lei e Colin si sposeranno, anche se l’avvocato Dalla Vedova dice che per ora non ci sono progetti matrimoniali all’orizzonte. Col gatto Picard acciambellato in grembo, Amanda Knox si gode ora ciò che ha scritto la Cassazione. Colpi di maglio sui metodi utilizzati da chi ha fatto le indagini. «Sono molto sollevata, perché in queste motivazioni ci sono tutte le cose che abbiamo sempre sostenuto», dice all’avvocato Dalla Vedova. Naturalmente, ma ci sono 18 mesi di tempo, verrà il giorno in cui gli avvocati di Amanda chiederanno i danni allo Stato per i 4 anni di carcere ingiusto. Anche l’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso l’altro grande imputato di questa storia, Raffaele Sollecito, dice che la sentenza «prende a bastonate gli errori compiuti nelle indagini» e che Sollecito «è stato processato per anni e tenuto in carcere da super-innocente». La richiesta di risarcimento per ingiusta detenzione, così, è dietro l’angolo. Lo stesso Sollecito lo fa capire: «Sono stato vittima di un clamoroso errore giudiziario che rimarrà nella storia. Grazie a tutto ciò, ho trascorso 4 anni in carcere più altri 4 di tormento per nulla». Già, ma adesso è davvero finita: «Qui piove a dirotto - scrive Amanda da Seattle - ma io amo la pioggia». 

Raffaele Sollecito dopo le motivazioni della Corte di Cassazione: "Chiederò un risarcimento danni per ingiusta detenzione", scrive “Libero Quotidiano”. "Io vittima di un clamoroso errore giudiziario, che resterà nella storia". Così Raffaele Sollecito, dopo aver letto le motivazioni depositate dalla Corte di Cassazione, che ha assolto lui e Amanda Knox, accusati dell'omicidio di Meredith Kercher, sostenendo che nel l'indagine è stata compromessa da numerose defaillance. Sollecito ha detto di aver trascorso quattro anni in carcere per colpa delle lacune nelle indagini evidenziate nella sentenza della Corte. Anche l'avvocato del ragazzo, Giulia Bongiorno, ha commentato la vicenda, affermando che le motivazioni raddoppiano la soddisfazione per l'assoluzione. Secondo la Bongiorno la sentenza "dipinge il quadro di un clamoroso errore giudiziario", a causa del quale, Sollecito è stato in carcere quattro anni da innocente. La Bongiorno ha annunciato che sarà presentata una richiesta di danni per ingiusta detenzione.

"Una sentenza netta Passerà alla storia". L’intervista a Giulia Bongiorno, l'avvocato che ha difeso Raffaele Sollecito, scrive An. D. Pie su “Il Tempo”. L’avvocato Giulia Bongiorno, che ha difeso Raffaele Sollecito aiutandolo ad attraversare questi otto anni di contraddittorietà processuali con il consueto piglio, è visibilmente soddisfatta. Di più: la sua voce tradisce appena appena una emozione profonda che non ha niente a che fare con l’orgoglio professionale. Aver stravinto, dopo aver vinto, sembra costituire un dettaglio che amplifica ma non rappresenta l’essenza di una gioia che appare tutta personale. Dal momento in cui sono state depositate le motivazioni della sentenza che ha assolto al di là di ogni ragionevole dubbio gli ex fidanzatini accusati dell’omicidio dell’inglese Meredith Kercher, è stata investita da una valanga di richieste di interviste. Dall’Italia e dall’estero.

Una sentenza che è motivata con una serie di "bacchettate" contro tutti, è d’accordo?

«Questa è una sentenza che passerà alla storia per la nettezza delle sue affermazioni. Le risultanze di un processo lasciano ombre, lasciano grigiori: in questo caso la Corte di Cassazione ha utilizzato una clava nei confronti degli investigatori, tale era l’evidente innocenza di Raffaele Sollecito e Amanda Knox».

Avvocato, ha già sentito Raffaele Sollecito? Siete ancora decisi a chiedere un risarcimento allo Stato italiano?

«No, non ho ancora sentito Raffaele Sollecito. Non ne ho avuto il tempo, voi giornalisti mi avete letteralmente subissata di chiamate. Sicuramente chiederemo un risarcimento allo Stato. Non subito, almeno tra due settimane. Sollecito è stato arrestato ed ha subìto una ingiustizia enorme, era innocente e ha passato un inferno. Il carcere, i dubbi della gente, i problemi di varia natura. Anni orribili per lui e per la sua famiglia».

La Giustizia italiana esce a pezzi da questa inchiesta: la stampa estera è stata molto severa fino ad oggi riguardo agli sviluppi del caso...

«Quando l’epilogo è di questo tipo significa che il meccanismo ha funzionato, tuttavia è vero che il tema della qualità delle investigazioni va affrontato e forse giudicato severamente. Niente è stato analizzato come avrebbe dovuto: dall’ora del delitto agli accertamenti scientifici».

Ci si chiede allora perché l’accanimento contro l’americanina dagli occhi di ghiaccio e l’ex fidanzato forse a quei tempi succube della sua amica del cuore spregiudicata e indubbiamente sfrontata. Sono state due vittime, insomma?

«Accusare loro due significava rassicurare Perugia. In giro non c’era un mostro, ma il delitto era la tragica conseguenza di un gioco erotico fra ragazzi. Diciamo che i due ragazzi sono stati messi in mezzo perché erano la soluzione più facile, quella semplice in grado di chiudere il caso velocemente, con buona pace di tutti. Non ha contribuito ad aiutarli l’atteggiamento in aula di Amanda Knox, che ai media sembrava sfilare più che partecipare a un processo, le telecamere indugiavano sulle sue magliette aderenti».

Il sistema giudiziario italiano meriterebbe una riforma?

«Io sono molto critica nei confronti di questo Governo. Renzi non ha fatto proprio niente per la Giustizia, la svolta che si attendeva non c’è stata. Non dico che sia necessario eliminare i gradi di giudizio, questo no, ma sicuramente c’è bisogno di una riforma. C’è inoltre una scarsa attenzione verso l’errore giudiziario, sono necessari nuovi meccanismi per l’effettuazione di indagini più celeri».

Già. Chi lo dice ai voltagabbana dei media giustizialisti che loro fanno schifo? Ora tutti a battere la notizia clamorosa dettata dalla Cassazione. Fino a ieri, invece a stilare gocce di dubbio sull’assoluzione di Amanda e Raffaele.

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Chi sventola cappi finisce impiccato sui suoi patiboli. Il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso. È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'intolleranza, scrive Arturo Diaconale su “Il Giornale”. A differenza di quanto ha sostenuto Raffaele Cantone non trovo per nulla meritoria la decisione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi di emettere liste di proscrizione di presunti «impresentabili» alla vigilia delle elezioni regionali di domenica prossima. E, sempre a differenza di quanto affermato dal presidente dell'autorità Anticorruzione non considero soltanto «pericoloso» che a dare patenti di presentabilità sia una autorità politica e non una autorità giudiziaria. In realtà il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso (ma Cantone si rende conto della contraddittorietà delle sue affermazioni?). È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'arbitrio, della prevaricazione, dell'intolleranza. In una parola verso il trionfo di un giacobinismo terroristico incompatibile con il sistema democratico e funzionale ad ogni tipo di avventura autoritaria. La Costituzione stabilisce che la linea della presentabilità o meno di un cittadino nella vita pubblica è fissata dalla presunzione d'innocenza. Se si è condannati in via definitiva si è «impresentabili». Prima di questa condanna si continua ad essere titolari dei diritti civili e politici. Ma questa linea, che è quella della verità giudiziaria, è stata superata da tempo. L'egemonia giustizialista degli ultimi vent'anni l'ha ridotta a reperto archeologico, da considerare abrogata di fatto dalla Carta costituzionale. Ad essa è stata sostituita prima quella della incensurabilità delle persone. Che stabilisce la presentabilità o meno a seconda se si sia incensurati o no a prescindere dalla gravità dei reati. Una linea che è sempre legata alla «verità giudiziaria». E, successivamente, quella della eticità e della moralità del comportamento delle persone. Linea che supera il confine fissato dai giudizi della magistratura, che comunque debbono rispondere ai criteri della equanimità, della terzietà, dell'oggettività, e stabilisce che la presentabilità debba discendere dal giudizio etico e morale dato da una opinione pubblica normalmente influenzata dal circuito mediatico-giudiziario. Con la presentabilità dipendente da un giudizio etico e morale siamo già ampiamente fuori del perimetro costituzionale. Ma con la scelta della commissione Antimafia di stilare liste di proscrizione si compie un salto più lungo e decisivo. Si stabilisce che la linea della presentabilità è data dalla verità politica. Una verità che non risponde mai ai valori ma sempre alle convenienze. Che per definizione non può mai essere equanime, terza, oggettiva ma sempre di parte. Che dipende da maggioranze variabili, occasionali, aleatorie. E che, soprattutto, viene regolarmente imposta da chi urla più forte e sventola più minacciosamente cappi, forche e manette per suggestionare una opinione pubblica naturalmente portata, in tempi di crisi, a scaricare le sue paure e tensioni sui facili capri espiatori. È dai tempi di Gesù e Barabba che la verità politica provoca aberrazioni. Rosy Bindi, che si dice cattolica, dovrebbe ricordarlo. E chi lo ha dimenticato dentro la commissione Antimafia in nome di un giacobinismo strumentale e da operetta non solo dovrebbe tenerlo a mente ma anche non dimenticare mai che a lungo andare i giacobini intolleranti finiscono con salire sui patiboli da loro stessi impiantati. I puri hanno sempre in sorte di trovare i più puri che li epurano!

Una legge contro la proscrizione, scrive Maddalena Tulanti su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Brutta giornata ieri per i candidati presidenti alla regione Puglia. Rosi Bindi, presidente della commissione antimafia, ha reso noto (per la verità nel suo staff dicono che c’è stata la solita fuga di notizie) i nomi dei candidati pugliesi che sarebbe stato meglio non mettere in lista, i cosiddetti “ impresentabili”, e sono stati dolori per Emiliano, Schittulli e Poli Bortone. Ne sono stati individuati 4, due sono schierati nel movimento di Schittulli, 1 per Poli Bortone e 1 per Emiliano. I soliti malpensanti si sono chiesti come mai sono usciti solo i nomi dei candidati pugliesi e qualcuno addirittura ha lasciato intendere che dopo la sparata di Emiliano contro la presidente Bindi di qualche giorno fa era il minimo che il quasi governatore si potesse aspettare. Noi non ci crediamo, riportiamo il pettegolezzo solo per far comprendere quanto il clima si stia avvelenando mano a mano che ci avviciniamo alla giornata del voto. I nomi degli “impresentabili” li avrete letti nelle cronache, evitiamo di farli di nuovo e non a caso. A noi le liste dei cattivi non sono mai piaciute, nemmeno a scuola quando la maestra ci chiedeva di farlo mentre lei si assentava. Come quelle di proscrizione, queste liste sono sempre fatte a fin di bene, per mantenere o un ripristinare l’ordine costituito, e abbiamo imparato da tempo quanto inferno può nascondersi dietro a un bisogno di paradiso. Detto questo, non è che ci piaccia che le liste, quelle elettorali stavolta, siano formate senza badare a chi ci fa parte, contando soprattutto sulla “quantità” dei voti che un candidato/una candidata è capace di portare invece che sulla “qualità” di quello che egli/ella rappresenta. Che si fa allora? Si fa finta di niente o si accetta il disonore pubblico? Non si può fare finta di niente, è evidente. Se la commissione antimafia si è messa a spulciare ogni lista presentata in tutte le regioni in cui si vota è probabile che il sospetto che si eleggano persone colluse con poteri criminali o semplicemente che hanno avuto a che fare con la legge, esiste eccome. Quindi ben venga la ricerca delle pecore nere. Ma non per questo si deve agire con l’accetta. Siamo di fronte a un equilibrio delicatissimo, da una parte c’è il diritto a essere considerato una persona perbene fino all’ultimo grado di giudizio; dall’altro bisogna garantire a chi si reca alle urne la certezza che su nessuna delle persone scese in campo possa essere sollevato un dubbio di nessun genere. Insomma se ne esce in un unico modo, attraverso la legge. Si cambino le regole, si decida chi può essere candidato e chi no in maniera più severa. E poi solo silenzio.

Le liste di proscrizione. La bomba illegale della Bindi sulle elezioni amministrative 2015, scrive Magazine Donna. Con una scelta che dire grottesca è poco, Rosy Bindi e la sua commissione parlamentare antimafia venerdì 29 maggio 2015 – a quarantotto ore dalle elezioni regionali – compileranno una lista di proscrizione elencando i politici inseriti in lista dai vari partiti e accettati dagli organi di controllo che invece sarebbero «impresentabili» in base a un fragile codice di buona condotta. La Bindi e i suoi avrebbero dovuto rendere nota quella lista ieri, ma hanno litigato un bel po’ in ufficio di presidenza e dopo ore hanno offerto due sole sentenze: in Liguria nessun candidato è risultato «impresentabile», e in Puglia invece ce ne sarebbero 4, rigorosamente bipartisan: Giovanni Copertino (Forza Italia, circoscrizione Bari); Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano, circoscrizione Bari); Massimiliano Oggiano (Oltre con Fitto, Schittulli presidente, circoscrizione Brindisi) e Enzo Palmisano (Movimento politico per Schittulli, area popolare, circoscrizione Brindisi). I soli quattro nomi apparsi nella prima bozza della lista di proscrizione fan ben capire come l’operazione sia squisitamente politica, probabilmente mira a Matteo Renzi e ai suoi candidati (la Bindi fa parte della minoranza del Pd), e di tecnico abbia ben poco. Tutti e quattro i candidati pugliesi ritenuti «impresentabili» hanno effettivamente avuto problemi con la giustizia in passato. Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali. Siccome la legge c’è, e viene applicata, la Bindi e l’ufficio di presidenza dell’antimafia sanno benissimo che qualsiasi candidato bolleranno come «impresentabile» venerdì prossimo (con un pessimo servizio anche agli elettori, visto che glielo dicono a cose ormai fatte), non lo sarà affatto: per la con-testatissima e dura legge vigente, saranno tutti sia presentabili che eleggibili. Senza stare a girare troppo intorno, c’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale: perchè mai Renzi ha accettato quella candidatura e si è speso addirittura a fare campagna elettorale per un candidato-fantasma? Questa è l’unica domanda lecita che si potrebbe fare, tutto il resto fa parte di un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. E per fortuna è così, visto il tipino peperino. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione: i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire e fermare quello che sembra più che altro un regolamento di conti interno ai vari partiti politici. Si può giudicare «politicamente» impresentabili dei candidati anche incensurati, o che abbiano su di loro il sospetto di una inchiesta allo stato iniziale. Questa è scelta legittima se fatta in una polemica politica, in un editoriale, in una battaglia giornalistica. Non da una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone che fa diventare «impresentabile» qualcuno il reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, si faceva prima a buttare via tutte le liste e rinviare le regionali a migliore occasione…

Precedenti da far rabbrividire, scrive Mattia su "Butta". Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. (art. 49 della costituzione italiana). Mi sa che questa cosa degli impresentabili sia un po’ sfuggita di mano. Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto. Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi. Ma fin tanto che è la parola di alcuni privati cittadini, per quanto scorretta, tale rimane. Dove hanno perso la testa è stato alla commissione anti mafia. Dicono che entro venerdì usciranno con una lista di candidati impresentabili. Ohi, non sto parlando di privati cittadini, ma di una istituzione. Un pezzo del parlamento che si riunisce e fa la lista dei candidati che sono degni e dei candidati che sono non degni. Una roba da far rabbrividire i capezzoli. Ah, ma dicono, le indicazioni non sono vincolanti! E ci mancherebbe altro. Figuriamoci se un organo politico come un pezzo di parlamento avesse il diritto di decidere di espellere dalle liste chi non gli garba. Eh, però – aggiungono – si limitano ad applicare il codice di autoregolamentazione dei partiti. Che però ha il valore legale di un peto. I partiti (o meglio, alcuni partiti) possono anche trovarsi un pomeriggio sotto un albero e fare un pinchi suee decidendo di non candidare chi si trova in certe condizioni. Ma  tutto il resto del paese non è tenuto a rispettarlo. Se i partiti vogliono che chi si trova nelle condizioni di Caio non sia candidabile approvino una legge in parlamento che dice proprio questo. Quando sarà legge dello Stato tutti saremo obbligati a rispettarla, ma finché rimane un pinchi suee dei partiti no. Forse non percepite la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, una istituzione, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni. Oggi fanno la lista di proscrizione in base al loro patto tra partiti (senza valore giuridico), domani si allargheranno e diranno che sono impresentabili quelli che hanno fatto un provino per il Grande Fratello o che nella vita fanno gli operai. Se ci fosse un presidente della repubblica degno di questo nome avrebbe già preso il telefono, avrebbe chiamato la Bindi e le avrebbe detto “senti Rosaria, adesso tu prendi un quaderno, penna e calamaio e scrivi 500 volte l’art. 49 della costituzione. Poi quando hai finito me lo porti al colle e mi prometti di non fare più certe stronzate, ok? Piesse: e non dico niente su quello che dovrebbe fare la Boldrini perché quella mi sa che la costituzione non l’ha neanche mai letta.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.

Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.

Per tutti coloro che si limitano a diffondere e condividere articoli di cronaca attinenti la mafia, che provino a leggere, ed eventualmente diffondere, i capitoli del mio libro “Mafiopoli. L’Italia delle mafie” o di “Palermo e la Sicilia. Quello che non si osa dire”. Non mi arrischio a dire che costoro devono leggere tutto il trattato, ma almeno conoscere il contenuto di soli due capitoli: LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET; LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA. Per i malpensanti che credono che voglia pubblicizzare le mie opere, a loro dico che possono leggerli in parte gratis su Google libri. Poi ai grillini dico: che il vostro guru sia di Genova e che badi solo ai soldi è un dato di fatto. Che voi veniate da Marte e non siete macchiati dall’italica vergogna e quindi siete di specchiata illibatezza ed onestà è una vostra presunzione. Però fareste cosa giusta se, anziché combattere contro i privilegi della sola casta dei politici, lottaste per togliere i privilegi di tutte le caste e le lobbies e cosa più importante togliere loro il potere, specialmente alla magistratura. Sempre che abbiate il coraggio e la capacità di farlo.

Ed invece.....

C'è l'Italia a 5 stelle. Casaleggio vuole processi infiniti per tutti. Casaleggio: le prime tre cose che faremo al governo. «Via prescrizione» Grillo: «Come? Ho 40 processi aperti». Botta e risposta (a distanza) tra il guru e il comico. Tra i primi punti: “Per la pubblica amministrazione sceglieremo sulla base della fedina penale", scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 18 ottobre 2015. Inizia con Casaleggio che fa un giro per gli stand della piazza grillina di Imola. Pochissime parole, circondato da un servizio d’ordine severissimo, il guru del Movimento ha aggiunto qualche elemento in più rispetto a quanto detto dal palco di sabato sera, quando ha spiegato che la squadra di governo dei 5 stelle sarà scelta dagli iscritti. «Tra i primi punti del nostro programma (che sarà anch’esso votato dalla base come annunciato sabato sera, ndr), c’è eliminare la corruzione con gli onesti». Un refrain del Movimento dunque. Ma poi Casaleggio, dopo aver dribblato le domande sull’abolizione del nome di Grillo dal logo, va oltre con un annuncio più sostanzioso «Metteremo mano alla giustizia abolendo la prescrizione», dice a voce bassissima. Una notizia che però non piace troppo a Grillo. Ai microfoni di CorriereTv, il comico (anzi, l’Elevato come ha chiesto di essere chiamato ieri) sbotta: «Come abolire la prescrizione? Io c’ho 40 processi». Poi scherza e, a un cronista che gli chiede delle unioni civili, dice: «1,2,3 al mio tre ti dimenticherai le domanda». Il tutto mentre una signora tenta di baciarlo e la sicurezza la respinge in malo modo. È ancora Casaleggio a dare le risposte più politiche, ossia «mettere persone oneste nelle amministrazioni». E Il primo criterio sarà «la fedina penale», i sospettabili non sarà possibile sceglierli. A scegliere persone e proposte, ancora una volta saranno gli attivisti, attraverso la piattaforma «che è in grado di accogliere i contenuti, che possono essere tanti e diversi». Il problema sarà piuttosto fare una sintesi, è l’ammissione del guru che annuncia anche dei miglioramenti sulla piattaforma. Sui tempi Casaleggio non si sbottona. Ma assicura che lo stesso sistema sarà applicato anche per scegliere i candidati sindaco. Insomma, si preannuncia vivace la seconda e ultima giornata della kermesse grillina. E c’è anche una piccola contestazione, «chiedetegli ai grillini quanto hanno pagato per l’affitto dell’autodromo!», dice un ragazzo in rollerblade e poi scappa via. Mentre la piazza aspetta il gran finale di stasera con Alessandro Di Battista. All’ora di pranzo, Grillo torna sul palco e grida: «Non siamo un movimento siamo una finanziaria della Madonna». E poi ripete: «Siamo l’arca di Noè, siamo la salvezza. E pensate quando la moglie di Noè gli diceva che cazzo stai facendo?», scherza. Poi cita Bob Kennedy (il Pil non è indicatore di benessere). Ma anche Willy il Coyote (“che corre anche quando non c’ha il terreno sotto i piedi”) ma anche le amebe osservate da uno studioso giapponese che ad un certo punto hanno iniziato a muoversi («Sono come me e Casaleggio»). E il filo rosso della kermesse di Imola rimane l’utopia: «Non abbiamo bisogno di leader e di guru. E nemmeno di Elevati. Abbiamo bisogno di un paese in cui i nostri figli vogliano rimanere».

 M5S, Casaleggio: "Se andiamo al governo eliminiamo la prescrizione", scrive “Libero Quotidiano”. "La prima cosa da fare è eliminare la corruzione con l'onestà, mettere mano alla giustizia ed eliminare la prescrizione". Lo ha detto Gianroberto Casaleggio rispondendo dalla festa dei 5 Stelle a Imola ai giornalisti che gli chiedevano le prime tre cose da fare se il Movimento 5 Stelle andasse al governo. Poi, ha proseguito Casaleggio, "bisogna mettere persone oneste nelle amministrazioni scelte in base alla fedina penale. I sospettabili - ha sottolineato - non sarà possibile sceglierli". "Casaleggio? Pura follia" - "La proposta di Casaleggio è pura follia. Con la lentezza dei processi in Italia e con l'uso politico che si fa della giustizia nel nostro Paese, eliminare la prescrizione vorrebbe dire tenere ogni singolo cittadino in ostaggio per tutta la vita", è il commento di Elvira Savino, deputata di Forza Italia. "Le parole dello stratega della comunicazione di Grillo - aggiunge Savino - dimostrano tutta la pericolosità del Movimento 5 stelle, profondamente illiberale e fondato sul giustizialismo. Il grillismo è un riadattamento ai tempi moderni di quel dipietrismo che è già fallito e che tanti danni ha prodotto al nostro Paese". «I grillini confermano la loro imbarazzante inclinazione al becero giustizialismo» aggiunge la collega di partito Gabriella Giammanco.

Il fatto che qualcuno additi qualcun altro di essere ladro è storia vecchia.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...

Già perché la mafia è “cosa nostra” ed i suoi beni sono “roba nostra” dice Don Ciotti.

Per capire il particolare bisogna conoscere il generale.

«Fino al 1993 fuori dalla Sicilia non c'era la percezione che la mafia fosse un'emergenza sociale», ricorda Marcello Cozzi, memoria storica del movimento Libera fondato da don Luigi Ciotti. «Ricordo la stanzetta messa a disposizione dalle Acli per le prime riunioni, gli incontri con Giancarlo Caselli. Poi i banchetti nel marzo del 1995 per raccogliere le firme in favore della confisca dei beni ai mafiosi. Mai avremmo pensato di arrivare a un milione di sottoscrizioni e una legge già nel marzo del 1996». Da tutta Italia centinaia di ragazzi arrivano per lavorare sui terreni confiscati ai boss; nonostante intimidazioni e difficoltà nasce il consorzio “Libera Terra”, che coordina le attività delle coop di Libera. Ma già dodici anni dopo le stragi la rabbia sembra sbollire, fino a quando, la mattina del 29 giugno 2004, le strade del centro di Palermo sono tappezzate da adesivi listati a lutto con una frase lapidaria: "Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità". Nessuna rivendicazione, fino a quando diversi giorni dopo, un gruppo di "uomini e donne abbastanza normali, cioé ribelli, differenti, scomodi, sognatori" rompe l'anonimato. Sono gli attacchini del comitato Addiopizzo, i nipoti di Liber', li battezza Pina Maisano Grassi, arrivano qualche anno dopo il primo comitato antiracket fondato da Tano Grasso, nel Messinese, a Capo D'Orlando.

Ma una domanda sorge spontanea: ma chi paga tutto l'ambaradan della Carovana cosiddetta antimafia?

Ostia, continua lo scontro Sabella-MoVimento 5 Stelle su Libera. Il MoVimento attacca: "Ha appeso la toga al chiodo e si diverte a fare il politicante". La replica: "Ferrara mi ha querelato o si è limitato a minacciare". Ormai è scontro aperto tra il MoVimento 5 Stelle e l'assessore alla Legalità del comune di Roma, Alfonso Sabella, scrive "Il Tempo" il 27 settembre 2015. Al centro di tutto il dossier che Il Tempo ha svelato in anteprima in cui i grillini, parlando di mafia ad Ostia, avanzavano dubbi sulla gestione di alcuni beni da parte dell'associazione Libera di don Luigi Ciotti. L'esistenza del dossier è stata prima smentita dai diretti interessati, poi ammessa ma con un distinguo: si tratta di una bozza. Fatto sta che il testo esiste e non è piaciuto né a Libera, né a Sabella che ha accusato il rappresentante del M5S a Ostia, Paolo Ferrara, di attaccare don Ciotti e i suoi per "interessi personali". Ferrara ha in parte risposto alle accuse dell'assessore con questa intervista. Ma oggi arriva anche la replica dei consiglieri comunali romani del MoVimento. Replica che Beppe Grillo pubblica in apertura del proprio blog. "È ormai evidente - scrivono Daniele Frongia, Marcello De Vito, Virginia Raggi e Enrico Stefano - che dalla nomina politica ricevuta dal Pd, Sabella ha praticamente appeso la toga al chiodo e da diverso tempo si diverte a fare il politicante da bar. Proprio come i suoi colleghi Orfini ed Esposito (l'ultimo, secondo quanto emerso in questi giorni ed, potrebbe risultare coinvolto per gli appalti della Tav), ne spara quante può, di qua e di là, una dietro l'altra, convinto che il suo trascorso a Palermo gli abbia dipinto sulla testa l'aureola del santo. Sbagliato". A questo punto il M5S, che "non prende lezioni di legalità da nessuno" risponde punto su punto alle accuse di Sabella: "il 3 marzo 2015 il M5S Ostia ha presentato un ordine del giorno in cui elencava le irregolarità su tutte le spiagge del litorale romano"; "recentemente abbiamo presentato un'interrogazione dove chiediamo di fare chiarezza in merito ad alcuni articoli di giornale che parlano di irregolarità rilevate all'interno della Spiaggia Libera-SPQR, data in concessione all'Ati (Associazione territoriale d'impresa), composta da Uisp Roma e Libera. È quello che facciamo da sempre: non fermarci alle parole, ma andare subito ai fatti. Abbiamo chiesto di accertare le eventuali irregolarità e la loro rilevanza. Libera, come tutti, non è al di sopra della legge. Da questa legittima richiesta di trasparenza e legalità, Sabella vorrebbe affermare che il M5S è contro Libera. Il M5S non è contro Libera, ma contro l'illegalità"; "a sostegno delle sue colorite tesi, l'assessore Sabella - proprio come Esposito e Orfini - parla spesso di un incontro segreto fatto da alcuni esponenti locali e nazionali del M5S con le sigle sindacali delle associazioni balneari che si occupano del litorale romano. Anche questo è falso. Quell'incontro si svolse il 25 giugno alla luce del sole e fu diffuso dai canali istituzionali del MoVimento"; "La scorsa settimana Sabella ha detto chiaramente che Roma non è mafiosa, ma è corrotta, come se le due cose fossero completamente sconnesse. Da magistrato dovrebbe andare a rileggersi il parere dei Ros. Forse, abituato a Palermo, crede servano ancora i santini per parlare di mafia. Noi ci limitiamo ricordargli che il tribunale di Roma su alcuni soggetti sta procedendo per associazione mafiosa. I grillini ricordano quindi all'assessore che per aderire al M5S ogni cittadino deve presentare la sua fedina penale: se è pulita può iscriversi, se è sporca rimane fuori la porta e concludono: "Il PD è roba vecchia. Roba marcia. il futuro è a 5 Stelle".

La replica. La querelle, ovviamente, non finisce qui. Anzi, a stretto giro di posta arriva la replica di Sabella. "Cari Daniele, Marcello, Virginia e Enrico - esordisce -, con riferimento al vostro post sul blog del vostro capo supremo, tralasciando di infierire sulla enorme quantità di inesattezze di cui è infarcito - e in attesa di leggere le vostre pubbliche scuse a Don Luigi Ciotti, assolutamente doverose per quanto di straordinario lui e Libera hanno fatto e continuano a fare per questo Paese - tengo a precisarvi alcune cose". La nota è piuttosto lunga e ruota soprattutto attorno al ruolo di Ferrara. "Prendo atto - sottolinea - che M5S non è contro Libera ma mi spiegate perché presentate un'interpellanza solo ed esclusivamente sulle sanzioni applicate a Libera e chiedete, addirittura, la revoca solo ed esclusivamente dell'assegnazione della spiaggia a Libera e ve ne state zitti zitti su tutti gli altri concessionari di spiagge, chioschi e stabilimenti plurimultati e che per decenni hanno sottratto il mare di Roma ai cittadini? Guarda un po' che combinazione?". "A proposito - prosegue - a Palermo non guardavo i santini (quanto piace pure a voi folklorizzare la mafia! Ma da che parte state veramente?) ma qualche centinaio di morti ammazzati all'anno, qualche bambino sciolto nell'acido e qualche tratto di autostrada o pezzo di quartiere che saltava in aria portandosi via altre vite umane e, mentre voi vivevate sereni nella bambagia, stanavo e arrestavo i responsabili, li facevo condannare a centinaia di ergastoli e migliaia di anni di galera, sequestravo i loro beni e i loro missili terra aria e vivevo, necessariamente solo come un cane, sotto sacchi di sabbia e lastre d'acciaio blindate. E attenzione: sto parlando di Brusca, Bagarella, Aglieri, Vitale, Cuntrera, Mangano, Cannella, Farinella, Di Trapani, Riina (figlio), Guastella, Greco, Madonia e un altro mezzo migliaio di nomi analoghi. Prendo comunque atto della vostra più elevata competenza in materia e mi inchino di fronte a cotanta scienza (!)". Quindi l'affondo su Ferrara: "Quanto all'interesse personale del Sig. Ferrara (a proposito mi ha querelato veramente, oppure si è limitato a minacciare le solite denunce e interpellanze come ama fare? Mi interesserebbe saperlo perché ho bisogno di soldi visto che io, solo per servire il mio Paese in questo attuale ruolo e non certo per cercare inutile visibilità, mi sono dimezzato lo stipendio) ho preso solo atto di queste evenienze:

a) Ferrara è amico del Sig. Bocchini tanto che ne ha celebrato le nozze come consigliere di Municipio. E non lo dico io ma lo sa tutta Ostia e lo dice, anzi lo diceva, lui stesso sulla sua pagina FB l'altro ieri, 25 settembre, "Sposare un conoscente, amico e compagno di scuola che abbia avuto piccoli precedenti...." Anche se oggi, 27 settembre, sul Tempo afferma "Lo conosco ma non è un mio amico". Ma hanno litigato giusto ieri mattina?

b) Bocchini era giusto giusto il precedente gestore della spiaggia Ammanusa che è stata poi assegnata a UISP e Libera perché si è accertato che Bocchini aveva precedenti penali, anche specifici (occupazione abusiva di beni demaniali), e nemmeno dichiarati.

c) Quando io, che non guardo in faccia a nessuno (PD compreso: ricordate, per esempio, la vicenda del Roma Capital Summer del VI Municipio oltre a quella di Ostia?), ho fatto controllare tutti i titolari di concessioni e spiagge sul litorale, tra cui anche Uisp e Libera (peraltro sanzionate solo per un paio di lievi irregolarità sanitarie) l'attento Ferrara, l'1 agosto scorso, in un pubblico comunicato dal titolo 'M5S: Ritirare concessioni spiagge a Uisp e Libera' ha dichiarato che avrebbe scritto a Don Luigi Ciotti e che avrebbe presentato 'un'interrogazione su questi gravi fatti che se confermati devono portare immediatamente al ritiro delle convenzioni ma non già di tutte quelle (la quasi totalità) in cui erano state rilevate violazioni amministrative (e men che meno in quelle laddove, illegalmente, si continua a negare il mare ai cittadini) ma solo ed esclusivamente di quelle inerenti la spiaggia gestita da Uisp e Libera. Mi spiegate perché? Perché solo Libera o, meglio, perché solo la ex spiaggia di Bocchini? Eppure dovreste saperlo bene visto che anche voi - e guarda sempre il caso, poco prima che cominciasse a circolare nelle redazioni dei giornali il vostro, in parte ora rinnegato, dossier - avete fatto esattamente la stessa cosa presentando, il 3 settembre scorso, un'interpellanza in cui mi chiedete di revocare la convezione solo ed esclusivamente a Libera.

d) Nell'articolo del Tempo che illustra il vostro dossier (a proposito ne sono in possesso e ho il 'leggerissimo' sospetto che, com'è avvenuto in altre occasioni, vi siete avvalsi delle solite, e oggettivamente singolari, consulenze esterne degli amici-nemici del Sig. Ferrara; e, come sapete benissimo, non parlo di Bocchini in questa occasione) guarda caso si tratta, in maniera oggettivamente estemporanea, anche del ruolo oscuro che, secondo le vostre originali ricostruzioni, avrebbe avuto a Ostia perfino l'ottimo avvocato Rodolfo Murra che, guarda sempre il caso, è proprio colui che, nei due soli mesi in cui ha diretto il Municipio di Ostia, ha scoperto i precedenti penali di Bocchini e gli ha tolto la gestione della spiaggia e, guarda sempre il caso, è pure l'avvocato che, vincendo prima al TAR e poi al Consiglio di Stato, ha tutelato gli interessi del Comune nella causa intentata da Bocchini per riottenere la spiaggia. Ma guarda un pò che sommatoria di coincidenze!

e) Come sapete benissimo la spiaggia SPQR a Ostia dà fastidio ai balneari perché introduce un nuovo e libero modo di accesso al mare e sempre Ferrara, guarda un pò ancora che coincidenza, è colui che ha organizzato un incontro occulto (nessuno sa, invero, di cosa si sia parlato e sarebbe il caso che finalmente lo spiegaste ai vostri stessi sostenitori che lo hanno ripetutamente chiesto a Ruocco su FB senza ancora oggi ottenere una risposta: grande trasparenza!) tra almeno una deputata del vostro Movimento e i predetti imprenditori 'onesti che non si sono mai piegati alla logica delle mazzette ... senza mangiarsi la città' e che, come si diceva, guarda caso, sono proprio i maggiori interessati a far fallire il modello di balneazione proposto da UISP e Libera. Per molto, ma molto, meno Voi crocifiggete chiunque. Io mi sono solo limitato ad avanzare un più che legittimo sospetto e che, sono certo, anche i vostri sostenitori non potranno che condividere e fare proprio. Mio nonno mi diceva sempre di 'non confondere 'a minchia cu 'u bummulù. Voi evidentemente non state molto ad ascoltare i vostri nonni forse perché, come Narciso, siete troppo impegnati ad autocompiacervi della vostra onestà e presunta superiorità etica senza guardare oltre il riflesso esteriore della vostra immagine. In questo caso, però, attenti: il riflesso non è quello cristallino della pozza di Nemesi ma dell'acqua limacciosa della palude di Ostia!".

«False le accuse di Sabella Anche lui ormai fa politica». Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, si difende dagli attacchi, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ci tiene a rispondere alle accuse che ha ricevuto. Paolo Ferrara, consigliere comunale del M5S a Ostia, il Municipio romano sciolto per mafia, attacca l’assessore comunale alla Legalità, l’ex magistrato Alfonso Sabella, e ribadisce l’impegno a verificare il business sulle spiagge, «tutte, compresa quella gestita da Uisp e Libera».

Consigliere Ferrara, l’assessore Sabella dice che lei avrebbe «interessi personali» sulla spiaggia assegnata all’associazione Libera. È vero?

«Falso. Querelo Sabella, non può dire che ho un interesse personale solo perché ho celebrato il matrimonio di una persona».

Si riferisce a Roberto Bocchini, l’ex gestore della spiaggia assegnata proprio all’associazione Libera.

«Sì. Vivo a Ostia da sempre e lo conosco ma non è un mio amico. Ho celebrato il suo matrimonio come tanti altri. Con questo principio, Sabella dovrebbe contestare anche il prete che ha sposato Totò Riina».

Ma allora perché Sabella ha detto quelle cose?

«Sta strumentalizzando la situazione. Noi abbiamo depositato molti atti che denunciavano il malaffare sulle spiagge di Ostia, chiedemmo proprio a lui di intervenire».

È una manovra politica?

«Il Pd sta cercando di recuperare. A Ostia è scomparso, il loro presidente di Municipio è stato arrestato, il Consiglio è stato sacrificato per salvare Roma».

D’accordo Ferrara, però nella relazione che il M5S doveva consegnare alla Commissione Antimafia ci sono delle accuse a Libera.

«Quella relazione è una bozza a cui hanno lavorato tanti 5 Stelle ma che va ancora condivisa da tutti. È un lavoro preliminare, che verrà comunque modificato».

E il paragrafo su Libera?

«Noi non accusiamo Libera, chiediamo di verificare tutte le irregolarità che la Finanza ha trovato sulle spiagge di Ostia, compresa quella gestita dall’associazione».

Che tipo di irregolarità erano quelle sulla spiaggia di Libera?

«Non ricordo nello specifico, ma ci sono i verbali della Finanza e ne hanno scritto i giornali. Dopo queste notizie i consiglieri comunali del M5S hanno presentato un’interpellanza all’assessore Sabella ma non solo su Libera, su tutti».

Cosa chiedete nell’interpellanza?

«Se ci sono le condizioni per togliere le concessioni a quelli che hanno commesso irregolarità».

Che ne pensa della conferenza stampa di Libera in Campidoglio e delle dichiarazioni degli esponenti del Pd?

«Il Pd ha strumentalizzato Libera, cercando di approfittare della situazione».

Che le hanno detto i cittadini di Ostia in questi giorni?

«Ho avuto grande sostegno da tutti e dal MoVimento, che qui è molto radicato. A Ostia abbiamo preso il 36% alle ultime Politiche, il 34% alle Europee. Ora stiamo al 50%. Se ne è accorto anche il Pd».

I silenzi scomodi di «Libera» su Tassone. Ostia, l’associazione finisce nel dossier dei 5 Stelle depositato all’Antimafia «Coinvolta nella gestione di stabilimenti balneari affidata senza bando», scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo" C’è il caso di Libera, la quale più che un’associazione antimafia è dipinta come una specie di «spa» che gestisce stabilimenti balneari a Ostia. Poi c’è l’ex presidente del Municipio, il plurindagato Andrea Tassone, che attraverso una giornalista che glorifica le sue attività, attacca le altre associazioni territoriali contro la criminalità organizzata. Infine una rete di politici, come il senatore Stefano Esposito, che invece di «preoccuparsi delle infiltrazioni e collusioni del Pd, riscontrate nelle ordinanze di Mafia Capitale», distrarrebbe «l’attenzione dei cittadini e della stessa Commissione Antimafia». Questo, a grandi linee, il contenuto della relazione «Mafia e litorale romano: il caso Ostia» messa a punto dal Movimento5Stelle e depositata all’Antimafia, presieduta da Bindi. Un capitolo importante riguarda le associazione antimafia. Libera, per esempio, ha in «gestione stabilimenti balnerari (Spqr), con assegnazione per affidamento diretto senza bando pubblico». In particolare, è annotato nell'atto, «non potendo per statuto gestire stabilimenti balneari, figura nell'affidamento dei servizi della spiaggia libera ex-Amanusa assieme a Uisp solo come portatrice di eventi per divulgare mezzi e strumenti nella lotto contro le mafie». Tuttavia, ritengono i 5Stelle, «da quando ha avuto l'affidamento nulla di ciò è mai stato organizzato». Infatti, risulta che «l'ultima iniziativa di Libera risale al 2011, una fiaccolata denominata "Liberiamo Ostia dalla Mafia". Poi più nulla». A Libera, inoltre, «viene contestato il silenzio non solo sui maxi appalti e sulla gestione degli appalti pubblici, ma anche sulla non ratifica del protocollo dell'associazione antimafia DaSud da parte della giunta e soprattutto sulla poca trasparenza dell’amministrazione del X Municipio, che ha portato poi all'arresto di Tassone». In relazione a questo presunto «silenzio», i 5Stelle affermano che «tramite Uisp», Libera «è entrata nella gestione controllata della spiaggia ex-Faber Beach con l’associazione Stand-Up e nell’affidamento diretto del Terzo Cancello (associazione Yut) presso la spiaggia libera di Castelporziano. Entrambi gli affidamenti sono dell’estate 2014 ed entrambi resi possibili grazie all’intercessione di Andrea Tassone e della coppia Francesco D’Ausilio ed Emanuela Droghei, rispettivamente ex capogruppo Pd capitolino ed assessore alle politiche sociali della giunta Tassone». Infine, «nella stessa estate (2014, ndr), Libera ha preso i contributi (anche questi vietati per statuto) per l’iniziativa "Ostia Cinema Station" tenuta dentro il Teatro del Lido». La relazione approfondisce anche i presunti attacchi subiti dall'associazione nazionale «Cittadini contro le mafie e la corruzione». Ne fanno parte anche «due ex poliziotti» che hanno curato Nuova Alba, inchiesta della Procura di Roma, che ha dimostrato il radicamento mafioso su Ostia. Gli ex agenti sono Fierro e Pascale, i quali avevano già redatto le informative investigative poi insabbiate circa la presenza della mafia su Ostia 10 anni prima dell'operazione Nuova Alba. Contro Pascale, si legge, «si sono scagliati sia Esposito (Pd) che una giornalista, affermando pubblicamente e falsamente che egli sia "fortemente legato al M5S" e che il M5S abbia presentato un'interrogazione parlamentare "in suo favore"». Un capitolo a parte riguarda i «nomi legati a Tassone». I fari sono puntati su Rodolfo Murra, capo dell'Avvocatura Capitolina, il quale - stando ai 5Stelle - pur avendo potuto vedere i presunti affari illeciti attorno al Municipio di Ostia non avrebbe presentato denunce. Nella relazione si legge che «all'inizio del mandato di Tassone, Murra è stato direttore del Municipio X. Furono proprio Tassone e Ignazio Marino dopo i 51 arresti per mafia del luglio 2013, a volere Murra ad Ostia nel Palazzo del Governatorato, dove è rimasto dal 15 luglio fino al 15 settembre 2013. Murra ha continuato anche dopo la sua promozione (a capo dell'Avvocatura, ndr) voluta da Marino, tramite Paolo Sassi (dirigente del Comune di Roma, ndr), ad interessarsi del X Municipio, ma non si è mai accorto di nulla nonostante ci siano decine e decine di interpretazioni dell'Avvocatura per dare parere favorevole ad "iniziative" di Tassone poi finite dentro le indagini della Procura».

Roma Ostia, Sabella: "MoVimento 5 Stelle contro Libera? Ferrara ha un interesse personale". L'assessore alla Legalità: "Il rappresentante M5S ha chiesto la revoca della concessione che l'associazione ha avuto attraverso bando pubblico", scrive "Il Tempo". Dopo l'articolo de Il Tempo sul dossier redatto dal MoVimento 5 Stelle su "Mafia e litorale romano: il caso Ostia" è guerra aperta tra i grillini e l'associazione Libera presieduta da don Luigi Ciotti. Per il M5S quello pubblicato da Il Tempo è un falso: "Quanto scritto dal giornalista non corrisponde in alcun modo alla relazione ufficiale redatta dai rappresentanti capitolini e regionali, che, al contrario di quanto riportato dal Tempo, non è infatti stata ancora depositata in Commissione Antimafia". La smentita, però, arriva dopo 48 ore dalla pubblicazione dell'articolo e, soprattutto, arriva solo dopo la decisione dell'associazione Libera di indire una conferenza stampa per rispondere alle "menzogne" dei Cinquestelle. La relazione, che a questo punto risulta avere due versioni (una pre e una post conferenza stampa di Libera), è comunque stata consegnata a Il Tempo da fonte autorevole ed è a disposizione delle parti. Di certo c'è che a confermare una certa "ostilità" dei grillini nei confronti di Libera a Ostia, arrivano le parole dell'assessore alla Legalità del Campidoglio, Alfonso Sabella. "Ostia è una palude perché è il posto dove tutto si confonde - dice intervenendo alla conferenza stampa di Libera -. Non era mia intenzione intervenire in questa conferenza ma è pervenuto ai miei uffici un elenco di interpellanze a cui devo rispondere in Assemblea capitolina e sono saltato dalla sedia dal disgusto quando ho letto quelle di quattro ragazzi che personalmente stimo, i consiglieri comunali M5S, che mi hanno fatto una interpellanza per chiedermi delle sanzioni applicate a Libera nel corso di un'attività di verifica della legalità sul lungomare di Ostia che io stesso ho disposto. Abbiamo controllato 71 stabilimenti e spiagge libere e dove c'erano irregolarità adottando dei provvedimenti amministrativi e il Movimento 5 Stelle mi chiede solo quelle applicate a Libera? Perché? Andreotti diceva che a pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca. Fatemi pensare male. I consiglieri che sono qui in Aula li stimo e hanno fatto delle grandi battaglie e mi stupisce che siano caduti nella trappola del rappresentante M5S di Ostia, Ferrara, che ha un interesse diretto e personale sulla spiaggia gestita da Libera". "Ai consiglieri del Campidoglio voglio dire: state attenti perché avete preso una strada folle su Ostia - aggiunge -. Attaccare il bello, il buono, il giusto è folle. Difendo il lavoro dei ragazzi di Libera a Ostia perché hanno portato un modello mentre Ferrara ha chiesto la revoca della concessione che hanno avuto tramite un bando pubblico. Il Movimento 5 Stelle non ha mai supportato la battaglia che continuiamo a portare avanti a Ostia per il ripristino della legalità, non ha detto nulla quando i muri e le barriere si alzavano. Allora ridatemi la vecchia politica perché il Movimento 5 Stelle a Ostia è uguale. Sono veramente indignato e disgustato da questo atteggiamento e quindi mi auguro che i primi a prendere le distanze a livello nazionale da questo grave e ingiusto attacco a Libera siano i consiglieri capitolini» Intanto Gabriella Stramaccioni, membro della presidenza, fa sapere che l'associazione "si costituirà parte civile il 5 novembre al processo contro Mafia Capitale". Ma a far "tremare" i 5 Stelle sono le parole di don Luigi Ciotti che ha inviato un messaggio letto durante la conferenza stampa in Campidoglio: "La ricerca della verità è la base della giustizia. Ben vengano allora tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d'ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, nè mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia. È nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi l'ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte".

Il fattaccio del dossier antimafia grillino. Scoppia il caos sulla relazione 5 Stelle a Ostia. Protesta l’associazione Libera L’assessore Sabella rivela: il MoVimento vuole levare la spiaggia a don Ciotti, scrive Ivan Cimmarusti su "Il Tempo". È scontro sul contenuto della relazione "confidenziale" del MoVimento 5 Stelle su «Mafia e litorale romano: il caso Ostia». Don Luigi Ciotti non ci sta a far passare Libera come una sorta di società che gestisce spiagge. Chiede «pubblica ammenda» ai grillini che, dalla loro, si limitano a dire che il testo pubblicato giovedì scorso da Il Tempo «non corrisponde in alcun modo alla versione ufficiale» ma si tratta di una «bozza». Sullo sfondo della lotta alla criminalità organizzata prende sempre più forma una battaglia interna all’antimafia. A colpi di slogan contro i clan, Ostia appare la piazza sulla quale si gioca anche una partita politica. E la relazione dei 5 Stelle non ha fatto altro che fomentare lo scontro con il Partito democratico, attraverso le accuse mosse sul senatore e assessore al Comune di Roma, Stefano Esposito. Anche l’assessore alla Legalità capitolino Alfonso Sabella è intervenuto, affermando che «ho il sospetto che non ci sia da fidarsi del M5S a Ostia. Il gruppo capitolino mi ha chiesto in un’interpellanza di revocare la concessione di una spiaggia a Libera a causa di una lieve sanzione amministrativa. E io sottolineo che il rappresentante del M5S a Ostia potrebbe avere un interesse personale su quella spiaggia che, guarda caso, prima era di un suo amico, a cui fu revocata perché aveva precedenti penali non dichiarati». La polemica è montata ieri mattina. Con una nota diffusa 24 ore dopo la pubblicazione dell’articolo e successivamente all’indizione della conferenza stampa di Libera in Campidoglio, i grillini hanno «smentito in toto il contenuto dell’articolo apparso su Il Tempo ». Roberta Lombardi, deputata pentastellata, parla su Facebbok di una «fantasiosa interpretazione giornalistica». In serata, però, arriva il mea culpa e l’ammissione che si tratta di una bozza della relazione non ancora depositata alla Commissione Antimafia. Il direttore Gian Marco Chiocci prende carta e penna: «Dalla smentita "in toto" del contenuto dell’articolo prendiamo atto che esistono due versioni della stessa relazione: una pre-conferenza stampa di Libera, e una post». Il testo dei grillini finito sotto i riflettori (che sul frontespizio porta la dicitura «revisione n. 3.5_*finale* - ultimo aggiornamento 4/9/2015» ndr ) è diviso in otto capitoli, per 50 pagine. In particolare, sono tre i punti che hanno creato la bufera: le «associazioni antimafia», il «sistema mediatico» e i «rapporti con le forze politiche». In sostanza, sono riportate accuse contro Libera , una giornalista di Ostia, redattrice di un quotidiano nazionale, e il senatore Esposito. Già nell’edizione de Il Tempo di ieri, il politico ha avuto modo di rimandare le accuse al mittente, stigmatizzando quando scritto – su di lui e sulla giornalista - nella relazione del M5S come «balle». Ieri mattina, invece, è stata la volta di Libera. L’associazione, fondata da don Ciotti, è stata duramente attaccata, assieme a Uisp (Unione italiana sport per tutti) sulla gestione delle spiagge a Ostia. Gabriella Stramaccioni, di Libera, ha risposto a quelle che definisce «bugie» con cinque diversi punti: «Non vi è nessun affidamento diretto della spiaggia Libera Spqr. Uisp e Libera hanno partecipato al bando pubblico con esito pubblicato in data 10 aprile 2014 e l’Ati con a capofila la Uisp è entrata in possesso della spiaggia solo ad aprile 2015»; «da aprile a oggi sulla spiaggia sono state organizzate diverse iniziative per la promozione della cultura della legalità»; «né Libera né la Uisp sono entrate mai nella gestione della spiaggia denominata Faber Beach che è una spiaggia libera attrezzata, posta sotto sequestro dall’amministrazione giudiziaria lo scorso anno. Libera, insieme alle associazioni Stand Up, si è impegnata gratuitamente a favorire percorsi di socializzazione e di cultura della legalità con decine di iniziative»; «Libera non ha mai preso contributi per l'iniziativa “Ostia Cinema Station”»; «Libera si è costituita parte civile nei processi contro il clan Fasciani e i suoi prestanome, contro il clan Spada, con la presenza in Aula di decine di ragazzi e di associazioni del territorio di Ostia e di Roma». Per don Ciotti «la ricerca della verità è la base della giustizia». Il parroco antimafia ne è convinto: «Ben vengano tutte le documentazioni, analisi, testimonianze volte a dissipare le ambiguità e rischiarare le zone d’ombra. Ma a patto che siano oneste, serie, disinteressate, né mosse dalla presunzione di avere in tasca quella verità che si dice di cercare. Se mancano queste prerogative etiche, la denuncia diventa diffamazione, calunnia». Conclude che «è nostra intenzione dimostrare che proprio questo è il caso del dossier in questione, riservandoci di adire a vie legali se chi ha redatto non fa pubblica ammenda delle falsità dette e scritte».

Altri documenti a 5 Stelle accusano "Libera". Due interrogazioni alla Regione Lazio chiedevano di fare i controlli, scrive Alberto Di Majo su "Il Tempo". Ha suscitato accuse e polemiche il dossier del MoVimento 5 Stelle sulla mafia ad Ostia, che Il Tempo ha anticipato alcuni giorni fa. Nel documento i grillini accendono i riflettori sulle concessioni della spiaggia romana, anche su quella gestita dalle associazioni Libera e Uisp. L’assessore alla Legalità del Campidoglio Sabella ha attaccato i 5 Stelle, soprattutto un consigliere municipale, Paolo Ferrara, che avrebbe, così ha detto l’ex magistrato, «un interesse personale» su quella spiaggia. Ovviamente Ferrara ha rimandato le accuse al mittente, ha querelato Sabella e spiegato che i 5 Stelle, venuti a sapere delle irregolarità segnalate dalla Finanza negli stabilimenti di Ostia, hanno chiesto proprio all’assessore di verificare la situazione. Ora spunta un’interrogazione presentata il 3 agosto in Consiglio regionale. L’oggetto è chiaro: «Illegalità nella gestione della spiaggia libera della legalità Spqr di Ostia». Il documento parte dalla notizia dell’apertura della spiaggia libera della legalità, data in concessione all’associazione territoriale d’impresa formata da Uisp Roma e Libera di don Ciotti. Era il 29 aprile scorso. L’interrogazione aggiungeva il profilo delle due associazioni, poi richiamava un articolo del Messaggero del 31 luglio in cui «si fa riferimento alla circostanza che Libera, insieme alla Uisp, riesce a prendere in affidamento la spiaggia ex Amanusa, che non era in odore di mafia, contrariamente a quanto da loro affermato. Addirittura - spiega ancora il documento - la cooperativa Roy’s, che aveva vinto il bando e gestito la spiaggia fino ad allora, è stata oggetto di basse insinuazioni e accuse da parte del responsabile di Libera, Marco Genovese, secondo il quale addirittura veniva negata "l’acqua pubblica alla clientela" e si operava "ristorazione abusiva"». Poi si arriva al punto: «La cooperativa Roy’s, pur essendo arrivata prima nel bando, ha perduto la gestione dell’Amanusa per una multa di 400 euro che era stata indultata» e dunque «l’affidamento della spiaggia libera più bella di Ostia è andata proprio a Libera-Uisp». Insomma, qualcosa non quadra nell’assegnazione, secondo i 5 Stelle. Sembra quasi che Libera sia riuscita a conquistare quella spiaggia a scapito della cooperativa che l’aveva prima. Ma non è tutto. «Inaugurata la stagione in pompa magna con tutte le istituzioni, compreso l’assessore alla Legalità, Alfonso Sabella, Libera incappa - continua l’interrogazione dei grillini alla Regione - "nei controlli condotti ad Ostia dalle forze dell’ordine nei chioschi delle spiagge pubbliche"». I controlli effettuati, precisa ancora il documento, hanno portato all’identificazione di 17 lavoratori. Sono state riscontrate 9 violazioni «ed elevate sanzioni amministrative per un totale di euro 27.662 in ordine a svariate infrazioni/inadempienze». Tra queste: mancate emissioni di scontrini fiscali, irregolarità delle superfici di somministrazioni, mancanza dei requisiti strutturali, inidonietà dei luoghi di lavoro. I due consiglieri del MoVimento 5 Stelle che hanno firmato l’interrogazione, Davide Barillari e Silvana Denicolò, chiedevano al presidente della Regione Lazio Zingaretti «quali concrete azioni intenda intraprendere l’amministrazione regionale in concerto con l’amministrazione capitolina, nei confronti dei concessionari, sollecitando l’eventuale revoca della concessione e/o risoluzione di qualsiasi altro rapporto giuridico» e anche se la Regione ravvisasse la possibilità «di agire nei confronti dei concessionari o altri soggetti ad essi collegati per avanzare richieste di danni, anche d’immagine». Ma c’è anche un’altra interrogazione interessante, presentata sempre dai 5 Stelle alla Regione Lazio. Era il 23 settembre 2014. Nel documento si chiedeva di «mappare, analizzare e contrastare il fenomeno delle infiltrazioni mafiose» e, soprattutto, di «valutare il livello di attendibilità delle associazioni antimafia, o presunte tali con le quali la Regione Lazio potrà in futuro collaborare». Insomma, le perplessità dei pentastellati verso Libera e le altre organizzazioni arriva da lontano e il dossier (che i 5 Stelle hanno declassato a bozza ancora da condividere e valutare) non era che il punto di arrivo di un percorso che, inevitabilmente, divide i grillini.

Tutto questo nella capitale d'Italia. Mentre nella capitale della mafia per antonomasia.

Parla l’ex presidente delle misure di prevenzione presso il tribunale di Palermo Silvana Saguto. “Le associazioni antimafia mi suggerivano i nomi”. «Mi accusano di aver creato un sistema. Sì, è vero c’era un sistema attorno alla sezione Misure di Sicurezza. Un normalissimo sistema che ha consentito di gestire i beni sequestrati».

A quale sistema fa riferimento?

«Gli amministratori giudiziari non li ho scelti fra i miei amici. E i miei amici non erano le persone chiamate a sostituire i fedelissimi dei boss cacciati dopo i sequestri: i nomi di persone valide li abbiamo chiesti ad associazioni come Libera, Addio Pizzo, li abbiamo chiesti ai parroci. Per essere più tranquilli. Segnalazioni sono arrivate da tutte le parti, anche da colleghi magistrati».

Pronta la risposta scontata di “Libera”. LIBERA RISPONDE IN MERITO ALLE DICHIARAZIONI DELLA D.SSA SILVANA SAGUTO A "LA REPUBBLICA" DEL 16 OTTOBRE 2015. «In merito alle dichiarazioni rilasciate oggi dalla d.ssa Silvana Saguto a "La Repubblica", Libera precisa che mai ha segnalato nominativi di Amministratori giudiziari alla Sezione di misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, né ad altri Tribunali. Libera chiede peraltro da tempo l'istituzione di un Albo degli Amministratori, la rotazione degli stessi e un tetto ai loro compensi, ritenendole misure necessarie a garantire trasparenza, competenza e integrità nello svolgimento di un incarico così delicato. Tutto questo nello spirito di collaborazione che ha sempre caratterizzato il rapporto dell'associazione con le istituzioni nell'affrontare e risolvere i problemi che ostacolano l'attuazione di una norma cruciale nella lotta alle mafie come quella sul sequestro, la destinazione e l'uso sociale dei beni confiscati. Ma mai, mai segnalato nominativi».

Cena a casa Saguto. Con il tonno "sequestrato" alla mafia, scrive Venerdì 16 Ottobre 2015 Riccaro Lo Verso su “Live Sicilia”. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta che coinvolge l'ex presidente della Sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. Ed ancora: le conversazioni con altri magistrati, siciliani e non, quelle con il padre e con l'avvocato Cappellano Seminara.  - Silvana Saguto aspettava un ospite illustre a cena, il prefetto. E così a casa sua sarebbero stati recapitati sei chili di tonno. Provenivano da un'amministrazione giudiziaria importante. "Un regalo" per l'ex presidente della sezione Misure di prevenzione. C'è anche questo nelle intercettazioni dell'inchiesta della Procura di Caltanissetta sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. In una delle conversazioni registrate è rimasta impressa la voce del magistrato che chiedeva al suo interlocutore il pesce per la cena. All'indomani ecco i complimenti: era tutto buonissimo e gli ospiti erano rimasti molto soddisfatti. La conversazione si sarebbe poi spostata sull'incarico che stava per scadere visto che il procedimento era ormai giunto in Cassazione. Stava per arrivare il bollo definitivo o l'annullamento del provvedimento adottato dal Tribunale presieduto dalla Saguto. In ogni caso, sia che il bene fosse passato sotto il controllo dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati sia che fosse stato restituito al proprietario, l'incarico dell'amministrazione giudiziaria sarebbe venuto meno. E i due affrontavano la questione, discutendo anche di eventuali nuove nomine per il futuro. Di telefonate ce ne sono parecchie. Tutte intercettate nei quattro mesi, da maggio ad agosto, in cui i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria hanno ascoltato le conversazioni della Saguto e degli altri protagonisti dell'inchiesta. Tra questi il padre del magistrato, Vittorio Saguto, pure lui indagato per concorso in autoriciclaggio. Padre e figlia parlavano di qualcosa che non si trovava, ma che andava cercato e preso. Non è escluso che anche sulla base di questi passaggi sia stato necessario l'intervento urgente dei finanzieri nei giorni in cui facevano irruzione in Tribunale e a casa degli indagati per le perquisizioni e i sequestri. C'era qualcosa che andava trasportato o trasferito in fretta dall'abitazione del genitore del magistrato a Piana degli Albanesi? Soldi o tracce di passaggi di denaro tali da fare scattare l'ipotesi del riciclaggio? Così come si indaga su alcuni spostamenti dell'avvocato Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari. In altre conversazioni emergerebbe il presunto utilizzo disinvolto della macchina blindata per recuperare oggetti dimenticati a casa o accompagnare alla fermata dell'autobus persone che non avrebbero avuto alcun diritto di salire a bordo. Dal più assoluto riserbo investigativo trapelano pochissimi particolari che qualcuno bene informato definisce "poca roba" rispetto a quanto resta confinato nel recinto del segreto investigativo. Lo testimoniano i tanti, tantissimi omissis che coprono gli atti dell'indagine. Compresi quelli che riempiono le trascrizioni delle conversazioni fra il magistrato e altri colleghi, della stessa sezione per le Misure di prevenzione e non, siciliani ma anche romani.

Caso Saguto ai raggi X al Csm: "Mi serve il pesce fresco per la cena col prefetto". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura, scrive il 16 ottobre 2015 Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. E' il ritratto di una corte quello che emerge dall'inchiesta del nucleo di polizia tributaria della finanza e dei pm di Caltanissetta. Una corte di amministratori giudiziari, e non solo loro, che facevano a gara per ingraziarsi il presidente delle Misure di prevenzione attraverso regali e favori. L'amministratore giudiziario Mario Caniglia, che gestisce Torre Artale, regalò sei chili di ventresca a Silvana Saguto per una cena col prefetto. Era stato il giudice a rivolgersi a lui. E fu accontentata. "È un regalo", ribadì al telefono Caniglia. Sollecitando poi -  neanche tanto velatamente -  altri incarichi. Il 28 agosto, la Saguto era soddisfatta per l'ottima cena: "Il prefetto era impazzita letteralmente -  diceva all'amministratore -  una cosa così non l'ha mai mangiata". Il tema dei regali a Silvana Saguto da parte degli amministratori giudiziari è l'asse portante dell'atto d'accusa del Consiglio superiore della magistratura. Il cuore delle sette pagine anticipate ieri da Repubblica è "il quadro di natura corruttiva che sarebbe emerso tra la Saguto e l'avvocato Cappellano Seminara, nonché tra la Saguto e il ricercatore Carmelo Provenzano". Gli investigatori ritengono che Cappellano abbia dato non solo i 750 mila euro di incarichi al marito del giudice e un contratto da 1.200 euro al figlio chef: si indaga pure su 20 mila euro in contanti che un architetto avrebbe consegnato a Cappellano, il sospetto è che questi soldi possano essere finiti al giudice. Il ricercatore della Kore Provenzano "aveva invece sostituito Cappellano come amministratore di fiducia della Saguto", scrive il Csm. E anche lui non avrebbe mancato di ringraziare il giudice: è accusato di aver fatto la tesi a suo figlio, poi avrebbe "consegnato ripetutamente alla Saguto cassette di frutta e verdura ". Per i pm coordinati da Lia Sava e per il Csm, "atti diretti a compiacere la Saguto ". Cappellano e Provenzano sono già indagati, la posizione di altri amministratori è al vaglio del pool composto da Cristina Lucchini e Gabriele Paci, che lavorano a stretto contatto con i finanzieri del Gruppo tutela spesa pubblica della tributaria, i protagonisti di questa indagine. "La dottoressa Saguto risulta iscritta anche per abuso d'ufficio  -  avverte il Csm  -  in relazione ad una non meglio precisata vicenda di assunzione clientelare nell'ambito di un'amministrazione giudiziaria ". Ci sono poi delle "condotte" della Saguto che pur non "penalmente rilevanti", dice il Csm, sono "comunque suscettibili di valutazione critica". Il primo capitolo: "Indebito utilizzo del personale di scorta in sua assenza per la soddisfazione di esigenze private". Gli agenti, interrogati, hanno raccontato che erano mandati a fare la spesa, a ritirare abiti in lavanderia, oppure ad accompagnare amici e parenti del giudice. "Servizio taxi", lo chiamavano.

Tiengo famiglia: la Saguto ha un debito da 18 mila euro, scrive il 15 ottobre 2015 Salvo Vitale su "Telejato". OGNI  GIORNO SE NE SCOPRONO DI NUOVE: IERI È STATA LA VOLTA DELLA COLLANA REGALATA DA CAPPELLANO, MA PER AMMISSIONE DELLO STESSO GIUDICE, QUESTO È STATO UNO DEI TANTI REGALI, ANCHE PIÙ COSTOSI, RICEVUTI DALLA SAGUTO. Di ieri pure la notizia della tesi scritta dall’esimio prof. Provenzano al figlio svogliato, ma oggi si scopre che l’altro figlio Crazy, cioè pazzo, ha ricevuto da Cappellano un incarico di oltre mille euro per un lavoro nella sua agenzia, oggi si scopre addirittura che nel supermercato Sgroi, dato in amministrazione giudiziaria dal giudice Vincenzi ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca, un nome che ritorna spesso, la Saguto aveva accumulato una spesa di circa 18 mila euro (si vede che mangiava spesso e bene) già da molto tempo e che il marito Caramma che sorpresa, ha cercato di coprire in parte con un assegno di 10 mila euro. E, dulcis in fundo, gli avvocati della Saguto, Crescimanno e Pezzano rinunciano all’incarico per divergenze su come impostare la linea di difesa. Quindi la depressione ci sta tutta e minaccia di tornare per la povera Silvana, con un debito grosso da pagare, con la guardia di finanza dentro casa, con gli avvocati che non vogliono più difenderla e persino con un figlio che non vuole studiare, con un altro che è pazzo per sua definizione e che sa fare solo il cuoco. Degli altri familiari non diciamo niente. Però la famiglia è importante.

Beni sequestrati a mafia, “Saguto aveva un debito da 18mila euro in un supermarket confiscato”. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha prelevato alcuni documenti nel supermarket Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato a un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra le carte anche il conto non pagato dall'ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale - indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio - da 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell'inchiesta, scrive Giuseppe Pipitone su "Il Fatto Quotidiano" il 15 ottobre 2015. Per tre anni si è rifornita nel supermercato confiscato a Cosa nostra, pagando raramente il conto, e lasciando un debito sospeso pari a 18.451 euro. A Palermo il confine tra mafia e antimafia subisce un ulteriore colpo dagli ultimi atti acquisiti nell’inchiesta su Silvana Saguto, l’ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale, indagata per corruzione, induzione e abuso d’ufficio. La Guardia di Finanza, come spiega il Giornale di Sicilia, ha sequestrato alcuni documenti nel supermercato Sgroi di via Autonomia Siciliana, confiscato ad un imprenditore considerato vicino ai boss Lo Piccolo nel 2011. Tra quella documentazione anche il conto non pagato della Saguto, che ammonta, appunto, a 18.451 euro, saldato solo in parte (un bonifico da diecimila euro) e negli ultimi giorni dal marito del giudice, Lorenzo Caramma, anche lui indagato nell’inchiesta. “Mi sono sempre rifornita in quel supermercato e pagavo le spese mensilmente: in ogni caso non mi sono mai occupata di quella misura di prevenzione”, si è difesa Saguto. L’amministratore giudiziario dei supermercati, Alessandro Scimeca, nelle scorse settimane aveva chiesto il pagamento del debito, trovandosi in una situazione imbarazzante perché Saguto era comunque la presidente della sezione di tribunale che gli aveva conferito l’incarico. Il magistrato, in ogni caso, ha annunciato di avere chiesto trasferimento a Milano: una decisione presa per anticipare il provvedimento di trasferimento d’ufficio aperto nei suoi confronti da parte del Csm. Oltre alla Saguto, la procedura di trasferimento è stata aperta anche per gli altri quattro magistrati coinvolti nell’inchiesta e cioè per Lorenzo Chiaramonte e Fabio Licata, entrambi in servizio alla sezione misure di prevenzione, per il pm Dario Scaletta, accusato di rivelazione di segreto, e per Tommaso Virga, ex membro togato del Csm e ora presidente di sezione a Palermo, padre di Walter Virga, da pochi giorni ex amministratore giudiziario dei beni della famiglia Rappa. Palazzo dei Marescialli nel frattempo ha aperto anche un’altra pratica, pendente alla settima commissione, per fare luce sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. A chiedere un nuova indagine sulla gestione Saguto è stato il consigliere laico di Forza Italia Pierantonio Zanettin, che in prima commissione è il relatore del fascicolo sul “caso Palermo”. La nuova pratica è stata aperta per verificare la “congruità delle scelte organizzative e il rispetto delle disposizioni tabellari”, e cioè se la gestione del magistrato sotto inchiesta abbia violato le regole anche sul versante degli emolumenti liquidati agli amministratori giudiziari. Proprio oggi a Palazzo dei Marescialli è stato ascoltato il presidente dell’ordine degli avvocati di Palermo, Francesco Greco, che ai membri del Csm ha parlato di vero e proprio “caos organizzativo” della sezione misure di prevenzione, confermando il “clima di sfiducia e di grande disagio” che ha colpito l’ufficio giudiziario dopo l’inchiesta aperta dalla procura di Caltanissetta. Lunedì 19 ottobre, invece, sono previste le audizioni del presidente della corte d’appello di Palermo Gioacchino Natoli, del procuratore generale Roberto Scarpinato e del presidente dell’Anm di Palermo Matteo Frasca. Il giorno successivo è il turno del presidente della Camera penale palermitana Antonino Rubino, che nelle scorse settimane, ha chiesto di “azzerare” la sezione misure di prevenzione e di trasferirne le competenze alle sezioni ordinarie. A quel punto il Csm dovrà decidere quando convocare i cinque magistrati coinvolti dall’inchiesta che imbarazza il mondo dell’antimafia.

Silvana e le continue sorprese: spunta anche un giornalista nell’inchiesta della Procura, scrive il 16 ottobre 2015 Danilo Daquino su "Telejato". SILVANA NON FINISCE MAI DI STUPIRCI. Dopo la collana ricevuta in regalo da Cappellano e il debito da 18 mila euro presso il supermercato Sgroi, concesso in amministrazione giudiziaria, dal giudice Vincenzi, ad uno dei quotini, cioè l’avvocato Scimeca (un nome che ritorna spesso), adesso viene fuori che la signora aveva rapporti privilegiati con giornalisti che celebravano e vantavano le sue attività svolte all’interno della sezione misure di prevenzione del Tribunale di Palermo. A renderlo noto è il Csm: “Propalazione delle notizie relative ad un immobile confiscato ad un giornalista che lo aveva chiesto in assegnazione con l’intento di destinarlo a sede dell’Assostampa, in cambio, da parte sua, della redazione di interviste e articoli celebrativi pubblicati su Il Giornale di Sicilia”. Un piano perfetto che avrebbe garantito alla signora Silvana massima copertura da più punti di vista, in cambio del bene che avrebbe fatto comodo a numerosi giornalisti siciliani e non solo al Giornale di Sicilia. Basti pensare alla notizia di qualche mese fa che annunciava “La mafia vuole uccidere la Saguto”, fatta sfuggire ad arte da un funzionario della Dia (bingo!) finito nel registro degli indagati. Articoli inventati con lo scopo di rafforzare e tutelare l’immagine dell’illustre magistrato e pubblicati su giornali buoni solo per incartarci le sardine! Non tarda a rispondere alle accuse l’Assostampa, sindacato dei giornalisti: “Il Consiglio regionale dell’Associazione siciliana della Stampa, nella riunione del 27 aprile 2015 tenuta ad Agrigento, aveva dato mandato a un suo componente di informarsi, presso le sedi competenti, sui passaggi che bisognava compiere per arrivare all’affitto di un bene confiscato alla mafia. Di tutto questo c’è traccia nel verbale di quella seduta. A oggi, comunque – prosegue la nota – non è stato ancora presentato alcun atto formale di richiesta. Quanto al riferimento del Csm a ‘interviste e articoli celebrativi’ come presunta merce di scambio, è una ipotesi del tutto impensabile e fuori dalla realtà: per il semplice fatto – conclude – che nessun giornalista, a maggior ragione se è anche un dirigente sindacale, sarebbe in grado di garantire una cosa del genere visto il sistema di competenze e controlli interni che regola un giornale”. Insomma, nel caso ci sono ancora troppi lati oscuri da chiarire. Intanto all’interno del tribunale di Palermo, ormai al centro della cronaca italiana, si respira un clima pesante. Una pesantezza che si sarebbe potuta evitare se gli indagati avessero portato avanti la giustizia nell’ottica della legalità. La ciliegina sulla torta, oggi, la mettiamo sulle testimonianze degli agenti di scorta che, interrogati, hanno raccontato di essere stati utilizzati come “servizio taxi” per fare la spesa, ritirare vestiti in tintoria o accompagnare addirittura amici e parenti del giudice. Caramma che sorpresa!

Non ci lasciare, Silvana…scrive Salvo Vitale su "Telejato". APPRENDIAMO DAL GIORNALE DI SICILIA, CON IL SOLITO ARTICOLO SCRITTO “SU MISURA” E AL MOMENTO GIUSTO, DA RICCARDO ARENA, CHE SILVANA SAGUTO, DOPO LA BUFERA CHE LE È CADUTA ADDOSSO, HA DECISO DI ANDARSENE, NATURALMENTE PRIMA CHE IL CSM POSSA DISPORRE IL SUO TRASFERIMENTO PER INCOMPATIBILITÀ AMBIENTALE. In questo caso si tratterebbe di una punizione, il trasferimento volontario invece sarebbe una sua scelta. L’articolo parte dalla solita scusa che in questi giorni abbiamo sentito spesso: “Vogliono fermarci”. E sì, signor giudice, può darsi che anche i mafiosi vogliano fermarla, ma noi ci proviamo per tutt’altre ragioni, legate al ripristino della legalità, della funzionalità e della “giustizia giusta” nell’ufficio sinora da lei presieduto. Apprendiamo dalle sue dichiarazioni che ha un figlio svogliato, che lo ha affidato alle cure di un suo pupillo, il chiarissimo professore di tre università Carmelo Provenzano, pare di capire, sulla base di quanto dice lei stessa, che gli ha scritto la tesi, o forse che gli ha fatto da consulente. Apprendiamo che il solito Cappellano, per il suo compleanno, le ha regalato una bella collana. Ma guarda un po’! Ai comuni mortali si regala un profumino o una borsa, a lei una collana, un regalo che si fa solitamente alle mogli. Mah!!!! Apprendiamo anche che lei versa in qualche difficoltà economica, malgrado tutti i soldi delle consulenze incassati da suo marito. Insomma, una buona madre di famiglia che pensa anche a farsi aiutare da suo padre. E infine che vuole andarsene a Milano o a Catania. Le consigliamo Milano, lì la giustizia funziona un po’ meglio e lei stessa avrà possibilità di dare e ricevere un contributo. Intanto da qualche giorno le udienze alle misure di prevenzione cominciano alle 10 e non a mezzogiorno, come quando c’era lei, il Cappellaccio è sempre là con una decina di suoi quotini che lo guardano in attesa di ordini, i tempi delle udienze sembrano essersi notevolmente accorciati, pare che il suo sostituto, il dott. Fontana non starà ancora a lungo al suo posto e sarà sostituito dal dott. Montalbano. Che non è il commissario di Camilleri. Insomma, se le premesse sono giuste, sembra ci stiamo avviando alla normalità. Le sembra niente?

"Saguto cercò notizie riservate". Le accuse del Csm, scrive "Telejato". L'inchiesta della procura di Caltanissetta riguarda la gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia.RMO - Avrebbe "mobilitato persone di sua conoscenza per acquisire notizie riservate presso gli uffici giudiziari di Caltanissetta e Palermo sull'esistenza di un procedimento penale che dal capoluogo siciliano avrebbero mandato ai colleghi nisseni". C'è anche questo nel lungo elenco di accuse che il Consiglio Superiore della Magistratura contesta al giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione di Palermo, sotto inchiesta a Caltanissetta per corruzione e abuso d'ufficio. La prima commissione del Csm ha aperto nei suoi confronti e di altri quattro magistrati, anche loro indagati, un procedimento per il trasferimento d'ufficio. Saguto, nel frattempo, ha fatto domanda di trasferimento. Sulle toghe coinvolte grava anche un possibile procedimento disciplinare: il pg della Cassazione ha avviato, infatti, accertamenti sul caso. L'inchiesta nissena - parte degli atti sono stati inviati al Csm che, anche sulla base delle carte ricevute ha potuto avviare il procedimento per il trasferimento - riguarda l'illecita gestione delle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. Quel che viene fuori è però un sistema più ampio basato su scambi di favori e condotte, quando non illecite, "suscettibili di valutazioni critiche", scrive la prima commissione di Palazzo dei Marescialli. Tra gli episodi elencati dal Csm la nomina del figlio del giudice Tommaso Virga, Walter, amministratore giudiziario di un patrimonio milionario, in cambio di un presunto intervento del padre, ex consigliere di Palazzo dei Marescialli, in un procedimento disciplinare riguardante la Saguto. E ancora pressioni del giudice su Walter Virga perché facesse entrare nel proprio studio la compagna del figlio, e l'esistenza di "un rapporto corruttivo" tra il magistrato e uno dei principali amministratori giudiziari della città, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara. Quest'ultimo avrebbe assegnato consulenze al marito della Saguto, anche lui indagato, e fatto lavorare il figlio nella sua società, la Tourism Project srl. Nell'inchiesta spunta anche il nome di un altro amministratore giudiziario, Carmelo Provenzano, ricercatore all'università di Enna: avrebbe fatto la tesi all'altro figlio del magistrato e regalato al giudice diversi generi alimentari di una attività da lui amministrata. Il trasferimento potrebbe riguardare anche il pm Dario Scaletta, indagato per rivelazione di segreto istruttorio, e i giudici Lorenzo Chiaramonte, accusato di abuso d'ufficio e Fabio Licata, accusato di concorso in corruzione aggravata. Infine a Saguto si contesta l'avere instaurato rapporti "privilegiati" con alcuni giornalisti in cambio di campagne di stampa a lei favorevoli. (ANSA).

Caso Saguto, gli avvocati rinunciano alla difesa del giudice, scrive “Il Giornale di Sicilia” il 14 Ottobre 2015. Gli avvocati Francesco Crescimanno e Roberta Pezzano hanno annunciato che rinunceranno al mandato difensivo del giudice Silvana Saguto, ex presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo indagata per corruzione dalla procura di Caltanissetta nell'ambito di una inchiesta su illeciti nelle nomine degli amministratori giudiziari dei beni sequestrati a Cosa nostra. Dietro la rinuncia al mandato ci sono differenti visioni della strategia difensiva. I legali hanno reso noto che rinunceranno anche al mandato difensivo del figlio, del marito e del padre del giudice, anche loro coinvolti nell'indagine. Dietro la scelta degli avvocati ci sarebbero le dichiarazioni rilasciate oggi dal magistrato al Giornale di Sicilia.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto  e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.

A Palermo mancava solo l’associazione a delinquere di stampo antimafioso, scrive Maurizio Tortorella su “Tempi” il 4 ottobre 2015. I beni sequestrati ai clan criminali valgono 30-40 miliardi. Potrebbero produrre ricchezza, ma le indagini sull’ufficio preposto dicono il contrario: si ipotizzano solo abusi, ruberie, corruzione. Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola.  È autunno, e piove disperatamente sull’Ufficio misure di prevenzione antimafia di Palermo, il delicatissimo organismo cui spetta nominare gli amministratori giudiziari che devono gestire beni, patrimoni, società sequestrate a soggetti indagati o in qualche modo sospettati di contiguità con la criminalità organizzata. La Procura di Caltanissetta, competente sui reati attribuiti ai magistrati palermitani, indaga su quello che, dalle cronache fin qui uscite, pare uno dei peggiori verminai nella storia della Repubblica. Si legge di magistrati indagati; di incarichi affidati sempre agli stessi professionisti; di stipendi e parcelle ultramilionarie che gli amministratori delegati dal Tribunale attribuiscono a se stessi o a consulenti vicini; di aziende gestite malissimo; di favoritismi e intrecci d’ogni genere. Ovviamente, si sospettano tangenti. Un vero disastro, insomma: di malagiustizia, d’immagine, e anche economico. Perché i beni sequestrati alle organizzazioni criminali messi tutti insieme valgono 30 miliardi di euro, chi dice addirittura 40. Potrebbero e dovrebbero produrre ricchezza, da restituire agli enti locali o alla giustizia stessa, notoriamente afflitta da penuria: si tratta di ipermercati, cliniche, ristoranti, residence, distributori di benzina, villaggi turistici, fabbriche, fattorie, allevamenti… Al contrario, le indagini raccontano tutt’altro. Si intravvedono solo abusi, soprusi, ruberie. I magistrati di Caltanissetta a metà settembre hanno iscritto nel registro degli indagati tre colleghi palermitani e in particolare il presidente dell’Ufficio misure di prevenzione, Silvana Saguto, in quell’incarico dal 1994. I reati ipotizzati sono gravi: corruzione, induzione indebita a dare o promettere utilità, abuso d’ufficio. Saguto non si è dimessa, ha chiesto di essere trasferita ad altro ufficio dello stesso Tribunale, e ora si occupa di penale. Il 18 gennaio 2012, quasi quattro anni fa, l’allora direttore dell’Agenzia nazionale beni confiscati di Reggio Calabria, il prefetto Giuseppe Caruso, già segnalava alla Commissione parlamentare antimafia che «i beni confiscati sono serviti, in via quasi esclusiva, ad assicurare gli stipendi e gli emolumenti agli amministratori giudiziari, perché allo Stato è arrivato poco o niente». Più di recente, nel marzo 2014, Caruso aveva criticato «gli amministratori giudiziari intoccabili», professionisti che «hanno ritenuto di disporre dei beni confiscati per costruire i loro vitalizi» e criticato apertamente l’operato del Tribunale di Palermo. La risposta era stata brutale: la presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, aveva convocato il prefetto in un’audizione trasformatasi quasi in processo, sottolineando il rischio che Caruso avesse potuto «delegittimare i magistrati e l’antimafia stessa». La stessa Associazione nazionale magistrati aveva isolato il prefetto con un comunicato che oggi grida vendetta: «I magistrati della sezione misure di prevenzione e i loro collaboratori operano in difficili condizioni, conseguendo risultati di assoluto rilievo (…). Chiunque ricopre incarichi istituzionali (cioè Caruso, ndr), ha il dovere di denunciare eventuali illeciti alla competente autorità giudiziaria e dovrebbe astenersi dal rilasciare dichiarazioni pubbliche non supportate da elementi di riscontro». Nel giugno 2014, anche per quelle paradossali polemiche, Caruso aveva lasciato la guida dell’Agenzia. Oggi dice: «Adesso c’è qualcuno che si dovrà difendere e qualcun altro che si dovrà dimettere». Per ora non lo ha fatto nessuno.

Perchè tanto silenzio sui miliardi di euro dell'antimafia? Si chiede Fabio Cammalleri su "La Voce di New York". Dopo che per anni i giornalisti della piccola Telejato diretta da Pino Maniaci avevano suonato l'allarme che nessuno voleva ascoltare, finalmente si indaga sulla gestione di beni sequestrati e confiscati per mafia in seno al Tribunale di Palermo. Ma i reati supposti potrebbero celare molto di più, e risultare un comodo capro espiatorio. Bisogna allargare lo sguardo, guardare l’insieme e non darsi alla fuga. Se vi riesce. Segnatevi questa frase: “...non ci vuole nulla a combinare un’accusa di associazione mafiosa, basta un contatto, uno scontrino, un’intercettazione fraintesa o manipolata, un documento che lasci supporre una presunta amicizia pericolosa, magari del padre o del nonno ed è fatta. Il denunciato dovrà preoccuparsi di dimostrare la legittimità di quello che possiede; ma, anche se fosse in grado di farlo, dovrà andare incontro a una serie di rinvii giudiziari, scientificamente studiati, che durano anni e che finiscono col distruggere la vita dell’incauto oltre che le aziende e i beni che gli sono sequestrati.” L’ha scritta Salvo Vitale, coraggioso come Peppino Impastato, di cui era amico e, come si diceva una volta, compagno di lotta. A Cinisi contro Gaetano Badalamenti, oggi, insieme a Pino Maniaci, anima e corpo di Telejato, contro.... Ora vedremo di che si tratta. Intanto rilevo che né Salvo Vitale né Pino Maniaci hanno mai pensato allo show business: libri di successo (e di insuccesso), prime serate, inchieste con telecamera fissa, con la musichetta, con il maxischermo al posto della lavagna del maestrino millenial, giornaloni, soldi. Sì, soldi: perché sempre i soldi contano; e si contano. No, questi due hanno fatto i giornalisti senza rimanere incollati al terminale o alla telecamera. Si sono messi a cercare, per strada, parlando con le persone, leggendo documenti: e hanno dubitato che il Tribunale di Palermo, Sezione Misure di Prevenzione, presentasse qualche problema di funzionamento. In particolare si sono occupati di sequestri e confische. Beni patrimoniali: terreni, fabbricati; aziende: conti correnti, beni aziendali, fatturato, stipendi, cioè flussi finanziari da e verso fornitori: soldi. Un sacco di soldi. Ma, più esattamente, bisogna considerare i flussi. Cosa è accaduto, lo spiega chiaramente lo stesso Maniaci a Giulio Ambrosetti, che meritoriamente lo ha intervistato per questo giornale e, se non sbaglio, si tratta ancora di un pezzo unico. Riassumo brevemente: la Procura di Caltanissetta ha avviato un’indagine che coinvolge, fin qui, quattro magistrati e svariati professionisti: perchè si sospetta che abbiano gestito i flussi, anziché le aziende. Amministratori giudiziari infedeli, di beni o aziende sequestrate o confiscate per sospetto mafioso. Qui interessano alcuni rilevi ulteriori che, senza offesa, in qualche modo depotenziano la rilevanza dell’indagine penale. Primo. Posto che gli accusati risultassero non colpevoli, non cambierebbe nulla. Perchè il punto non è la loro personale colpevolezza; in sè, sono ipotesi di reato come altre formulate in simili casi. Quello che dovrebbe interessare è il presupposto. Che è di duplice natura: normativa e culturale. Le denuncie dei due valenti giornalisti hanno già messo in luce il bubbone: che è la struttura normativa e le istituzioni, venutesi sviluppando, nel corso di questi ultimi due decenni, sotto l’insegna della c.d. antimafia. Com’è noto, proprio a partire dalle stragi di Capaci e di Via D’Amelio. Se una stessa persona può legittimamente ricoprire più di novanta cariche, cioè amministrare novanta diverse aziende, non è necessaria la malversazione, per rilevare la mostruosità della struttura normativa che consente simili concentrazioni di potere. Se la struttura istituzionale nata da quella struttura normativa è complessa, richiede e coinvolge l’opera di più persone, che hanno colleghi, referenti istituzionali, non è necessario attendere chissà chi, o chissà che, per chiedersi: ma, hanno fatto tutto da soli? Di qui l’analisi del presupposto culturale, per dir così. Io sono molto cauto di fronte alle stime, specie nella materia criminale; così, quando si dice che i patrimoni di interesse c.d. mafioso, e amministrati per via giudiziaria, ammonterebbero a circa trenta miliardi di euro, rimango molto cauto. Limitiamoci allora a dire che, però, sono comunque tanti soldi: anche se fossero la metà, o un terzo, di quella cifra. E che dieci miliardi di euro, considerati come flusso grezzo, e non entro una funzionalità e un criterio aziendale, che vive di margini sui flussi, e non di flussi (altrimenti si fallisce all’istante), dicevo, diciamo che dieci miliardi di euro, pronti in mano, sono una cifra dalle potenzialità tiranniche pressocché indescrivibili. Tiranniche, perché sistemiche; non criminali, cioè individuali. Si vuol dire che, a volte, il reato può assolvere alla funzione di utile capro espiatorio, o di foglia di fico. Specie quando si parla di stipendi, per quanto lauti, di benefit, per quanto satrapici. Cioè di minutaglia, rispetto all’intero. Sicchè, non solo è pressocchè irrilevante accertarlo, ma, in un certo senso, controproducente. Per questo scrivevo in quei termini dell’indagine in corso. Un pò di pazienza. Gli amministratori giudiziari sono nominati da magistrati. E bisogna dire magistrati, e non riferirsi agli uffici, altrimenti si smarrisce il senso delle cose. Messe le mani sui flussi, essendo provenienti da beni colpiti da scomunica maggiore (mafia), nessuno potrà inarcare un sopracciglio anche quando le aziende fallissero. O falliscono. Un qualsiasi gestore deve potenzialmente temere un rendiconto, o durante, o alla fine dell’opera. Se si elimina, di fatto, la possibilità del rendiconto, il flusso è disponibile nella sua interezza, fino ad esaurimento. I magistrati sono assegnati ai singoli uffici dai loro colleghi del CSM, e la componente togata è maggioritaria (18 su 27, gli altri, al più, negoziano); la componente togata è eletta secondo correnti, organizzate nell’ANM. Dieci miliardi di euro liberi. Come nel caso dei quattro magistrati per ora indagati, si stanno accertando le loro consistenze. Gli stipendi, pur cospicui, sono noti. Le eventuali incongruenze, ovviamente estendendo il campo ai prossimi congiunti, sono agevolmente accertabili. Il silenzio ostinato con cui tutti i maggiori giornali (in realtà note Lobby politico-finanziarie, che hanno assunto un ruolo politico patrizio e impropriamente ma efficacemente decisorio) stanno affrontando una vicenda che appare essere, semplicemente, il centro del sistema, è innaturale. E, più che innaturale, è insolente, come rileva lo steso Maniaci, che Milena Gabanelli, Michele Santoro, Rosy Bindi, Claudio Fava, ciascuno per la sua parte (dal ricco cortigiano al servo sciocco) abbiano nicchiato a precise richieste di intervento, e di sostegno alla ricerca, avanzate da Maniaci. In linea col doppio binario gli interventi di Don Luigi Ciotti: “parcelle spropositate che finivano nelle mani di pochi amministratori, ma anche ritardi”; e di Giancarlo Caselli: “Silvana Saguto è una delle donne economicamente più potenti di Palermo”. Ma sì, è solo, una pur preoccupante, questione di scrocconi, per questo non vi siete precipitati in prima serata, come ai bei tempi. Non è vero?  Certo, il silenzio, aggiunto alle dichiarazioni pro forma, significa che dalla Sicilia si è preso quello che si doveva prendere, in termini di costruzione del consenso e di potere; ma significa anche che vent’anni di scempio delle coscienze e delle istituzioni hanno prodotto scorie tossiche al sommo grado: da tenere assolutamente nascoste. Altro che terra dei fuochi. Dieci miliardi di euro. E un sistema connesso in minutissimi legami, tale per cui la nomina a dirigere un ufficio periferico determina quella a dirigerne uno importantissimo, magari distante due ore di aereo e, insieme, nè è determinata. Un sistema in cui i magistrati che accusano e quelli che giudicano sono colleghi. In cui, come nel corrente caso, a fronte di sospetti gravissimi, l’unico effetto imposto dalla struttura è spostarsi di una decina di passi ad un’altra stanza (il presidente Saguto, ora non è più Presidente del Tribunale, Sezione misure di Prevenzione, ma magistrato con altre funzioni). Un sistema che sui cadaveri di Falcone e Borsellino ha eretto una legittimazione emotiva che ha strattonato e percosso vent’anni di vita pubblica e istituzionale. Considerate i dieci miliardi di euro e la frase con cui abbiamo cominciato; poi aggiungete la storia d’Italia lungo l’asse Palermo-resto d’Italia. Considerate i coriacei silenzi dei Grandi Virtuosi e, con la mente al paradigma-Uno Bianca, considerate i singoli, le persone, le loro case e tutto quello che è loro, e ciò che gli è riconducibile senza soverchie difficoltà. Considerate tutto il potere che hanno amministrato e amministrano. Considerate le loro carriere, le nomine, le elezioni, la forza, che questa organizzazione ha dimostrato e dimostra, di annichilire il peso formale di decine di milioni di voti, comunque espressi: e provate a fare una somma. Troverete i soldi. Una montagna di soldi da spartirsi per una miriade di interessi, anonimi, quasi invisibili, ma che pure nascono e vivono insieme. Così, sopra la montagna di soldi, troverete la Tirannia. Dal centro alla periferia, e dalla periferia al centro. Ma prima i soldi, bisogna cercare i soldi: quelli veri. Diceva Falcone. 

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive Giacomo Amadori su "Libero Quotidiano". L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

La mafia dell’antimafia che avevamo previsto, scrive Giulio Cavalli su "Left" l'11 settembre 2015. L’avevamo scritto a marzo, in tempi addirittura sospetti per chi subisce il soffio delle priorità ed emergenze sotto dettatura: era il numero 10 di Left e Pino Maniaci, tra il fumo e le veline della sala di montaggio della sua piccola televisione comunitaria Telejato giù a Partinico, a cento passi da Corleone, ci aveva parlato del suo lavoro d’inchiesta su quella che senza esitazioni ha definito “la mafia dell’antimafia”. Ed è dalla voce di un coraggioso e pluriminacciato giornalista di provincia che è scaturita l’indagine che in queste ore fa tremare Palermo: la Procura di Caltanissetta contesta il reato di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio a Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, il marito e ingegnere Lorenzo Caramma, e Gaetano Cappellano Seminara, il più noto fra gli amministratori giudiziari dei beni sequestrati alla mafia. A dare notizia dell’inchiesta è stata la stessa Procura che ha diramato un comunicato “allo scopo – si legge – di evitare il diffondersi di notizie inesatte”: “Su disposizione della Procura della Repubblica di Caltanissetta militari del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Palermo, in alcuni casi con la diretta partecipazione dei magistrati titolari del relativo procedimento penale, hanno eseguito ordini di esibizione nonché decreti di perquisizione e sequestro. Questi atti istruttori – prosegue la nota – sono stati compiuti per acquisire elementi di riscontro in ordine a fatti di corruzione, induzione, abuso d’ufficio, nonché delitti a questi strumentalmente o finalisticamente connessi, compiuti dalla presidente della sezione Misure di Prevenzione del tribunale di Palermo nell’applicazione delle norme relative alla gestione dei patrimoni sottoposti a sequestro di prevenzione, con il concorso di amministratori giudiziari e di propri familiari”. Pino Maniaci ci aveva snocciolato i numeri impressionanti di aziende confiscate e gestite da Gaetano Cappellano Seminara, parcelle milionarie e soprattutto un patrimonio immenso di imprese sotto l’amministrazione di un’unica persona. Una scelta certamente poco produttiva oltre che inopportuna. E non è un caso che negli ultimi mesi se ne siano occupati sia la Commissione Antimafia guidata da Rosy Bindi che la Commissione antimafia regionale siciliana oltre ad alcune trasmissioni televisive. Lo stesso Prefetto Caruso (ex direttore dell’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati) pur senza fare nomi aveva denunciato l’eccessivo potere in mano a pochi nella gestione dei beni mafiosi. Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo. Su quel numero di Left scrivemmo delle tante piccole realtà antimafia e di giornalisti mica da copertina che avevano un coraggio da custodire con cura. E forse ci avevamo visto giusto, eh.

Che affarone i sequestri e le amministrazioni giudiziarie. Aziende sottoposte ad amministrazione giudiziaria. Affidate a professionisti con parcelle milionarie. Un sistema di favoritismi, nepotismi e conflitti d’interessi ora sotto inchiesta. Che coinvolge anche diversi magistrati, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Quando parlava di professionisti dell’antimafia, Leonardo Sciascia non sapeva fino a che punto avesse ragione. Il passo dai professionisti agli affaristi è cosa fatta. Così, il manager più pagato d’Europa non è Martin Winterkorn, ex amministratore delegato della Volkswagen in carica dal 2007, allontanato dopo lo scandalo delle emissioni con 60 milioni di euro di buonuscita. È Gaetano Cappellano Seminara, 57 anni, re incontrastato degli amministratori giudiziari, pupillo delle sezioni di misure di prevenzione dei tribunali. Per 200 giorni di lavoro l’avvocato palermitano ha chiesto 18 milioni di euro a Italcementi, pari a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.

Italcementi, che aveva subito un sequestro preventivo nel 2008, aveva già versato 7,6 milioni di euro al professionista, tutti autorizzati dalla sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo. Il grosso della richiesta aggiuntiva, che non è passata dal vaglio del giudice, doveva fra l’altro compensare il rilascio di un’ “assurance”. È una sorta di certificato per garantire la guarigione di Italcementi da comportamenti passibili di censura giudiziaria, anche se non connessi al crimine organizzato. È l’equivalente in versione moderna delle indulgenze mercanteggiate dal clero nel cristianesimo preluterano. È giusto aggiungere che la cifra è riferita all’insieme del team formato da Cappellano Seminara e dai suoi coadiutori, sei impiegati in pianta stabile più altri avventizi. Ma è altrettanto corretto sottolineare che Italcementi è soltanto uno degli oltre cento incarichi ottenuti dal professionista siciliano, che è anche imprenditore in proprio con la Legal Gest consulting e con Tourism Project (hotel Brunaccini di Palermo). La parcella da 18 milioni ha guastato i rapporti fra Cappellano Seminara e il colosso del calcestruzzo, da poco passato in mano ai tedeschi. Italcementi si è rivolta alla giustizia. La causa ha superato due gradi di giudizio ed è al vaglio della Cassazione, che non ha ancora fissato la data dell’udienza. Ma finora i verdetti indicano che l’amministratore ha incassato più del dovuto e dovrebbe restituire una quota degli onorari di circa 2 milioni di euro. Nel frattempo il bubbone è esploso. A Palermo è venuto alla luce un sistema opaco di favoritismi, nepotismi e incarichi in conflitto di interessi che potrebbe non essere limitato al capoluogo siciliano, dove si gestiscono quasi metà dei beni sequestrati in tutta Italia, secondo valutazioni del presidente delle misure di prevenzione Silvana Saguto. Oltre a Cappellano Seminara, la procura di Caltanissetta indaga sulla stessa Saguto, assegnata ad altro incarico, su suo marito Lorenzo Caramma, consulente di Cappellano, sul suo collega di sezione Lorenzo Chiaramonte, sul sostituto procuratore Dario Scaletta e sull’ex componente togato del Csm Tommaso Virga. In attesa che si sviluppi il lavoro del pubblico ministero nisseno Cristina Lucchini e del colonnello Francesco Mazzotta della Guardia di finanza, proprio il Csm ha finalmente deciso di affrontare la questione del cumulo degli incarichi nell’amministrazione giudiziaria, diventata ormai un affare da decine di milioni di euro all’anno, soprattutto nelle regioni più colpite dal crimine organizzato. Anche la politica è dovuta tornare sull’argomento. L’ultima sistemazione datata 2011 si è rivelata disastrosa perché lascia una totale discrezionalità ai singoli tribunali sia nelle nomine sia nella definizione del tariffario che in parte è a carico delle aziende e in parte è a carico della pubblica amministrazione, quindi del contribuente. In cambio del potere incondizionato che si è dato ai giudici delle misure di prevenzione non c’è stata garanzia di trasparenza né di rotazione negli incarichi. L’allarme lanciato dall’ex direttore dell’agenzia nazionale dei beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso è rimasto inascoltato e la commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi ha preferito impegnarsi in lunghe audizioni di quegli stessi amministratori giudiziari che hanno trasformato la lotta alla mafia in un business altamente lucrativo.

Nel festival del conflitto di interessi spicca la vicenda Italgas. L’azienda torinese, controllata dalla Snam, finisce sotto sequestro in modo rocambolesco. L’avvocato Andrea Aiello, 44 anni, amministratore giudiziario della Euro Impianti Plus dei fratelli Cavallotti, sequestrata nel 2012 e in liquidazione a giugno del 2015, riferisce al pm Scaletta di alcune anomalie riguardanti i rapporti fra Euro Impianti e Italgas. In sostanza, Italgas avrebbe firmato un contratto di fornitura con Euro Impianti pur sapendo che i Cavallotti erano soggetti a rischio. In effetti, gli imprenditori di Belmonte Mezzagno sono stati assolti dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa ma restano “socialmente pericolosi” e la testimonianza di Aiello fa scattare il sequestro di Italgas il 9 luglio 2014. Il giudice delegato Fabio Licata, che opera insieme ai colleghi Saguto e Chiaramonte ma non risulta indagato, nomina amministratore giudiziario proprio il teste dell’accusa Aiello. Da amministratore di Euro Impianti Plus, Aiello ha chiesto a Italgas un risarcimento di 20 milioni di euro per il contratto di fornitura non rispettato. Insieme all’avvocato palermitano, sono nominati amministratori anche l’ingegnere Sergio Caramazza, il docente Marco Frey e il commercialista Luigi Saporito. I quattro vengono retribuiti dal tribunale e la cifra non è pubblica. Ma c’è una quota consistente versata dall’azienda sotto sequestro. Italgas ha pagato per un anno di sequestro 6 milioni di euro a 43 coadiutori ingaggiati dagli amministratori, per una media di 140 mila euro a testa. Fra le criticità suggerite dagli amministratori giudiziari alla Deloitte, ingaggiata come consulente da Italgas, figura ogni genere di problema, inclusa la corretta profondità nell’interramento dei tubi, ma non profili collegati alla criminalità organizzata. La richiesta di dissequestro viene accolta a maggio del 2014 dal pm Dario Scaletta, poi indagato perché avrebbe informato Saguto dell’inchiesta che la riguardava. Nonostante questo, l’azienda viene riconsegnata il 9 luglio 2015, oltren un anno dopo il provvedimento. Ma nemmeno allora i professionisti delle misure di prevenzione si fanno da parte e riaffiorano nelle lunghe trattative per nominare il nuovo organo di vigilanza (Odv), incaricato fra l’altro dell’applicazione dei protocolli antimafia. La terna finale è guidata dal giurista di area Pd Giovanni Fiandaca insieme a Andrea Perini dell’università di Torino e a Gianluca Varraso, direttore con Fiandaca del corso di alta formazione per amministratori giudiziari della Cattolica di Milano, dove ha insegnato lo stesso Aiello. Seppure molto qualificato, l’Odv viene integrato da tre consulenti: Carlo Amenta, Gianfranco Messina e Cristina Giuffrida, dello studio Aiello. Tutti e tre figurano fra i coadiutori dello stesso Aiello durante il sequestro di Italgas.

L’inchiesta che ha condotto al sequestro di Italgas, cioè la caccia al tesoro dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino, ha portato al sequestro di altre tre aziende italiane controllate dal colosso energetico spagnolo Gas Natural Fenosa. Anche in questo caso, la molla è stata la fornitura da parte dei fratelli Cavallotti. Il giudice Saguto e i suoi colleghi hanno incaricato Cappellano Seminara che, insieme ai colleghi Enzo Bivona e Donato Pezzuto, è stato amministratore giudiziario delle società dal 19 maggio 2014 fino al luglio scorso. Anche in questa vicenda c’è stato ricorso a decine di coadiutori che sono costati nell’ordine di 1 milione di euro: una bella somma considerando le dimensioni molto più ridotte delle aziende in termini di ricavi e dipendenti. Le traversie giudiziarie dei fratelli Cavallotti hanno un parallelo nella storia del gruppo Mollica. Le società dei costruttori di Gioiosa Marea (Messina), guidate dai fratelli Pietro, Domenico e Antonio, sono finite nel mirino come parte integrante di Cosa Nostra, secondo le dichiarazioni di Angelo “Bronson” Siino, il ministro dei lavori pubblici della mafia. Nel 2011, i fratelli Mollica sono stati assolti da questa accusa tanto che le loro imprese, raccolte nel consorzio Aedars, hanno ottenuto la certificazione per partecipare al rifacimento della Scuola della Misericordia a Venezia, in società con la Umana di Luigi Brugnaro. Nel giugno di quest’anno, con i lavori della Misericordia compiuti e Brugnaro diventato sindaco della Serenissima, le aziende dei Mollica sono state sequestrate in base a una sentenza del tribunale di Roma che ha bloccato beni per 135 milioni di euro. Niente mafia, stavolta. Tre mesi prima, a marzo del 2015, Pietro Mollica era stato arrestato con l’accusa di bancarotta fraudolenta dell’Aedars e delle società consorziate, riconducibili ai Mollica. I giudici romani hanno affidato il gruppo a Cappellano Seminara. L’avvocato palermitano adesso è a un bivio. Sembra che il presidente del tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, gradirebbe un passo indietro del superamministratore. Si attendono i passi avanti dei politici.

È’ STATO IL PREFETTO CARUSO, CHE PER QUALCHE ANNO, SU NOMINA DI ALFANO, HA RETTO L’AGENZIA DEI BENI CONFISCATI ALLA MAFIA”, SEDE A REGGIO CALABRIA, AD AVERE APERTO L’ACCESSO A UNA STRADA CHE SEMBRAVA SBARRATA, A CAUSA DELLA “SACRALITÀ” O DI UNA METAFISICA INFALLIBILITÀ CON CUI VIENE CONSIDERATO L’OPERATO DELLA GIUSTIZIA.

Ciò che decide un giudice è solitamente inoppugnabile, o oppugnabile sino a sentenza definitiva, anche se dovesse presentare palesi discrepanze di giudizio, scrive Salvo Vitale su “Telejato”. Ma qualsiasi giudizio si fonda sull’inoppugnabilità della prova, al di là di ogni ragionevole dubbio. Nel nostro caso ci troviamo invece davanti a una legge che è la negazione dei principi della giurisprudenza, soprattutto di quelli che garantiscono la libertà dell’individuo e il suo diritto alla proprietà. Una legge che dovrebbe essere cancellata e di cui non c’è bisogno, in quanto, come dice Pietro Cavallotti nel suo profilo su facebook, “il sistema penale prevede strumenti di aggressione patrimoniale efficaci ma di certo più compatibili con lo Stato di diritto. Il comma 7 dell’art. 416 bis c.p. prevede già la confisca obbligatoria nei confronti di chi viene condannato per mafia. Già l’art. 12 sexies della legge 356 del 1992 prevede la confisca nei confronti di chi viene condannato per il reato di trasferimento fraudolento dei valori. Già il c.p.p. prevede nelle more del processo il sequestro preventivo. Le misure di prevenzione servono solo per fregare le persone di cui non si riesce a provare la colpevolezza nel processo penale. Si può e si deve ragionare in che termini modificare la legislazione antimafia… il problema non sono solo le persone ma – fondamentalmente – la legge. E se non si mobilita qualcuno o qualcosa per tentare di cambiare la legge, rimaniamo fermi al solito punto. E se aspettiamo che siano gli altri a muoversi invecchieremo in questa posizione scomoda”. Tale obbrobrio giuridico è passato in un certo momento in cui tutti si schieravano con l’antimafia, nessun giudice e nessun legislatore avrebbe mai messo in discussione misure repressive per colpire i mafiosi nei loro beni e così si sono avallati due principi “mafiosi” per combattere la mafia, ovvero “il libero convincimento” del giudice, che, sulla base di sue credenze, fissazioni, deduzioni, arzigogolate ricostruzioni di passaggi e parentele può entrare nell’ordine di idee che i beni di un soggetto cui rivolge il suo interesse, siano di provenienza mafiosa, e la facoltà di spiccare il decreto di sequestro “preventivo” in attesa che l’imputato dimostri la liceità di provenienza dei suoi beni.  Pertanto i passaggi sono: sospetto, sequestro, affidamento in amministrazione giudiziaria, udienza per la dimostrazione di liceità, cioè “onere della prova”, che non sempre è documentabile, rinvii a ripetizione, sino alla definitiva confisca o alla restituzione. Il termine “restituzione” del “maltolto” ai cittadini o al proprietario, sa di beffa, perché non viene restituito niente, nel migliore dei casi solo quattro ruderi spogliati di tutto. Così tutti hanno perso, lo stato, i lavoratori delle aziende, licenziati, il proprietario, eccetto che l’amministratore, che ha guadagnato la sua parcella d’oro, in parte, ma molto in parte, con i soldi dello stato, in gran parte con i soldi dell’azienda sequestrata. Se poi queste aziende affidate sono una decina, la ricchezza è assicurata. Se un centinaio… Cappellano Seminara. E attenzione, quando si parla di amministratore giudiziario non si parla di un singolo soggetto, ma di una serie di collaboratori, curatori, controllori, verificatori, delegati, responsabili di zona, tutta gente nominata dall’amministratore giudiziario e pagata a parte. Re Cappellano ha dichiarato di dar lavoro a una trentina di avvocati, ma anche gli altri avvocati esterni alla sua parrocchia sono in qualche modo legati a lui, sia perché egli ci può mettere la buona parola, sia perché possono avere qualche incarico collaterale. Sono i “quotini”, presumibilmente un centinaio, forse il doppio, figli, nipoti, cugini, parenti alla larga di giudici, di cancellieri, di esponenti delle forze dell’ordine, di impiegati del tribunale, uscieri, di professionisti vari, tutti “in quota” o all’interno dello stesso cerchio magico. I nomi si ripetono con la stessa monotonia: Turchio, Dara, Santangelo, Rizzo, Virga, Benanti, Geraci, Miserendino, Ribolla, Scimeca, Aiello, Collovà, Modica de Moach. Un posto importante meritano i commercialisti, sia per la loro abilità nel “mettere a posto le carte”, sia per una qualche capacità imprenditoriale, che, almeno nella prima fase dell’amministrazione, serve per non dare subito la sensazione dell’ingordigia. Il cerchio si allarga ancora a coloro che sono finiti sotto le grinfie di questo settore della giustizia non giusta, ai quali è stato sequestrato tutto, pure le biciclette delle bambine, e che elemosinano qualche briciola, molto spesso per potere curare se e i propri parenti, ma che non trovano alcuna forma di umana pietà. Per non parlare dei loro avvocati, che cercano di ottenere qualcosa al giudice capo, tanto per far vedere che si guadagnano la pagnotta, e che finiscono con l’essere cooptati all’interno del sistema di prevaricazione su cui si fonda buona parte di questa legge. Manco a dirlo, la nomina degli amministratori è “fiduciaria”, cioè è nella facoltà del giudice nominare una persona, qualsiasi essa sia, che goda della sua fiducia: ed anche qua la correttezza d’azione all’interno di regole, tipo una graduatoria di merito degli amministratori, che possa costantemente scorrere, va a farsi friggere. Siamo nel regno dell’arbitrio e non in quello della giustizia, il tutto in nome della giustizia e “per il bene dello stato”. Stesso circuito con stesse perversioni nomine criptate, sovrabbondanza di incarichi, scambi di favori tra parentele, e quant’altro può suggerire il male italico della corruzione, lo si può trovare nel campo dei curatori fallimentari. E’ sembrato quasi un “mettere il ferro dietro la porta”, cioè una sorta di autodenuncia in tutela, la circolare del 18 settembre 2015 con la quale i sei giudici della Sezione Fallimentare di Palermo hanno chiesto di procedere a un “monitoraggio periodico degli incarichi al fine di rendere più efficiente l’attività di controllo delle nomine”. Sia chiaro, la discrezionalità del giudice non si tocca: egli rimane libero di nominare a suo piacimento chiunque sia iscritto all’ordine degli avvocati o dei commercialisti. Il curatore si mette al lavoro mettendo in vendita e mettendo all’asta il patrimonio del fallito, case, macchine, gioielli, mobili ecc. per pagare i creditori. Vendite ed aste possono essere pilotate: in fondo si tratta di affari a prezzi stracciati. Naturalmente il curatore nomina dei consulenti, dei contabili, dei periti, ufficiali giudiziari, tutto a spese del fallito. Quasi mai i creditori riescono a rifarsi. Altrimenti che senso avrebbe dichiarare fallimento? Per far vedere che vogliono “regolamentarsi” i giudici fallimentari hanno proposto che ogni curatore non può avere più di venti incarichi (verrebbe da dire: “e tè minchia!!!”) e che ogni giudice non possa nominare più di tre volte in un anno lo stesso curatore (ma va!!!). Si prescrive anche che “I curatori dovranno astenersi dal nominare come legali altri professionisti inseriti nel proprio studio o con i quali vi siano collaborazioni continuative o rapporti di parentela o connubio.” Se il curatore è un avvocato, dovrà evitare e comunque contenere” (bellissimo!!!) le nomine di legali che abbiano a loro volta nominato lui stesso come legale nelle procedure ad essi affidate, sempre che non si tratti di nomine occasionate dalla particolare esperienza del professionista, (bellissimo anche questo!!!). Se è spuntata questa circolare, vuol dire che sino ad adesso si è fatto così, nella doppia logica del “tiengo famiglia” e di “una mano lava l’altra e tutte e due lavan la faccia”. Fiore nell’occhiello, la circolare lamenta, forse a giustificazione delle vergogne sinora portate in atto, “un esiguo numero di dottori commercialisti consulenti del lavoro, che hanno maturato esperienza in materia concorsuale, che rende, allo stato, difficoltosa una rigida applicazione dei suddetti criteri”. Cioè, ci vorrebbero far credere che non ci sono in giro commercialisti cui affidare gli incarichi e che, per questo, li affidano sempre agli stessi. Con tutti i disoccupati economisti laureati o diplomati ragionieri, la cosa sembra una beffa o una presa in giro. Quando il prefetto Caruso sollevò la questione davanti alla Commissione Antimafia venuta a Palermo, tutti si voltarono dall’altra parte, Rosi Bindi alzò le spalle infastidita per quello che sembrava un attacco al lavoro della magistratura, ultima barriera contro lo strapotere mafioso e preferì perdere tempo ad ascoltare le pompose audizioni degli amministratori giudiziari e le loro insinuazioni, anche nei confronti di Caruso, il quale fu messo alla porta e pensionato, senza neanche i rituali ringraziamenti. Da allora il malessere è dilagato e rischia di diventare un’epidemia. Difficilmente si potrà cambiare tutto, si sposterà qualche tassello e poi il tempo farà tornare tutto al suo posto. E’ stata strombazzata, entro l’anno, una legge che regolamenti tutto con nuove norme, ma è improbabile che le novità siano tali da arrivare, come sarebbe auspicabile, all’abolizione dell’intera barbara legge sulle misure di prevenzione. In uno stato di diritto la sentenza definitiva di un tribunale va rispettata, e invece esistono centinaia di casi di imprenditori assolti definitivamente, con restituzione dei beni e che invece restano sotto la stretta delle misure di prevenzione, le quali possono riservarsi di ignorare la sentenza o di spiccare un altro ordine di sequestro cambiando qualche motivazione. Normale chiedersi se esiste una giustizia, quella del tribunale, o se esiste, come esiste, accanto ad essa, la giustizia del tribunale di prevenzione. In un periodo di povertà e di crisi galoppante, la Sicilia è la regione col maggior numero di disoccupati, l’emigrazione è l’unica possibilità di occupazione per i giovani, il lavoro nero è la norma, tra la morsa della necessità di sopravvivenza e quella dello sfruttamento bestiale. La concorrenza nel lavoro è alimentata dalle basse e irrisorie tariffe pagate a migranti, ma strozzata da norme, burocrazia e costi enormi per la “messa in regola”, che non è quella mafiosa. Persino diversi imprenditori si sono stancati del balzello mafioso del pizzo e si sono messi a denunciare i loro estorsori o ad invitarli, cosa non facile, a sloggiare.  La gestione dei beni sequestrati e confiscati, che in Sicilia è del 40% dell’ammontare nazionale e che si stima in  trentamila, qualcuno dice quarantamila miliardi, va al di là di qualsiasi finanziaria, stimola appetiti, corruzioni, arricchimenti, speculazioni, ma potrebbe essere, se fatta con criterio, una risorsa contro alcuni mali endemici del Mezzogiorno, nel rispetto del lavoro degli imprenditori ai quali è troppo facile appioppare una patente di mafiosità, nella  presenza dello stato che tenga conto della voglia di riscatto, di collaborazione, di rottura col passato di alcuni imprenditori che “hanno fatto il salto”,  e nella considerazione di intere famiglie che perdono, con il sequestro, il posto di lavoro e hanno ben poca possibilità di compensarlo. In fondo sono soldi nostri. Una casta di magistrati, avvocati e consociati ha sinora fatto il bello e il cattivo tempo, richiamando tecniche e caratteristiche che richiamano spesso quelle tipiche della mafia.

Gira la manovella e la musica è sempre quella. Non se ne può più. Per cambiare ci vuole per forza la rivoluzione?  

IN UN SERVIZIO SULL’ESPRESSO ALCUNE DELLE PARCELLE D’ORO DEL RE DEGLI AMMINISTRATORI GIUDIZIARI. Cappellano sta male, continua Salvo Vitale. Non ha detto se gli fa più male la cappella o…: ha dichiarato che non si sente tranquillo, che si trova nell’occhio del mirino, perseguitato, non dai mafiosi, ma da giornalisti curiosi che vogliono danneggiarne l’immagine e rovinare la sua “azienda”, cioè il suo ufficio legale. Questi cattivi soggetti, così facendo lo mettono in pericolo e aizzano contro di lui le vittime del suo operato, spingendole addirittura all’omicidio, come recentemente successo nel caso  della cava Giardinello di Trabia, dove un operaio licenziato ha ucciso i due responsabili della cava, da lui nominati. C’è addirittura chi, come Pino Maniaci, lo perseguita, ce l’ha con tutta la sua famiglia e giornalmente esercita su di lui lo “stalking” (caccia, inseguimento furtivo, appostamento, atteggiamento persecutorio ecc.). Non più di un anno fa la signora Saguto, alla Commissione Antimafia venuta ad ascoltarla, denunciava incazzata: “Stiamo assistendo ad un attacco al sistema. Non può essere un caso che in un momento in cui l’attività è particolarmente incisiva viene sferrato un attacco diffondendo dati falsi sugli amministratori che si arricchiscono e sui giudici indicati come conniventi”.  Come nella strategia di alcuni giudici e politici, chi osa mettere in discussione l’operato dei magistrati è un mafioso o un estremista. Così chi osava denunciare finiva con l’essere sospettato o indiziato di fare il gioco della mafia. Era evidente che si trattava di un’infame provocazione. Tuttavia la Saguto in una cosa aveva ed ha ragione: è un attacco, quello condotto dai suoi colleghi di Caltanissetta, ma principalmente da Telejato, poi ripreso da altre testate, contro il sistema di potere da lei stessa creato e che ben poco ha a che fare con l’amministrazione corretta della giustizia. E’ chiaro che, dopo che il complesso sistema di controllo dell’apparato dei beni confiscati alla mafia, e, sarebbe oggi bene aggiungere, alla presunta mafia, sta cominciando a venir fuori, a Cappellano forse comincia a bruciare qualche parte del corpo. Diciamo forse, perché il tipo, con l’arroganza che lo contraddice, continua a dichiarare di essere in una botte di ferro, dinon avere nulla da rimproverarsi, di volere restare al suo posto, anche per garantire tutti coloro che sono sotto la sua ala protettiva.  Non staremo a individuare i suoi possibili reati: è compito dei magistrati. Alcune cose le abbiamo denunciate, altre vengono fuori a poco a poco. Come quelle che ha scritto l’Espresso, nel numero di questa settimana. Il prestigioso giornale si è accorto del problema con molto ritardo e dedica al super-avvocato e alla sua compagna di merenda, la signora Saguto, quattro pagine. In particolare sono denunciati due fatti:

La Italcementi, una delle più grandi aziende italiane di calcestruzzo, adesso acquistata dai tedeschi, nel 2008 finisce sotto sequestro, continua ancora Salvo Vitale.  Cappellano, nominato amministratore giudiziario vi lavora per sette mesi e poi spara la sua parcella, 18 milioni di euro, “pari, scrive l’Espresso, a 90 mila euro per ognuna delle giornate trascorse nella sede della società bergamasca.”  La Italcementi  con il permesso, e quindi con l’avallo della firma del giudice delle misure di prevenzione ha già pagato 7,6 milioni, ma Cappellano pretende un “fuori-busta”, cioè una sua personale parcella, non certificata dal giudice, chiamiamola un  “bonus”, per rilasciare una sorta di attestato di garanzia, in termini tecnici “un’”assurance” per attestare che l’industria è pulita o è stata ripulita da qualsiasi infiltrazione mafiosa e che è in regola con tutte le norme di legge, quindi non è passibile di procedimenti giudiziari di qualsiasi tipo: discorso chiaro: dammi altri 12 milioni e ti garantisco che nessuno verrà più a romperti le scatole. La Italcementi non ci sta, si rivolge al giudice che, tra un rinvio e un altro deve ancora decidere in Cassazione: i due verdetti precedenti indicano che il nostro grande esperto dovrebbe restituire almeno 2 milioni di quello che ha già incassato. La fame di denaro del gruppo d’affari legato a Cappellano si può anche rilevare dal milione di euro spillato alla Gas Natural Fenosa, un’azienda spagnola che si è trovata a gestire affari dai quali si risaliva a Vito Ciancimino, cosa che ci porta poi dritti dritti alla discarica di Glina in Romania, sulla quale Cappellano è indagato. Ma sarebbe troppo lungo elencare fatti e malefatte di questo signore.  Citiamo solo una lettera pervenuta a Telejato, che ci parla di due imprenditori  catanesi, Antonio e Luigi Padovani, ai quali nel 2011 la procura di Caltanissetta sequestra tutti i beni (immobili, noleggio macchinette da gioco, intrattenimento,  sale scommesse telematiche), affidandone l’amministrazione giudiziaria a Cappellano Seminara, che chiama come collaboratore il marito della Saguto, l’ing, Caramma e, dopo una serie di spese pazze e ingiustificate, mette in vendita, anzi in svendita, nel giro di pochi mesi, tutti i beni dell’azienda, e ne incassa il ricavato, a pagamento delle sue parcelle. C’è da chiedersi come mai dalla procura di Caltanissetta, dove l’incarico dei beni sequestrati è affidato al giudice Tona, si nomina un palermitano, legato, come si sa, al gruppo di giudici palermitani che fa capo alla Saguto, per controllare aziende di Catania, con costose trasferte, e come mai non sia stato preso alcun provvedimento malgrado le segnalazioni dei legali dei due imprenditori, ormai rovinati. Ma c’è anche da notare che, proprio dalla Procura di Caltanissetta, i cui magistrati provengono in gran parte dalla Procura di Palermo, dal pm Cristiana Lucchini, è partita l’indagine nei confronti della Saguto e dei suoi collaboratori. L’auspicio è che non si chiuda tutto con un abbraccio tra amici e colleghi. A proposito della Saguto, dopo la mazzata che le è caduta sul capo, sta male anche lei: appena guarita dalla frattura, con ingessatura, del braccio è entrata in depressione ed è attualmente in congedo. Un augurio di presta guarigione, anche perché in tribunale, dove l’hanno spostata, c’è un bel po’ di lavoro che l’aspetta.

L’ITALGAS È UN’AZIENDA DI BERGAMO, DI DIMENSIONI NAZIONALI, LEGATA ALLA SNAM. Dopo una serie di rocambolesche vicende l’azienda Euro Impianti plus, dei fratelli Cavallotti, una famiglia di imprenditori di Belmonte Mezzagno, finita, da ormai 15 anni nel mirino della magistratura perché accusata di godere della protezione di Bernardo Provenzano, e amministrata in modo disastroso da Modica de Moach, (quello che, intervistato dalle Iene ha fatto una figura pietosa), è stata affidata all’avvocato Andrea Aiello, il quale l’ha messa in liquidazione nel 2015. I Cavallotti sono stati assolti definitivamente dall’accusa di far parte del sodalizio mafioso, ma le loro aziende sono rimaste sotto sequestro per volontà dell’Ufficio di prevenzione. Aiello trova chela Italgas ha fatto un accordo e firmato un contratto con la Euro Impianti, lo riferisce al pm Scaletta, attualmente anch’esso trasferito d’ufficio. E’ chiaro che la Euroimpianti non avrebbe potuto sottoscrivere alcun accordo la firma dell’amministratore giudiziario, ma Scaletta, assieme al terzetto di  giudici delle misure di prevenzione Saguto,  Licata e Chiaramonte studiano un bel piano d’azione, e, con la scusa o l’accusa di un ipotetico pericolo di infiltrazioni mafiose affidano proprio ad Aiello, che intento aveva già chiesto alla Italgas 20 milioni per il pagamento di alcune forniture da parte della Euro impianti,  l’incarico di “ripulire” l’azienda assieme ad altri tre amministratori, l’ing. Caramazza, il prof. Frey e il commercialista Saporito, che nominano a sua volta altri 43 coadiutori, ai quali la Italgas versa parcelle di circa 140 mila euro a testa. Un anno di amministrazione giudiziaria, secondo i legali della Italgas è costato circa sette milioni di euro, ma il dissequestro, deciso da Scaletta nel 2014, non implica la riconsegna. L’ufficio misure di prevenzione studia un sistema di “amministrazione vigilata”, cioè si riconsegna l’azienda, nel luglio 2015, ma, viene nominato un organo di vigilanza composto dagli eminenti proff. Universitari Fiandaca, Perini e Varraso, cui si associano tre consulenti e coadiutori dello studio di Aiello, Amenta, Mesina e Giuffrida, che hanno assistito Aiello nel suo anno di amministrazione.

LA SCONCERTANTE VICENDA CHE VEDE COINVOLTI L’AVV. CAPPELLANO SEMINARA E LA DOTT.SSA SAGUTO, EX PRESIDENTE DELLA SEZIONE MISURE DI PREVENZIONE DEL TRIBUNALE DI PALERMO, NONCHÉ IL DI LEI MARITO ING. CARAMMA, PER LA ANOMALA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI E CHE È OGGETTO DI INDAGINI DA PARTE DELLA PROCURA DI CALTANISSETTA, SI ARRICCHISCE DEL CONTRIBUTO FORNITO AGLI INQUIRENTI DA ANTONIO PADOVANI E SUO FIGLIO LUIGI FABIO. I due imprenditori catanesi, padre e figlio, hanno subito ad opera del Tribunale di Caltanissetta, sezione misure di prevenzione, il sequestro e la confisca di tutti i loro beni, consistenti in immobili e numerose società che operavano nel settore del noleggio delle macchinette da gioco ed intrattenimento, nonché nelle scommesse telematiche, racconta Salvo Vitale su "Telejato". Al momento del sequestro (dicembre 2011) venne nominato amministratore giudiziario il solito avv. Cappellano Seminara, che sin da subito si avvalse della collaborazione dell’ing. Caramma, che più volte si recò a Catania, continuando a farlo sino a pochi mesi fa (ma la dott.ssa Saguto non ha dichiarato ai media che suo marito aveva ricevuto un solo incarico nel 2009?). I Padovani si resero subito conto delle modalità di gestione dei beni sequestrati, messi in allarme da alcune stranezze, quali il trasferimento da Torino a Catania di una autovettura Ferrari berlinetta effettuato inviando a Torino una (o forse due) persona, con conseguenti spese di aereo, pernottamenti e vitto, assicurazione dell’auto e benzina: il tutto per un costo di circa 4 – 5.000,00 euro, mentre un trasferimento a mezzo autotreno sarebbe costato poche centinaia di euro. Questa stranezza venne segnalata in udienza al Tribunale (che peraltro aveva autorizzato simile procedura) dai difensori dei Padovani, gli avvocati Sergio Falcone e Deborah Zapparrata del Foro di Catania, ma la segnalazione non ebbe seguito alcuno: anzi, il Tribunale continuò ad autorizzare tutte le vendite successive: autovetture personali ed aziendali vendute a prezzi di gran lunga inferiori al valore di mercato, centinaia di macchine da gioco del valore di circa 800 – 900 euro ciascuna vendute a prezzi tra i 200 e 250 euro, la stessa Ferrari, valutata dal perito 40 – 45.000 euro venduta per 30.000,00 euro, una imbarcazione di valore prossimo ai 100.000,00 euro venduta per 40.000,00: ed altro ancora! In più, tutte le Aziende sono state chiuse nel giro di pochi mesi, tutti i loro beni, mezzi e attrezzature venduti con le stesse modalità, il personale licenziato. I Padovani denunziano la gestione, finalizzata esclusivamente (in totale spregio della legislazione vigente) a realizzare danaro per pagare le laute parcelle dell’Amministratore e dei suoi collaboratori. Alla fine, se la confisca dovesse essere revocata, ai Padovani verrà restituito….niente, cosi come niente incamererà lo Stato in ipotesi di definitività della confisca: gli unici a guadagnarci, e non poco, saranno gli amministratori. Trovano anche strano, i Padovani, che sia stato nominato Amministratore giudiziario dei beni sequestrati il Cappellano Seminara, dal momento che la maggior parte di essi si trova a Catania, e sarebbe stato più logico, sia per ragioni logistiche che di risparmio di spese (quali ad esempio le frequentissime trasferte a Catania sia del Cappellano che dei suoi collaboratori), ricorrere ad un professionista catanese. Tutto ciò è stato rappresentato alla Procura di Caltanissetta con un esposto denunzia firmato da entrambi i Padovani, i quali chiedono che si faccia chiarezza sulla gestione, sulla attualità della collaborazione (che si protrae da anni) dell’ing. Caramma con il Cappellano Seminara, e sulle ragioni per le quali il Tribunale di Caltanissetta, nonostante le segnalazioni dei Difensori, abbia continuato ad autorizzare simile modo di procedere da parte dell’Amministratore giudiziario.

UNA STORIA INTERESSANTE: NON HA PRESENTATO PER ALCUNI ANNI LA DICHIARAZIONE DEI REDDITI PERCHÉ LAVORAVA IN AMERICA E PERTANTO, I SUOI BENI SONO FRUTTO DI RICICLAGGIO. E’ PROSCIOLTO, MA FONTANA NON FIRMA LA SENTENZA. Tutto comincia dal sig. Evola Giuseppe, di Carini, che, grazie al suo lavoro di sansale conosce tutti, e pertanto concorre, in associazione mafiosa con alcuni di questi “tutti”, racconta ancora Salvo Vitale". Affitta un locale, dove c’era una pescheria, al bivio di Carini a Vito Caruso, uno indagato per piccolo spaccio di droga, che, secondo gli inquirenti, nelle intercettazioni era spacciata per gamberoni. Ci sono anche gradi di parentela della moglie di Evola con i boss di Carini Battista Passalacqua e Pecoraio Giuseppe. Evola è arrestato nel corso di dell’operazione Grande Padrino, rimane in carcere per due giorni, viene rilasciato e messo ai domiciliari per qualche mese sottoposto a processo è prosciolto da ogni accusa dal giudice Morosini, ma ecco che, quando tutto sembra finito arriva, il 20 giugn0 2014 la mannaia delle misure di prevenzione: tutto sequestrato, non solo ad Evola, ma anche alle due figlie, e quindi ai generi. Si trova che uno di essi, Antonio Nicastri non ha presentato dichiarazione dei redditi dal 2002 al 2007 e che quindi i suoi beni sarebbero   di provenienza illecita. Tra questi c’è una casetta di 70 mq, con annesso terreno, in affitto, una casa in costruzione e soprattutto un rinomato locale di ristorazione, in via Strasburgo, a Palermo, dal nome “Times Square”, dove si cucinano specialità americane. Le indagini non tengono conto, intenzionalmente, che il sig. Nicastro, da tempo è stato residente in America, dove ha regolarmente presentato le sue dichiarazioni di redditi e che quello che ha realizzato in Italia è frutto del suo lavoro e dei suoi risparmi, e che quindi non ha niente a che fare né con le attività del suocero, né con eventuali riciclaggi di soldi mafiosi. Il decreto di sequestro emesso dal solito trio Saguto-Licata-Chiaromonte è un capolavoro di arzigogolature, di deduzioni forzate, di illazioni riportate come conseguenze logiche, senza il briciolo di una prova. Fra l’altro non riporta una stima complessiva dei beni sequestrati. L’amministrazione giudiziaria viene affidata a uno dei re amministratori, Luigi Turchio, il quale, per i primi tre mesi riscontra che il fatturato era conforme a quello dichiarato. Turchio mette a rappresentarlo un ex funzionario della DIA, che passa il tempo a giocare in un vicino better gli incassi della giornata, anche più di 500 euro al giorno, e che sistema nel locale la figlia, la moglie e la nuora. Quando Turchio è avvisato dal titolare Nicastro licenzia tutti e quattro. Piano piano vengono licenziati gli undici lavoratori che vi prestavano servizio e tutto viene interamente chiuso il 4 giugno 2015. In un anno Turchio è stato capace di portare al fallimento uno dei locali più “in” di Palermo, senza un briciolo di resoconto del suo “non far niente”. All’atto della chiusura non si consente neanche una pulizia straordinaria con sgombero, viene lasciato il gelato ad ammuffire nei pozzetti, le derrate alimentari a marcire, ci sono scoli d’acqua, vermi, topi, devastazione e scomparsa delle attrezzature. Intanto Nicastri, attraverso un legale che sembra non legato al quotini palermitani, riesce a far valere le ragioni del suo cliente ed ottenere una sentenza di chiusura del caso e di restituzione dei beni. Scoppia intanto lo scandalo, la Saguto e Licata sono trasferiti e Nicastri si reca dal nuovo presidente delle misure di prevenzione dott. Fontana   per chiedergli di firmare la sentenza. Dopo cinque ore di attesa Fontana riceve il Nicastri, ma gli dice che firmare non è compito suo, ma dei giudici che hanno emesso il decreto, cioè Saguto, che è in malattia per depressione e Licata, che non si sa dov’è finito, forse in ferie. C’è da restare allibiti: un giudice la cui competenza è quella di firmare gli atti che gli sono stati lasciati da chi l’ha preceduto, dice che non è compito suo. E il povero Nicastri aspetta, mentre la moglie e gli altri due figli sono tornati in America. Salvo Vitale è stato un compagno di lotte di Peppino Impastato, con il quale ha condiviso un percorso politico e di impegno sociale che ha portato entrambi ad opporsi a Cosa Nostra, nella Cinisi governata da Tano Badalamenti, il boss legato alla Cupola guidata negli anni Settanta da Stefano Bontate.

Storie di ordinaria giustizia, scrive “Telejato”. SONO COME I MIGRANTI. ORMAI SI È SPARSA LA VOCE E OGNI GIORNO ARRIVANO PRESSO GLI STUDI DI TELEJATO PER RACCONTARE LE LORO STORIE. Ci chiedono che fare e non sappiamo cosa rispondere. Diciamo che noi facciamo i giornalisti e possiamo solo scrivere e loro ci dicono che va bene, bisogna che la gente sappia come si amministra la giustizia in Italia, tutti devono conoscere le loro storie, affinchè si tenti di smontare un sistema così perfetto che stritola la vita di coloro che hanno avuto la sfortuna di finirci dentro. Sono episodi allucinanti di persone che si sono viste sequestrare tutto, che hanno visto la loro vita e quella dei loro parenti distrutta, sono stati cacciate dalle loro case, sono state bloccate ogni volta che tentavano di iniziare un nuovo lavoro, che con le loro residue risorse o con prestiti sono riuscite a pagare un avvocato, spesso corrotto e che alla fine sono riuscite a far valere in tribunale le loro ragioni. Dopo i tre gradi di giudizio l’imputato è assolto, non ci sono sufficienti prove a suo carico, si dispone la restituzione dei beni. Ed è proprio quello il momento più triste: i beni non ci sono più, sono stati mangiati dall’amministratore giudiziario e dai suoi collaboratori ed è inutile chiedere di essere risarciti, perché la legge non lo prevede.  Addirittura arrivano bollette e fatture da pagare, che l’amministratore non ha pagato, pensando solo a spremere la mammella sino a quando c’era latte e, in questo caso, la risposta del tribunale è: paga per il momento, poi avvieremo La pratica giudiziaria per il rimborso e alla fine, tra qualche anno o tra qualche decennio riavrai i tuoi soldi. Ieri ne sono arrivati tre. Prima storia: Pino Pirrone aveva una gioielleria in viale Strasburgo. Il padre era conosciuto come uno dei più rinomati gioiellieri di Palermo e lui ne aveva continuato l’attività. In un certo momento  suo fratello, gioielliere anche lui, era stato ucciso nel corso di una rapina nel suo negozio ed egli aveva pensato di tutelare i suoi risparmi e gli interessi delle sue due figlie ascoltando il suggerimento di un suo amico, in servizio presso un corpo militare, di entrare in società con una signora, titolare di un’attività, riversando parte dei suoi soldi nel conto corrente di questa tizia Difficile capire cosa ci fosse sotto, probabilmente un tentativo di dirottare i soldi ad un prestanome, ma in un certo momento il Pirrone si ritrova addosso un’accusa di usura e, nel 2003, con un’ordinanza del giudice Cerami gli viene sequestrato il negozio e ogni altra proprietà. Amministratore giudiziario è nominato l’avv. Di Legami, cioè uno dei tanti in quota, cioè nella lista dei privilegiati dal tribunale di Palermo. Nel negozio rimane, per un certo tempo la figlia di Perrone, alla quale non viene pagata alcuna retribuzione, mentre viene assunta una “amica”, figlia dell’autista del giudice Bottone, cognato dell’avv. Di Legami, la quale, dopo qualche anno si licenzia e apre una sua gioielleria in via Pacinotti. Nuova assunzione di un’altra amica che, anch’essa, dopo un certo periodo di “lavoro” apre anche lei una gioielleria presso la chiesa di San Michele. L’iter giudiziario prosegue il suo corso e il Perrone viene assolto con formula piena sia in primo grado che in appello e quest’ultima sentenza diventa definitiva poiché non c’è stato da parte del giudice un’altra richiesta di giudizio.  Prosegue anche a vicenda dell’amministrazione del bene, che viene confiscato dal giudice Vincenti con la collaborazione dei giudici Chiaramonte e Scaletta, sino al 2012, quando viene annullata la confisca e disposto il reintegro dei beni. Quando viene data al proprietario la chiave del suo negozio egli non trova più nulla. Anzi, qualche giorno dopo gli viene recapitata un’intimazione di pagamento di 100.000 euro per l’affitto del negozio, a firma Cappellano Seminara, giudiziario dell’Immobiliare Leonardo Da Vinci, proprietaria del locale Cappellano ha aspettato che andasse via Di Legami, al quale non poteva chiedere nulla, sia perché non c’era più nulla, sia perché tra colleghi ci si rispetta. Perrone si rivolge al tribunale e gli dicono che, per prima cosa deve pagare, poi deve fare un ricorso e una richiesta di rimborso e aspettare.  Pervengono anche altre fatture per merce non pagata e al povero Pirrone non rimane altro che chiudere il locale, rivolgersi a un avvocato romano, che inoltra un ricorso alla Corte di Strasburgo. E infine, per colmo di beffa, al sig. Perrone viene restituita anche la chiave di un suo vecchio appartamentino: quando vi si reca per riprenderne possesso, vi trova alloggiata una famiglia che non ha alcuna voglia di sloggiare.  Piccola curiosità: tra i tanti avvocati di Pirrone c’è anche un certo Monaco, che è anche difensore di Cappellano Seminara.

Una cosa è certa, però. Per i poveri cristi vale “Colpevole fino a prova contraria”. Per gli intoccabili vale "Innocente fino a prova contraria o fino all’archiviazione o alla prescrizione".

Nel "palazzo dello scandalo". Un giorno con i giudici indagati, scrive Riccardo Lo Verso Mercoledì 23 Settembre 2015 su “Live Sicilia”. Da Silvana Saguto a Tommaso Virga, passando per Lorenzo Chiaromonte e Dario Scaletta. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani che attenderanno il giudizio del CSM sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Tommaso Virga è nella sua stanza al primo piano del nuovo Palazzo di giustizia di Palermo. Due rampe di scale lo separano dalla sezione Misure di prevenzione finita sotto inchiesta. Siede alla scrivania dopo avere appeso la toga e tolto la pettorina, il bavaglino bianco che un regio decreto del 1865 impone di indossare ai giudici in udienza. Questioni di forma e decoro. Virga parla con i cancellieri e prepara il calendario delle udienze della quarta sezione penale. Fa tutto ciò che deve fare un presidente che si è appena insediato. Archiviata l'esperienza di consigliere togato al Consiglio superiore della magistratura aspettava che si liberasse una sezione a Palermo. Un incrocio, quanto meno insolito, ha fatto sì che andasse a prendere il posto di Mario Fontana, chiamato a sostituire Silvana Saguto, l'ex presidente delle Misure di prevenzione travolta dall'indagine in cui è coinvolto lo stesso Virga. Che si mostra disponibile con il cronista che bussa alla sua porta. “Nel rispetto del ruolo che ricopro non ho mai fatto dichiarazioni”, dice il presidente chiarendo subito la sua intenzione di non cambiare idea proprio adesso. Inutile chiedergli dell'indagine che lo coinvolge, della credibilità della magistratura che vacilla, della perplessità legittima di chi si chiede se questa storia possa intaccare la serenità necessaria per chi deve amministrare la giustizia al di là di ogni ragionevole dubbio, dell'opportunità di continuare a fare il giudice a Palermo. Perché tutti i magistrati coinvolti nell'indagine sono e resteranno a Palermo. Alcuni hanno cambiato incarico, altri hanno rinunciato a parte dei loro compiti, ma è negli uffici giudiziari palermitani, nei luoghi dello scandalo, che attenderanno il giudizio del Csm sulla loro eventuale incompatibilità ambientale. Virga è tanto garbato quanto ermetico. Si limita a fare registrare un dato incontrovertibile: “Sono al mio posto, a lavorare”. I suoi gesti e il tono della voce sembrano rispondere alla domanda sulla serenità. Qualcuno degli addetti alla cancelleria si spinge oltre le impressioni con una frase asciutta: “L'autorevolezza del presidente Virga è fuori discussione”. Già, l'autorevolezza, al centro delle discussioni che impegnano gli addetti ai lavori nell'apparente normalità di una mattinata al Palazzo di giustizia. Apparente perché è profondo il solco tracciato dalla domanda che anima ogni capannello che si forma nei corridoi o davanti alle aule: può essere credibile una magistratura segnata da un'indagine, fastidiosa oltre che grave visti i reati ipotizzati? Nello scandalo dei beni confiscati sono coinvolti quattro magistrati. Uno è Tommaso Virga, gli altri sono Silvana Saguto e Lorenzo Chiaramonte (vecchi componenti della sezione Misure di prevenzione, azzerata con l'arrivo di Fontana) e il pubblico ministero Dario Scaletta. Hanno ruoli diversi nella vicenda. Per tutti vale il principio della presunzione di non colpevolezza su cui si basa il nostro stato di diritto. La Saguto sarebbe il vertice del presunto sistema affaristico - i pubblici ministeri di Caltanissetta ipotizzano i reati di corruzione, induzione alla concussione e abuso d'ufficio - creato attorno alla gestione dei beni sequestrati e confiscati alla mafia. Un sistema che avrebbe finito per favorire alcuni amministratori giudiziari piuttosto di altri. Fra i “favoriti” ci sarebbero Gaetano Cappellano Seminara, il principe degli amministratori, e il giovane Walter Virga, figlio del Tommaso di cui sopra. A detta dei pm nisseni, il primo sarebbe stato nominato in cambio di consulenze assegnate al marito della Saguto e il secondo per "ringraziare" Virga padre che, quando era consigliere del Csm, avrebbe calmato le acque che si agitavano sull'operato della Saguto. Un aiuto smentito nei giorni scorsi da Virga, tramite il suo legale, l'avvocato Enrico Sorgi: “Durante il proprio mandato al Csm non risultano essere stati avviati procedimenti disciplinari a carico della Saguto. I fatti che formano oggetto della notizia diffusa sono del tutto privi di potenziale fondamento”. Chiaramonte, invece, è indagato per abuso d'ufficio perché non si sarebbe astenuto quando ha firmato l'incarico di amministratrice giudiziaria a una persona di sua conoscenza. Infine c'è Dario Scaletta, pm della Direzione distrettuale antimafia e rappresentante dell'accusa nei processi in fase di misure di prevenzione. Scaletta avrebbe fatto sapere alla Saguto che era stata trasferita da Palermo a Caltanissetta l'inchiesta su Walter Virga e cioè il fascicolo da cui è partito il terremoto giudiziario. Il pubblico ministero ha chiesto di non occuparsi più di indagini su Cosa nostra e di misure di prevenzione. Tutti i magistrati, coinvolti nell'indagine a vario titolo e con profili diversi, restano a Palermo. Silvana Saguto, appena avrà recuperato da un infortunio fisico, andrà a presiedere la terza sezione della Corte d'assise. Chiaramonte, ultimate le ferie, prenderà servizio all'ufficio del Giudice per le indagini preliminari. Sarà il Csm a decidere se e quando trasferirli. Sul caso è stato aperto un fascicolo, di cui si occuperà la Prima Commissione, competente sui trasferimenti per incompatibilità ambientale e funzionale dei giudici. Il Consiglio superiore della magistratura per tradizione non spicca in velocità. In una giustizia spesso lumaca non fa eccezione il procedimento davanti all'organismo di autogoverno della magistratura che somiglia molto, nel suo svolgimento, ad un processo ordinario. A meno che non venga preso un provvedimento cautelare urgente ci vorrà tempo prima di conoscere il destino dei magistrati, forse più di quanto ne servirà ai pubblici ministeri di Caltanissetta per chiudere le indagini o agli stessi indagati per chiarire la loro posizione. Il “forse” è dovuto al fatto che le indagini affidate ai finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Palermo sembrano essere appena all'inizio e i pm non hanno alcuna intenzione, al momento, di sentire i magistrati che avevano chiesto di essere interrogati. Oggi, però, son arrivate le parole del vicepresidente del Csm Giovanni Legnini durante il plenum. "Oggi parlerò con il presidente della Repubblica", ha detto ribadendo la volontà di "procedere con la massima tempestività e rigore".

Delegittimare la Magistratura? Scrive Salvo Vitale su "Telejato".

QUALCHE GIORNO FA ABBIAMO SENTITO UNA POCO FELICE USCITA DEL GIUDICE MOROSINI, DA POCO ELETTO COME MEMBRO DEL CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA E QUINDI IN VISITA A PALERMO, CIOÈ PRESSO LA PROCURA IN CUI HA LAVORATO E A CUI APPARTIENE, CON I SUOI COLLEGHI, SU INVITO DEL PRESIDENTE MATTARELLA, CHE DI QUEL CONSIGLIO HA FATTO PARTE, DOPO IL TERREMOTO CHE HA SCOSSO L’UFFICIO MISURE DI PREVENZIONE.

Compito del Consiglio è quello di individuare se, nell’operato dei cinque magistrati coinvolti, Saguto, Scaletta, Licata, Chiaromonte e Virga, ci sono gli elementi per un trasferimento per incompatibilità ambientale e quindi valutare l’opportunità di un loro trasferimento ad altra sede. Vogliamo precisare che Morosini, che è stato segretario nazionale di Magistratura Democratica, è un giudice serio, competente, attento, che ha svolto un prezioso lavoro a Palermo: lo abbiamo ospitato nei nostri studi per un’intervista condotta da Salvo Vitale sul suo libro “Il Gotha di Cosa Nostra”. Adesso, non è chiaro se spinto da particolari personali motivi, riferendosi alle attuali vicende del tribunale di Palermo, ha detto che si sta correndo il rischio di delegittimare la magistratura. E qui vorremmo capire: a quale magistratura si riferisce, giudice Morosini, a quella della Saguto o quella del suo collega Di Matteo? Quella che diffonde la notizia di un attentato farlocco, basato su un’intercettazione vecchia di un anno, per rafforzare la sua immagine di giudice nel mirino, a cui, per questo, è stata comprata una macchina da 250 mila euro, o quella di un giudice sulla cui pelle passeggiano a Palermo cento chili di tritolo che non si trovano? Quella di suoi colleghi che spiccano decreti di sequestro su vaghi indizi o quella degli altri suoi colleghi, come Teresi, Del Bene, e altri che lei ben conosce, costantemente esposti, per la delicatezza del loro ruolo e delle loro indagini? Quella del giudice Carnevale, l’ammazzasentenze, o quella di Falcone, Borsellino, Chinnici, Costa, Terranova, e tanti altri, che hanno perso la vita per fare il loro dovere? L’uscita, la teoria che la magistratura non si tocca, perché venendo meno il potere giudiziario vengono meno le basi della convivenza civile, è rischiosa e inaccettabile per un paese democratico: le regole della società civile valgono anche per i magistrati ed è nella fiducia per la bontà del loro operato che la società civile si riconosce, non in leggi che, nate in certi momenti, rischiano di dare a chi vuole servirsene, poteri illimitati emettendo provvedimenti privi di quella sanzione che è la base su cui andrebbe emesso il provvedimento. Questa sorta di tabù che la sinistra si è portato appresso, secondo cui i magistrati non si toccano, non è accettabile. Fra l’altro la considerazione sembra simile a quella che la Saguto ha espresso alla Commissione Antimafia, chiaramente riferendosi alla nostra campagna giornalistica: “…ci troviamo davanti a un attacco al sistema…quando sta producendo più risultati” E quindi chi attacca “il sistema” fa il gioco della mafia. Scherziamo? Non è “il sistema”, ma il sistema “Saguto”. Quindi stia tranquillo, dott. Morosini, nessuno vuole delegittimare la magistratura, ma è nell’interesse nostro, di tutti e soprattutto di lei che la rappresenta, volere una magistratura onesta, corretta e che sia al servizio della comunità.

Paolo Borsellino: “Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”.

“Quel pomeriggio del 23 maggio del 1992 ero al lavoro come sostituto alla Procura di Palermo e mi stavo occupando di un sequestro di persona. Mi chiamò molte volte la squadra mobile di Palermo, per motivi di lavoro. E quando squillò ancora una volta il telefono ero convinto si trattasse di una nuova comunicazione della Questura. E invece gli stessi funzionari con cui ero in contatto, mi avvisavano di un grave fatto accaduto, di cui non si conoscevano ancora i dettagli”. Alfredo Morvillo, procuratore della Repubblica di Termini Imerese e fratello di Francesca Morvillo, moglie del giudice Giovanni Falcone anch’essa uccisa a Capaci, racconta a “Voci del mattino”, Radio 1 del 21 maggio 2015, i drammatici momenti in cui apprese della strage. “Quando si è in prima linea come lo era Giovanni, ci si abitua a convivere con una certa tensione e si ci concentra unicamente sul lavoro. – aggiunge – Giovanni non sottovalutava i rischi cui andava incontro, ma da quando era Direttore al Ministero di Grazia e Giustizia, a Roma, aveva un po’ allentato l’attenzione sulla sicurezza, tanto è vero che qualche volta capitava di andare da soli, senza scorta, a fare due passi o al ristorante”. “È noto a tutti – continua – che Falcone avesse maturato rapporti difficili con taluni ambienti giudiziari e gli ostacoli incontrati lo avevano convinto a spostarsi a Roma, al Ministero. Alcuni, ben individuati colleghi, lungi dal riconoscere a Giovanni la sua grande capacità analitica e investigativa, non convinti del lavoro di squadra, lo ostacolarono in tutti i modi. Arrivarono anche a prenderlo in giro dicendo che, dopo la Procura Nazionale Antimafia, il suo obiettivo era creare la "Procura planetaria". In conclusione, all’interno del tribunale vi era una parte di colleghi che sicuramente non lo amava”. Per Morvillo inoltre “se si voleva eliminare soltanto Falcone, non serviva mettere in piedi un progetto criminale così clamoroso, con il rischio di uccidere decine di persone. Giovanni, come dicevo, a Roma aveva un po’ allentato le misure di sicurezza, pertanto ucciderlo lì non sarebbe stato affatto impossibile. Bastava pedinarlo mezza giornata e poi colpire. Chi ha ucciso Falcone voleva che questo atto avesse una chiara, inequivocabile impronta mafiosa; quindi, fatto a Palermo, con metodi mafiosi, in modo che per tutti fosse evidente che era stata la mafia e che non si potesse pensare ad altro”.

Giovanni Falcone spiega la crisi dei giudici: "più impiegati che professionisti. "Gli italiani non ci vogliono più bene? Per forza: siamo incompetenti, poco preparati, corporativi, irresponsabili". Lo dice Giovanni Falcone, giudice istruttore a Palermo, scrive Fabrizio Ravelli il 06 novembre 1988 su “La Repubblica”. Parla di sé e dei propri colleghi: Tende a prevalere, rispetto alla figura del magistrato-professionista, quella del magistrato-impiegato. Basta col magistrato-impiegato, che si rifugia nelle comode e tranquillanti certezze di una carriera ispirata al criterio dell' anzianità senza demerito. Professionalità ci vuole: bisogna studiare, aggiornarsi, selezionare i migliori. E basta anche con un' Associazione magistrati che è sempre più un organismo diretto alla tutela di interessi corporativi, basta con le correnti che si sono trasformate in macchine elettorali per il Consiglio superiore della magistratura. Falcone parla per mezz' ora davanti a una platea attenta. La sala affollata dal primo convegno nazionale del Movimento per la giustizia si aspetta un intervento importante. Ma le 26 cartelle che il giudice legge hanno comunque l' effetto di una cannonata. I temi sono quelli del Movimento nato pochi mesi fa: non c' è dubbio però che Falcone li passa in rassegna con una forza autocritica, con un vigore di analisi che fa scricchiolare le consuetudini formali. Punto di partenza, i risultati del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati. Battaglia persa, e se si abbandona la sindrome permanente da stato d' assedio bisogna prenderne atto: Non può non riconoscersi che il referendum, a prescindere da qualsiasi sua strumentalizzazione, ha consentito di accertare, senza equivoci, un dato estremamente significativo: e cioè che la stragrande maggioranza dell' elettorato ritiene che la funzione giurisdizionale non è svolta attualmente con la necessaria professionalità e che bisogna porre rimedio alla sostanziale irresponsabilità dei magistrati. La gente non si fida di come lavorano i giudici. Bisogna riconoscere responsabilmente, in altri termini, che la competenza professionale della magistratura è attualmente assicurata in modo insoddisfacente: il che riguarda direttamente i criteri di reclutamento e quelli riguardanti la progressione nella cosiddetta carriera, l' aggiornamento professionale e i relativi controlli, la stessa organizzazione degli uffici e la nomina dei dirigenti. Il linguaggio è chiaro: l' azienda giustizia deve garantire un servizio ai cittadini, questo servizio è cattivo, non si vede perché non adottare quei criteri di rendimento e competitività che una qualsiasi azienda usa per evitare il fallimento. Professionalità: batte e ribatte su questo tasto il giudice Falcone. Professionalità di base, intanto: Il magistrato, attualmente, viene ammesso in carriera sulla base di un bagaglio culturale meramente nozionistico, e l' affinamento delle qualità professionali, in definitiva, è affidato esclusivamente al senso di responsabilità e alla buona volontà del singolo. Trasferimenti, assegnazione di funzioni e nomine ai posti direttivi solo in minima parte tengono conto delle specifiche attitudini e dell' esperienza professionale. Si vedono carriere in funzione di controllo dell' elettorato, che tendono a preferire chi assicura una migliore resa in termini elettorali. Decidono le correnti, macchine elettorali anche se per fortuna non tutte in egual misura: quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti politici, che è alla base della questione morale, si è puntualmente presentata anche in seno all' organo di autogoverno della magistratura, con note di pesantezza sconosciute anche in sede politica. Caccia al voto esasperata e ricorrente e difesa corporativa della categoria: le conseguenze sono state di enorme portata e hanno investito la stessa professionalità del giudice. Autonomia e indipendenza sono valori che vengono sempre più interpretati dalla società come inammissibili privilegi di natura corporativa. E invece vanno difesi proprio garantendo un servizio-giustizia efficiente e adeguato. In questo senso, conclude Falcone, il nuovo codice di procedura penale sarà un severissimo banco di prova. Ma è una autentica conquista di civiltà: i magistrati vi si preparino adeguando anche le loro strutture mentali.

E poi danno lezioni di legalità!

LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!

Filippo Facci su “Libero Quotidiano del 22 ottobre 2015: Jurecrazia. Il Pdl, due anni fa, disse che il Senato non doveva votare la decadenza di Berlusconi e che si doveva investire la Consulta affinché decidesse se la Legge Severino era costituzionale; o ancora, come opzione, che si doveva lasciar fare alla Cassazione con una prevista sentenza sull'interdizione del Cavaliere. Al che il piddino Felice Casson - era il 12 novembre 2013 - rispose così: «Non si può far decidere i giudici e non la politica... la legge Severino l'abbiamo votata per ribaltare il ragionamento». Bene. Da allora, a cominciare dal caso De Magistris, la politica ha dovuto inginocchiarsi a: 1) i tre gradi del giudizio penale; 2) un ricorso al Tar; 3) una sentenza della Cassazione secondo la quale il Tar non doveva occuparsene, perché doveva occuparsene il tribunale civile; 4) una sentenza del tribunale civile (vari gradi) che ha revocato la sospensione del sindaco Luigi De Magistris decisa dalla Severino; 5) una sentenza della Corte Costituzionale che, l'altro giorno, ha stabilito che la Severino non è anticostituzionale. Questo solo per De Magistris. Nel caso di parlamentari, come Berlusconi, alla proliferazione di sentenze (corti, tribunali, procure e cassazioni) si aggiungerà la Corte di Strasburgo: perché sapete, ogni tanto l'opinione dei magistrati può essere utile. Contate voi i livelli di giudizio. Intanto la politica, che doveva «ribaltare il ragionamento», è ferma al palo, a guardare. È riuscita a ribaltare solo una cosa. Anzi, una persona. 

 “Suburra”, il film a Cinque Stelle. Ma quelle di Grillo, scrive Angela Azzaro su “Il Garantista”. Il qualunquismo ora ha anche il suo film-manifesto. Andate a vedere “Suburra” e capirete che l’ideologia che in questi anni ha sparato a zero sulla politica (al grido: sono tutti corrotti) ha trovato un supporto nell’immaginario cinematografico di primo piano. “Suburra”, tratto dall’omonimo romanzo di Carlo Bonini e Giancarlo De Cataldo, racconta l’intreccio tra parlamentari, Ior (la banca del Vaticano), mafia e sottobosco della vita notturna romana. E’ stato girato da Stefano Sollima, il bravo regista delle serie tv “Gomorra” e “Romanzo criminale”, e ha nel cast attori di spicco come Pierfrancesco FavinoClaudio Amendola e l’astro nascente Alessandro Borghi, candidato all’Oscar con il film “Non essere cattivo”. La sceneggiatura, dei sempre presenti e sempre uguali Rulli e Petraglia, fa acqua da tutte le parti. Non solo perché per raccontare una Roma cupa e spettrale, la immaginano sempre in preda al diluvio, ma perché la storia procede in maniera manichea: i politici sono tutti corrotti, in Vaticano è tutto o quasi marcio, i personaggi di secondo ordine sono disposti a calpestare chiunque pur di trarre anche solo qualche vantaggio per loro stessi. Il male è ovunque, la mafia controlla la città, il parlamento è un posto tetro e disonesto. Qualcuno ha detto: però Sollima c’ha preso. “Suburra” è stato girato durante i primi arresti di mafia capitale e per molti ha avuto capacità quasi profetiche. Ma può essere questa una qualità tale da rendere un film un buon film? No. Non basta. Perché quello che già si presenta come un processo fondato – più che sulle prove – su una tesi, s’intreccia a un’opera filmica altrettanto incapace di uscire dai luoghi comuni e dagli stereotipi. La storia inizia una settimana prima della caduta del governo Berlusconi, a cui si fa esplicito riferimento. E’ un ritorno al passato, a quella cultura che oggi non si nutre più dell’odio verso il Cavaliere ma che ha in quel momento una tappa fondativa. Favino è un politico di centrodestra che fa votare una legge per favorire la mafia. L’affare è grosso: trasformare Ostia in una città tipo Las Vegas. Il protagonista finisce in questa brutta storia un po’ perché è corrotto di suo, un po’ perché una sera succede l’irreparabile. Mentre ha un rapporto con due prostitute, una delle due, la più giovane, muore di overdose. Per lui inizia l’incubo. La scena di sesso è contraddittoria: da un lato è filmata per esprimere riprovazione sociale e morale sui politici che fanno tutti così; dall’altra è però ripresa in modo tale da attirare e gratificare lo sguardo dello spettatore. Quello stesso spettatore che in fondo si vuole lusingare in tutti i modi, anche con scene di sesso. I cittadini non sono corrotti. Coloro che guardano non sono corrotti. Non lo sono mai. Loro sono la parte migliore della società, coloro che subiscono. Il colpevole è uno, uno solo. Anzi sono tutti coloro che siedono in Parlamento, fuorché quelli del Movimento Cinque stelle che hanno fatto della legalità la loro bandiera. Questo è “Suburra”. Un mix incredibile di romanesco (i dialoghi sono penosi e sintetizzabili in un “ao’”), di populismo, giustizialismo, in cui i personaggi sono descritti senza contraddizioni. Così chi guarda il film può pensare che lui sì è bravo, buono, perfetto. “Suburra” è il classico film che dà in pasto a chi lo vede un capro espiatorio, a cui attribuire tutte le colpe. I cittadini invece, soprattutto i Cittadini a 5 stelle, sono giusti, onesti, perfetti. Loro, solo loro, stanno dalla parte delle verità.

I ladri che si lamentano della casta, scrive Maura Munafò su "L'Espresso del 23 ottobre 2015. C'è un articolo davvero interessante che circola molto in queste ore sui social. Lo hanno realizzato i colleghi di SanremoNews e parte dal caso degli arresti al Comune di Sanremo di una trentina di dipendenti (e 196 indagati) che "timbravano" l'ingresso al lavoro e poi andavano a fare lezioni di canottaggio o a farsi gli affari loro. C'era pure chi mandava amici e parenti a timbrare o si segnava lo straordinario e poi rimaneva a casa. Le telecamere della Guardia di Finanza hanno beccato i "furbetti del cartellino" mentre facevano tutto quello che volevano al posto di lavorare e rigorosamente a spese del contribuente. A SanremoNews si sono dilettati a spulciare i profili personali su Facebook degli arrestati, scoprendo tra di loro vari ferventi "anti casta", sempre pronti a lamentarsi del politico ladro che frega i soldi alla gente. Ecco quindi messaggi come: "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo", oppure ""Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". Andare a ficcare il naso in certe pagine è quasi un esercizio antropologico, utile per capire quanto in questo Paese sia radicata la convinzione che ci sia una "casta" di cattivi che vessa un "popolo" di buoni. Talmente è radicata la follia, che persino i ladri sono convinti di essere vittime e mettono sul proprio profilo Facebook foto come questa (la ho presa da una delle persone finite ai domiciliari).

Sanremo: i "Furbetti del cartellino"? Tra i più accaniti anti casta. C'è chi si vergogna dei politici corrotti e chi si lamenta di "Mantenere i maiali a Roma", scrive San Remo News il 23 ottobre 2015. C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!" "Io non mi vergogno di essere italiano, mi vergogno solo di essere rappresentato da politici condannati e corrotti che saccheggiano ogni santo giorno uno dei paesi più belli del mondo". Questa frase la si può trovare sul profilo Facebook di una delle persone agli arresti domiciliari da ieri mattina per via dell'operazione Stachanov che ha portato a 43 arresti (35 ai domiciliari, 8 di loro dovranno presentarsi alla Polizia Giudiziaria), effettuati dalla Guardia di Finanza coordinata dalla Procura della Repubblica. Ma non è l'unica. Sono diversi infatti i dipendenti pubblici tra i "Furbetti del cartellino", immortalati dalle telecamere nascoste installate dai militari, che sul proprio profilo Facebook si sono sfogati contro la cosiddetta "casta" di politici. Un altro tra gli arrestati pubblica una vignetta che raffigura un bambino che chiede al padre: "Papà, tu la paghi la tassa sugli animali?". "Ma certo! - risponde il padre - Con tutti i maiali che mantengo a Roma...". C'è chi si spinge oltre e cita l'astrofisica Margherita Hack con una frase pronunciata a proposito della morale: "Non è necessario avere una religione per avere una morale! Perché se non riesci a distinguere il bene dal male, quella che manca è la sensibilità, non la religione!". C'è chi cita Giovanni Falcone e chi pubblica un post in cui un uomo seduto su una sedia annuncia che passerà una giornata come un politico, cioè non farà un c....C'è anche chi posta il video di un discorso della Senatrice del MoVimento 5 Stelle Paola Taverna che rimprovera il Presidente del Consiglio Matteo Renzi, di non aver mai lavorato nella propria vita.

Lo Stato sta con i ladri. Un 65enne spara e uccide un criminale che si è intrufolato in casa sua durante la notte. E la Procura lo accusa di omicidio volontario, alla faccia della legittima difesa, scrive Alessandro Sallusti Mercoledì 21/10/2015 su "Il Giornale". Più che perdere tempo a riformare il Senato, i nostri legislatori dovrebbero mettere mano velocemente al codice penale. Che oggi, se applicato senza buon senso da magistrati burocrati, manda in galera chi difende se stesso e i suoi cari dall'assalto di ladri e rapinatori. L'ultimo episodio è di ieri. Vaprio d'Adda, periferia milanese. Un pensionato di 65 anni dorme nella sua villetta a tre piani. Con lui c'è la moglie, al primo piano figlio, nuora e nipotino. Sente dei rumori, impugna la pistola regolarmente detenuta. Fa per uscire e nel buio del corridoio si trova davanti un uomo. Spara e colpisce l'intruso, un romeno di poco più di vent'anni. Due complici fuggono dopo che lui spara in aria altri due colpi. Un solerte pm lo incrimina prima di eccesso di legittima difesa, poi di omicidio volontario. Pena prevista: da 21 anni all'ergastolo, salvo attenuanti. Non so voi, ma io penso che quell'uomo aveva il diritto di sparare e ha fatto bene a farlo. Ha percepito un pericolo di vita imminente per sé e per i suoi cari, non poteva accertarsi in sicurezza se gli aggressori fossero armati o no. La cosa, per altro, è irrilevante. Decine, se non centinaia di volte, queste bande di criminali hanno massacrato di botte, ferito o ucciso con coltelli magari recuperati in casa chi ha provato a opporsi all'intrusione. Non c'è nessun nesso tra il grado di pericolo reale ricostruito a tavolino dalla polizia scientifica e quello percepito durante una aggressione. In una frazione di secondo quel pensionato doveva decidere se mettere al sicuro la vita di sua moglie, suo figlio e suo nipotino. Lo ha fatto e oggi ha tutta la nostra solidarietà. Meglio un brutto processo di tre bei funerali, con tanto di autorità in prima fila a piangere lacrime di coccodrillo. Non provo alcuna pietà per chi di notte entra nelle nostre case. Anche a ladri e rapinatori possono capitare incidenti sul lavoro. Quello che non deve capitare è che lo Stato stia dalla loro parte e si accanisca contro chi è costretto, proprio per le lacune e l'incapacità dello Stato stesso, a difendersi da solo.

Lo Stato sta con i ladri? Ovvio, sono colleghi, scrive Nicolò Petrali su "Il Giornale". Mi si chiede di scrivere un pezzo sulla vicenda di Vaprio d’Adda in quanto figlio del tabaccaio milanese che nel 2003 sparò e uccise un rapinatore. E’ successo già diverse volte nel corso degli anni e quando accade significa purtroppo che qualcuno ci ha rimesso la vita, sia esso il ladro o il cittadino onesto. Se accetto sempre, nonostante rivangare sempre quella storia faccia male, è perché da qualche parte, dentro di me, si annida ancora l’illusione che un foglio di carta e una penna possano contribuire a cambiare questa nostra società in meglio. Di fronte ad episodi di questo tipo, il copione che si recita a casa mia è sempre lo stesso. Ci si siede a tavola per la cena, io, mio padre, mia madre, mia sorella e mio fratello e qualcuno, più spesso mio papà, butta lì la solita domanda: avete sentito del tabaccaio/gioielliere/benzinaio/pensionato che ha ucciso il ladro? Tutti facciamo un cenno affermativo con il capo e continuiamo a mangiare. Appena dopo il servizio del tg, però, non si riesce a resistere e riparte la consueta discussione. “In questo caso il delinquente era disarmato, quel poveretto passerà delle rogne”. Oppure: “Qui lo assolvono sicuramente, è evidente la legittima difesa”. Ancora: “Lo ha rincorso, questa volta dipenderà dall’interpretazione del giudice”. Finito il primo atto, parte il secondo. Discutiamo di diritto, di modello culturale USA, di proporzionalità della reazione e altro ancora. Finché qualcuno, generalmente mio padre, chiede che al poveretto di turno venga inviato un telegramma a nome della famiglia. La vicenda di Vaprio d’Adda è ancora tutta da chiarire nella sua dinamica, anche se per me è il succo che conta più che il contorno. E il succo è che un ladro che non doveva nemmeno trovarsi in Italia ha tentato di derubare un onesto cittadino che si è difeso come ha ritenuto opportuno. Punto. Tutto il resto è chiacchiera. Quel che è certo però è che, comunque vada, il povero Sicignano, oltre a convivere con il dramma umano di aver ammazzato una persona, inizierà anche a vivere un calvario giudiziario che durerà circa una decina d’anni. Perizie su perizie, giornali che scriveranno ogni genere di falsità basandosi su rilievi scientifici che mai, e lo dico per esperienza, ricostruiranno esattamente ciò che sia realmente accaduto, giornalisti sotto casa a qualsiasi ora del giorno e tutto il resto. Non so se il pensionato fosse o meno un uomo di Chiesa. Se sì, si prepari: se è fortunato il prete della comunità gli offrirà conforto e sostegno, ma i giornali cattolici non avranno pietà. Forse fu proprio questo che fece più male a mio padre tant’è che lo dice ancora oggi. Si sentì abbandonato proprio dai mass media dai quali invece si aspettava maggior comprensione. Nonostante provassi a fargli capire che la vera chiesa, quella con la “c” minuscola, non è quella roba lì, purtroppo da quella storia la sua fede ne uscì compromessa in modo irreparabile. Tornando a Sicignano, se è fortunato troverà un Pm dotato di buon senso, altrimenti si sentirà attribuire accuse e aggettivi di ogni tipo. Il dibattito politico ovviamente sarà feroce e il suo caso verrà tirato in ballo ogni volta che accadrà un fatto simile almeno per i prossimi 10 anni. Il consiglio che posso dargli è quello di non arrendersi e di concentrarsi sul fatto che non saranno perizie, pm e giudici a definirlo come uomo. E che alla fine, dopo tante sofferenze e sacrifici, ne uscirà vincitore. Nel caso non andasse così sono pronto a scendere in piazza personalmente. E credo con me molti altri italiani. Tre o quattro anni fa, a notte fonda, mi affacciai casualmente alla finestra. Vidi all’interno del mio cortile due uomini che stavano tentando di forzare la porta di casa di mia sorella. Sapevo che in quel momento lei non era in casa, così andai quatto quatto a svegliare mio padre. “Papà adesso chiamo la Polizia e li facciamo arrestare, tanto Maria non è in casa. Questa volta li facciamo beccare”. La reazione del mio vecchio mi colpì incredibilmente, tanto da farmi pentire di averlo svegliato. Era buio, perché non avevo acceso di proposito le luci, ma lo vidi iniziare a tremare. Mi rispondeva quasi balbettando e aveva il respiro corto. Non lo avevo mai visto così. “Chiama la Polizia, veloce”, mi disse in qualche modo portandosi a fatica verso la finestra. Ubbidii. Purtroppo non riuscimmo nel nostro intento per pochissimo. E i ladri riuscirono a dileguarsi. Ma nel tempo ho pensato e ripensato parecchio a quell’episodio. Come avrei reagito se mia sorella fosse stata in casa e avessi avuto una pistola? Sarei stato così lucido da sparare dei colpi in aria, o così esperto da mirare alle gambe da molto lontano, oppure avrei pensato solo all’incolumità di mia sorella e avrei fatto fuoco ad altezza uomo? Non lo posso sapere. Magari, se avessi avuto un’arma, oggi sarei anch’io sotto processo. L’ho scritto tante volte e lo ripeto. Sono favorevole all’interpretazione della legittima difesa all’americana, che a sua volta dipende da una visione culturale liberale/libertaria della vita. Non chiedo più Stato perché piazzare un soldato in ogni casa è impossibile oltre che terribile, ma soprattutto perché ritengo che lo Stato non sia la soluzione ma semmai il problema. Auspico, invece, che sia data a tutti la possibilità di difendersi proprio come avviene al di là dell’oceano. Con tutti i rischi che questo comporta, ovviamente. D’altra parte la libertà non è per sua stessa essenza più rischiosa della schiavitù? (Guarda caso, proprio ieri, in Svezia, un uomo armato di spada ha ucciso due persone in una scuola. Mettiamo al bando anche spade, coltelli e forchette?). Si potrebbe ad esempio decidere di tenere dei corsi che addestrino il privato cittadino che acquisti un’arma a gestire, per quanto possibile, quel tipo di situazioni. Ma sono tutti discorsi che lasciano il tempo che trovano. Purtroppo è più facile che siano gli Usa ad europeizzarsi, fenomeno che in parte sta già avvenendo, che noi a diventare come loro. In conclusione, invito tutti a riflettere su un punto. Che è secondo me quello fondamentale. Provate a pensare a chi è il ladro per eccellenza. Quello cioè che ci deruba tutti di oltre la metà del nostro guadagno non restituendoci quasi nulla in cambio. E’ presto detto perché ci voglia tutti disarmati. Per il fatto che, in ultima istanza, potrebbe essere lui a cadere sotto i colpi di chi tutela i propri beni. Gli statunitensi lo capirono ai tempi di Re Giorgio ed è per questo che difendono con le unghie e con i denti il loro secondo emendamento. Mentre qui da noi, la culla della civiltà come dice qualcuno, vengono processati i cittadini onesti. Colgo l’occasione per esprimere la mia totale solidarietà alla famiglia Sicignano e per dire loro che se dovessero mai aver bisogno di qualche consiglio da parte di chi ci è già passato, noi siamo qua. P.s. A chi obietterà che parlo così sull’onda dell’emozione, perché personalmente coinvolto e quant’altro, rispondo leopardianamente. Non attribuite alla mia condizione ciò che è responsabilità del mio intelletto. Contraddite piuttosto le mie tesi, se ci riuscite.

La difesa è sempre legittima. I cittadini non si sentono più sicuri. E si difendono da sé. Viaggio nella giustizia italiana che tutela ladri e malviventi e condanna chi si difende, scrive Giuseppe De Lorenzo su “Il Giornale”. La spiegazione è tutta nei numeri. C'è un motivo se gli italiani hanno deciso di difendersi con le armi, se i casi di rapine e furti finite in tragedia stanno occupando televisioni e giornali nazionali. I cittadini non si sentono più sicuri. E difendono chi si è difeso: Il 73% degli intervistati di un sondaggio Ixè per Agorà (Raitre), infatti, trova sbagliata l'accusa di omicidio volontario per il pensionato che ha ucciso con un colpo di pistola un giovane ladro a Vaprio D'Adda, nel milanese.  Il 21% trova invece giusta l'accusa. Nel rapporto sulla sicurezza, diramato dall'Istat nel 2014, si evince chiaramente che ad essere aumentata non è solo è la percezione di insicurezza degli italiani. Ben 18 milioni sono quelli che si sono detti insicuri e solo il 55% è pronto ad uscire da solo di notte (mentre nel 2010 era il 59% e nel 2011 addirittura il 60,8%). Ma non è solo questo. Ciò che preoccupa è l'aumento delle rapine in casa (+65,8% rispetto al 2010), dei reati contro il patrimonio e dei borseggi. Gli ultimi casi di cronaca sono solo una piccola parte di quelli realmente accaduti. Alcuni sono i più noti: Graziano Stacchio, il benzinaio che per difendere una donna e un gioielliere ha sparato contro i ladri; Ermes Mattielli, il pensionato che scaricò il caricatore contro i rom entrati nella sua ricicleria; e - in ultimo - il caso di Francesco Sicignano, il pensionato di Vaprio D'Adda che ha ucciso un 22enne albanese sorpreso mentre rubava nella sua casa. Abbiamo recuperato uno di quelli dimenticati. Giuseppe Caruso il prossimo 27 ottobre rischia 21 anni di carcere per omicidio volontario, solo perché dopo numerosi furti ha tentato di difendere la sua proprietà. La legge. Bisogna essere chiari. L'articolo 52 del codice penale, quello sulla legittima difesa, sembra far acqua da tutte la parti. In particolare, ci spiega l'avvocato penalista Paolo Pesciarelli, "occorre togliere dal secondo comma l'inciso 'quando vi è desistenza o pericolo di aggressione'. Perché è una valutazione che è impossibile fare per chi si trova in quelle situazioni specifiche". "Il problema è il limite di eccezione di proporzionalità - conferma l'avvocato Marco Tomassoni - è un concetto anacronistico: bisogna dare facoltà di difendersi con tutti i mezzi a disposizione". Una legge, però, si interpreta, e il potere di punire o meno chi nell'atto di proteggersi uccide o ferisce un ladro è in mano alla magistratura. Le colpe della magistratura. Non a caso, infatti, Giuseppe Lipari, difensore di Caruso, non ha remore nel dire che "è l'ideologia di certi magistrati a decidere se questo o quel caso è omicidio volontario e non legittima difesa". Ed è per questo che la Lega Nord ieri ha manifestato di fronte ai Tribunali di tutta Italia: "Se i magistrati non riescono a interpretare correttamente la norma - ha detto Salvini davanti al Palazzaccio di Milano - allora aboliamola". Una buona idea. La difesa deve essere sempre legittima. Quella della propria vita, quella dei propri cari e anche della proprietà privata. Quale arma? I cittadini lo sanno. Tant'è che negli ultimi anni stanno aumentando in maniera considerevole le iscrizioni ai poligoni di tiro. Sarà l'effetto mediatico degli ultimi tempi, ma soprattutto nelle zone dove si verificano più frequentemente furti, i cittadini si rivolgono agli esperti del grilletto per imparare a sparare. "Un po' di rapine e la gente dice che non capisce più quello che succede - dichiarava Efren Dalla Santa, presidente del poligono di Laghetto (Vicenza) - Magari non la useranno mai, ti spiegano, ma vogliono sentirsi più sicuri a casa". E senza star troppo a pensare se conviene usare una pistola o un fucile a canne mozze, la cosa fondamentale è saperle maneggiare con cura. Conoscerne i segreti e l'utilizzo in totale sicurezza. "Nel momento in cui si sia costretti ad utilizzare l'arma da fuoco - ci spiega dettagliatamente l'esperto Tony Zanti - non si può improvvisare". Potenzialità dell'arma, manutenzione, puntamento, utilizza al chiuso e all'aperto: per difendersi da soli bisognerebbe prima seguire un corso. Anche questo, però, potrebbe non bastare. Perché di notte, con il buio, con la paura di avere un malintenzionato vicino, ogni conoscenza potrebbe venir meno e fare spazio alla legittima paura che genera l'altrettanto legittima difesa. L'Italia dovrebbe capire che chi commette rapine non è un disgraziato o un pover uomo. Ma un criminale. E se c'è qualcuno da compatire, quelli sono i pensionati che hanno avuto il coraggio di sparare e ora hanno la vita distrutta. Chi viola un domicilio e chi di lavoro fa il ladro, deve sapere che potrebbe uscirne steso. Non significa essere violenti. Ma desiderare un Paese dove la sicurezza viene garantita. E con essa la legittima difesa.

Sel: vietato pubblicare i crimini commessi dagli immigrati, è razzismo, scrive "Imola Oggi". I deputati di Sel hanno chiesto in un’interrogazione al Ministero dell’Interno, prima firmataria Annalisa Pannarale, di assumere ogni iniziativa di competenza affinché sia valutata la sussistenza dei presupposti per l‘immediata chiusura del sito internet tutti i crimini degli immigrati (tuttiicriminidegliimmigrati.com/) che si propone quale sito d’informazione ed è basato su fatti di cronaca nera che avrebbero come protagonisti cittadini stranieri, migranti, rom e sinti. I deputati ritengono che la pagina web in questione abbia l‘esito potenziale di incitare all’odio razziale e alla discriminazione, in aperta violazione dei principi della nostra Carta Costituzionale e della normativa in materia”. Infine si legge nell’interrogazione come l’iniziativa del sito Gli altri parlano d’integrazione, noi ve la mostriamo “si colloca peraltro nel solco di quanto sollevato con allarme dal Comitato delle Nazioni Unite per l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD) nelle osservazioni conclusive e raccomandazioni all’Italia del 9 marzo 2012; il Comitato, infatti, aveva fatto riferimento esplicito alla diffusione preoccupante nel nostro Paese dell’incitamento all’odio razziale e di forme violente di razzismo attraverso i mass media, internet, e i social network, invitando le autorità italiane a una applicazione severa delle normative di contrasto penale alla discriminazione e all’incitamento all’odio razziale”.

Chi delinque può fare qualsiasi cosa, tanto la sfanga sempre! Gentile Severgnini, colgo l’occasione dell’ultimo fatto di sangue legato ad un tentato furto in casa per fare alcune considerazioni. Abito a Parma, ma lavoro in provincia di Brescia. Per lavoro mi devo fermare alcune volte fuori casa e ho da anni un appartamento vicino al lago di Garda. Da circa 3 settimane il residence dove abito viene regolarmente visitato dai ladri, che hanno già ripulito almeno 9 appartamenti su 18. Questa sera, all’uscita dal lavoro, dovendomi fermare, andrò con ansia a verificare il mio destino. E’ un bollettino di guerra che va aggiornato quotidianamente. Dal punto di vista storico ho già subito un furto in appartamento nel 2000, e in seguito due furti in auto. Sempre in questi paraggi. Ho lasciato sul campo 3 computer portatili, alcuni strumenti di lavoro, alcune coperte… Vedrò se devo aggiornare a breve il mio bilancio. Orbene, nella mia esperienza, posso solo dire che il mio necessario rivolgermi alle forze dell’ordine ha sempre comportato in me la sensazione di creare fastidio nei vari addetti che ho incontrato: mai sgarbati, per la verità, ma esasperati e pignoli. Con quella faccia che ti fa sentire tu il colpevole di esser stato derubato! Pronti anche a puntualizzare che la denuncia andava fatta presso la tenenza di competenza, come se non sapessi che lo avrei potuto fare su tutto il territorio nazionale, aggiungendo così al danno anche la beffa della perdita di tempo. Forse demotivati dalla loro impotenza? Mah!… Direi che sono servitori di uno Stato da sempre impegnato per motivi ideologici, che accomunano da decenni i settori della sinistra DC, poi ex, e di tutti i settori della sinistra e di parte della destra sociale, nel condannare, con fermezza a volte, spesso subdolamente, la proprietà privata come frutto del diavolo. Ora senza soldi, questo Stato ha smesso anche di tentare di assicurare quella parvenza di sicurezza sociale che sarebbe quantomeno doverosa, in un momento in cui frotte di immigrati, obtorto collo nullafacenti, non sanno come tirare a sera. Invece si richiede a gran voce la scarcerazione di migliaia di detenuti con la risibile motivazione che sono in troppi. Ma che glieli ho mandati io a delinquere?! Ebbene, se questo Stato non vuole darci sicurezza, perché mai non ci libera dallo scomodo ruolo di vittime inermi e non ci permette di prendere le armi (come direbbe Amleto: “Or to take arms against a sea of troubles?”)? Ah già, il principio dello Stato di diritto! Peccato che valga solo per noi! Chi delinque può fare qualsiasi cosa, cosciente di poterla sfangare quasi sempre! Peccato che chi ha grandi possibilità economiche venga solo raramente colpito. I colpiti siamo noi piccoli e medi borghesi, anche proletari, nell’indifferenza di chiunque guidi questo Stato sfasciato e sgarruppato. Spesso sottoposti al pubblico ludibrio di chi assurge a maestro delle nostre menti, e che, assiso sulla inarrivabile cattedra del qualunquismo benpensante (cattolico o ex comunista poco importa) ci viene a fare anche la morale! Enrico Groppi su “Italians” de “Il Corriere della Sera”.

Se il bruto viene da lontano la stampa «dimentica» di dirlo. Sui media una pesantissima cappa di "politicamente corretto" nella trattazione della realtà degli immigrati. Così agli italiani è preclusa la conoscenza della verità, scrive Magdi Cristiano Allam su "Il Giornale". Leggiamo insieme i titoli di due fatti di cronaca di queste ultime ore. «Torpignattara. Aggredita sul pianerottolo mette in fuga lo stupratore. L'aggressore arrestato grazie all'identikit fornito dalla vittima». Solo leggendo l'articolo scopriamo che la vittima è una ragazza italiana di 29 anni, mentre lo stupratore è un clandestino afghano di 24 anni. «Fiuggi. Violenza di gruppo in casa famiglia. Arrestati un 16enne e due 17enni. Vittima un'operatrice della struttura». Solo leggendo l'articolo scopriamo che la donna stuprata è un'italiana di 48 anni, mentre gli stupratori sono tre clandestini egiziani. L'indicazione di non segnalare la nazionalità o la religione di chi delinque rientra nell'impegno sottoscritto dai giornalisti italiani (Federazione Nazionale della Stampa Italiana e Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti) nella «Carta di Roma», firmata nel 2011, con una madrina d'eccezione, Laura Boldrini, all'epoca portavoce dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. È nella «Carta di Roma» che si accredita la mistificazione della realtà, vietando ad esempio di usare il termine «clandestino», che giuridicamente connota lo specifico reato di chi si introduce illegalmente all'interno delle frontiere nazionali, e di sostituirlo con il termine neutro di «migrante» o «richiedente asilo». Ebbene questa pesantissima cappa di «politicamente corretto» nella trattazione della realtà degli immigrati, fa sì che agli italiani sia preclusa la conoscenza della verità, così come si impongono loro delle scelte in contrasto con i propri interessi. Quanti italiani sanno che rispetto ad una presenza complessiva di 5.364.000 immigrati in Italia, pari al 7,1% della popolazione residente, la presenza degli stranieri nelle nostre carceri è invece di circa 22mila detenuti, pari a circa il 35% della popolazione carceraria? Quanti italiani sanno che l'80% dei crimini commessi dagli stranieri è perpetrato da clandestini o irregolari? Quanti italiani sanno che, considerando che per l'Osapp (Sindacato autonomo polizia penitenziaria), un carcerato costa quanto un deputato, ovvero 12mila euro al mese, il costo complessivo dei detenuti stranieri ammonta a circa 264 milioni di euro al mese, ovvero 3 miliardi e 168 milioni di euro all'anno? Quanti italiani sanno che, anche limitandoci a considerare gli 80mila clandestini ospitati nei centri di accoglienza a spese nostre, con un costo giornaliero pro-capite di circa 40 euro, significa che complessivamente noi spendiamo 3.200.000 euro al giorno, che al mese diventano 96 milioni di euro, che all'anno diventano 1 miliardo e 152 milioni di euro, solo per l'alloggio, il vitto, le sigarette e la ricarica telefonica? Quanti italiani sanno che considerando che nel 2014 sono sbarcati circa 180mila clandestini e che nel 2015 ne sono già arrivati quasi 57mila, complessivamente 237mila, e calcolando che nei centri di accoglienza ce ne sono 80mila, anche tralasciando le decine di migliaia di clandestini che sono sbarcati negli anni scorsi, significa che almeno 157mila clandestini sono scomparsi nel nulla? Quanti italiani sanno che solo al 5% dei clandestini viene riconosciuto lo status di rifugiato, e ciò significa che il 95% dei clandestini che abbiamo generosamente accolto con i nostri soldi sarebbe dovuto essere bloccato alla frontiera? Ebbene riscattiamo la verità prima che gli italiani insorgano legittimamente per questo crimine che stanno subendo. Chiamiamoli correttamente clandestini e diciamo basta ai clandestini!

Raccomandazione alle Questure: nascondete i crimini dei profughi. Necessario "tutelare" i richiedenti asilo, anche se delinquono. È discriminazione al contrario, scrive Salvatore Tramontano Venerdì 23/10/2015 su "Il Giornale". La gogna non è uguale per tutti. Le Questure italiane, e i comandi dei carabinieri, hanno ricevuto una strana raccomandazione, un consiglio disceso da molto in alto, una sorta di velina a uso interno. Se un profugo, un richiedente asilo, viene denunciato o addirittura arrestato mentre sta commettendo un reato non dovete raccontarlo a nessuno. Acqua in bocca. Omertà. Silenzio. Niente comunicati stampa, nessuna soffiata ai giornalisti. L'obiettivo è tutelare il migrante. Se, infatti, uno sta chiedendo aiuto allo Stato perché magari è perseguitato in patria significa che la sua vita è in pericolo. Nome, cognome e residenza sarebbero informazioni pericolose, notizie che i «regimi» potrebbero usare per colpire lui o la sua famiglia. Uno viene a sapere una cosa del genere e pensa: bello, uno Stato garantista. Non c'è più il mostro in prima pagina. Solo che il principio vale solo per gli ospiti. Gli italiani devono solo pagare le tasse. Niente garantismo, nessuna tutela, neppure uno straccio di presunzione di innocenza. Anzi, quando poi si va a processo c'è la gara a far scappare dalle procure notizie, intercettazioni, frullati di vita privati, perfino di chi è capitato in quelle carte per caso, senza neppure essere indagato. E c'è anche una strana regia che calcola e razionalizza i tempi politici delle indiscrezioni. Questo è il Paese dove la condanna arriva per mezzo stampa prima dei processi e dove la carcerazione preventiva viene usata come arma di ricatto e addirittura di tortura. Per gli italiani, insomma, il garantismo è un lusso che non si possono permettere. Siano essi personaggi famosi o sconosciuti, potenti o povera gente. È una forma di democrazia della gogna. Ora perché i profughi vengono risparmiati? Non per bontà. A quanto pare il governo non vuole turbative alla linea politica sull'immigrazione. Non parlate dei delitti dei profughi perché siccome accogliamo tutti, senza alcun controllo, pubblicizzare le loro malefatte potrebbe intaccare il consenso del governo e portare voti a chi critica le maglie larghe di Alfano e company. Meglio nascondere la realtà e continuare a raccontare agli italiani che tutto va bene, che tutto è sotto controllo. E se una notizia scappa dalle Questure, nessun problema, ci penserà Renzi a coprire Alfano. La colpa sarà stata di un gufo. Magari profugo.

I crimini dei richiedenti asilo? Censurati "per la pace sociale". Forze dell'ordine invitate a non diffondere le generalità dei rei Si vuole garantirne la riservatezza, ma così si discriminano gli italiani, scrive Nadia Muratore Venerdì 23/10/2015 su "Il Giornale". Il politicamente corretto imbavaglia le forze dell'ordine e crea disparità tra i cittadini. Almeno per quanto riguarda la divulgazione di certe informazioni di reato. Se infatti la prassi vuole che siano le stesse forze dell'ordine a fornire agli organi di stampa la notizia di un'indagine che ha portato alla denuncia o all'arresto di una persona, questo non accade quando il responsabile del reato è un richiedente asilo. Se il fatto di cronaca non è eclatante e può «passare in sordina», allora la notizia viene taciuta. Censurata. Così, se a rubare o a spacciare stupefacenti è un cittadino italiano, l'indagine diventa di dominio pubblico, con tanto di riferimento alle generalità del reo. Diverso invece è il trattamento se chi delinque ha in tasca una richiesta di status di rifugiato. Il perché è presto detto: interpretando alla lettera la legge sulle disposizioni in materia della richiesta di asilo - che rientra nel Testo Unico dell'Immigrazione - una persona che si trova nello «status» di richiedente dev'essere tutelata. Basandosi sul presupposto che chi chiede protezione in uno Stato diverso dal suo ritiene di essere in pericolo di vita, renderne pubbliche le generalità e il luogo di residenza, potrebbe mettere a rischio la sua incolumità in Italia e anche creare dei problemi di sicurezza alla famiglia, che magari è rimasta nel Paese di origine. Un riserbo che viene mantenuto anche se il richiedente è coinvolto in una operazione di polizia. Ci troviamo quindi di fronte a un garantismo all'ennesima potenza che può anche essere comprensibile, ma che di fatto porta ad una disparità di trattamento tra italiani e rifugiati, accolti in Italia e in attesa di essere regolarizzati. Una disparità di trattamento che viene giustificata osservando che, in uno Stato di diritto come è quello italiano, nessuno è colpevole fino al terzo grado di giudizio. Per questo le forze dell'ordine sono invitate a non divulgare notizie di operazioni di polizia in cui vi siano coinvolti dei richiedenti asilo. Cosa che però non avviene quando a essere arrestato è un cittadino italiano. Considerando che la maggior parte dei profughi, una volta sbarcati sulle coste italiane, inoltrano la richiesta di asilo, è facile immaginare quanto è alto il numero di persone che possono godere di questo «scudo» che altri invece non posseggono. «Non esiste una norma scritta che imponga di non divulgare la notizia - precisa Giovanni Pepè, questore di Cuneo -, si tratta semplicemente di una direttiva politica basata sul buon senso. Vengono cioè usate delle precauzioni in più nel caso in cui ad essere arrestato sia un rifugiato, solo perché rivelare il suo luogo di residenza, potrebbe mettere a repentaglio la sua incolumità e quella della sua famiglia. Sarà poi la Commissione territoriale che valuta le richieste a stabilire se il fatto di essere stato arrestato e magari un'eventuale condanna, possa determinare la non accettazione della richiesta». Una maggior precauzione che però non viene applicata in altri casi. «Si, è vero - conclude il questore - quando non siamo di fronte a un richiedente asilo, la notizia viene divulgata, spesso subito dopo la convalida dell'arresto, con tanto di iniziali ed età». Eppure ogni cittadino dovrebbe essere uguale davanti alla legge e per tutti dovrebbe valere la regola dell'essere innocenti fino al terzo grado di giudizio. «Non esiste una circolare interna in cui viene richiesto di non rendere note le indagini se l'arrestato è un richiedente asilo - spiega un sindacalista torinese - ma ci viene caldamente suggerito, per non aumentare la tensione e allarmare maggiormente l'opinione pubblica, già esasperata dai disagi e dalla diffidenza dei profughi che hanno invaso le nostre città».

"Se denunciamo i migranti ​ci accusano di razzismo". Il sindacato di polizia Coisp: a poche ore dall'arresto, i richiedenti asilo già liberi di spostarsi con vitto e alloggio garantiti, scrive Nadia Muratore Sabato 24/10/2015 su "Il Giornale". «Lo spaccio di droga, le rapine ed i furti, ormai sono reati commessi per lo più da stranieri richiedenti asilo e la nostra criminalità organizzata è ben contenta di poter contare su questa bassa manovalanza. Tutto ciò, però, non risulta dalle statistiche, perché quando a delinquere è una persona che si trova in questo particolare “status”, previsto dalla nostra Costituzione e tutelato per legge, noi non possiamo dirlo. Rischiamo di essere tacciati di razzismo. Così dobbiamo arrenderci al politicamente corretto che piace tanto a questo governo ma falsa la realtà». A denunciare la difficoltà a redigere un mattinale o un comunicato stampa che deve necessariamente essere attento più alle parole usate che non ai fatti accaduti è Patrizia Bolognani, rappresentante sindacale del Coisp. Assistente capo al reparto prevenzione del crimine della polizia di Padova, Bolognani combatte ogni giorno contro i ladri e gli spacciatori, pattugliando le strade del Nord Est italiano e poi, una volta tornata in questura, la sua battaglia si sposta sulla tastiera del computer, alla ricerca delle parole da usare, che non devono neppure lontanamente suscitare sentimenti di razzismo o di discriminazione nei confronti di nessuno. Soprattutto quando si parla di un profugo. «Profugo? Non so se questa parola si può usare. Nel dubbio meglio di no - precisa Bolognani -. Soprattutto sono vietate le parole rom e clandestini ma anche richiedente asilo, perché la vita dello straniero arrivato nel nostro Paese non può essere messa a rischio, svelando che è in Italia a spacciare droga. Il termine extracomunitario, invece, va sempre bene, non indispettisce nessuno. Peccato però che la maggior parte delle volte viene usato per, non dico mascherare, ma sicuramente addolcire la realtà». Secondo una statistica non ufficiale ma che è ben chiara agli operatori di polizia, così come ai mediatori culturali, la maggior parte delle persone che sbarcano sulle coste italiane, sono richiedenti asilo ma soltanto una minima parte di loro hanno la speranza di ottenerlo. L'iter però, che prevede una valutazione da parte della Commissione territoriale di competenza - e consente anche il ricorso al Tar in caso di diniego, con un allungamento esponenziale dei tempi - è talmente lungo che permette, a chi ha intenzione di vivere di espedienti, di organizzarsi come meglio crede. Soprattutto è la vendita di sostanze stupefacenti ad essere per lo più in mano loro, ed il perché è presto detto: spacciare è il reato che permette guadagni alti ed immediati, la droga trova ovunque un buon giro di vendita e lo spacciatore può contare su un rischio relativamente basso di essere fermato dalle forze dell'ordine. E quando accade, dopo alcune ore dall'arresto e dalla sua convalida, il richiedente asilo è libero di spostarsi su tutto il territorio nazionale senza controlli, oppure di ritornare nell'albergo o nella cooperativa che lo accoglie a spese dello Stato. Perché vitto e alloggio, più paghetta settimanale, sono sempre garantiti. Sono ragazzi giovani, hanno sempre meno di trent'anni e provenienti per lo più da Nigeria, Gaga e Gambia. Per loro lo spaccio è il modo più veloce per ottenere il denaro da spendere soprattutto in abbigliamento, oppure in bottiglie di vino e birra. Molti, infatti, sono alcolizzati e per questo, per procurarsi da bere, commettono furti e borseggi, oppure vengono fermati per molestie, per lo più nei confronti delle donne e spesso, in preda ai fumi dell'alcol, commettono danneggiamenti ed atti di vandalismo.

Una simile situazione diventa un terreno fertile per la criminalità organizzata, al Nord come al Sud, dal quale pescare giovani che non hanno nulla da perdere e vogliono soprattutto guadagnare soldi facili e veloci. In questo momento le aree più a rischio si stanno spostando dalle coste italiane verso le zone settentrionali del nostro Paese, infatti un numero sempre maggiore di profughi arriva in Italia non con i barconi ma attraverso i valichi montani, diventati ormai aree a forte rischio per la sicurezza pubblica. Di notte attraversano a piedi le montagne di Tarvisio, Gorizia, Belluno, Udine, Trieste: tutte zone di frontiera che con l'applicazione del trattato di Schengen e la diminuzione dei controlli da parte delle forze dell'ordine, sono diventate tratte di passaggio incontrollato.

Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re. 

Da Knox a Vespa, il Pd e il populismo ritorsivo, scrive Barbara Alessandrini su “L’Opinione”. Il nostro è sempre stato uno dei primi e pochissimi giornali impegnati nella denuncia della pericolosa deriva culturale che in una manciata di decenni, per impulso del giustizialismo mediatico e giudiziario avviato contro il nemico per antonomasia, Silvio Berlusconi, ha alimentato nel paese di un clima intollerante, ritorsivo, vendicativo, dedito al biasimo eticizzante ed alla punizione della colpevolezza morale da infliggere contestualmente e anche successivamente alle sentenze definitive emesse nei tribunali. Ora, uscite dal torpore che le ha tenute lungamente in silenzio da qualche tempo anche le mosche cocchiere dell’intellettualismo di sinistra convertito al garantismo si affrettano a rivendicare la propria lungimiranza per aver previsto (ma quando? Ma dove? Ma chi?) il pericolo che la lotta al berlusconismo per via mediatico-giudiziaria avrebbe finito col radicare nella società il germe del populismo penale anche di fronte a reati di individui estranei alla politica. C’è di che rallegrarsi. Non è un copione inedito per la sinistra, o per alcuni suoi settori, ormai da tempo in corsa per reclamare a sé principi su cui ha taciuto per anni mentre liquidava con l’etichetta di garantisti pelosi chi, al contrario, ne rivendicava l’importanza prefigurando quale cultura si sarebbe radicata nel paese. Nel prendere atto che i tempi si sono finalmente maturati anche per loro, quantomeno, però, ci si risparmino le lezioncine sulle previsioni dei pericoli dell’antiberlusconismo mediatico-giudiziario. Il danno, ormai è fatto. I più salienti fatti di cronaca giudiziaria degli ultimi anni ci rimandano l’immagine avvilente di un paese in balia di una simbiotica, odiosa e terribile osmosi tra la diffusa sete di colpevolismo, di linciaggio e di vendetta penale da parte dell’opinione pubblica educata al forcaiolismo e un collaudato sistema mediatico che nel tempo ha irrobustito gli strumenti attraverso cui celebrare i sempre più frequenti doppi processi con tanto di emissione di sentenza di colpevolezza a processo reale ancora in corso. In questa dinamica l’opinione pubblica è stata messa in condizione di percepirsi ed agire sempre più protervamente come il braccio operativo di una giustizia punitiva, puntellata proprio da quella gogna mediatica che, per compiacere la sete di castigo da parte di lettori e telespettatori, alimenta queste pulsioni e un sentimento di condanna etica e di censura ritorsiva in modo quasi ossessivo nei confronti di chiunque abbia avuto a che fare con la giustizia. In barba a qualsiasi sentenza di assoluzione definitiva, in barba all’evidenza di pene scontate e al conseguente diritto di reinserirsi nel consesso civile fruendo del sacrosanto diritto all’oblio, pur sancito dalla Carta di Milano, ma vergognosamente ignorato dai giornalisti che preferiscono gettarsi sulla comunicazione che velica la pancia rancorosa della pubblica opinione invece che fare informazione corretta. Ed in barba al principio sacrosanto che in uno stato di diritto la responsabilità penale è personale, che non si può subire l’accusa di mera parentela o contiguità con un gruppo al cui interno alcuni operano in modo delinquenziale. Poiché quella che si vorrebbe veder applicata, la responsabilità di gruppo, etnica o politica, prevista negli stati autoritari, apre la strada ad ogni forma di arbitrio. Dal processo Knox e Sollecito, al caso Scattone, dalle indagini sul caso Yara Gambirasio alla vergognosa docu-fiction sul "mediaticamente già colpevole in via definitiva" Brega Massone che ancora attende il giudizio in appello ma è già stato condannato dai media, fino all’ultima sollevazione per la spericolata decisione di Bruno Vespa di intervistare i parenti del defunto Vittorio Casamonica e il loro avvocato, in una più che legittima puntata di Porta a Porta seguita ai fatti di cronaca della celebrazione funebre del boss che hanno esacerbato le polemiche di quest’estate seguite al funerale del boss del clan sinti (rispetto al quale, bisogna dirlo, in troppi si sono esercitati in uno strabico e ‘fradicialchicchissimo’ garantismo di maniera). Sono tutte vicende in cui dominano la voglia di linciaggio, la pressione censoria e quel populismo penale che fa strame dei principi fondanti dello stato di diritto, delle garanzie previste dalla Costituzione, del diritto al giusto processo ribadito dall’articolo 6 della CEDU in conseguenza del quale si dovrebbe escludere la vergogna dei doppi processi mediatici. Su qualsiasi caso giudiziario ma anche post giudiziario, come in quello dei Casamonica ospitati da Vespa o per Scattone spinto a rinunciare alla sua prospettiva di reinserirsi nella società dopo aver espiato la sua pena, l’opinione pubblica è stata sollecitata ad esercitare un pericoloso potere di condizionamento, a riversare i suoi umori ritorsivi, l’implacabile rivalsa e lo spietato anelito al castigo e legittimata ad esercitare una riprovazione etica e farsi vindice di chi ha già scontato la sua pena. Addirittura qualche fervente animatore della riprovazione morale si è spinto a indicare quali domande Vespa avrebbe dovuto formulare ai parenti di Vittorio Casamonica: Siamo alla dittatura del bene assoluto sotto la cui ala è agevole placare ogni tipo di nevrosi e insicurezze esercitata attraverso la censura e la pressione di massa e di cui quanto accaduto nella “Casamonichiade” è lo specchio più fedele. E c’è un particolare di cui non si è parlato: l’ennesimo rigurgito di foga forcaiola abbattutosi su Vespa e sulla sua pretesa di riconoscere a degli incensurati il diritto di parola e di replica in quanto esponenti di un clan notoriamente dedito ad attività delinquenziali, sono arrivati, grillini a parte, da una nutrito settore di quel Pd, che a livello di azione di governo sta formalmente tentando di vincere le resistenze interne e di difesa dei diritti individuali e delle garanzie. Un impeto censorio così famelico da sollevare il fortissimo dubbio che tanta vis sanzionatoria non funga altro che da lavacro a basso prezzo per chi nel corso di decenni ha allevato e nutrito e alimentato il clan dei Sinti come utile bacino elettorale. Chi condanna ora lo fa dopo aver per decenni dato copertura al malaffare ed ora in nome di un’unica garanzia. Quella di buttare la propria zozzeria sotto il tappeto della questione morale. La pancia del Pd seguita a rispondere agli impulsi forcaioli e alle reprimende eticizzanti e i vertici ci si mettono lesti in sella quando questi consentono di mascherare le colpe e le responsabilità passaste assurte a sistema.

IO NON SONO RAZZISTA, MA…. NON SONO RAZZISTA, MA CHI PENSA AGLI ITALIANI?

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Dr. Antonio Giangrande – Avvocato e scrittore perseguitato dal sistema.

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.
Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali.

A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. 

I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. 

Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. I non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. 

L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. 

Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso. 

Quando qualcuno, bianco o nero, cristiano, mussulmano o induista, ricco o povero, gay o etero, italiano o straniero, entra in casa nostra senza permesso è occupazione.

Quando questo qualcuno ci occupa casa e ci impone di sostentarlo è assoggettamento.

Quando qualcuno ci assoggetta e ci obbliga di abbracciare la sua cultura e la sua religione è invasione.

Quando qualcuno ci invade e noi ci rifiutiamo e reagiamo e questo poi ci mette la bomba in casa e/o ci uccide è conquista.

Bene. Se la legge è uguale per tutti, per tutti va applicata anche in caso di conquista di beni e persone. Quindi, di cosa stiamo parlando? 

Io non sono razzista e fascista: chiedo solo rispetto! A chiunque suoni alla mia porta e chiede permesso io lo faccio entrare! E se chiede aiuto io lo aiuto. 

Però non voglio essere occupato, assoggettato, invaso, conquistato o addirittura ucciso: sono razzista e fascista?

Sono nato bianco...

Sono nato bianco, il che fa di me un razzista.

Non voto a sinistra, il che fa di me un fascista.

Sono eterosessuale, il che fa di me un omofobo.

Non sono sindacalizzato, il che fa di me un traditore della classe operaia e un alleato del padronato.

Sono di religione cristiana, il che fa di me un cane infedele.

Rifletto, senza prendere per buono tutto ciò che mi dice la stampa, il che fa di me un reazionario.

Tengo alla mia identità e alla mia cultura, il che fa di me uno xenofobo.

Vorrei vivere in sicurezza e vedere i delinquenti in galera, il che fa di me un agente della Gestapo.

Penso che ognuno debba essere ricompensato secondo i suoi meriti, il che fa di me un antisociale.

Ritengo che la difesa di un Paese sia compito di tutti i cittadini, il che fa di me un militarista.

Amo l’impegno e lo sforzo di superare se stessi, il che fa di me un ritardato sociale.

Pertanto ringrazio tutti i miei amici, che hanno ancora il coraggio di frequentarmi, nonostante tutti questi difetti. 

(Marina Priami)

Sono nato mussulmano...

Sgozza gli infedeli ovunque li trovi (Corano 2:191)

Fa’ la guerra agli infedeli che vivono vicino a te (9:123)

Quando si presenta l’occasione, uccidi gli infedeli ovunque vengono catturati (9,5)

Gli ebrei ed i cristiani sono pervertiti. Combattili (9:30)

Uccidi gli ebrei ei cristiani, se non si convertono all’islam o se rifiutano di pagare la tassa jizya [tassa dell'umiliazione] (9,29)

Mutila e crocifiggi gli infedeli che criticano l’islam. (05:33)

Punisci i miscredenti con indumenti (gabbie) di fuoco, aste di ferro con ganci, acqua bollente, si fondano la loro pelle e il ventre (22:19)

Ogni religione diversa dall’Islam non è accettabile (3:85)

Non cercare la pace con gli infedeli. Decapitali quando li prendi prigionieri (47:4)

Terrorizza e decapita chiunque creda in altre scritture che il Corano (8:12)

I miscredenti sono stupidi. Esorta i musulmani di combatterli (8:65)

I musulmani non devono avere amici fra gli infedeli (3:28) )

I musulmani devono usare tutte le armi possibili per terrorizzare gli infedeli (8:60)

Gli infedeli sono impuri e non vanno lasciati entrare nelle moschee (9,28)

Sono vostri nemici. Evitateli. Che Dio li stermini. Come sono falsi ! (4,63)

Vi esortiamo a marciare contro le nazioni potenti. Le combatterete finché avranno abbracciato l’islam (16,47)

Gli infedeli sono cattivi (2, 25,26,255 - 8, 38 - 46, 29 - 3, 54) perfidi (2,26)- impostori(3- 54), empi (3, 144) - perversi (5,75) - i più perversi di tutti gli esseri creati (97,5) - bugiardi (6, 28 -51, 10) - gli animali più vili (8, 22, 57) -idolatri (9,5 )- criminali (10,14 -55,43)) - ingiusti (9 e 10, 53)- ipocriti (9, 69) - maledetti (9, 69) -prevaricatori 46, 19)

Metterò il terrore nel cuore degli infedeli. Tagliate loro la testa e schiacciategli le dita (8,12)

Che spettacolo, quando gli angeli uccidono gli infedeli! Li picchiano sulla faccia e sulle reni, gridando: “Voi giusterete il supplizio del fuoco (8,52)

Non sei tu che uccidi gli infedeli, è Dio. Quando tiri una freccia, non sei tu che la tiri, è Dio per mettere alla prova i fedeli, perché Dio sente e sa tutto (8,52)

Credenti! Combattete gli infedeli che vi avvicinano, che vi trovino sempre severi nei loro confronti (9, 124) (A&F)

A proposito dell’invasione dei mussulmani senza colpo ferire….diamo proposte e non proteste.

Se lo sbarco incontrollato dei clandestini è dovuto alla guerra fratricida nei loro paesi: fermiamo quella guerra con una guerra giusta sostenendo la ragione. Per molto meno abbiamo bombardato l’Iraq, l’Afghanistan e la Libia, senza aver un interesse generale europeo, se non quello di assecondare le mire americane.

E poi, dalla patria in fiamme non si scappa, ma si combatte per la sua liberazione. Gli italiani non sono scappati in Africa dalla occupazione tedesca. O i comunisti hanno combattuto non per liberare l’Italia ma per consegnarla all’URSS?

Se il motivo dello sbarco incontrollato dei clandestini è quello economico, evitiamo di farci espropriare il nostro benessere ottenuto con sacrifici. Per la sinistra è un sistema che vale in termini elettorali, ma è ingiusto. Difendiamoci dall'invasione in pace. Apriamo aziende nei luoghi di espatrio dei clandestini. Imprese finanziate da quei fondi destinati a mantenere gli immigrati a poltrire in Italia. In alternativa tratteniamo i più giovani di loro per dargli una preparazione ed una istruzione specialistica, affinchè siano loro stessi ad aprire le aziende.

E comunque, senza parer razzista…In Italia basterebbe far rispettare la legge a tutti, compreso i clandestini, iniziando dalla loro identificazione, e se bisogna mantenere qualcuno, lo si faccia anche con gli italiani indigenti.

Per inciso. Non sono di nessun partito. Non voto da venti anni, proprio perché sono stufo dei quaquaraqua in Parlamento e di quei coglioni che li votano.

Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.

Si deve sempre guardare il retro della medaglia. Si dice che i soldi vadano ai migranti e ce la prendiamo con loro. Invece i soldi vanno ai migranti tramite le cooperative di sinistra e della CGIL. Ergo: Ai migranti quasi niente; alla sinistra i soldi dell'emergenza ed i voti dei futuri cittadini italianizzati. Ecco perchè i comunisti sono solidali fino a voler mettere i mussulmani nelle canoniche delle chiese cristiane. Poi per l’aiuto agli italiani non c’è problema: se sei di sinistra, hai qualsiasi cosa: case popolari, anche occupate, e sussidi ed occupazioni nelle cooperative. Se sei di destra, invece, vivi in auto da disoccupato, non per colpa della sinistra, ma perché quelli di destra ed i loro politici son tanto coglioni che non sanno neppure tutelare se stessi.

Lo stesso sistema si adotta per la lotta alla mafia. Sostentamento e sovvenzioni alle associazioni vicine alla CGIL ed a loro assegnazione dei beni confiscati alla mafia.

Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci.

Bufera sulla Bindi per lo scandalo dei beni della mafia, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. L'inchiesta della procura di Caltanissetta sul giudice Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione del tribunale di Palermo, rischia di avere un effetto domino e di coinvolgere i cosiddetti professionisti dell'Antimafia. Si indaga per «fatti di corruzione, induzione, abuso d' ufficio» legati agli incarichi conferiti al re degli amministratori giudiziari siciliani, l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il quale a sua volta avrebbe pagato consulenze per oltre 750 mila euro all'ingegnere Lorenzo Caramma, marito della stessa Saguto. Nei mesi scorsi l'ex direttore dell'Agenzia nazionale per i beni confiscati, il prefetto Giuseppe Caruso, aveva denunciato i presunti conflitti d' interesse di Cappellano Seminara. Per questo l'alto funzionario nel 2014 venne convocato dal presidente della commissione Antimafia Rosy Bindi e i due diedero vita a un aspro confronto. Bindi parlò di «effetto delegittimazione» e di «un'accusa generalizzata al sistema» e «a magistrati che rischiano la vita». Caruso, contattato da Libero, replica: «Ora qualcuno dovrebbe confessare come stanno effettivamente le cose e più di qualcuno dovrebbe dimettersi, dovrebbe essere consequenziale alle cose che ha detto, se non corrispondono a verità…». Caruso non fa il nome della Bindi, ma ammette che in quell'audizione la parlamentare piddina dimostrò «di non aver approfondito bene il problema o di aver percepito in maniera distorta» le sue dichiarazioni. Caruso denuncia da molti anni le criticità della legge sulla confisca dei beni mafiosi: «Ma durante l'audizione, mentre proponevo le mie soluzioni, mi interruppe spesso e io non sono riuscito a comprendere quel suo atteggiamento». Forse era frutto di un approccio ideologico al tema dell'antimafia? «Per esempio... Io, da tecnico non posso affermarlo, ma per qualcuno, visto che non è un'esperta della materia, potrebbe essere stata strumentalizzata da Giuseppe Lumia (senatore del Pd ndr) che in Sicilia è il campione dell'antimafia. Da prefetto (di Palermo ndr) a Lumia qualche bacchettata l'ho data». Nel frattempo, ieri, il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale, sembra aver scaricato la Saguto, denunciando la difficoltà di ricevere informazioni certe sui beni assegnati: «Nonostante la complessa interlocuzione con il presidente della sezione non sono ancora pervenuti i dati richiesti». Cappellano Seminara, da parte sua, ha rilasciato dichiarazioni che potrebbero scoperchiare un nuovo verminaio nel sistema giudiziario isolano: «Osservo che in tutti i tribunali siciliani congiunti dei magistrati che ivi prestano servizio, ricevono quotidianamente, da altri magistrati dello stesso tribunale, incarichi sia quali avvocati, curatori, consulenti, amministratori giudiziari, senza che ciò dia luogo ad ipotesi corruttive. Diversamente, chi è in qualche modo legato da parentela con un magistrato non potrebbe svolgere alcuna attività libero-professionale nei distretti delle corti d' appello ove il congiunto esercita le sue funzioni, cosa che, invece, avviene costantemente».

Ancora veleni menzogne e ombre, scrive Pino Maniaci su “TeleJato”. “IN TEMPI NON SOSPETTI, E IN TUTTE LE SEDI ISTITUZIONALI E NON, HO RAPPRESENTATO TUTTE LE CRITICITÀ RISCONTRATE” NELLA GESTIONE DEI BENI SEQUESTRATI E CONFISCATI “E PROPOSTO LE RELATIVE SOLUZIONI. ORA QUALCUNO DOVRÀ GIUSTIFICARSI E QUALCUN ALTRO FORSE DIMETTERSI…”. E’ il lapidario commento all’Adnkronos del Prefetto Giuseppe Caruso, ex Direttore dell’Agenzia dei Beni confiscati, sull’avviso di garanzia alla Presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, accusata di corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, insieme con il marito Lorenzo Caramma e all’avvocato Gaetano Cappellano Seminara. L’inchiesta è coordinata dalla Procura di Caltanissetta e riguarda la gestione dei beni confiscati. In passato, Caruso aveva più volte denunciato alla Commissione nazionale antimafia, presieduta da Rosi Bindi, l’uso “a fini personali” che avrebbero fatto alcuni amministratori giudiziari dei beni a loro affidati. In questo modo, secondo Caruso, avrebbero “bloccato il conferimento dei beni agli enti destinatari”. Gli stessi amministratori avrebbero percepito “parcelle stratosferiche” e mantenendo poltrone dei consigli di amministrazione delle aziende confiscate, così da fare “il controllato e il controllore”. Il nome che Caruso ha fatto più spesso in proposito è quello dell’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, che ha gestito una grande fetta dei patrimoni confiscati in Sicilia, in particolare quella del sequestro al costruttore Vincenzo Piazza. All’epoca Bindi aveva parlato di un “effetto delegittimazione” e di “un’accusa generalizzata al sistema” e “a magistrati che rischiano la vita”. E Caruso aveva ribattuto: “Dire che ho inteso delegittimare l’autorità giudiziaria non corrisponde a verità”. Oggi Caruso, che invita qualcuno a giustificarsi e qualche altro a dimettersi, non fa nomi, ma il riferimento sembra evidente, la Presidente dell’Antimafia Rosi Bindi, oltre alla Presidente Misure prevenzione Silvana Saguto. È un mondo a parte, inesplorato nonostante sia sotto gli occhi di tutti, quello dei beni confiscati alla mafia. E ogni tanto, ormai con sempre maggiore inquietante frequenza, si scopre che le cose non vanno come andrebbero e che ci sarebbe chi ne approfitta. La montagna di risorse requisite alle mafie potrebbe risanare le casse dello Stato – e non può certo sorprendere che ci sia competizione all’interno e che si sgomiti per gestire le risorse ed i beni immobili sequestrati. Ma il sistema è saturo, il giro di interessi sempre più fitto, e la competizione sempre più aspra. Il prefetto Caruso ha lanciato l’allarme, indicato le criticità e messo in moto un meccanismo di verifica, che ha provocato indagini. La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, a conclusione di una prima fase di indagini, ha indagato Silvana Saguto, presidente della sezione Misure di prevenzione, l’avvocato Cappellano Seminara, considerato il plenipotenziario delle gestione dei beni per via del numero di consulenze ricevute, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito di Silvana Saguto, che secondo l’ipotesi accusatoria avrebbe beneficiato delle consulenze ricevute da Cappellano Seminara. Insomma, il presidente della sezione Misure di prevenzione avrebbe tenuto in speciale conto l’avvocato e questi si sarebbe sdebitato attribuendo consulenze al marito. Il presidente del Tribunale di Palermo, Salvatore Di Vitale “fin dal proprio insediamento avvenuto lo scorso 15 maggio” ha “iniziato a svolgere accurati accertamenti sull’attività della Sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, richiedendo al Presidente della Sezione i necessari dati conoscitivi”. È quanto si legge in una nota diramata dalla stessa Presidenza del Tribunale di Palermo. “Preso, peraltro, atto dei provvedimenti adottati dalla Procura della  Repubblica di Caltanissetta e ritenuto che, nonostante la complessa  interlocuzione con il Presidente della Sezione, non sono ancora  pervenuti i dati richiesti nella loro completezza, ha emesso, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e  definitiva verifica – si legge ancora nella nota del Presidente del  Tribunale, Salvatore Di Vitale – Tutti i dati emersi fino a questo  momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. Il palazzo di Giustizia di Palermo torna in prima pagina, dunque. E stavolta non ci torna per le minacce, intimidazioni, iniziative “d’avanguardia”, ma per una gestione opaca di bene pubblico, ciò che generalmente l’autorità giudiziaria addebita alla “casta” della politica. Un ribaltamento dei ruoli, in considerazione anche del fatto che a smuovere le acque, molto rumorosamente, è stato il prefetto Caruso, un funzionario di lungo corso, cui non fa difetto la tenacia. In effetti sembra strano che quando le indagini riguardano qualche magistrato o qualche “protetto” non esiste più la questione morale e le tanto sbandierate dimissioni richieste a tutti gli indagati “comuni mortali” non valgono quando ad essere indagati sono loro. Sorge spontanea, per la natura dei gravissimi reati contestati, corruzione, induzione alla concussione e abuso d’ufficio, la considerazione che anche a loro andrebbe applicata la misura di prevenzione patrimoniale e così sottoporre a sequestro preventivo tutto il loro patrimonio e farlo gestire ad un amministratore giudiziario con i tempi biblici che la dott.ssa Saguto concede ai “suoi” amministratori giudiziari nei procedimenti da lei presieduti. E’ noto, tra l’altro, che la stessa Saguto nelle motivazioni di sequestro perpetrate ai danni di altri, e non certo tutti mafiosi, sostiene che per disporre un sequestro non sono necessarie le prove ma basta soltanto il minimo sospetto che il patrimonio dell’indagato possa essere stato costituito con proventi da attività illecita e che, a suo dire, tale motivazione risulta più che sufficiente in questo tipo di procedimenti. Non si comprende perché la stessa misura non possa essere applicata a chi come Lei, il marito e il Cappellano Seminara risultano indagati di gravissimi reati che gettano fango al nostro Paese e inducono la gente a non avere fiducia nell’amministrazione della Giustizia. (Ricordiamo che stando alle cifre della Corte dei Conti la corruzione sottrae al nostro Paese risorse per 60 miliardi di euro pari al 4,4 per cento del PIL). Così come non si comprende come una persona indagata possa ancora ricoprire lo stesso ruolo. Perché la dottoressa, il marito e il Cappellano Seminara non sono stati sospesi dai loro incarichi? Le tanto pubblicizzate frasi “potrebbe inquinare le prove” o “potrebbe reiterare il reato”, valide per tutti i cittadini italiani e in tutti i procedimenti, evidentemente non si applicano per la dott.ssa Saguto & company. Questo dimostra i due pesi e le due misure nella gestione della giustizia, con comportamenti diversi in base a chi ha la sventura di essere sotto giudizio. Comunque la gestione dei beni sequestrati ha bisogno di trasparenza, su questo non ci piove, nuove regole e di un “allargamento” significativo dei soggetti abilitati alla gestione del patrimonio. Su questo terreno lo Stato si gioca la credibilità oltre che i soldi: il numero di aziende che chiudono battenti o falliscono dopo la confisca è molto alto, e migliaia di lavoratori perdono il posto e si trovano sul lastrico. Il mondo delle confische è assai articolato e, a nostro avviso, non bisogna dare niente per scontato, perché all’ombra dei buoni propositi potrebbero trovare ospitalità furbizie e prepotenze. Indispensabile e urgente, dunque, una svolta. Regole e nomi nuovi. Ci auguriamo che le tante persone per bene che ancora difendono con la propria onestà il valore e il prestigio della Magistratura abbiano il coraggio di attuare scelte che siano da esempio per tutti i cittadini onesti e anche per i malcapitati nelle grinfie della dott.ssa Saguto e della sua banda. Pino Maniaci.

S'allarga ad altri familiari del giudice Silvana Saguto l'inchiesta sull'assegnazione di incarichi di gestione dei beni confiscati alla mafia. L'indagine toccherebbe il padre e uno dei figli del presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, indagata per corruzione, induzione e abuso d'ufficio. Con lei sono sotto inchiesta l'avvocato Gaetano Cappellano Seminara, il più noto amministratore giudiziario di Palermo, e l'ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato, scrive “L’Ansa”.

Beni sequestrati alla mafia, si allarga indagine su giudice Saguto. Che si dimette. Il presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo si dimette dall'incarico dopo essere stata coinvolta nell'inchiesta della procura di Caltanissetta per corruzione, induzione e abuso d’ufficio, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 12 settembre 2015. Aveva detto di poter chiarire la sua posizione in breve tempo. Intanto però Silvana Saguto, presidente della sezione misure di prevenzione del tribunale di Palermo, il magistrato che dal 2010 gestisce un patrimonio miliardario composto dai beni sottratti ai boss mafiosi, si è dimessa dall’incarico. La donna che Gian Carlo Caselli definì “la più importante, dal punto di vista economico, della città”, perché dal Palazzo di giustizia “gestisce capitali enormi”, ha scelto di fare un passo indietro dopo essere stata travolta dall’inchiesta della procura di Caltanissetta. Un’indagine per corruzione, induzione e abuso d’ufficio che a Palermo ha scatenato un vero e proprio terremoto. A dare notizia delle dimissioni del magistrato indagato è il presidente del tribunale di Palermo Salvatore Di Vitale, che ha “preso atto della disponibilità della dottoressa Saguto a essere destinata ad altra sezione del Tribunale”. Dimissioni, quelle della Saguto, che servono a garantire “la continuità e la piena funzionalità di un organo giudicante, da anni centrale nella strategia di contrasto dello Stato alla criminalità mafiosa”. Il presidente del Tribunale di Palermo ha sottolineato che “il provvedimento mira anche ad agevolare i doverosi accertamenti in corso che potranno svolgersi in un clima di serenità idoneo a favorire più dettagliati approfondimenti”. Due giorni fa, dopo la diffusione della notizia sull’indagine, lo stesso Di Vitale aveva annunciato di avere “emesso, in data odierna, un provvedimento con il quale ha disposto una diretta e definitiva verifica. Tutti i dati emersi fino a questo momento sono stati comunicati al Csm e al Ministero”. E mentre l’incarico della Saguto è stato preso da Mario Fontana, presidente della quarta sezione penale, quella che ha processato e assolto gli ex alti ufficiali del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, l’indagine dei pm nisseni si è allargata. Insieme alla Saguto sono indagati l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito del magistrato e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Secondo gli inquirenti ammonterebbero a 750 mila euro in dieci anni l’ammontare delle consulenze concesse da Cappellano Seminara al marito della Saguto. I pm nisseni guidati da Sergio Lari (che tra qualche giorno passerà a fare il procuratore aggiunto mentre l’interim spetterà a Lia Sava) stanno passando al setaccio documenti e fotografie acquisite nel sequestro di due giorni fa. Nell’inchiesta è finita anche la festa di laurea del figlio del magistrato, organizzata da Cappellano Seminara tramite un amico docente universitario, che ha ricevuto a sua volte alcuni incarichi, ed è a sua volta ndagato. La Saguto ha anche un altro figlio, che di mestiere fa lo chef e lavora all’Hotel Brunaccini, albergo in pieno centro della famiglia Cappellano Seminara.  E questo quello che sospettano gli investigatori: che la gestione dei beni confiscati sia stata un vero e proprio affare di famiglia per la Saguto.

Gestione dei beni confiscati: altri tre magistrati indagati. Si allarga l'inchiesta che vede coinvolta Silvana Saguto, sotto indagine anche l'ex consigliere del Csm Tommaso Virga e altri due giudici, scrive “La Repubblica” il 12 settembre 2015. Sono quattro i giudici del tribunale di Palermo indagati nell'ambito dell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati. Oltre a Silvana Saguto che ha lasciato il suo incarico sostituita da Mario Fontana, l'inchiesta coinvolge il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chairomonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Come riporta il quotidiano "Il Messaggero", Virga è sospettato di avere favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto la quale avrebbe garantito la nomina del figlio di Virga, Walter ad amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vincenzo Rappa. Scaletta avrebbe invece rivelato a due giudici della sezione della Saguto notizie sull'inchiesta. Uno dei due giudici, Chiaromonte avrebbe deciso sulla gestione di beni da 10 milioni di euro sequestrati al mafioso Luigi Salerno "malgrado l'amministratore giudiziario fosse una persona a lui molto vicina". Una nuova bufera, insomma, si abbatte su Palazzo di Giustizia. Oltre a Silvana Saguto, altri tre magistrati del tribunale di Palermo sarebbero indagati nell'inchiesta sulla gestione dei beni confiscati alla mafia. Lo rivela il quotidiano il Messaggero, notizia che trova conferme negli ambienti giudiziari siciliani.

Un terremoto quello che sta investendo il Palazzo di giustizia di Palermo, scrive “Sicilia Live”. L'inchiesta infatti, oltre alla Saguto che si è già dimessa dall'incarico, coinvolgerebbe il presidente di Sezione ed ex consigliere togato del Csm, Tommaso Virga, indagato per induzione alla concussione, il sostituto procuratore Dario Scaletta (presunta rivelazione di segreto d'ufficio) e Lorenzo Chiaramonte, giudice della Sezione diretta dalla Saguto (abuso d'ufficio). Virga, in particolare, sarebbe finito sul registro degli indagati per induzione alla concussione perché sospettato di aver favorito un procedimento disciplinare a carico della Saguto. Il magistrato dimissionario, in cambio, la quale a sua volta avrebbe nominato ilfiglio di Virga, Walter, amministratore giudiziario dei beni sequestrati agli eredi di Vicenzo Rappa, imprenditore condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Nei giorni scorsi la Procura di Caltanissetta, come vuole la procedura, ha comunicato l'avvio dell'inchiesta nei confronti dei magistrati alla Procura generale che ha inviato una nota al Csm. Si allunga, dunque, l'elenco degli indagati per lo scandalo della gestione dei beni confiscati. Oltre alla Saguto, infatti, sotto inchiesta per corruzione, induzione alla corruzione e abuso d'ufficio, ci sono pure il padre, il figlio e il marito (l'ingegnere Lorenzo Caramma) del magistrato che fino a ieri guidava le misure di prevenzione palermitane. Indagato pure Gaetano Cappellano Seminara, il più noto tra gli amministratori giudiziari che in cambio di alcuni incarichi, avrebbe affidato delle consulenze al marito della Saguto.

NON È LA STORICA CATTEDRALE DI BARCELLONA IDEATA E COSTRUITA DA GAUDÌ: A PALERMO, IN QUESTO MOMENTO È UNA FAMIGLIA INTESA NON COME “FAMIGLIA MAFIOSA”, ALMENO SINO AD ORA, MA COME FAMIGLIA INDAGATA: UFFICIALMENTE SI TRATTA DI REATI DI CORRUZIONE, ABUSO D’UFFICIO E, QUALCHE GIORNALE SCRIVE ANCHE, INDUZIONE ALLA CONCUSSIONE.

Quello della concussione, se è vero quello che si lascia trapelare a “spizzichi e muddichi”, sarebbe un reato grandissimo: nell’antica Roma, i processi per concussione si concludevano con il trasferimento dei funzionari in lontane colonie dove non avrebbero più potuto delinquere, mentre i mussulmani sono più cattivi, ai ladri tagliano la mano destra, scrive Salvo Vitale su “Tele Jato”. Nel nostro caso non sappiamo più cosa pensare. La nostra sacra famiglia è quella dell’ing. Caramma (Caramma che sorpresa), del figlio Elio detto Crazy, abile ed esperto chef al servizio di Cappellano Seminara presso l’albergo Brunaccini, di sua proprietà (cioè di Cappellano), ma presente anche all’EXPO di Milano con le sue specialità siciliane, arancini e cazzilli. Suggeriamo agli inquirenti di indagare anche sul posto in cui abita, visto che non siamo in grado di confermare alcune strane voci che circolano su di lui. Crazy vuol dire “pazzo” (con la lettera p). Basta così. Sulle accuse rivolte all’ingegnere Caramma padre, la moglie ha detto che è tutto in regola e che chiarirà. Ma chi è la moglie? Si tratta di una che, dopo aver girato parecchi uffici del tribunale di Palermo, da diversi anni ha trovato il posto giusto in un ufficio che sembra creato apposta per lei, quello dei beni sequestrati ai mafiosi o presunti tali. La legge, alla modifica della quale la signora ha dato un contributo importante, le consente di tenere sotto controllo ogni impresa siciliana, e di indagare, sequestrare e assegnare quello che è sequestrato a un cerchio di persone che su questo ci campano e non mollano l’osso sino a quando non lo spolpano del tutto. In tal senso, cioè nel mettere le mani sulle gestioni economiche delle imprese, i mafiosi sono dei dilettanti. E va bene. Adesso, vista l’indagine la signora si è dimessa ed è stata, per il momento assegnata ad un altro ufficio, quello della terza sessione penale del tribunale di Palermo. In qualsiasi altro stato dovrebbe essere sospesa da tutto, in attesa di chiarire la sua posizione, ma in Italia funziona diversamente. D’altronde non bisogna dimenticare che l’Italia è la patria della corruzione, occupa il penultimo posto nel mondo per la capacità di generare a ripetizione strumenti di corruzione, di imbroglio, strategie di “una mano lava l’altra”, che in Sicilia si chiamano pizzo o tangenti, nel resto d’Italia mazzette o contributi. Il gioco del “futticompagno” è più praticato e amato di quello del calcio. Siamo il paese in cui tutti sono bravi a evadere le tasse e Renzi ora, Berlusconi prima, ci dicono che queste tasse cattive bisogna eliminarle. E va be!!! Quello che ci stupisce e ci lascia allibiti è la notizia, arrivata stamane, che anche il padre della Saguto è indagato. Sul padre del marito della Saguto non sappiamo niente. Dovrebbe avere una veneranda età e quindi, che diamine, essere lasciato in pace a vivere i suoi giorni. Quindi, padre, madre, figlio e padre della madre.  Per dirla con una poesia di Prevert “la belle famille”. Intanto pare che l’indagine si stia allargando al verminaio degli amministratori giudiziari, dei quali da tempo facciamo i nomi: Benanti, Virga, Modica de Moach, Geraci, Aulo Giganti, Miserendino, Dara, e una coda infinita di collaboratori, coadiutori, sorveglianti, controllori, verificatori, tutti legati dal sacro vincolo del “tiengo famiglia”. Una famiglia sacra e di tutto “rispetto”. In tutto questo si aggira un silenzio assordante, in parte causato da stupore, in parte da complicità, amicizia e favori, da parte di tutte le organizzazioni che usano timbrare le proprie azioni con il marchio dell’antimafia, ma che, in un momento come questo scelgono di non dire niente. “Mutu cu sapi u iocu”!!!!!!

La moria degli avvocati nel sistema forense italiano. Secondo una riforma adottata dal Parlamento, chi non è ammanicato col sistema forense giudiziario, non sopravvive. I retroscena di come ci si abiliti all’avvocatura o alla magistratura.

Chi studia giurisprudenza pensa che vale la forza della legge. Chi come me ha esperienza e perizia, afferma che vale la legge del più forte. Ossia: nei tribunali la prassi fotte la legge. In tutta Italia.

L’unico consiglio che io posso dare è che, ormai in questa Italia, è meglio non fare nulla, perché si fotte tutto lo Stato, e non avere nulla, perché si fottono tutto i legulei.

Già, i legulei. I giornalisti approssimativi e disinformati da sempre ce la menano sul dato che in Italia ci siano 250 mila avvocati con la tendenza all’aumento di 15 mila unità all’anno. A loro è imputata ogni sorte di maldicenza. Al loro incremento numerico è addebitata la responsabilità della deriva della giustizia in Italia.

Cosa più falsa non c’è.

Sicuramente tra gli scribacchini ci sarà qualcuno che avvocato lo è o comunque ha partecipato invano all’esame per diventarlo e quindi la verità è a loro portata.

Abilitazione all’avvocatura nel sistema forense italiano

Eppure si sottace o si continua a negare l’evidenza sul come ci si abiliti all’avvocatura, alla magistratura, o ad ogni altra professione, così come attestato dalle sentenze dei Tar di tutta Italia. Un esame truccato nelle voglie dei commissari. Un sistema insito in tutti gli esami o i concorsi pubblici.

Abilitazione uguale a omologazione. Subisci e taci e non rompere il cazzo. Se sei diverso e ti ribelli: sei fuori.

Oggi c’è il paradosso che, a prescindere dall’esame truccato di abilitazione, non conviene più parteciparvi, in quanto, pur superandolo, non ci si può iscrivere agli albi per esercitare la professione.

Un ostacolo ulteriore per chi entra, un impedimento a proseguire per chi già c’è.

Ecco perché in tempo di crisi non si parla dell’imminente moria dei cosiddetti “pesci piccoli” forensi.

E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo“, letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia e alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it, mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu .

Non paghi di aver partorito in Parlamento una riforma forense contro l’inclusione dei giovani nel mondo leguleico, i marpioni, sempre in Parlamento, hanno adottato un riforma, affinché chi sia entrato nel loro autarchico mondo venga espulso per stato di necessità. E cioè sono coloro che non ben ammanicati nel sistema forense giudiziario non ce la fanno a supportare le inani spese di gestione della professione.

Di questo nessuno ne parla. Ed aimè tocca a me farlo per una categoria che non merita solidarietà, ma solo commiserazione.

Da sempre il popolo forense si divide in due parti.

I dinosauri privilegiati con degni  natali e con potere in Parlamento, ma genuflessi alla magistratura;

i loro followers per ignavia o per necessità, ossia i praticanti e i giovani avvocati.

Quanto costa mantenersi alla professione di avvocato nel sistema forense italiano

Il 7 agosto 2014, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha approvato il Regolamento attuativo dell’art. 21 della Legge Professionale n. 247 del 2012, che impone a tutti gli avvocati, iscritti all’apposito albo, l’iscrizione obbligatoria anche alla Cassa Forense, con versamento di un contributo di importo fisso indipendentemente dalle condizioni reddituali.

I contributi minimi dovuti dagli iscritti, rivalutati per ogni anno di iscrizione alla Cassa, sono i seguenti:

a) Contributo minimo soggettivo: € 2.780,00;

b) Contributo minimo integrativo: € 700,00;

c) Contributo di maternità: € 151,00.

Il regolamento prevede: o paghi o ti cancelli dall’Albo e nulla valgono le presunte agevolazioni previste.

La conseguenza immediata di tale provvedimento è che, di qui a poco, circa cinquantamila avvocati italiani, soprattutto più giovani, rischiano di sparire dagli albi professionali, in quanto impossibilitati a far fronte agli onerosi contributi obbligatori richiesti! Molti avvocati con un reddito basso e insignificante non possono iscriversi alla Cassa per mancanza di liquidità economica e rischiano, pertanto, di subirne le relative conseguenze, ovvero la cancellazione forzata ed obbligata dai relativi albi professionali di appartenenza. Il versamento obbligatorio dei contributi previdenziali, così come previsto dalla nuova normativa, se per gli studi legali con giro d’affari multimilionario, risulterà praticamente insignificante,  colpisce, tuttavia, una schiera di professionisti che avranno serie difficoltà a sostenere tale spesa: appunto, qualcosa come cinquantamila avvocati – coloro, cioè, che percepiscono un reddito inferiore ai 10.300 euro annui. Per loro sarà complicato trovare un’alternativa alla disoccupazione, vuoi per l’età, vuoi per l’alta specializzazione in un settore e in nessun altro», dice l’avv. Eugenio Gargiulo di Foggia.

Vero è che la contribuzione obbligatoria e l’esoso peso fiscale accompagnato dalla mano morta della burocrazia colpisce ogni categoria professionale. Ed è questa stagnazione dello status quo che alimenta la crisi economica.

Inoltre i liberi professionisti del ramo tecnico, ingegneri, architetti, geometri e periti sono alla fame. Nessuno ne parla. Sono un esercito di oltre 500.000 persone senza protezioni sociali.

E’ questa l’Italia che continuiamo a volere? Con l’astensionismo elettorale il popolo mette sotto processo la politica inconcludente ed ignava e rea di aver sfornato una classe dirigente inetta, frutto di familismo e raccomandazioni.

Perché in Italia, oramai, si lavora esclusivamente per mantenere le sanguisughe.

La rottamazione assoluta del sistema senza schemi identitari ed ideologici, se non ora, quando? 

ANTIFASCISTA UN PO' FASCISTA.

Vietata la festa di CasaPound, ma che antifascismo è questo? Si chiede Piero Sansonetti su "Il Garantista". Quando quasi mezzo secolo fa ho iniziato a far politica, nel 1968, erano due gli slogan che mi appassionavano di più. Il primo era semplice: “Vietnam rosso”. Il secondo – sempre di due sole parole – ancora più semplice: “Vietato vietare”. Il primo di questi due slogan non aveva niente di utopistico. E dopo circa sette anni si realizzò. Il secondo slogan veniva dalla Francia: “Il est interdit d’interdire”. Ma fu tradotto in tutto il mondo. Gli spagnoli dicevano: “Prohibido prohibire”. Gli inglesi e gli americani dicevano “it is forbidden to forbid”. Questo slogan invece era sommamente utopistico. Presumeva una completa rivoluzione: dei cervelli e delle anime. E probabilmente quella rivoluzione era impossibile. Lo slogan vietato vietare è il più radicale degli slogan mai gridato dalla sinistra politica. Perché mette in discussione tutto, sinistra compresa. Soprattutto mette in discussione il potere, le sue forme e il suo stesso diritto di esistere. Non c’è niente di più sovversivo al mondo. E niente di più tenuto. Mettere in discussione il potere, vietare i divieti, vuol dire costringere tutti a “strupparsi”, a pensare, a non accoccolarsi sulla potenza di chi comanda. Impresa quasi impossibile. E così non c’è niente da stupirsi se la sinistra italiana, compatta, in queste ore ha chiesto di vietare la Festa nazionale di Casapound. Ed è felice di averlo ottenuto, questo divieto. Si sente più forte, più viva: chi vieta è vivo, esiste. Le cose sono andate così. CasaPound (che è l’organizzazione che raccoglie i cosiddetti fascisti del terzo millennio) aveva deciso di organizzare la sua Festa nazionale a Milano, per questi giorni di metà settembre. Poi però la sinistra milanese e l’Anpi hanno chiesto al Comune, al prefetto e alla questura di vietare la manifestazione di CasaPound perché Milano è una città antifascista. Nonostante la scombiccheratezza della richiesta, la richiesta è passata. CasaPound ha deciso allora di ritirarsi in un paesino della cintura milanese che si chiama Castano Primo. Qui il sindaco prima ha dato l’autorizzazione, poi all’ultimo momento l’ha ritritata. A questo punto la tensione è salita a mille perché CasaPound ha deciso di tenere lo stesso la sua festa visto che ormai è troppo tardi per programmare un nuovo spostamento. Che senso ha, nel 2015, vietare una festa politica, sia pure di una organizzazione che ha parecchio a che fare con le nostalgie fasciste? Ovviamente non ha nessun senso, salvo quello di riaffermare la forza e la prepotenza dello Stato. E’ chiaro che nessuno pensa neppure lontanamente che oggi in Italia ci sia il rischio di un golpe guidato dai fascisti (forse dei colpi di mano istituzionali ce ne sono stati, ma i fascisti non c’entravano niente), e dunque il gusto è solo quello di riaffermare il diritto a reprimere e a proibire. Quello che colpisce è che questa onda reazionaria e proibizionista sia cavalcata dalla sinistra, quella moderata, quella moderatissima, quella più radicale o estremista, i centro sociali: tutti. Come si spiega? In un modo solo: che ormai la politica è diventata solo un gioco di “gruppi”, di piccole caste, di ceti politici. Con nessun legame più con le idee, con il pensiero, coi principi. E l’antifascismo, da religione della libertà come la concepiva Calamandrei, è diventa semplicemente una etichetta che serve a farsi riconoscere, senza più nessun valore libertario e antirepressivo. Come la maglietta della Roma, o dell’Atalanta. Ieri ho provato a esprimere su Twitter questo concetto, in fondo così banale. E cioè l’idea che proibire è una attività fascista (senza per questo voler insultare nessuno, semplicemente per dare un po’ grossolanamente l’idea della differenza tra chi concepisce la politica come divieto e chi come libertà). Sono stato sommerso dalle proteste e dagli insulti. Per esempio, Paolo Ferrero, che è il segretario di Rifondazione comunista, mi ha risposto rovesciando la mia frase. Ha scritto: “Proibire la festa di CasaPound è una tipica iniziativa antifascista”. Confermando una visione poliziesca dell’antifascismo e della lotta politica che lascia pochissime speranze. E dimostra anche una buona dose di autolesionismo. Chiunque capisce che se oggi si leva la parola ai fascisti, sarà facilissimo, domani, toglierla ai comunisti o a chiunque altro, con la scusa che la loro è una ideologia non democratica. Non fece così Mario Scelba, il più reazionario dei ministri dell’Interno di tutta la storia della Repubblica? Non è che bisogna essere dei geni per capire queste cose. Temo che il problema sia più serio: che quando si ha in mente che la libertà è una complicazione da limitare, specie da parte di chi fa politica, poi è logico che l’unica attività che si ritiene degna è quella di vietare: la droga, il sesso, l’indipendenza, la piccola illegalità, e poi magari l’alcool, l’aborto, l’omosessualità. E naturalmente il fascismo, e poi il comunismo e tutto i resto. Altro che vietato vietare. Lo slogan che ha vinto è un altro: veto, ergo sum!

C’è un antifascismo un po’ fascista, continua Sansonetti. Esistono tre modi di concepire l’antifascismo, e quindi di celebrare il settantesimo anniversario della Liberazione, che cade sabato prossimo, 25 aprile. Il primo è un modo freddo e storico. Che si limita a osservare la grandiosità di quella data che rappresenta la caduta del nazi-fascismo, e cioè di un fenomeno e di una leadership politica dell’Europa occidentale che trascinò l’intero continente sull’orlo del baratro, al limite della fine della civiltà. E’ talmente gigantesco l’obbrobrio politico creato dal fascismo e dal nazismo – e che ha avuto il suo apice nel razzismo e nello sterminio della popolazione ebraica e dei rom – che la sua sconfitta militare (in Italia sancita dall’ingresso a Milano dell’esercito anglo-americano) segna uno spartiacque nella storia del nostro paese e del continente. Il secondo è il modo della retorica. Il più diffuso. L’antifascismo proclamato non come un valore ma come una “appartenenza”. Una bandiera. L’antifascismo come luogo degli eletti, al di fuori del quale c’è solo feccia e vermitudine, e dunque chiunque non entri con baldanza e convinzione nel cenacolo antifascista, e non si sottoponga ai riti e alle giaculatorie, è condannato ad essere scacciato tra i reietti. Questo è l’antifascismo più diffuso. E’ l’antifascismo delle cerimonie, ed è una specie di sotto-ideologia, dai confini molto vasti -dalla vecchia Dc ai centri sociali – che ha permesso per anni alle forze politiche di sinistra di rinunciare ad una propria struttura politica – di idee e di progetto – perché questa struttura era sostituita dal pacchetto-già-pronto dell’antifascismo e della militanza antifascista. Dentro questo antifascismo non ci sono idee o valori: c’è “identità”. Anzi, questo modo di concepire l’antifascismo è esso stesso “identità”. E questa “identità”, siccome è molto debole, labile, perché non sia dispersa, è “militarizzata”. Poi c’è un terzo modo di pensare l’antifascismo. Ed è quello di ricercare, di ricostruire e poi di affermare i suoi valori. Quali sono i suoi valori? Sono il rovesciamento delle caratteristiche più reazionarie del fascismo, e cioè delle caratteristiche che lo hanno portato alla condanna della storia. Proviamo ad elencarle. L’autoritarismo. L’illiberalismo. L’intolleranza e la richiesta di appartenenza. Il militarismo. Il pensiero unico. La violenza, fisica e culturale. L’arroganza. Il senso di superiorità. Il razzismo e la xenofobia. Lo statalismo. La repressione. Il disprezzo per lo stato di diritto. L’antifascismo del “terzo tipo” è quello che trasforma in valori la lotta contro queste tendenze. Ed è un antifascismo attualissimo, perché queste tendenze non solo sono presenti, e radicate, nello spirito pubblico italiano di oggi, ma sono larghissimamente maggioritarie e prevalenti. E sono trasversali, uniscono destra e sinistra, così come fu trasversale il movimento fascista. Quasi tutte queste tendenze si ritrovano, esasperate, (ma in misura variabile) nel leghismo, nel grillismo, nel travaglismo. E si ritrovano anche, meno esasperate, ovunque. Il “renzismo”, se lo vogliamo chiamare così, non è certo esente dalla retorica fascista, sia nei suoi aspetti autoritari (riduzione del parlamento a bivacco di manipoli …) sia nel suo linguaggio politico (spianiamo tutto, chissenefrega del dissenso, abbasso i vecchi evviva la giovinezza, se avanzo seguitemi…). E anche nella violenza della polemica politica. Dei tre tipi di antifascismo che ho citato, il primo è scarsamente rilevante, il secondo è dilagante, il terzo è del tutto marginale. E come tutti gli antifascismi che si rispettano è quasi clandestino…Il problema drammatico è che l’antifascismo di secondo tipo, quello retorico e militarista, che ha dominato il dibattito politico durante tutto il tempo della prima e della seconda repubblica, oggi sta assumendo caratteristiche sempre più militariste, autoritarie e intolleranti, quasi sovrapponendosi allo stesso fascismo. E’ un antifascismo di tipo fascista. E tuttavia è l’unico antifascismo con diritto di parola. Se fino a qualche anno fa il suo limite era l’assenza di pensiero e il trionfo del conformismo, ora le cose si sono complicate, perché si è mescolato con i grandiosi populismi di destra e di sinistra di questi anni, ed ha subito un fortissimo degrado. Basta ascoltare le posizioni di gran parte del mondo politico e giornalistico sull’immigrazione. Sono posizioni che sempre più spesso “sdoganano” principi di tipo nazista. E alle quali non si oppone quasi nessuno, al di fuori della Chiesa cattolica. Oppure basta seguire le polemiche più diverse, su tanti giornali, e la carica di intolleranza e di rifiuto del dialogo, e di senso di superiorità che vi si trova. Mi ha colpito un articolo di Antonio Padellaro – persona mite e seria – pubblicato ieri sul “Fatto”. Giustamente Padellaro in quell’articolo rivendica il diritto ad essere “buonisti” e rivendica persino il valore della tolleranza contro quello dell’intransigenza. E una riga esatta dopo aver scritto questo, si ricorda che sta scrivendo sul “Fatto” e si rivolge ai suoi avversari politici, che ha visto in un certo talk show, e li definisce la “feccia di qualche zoo del Nord-est”. E’ questo il problema: a nessuno viene in mente che rivendicare la tolleranza e definire feccia chi dissente (a qualunque titolo e su qualunque posizione) non funziona.  E però ci avviamo a celebrare un 25 aprile in questo clima. Che non credo sia molto diverso da quello del 1922.

I FORCAIOLI CON IL CASO KNOX SOLLECITO ED IL CASO SCATTONE.

Con le motivazioni Knox-Sollecito la Cassazione mostra i pugni a chi privo di professionalità lavora nel sistema giustizia e sbaglia anche a causa dei media, scrive Massimo Prati su “Albatros-Volando ControVento”. Sembra fatto apposta e forse... Da poco si è chiuso il secondo processo farsa contro Sabrina Misseri e tra poco inizieranno ufficialmente quelli contro Massimo Bossetti, Veronica Panarello e altri che si proclamano innocenti e finalmente i giudici di Cassazione mostrano i pugni e motivano una sentenza usando la logica del codice penale lasciando da parte le suggestioni e i pregiudizi che sparge chi si sente intoccabile, chi per convincere il popolo della propria tesi, anche assurda, usufruisce degli aiuti mass-mediatici, quelli che ogni volta sfociano nello scoop colpevolista che porta il convincimento popolare a credere che le procure abbiano ragione a prescindere da quanto di più fantasioso e incredibile scrivano su atti che Gip e Gup di riferimento accettano acriticamente e ad occhi chiusi. Finalmente la Cassazione non ha dato la solita carota ai condannati e col bastone della vera Giustizia ha bacchettato gli investigatori e i procuratori che abusano del loro potere e che, indagando male e in maniera superficiale, senza avere nulla di serio in mano (né prove, né veri indizi concordanti, né ricostruzioni valide, né moventi plausibili) dapprima incarcerano e poi portano a processo i loro colpevoli preferiti. Ma non c'è solo questo, perché finalmente la Cassazione ha anche apertamente ammesso che i media hanno un ruolo determinante nella conduzione di indagini che proprio a causa della pressione mediatica, che invoglia a far tutto di fretta, finiscono con l'essere spasmodiche e di conseguenza mal-fatte e approssimative. Ma ancora non basta, perché ha finalmente bacchettato anche chi ha lavorato e ancora lavora nel ramo scientifico, in quella istituzione supportata e venerata sia dalle procure che dagli opinionisti televisivi, in quella istituzione che nel caso in questione (che farà da pietra di paragone per altri casi da trattare) ha mal-repertato e mal-conservato i reperti e non ha usato la giusta professionalità nelle analisi. In ultimo, ma non per ultimo, ha finalmente bacchettato anche i giudici che l'hanno preceduta nei giudizi. Giudici che invece di assolvere per come voleva la legge hanno condannato o rinviato ad altra sede basandosi su pregiudizi personali senza minimamente considerare la logica e il codice penale. Leggendo quanto scritto sulle motivazioni si scopre che la Cassazione punta il dito sugli investigatori e sui procuratori di Perugia a cui doveva essere chiara sin da subito l'assurdità della loro tesi accusatoria, tesi mancante di qualsivoglia appoggio solido. Per quanto attiene l'ultimo movente ipotizzato dalla procura (i dissapori fra le coinquiline acuiti dal fatto che - secondo i procuratori - a Meredith Kercher non stava bene che la Knox avesse fatto entrare Rudy Guede nel loro bagno) la bacchettata è forte e fa rumore, dato che nelle motivazioni si legge che non solo un simile movente è assurdo, ma che è anche poco rispettoso della realtà processuale. Inoltre, la Cassazione si chiede con quale logica i procuratori abbiano potuto pensare che Amanda Knox e Raffaele Sollecito avessero ripulito selettivamente la scena del crimine, cancellando quindi solo le tracce della loro presenza nella stanza di Meredith Kercher, lasciando però in bella vista altre tracce facilmente pulibili all'interno del bagno. Ed anche: come sia stato possibile pensare che i due ragazzi avessero simulato un furto (i vetri della finestra si trovavano all'interno, sotto i vestiti e i mobili) quando fu lo stesso Sollecito al suo ingresso nella casa a far notare alla Polizia Postale l'anomalia della situazione, dato che nulla sembrava essere stato asportato da quella stanza. E assurdo è anche pensare che i cellulari siano stati portati via e poi gettati per non farli squillare anzitempo, visto che bastava spegnerli per ottenere lo stesso risultato. No, la Cassazione stavolta non le ha mandate a dire a nessuno e si è assunta quel ruolo che le spetta di diritto anche citando il lavoro degli analisti. Ha tirato in ballo la dottoressa Patrizia Stefanoni e parlando del gancetto del reggiseno ha riportato la sua dichiarazione a processo. Dichiarazione in cui la dottoressa della Polizia Scientifica affermava di non aver repertato inizialmente il gancetto perché non ritenuto importante in quanto già aveva repertato il reggiseno della vittima. Naturalmente la Cassazione l'ha cassata, visto che i reggiseni vengono chiusi e aperti tramite il gancetto che si mostra dunque essere la parte più importante da analizzare. Nello stesso tempo ha puntato il dito sulla mancata ripetizione delle analisi che per ritenersi affidabili e valide si devono fare almeno due volte, questo pretende la legge e questo ha asserito a processo anche il perito nominato dalla corte (che fra l'altro lavora nella stessa Polizia Scientifica). In pratica, dalle analisi svolte non si è trovata alcuna prova valida da portare a processo e, vista la mancata ripetizione, le risultanze dai giudici non erano da considerare neppure indizi. E qui la Cassazione ha ribadito il concetto che se il materiale da analizzare non è deperibile, anche quando manca la possibilità di rifare le analisi perché il materiale repertato è scarso i risultati ottenuti a processo sono da considerare nulli e privi di valore probatorio o indiziario. Questo pur se le analisi si sono eseguite nel rispetto della legge con la formula dell'accertamento irripetibile. Ma la Cassazione non si è fermata e ha ammonito anche quei giudici che invece di essere imparziali colmano i vuoti investigativi usando una loro personale logica. Per capire meglio pensate alla sentenza del giudice Marina Tommolini, caso Parolisi, che per condannare il caporalmaggiore stravolse le risultanze investigative cambiando a suo piacimento sia il modus operandi che il movente portati dall'accusa. La Cassazione dice che c'è una regola da rispettare, regola che alcuni giudici non rispettano, regola che la Cassazione pone in primo piano scrivendo sulle motivazioni che la ricostruzione prescelta (se quella portata dalla procura), anche se conforme alla logica ordinaria, deve, pur sempre, essere aderente alla realtà processuale e porsi come precipua risultante di un processo di valutazione critica dei dati probatori ritualmente acquisiti. Insomma, il ricorso alla logica e all'intuizione (del giudice) non può in alcun modo supplire a carenze probatorie o ad inefficienze investigative. A fronte di una prova mancante, insufficiente o contraddittoria il giudice deve limitarsi a prenderne atto ed emettere sentenza di proscioglimento, ai sensi dell'art. 530 comma 2 codice procedura penale, seppur se animato da autentico convincimento morale della colpevolezza dell'imputato. In pratica, la Cassazione ha espresso un concetto chiaro che non va interpretato ma messo in atto. Se chi porta avanti le indagini le sbaglia e non è in grado di provare la colpevolezza in tribunale, gli imputati vanno assolti e il giudice è obbligato ad assolverli. Se si vuol risultare professionali si facciano indagini migliori che portino a risultati migliori e alla possibilità di condannare o scagionare a ragion veduta. Quanto sopra è solo una minima parte di ciò che hanno scritto i giudici di Cassazione. Minima parte che però ci fa capire i motivi per cui Amanda Knox e Raffaele Sollecito siano stati assolti e perché abbiano subito per troppi anni il carcere ingiusto. Finalmente sappiamo che anche per la Cassazione la colpa è della malagiustizia italiana e deriva dal lavoro sbagliato svolto da un'insieme di persone poco professionali. E visto che gli stessi giudici di Cassazione hanno puntato il dito sulla pressione dei media che non aiuta le buone indagini, ora tutti dovrebbero capire che gli assembramenti televisivi che si accalcano sui luoghi dei crimini alla ricerca di scoop sono deleteri per gli investigatori, per i procuratori e per le loro indagini. Deleteri perché i pool investigativi sono comunque composti da persone non abituate ai riflettori, persone che trovandosi nella condizione di massima visibilità potrebbero sentirsi obbligate a cercare un colpevole al più presto e a tutti i costi. Quindi nella condizione che più porta a commettere errori e a perseverarli. Insomma, il quadro descritto è desolante e solo chi è mentalmente cieco non vede che troppo spesso siamo costretti ad assistere allo show di una giustizia inutile, poco professionale e soprattutto dannosa, supportata e presentata al pubblico, in pompa magna, dagli zerbini dell'informazione (quelli che per trenta denari si stendono sotto i piedi di chi offre lo scoop) che la osannano quale verità assoluta ancor prima che esistano indagati e processi. E la Cassazione ha scritto qualcosa anche a proposito di questo, affermando che non si possono accettare testimoni che a posteriori, dopo essere stati martellati dai media, accusano gli imputati. Una cosa logica che troppo spesso viene dimenticata (vedi i testimoni contro Sabrina Misseri e Cosima Serrano che solo dopo mesi e mesi di martellamento mediatico hanno cambiato versione). Ma che importa a quegli zerbini che alleati all'accusa si mostrano in video e con faccia saccente catturano la pubblica opinione, i nuovi testimoni e i nuovi giudici popolari grazie alla carta moschicida del pregiudizio? Carta stesa a più mani da famosi esperti, da opinionisti attaccati alla poltrona o creati per l'occasione e da pennivendoli specializzati in bufale? Persone che senza aver letto e vagliato nulla si accodano al potere costituito e ripetendo a pappagallo quanto si vuole che ripetano restano aggrappati al carro colpevolista fin quando il carro è in auge? Fin quando è in auge perché se cambia il vento, incuranti dei danni già procurati alla mente del popolo, gli stessi colpevolisti per qualche giorno cambiano il modo di esporre le opinioni. Le loro facce restano imperterrite sui video, e chi le schioda, ma si modificano e per l'occasione diventando bronzee. Naturalmente fra loro c'è chi le motivazioni neppure le legge e chi non capendoci nulla si trova spiazzato dal voltafaccia momentaneo dei colleghi, ma da buon camaleonte mediatico si adegua alle nuove parole di circostanza. Naturalmente c'è anche chi finge di non aver fatto nulla in passato e con nonchalance sale momentaneamente sull'altro carro come se mai avesse accusato apertamente qualche indagato... certo che la memoria umana sia troppo scarsa e abbia perso il ricordo delle sue vecchie parole. Per capire prendiamo Enrico Fedocci, l'inviato di Mediaset che nei mesi passati ha puntato sulla forza delle indiscrezioni per convincere il suo pubblico della colpevolezza di Massimo Bossetti. Lui nei mesi successivi all'arresto ha portato sugli schermi i filmati del furgone e le intercettazioni telefoniche fra madre e figlio (robe che a suo dire incastravano il muratore).Eppure, dopo le motivazioni si è auto-smentito e ieri in un servizio andato in onda su Studio Aperto ha ammesso che quanto scritto dai giudici di Cassazione per motivare l'assoluzione della Knox e del Sollecito potrebbe influire sui processi che stanno per iniziare, perché in nessuno di questi ci sono prove certe e indizi decisivi buoni a condannare gli imputati. Ma come? Fino a ieri l'altro Bossetti non aveva scampo perché le prove erano granitiche, ed oggi neppure su di lui ci sono certezze in grado di fargli prendere l'ergastolo? Qual vento hanno lanciato i seri Giudici di Cassazione? Sarà in grado di pulire il cielo? No, non pulirà nulla perché, vento o non vento, state sicuri che il buonismo ipocrita in mancanza di condanne esemplari a quegli editori che permettono ai loro dipendenti di stuprare la legge e gli indagati (parlo di milioni e milioni di euro) non durerà dato che a livello economico essere garantisti in tivù e sui giornali, in termine di vendite non rende. Per guadagnare occorre entrare a piedi uniti nella falla della nave giustizia e continuare a proporre titoloni morbosi in grado di oscurare la parte sana del cervello umano, occorre suonare il flauto magico e obbligare la pubblica opinione a seguirne la melodia. Questo si fa da anni e questo si farà ancora. Perché anche se la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione ha motivato e bacchettato in maniera seria per cercare di chiudere, almeno in parte, la falla che da troppi decenni sta affondando la Giustizia italiana, poco durerà il rattoppo se al giusto codice penale non si adegueranno tutti gli altri giudici. Ad iniziare dai troppi Gip che invece di seguire la legge da tanto tempo preferiscono le favole e come i topolini di Hamein seguire il suono del flauto del pregiudizio in cui soffia l'accusa...

Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità e mentire spudoratamente? Scrive Massimo Prati su “Albatros Volando Contro Vento”. America - 1880 (milleottocentoottanta) - a una cena di giornalisti all’American Press Association c'è anche John Swinton, un editorialista del New York Sun che invitato a brindare alla stampa indipendente dice: "In America, in questo periodo della storia del mondo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Non c’è nessuno di voi che oserebbe scrivere le proprie vere opinioni, e già sapete anticipatamente che anche scrivendole non verrebbero mai pubblicate. Io sono pagato un tanto alla settimana per tenere le mie opinioni oneste fuori dal giornale col quale ho rapporti. Altri di voi sono pagati in modo simile per cose simili, e chi di voi fosse così pazzo da scrivere opinioni oneste, si ritroverebbe subito per strada a cercarsi un altro lavoro. Se io permettessi alle mie vere opinioni di apparire su un numero del mio giornale, prima di ventiquattrore la mia occupazione sarebbe liquidata. Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la verità, di mentire spudoratamente, di corrompere, di diffamare, di scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Lo sapete voi e lo so io. E allora, che pazzia è mai questa di brindare a una stampa indipendente? Noi siamo gli arnesi e i vassalli di uomini ricchi che stanno dietro le quinte. Noi siamo dei burattini, loro tirano i fili e noi balliamo. I nostri talenti, le nostre possibilità, le nostre vite, sono tutto proprietà di altri. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Sono passati 135 anni da quel discorso e da noi, in Italia, a dire il vero qualcosa è cambiato. Ora da noi la stampa non si inchina più solo al volere degli uomini ricchi, a chi detiene il potere maggiore di uno stato, ora si inchina anche agli "uomini del potere locale". Vi siete mai chiesti perché ci sono giornalisti sportivi a cui è vietato entrare nella sala stampa del"loro" stadio? Semplicemente perché hanno criticato la squadra di cui scrivono o chi la guida a livello dirigenziale. Vi siete mai chiesti cosa accade quando un giornalista non allineato non può entrare in una sala stampa e non può intervistare i calciatori? Semplice. Leggeremo sempre notizie buoniste di un certo tipo che mai porteranno critiche serie. Ed anche se l'esempio sembra stupido perché si parla di sport, quindi di una informazione minore, in effetti stupido non è perché rapportandolo a qualsiasi altro argomento, dalla politica alla giustizia, fa capire quali siano i rapporti che si vogliono obbligatoriamente far intercorrere fra chi informa e chi, in pratica, comanda. I giornalisti politici, ad esempio, devono seguire una linea editoriale di parte per "partito preso". Per cui occorre, a prescindere, criticare ciò che fa o dice lo schieramento opposto... anche se sinteticamente identico a quanto dice o fa il proprio. Vi siete mai chiesti chi è che sparge il pregiudizio? Per forza di cose chi ci informa, chi sparla additando a colpevole chi una procura vuole colpevole. Magari non ci sono prove. Magari neppure ci sono indizi seri. Ma a forza di insistere su un argomento si crea una convinzione (un meme). E la convinzione fa sembrare prova e indizio anche la più inutile delle banalità Banalità che sparsa ai quattro venti dall'informazione e dagli opinionisti che la cavalcano, verrà metabolizzata dall'opinione pubblica e creduta di una importanza vitale. Ed ecco che così facendo si fa credere ai lettori che la verità è quella scritta sugli atti giudiziari e non sui ricorsi dei difensori. Questo accade, anche se in realtà sugli atti si legge tutt'altra cosa. Ma il fatto che in pochi abbiano accesso ai verbali di interrogatorio agevola chi scrive articoli "mirati" a cui nessuno fa da contraltare. Anche perché, dopo l'iniziale assembramento, è la stampa locale che fornisce la maggior parte delle informazioni a quella nazionale. E dove le prende le informazioni se non in procura? Quale giornalista moderno rischierebbe di diventare "ospite sgradito", ad esempio criticando una linea investigativa o un arresto immotivato, sapendo che le porte di "certi uffici" gli si potrebbero chiudere in faccia? Tutti vogliono lavorare e guadagnare. E chi scrive di cronaca nera da troppi anni si nutre grazie all'accondiscendenza di alcuni. Quella che permette a certi giornaluncoli di nascere e sviluppare grazie a scoop creati ad arte con frasi "ad hoc" estrapolate in maniera unilaterale da un verbale o da una intercettazione secretata. E quasi tutti sono contenti. Contenta è la procura che vede aumentare la sua credibilità, l'editore che vede aumentare i profitti e il giornalista che si ritrova famoso perché catapultato sotto i riflettori per quanto ha scritto e si è usato per più puntate nei talk show dell'orrore. Gli unici scontenti sono gli indagati, i loro familiari e, quando ce ne sono, i loro figli minori che dalla valanga di notizie gettate a pioggia, che inevitabilmente bagneranno anche il loro ambiente sociale, verranno demoliti psicologicamente. A nessuno importa spargere la verità assoluta, quella che deriva solo dalla logica impossibile da alterare. L'informazione da tanto non fa cernite, da tanto non vaglia con critica la "velina" che arriva dagli uffici a cui attinge a piene mani. Chi li informa sa che per i media è facile amalgamare l'opinione pubblica alla linea voluta. Basta sbatterle in faccia la solita domanda: "Perché i procuratori dovrebbero, se non ci sono motivi, accusare una persona a caso?". La risposta potrebbe essere facile, visto che non esiste l'investigatore infallibile e gli errori giudiziari sono ormai una regola che annualmente costa tanti denari pubblici. Ed è logico che se non è l'informazione a ribadire questa ovvietà, si finisce sempre nel solito imbuto. Quindi a credere che quanto dice la difesa è falso, perché le indagini sbattute sui video per anni dicono il contrario e i difensori per luogo comune farebbero di tutto pur di salvare il dietro al loro assistito, mentre quanto afferma l'accusa è più che vero. Anche se la sua ricostruzione appare incredibile e illogica. Così facendo si distrugge la vera informazione, quella parte di giornalisti che racconta solo la verità e critica chi va contro le giuste regole, e si finisce per dover accettare una serie infinita di compromessi. Forse qualcuno ancora non lo sa, ma il compromesso è l'inizio della fine perché chi accetta il primo non potrà rifiutare il secondo e neppure il terzo e il quarto e così via. Facendo così la fine di quei delinquenti che una volta entrati nell'organizzazione malavitosa non hanno più modo di uscirne... se non da morti. Come disse John Swinton? "Il lavoro del giornalista è quello di distruggere la veritàdi mentire spudoratamentedi corromperedi diffamaredi scodinzolare ai piedi della ricchezza e di vendere il proprio paese e la sua gente per il suo pane quotidiano. Noi siamo delle prostitute intellettuali". Forse Swinton è stato anche troppo drastico coi suoi colleghi, forse nei giornalisti non c'è quella intenzione convinta di distruggere la verità... ma troppi esperimenti mentali si son fatti nell'ultimo secolo da non sapere che una volta plasmata l'idea altrui nessuno leggerà più usando la logica e nessuno si accorgerà di aver letto o ascoltato, e mentalmente accettato anche per anni, articoli o parole di una stupidità eclatante. Chi di voi sa cos'è il meme? Per restare nell'orbita semplice e non inserirsi in spiegazioni difficili da comprendere, il meme moderno si può paragonare a un tormentone che viene lanciato in grande stile e condiviso da più menti così da unificarle e farle diventare parte integrante di una grande mente che funge e prende il posto della mente individuale. Se parliamo di internet, si può paragonare alla foto del momento che postata su facebook viene condivisa da migliaia di persone. Pare nulla, una cosa poco pericolosa, ma così non è dato che se i media lanciano e danno per vero un meme falso, e qui comprendo anche il campo giustizia, la mente lo elaborerà facendolo proprio come fosse vero. E più se ne lanciano, e più se ne elaborano, e più si corre il rischio di non riuscire a capire che la realtà non è quella che si crede vera. E più si corre il rischio di far crescere una specie di tumore, un virus (da qui la parola "virale" usata quando prende piede la moda del momento grazie a un meme) che impossessandosi del nostro cervello lo porterà a fare ragionamenti mirati che una mente libera troverebbe ridicoli e privi di validità. Ci si può salvare da un virus che pare ormai essersi propagato a dismisura e che con l'avvento di internet ha attecchito e si è espanso grazie anche ai copia-incolla che duplicano all'infinito la notizia del momento? Certo che sì. Basterebbe che i media invadessero l'etere di notizie vere in grado di delegittimare quelle false. Ma in Italia, in questo periodo, una stampa indipendente non esiste. Lo sapete voi e lo so io. Scrivere ciò che si pensa non si può. I giornalisti devono obbedire, oggi come 135 anni fa. In caso contrario qualcuno smetterà di fornire loro informazioni, qualcun altro smetterà di invitarli in certe trasmissioni e l'editore li manderà a scrivere i necrologi. Motivo per cui, per non soccombere ognuno di noi deve cercarsi una cura su misura che possa contribuire anche alla demolizione del virus. Ad esempio, si potrebbe iniziare a spegnere la televisione quando in tivù c'è chi il virus lo spande a piene mani e si potrebbe iniziare a far marcire in edicola quei settimanali che il virus lo mostrano già in copertina. Così facendo gli editori capirebbero che il filone si sta prosciugando, che il pubblico pagante sta guarendo e che tenere in piedi un carrozzone solo per pochi intimi economicamente non conviene. Solo toccando loro le tasche e i portafogli si può sperare di risolvere una situazione altrimenti irrisolvibile. Certo, in questo modo si risolverebbe solo una delle piaghe. Ne rimarrebbero ancora tante da sistemare, ad iniziare dal rapporto che da secoli si è instaurato fra i media e la politica. Ma forse è troppo tardi ormai e quello è, e grazie al meme continuo rimarrà, un male incurabile...

Caso Marta Russo, Scattone: «Parlo tre lingue, ma adesso potrei fare l’imbianchino». L’uomo condannato per omicidio colposo per la studentessa: non voglio polemiche, rinuncio. Ma ci sono altri prof condannati, scrive Fabrizio Caccia su “Il Corriere della Sera”. Accanto a lui c’è la moglie Cinzia, che tutta la notte, anche con le lacrime agli occhi, ha tentato di dissuaderlo («Scusa Giò, domani che ci mangiamo, l’aria?»). Inutilmente, però. Giovanni Scattone ha deciso: con l’insegnamento, con la scuola, lui ha chiuso. Per sempre? «Sì, per sempre. Non tornerò indietro. È una parentesi della mia vita che si chiude. Troppe polemiche. Insegno nei licei da dieci anni e ad ogni inizio è la stessa storia. Basta, sono stufo. Certo, mi dispiace. E ora sono anche un po’ preoccupato. È un salto nel vuoto. Rinuncio a un lavoro sicuro. Novecento euro al mese che ci avrebbero fatto comodo. Per fortuna, sono un tipo coraggioso». La mamma di Marta Russo dice che «è stata fatta giustizia» e che lei è «soddisfatta, soprattutto per i ragazzi». «Va bene così. La rispetto, non dico altro. Contenta lei, contenti tutti». Ha già pensato a cosa farà domani? «Sinceramente non so. Scherzando, potrei dire che ho appena finito di tinteggiare le pareti del corridoio di casa, non son venute male, forse ho scoperto un mondo... Vedremo: conosco tre lingue, francese, inglese e spagnolo, potrei fare delle traduzioni, correggere delle bozze, inventarmi ghostwriter, lavorare come storico in qualche istituto di ricerca privato... Ma ho quasi 50 anni e non sarà facile. Magari andrò via dall’Italia, cercherò qualcosa in Europa». Le reazioni politiche, dopo la sua rinuncia, sono tantissime. Che cosa risponderebbe se qualche partito dovesse offrirle una candidatura? «No grazie. Vorrei restare fuori da certi giochi. Non m’interessa. A me piacerebbe avere una vita normale». Secondo la Cassazione lei è l’assassino di Marta Russo. Il passato non si cancella. «Io non ho ucciso Marta Russo e mi porterò sempre nel cuore la speranza che, prima della fine della mia vita, possa venir fuori la verità. In altri casi di cronaca è successo: la verità si è saputa anche dopo 30 anni». Più dura adesso o più dura quando la rinchiusero a Regina Coeli? «Fu più dura all’epoca, senza dubbio. Ci passai più di un anno, ma resistetti. Avrei potuto fare come Gardini o Cagliari. Togliermi la vita. Riuscii a non farlo. Ora è diverso. Qualcosa per andare avanti la troverò». Roberto Giachetti (Pd), vicepresidente della Camera, ha scritto questo tweet: «Rispetto dolore della mamma di Marta Russo. Ma se neanche espiazione della pena riabilita una persona, finisce stato di diritto». «Io sono stufo di tutte le polemiche, perciò non dico nulla. Faccio presente, però, che nel mondo della scuola non sarei stato io l’unico professore con una condanna alle spalle. Eppure nessuno ci bada. Forse pago l’estrema “mediaticità” del caso. Comunque ormai ho deciso. Mi dispiace però, anche per un altro motivo...». Quale? «In questo Paese, degli ex terroristi sono finiti addirittura in Parlamento. Altri, dopo aver espiato la loro pena, oggi tengono conferenze, scrivono libri. Eppure in tanti dicono adesso che io non posso fare l’educatore, che sono pericoloso per i miei studenti. Pazienza, la mia coscienza mi dice invece che potrei insegnare. Purtroppo, non c’è più la giusta serenità». I suoi studenti che dicono? «Mi consola molto la mail che mi ha appena mandato una mia ex allieva: mi ha scritto che grazie a me ha deciso di continuare dopo il diploma e che studierà Storia all’università. Mi basta questo. Ora spegnete le luci, per favore». 

Scattone, il tribunale ha detto: 5 anni e 4 mesi. Il popolo ha detto: fine pena mai, scrive Angela Azzaro su "Il Garantista l'11 settembre 2015. Da ieri possiamo dormire sonni meno tranquilli. In Italia la condanna non viene decisa da un tribunale, con tre gradi di giudizio, la valutazione delle prove, un’accusa e una difesa. Viene decisa dal popolo che dello Stato di diritto se ne frega. E così che Giovanni Scattone, dopo le polemiche per l’assegnazione di una cattedra, ha deciso di lasciare. Ha rinunciato al posto e – parole del suo avvocato -si trova ora in mezzo a una strada: “Se la coscienza – ha scritto all’Ansa – mi dice di poter insegnare, la mancanza di serenità mi induce a rinunciare all’incarico”.

Scattone è stato condannato a 5 anni e 4 mesi per l’omicidio colposo (aggravato) di Marta Russo, uccisa da un colpo di pistola nei giardini della Sapienza. Era il 1997. Con lui è stato condannato per favoreggiamento Salvatore Ferraro. Scattone si è sempre dichiarato innocente. Ma ha comunque pagato i suoi conti con la giustizia e ha poi cercato di rifarsi una vita. Come è normale. Come è giusto che sia. Come, soprattutto, recita la Costituzione all’articolo 27, quando indica nella pena non uno strumento di vendetta ma di rieducazione. Scattone c’ha creduto, ha vinto il concorso per avere una cattedra e grazie alle nuove assunzioni ha ottenuto il posto. Ma non aveva fatto i conti con qualcosa che la Costituzione non dice, che la civiltà dovrebbe ostacolare. Non ha fatto i conti con la vendetta, l’idea che se hai sbagliato non potrai mai e poi mai ritornare nel consesso umano e civile. Scattone nella lettera in cui rinuncia alla cattedra ha scritto parole durissime. Ha detto che gli si vuole impedire una vita da cittadino normale e che quello che è accaduto non è degno di un Paese civile. La sua decisione di lasciare è di fatto una sconfitta per tutti noi, la sconfitta di chi davvero pensa che la società, la civiltà che abbiamo costruito, siano abbastanza forti da permettere a una persona, che ha sbagliato, di pagare il suo debito e di riprendere a vivere. Qui sta l’ipocrisia. Perché in realtà questa idea non vale più. Si applicano le norme, ma poi vince ormai la cultura della vendetta, dell’occhio per occhio, dente per dente. Se una persona ha sbagliato, è bollata a vita, è condannata a vita. Il processo che ha condannato Scattone e Ferraro è stato uno dei primi basati principalmente su indizi e non su prove. E’ stato cioè uno dei primi grandi processi mediatici, dove ha contato più la pressione popolare che lo Stato di diritto. Da qui quella sentenza a metà, quei 5 anni e 4 mesi per omicidio colposo come se i giudici avessero, nel dubbio, deciso di infliggere il minimo indispensabile. Nel dubbio, si sa, si dovrebbe assolvere. Ma erano troppe le pressioni, troppa l’attenzione di giornali e tv per non dare loro in pasto un colpevole. Comunque sia andata, la Cassazione nel 1997 ha deciso per una condanna definitiva a 5 anni e 4 mesi. La condanna è stata scontata. Il popolo urlante, però, dice che non basta. L’obiezione più diffusa è che così si manca di rispetto ai genitori di Marta Russo. Loro hanno perso una figlia, mentre Scattone può insegnare. Confutare questo discorso è centrale. Dirimente. Perché se ci affidiamo a questo ragionamento davvero possiamo chiudere i tribunali, stracciare il codice penale, dare fuoco alla Costituzione. La terzietà del giudice rispetto al dolore dei parenti della vittima o della vittima stessa è fondamentale per non ricadere nella vendetta, in una società che non ha fiducia nel cambiamento delle persone. Non dando una seconda possibilità a Scattone è come se dicessimo che l’essere umano non cambia, che la rieducazione è una utopia, che l’unico modo che abbiamo per garantire il rispetto della vita è quello di vendicarci contro chi sbaglia. Non dando una seconda possibilità a Scattone, non stiamo dando una possibilità a noi, alla società di cui facciamo parte per uscire dal clima di odio e di livore che si stanno affermando. Ecco perché sarebbe bello che Scattone, come auspicato anche dal suo avvocato, Giancarlo Viglione, cambiasse idea e non si facesse intimorire da chi oggi lo perseguita.

In Italia il garantismo è sempre più a rischio, scrive  su “L’Internazionale”. Giovanni Scattone era stato condannato per l’omicidio di Marta Russo, ormai quasi una ventina d’anni fa, in un processo iperamplificato dai mezzi d’informazione e farraginoso. Ha scontato cinque anni per omicidio preterintenzionale, è uscito di galera, e si è fatto anche un decennio di precariato nella scuola, poi quest’anno aveva avuto una cattedra di ruolo in un liceo romano. Oggi la sua rinuncia al posto di lavoro dopo la campagna accusatoria montata dal Corriere della Sera e ripresa da vari giornali – secondo la quale era una vergogna avergli assegnato una cattedra statale – conclude nel modo peggiore una delle settimane più brutte della storia recente italiana per quello che riguarda i temi della giustizia; certificando, se mai ce ne fosse bisogno, il dilagare di quello che un bel libro recente di Stefano Anastasia, Manuel Anselmi e Daniela Falcinelli ha definito Populismo penale – un giustizialismo tanto vigoroso da essere una mentalità politica. La settimana era cominciata con la pubblicazione delle cinquantadue pagine della corte di cassazione che chiarivano le ragioni dell’annullamento della sentenza sull’omicidio di Meredith Kercher: c’era scritto che il processo aveva avuto “un iter obiettivamente ondivago, le cui oscillazioni sono, però, la risultante anche di clamorose defaillance o ‘amnesie’ investigative e di colpevoli omissioni di attività di indagine”. Tra le motivazioni di questo fallimento eclatante (che ha compreso dibattimenti estenuanti, anni di carcere per gli imputati tra cui molta custodia cautelare) sempre la corte ha scritto: L’inusitato clamore mediatico del delitto Kercher e i riflessi internazionali della stessa vicenda, non hanno certamente giovato alla ricerca della verità provocando un’improvvisa accelerazione delle indagini nella spasmodica ricerca di colpevoli da consegnare all’opinione pubblica internazionale. E poi ha rilevato un altro elemento interessante, quando dice che se le indagini non avessero risentito di tali colpevoli omissioni, si sarebbe con ogni probabilità, consentito, sin da subito, di delineare un quadro, se non di certezza, quantomeno di affidabilità, nella prospettiva vuoi della colpevolezza vuoi dell’estraneità di Knox e Sollecito. La sentenza sul processo di Perugia e il linciaggio mediatico di Scattone mostrano che se c’è una cultura diffusa, vincente, condivisa è quella di un giustizialismo vendicativo, bilioso, regressivo con tratti fascistoidi che ha largo spazio anche nei media che si proclamano progressisti, laici, fanatici della costituzione. Quell’impronta garantista che i padri costituenti avrebbero voluto far diventare parte della cultura sociale del paese di Cesare Beccaria oggi è un alone fantasmatico, evanescente. Più che di giustizia e di avversari politici l’opinione pubblica ha bisogno di colpevoli morali che svolgano in modo efficace la funzione di capri espiatori. Topi elettrizzati. Era già successo qualche mese fa, per esempio, con la nomina di Adriano Sofri nella consulta sulle carceri voluta dal ministro Orlando: massacrato dai giornali, anche quella volta Sofri aveva alla fine rinunciato. Se prendiamo il caso simile di Giovanni Scattone, ci rendiamo conto che per moltissime persone il diritto penale non è sufficiente ma occorre una specie di surplus di giudizio, che Anastasia e gli altri definiscono diritto penale emozionale, in cui i diritti della vittima sono potenzialmente infiniti (l’abuso del paradigma vittimario di cui hanno scritto molti: per una buona sintesi, Daniele Giglioli, Critica della vittima). In uno stato di diritto scambiato per un tribunale teologico giacobino, non ci sarà mai risarcimento, e quindi si può continuare a esercitare la richiesta di vendetta anche oltre la sentenza definitiva, e il normale oblio; mentre i diritti del condannato – per esempio il suo diritto al reinserimento, al riscatto, o i semplici diritti civili – sono annullati. Quando per vent’anni si è paventato il rischio di una diseducazione giuridica di massa dovuta alla spettacolarizzazione dei processi, quando si faceva notare la nociva inutilità di contrastare il berlusconismo giocando tutto sul piano giudiziario, forse si doveva già immaginare che il risultato sarebbe stato quello di veder allargarsi il contagio del populismo penale anche a reati non commessi da politici. Oggi sembra che un processo non abbia valore se non comprende anche la riprovazione morale, la gogna, lo spettacolo (che obbrobrio sono i recital con la lettura delle intercettazioni fatta da attori!). E sembra che non ci sia conflitto politico, contrasto sociale che non sia d’altra parte fondato sullo stigma morale. La comunità civile desiderata dai giustizialisti è uno stato d’allerta etico dove si è sempre pronti a reagire come topi elettrizzati allo scandalo di qualcuno da poter condannare all’istante, per sentirsi consolati di appartenere al novero dei giusti. Giovanni Scattone è stato condannato e ha scontato la pena (compresa un’interdizione provvisoria dai pubblici uffici), Raffaele Sollecito e Amanda Knox sono stati assolti. Qualunque cosa si possa pensare delle loro idee, delle vicende giudiziarie e politiche che li hanno coinvolti, a loro va la solidarietà di chi crede in uno stato di diritto e in una cultura garantista.

Il caso Scattone è la fine dello stato di diritto. Sono passati vent’anni dal fatto, una sentenza definitiva per omicidio colposo (lo stesso reato ascritto a Grillo, per intenderci) è stata eseguita nella sua interezza. Ma questo non basta per il circo mediatico-giudiziario italiano, scrive Claudio Cerasa su “Il Foglio”. Al direttore - La rinuncia di Scattone all’incarico legittimamente ottenuto conferma che nel circo mediatico-giudiziario italiano esistono una pena ufficiale e una ufficiosa. Stavolta non c’entrano i giudici, c’entriamo noi. Penne e lingue che solleticano gli istinti delle fiere. Unica eccezione rimarchevole il ministro Stefania Giannini che a Panorama dichiara: “Manderei mia figlia a scuola da Scattone”. Sono passati vent’anni dal fatto, una sentenza definitiva per omicidio colposo (lo stesso reato ascritto a Grillo, per intenderci) è stata eseguita nella sua interezza. A norma di legge non prevedeva l’interdizione. Eppure al condannato si nega il diritto di riannodare i fili della propria, sfilacciata, esistenza. Marta Russo non risorge. Giovanni Scattone muore di nuovo. Annalisa Chirico. Ha ragione Roberto Giachetti: se neanche l’espiazione della pena riabilita una persona qui non siamo di fronte solo a un linciaggio, siamo di fronte alla fine dello stato di diritto.

Scattone e i "cattivi maestri", scrive Massimo Bordin su “Il Foglio”. Ho sempre pensato che l’espressione, largamente abusata, “cattivi maestri” contenga una contraddizione insanabile. Al maestro non dovrebbe essere richiesto di essere buono o cattivo. Un maestro sa delle cose e le insegna. Se non le sa o non è capace di insegnarle, semplicemente non è un maestro. L’insegnamento trasmette sapere e gli insegnanti per questo sono pagati, devono spiegare a mio figlio che, per esempio, chi ruba o uccide è sottoposto a processi e sanzioni, mentre tocca a me spiegargli perché non si deve rubare o uccidere. Questa è la prima cosa che ho pensato leggendo le dichiarazioni sulla vicenda di Scattone. La seconda riguarda il preambolo a ogni sentenza di tribunale: “In nome del popolo italiano”, non “In nome delle vittime” ai cui familiari non appartiene la sorte del condannato, almeno secondo i nostri codici. Tanto più a condanna scontata.

Caso Scattone: in uno stato moderno funziona così, scrive Francesco Felis su “Il Corriere della Sera”. Caso Scattone. Merita il trattamento che ha avuto? Ma uno Stato deve far riferimento al fatto che meriti o meno qualcosa, o che si sia pentito o no di qualcosa dopo che ha espiato la pena? Premettiamo che Scattone è stato condannato per omicidio colposo, cioè per aver agito con leggerezza, o senza rispettare norme di condotta regolamentari, ma senza volontà specifica di uccidere. Ma se anche fosse lui l’omicida, nonostante quello che lui afferma, nonostante che il processo abbia evidenziato metodi, da parte del PM, di acquisizione delle cosiddette prove metodi un po’ dubbi, se nonostante tutto questo fosse il vero autore del fatto, ha espiato la pena. Con l’espiazione della stessa chiude ogni pendenza verso la società. Perciò è inutile interrogare la persona offesa, come se dovesse dare un perdono o ricevere qualcosa. E’ duro, sembra crudele dirlo, ma verso la società i conti sono chiusi, e perciò perchè non può esercitare certe attività con rilievo verso la società e lo Stato, come se avesse sempre bisogno di un assenso dei parenti della vittima? Attribuire, di fatto, diritti di veto o di altro genere, non è legittimo e non è da Stato di diritto. La pena, inoltre, è, deve essere riabilitativa. Per cui, se anche fosse stato colpevole, per lo Stato lo è, lui dice di no, la famiglia della vittima di sì, ma tutti questi sono rapporti privati tra loro, per lo Stato e la società si è riabilitato. La pena ha avuto una funzione rieducativa e lui si è rieducato. Perciò è contraddittorio presumere una rieducazione e al contempo pretendere che per svolgere un lavoro debba avere un consenso, peggio perdono, dai parenti della vittima. Sarà brutale dirlo, ma non funziona così uno Stato moderno. Funzionava così nei Promessi Sposi (episodio di Fra Cristoforo che chiede perdono) o nel Medio Evo.

Scattone no, i terroristi sì. La strana morale dei forcaioli. L’omicida di Marta Russo ha rinunciato alla cattedra. Dalla quale non sono mai scesi Curcio, Negri e gli altri, scrive Antonio Rapisarda su “Il Tempo”

In Italia non tutti i «cattivi maestri» hanno la stessa sorte. Giovanni Scattone, ad esempio, non insegnerà più. Dopo le polemiche scatenate per l’assegnazione della cattedra di liceo (dove avrebbe dovuto tenere lezioni di Psicologia), l’ex assistente di Filosofia del Diritto condannato per l’omicidio di Marta Russo - e sempre proclamatosi innocente - alla fine ha scelto di rinunciare a insegnare per mancanza di serenità e per chiudere una polemica, come ha spiegato ieri il nostro direttore Gian Marco Chiocci, animata da una «gogna popolare che ha sancito la fine dello stato di diritto». Vale per tutti i «condannati» lo stesso ragionamento? Tutti hanno subito la stessa «gogna» di Scattone? Non proprio. In Italia, si sa, una cattedra - reale o virtuale - non si nega a nessuno: ci sono finiti ex terroristi, ex fiancheggiatori, condannati di tutti i tipi. Molti di questi la sinistra italiana - così veloce nell’invocare censure e limitazioni per CasaPound in queste ore - si è ben guardata dall’isolarli o dall’osteggiare quando sono, letteralmente, saliti in cattedra o alla ripreso la ribalta con tesi non proprio in linea con la socialdemocrazia. Quella che vi proponiamo allora non è ovviamente una lista di proscrizione - lungi appunto dallo spirito del Tempo - ma un promemoria del doppiopesismo della sinistra all’italiana sì. «In Italia insegnano altri condannati - ha spiegato non a caso lo stesso Giovanni Scattone - e sono stati riabilitati tanti ex detenuti che hanno avuto condanne perfino più pesanti della mia. Penso ad ex brigatisti a cui è stata data la ribalta dell'università, a intellettuali stimati e ben retribuiti, ai cosiddetti "cattivi maestri" eletti». In cattedra, più volte, è finito appunto Renato Curcio, il fondatore delle famigerate Brigate Rosse. Lui ha messo in chiaro: «Io parlo solo del mio lavoro di ricercatore, il resto non mi interessa. Non salgo in cattedra e non sono un cattivo maestro». Se non sale metaforicamente in cattedra, resta il fatto che l’ideologo delle Brigate Rosse è stato invitato qualche anno fa, tra le altre, all’Università di Lecce in merito al suo libro «Il carcere speciale» e all’Università del Salento. E alle vibrate proteste del centrodestra - nel silenzio delle forze di centrosinistra - il professore e autore dell’invito replicava ai tempi: «Criticare l'invito di Renato Curcio a Lecce è un atto di intolleranza». E confermava: «Alza la voce solo certa politica». Decano della «cattedra» è anche Toni Negri, tra gli animatori di Potere Operaio, filosofo ed ex parlamentare eletto nelle liste radicali. Bene, il teorico dell’autonomia, che può «vantare» una condanna a dodici anni nel processo «7 aprile», è stato un habitué dei seminari della gauche negli atenei parigini e continua a essere un guru della sinistra no-global italiana. Più volte ospite della trasmissione L’Infedele di Gad Lerner in prima serata come «docente di Harvard», c'era chi ricordava al presentatore icona della sinistra televisiva che forse era necessario completare la descrizione dell’ospite con l’articolo di Potere operaio dove si invitano i proletari a colpire «il corpo fisico del potere» (Lerner ha replicato che «Negri ha da tempo saldato per intero i suoi conti, scontando fino all'ultimo la sua condanna detentiva»). Per alcuni dei protagonisti della stagione della contestazione, poi, se non ci sono stati ricollocazioni accademiche o mediatiche, il rientro nella scena non ha scatenato scandalo tra i benpensanti. Che dire, ad esempio, di Oreste Scalzone? Il capo di Autonomia Operaia è stato più volte invitato a tenere incontri dagli studenti universitari dei collettivi (incontri finiti spesso in «scontri») e anche di assemblee, come quelle tenute nel 2007 a La Sapienza dove fu invitato per ricordare la cacciata del leader della Cgil Lama. Anche un omicida pluricondannato come Cesare Battisti continua ad avere - tra Brasile e Francia - adulatori e sostenitori tutti di impronta rigorosamente progressista. Altri «ex» invece hanno avuto un vero e proprio posto di lavoro, altro che strali dalla sinistra di governo. È il caso di Franco Piperno, il fondatore di Potere Operaio nominato - dopo la condanna per banda armata e associazione sovversiva - nel 1998 assessore ai Vigili urbani a Cosenza dall’allora sindaco socialista Giacomo Mancini. Ma la ciliegina sulla torta è ciò che è successo nella giunta di Giuliano Pisapia (il censore della manifestazione di CasaPound) con Maurizio Azzolini «promosso» capo di gabinetto del vicesindaco di Milano Guida. Azzolini è rimasto nell’immaginario per alcune foto che lo ritraggono con la P-38 in mano il 14 maggio 1977 a Milano, giorno in cui morì l’agente Antonio Custra. Bene, per Pisapia Azzolini ha espiato la pena (non è suo il colpo che ha ucciso l’agente) e pertanto oggi può ricoprire «incarichi di responsabilità». In questo caso «l’opportunità politica» tanto sbandierata dal sindaco di Milano per giustificare il divieto imposto alla festa di CasaPound - associazione legalmente riconosciuta - non vi era. Altro peso, altra misura.

GLI IMPRESENTABILI E LA DERIVA FORCAIOLA.

I grillini: tra idealisti, missionari ed esaltati. Chi sono gli attivisti dei meetup del M5S. Dieci anni fa il lancio dei gruppi che avrebbero portato alla nascita del Movimento. Ma come funzionano e chi li frequenta? Un’indagine sul campo ne ha analizzati sedici. Dal rapporto col leader alla democrazia interna. Fra conferme e sorprese, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". L’attivista di Genova non ha dubbi: «Ogni tanto penso che qui stiamo facendo la storia». Per un altro, pugliese, è come una missione: «Io dedico al Cinque Stelle minimo 2-3 ore al giorno, altrimenti la baracca non andrebbe avanti». Un altro ancora ha sacrificato la sua relazione sentimentale: «Ho anteposto il Movimento alla mia ragazza». Felice, che pure ragazzo non è coi suoi 51 anni, la vive come una rinascita («Il M5S ti cambia»), il palermitano I.L. come «un percorso interiore». Nulla di sorprendente, dunque, se per qualcuno tutto questo comporta anche decisioni radicali: «Mi ha fatto allontanare da tante persone» dice un attivista di Bari. Insomma, niente mezze misure. Perché il M5S è «una scelta di vita» come sintetizza C.P., di Como, inconsapevole forse di citare Giorgio Amendola, lo storico dirigente comunista. Ecco, per capire il variegato universo dei grillini in "servizio permanente effettivo" bisogna partire proprio da quanto di più lontano c'è all'apparenza: il Pci. Quello del dopoguerra, in particolare, con la sua rete di militanti e agit-prop dediti alla causa della rivoluzione con lo zelo del missionario. E poco importa se la parola "partito" è aborrita per non dire vietata, il rischio di trasformarsi in qualcosa che vagamente gli assomigli sia visto come la peggiore delle malattie e il Pci ne rappresentò al contrario la quintessenza per organizzazione, ritualità e soprattutto una forma mentis dualistica inevitabile negli anni della Guerra fredda. Esattamente quel «o noi o loro» tanto caro a Beppe Grillo. Nelle analisi e nella letteratura che ha accompagnato l'esplosione del M5S, quasi nessuno si è soffermato sui militanti grillini dei meetup. A colmare questa lacuna è Roberto Biorcio, docente di Sociologia alla Bicocca di Milano con "Gli attivisti del Movimento 5 Stelle. Dal web al territorio" (Franco Angeli editore), i cui protagonisti sono proprio quegli iscritti che dedicano una parte del proprio tempo "senza essere motivata da incentivi materiali, possibilità di carriera politica né ideologie acquisite in precedenza". Il risultato è un'indagine sul campo realizzata da un team di ricercatori attraverso le interviste a 176 attivisti di 16 città e la partecipazione a riunioni, assemblee cittadine e gli incontri periodici coi parlamentari. Conclusione, scrive l'autore della parte su Milano Stefano Boffi: "I Meetup ai quali ho partecipato sono molto più simili alle tipiche riunioni di partito rispetto a quanto si possa immaginare". Il quadro d’insieme restituisce un’immagine più sfumata dell’opinione corrente, comprese le critiche a Grillo, allo staff, alle modalità di selezione delle candidature e alla struttura liquida. Ma su tutto emerge l’aspetto del gran calderone in cui è possibile trovare di tutto: iscritti alla prima esperienza politica, ex elettori di tutti gli schieramenti ma militanti di lungo corso, dal Pci al Msi per i più avanti con gli anni, da Rifondazione a Casapound per i più giovani. Con più d’una sorpresa. Come la verginità politica. A Palermo, ad esempio, non solo la maggior parte degli 11 intervistati afferma di aver militato in altri partiti (compreso l'Udc dell'ex governatore condannato per mafia Totò Cuffaro) ma c’è chi si è perfino candidato con Grande Sud, il partito del fuoriuscito forzista Gianfranco Miccichè. Come per i partiti di massa del ‘900, a spingere alla militanza è essenzialmente una questione di appartenenza e il fatto di sentirsi parte di un processo storico collettivo. Un dovere civico, dunque, ma anche perché tutto questo “produce sicurezza, rafforza le identità e il senso di autostima”. La trasformazione del resto può cominciare da cose talmente piccole e banali che dovrebbero essere quasi scontate in partenza: «Ho iniziato a fare la raccolta differenziata, che prima non facevo» dice ad esempio Giulia, una ragazza ventenne di Catania. Per una signora di mezza età può invece comportare un aggiornamento imprevisto: «Ho cambiato il modello di cellulare, Whatsapp mi serve per stare in contatto con il Movimento». Fare una stima degli attivisti è difficile: se si considera che in una città di medie dimensioni come Lecce non arrivano a 25, si può ipotizzare che i “veri” grillini in tutta Italia non siano più di qualche migliaio rispetto ai circa 80 mila iscritti certificati. I gruppi più duraturi compiranno a breve 10 anni: era infatti l'estate 2005 quando Grillo e Casaleggio decisero di usare la piattaforma online Meetup, utilizzata l'anno prima dal candidato democratico alle primarie Howard Dean per incentivare la partecipazione. Ma tracciare un profilo comune è quasi impossibile: né Grillo né lo staff sono mai entrati nel merito dei criteri di creazione e l’unica condizione necessaria è ispirarsi ai principi del Non-Statuto e della Carta di Firenze. Risultato: c’è stato “uno sviluppo disomogeneo e l’adozione di codici di comportamento talvolta differenti”. Circostanza che sul territorio può consentire molta più indipendenza rispetto ai portavoce in Parlamento: “Le decisioni a livello locale sono prese in totale autonomia senza consultazioni o ingerenze da parte del livello nazionale”. Al tempo stesso la libertà di regole organizzative interne causa “uno stato ancora precario di democrazia interna”, perché la rete non è necessariamente sinonimo di apertura. Al contrario, “può favorire l’affermarsi di minoranze che ne mantengono ‘le chiavi’ e i rapporti col vertice, amministrando a livello locale password e privilegi informatici nei Meetup”. Così, proprio come nei partiti classici, si può assistere a “fenomeni di leaderizzazione” e “gruppi e cordate per influenzare le scelte organizzative” che portano a espulsioni, allontanamenti volontari e dissidi. Come accaduto a Firenze, dove i grillini sono quasi finiti alle mani in occasione del voto sull’estromissione di alcuni attivisti storici. Un copione che si ripete a tutte le latitudini, anche se con differenti caratteristiche. A Genova, per dire, esiste una contrapposizione interna fra quelli che si autodefiniscono “Grillini” e “Movimentisti” (provenienti da altri partiti e i comitati cittadini), che porta spesso a visioni diametralmente opposte e investe perfino il rapporto con Grillo: “Beppe” per gli uni, “il capo” o “il boss” per gli altri. A Carrara, le fratture si scansano con la discussione, evitando di votare e andando avanti, spiega un attivista, «fin quando tutti nel gruppo non sono d’accordo». A Catania, invece, la conflittualità interna ha portato a scissioni e ricomposizioni che nel tempo hanno moltiplicato i gruppi. Sei attualmente: i verdi, i bianchi, 900, la Voce del popolo, i Grilli parlanti di Catania centro e il meetup del Fare. Un florilegio che rischia di sfiorare la babele. A maggior ragione quando si vince mantenere l’unità è difficile. Vedi il caso di Parma, dove lo scorso anno è nato un meetup critico nei confronti del sindaco Federico Pizzarotti. E dove può accadere che un cofondatore di quello storico cittadino affermi con naturalezza: «Non saprei individuare quali siano le scelte positive fatte dalla giunta».

Gira...gira, tocca pure a loro. Il processo per l’Ilva di Taranto rischia di far scomparire Sel. Non solo Vendola, a giudizio vanno pure il coordinatore Nicola Fratoianni e il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno. In aula il 20 ottobre 2015, scrive Alessandro Da Rold su “L’Inkiesta”. In passato forse era capitato solo alla Forza Italia di Silvio BerlusconiMarcello Dell’Utri e Denis Verdini, di avere i vertici del partito rinviati a giudizio. Adesso il poco invidiabile record tocca a Sinistra Ecologia e Libertà. Perché tra le 44 persone che andranno a processo per il disastro ambientale provocato dall’Ilva di Taranto non c’è solo l’ex governatore della Puglia e presidente di Sel Nichi Vendola, ma anche il coordinatore del partito Nicola Fratoianni, ex assessore in regione. Senza dimenticare il sindaco di Taranto Ippazio Stefàno. Il primo è accusato di concussione aggravata, il secondo di favoreggiamento personale, perché come si spiegava nella richiesta di rinvio a giudizio «quale assessore alle politiche giovanili - si scrisse nelle motivazioni di conclusione delle indagini - al fine di assicurare a Vendola Nicola l’impunità, aiutava quest’ultimo a eludere le investigazioni dell’autorità». Stefàno deve rispondere di omissioni in atti d’ufficio. Nemmeno una settimana fa Fratoianni sponsorizzava Vendola come vicesindaco di Roma. Il processo comincerà il 20 ottobre prossimo davanti alla Corte d'Assise di Taranto. Ma potrebbe avere pesanti ricadute sui rapporti interni al centrosinistra e soprattutto su quelle nuove realtà di sinistra che potrebbero nascere in futuro. La prima è stata quella di Pippo Civati, con Possibile, poi con Stefano Fassina, Futuro a Sinistra. Bisognerà attendere il termine del processo, ma i prossimi anni potrebbero essere molto duri e difficili per Sel. Vendola avrebbe consentito all'azienda di continuare a produrre senza riduzioni di emissioni inquinanti, come invece suggerito dall'Arpa. Secondo l’accusa avrebbero aiutato l’Ilva ad integrare il reato di disastro. In particolare, Vendola avrebbe esercitato pressioni sul direttore generale di Arpa Puglia (Agenzia regionale di protezione ambientale), Giorgio Assennato (a sua volta a giudizio per favoreggiamento personale), per far "ammorbidire" la posizione della stessa Agenzia nei confronti delle emissioni nocive prodotte dall'Ilva. In questo modo, sostiene la Procura, «Vendola avrebbe consentito all'azienda di continuare a produrre senza riduzioni di emissioni inquinanti, come invece suggerito dall'Arpa in una nota del 21 giugno 2010 stilata dopo una campionatura che aveva rilevato picchi di benzoapirene». Non solo, per i giudici Vendola avrebbe minacciato la non riconferma di Assennato, il cui mandato scadeva nel febbraio 2011. I fatti contestati sono compresi nel periodo che va dal 22 giugno 2010 al 28 marzo 2011. La concussione aggravata è contestata a Vendola in concorso con Girolamo Archinà (ex responsabile ai rapporti istituzionali dell'Ilva), Fabio Riva (ex vicepresidente di Riva Fire), Luigi Capogrosso ('ex direttore dello stabilimento siderurgico di Taranto) e Francesco Perli (avvocato dell'Ilva). A processo anche Bruno Ferrante, ex presidente dell'Ilva ed ex prefetto di Milano. A giudizio va pure Donato Pentassuglia, ex-assessore alla sanità oggi consigliere regionale del Partito Democratico. A processo pure il coordinatore del partito Nicola Fratoianni, ex assessore in regione. «Sarei insincero se dicessi, come si usa fare in queste circostanze, che sono sereno. Sento come insopportabile la ferita che mi viene inferta da un’accusa che cancella la verità storica dei fatti: quella verità è scritta in migliaia di atti, di documenti, di fatti. Io ho rappresentato la prima e l’unica classe dirigente che ha sfidato l’onnipotenza dell’Ilva e che ha prodotto leggi regionali all’avanguardia per il contrasto dell’inquinamento ambientale a Taranto», è la prima dichiarazione per l'ex governatore, che aggiunge: «Mi aspettavo che l’inconsistenza del teorema accusatorio producesse il mio proscioglimento già a conclusione dell’udienza preliminare». «La decisione del gup è un fatto importante per la città di Taranto e per tutto il popolo inquinato», fa sapere Angelo Bonelli, coportavoce nazionale dei Verdi. «Taranto, la città dei veleni in cui 30 persone ogni anno perdono la vita a causa dell'inquinamento, i bambini si ammalano di tumore del 54 per cento in più rispetto alla media pugliese, la diossina ha contaminato la catena alimentare e gli operai muoiono in fabbrica per gravi incidenti sul lavoro, potrà cominciare a sperare di avere giustizia. E questo processo sarà il più importante nella storia della Repubblica italiana».

Nomina scrutatori e rappresentanti di lista: voto di scambio?

Lo scandalo dei voti di scambio: 30 euro ai ragazzi per 3 giorni di presenza ai seggi. Voto di scambio a destra, ma son peggio i permessi elettorali retribuiti dallo Stato alla sinistra.

Esiste un tariffario: 30, 40 o 50 euro. Vengono corrisposti in base ai voti conquistati dal candidato e certificati sui tabulati elettorali. E ci sono anche i comitati elettorali nei quali presentarsi per essere reclutati come rappresentanti di lista e procacciatori di preferenze. Ne ha parlato un servizio, firmato dal giornalista Francesco Iato, trasmesso dal Tg Norba e sequestrato dalla Digos. Il compito del «rappresentante di lista» non è solo quello, canonico, di controllare il corretto andamento dello scrutinio elettorale, ma anche di garantire un certo numero di voti. Il servizio di Francesco Persiani del Tg Norba delle ore 13.35 del 28 maggio 2015 dal titolo, “Taranto, scoppia lo scandalo scrutatori”, è esemplare e coraggioso. «Ultime ore utili per nominare i rappresentanti di lista. Non solo a Bari, ma anche a Taranto i giovani rappresentanti dei partiti potrebbero essere coinvolti in vicende poco lecite. Denaro in cambio di voti e del loro controllo. Alcuni lo sanno bene». Parla un ragazzo intervistato: “Per prendere voti fanno tutte cose, ormai. Si affiancano a persone della malavita. Si affiancano a persone di potere per salire anche loro al potere per legarsi alla poltrona”. «Capitolo a parte - prosegue Persiani – quello degli scrutatori, un gradino più in su. A Taranto sono stati tutti nominati dagli amici degli amici di partito: niente sorteggio. Così ha deciso la commissione elettorale usando il criterio, consentito dalla legge, delle indicazioni, dei suggerimenti. I consiglieri si sono divisi la torta. D’altra parte non è difficile in una città come Taranto DOVE E’ MESSA LA SORDINA AD OGNI DENUNCIA. IN UNA CITTA’ DOVE ALCUNE GROSSE AZIENDE MUNICIPALIZZATE SONO DIRETTE DA PERSONE CHE HANNO STRETTISSIMI LEGAMI CON I MAGISTRATI INQUIRENTI».

La verità è che in politica ci sono sempre gli interessi personali ad essere interessati e per quegli interessi si vota e per nient’altro.

Gli scrutatori sono nominati dagli amministratori, a cui render conto con i voti propri e dei parenti, ma sono pagati dallo stato: voto di scambio?

I rappresentanti di lista sono nominati dai candidati, a cui render conto con i voti propri e dei parenti. A sinistra sono numerosi. Fanno calca. Sono operai od impiegati che non hanno avuto nessuna difficoltà a trovare il loro impiego, grazie ai sindacati. I rappresentanti di lista di sinistra alle sezioni dei seggi elettorali li vedi a piantonare ed a controllare, spesso a disturbare ed a contestare. Si sentono anime pure. Additano come venduti i ragazzi dei partiti avversari, che prendono in totale 30 euro per 3 giorni di impegno ai seggi.

A sinistra parlano di volontariato politico. Ma è veramente così? 

Al lavoratore con contratto a tempo indeterminato e determinato (anche temporaneo) chiamato a svolgere funzioni presso i seggi elettorali per le elezioni del Parlamento (nazionale ed europeo), per le elezioni comunali, provinciali e regionali ed in occasione delle consultazioni referendarie, ai sensi dell’art. 119 del T.U. n. 361/57, modificato dalla L. n. 53/90, e dell’art. 1 della legge 29.1.1992, n. 69, è riconosciuto il diritto di assentarsi per tutto il periodo corrispondente alla durata delle operazioni di voto e di scrutinio. L’assenza è considerata attività lavorativa a tutti gli effetti, quindi remunerata.

Il beneficio spetta ai componenti del seggio elettorale (presidente, scrutatore, segretario), ai rappresentanti di lista, nonché in occasione del referendum popolare ai rappresentanti dei promotori del referendum. Analogo diritto spetta ai lavoratori della scuola impegnati a vario titolo nelle operazioni elettorali (vigilanza o altro). Essendo l'attività prestata presso i seggi equiparata (2° comma art. 119 L. 361/57) ad attività lavorativa, non è consentito richiedere prestazioni lavorative nei giorni coincidenti con le operazioni elettorali, anche se eventuali obblighi di servizio fossero collocati in orario diverso da quello di impegno ai seggi.

Hai visto le anime pure di sinistra? Prendono 10 volte la regalia dei 30 euro dati ai ragazzi dei partiti avversari, eppure parlano.

Il vero voto di scambio è quello loro: dello pseudo volontariato elettorale della sinistra.

Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Come Me. E così sia.

Chi sventola cappi finisce impiccato sui suoi patiboli. Il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso. È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'intolleranza, scrive Arturo Diaconale su “Il Giornale”. A differenza di quanto ha sostenuto Raffaele Cantone non trovo per nulla meritoria la decisione della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi di emettere liste di proscrizione di presunti «impresentabili» alla vigilia delle elezioni regionali di domenica prossima. E, sempre a differenza di quanto affermato dal presidente dell'autorità Anticorruzione non considero soltanto «pericoloso» che a dare patenti di presentabilità sia una autorità politica e non una autorità giudiziaria. In realtà il comportamento della commissione Antimafia non è meritorio e tantomeno pericoloso (ma Cantone si rende conto della contraddittorietà delle sue affermazioni?). È un demenziale passo in avanti lungo la strada dell'arbitrio, della prevaricazione, dell'intolleranza. In una parola verso il trionfo di un giacobinismo terroristico incompatibile con il sistema democratico e funzionale ad ogni tipo di avventura autoritaria. La Costituzione stabilisce che la linea della presentabilità o meno di un cittadino nella vita pubblica è fissata dalla presunzione d'innocenza. Se si è condannati in via definitiva si è «impresentabili». Prima di questa condanna si continua ad essere titolari dei diritti civili e politici. Ma questa linea, che è quella della verità giudiziaria, è stata superata da tempo. L'egemonia giustizialista degli ultimi vent'anni l'ha ridotta a reperto archeologico, da considerare abrogata di fatto dalla Carta costituzionale. Ad essa è stata sostituita prima quella della incensurabilità delle persone. Che stabilisce la presentabilità o meno a seconda se si sia incensurati o no a prescindere dalla gravità dei reati. Una linea che è sempre legata alla «verità giudiziaria». E, successivamente, quella della eticità e della moralità del comportamento delle persone. Linea che supera il confine fissato dai giudizi della magistratura, che comunque debbono rispondere ai criteri della equanimità, della terzietà, dell'oggettività, e stabilisce che la presentabilità debba discendere dal giudizio etico e morale dato da una opinione pubblica normalmente influenzata dal circuito mediatico-giudiziario. Con la presentabilità dipendente da un giudizio etico e morale siamo già ampiamente fuori del perimetro costituzionale. Ma con la scelta della commissione Antimafia di stilare liste di proscrizione si compie un salto più lungo e decisivo. Si stabilisce che la linea della presentabilità è data dalla verità politica. Una verità che non risponde mai ai valori ma sempre alle convenienze. Che per definizione non può mai essere equanime, terza, oggettiva ma sempre di parte. Che dipende da maggioranze variabili, occasionali, aleatorie. E che, soprattutto, viene regolarmente imposta da chi urla più forte e sventola più minacciosamente cappi, forche e manette per suggestionare una opinione pubblica naturalmente portata, in tempi di crisi, a scaricare le sue paure e tensioni sui facili capri espiatori. È dai tempi di Gesù e Barabba che la verità politica provoca aberrazioni. Rosy Bindi, che si dice cattolica, dovrebbe ricordarlo. E chi lo ha dimenticato dentro la commissione Antimafia in nome di un giacobinismo strumentale e da operetta non solo dovrebbe tenerlo a mente ma anche non dimenticare mai che a lungo andare i giacobini intolleranti finiscono con salire sui patiboli da loro stessi impiantati. I puri hanno sempre in sorte di trovare i più puri che li epurano!

Una legge contro la proscrizione, scrive Maddalena Tulanti su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Brutta giornata ieri per i candidati presidenti alla regione Puglia. Rosi Bindi, presidente della commissione antimafia, ha reso noto (per la verità nel suo staff dicono che c’è stata la solita fuga di notizie) i nomi dei candidati pugliesi che sarebbe stato meglio non mettere in lista, i cosiddetti “ impresentabili”, e sono stati dolori per Emiliano, Schittulli e Poli Bortone. Ne sono stati individuati 4, due sono schierati nel movimento di Schittulli, 1 per Poli Bortone e 1 per Emiliano. I soliti malpensanti si sono chiesti come mai sono usciti solo i nomi dei candidati pugliesi e qualcuno addirittura ha lasciato intendere che dopo la sparata di Emiliano contro la presidente Bindi di qualche giorno fa era il minimo che il quasi governatore si potesse aspettare. Noi non ci crediamo, riportiamo il pettegolezzo solo per far comprendere quanto il clima si stia avvelenando mano a mano che ci avviciniamo alla giornata del voto. I nomi degli “impresentabili” li avrete letti nelle cronache, evitiamo di farli di nuovo e non a caso. A noi le liste dei cattivi non sono mai piaciute, nemmeno a scuola quando la maestra ci chiedeva di farlo mentre lei si assentava. Come quelle di proscrizione, queste liste sono sempre fatte a fin di bene, per mantenere o un ripristinare l’ordine costituito, e abbiamo imparato da tempo quanto inferno può nascondersi dietro a un bisogno di paradiso. Detto questo, non è che ci piaccia che le liste, quelle elettorali stavolta, siano formate senza badare a chi ci fa parte, contando soprattutto sulla “quantità” dei voti che un candidato/una candidata è capace di portare invece che sulla “qualità” di quello che egli/ella rappresenta. Che si fa allora? Si fa finta di niente o si accetta il disonore pubblico? Non si può fare finta di niente, è evidente. Se la commissione antimafia si è messa a spulciare ogni lista presentata in tutte le regioni in cui si vota è probabile che il sospetto che si eleggano persone colluse con poteri criminali o semplicemente che hanno avuto a che fare con la legge, esiste eccome. Quindi ben venga la ricerca delle pecore nere. Ma non per questo si deve agire con l’accetta. Siamo di fronte a un equilibrio delicatissimo, da una parte c’è il diritto a essere considerato una persona perbene fino all’ultimo grado di giudizio; dall’altro bisogna garantire a chi si reca alle urne la certezza che su nessuna delle persone scese in campo possa essere sollevato un dubbio di nessun genere. Insomma se ne esce in un unico modo, attraverso la legge. Si cambino le regole, si decida chi può essere candidato e chi no in maniera più severa. E poi solo silenzio.

Le liste di proscrizione. La bomba illegale della Bindi sulle elezioni amministrative 2015, scrive Magazine Donna. Con una scelta che dire grottesca è poco, Rosy Bindi e la sua commissione parlamentare antimafia venerdì 29 maggio 2015 – a quarantotto ore dalle elezioni regionali – compileranno una lista di proscrizione elencando i politici inseriti in lista dai vari partiti e accettati dagli organi di controllo che invece sarebbero «impresentabili» in base a un fragile codice di buona condotta. La Bindi e i suoi avrebbero dovuto rendere nota quella lista ieri, ma hanno litigato un bel po’ in ufficio di presidenza e dopo ore hanno offerto due sole sentenze: in Liguria nessun candidato è risultato «impresentabile», e in Puglia invece ce ne sarebbero 4, rigorosamente bipartisan: Giovanni Copertino (Forza Italia, circoscrizione Bari); Fabio Ladisa (Popolari per Emiliano, circoscrizione Bari); Massimiliano Oggiano (Oltre con Fitto, Schittulli presidente, circoscrizione Brindisi) e Enzo Palmisano (Movimento politico per Schittulli, area popolare, circoscrizione Brindisi). I soli quattro nomi apparsi nella prima bozza della lista di proscrizione fan ben capire come l’operazione sia squisitamente politica, probabilmente mira a Matteo Renzi e ai suoi candidati (la Bindi fa parte della minoranza del Pd), e di tecnico abbia ben poco. Tutti e quattro i candidati pugliesi ritenuti «impresentabili» hanno effettivamente avuto problemi con la giustizia in passato. Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali. Siccome la legge c’è, e viene applicata, la Bindi e l’ufficio di presidenza dell’antimafia sanno benissimo che qualsiasi candidato bolleranno come «impresentabile» venerdì prossimo (con un pessimo servizio anche agli elettori, visto che glielo dicono a cose ormai fatte), non lo sarà affatto: per la con-testatissima e dura legge vigente, saranno tutti sia presentabili che eleggibili. Senza stare a girare troppo intorno, c’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale: perchè mai Renzi ha accettato quella candidatura e si è speso addirittura a fare campagna elettorale per un candidato-fantasma? Questa è l’unica domanda lecita che si potrebbe fare, tutto il resto fa parte di un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. E per fortuna è così, visto il tipino peperino. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione: i presidenti delle Camere dovrebbero intervenire e fermare quello che sembra più che altro un regolamento di conti interno ai vari partiti politici. Si può giudicare «politicamente» impresentabili dei candidati anche incensurati, o che abbiano su di loro il sospetto di una inchiesta allo stato iniziale. Questa è scelta legittima se fatta in una polemica politica, in un editoriale, in una battaglia giornalistica. Non da una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone che fa diventare «impresentabile» qualcuno il reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, si faceva prima a buttare via tutte le liste e rinviare le regionali a migliore occasione…

Precedenti da far rabbrividire, scrive Mattia su "Butta". Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale. (art. 49 della costituzione italiana). Mi sa che questa cosa degli impresentabili sia un po’ sfuggita di mano. Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto. Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi. Ma fin tanto che è la parola di alcuni privati cittadini, per quanto scorretta, tale rimane. Dove hanno perso la testa è stato alla commissione anti mafia. Dicono che entro venerdì usciranno con una lista di candidati impresentabili. Ohi, non sto parlando di privati cittadini, ma di una istituzione. Un pezzo del parlamento che si riunisce e fa la lista dei candidati che sono degni e dei candidati che sono non degni. Una roba da far rabbrividire i capezzoli. Ah, ma dicono, le indicazioni non sono vincolanti! E ci mancherebbe altro. Figuriamoci se un organo politico come un pezzo di parlamento avesse il diritto di decidere di espellere dalle liste chi non gli garba. Eh, però – aggiungono – si limitano ad applicare il codice di autoregolamentazione dei partiti. Che però ha il valore legale di un peto. I partiti (o meglio, alcuni partiti) possono anche trovarsi un pomeriggio sotto un albero e fare un pinchi suee decidendo di non candidare chi si trova in certe condizioni. Ma  tutto il resto del paese non è tenuto a rispettarlo. Se i partiti vogliono che chi si trova nelle condizioni di Caio non sia candidabile approvino una legge in parlamento che dice proprio questo. Quando sarà legge dello Stato tutti saremo obbligati a rispettarla, ma finché rimane un pinchi suee dei partiti no. Forse non percepite la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, una istituzione, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni. Oggi fanno la lista di proscrizione in base al loro patto tra partiti (senza valore giuridico), domani si allargheranno e diranno che sono impresentabili quelli che hanno fatto un provino per il Grande Fratello o che nella vita fanno gli operai. Se ci fosse un presidente della repubblica degno di questo nome avrebbe già preso il telefono, avrebbe chiamato la Bindi e le avrebbe detto “senti Rosaria, adesso tu prendi un quaderno, penna e calamaio e scrivi 500 volte l’art. 49 della costituzione. Poi quando hai finito me lo porti al colle e mi prometti di non fare più certe stronzate, ok? Piesse: e non dico niente su quello che dovrebbe fare la Boldrini perché quella mi sa che la costituzione non l’ha neanche mai letta.

GLI IMPRESENTABILI E LA DERIVA FORCAIOLA.

Mafia capitale: il garantismo è la nuova religione della politica? Chiosa Veronica Gentili su “Il Fatto Quotidiano”. Giornale noto per essere manettaro e idolatra dei pubblici ministeri. “Può capitare di invitare a cena qualcuno che poi, quando se ne va, si porta via un po’ di argenteria. A questo punto lo si denuncia e gli faranno un processo. Certo, fino alla conclusione del processo, questo signore non è tecnicamente un ladro perché una sentenza che lo dice nelle forme di legge ancora non c’è. Ma voi lo invitereste di nuovo?”. Dopo l’esplosione di Tangentopoli, con questa metafora il magistrato Piercamillo Davigo traduceva e semplificava le molte contraddizioni insite al garantismo politico. Il garantismo non è una religione: è bene puntualizzarlo perché sembra non essere chiaro a tutti. Quelli che a qualsiasi domanda si ponga loro rispondono lapidari “Io sono garantista”, come stessero dicendo “Io sono cattolico” o “Io sono musulmano”, convinti di liquidare con questa esternazione identitaria ogni contraddizione, devono pensare che il garantismo sia un antico culto pagano. Davanti all’altare della presunzione d’innocenza l’adepto sacrifica capacità di valutazione, buonsenso e senso di opportunità e sospende non solo il giudizio ma anche le capacità di intendere e volere.  Per il fedele garantista è peccato mortale esprimere un giudizio di qualunque genere sul garantito, animale sacro da proteggere:  fino al terzo grado di giudizio, e al primo venerdì di luna piena, sia maledetto chiunque si azzardi ad emettere un fiato. Questa religione va per la maggiore in ambito politico, dove sembrano convinti che a forza di presumerla l’innocenza prima o poi arriverà. Peccato che sia più probabile veder arrivare Godot un po’ affannato che grida “Scusate il ritardo”. Il garantismo in politica – come succede quasi a tutto ciò che entra in politica – ha finito per diventare ottuso e pilatesco (talvolta in maniera strumentale talvolta in maniera codarda): all’opportunità di rimuovere un indagato dal proprio incarico si antepone in loop la storia dei tre gradi di giudizio, senza nessuna considerazione che esuli dal solito refrain, senza ponderare le caratteristiche del singolo caso, senza lasciare un minimo di spazio a valutazioni di opportunità politica. L’elemento più inquietante è come il garantismo venga utilizzato a mo’ di schermo solare per non bruciarsi al sole di eventuali scandali politici: l’aspetto principale non è la mancata rimozione dell’indagato ma il fatto che il capo di partito si rifiuti addirittura di fare delle considerazioni sulla questione, che eviti di pronunciarsi sull’aspetto morale della faccenda, che si nasconda dietro ai tre gradi di giudizio come dietro tre strati di protezione solare 50 più. Il rischio di ustionarsi ai raggi dell’indagine sul Cara di Mineo che vede indagato il sottosegretario Giuseppe Castiglione ha spinto Renzi a ripetere la solita solfa: “La magistratura faccia il suo mestiere. Io però sono un garantista e non intervengo”. Anzi scusatemi ora vado a pregare.

Processi veloci? Meglio processi giusti, scrive Vincenzo Vitale su “Il Garantista”. Il presidente della Repubblica Mattarella, nell’ambito della sua visita al Consiglio Superiore della Magistratura, ha fatto un intervento, affermando una cosa giusta e una sbagliata. Quella giusta e sacrosanta è che il Csm non può riformarsi da solo, perché invece occorre necessariamente che sia il legislatore ad intervenire soprattutto in tema di elezioni e di funzionamento della sezione disciplinare. Ed infatti, è proprio così. Se ci cono aspetti che davvero debbono essere riformati sono di sicuro il sistema elettorale attuale che alimenta a dismisura il sistema correntizio all’interno del Csm e quello della giustizia disciplinare che lascia troppo a desiderare, mostrando una cedevolezza eccessiva: le sentenze che affermano una responsabilità di un magistrato sono infatti assai rare e sempre assai miti, rispetto ai fatti accaduti e contestati. La cosa invece sbagliata che il capo dello Stato ha affermato è che la gente preme sempre di più e sempre di più si aspetta processi veloci.Ora, è ben vero che in Italia i processi hanno una durata biblica e che siamo per questo lo zimbello del mondo civile, ma lo siamo ancor di più perché il tasso di giustizia presente all’esito del processo si mostra pericolosamente ridotto e comunque precario. Insomma , fare i processi in modo più veloce è certo un bene, ma non è il bene principale: il bene principale è che dai processi scaturisca con una certa probabilità che sia ragionevole una decisione riconoscibile socialmente come giusta. Ciò purtroppo in Italia accade con una frequenza troppo bassa e per questo si avverte come un diffuso senso di disagio serpeggiare fra tutti coloro che per professione o per necessità son costretti a fare i conti con l’amministrazione della giustizia italiana. Non parliamo poi di cosa pensano all’estero di quanto accade nei nostri Tribunali, soprattutto in casi che hanno fatto molto rumore presso la stampa e l’opinione pubblica, come quelli di Adriano Sofri o di Raffaele Sollecito ed Amanda Knox . In casi del genere, i corrispondenti esteri sono stati costretti ad assistere allibiti alla celebrazione di sei, sette o più procedimenti penali che ogni volta ribaltavano la decisione già assunta: chi, per il Tribunale era innocente, per la Corte d’Appello era invece colpevole, per la Cassazione di nuovo innocente e poi da capo in una girandola di sentenze che si annullavano, si confermavano, si riformavano una dopo l’altra in un tragicomico gioco dell’oca. Alla fine, nessuno ci capisce più nulla e sarebbe molto più serio e rispettoso, anche della dignità delle persone coinvolte, lasciar perdere tutto e rinunciare ad ogni ulteriore prosecuzione. Ne viene che, per ogni evidenza, se i processi son troppo lunghi, spesso è perché son fatti male, in modo tale cioè da esigere gradi su gradi di giudizio, con tanti saluti alla giustizia della sentenza. Non mi stancherò di ripeterlo, seguendo Seneca: «cito scribendo non fit ut bene scribatur, bene scribendo fit ut cito». Vale a dire: chi scrive in fretta scriverà male, chi scrive bene scriverà in fretta. Sarebbe allora il caso allora che i nostri governanti ci pensassero un poco come si deve, per adottare provvedimenti destinati non a far presto i processi ma a farli bene, meglio di quanto siano fatti oggi. Anche perché, come sappiamo, farli bene – cioè capaci di rendere giustizia – equivale a farli in fretta. Assai più di oggi.

In galera per 22 anni da innocente: Gulotta racconta la sua storia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. Era il 7 novembre 2014, quando “Il Garantista” vi aveva raccontato insieme all’avvocato Baldassarre Lauria, il più grande caso di ingiustizia dal dopoguerra a oggi. Protagonista di quella storia era Giuseppe Gulotta, un galantuomo di Alcamo finito dietro le sbarre appena diciottenne nel 1976, che ha speso 36 anni della sua vita tra galera e tribunale pur essendo innocente. Accusato dell’omicidio di due carabinieri, di aver fatto un blitz nella casermetta di Alcamo, Gulotta si rivelò molti anni dopo al centro di una sporca macchinazione di Stato che lo vide torturato e incriminato per nascondere l’indifendibile: un omicidio di Stato, voluto da Gladio e servizi deviati, che trovò in Giuseppe il perfetto capro espiatorio grazie a una confessione, estorta con la tortura, che lo costrinse a dichiararsi colpevole. Dopo qualche anno di silenzio, dopo vani tentativi di ottenere giustizia per i ventidue anni di carcere scontati da innocente, Giuseppe Gulotta ha deciso di raccontare la sua incredibile storia in “Alkamar” (il nome della piccola caserma di Alcamo che gli cambiò per sempre la vita), libro verità che ha scritto per ChiareLettere, e che presenterà il 10 giugno alle 19 e 30 presso “La luna ribelle” di Reggio Calabria assieme al giornalista Nicola Biondo. All’evento, ideato e realizzato dalla Fondazione “Giuseppe Marino” e introdotto da Daniela Bonazinga, saranno presenti anche Antonio Marino, presidente Fondazione “Giuseppe Marino”, Giuseppe Falcomatà, Sindaco di Reggio Calabria, Giovanni Muraca, Assessore comunale alla Legalità, Pardo Cellini e Baldassarre Lauria, avvocati, e suoi difensori. La data scelta per l’uscita del libro non è casuale. Proprio il 10 giugno, al tribunale di Reggio Calabria, si terrà difatti l’udienza relativa alla causa civile per il deposito delle perizie che verificheranno gli eventuali danni esistenziali, morali, biologici e patrimoniali subiti da Giuseppe Gulotta. Per comprendere di che tenore sarà il racconto di questo uomo mite, che pure non riesce a esprimere nemmeno un’ombra di rancore verso i suoi carnefici, ma soltanto rammarico per il figlio che non è riuscito a crescere, basti riandare con la memoria al racconto del suo legale Lauria. Che bene raccontò al nostro giornale, sulla base della confessione dell’ex brigadiere Olino, uomo meritevole che lasciò la divisa dopo gli orrori vissuti, come andarono le cose. «Gulotta, Ferrantelli e Santangelo vennero arrestati nella notte del 12 febbraio – ricorda Lauria – e brutalmente torturati e picchiati. Smisero di fare loro del male soltanto quando si autoaccusarono della strage di Alcamo. Tutto accadde in assenza dei loro difensori. C’era anche un allora giovane magistrato della Procura di Trapani, che assistette a quell’orrore senza farne denuncia. Non ebbe il coraggio di firmare i verbali. Lo chiameremo a rispondere di quella condotta». «Giuseppe Gulotta – prosegue l’avvocato – fu arrestato e riempito di botte per una notte intera. Fu preso a calci, gonfiato di pugni, gli puntarono le pistole alla tempia, gli presero a calci i genitali. Bevve acqua salata. Smisero di farlo a pezzi soltanto quando ebbero ciò che volevano: la confessione di essere stato il responsabile dell’eccidio in caserma». Il perché di tutta questa barbarie, giova ancora una volta ricordarlo. Ed ha a che fare con “Alkamar”, la casermetta in cui prestavano servizio due carabinieri sbagliati. Pochi giorni prima avevano fermato un camioncino che dovevano fingere di ignorare. Era carico d’armi destinate alla mafia. Armi di cui lo Stato sapeva negli anni sporchi di gladio. Leonardo Messina riferì alla Dia nel 99 che ad Alcamo, proprio negli anni dell’eccidio, era stato programmato un attacco a varie sedi delle istituzioni. Era giunto un contrordine, ma ormai il pasticcio era fatto. Trucidare i due uomini di Stato impiccioni, per lo Stato deviante non fu per nulla complicato. Le uniche complicazioni le ebbe Gulotta. Oggi finalmente Giuseppe può raccontare la sua storia. Da uomo libero. Da uomo distrutto che però non ha perso fiducia nelle istituzioni. Ce lo ha raccontato l’avvocato Lauria: «Dice che ha un solo rammarico, Giuseppe. Dice che quando finì in carcere aveva un bimbo di un anno e mezzo. Gli sarebbe piaciuto accompagnarlo a scuola. Almeno un giorno. Un giorno solo della sua vita».

Gulotta è da considerare un impresentabile?

Il Codice Chiaromonte, scrive Finemondo di Marco Damilano su “L’Espresso”. «Non possiamo affidare all'arma dei carabinieri o alle questure il compito di preparare elenchi di uomini politici e di amministratori sui quali gravono sospetti non provati, o a volte soltanto dicerie di vario tipo». Così parlava il presidente della Commissione parlamentare Antimafia illustrando alla stampa la nuova iniziativa della commissione per arginare l'infiltrazioni delle cosche criminali nelle liste elettorali. Un codice di autoregolamentazione sottoscritto da tutti i partiti, in cui le forze politiche si impegnavano a escludere dalle candidature quei nomi per cui fosse stato emesso decreto che disponeva il giudizio, o che presentati o citati a comparire in udienza per il giudizio...In questi giorni l'iniziativa della commissione parlamentare Antimafia presieduta da Rosy Bindi di stilare una lista di cosiddetti impresentabili alla vigilia del voto regionale è stata definita in vari modi. «Sul piano umano volgare, sul piano politico infame, sul piano costituzionale eversiva», ha tuonato a notte fonda di fronte alla direzione del Pd il neo-presidente della Campania Vincenzo De Luca, il più illustre degli impresentabili. Parole accolte con l'applauso dei dirigenti del Pd, in linea del resto con quanto dichiarato nei giorni scorsi dai principali esponenti del partito. Contro De Luca? No, contro la Bindi. Si è detto: lista di proscrizione (Orfini), lista che lede i diritti costituzionali (Serracchiani), lista personale (Guerini, Carbone). E anche, ma da altro pulpito, più prestigioso e autorevole, il presidente dell'Anti-corruzione Raffaele Cantone: «quella lista è un errore grave. Non spetta all'antimafia fare liste, ma studiare il fenomeno mafioso». Eppure la lista Bindi non è un caso senza precedenti. Perché già in passato la commissione Antimafia provò a prendere un'iniziativa identica per modalità, tempistica e reazioni dei politici coinvolti. Di diverso c'era l'epoca: il 1991-92, il tramonto della Prima Repubblica. E la figura del presidente dell'Antimafia: il comunista Gerardo Chiaromonte, amico di Giorgio Napolitano e di Emanuele Macaluso, lontano anni luce da pulsioni giustizialiste e anzi severo critico nelle fasi successive degli eccessi di Mani Pulite. Un comunista di destra, garantista e prudente, se vogliamo dire così l'opposto per carattere e origine di Rosy Bindi, passionale cattolica di sinistra. Eppure il garantista Chiaromonte segue lo stesso percorso della Bindi e sarà oggetto di attacchi simili sul piano personale da parte dei vertici del suo partito, il Pds appena nato sulle ceneri del Pci. Il codice fa il suo esordio in vista delle elezioni regionali in Sicilia del giugno 1991. C'è ancora la Dc del 40 per cento nell'isola, Salvo Lima è potente europarlamentare, il partito sul piano nazionale è fortissimo, Andreotti regna a Palazzo Chigi con il Caf (Craxi Andreotti Forlani). «Il codice è uno strumento di selezione del personale politico e amministrativo e inverte un processo di degenerazione che non si può regolare altrimenti, perché le esclusioni per legge sono contrarie allo stato di diritto», spiega Chiaromonte. Una libera scelta della politica, chiamata a vigilare con più forza su se stessa, non una violazione della presunzione di innocenza. Anche in quel caso inizialmente i partiti sono o fingono di essere entusiasti: «Un tassello di grande importanza nella lotta alle deviazioni. Si interviene sulla candidabilità non attraverso una legge, ma un patto politico che può semplificare, in qualche caso, anche il problema delle nomine», si spertica in lodi il presidente della regione Sicilia, il dc Rino Nicolosi. I guai arrivano, naturalmente, quando dalle parole si passa ai fatti, cioè ai nomi. Per le regionali siciliane (stravinte dalla Dc) la commissione decide di pubblicare le conclusioni sulle liste a elezioni svolte, tre mesi dopo, senza dare i nomi ma soltanto il numero dei candidati che partito per partito hanno violato il codice: cinque deputati dell' assemblea regionale siciliana (Dc, Pds, Psi, Psdi e Msi-dn) sono stati candidati fuori dalle regole. «Abbiamo inviato i nominativi segnalatici ai segretari dei partiti. Rinnoviamo loro l'invito ad assumere le iniziative più opportune per una riforma sostanziale del modo di far politica e amministrazione soprattutto, ma non solo, nel mezzogiorno». A rispondere, a sorpresa, è il segretario del partito di Chiaromonte, Achille Occhetto, inferocito per l'inserimento nella lista di alcuni candidati del Pds: «La Commissione fornisca elementi di fatto più documentati di quelli indicati». Passa qualche mese e arrivano le elezioni politiche del 1992. Elezioni decisive: le prime con la preferenza unica, segnate dall'arresto a Milano del socialista Mario Chiesa e dall'omicidio a Palermo del dc andreottiano Salvo Lima. L'Antimafia decide di fare un passo avanti. «Per lottare contro la mafia, non solo Cesare, ma anche la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto», dice il garantista Chiaromonte. «Il nostro invito a tutti i partiti e ai movimenti che presenteranno candidature nella imminente consultazione elettorale, è quello di applicare con puntualità e rigore le norme esistenti e di onorare l'adesione data al codice di autoregolamentazione suggerito dalla commissione Antimafia». La domenica elettorale è il 5 aprile 1992. Nella settimana del voto (esattamente com'è succeduto per la Commissione Bindi), il 31 marzo, l'Antimafia pubblica la lista dei nomi «che dimostrano come da parte della maggioranza dei partiti non sia stata data un' interpretazione rigorosa dell' impegno a non presentare candidati che pur non essendo stati rinviati a giudizio hanno pendenze giudiziarie in corso». I nomi sono 33: 8 per il Msi, 6 per il Psdi, 4 per Psi, Pli e Lega, uno per Dc, Rifondazione Comunista, Pri, Verdi, Verdi Federalisti, Lega delle Leghe e Lista Civica di Taranto (ovvero Giancarlo Cito). Il primo in elenco è il missino Massimo Abbateangelo, condannato in primo grado all'ergastolo per banda armata, l'ultimo è il liberale Gianluigi Zelli, condannato per ricettazione e per detenzione e spaccio di droga. Il giorno dopo infuriano le polemiche. «L'Antimafia ha svolto un lavoro fazioso utilizzato da 'giornali e telegiornali per gettare in abbondanza fango sul Msi-Dn, presenteremo querele per diffamazione», reagisce il portavoce del partito, Francesco Storace. Un paio di nomi vengono depennati perché non rientrano nei requisiti indicati. E l'Antimafia viene lasciata sola. «La decisione di procedere alla pubblicazione prima delle elezioni era stata assunta dalla commissione in una seduta a gennaio, era universalmente nota e noi eravamo tenuti a rispettarla. Per la pubblicazione dei nomi ci siamo attenuti a un criterio assai rigoroso, facendo riferimento soltanto a persone condannate o rinviate a giudizio. Non possiamo esercitare noi una qualsiasi valutazione sull'entità dei reati per i quali erano state emanate condanne o decisi rinvii a giudizio», si difende Chiaromonte usando quasi le stesse parole utilizzate oggi dalla Bindi. È il 2 aprile 1992. Chiaromonte morirà un anno dopo, il 7 aprile 1993. La legislatura che comincia nell'indifferenza dei partiti per l'inquinamento delle liste eleggerà il Parlamento di Tangentopoli e delle stragi di mafia, Falcone, Borsellino, le bombe del 1993, i parlamentari siciliani rinchiusi a Roma con la paura di essere uccisi. De Luca era un comunista campano, immaginiamo devoto di Chiaromonte. Oggi il Pd lo applaude e isola Rosy Bindi, nessuno ha sentito il bisogno di chiederle scusa. E forse stasera in commissione Antimafia ci sarà un inedito processo, con la presidente nelle vesti dell'imputata e un pezzo di Pd sui banchi dell'accusa. Eppure, a distanza di anni, è lecito chiedersi chi è in continuità con la storia politica della sinistra e con quella istituzionale dell'Antimafia che fu di Gerardo Chiaromonte: Rosy Bindi o Vincenzo De Luca?

Una Repubblica fondata sulla trattativa. Gli accordi tra Stato e criminalità vanno avanti da due secoli. Così i padrini si sono visti riconoscere la loro forza. Che ora si è spostata nell’economia, scrive Giancarlo De Cataldo su "L'Espresso". Ci sono in molti paesi delle fratellanze, specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di proteggerlo, ora di conquistarlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo è venuto a convenzione coi rei”. Così scriveva, nel 1838, don Pietro Ulloa, Procuratore borbonico di Trapani. E Leonardo Sciascia poteva annotare, sconsolato, oltre cent’anni dopo: “Leggeremo mai negli archivi della commissione parlamentare antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata come questa?”. Se il popolo sia “venuto a convenzione coi rei”, e per mezzo di alcuni dei suoi più alti rappresentanti, lo stabiliranno i giudici di Palermo, chiamati ad accertare se vi fu, fra il ’92 e il ’93, una “trattativa” fra mafia e Stato, e se furono commessi dei reati. Ma la verità giudiziaria è un conto, quella storica un altro, e non sempre le due verità coincidono. I giudici sono obbligati ad attenersi agli atti, gli storici non conoscono questo limite. La Storia è una grande risorsa, non foss’altro perché quasi sempre, per comprendere il presente, è doveroso guardare al passato. E il passato - a partire da don Pietro Ulloa - ci insegna che, sin dagli albori dello Stato unitario fra settori dei pubblici poteri e organizzazioni criminali si instaurarono accordi occulti e inconfessabili. “Patti scellerati”, li definisce lo storico francese Jacques de Saint Victor. Non ne furono immuni i sovrani assolutisti prima dell’Unità, i governanti che succedettero a Cavour, appartenessero alla Destra o alla Sinistra storiche, e nemmeno qualche rivoluzionario. Si avvalsero della “collaborazione” delle mafie coloro che intendevano mantenere l’ordine e quanti auspicavano il cambiamento. E sempre, costantemente, si potrebbe dire ossessivamente, costoro furono combattuti, troppo spesso senza successo, da leali servitori dello Stato che, oltre a fronteggiare il nemico dichiarato, dovevano guardarsi le spalle da quello interno. Il termine mafia compare per la prima volta in un documento ufficiale nella relazione redatta nel 1865 dal prefetto (orvietano) di Palermo, Filippo Antonio Gualterio. “I liberali del 1848, i Borboni nella restaurazione, i garibaldini nel 1860, ebbero tutti la necessità medesima, si macchiarono tutti della istessa colpa”. Si legarono alla trista associazione malandrinesca, determinando un legame indissolubile fra mafia e potere (o contro-potere) politico. Gualterio lascia intendere che, infine, le cose dovranno cambiare, grazie al nuovo governo: del quale egli, ovviamente, fa parte. Per Gualterio, “mafioso” è chi si oppone al nuovo ordine, sia egli garibaldino, repubblicano, nostalgico dei Borboni o autenticamente criminale. E le sue parole, per un verso nobilmente allarmate, per un altro ambigue, sono l’ennesima rappresentazione di un’altra costante del rapporto fra mafie e poteri in Italia: ciò che potremmo definire “il buon uso della mafia”. È una partita che Gualterio ha giocato in prima persona quand’era patriota, con la stessa spregiudicatezza di tutti gli altri attori. Le bande di bonache e picciotti che scortano Garibaldi nella trionfale impresa dei Mille sono, a un tempo, squadre a protezione dei latifondisti improvvisamente convertiti al nuovo che avanza, aggregazioni para-mafiose ma anche espressione di un sogno sociale di riscatto, quasi rivoluzionario, che presto le fucilazioni sommarie di Nino Bixio e dei piemontesi trasformeranno in incubo. Negli stessi giorni, a Napoli, mentre il regime borbonico si sfarina, il ministro liberale Liborio Romano promuove la camorra a Guardia Civica: per evitare disordini, dirà lui, e c’è da credergli. Ma sta di fatto che Garibaldi, a Napoli, è accolto da una folla festante in cui si mescolano allegramente democratici e tagliagole. La mossa di Romano sancisce, ancora una volta, il ruolo “politico” del crimine organizzato e la necessità, da parte dei pubblici poteri, di trovare un accordo. A proposito dei rapporti fra politica e mafie nell’Italia postunitaria, c’è un paragrafo impressionante nella “Storia della Mafia” di Salvatore Lupo: “Il partito governativo non escludeva il delitto politico e il ricorso ad una sorta di strategia della tensione (...) con la finalità di favorire la divisione della sinistra criminalizzandone l’ala estrema e conquistando a una collaborazione subalterna il gruppo che privilegiava la difesa delle conquiste risorgimentali dai pericoli reazionari”. E per conseguire questo obbiettivo si agita lo spettro di congiure inesistenti, oppure se ne impiantano di autentiche grazie al ricorso a spregiudicati agenti provocatori. Si dà per scontato che, a fini politici, ci si possa avvalere di metodi criminali in accordo con un sistema che di per sé è già criminale. Sembra delinearsi, insomma, un copione che ricorrerà più volte: con i pubblici poteri che cambiano e le mafie che restano sempre se stesse. Viene da pensare alla repressione del movimento dei Fasci a fine Ottocento, alla collaborazione dei mafiosi allo sbarco anglo-americano del ’43, agli ancora oscuri risvolti della Strage di Portella della Ginestra del 1947, all’esecuzione taroccata del bandito Giuliano, alle morti per avvelenamento di Pisciotta e Sindona, all’ascesa cruenta dei Corleonesi, ai delitti eccellenti degli anni Ottanta, giù giù sino alle stragi del ’92-’93. Tutti esempi di “buon uso della mafia” o ci si può spingere oltre, e usarla, questa benedetta parola: trattativa? Nessuno, pure, la pronuncia mai in sede ufficiale. Ma qualcosa di simile, grazie a un evidente sinonimo, “transazione”, pure affiora, a scavare nel passato. È il 1875 quando il deputato (ex-magistrato) calabrese Diego Tajani, durante un infocato dibattito parlamentare, così definisce la situazione dell’ordine pubblico in Sicilia: “Là il reato non è che una transazione continua, si fa il biglietto di ricatto e si dice: potrei bruciare le vostre messi, le vostre vigne, non le brucio ma datemi un tanto che corrisponda alle vostre sostanze. Si sequestra e si fa lo stesso: non vi uccido, ma datemi un tanto e voi resterete incolume. Si vedono dei capoccia della mafia che si mettono al centro di taluna proprietà e vi dicono: vi garantisco che furti non ne avverranno, ma datemi un tanto per cento dei vostri raccolti”. Transazione: come quella fra prefetti e comandanti militari e banditi, ai quali, talora, si concedeva un salvacondotto perché ripulissero il territorio. Da altri banditi. Transazione. Con le mafie si possono fare affari, si può servirsene per l’ordine (o, alternativamente, per il disordine), e la cosa è sotto gli occhi di tutti. Impensabile che i vecchi malandrini non si siano resi conto, col tempo, di essere assurti, essi stessi, da compagnia di raccogliticci accoliti a “forza politica”. E la stessa sensazione di essere “potere”, o comunque di giocare un ruolo determinante negli assetti strategici della nazione, magari a colpi di esplosivo, traspare da più di un verbale degli odierni collaboratori di giustizia. Da qualche anno a questa parte, le mafie sparano di meno, e quindi, verrebbe da dire, sono più forti. L’accumulazione del capitale che garantiscono i proventi delle attività illecite è un fattore di potente condizionamento del gioco economico. Le “transazioni” sembrano essersi spostate dal piano dei rapporti con gli Stati a quello dei mercati finanziari. Il governatore della Banca d’Italia ha denunciato l’enorme danno arrecato dal fattore criminale agli investimenti stranieri in Italia. Ma le mafie sono da tempo un fenomeno transnazionale, globalizzate più rapidamente, e con esiti spesso più soddisfacenti, dell’economia “legale”. Bisognerebbe girare il monito a quei santuari del denaro che periodicamente patteggiano ingenti penali per aver chiuso un occhio (e a volte tutti e due) sui movimenti sospetti di capitali. A quanto pare, non disdegnano di “venire a convenzione coi rei”. Le mafie sono partite dalle campagne o dalle periferie, ma hanno risalito il mondo, scalandolo con estrema facilità. Eppure, restano sempre mafie. Quelle descritte da don Pietro Ulloa nel lontano 1838. È ancora Sciascia a rivendicare l’ultima parola: “Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati. Questi elementi si possono riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione dell’occulto potere di un’associazione, che promuove il bene dei propri associati contro il bene dell’intero organismo sociale, nel potere statale”.

Onestà (e non solo) la risposta politica contro la corruzione. Dopo tante inchieste sulle malefatte degli amministratori, bisogna chiedersi perché nulla sia cambiato: come diceva Croce, non basta invocare le virtù personali, occorrono strategie adeguate, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. «Di nuovo?». È questa la domanda che, di fronte agli sviluppi giudiziari dell’inchiesta «Mafia capitale», molti cittadini si sono fatti, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile, ma da superare: occorre chiedersi se non c’è stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui, per tanti anni, abbiamo evocato la questione morale. L’appello all’onestà, tante volte ripetuto, non basta infatti di per sé a risolvere i mali della politica: e il sentimento «anti casta», pur animato da giustificato sdegno, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi alla magistratura. Così non è. E anche se la qualità del ceto dirigente, locale e nazionale, è evidentemente scadente (quanti sono coinvolti nelle inchieste sembrano spinti solo da miserabili aspirazioni di arricchimento), l’onestà personale non è, né sarà sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica. Dopo vent’anni di inchieste giudiziarie sulle malefatte dei politici e di denunce della corruzione formulate anche in sedi autorevolissime (dai più alti scranni della Repubblica al soglio di Pietro), ancora a questo punto siamo? Questo è ciò che mestamente devono essersi domandati tanti italiani, sempre meno fiduciosi circa la possibilità che si possa quanto meno ridurre l’intreccio tra politica e malaffare. È uno stato d’animo comprensibile ma che andrebbe superato, per cominciare a chiedersi se non ci sia stato anche qualcosa di sbagliato nel modo in cui per tanti anni abbiamo evocato la «questione morale». Una parte del mondo politico e dell’informazione, prevalentemente orientata a sinistra, lo ha fatto, ad esempio, accreditando l’idea che ad essere disonesti fossero gli «altri», i politici - e dietro di loro, si lasciava intendere, gli elettori - di centrodestra. Era l’idea di una frattura antropologica tra destra e sinistra che, prima ancora di Mafia Capitale, altri scandali bipartisan si sono incaricati di dimostrare infondata; ma è tuttavia un’idea cui una parte del Paese ha creduto a lungo, evitando anche per questo di riflettere seriamente sulle ragioni per cui in Italia guardiamo spesso con indulgenza e comprensione a certi comportamenti illegali. Osservò una volta Benedetto Croce che la «petulante richiesta» di onestà nella vita politica è l’«ideale che canta nell’anima di tutti gli imbecilli». Personalmente onestissimo, Croce non voleva certo fare l’apologia della disonestà in politica ma segnalare come l’appello all’onestà sia di per sé insufficiente a risolvere i mali della politica, che hanno anzitutto bisogno di rimedi - appunto - politici. Invece - ecco un altro errore di questi decenni - il sentimento «anticasta», pur animato da sdegno giustificatissimo per i privilegi e le malefatte del ceto politico, ha diffuso nel Paese l’idea che della politica e dei partiti si possa fare a meno, per affidarsi ai controlli e alle inchieste della magistratura, magari con un inasprimento delle pene cui pochi peraltro riconoscono una vera capacità dissuasiva. Le notizie che si vanno pubblicando sull’inchiesta di Mafia Capitale mostrano, al di là di quelle che saranno poi le risultanze finali dei processi e al di là della congruità (per molti dubbia) del riferimento alla mafia, la qualità scadente del ceto politico locale, romano e non solo. Come lasciano trasparire anche altre inchieste di questi anni, si tratta spesso di un personale politico (quasi esclusivamente maschile: sarà un caso?) privo di ogni aspirazione od obiettivo di natura politica, come non era invece nella Prima Repubblica, che avrà avuto molti difetti ma non questo. Quanti sono coinvolti nelle inchieste di cui si occupano i giornali in questi giorni sembrano infatti spinti in via esclusiva da miserabili aspirazioni di arricchimento personale: se non è (solo) il denaro, sono magari le assunzioni di parenti e amici (chi ne chiede due, chi tre, chi dieci). Il fatto è che un tempo l’accesso alle carriere politiche locali operava dentro un quadro di relazioni e controlli nazionali che ormai non esistono più o si sono indeboliti notevolmente. Tranne evidentemente nel caso delle primarie per il Pd, che però hanno spesso finito con l’esaltare proprio il potere e l’influenza dei «capibastone» (il termine era usato tre mesi fa da Fabrizio Barca in quella sua diagnosi sul Pd romano «pericoloso e dannoso» di cui forse i vertici del Nazareno avevano sottovalutato la drammaticità). Se le cose stanno così, i partiti - e in primo luogo, il principale partito di governo - non possono limitarsi alla (ovvia) esortazione affinché la giustizia faccia il suo corso, ma dovrebbero prendere delle decisioni politiche adeguate. Il Pd, in particolare, dovrebbe rendersi conto di quanto sia poco giustificabile agli occhi dell’opinione pubblica continuare a sostenere il sindaco Marino solo perché non personalmente coinvolto nell’inchiesta giudiziaria. Non c’è bisogno di citare ancora Croce per osservare che l’onestà personale non è sufficiente a risolvere un problema di grave inadeguatezza politica.

Nel paese dove è inutile essere onesti. La politica è da sempre incapace di fare pulizia prima che arrivino le inchieste giudiziarie. Così si arriva alle liste compilate con criteri discutibili, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. Elezioni all'insegna del “in fondo sapevamo già tutto”, le Regionali di domenica scorsa. Certo, banalizzare l’esito del voto talvolta può essere un’operazione scontata, ma non in questo caso, in cui le premesse dicevano già molto. Ma non le premesse dei sondaggi, non i dibattiti sui giornali, non i comizi da talk show. Bensì gli umori in strada, i discorsi tra le persone, la delusione da bar. Eh sì, perché ormai le “chiacchiere da bar” è in questo che si sono mutate, in “delusione da bar”. Alla politica ormai si applica la stessa “sindrome Trapattoni” che il nostro paese conosce per il calcio: tutti allenatori e tutti delusi dalla classe politica. Abbiamo letto ancora una volta titoli come “Il vero vincitore è l’astensionismo” che mette in luce quel 52% di affluenza al voto che ormai non scandalizza più. E se in Italia la politica, tutta, non cambia rotta - ma evidentemente non lo farà - è un dato destinato a decrescere soprattutto se alle urne si è chiamati in una domenica di sole, la prima dopo freddo e pioggia. Ma cosa significa cambiare rotta? Significa forse non candidare “impresentabili”? Significa forse smetterla di assecondare le pulsioni più ancestrali come la difesa del proprio nido dallo straniero aggressivo ma soprattutto diverso? Significa smetterla di credere che determinate regole valgano per gli altri e non per noi? Significa pesare ogni parola, ogni esternazione pubblica, e farlo sul serio? Significa iniziare a dialogare con la società civile e farlo non mettendosi alla lavagna, gessetto in mano, a dare lezioni? Tutto questo, ma significa anche non dare per morta una forza politica quando non lo è: per 20 anni in Italia abbiamo visto vincere il berlusconismo senza davvero riuscire a spiegare al paese come potesse accadere. Il voto di scambio non può essere un alibi che la parte “buona” della società, dell’informazione e della politica trova ogni volta per giustificare le proprie incapacità. La vittoria di Giovanni Toti in Liguria dimostra quanto abbiamo visto ormai talmente tante volte da poterlo considerare in fondo un copione già scritto: una forza politica data per morta può farcela contro una forza politica data per viva, ma divisa. Ed ecco che Berlusconi è stato ancora una volta in grado di unire, assecondando utili convenienze come ai bei tempi. Tutti quanti a parole sono contro una fantomatica “Sinistra” che dal 1989 esiste solo nei discorsi e nelle fantasie del satrapo di Arcore. Ed ecco il PD, ancora una volta, ha consapevolmente perso in Veneto e la Liguria e ha vinto in Campania chiudendo tutti e due gli occhi sulla candidatura di De Luca. Ed ecco il M5S, che per la prima volta ha fatto campagna elettorale senza gli eccessi verbali di Beppe Grillo, ha recuperato parte del voto moderato e si è attestata come terza forza politica del Paese. A Napoli con un’unica lista ha sfidato due coalizioni ottenendo risultati encomiabili con 20 mila euro di campagna elettorale provenienti da donazioni private. Come accade che un movimento dato per defunto risorga dalle proprie ceneri, o meglio, dalle ceneri con cui lo avevano erroneamente ricoperto? Il M5S è nato come movimento di protesta e di cambiamento. Non essendo ancora mutato nulla, nonostante la rottamazione, resta un catalizzatore di consenso che si nutre di sfiducia verso tutto il resto. È l’unica forza politica ad aver mantenuto fermo un punto essenziale: candidare solo chi non abbia pendenze giudiziarie. Per un garantista come me non è ammissibile pensare che se sono sotto processo perché il mio cane avrebbe morso un passante e ancora non sono stato né assolto né condannato, questo possa rappresentare motivo di incandidabilità. Ma l’umore in Italia è questo: “Se hai problemi con la giustizia, senza entrare nel merito, noi non ti vogliamo a rappresentarci. Punto”. Alla fine si è diventati più realisti del re, a causa dell’incapacità che la politica italiana ha da sempre di fare pulizia prima che arrivino inchieste giudiziarie o Commissioni parlamentari antimafia. Perché alla fine non basta più il buon senso, ma occorre, per catalizzare fiducia, ricorrere a metodi estremi. E ormai anche io, da osservatore, non so davvero se temere di più la retorica dell’onestà o che si realizzi quanto disse Corrado Alvaro: «La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile».

La finanza, gli impresentabili e i parrucconi, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questo paese di parrucconi è veramente una schifezza. Parrucconi buoni solo a declamare principi favolosi di onestà, correttezza ed eticità ci sono sempre stati per carità. Il problema è che abbiamo sempre pensato che sotto queste profumate parrucche, si celassero solo teste di rapa. Alzi la mano chi è a favore della disonestà? Faccia un passo avanti chi è favore della corruzione? Nessuno è ovvio. Il nostro parruccone moderno fa di più, questiona i quarti di nobiltà. Tipo alla Caccia. Vabbè tutti sapete della genialata democratica della commissione antimafia, guidata da Rosy Bindi. Non è pietanza da Zuppa, ma nel Giornale se ne parla. Eccome. Mentre la Bindi e soci si incipriavano la parrucca, anzi il parruchino, pensando a chi potesse entrare nella lista degli impresentabili, a Roma si teneva l’assemblea dell’Enel. Una delle più importanti società italiane e tra i leader mondiali dell’energia elettrica. Cosa decidevano gli azionisti dell’Enel? I soliti conti e ricchi dividendi. Ma anche (brevina sui giornali) di allentare la cosiddetta clausola di onorabilità dei propri amministratori. In sostanza, fino a ieri, se un membro del cda dell’Enel fosse stato raggiunto da un avviso di garanzia e poi rinviato a giudizio, si sarebbe dovuto dimettere subito dalla società.. Ebbene ieri l’assemblea, quasi al 100 per cento, approvava l’allentamento della norma: non basta il semplice rinvio a giudizio, ma è necessaria almeno una condanna in primo grado. Tutto bene quel che finisce bene dunque. Mica tanto. E così ritorniamo alle parrucche. Questa assurda clausola societaria non è stata introdotta ai tempi del fascismo, ma l’anno scorso dal ministro del Tesoro di Renzi. Gli uomini di Padoan, in rappresentanza appunto delle quote detenute in Enel, Eni, Finmeccanica e Terna, si erano presentati nella primavera del 2014 nelle assemblee delle società partecipate proponendo l’introduzione negli statuti della tagliola. Tutte le più importanti società avevano poi bocciato la proposta del Tesoro in assemblea. All’Enel ciò non avvenne, anche perché in quell’assemblea c’era rappresentato solo il 52% del capitale e il Tesoro da solo ne deteneva più del 30. L’enel fu l’unica dunque a diventare il fenomeno della legalità. La baggianata era talmente grande che i fondi internazionali, quelli che una certa pubblicistica avrebbe voluto a favore di questa norma statutaria, votarono in maggioranza contro alle volonta etiche del Tesoro. Chiunque abbia parlato con questi investitori sa che sono più preoccupati del funzionamento della giustizia italiana (che non nega un rinvio a giudizio a nessuno) che dell’onorabilità dei manager delle grandi società quotate. L’Enel peraltro ha poi applicato questa norma ad un suo consigliere rinviato a giudizio (Salvatore Mancuso) che con il nuovo statuto approvato ieri non avrebbe dovuto fare alcun passo indietro. Ora infatti serve come minimo una condanna. Qual è la morale di questa storia? Da parrucconi. Perché il tesoro del governo Renzi l’anno scorso fa il giustizialista con le sue partecipate (colpo che gli riesce solo all’Enel dove i fondi internazionali non riescono ad opporsi) e dopo solo un anno fa marcia indietro? Non che la norma fosse meno assurda nel 2014: da Scaroni, all’epoca all’Eni, ai grandi gestori dei fondi, tutti avevano spiegato la pericolosità della norma a Renzi&co. Eppure gli uomini di Padoan continuarono per la loro strada, per poi cambiarla, alzando la manina in assemblea, un paio di giorni fa. Ritornando al principio. Viene da pensare che il Tesoro nel 2014 si sia comportato come la Commissione Bindi (quella che si dovrebbe occupare di mafia) si comporta oggi. La stessa commissione che dalla parti di Renzi oggi viene così fortemente criticata. E vai con il cambio di parrucche. Olè.

Il rapporto che fa tremare Angela Merkel: anche i tedeschi imbrogliano l'Europa, scrive Libero Quotidiano”. Non siamo i soli nella lista dei Paesi europei in cui si è registrato e perseguito il maggior numero di frodi a danno dei fondi europei. Con noi ci sono anche Bulgaria, Spagna, Belgio e, sorpresa, la Germania. E' quanto emerge dall'ultimo rapporto dell'Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) presentato a Bruxelles, dal direttore, Giovanni Kessler. "Nel 2014 - si legge nel rapporto - si sono raggiunti risultati eccellenti nella lotta contro le frodi nell'Unione: un anno record con il numero di raccomandazioni più alto, ben 1417, dalla sua creazione. L'Olaf avvia, in media, il 60% di indagini in più rispetto al 2012. Solo nel 2014 ha raccomandato alle autorità nazionali della Ue il recupero di ben 901 milioni di euro, fondi che dovrebbero essere progressivamente restituiti al bilancio europeo, contribuendo a finanziare altri progetti". Complimenti da Kessler alla nostra Guardia di Finanza: "La nostra struttura ha con la GdF una cooperazione eccellente, ormai tradizionale, che ha portato ottimi risultati. Un rapporto molto forte e proficuo che spiega anche i tanti casi di indagini. Con loro s'è stabilito un circolo virtuoso di scambi di informazioni che purtroppo non troviamo in altri Paesi". Dall'Italia sono arrivate 42 segnalazioni di frode. Ma l'Oscar delle truffe spetta alla Romania, con 79 casi. In classifica Bulgaria (59), Spagna (56), Belgio e Polonia (52), Germania (35), Slovacchia (12). In Estonia e in Svezia non è stata invece riscontrata alcuna irregolarità è stata riscontrata. 

E chi dovrebbero essere i presentabili?

"Me lo merito un Rolex?". Ancora: “Vado a vedere un po’ di Rolex per Antonia”. E tre: “Vuoi prendere il Daytona?” E quattro: “Ma un orologio, ti prego, prendilo tu”. E cinque: “Un Nautilus mi piace molto di più”. E sei: “Mamma mia che bello, segna le fasi lunari, il quadrante è blu, vero? Sono eccitato”. E sette: “Mi scoccia darle il Royal Oak (un Piguet ndr)”. L’amministratore delegato di Rolex non si affligga, ma il migliore testimonial della portabilità, dell’eccellenza e della qualità dell’investimento da polso si chiama Antonio Lollo, 46 anni, nato e residente a Latina, capelli lunghi, dall’aspetto ambivalente: preso da destra assomiglia al cantante Gianluca Grignani, solo un po’ più pienotto, da sinistra è goccia d’acqua di Marzullo, ma meno crepuscolare. Sportivo e perennemente coperto da una selezione di aromi profumati, scia chimica che avanzava prima di lui e segnava il suo passo. L’apparenza inganna però. Il dottor Lollo fino al 22 marzo scorso è stato giudice della sezione fallimentare del Tribunale di Latina. Uomo di diritto ma, come vedremo, soprattutto di rovescio. “Qua abbiamo mosso un milione di euro, tra un cazzo e un altro”. Tra un orologio e un altro, un braccialetto e un altro, un viaggetto e un altro, un fallimento e un altro, Lollo e il suo complice, il commercialista Marco Viola, hanno raccolto un po’ di quattrini. E hanno bisogno di spenderli: “A me frega solo dei soldi, e mia moglie è della partita. Non mi sento affatto sporco”. Le cronache nazionali si sono occupate con superbia di questo straordinario scandalo dell’agro pontino, concedendogli pochi onori. Invece hanno sbagliato. Nell’agro pontino il caso fatto giustamente registrare colonne umane alle edicole: “Abbiamo fatto un balzo nelle vendite”, comunica entusiasta il direttore di Latina Oggi. E infatti sembrano cronache marziane. Non già per la tipologia del reato commesso, ma per le personalità coinvolte e soprattutto per i dialoghi che registrano come al fondo non ci sia fondo. Mai. Il giudice arrestato, sua moglie arrestata, sua suocera, già capo di gabinetto della Questura e presidente provinciale del comitato Unicef (bambini di tutto il mondo, attenti al lupo!) arrestata. Deve giustificare la presenza di 360 mila euro in contanti nella cassetta di sicurezza. È stupefacente la narrazione che il giudice fa della sua opera di delinquenza. E l’atteggiamento ossessivo verso l’acquisto degli orologi. Lui si difende: “Pensi che se io avessi potuto mi andavo a comprare orologi?”. Parla col complice e spiega che proprio non sa cosa combinare con i soldi che acchiappa, imbosca, inguatta. Ha già la proprietà di case e auto e non può derogare oltre nel codice etico. Quindi: orologi! Bisogna arraffare presto e bene. Lui è il capobanda: “Il leader è il leader, la responsabilità è mia… loro devono fa quel che dico io… con i colleghi me la vedo io”. Il giudice si fa gangster e la legge diviene trappola per topi, il tribunale luogo dove si scuciono soldi e si scuoiano anime. Un trattato perfetto di antropologia criminale, un mix di gangsterismo di provincia, un unico sacro fuoco: li sordi!. “Ho rischiato il culo fino a mò, che faccio me ne vado mò che devo raccoglie? Rischio fino alla fine, no?”. Lollo intuiva di essere pedinato eppure insisteva nell’agire da malfattore. “Ta ta ta. E pagano!”. Commovente il colloquio tra moglie e marito. Lei: “Va bene così, fatti dà dodicimila euro e basta, su! Non insiste, te rifai dopo”. Lui ascolta e decide di accogliere per il caso in esame, piuttosto modesto nella sua entità economica, il consiglio alla prudenza: solo dodicimila euro questa volta. Una tangentuzza piccola così. Cosa avesse in testa questo giudice imbizzarrito sarà materia da psicologi del crimine e anche tema di riflessione del Csm che purtroppo però non si occuperà del caso perchè l’arrestato ha deciso di dimettersi dalla magistratura. Certo lui è un dandy. Ama la bella, anzi bellissima vita. I viaggi. “Volevamo andare a maggio a Londra, a giugno c’ho New York, a settembre Sardegna”. E ama soprattutto gli orologi: i poliziotti lo pedinano fino a Roma, in via Cavour dove abitualmente si approvvigiona. Rastrella ogni brand d’altura, memore che un Rolex vale nel tempo “è moneta contante”. Può stare al polso o in una cassetta di sicurezza. Chiuso e nascosto o lucente ed esibito. Vale soldi, non perde peso. Si distingue tra gli altri. E conserva intatto il suo augusto segno di ricchezza. Certo, all’uomo poi viene di fare “un tetris con orecchini e anello, o coi rubini. Mi piacerebbe l’idea di un anello, di un diamante. E bracciali”. Oro che luccica per la sua amata consorte. Del resto, “mica ci siamo comprati la villa all’Eur?”. Già, si sono tenuti bassi. Questi soldi sono frutto dell’ingegno, raccolti tra i fallimenti delle società che questa crisi ha fatto lievitare. Quindi solo orologi, meravigliosi orologi. Con le fasi lunari e senza, col quadrante blu o bianco, tondi o rettangolari. “Me lo merito un Rolex?”. da: Il Fatto Quotidiano 13 maggio 2015.

Altri giudici sapevano del sistema di tangenti messo in piedi da Antonio Lollo nella sezione fallimentare del Tribunale di Latina. A confermarlo lo stesso ex magistrato durante uno dei tre interrogatori ai quali è stato sottoposto durante la sua detenzione tra il carcere romano di Rebibbia e l’Ospedale Pertini. Lollo avrebbe vuotato il sacco e fatto nomi e cognomi. Ma i verbali sono pieni di omissis e come al solito nient’altro è trapelato né dagli inquirenti né dalla difesa. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi!

Pino Maniaci: “Vi spiego la mafia dell’antimafia….”, scrive Laura Bercioux per "Il sud online" il 28 maggio 2015. Laura Bercioux, conduttrice e giornalista, si occupa di cronaca, di ambiente con un occhio speciale al sociale e allo spettacolo. Ha collaborato con Telenorba, Stream Tele+Inn, Rai Tre, Rai Uno. Ha lavorato a reportage televisivi per Rai Uno in "Ladri di Vento"- Petrolio, inviata per la trasmissione di inchiesta di Telenorba "Patto per Il Sud", ha condotto la trasmissione tv sociale per Telelibera 63 "SoS Campania", ha condotto per Rai Tre con Fernando Balestra e Tosca D'Aquino "Cocktail" e "Strano ma falso" di Fabrizio Mangoni, Francesco Durante. Collabora anche per La Voce di New York. Nella Giornata della Legalità, l’inchiesta di Pino Maniaci, giornalista siciliano di Tele Jato sui patrimoni sequestrati e gli amministratori giudiziari, rimbalza sulle cronache dei giornali. Noi avevamo già intervistato Maniaci sulla “Mafia dell’Antimafia” come lui stesso definisce gli scandali della gestione dei beni sequestrati. Dove indaga Pino? Pino Maniaci porta alla luce il malaffare della gestione dei beni sequestrati (a Palermo sono gestiti quasi il 50% dei beni sequestrati in tutta Italia): società, aziende, terreni, capitali immensi affidati a un pugno di prescelti amministratori giudiziari, in barba ai 4000 iscritti all’albo che puntualmente si vedono esclusi perché i 20 fortunati, e spesso in conflitto di interesse, hanno un’esclusiva fuori legge. Come succede a Seminara Cappellano, amministratore giudiziario di beni sequestrati, che acquista quote azionarie dei beni di Massimo Ciancimino in Romania o, da gestore di albero gestisce alberghi sequestrati. Maniaci descrive la storia nei dettagli, Seminara è sotto processo ma continua a gestire questi beni. L’inchiesta giornalistica parte da un bene sequestrato che è affidato da 7 anni dal Tribunale Sezione di Prevenzione sui patrimoni sequestrati, secondo la legge Pio La Torre. Il sequestro deve stabilire se la provenienza degli affari è illecita o meno, ci vogliono 3 anni di giudizio e troppi per capire se il proprietario dei beni ha a che fare con la mafia. Maniaci è sotto protezione dal 2008 per le sue inchieste e dichiara, qualche giorno fa, a resapublica.it: “Ci sono casi di beni con anche 16 anni di amministrazione giudiziaria. I danni che gli amministratori procurano al bene che amministrano a volte sono devastanti e i loro compensi milionari. L’avvocato Cappellano Seminara, in un solo incarico ha guadagnato 7 Milioni di euro”. La mafia dell’antimafia, dunque, scatena polemiche dopo il sevizio andato in onda alle Iene e,  distanza di tre giorni dal servizio televisivo, i servizi segreti  avvertono che la d.ssa Saguto è “a rischio attentato per la sua attività”. Ci sono troppi dubbi e punti di domanda, sentite cosa dichiara Pino Maniaci a resapubblica.it: “Uno dei casi più eclatanti è quello del patrimonio dei Rappa sottoposto a sequestro. Il patrimonio era stato sequestrato a Ciccio Rappa, ma da allora a adesso sono trascorsi decenni e ancora non si sa se e quale parte dell’immenso patrimonio che si stima in 800 milioni di euro, sia da confiscare. Nel frattempo, scopriamo che la d.ssa Saguto ha nominato amministratore giudiziario un giovane avvocato, Walter Virga, che è figlio di Vincenzo Virga, giudice componente del Csm”. Pino parla di un giro devastante di comportamenti al limite della legalità negli affidamenti o deontologicamente poco corretti. “Finora non è arrivata nessuna querela da parte di nessuno – racconta Maniaci -, nonostante le gravi accuse alla Saguto e al marito che lavora nello studio dell’avvocato Cappellano Seminara, cioè l’amministratore giudiziario che amministra un numero considerevole di beni posti sotto sequestro. Al Csm c’era una richiesta di un provvedimento disciplinare nei confronti della Saguto, riguardo proprio alle procedure di nomina dell’amministratore giudiziario di una discarica in Romania, che appartiene al patrimonio di Massimo Ciancimino, e affidata al solito Cappellano Seminara. Ma il giudice Vincenzo Virga, componente del Csm e responsabile dei provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati, archivia la richiesta e 15 giorni dopo il figlio diventata amministratore giudiziario dell’impero dei Rappa. A me pare un comportamento deontologicamente poco corretto”. La d.ssa Saguto è adesso nel mirino della ritorsione mafiosa e Pino manifesta la sua solidarietà ma anche le sue perplessità per una nota dei servizi pubblicata 3 giorni dopo il servizio delle Iene. “A me – dice Maniaci – l’accostamento tra la Saguto e Falcone sembra deprecabile. Noi puntiamo il dito sulle attività della sezione misure di Prevenzione del Tribunale diretto dalla Saguto da un pò di tempo ma nessuno ci ha mai querelato, mi chiedo perché. Ci sono tantissime associazioni che hanno scoperto l’antimafia per guadagnare e fare soldi, e l’antimafia dovrebbe fare parecchia introspezione dentro se stessa. Io posso dire che l’emittente Telejato rischia sempre di chiudere per mancanza di fondi. La nostra antimafia è gratis. Io vado in giro per l’Italia senza prendere un euro. Anzi, io non faccio antimafia. Io considero un errore avere istituzionalizzato l’antimafia. Con il Capo dello Stato antimafia, il Presidente del Senato antimafia, il politico antimafia. A me da fastidio questa distinzione, perché l’antimafia e il rispetto della legalità dovrebbero essere nel cuore di ogni cittadino onesto. A volte la legalità è usata a proprio uso e consumo. Noi facciamo un lavoro giornalistico. Denunciamo l’illegalità secondo la lezione di Pippo Fava. Una buona informazione incide, corregge diventa determinante per un territorio. Diventa punto di riferimento per chi non ha voce. Senza infingimenti politici e distinzioni tra destra e sinistra. La merda può essere a destra ma a sinistra non si scherza nemmeno e va pestata tutta”. Maniaci non si arrende e continua a battagliare, a raccontare, i magistrati gli sono accanto e dice “C’è una sottoscrizione su change.org, che ha già raggiunto 40.000 firme. Abbiamo chiesto al Csm di essere ascoltati in merito ai comportamenti deontologici della d.ssa Saguto ma nessuno vuole ascoltare e nessuno ci querela. Quello che noi abbiamo detto è soggetto a un grave reato, vilipendio a corpo dello Stato. É previsto anche l’arresto immediato per questo. Ma io sono ancora a piede libero. Io sono stato ascoltato dai magistrati di Caltanissetta, perché c’è una loro inchiesta sulle misure di prevenzione del Tribunale di Palermo che non ha ancora prodotto risultati. Mi chiedo che fine abbia fatto quell’inchiesta”. Nella Giornata di Falcone, se ne parla tra i colleghi, fuori dall’Aula Bunker di questa brutta storia, sembra che una certa “antimafia” si beffi di quei morti, di quelle persone che, per combatterla ci hanno rimesso la vita. Intervista a Fabio Nuccio – Giornalista Mediaset.

Anche se sembra non siamo un popolo di disonesti. Facciamo di tutto per dimostrare di essere i peggiori, ma in altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi, scrive Piero Ostellino su "Il Giornale". Siamo il popolo più disonesto al mondo? Certamente non lo siamo, anche se – a giudicare dalle cronache quotidiane - facciamo di tutto per dimostrarlo. In altri Paesi la corruzione non è inferiore a quella presente da noi. Ma è, come si suol dire, il contesto quello che, da noi, conta, cioè il ruolo che la politica svolge anche nel campo dell'economia e delle transazioni di mercato. Il fatto è che, da noi, l'intermediazione politica occupa un posto di preminenza rispetto a quello che altrove occupa il mercato. E dove la politica ha a che fare con i soldi è pressoché inevitabile che qualcuno ne approfitti, perché la politica non va tanto per il sottile quando si tratta di conquistare consenso e il consenso è spesso strettamente associato ai quattrini di cui si può disporre. La regola politica è questa. Più quattrini hai da spendere, maggiore è il consenso che puoi ottenere. Se, poi, i quattrini non sono neppure i tuoi, ma di coloro i quali li usano e li spendono in funzione dei loro interessi politici, allora, l'equazione «politica e quattrini uguale corruzione» funzionerà alla perfezione. Le cronache parlano molto degli scandali collegati a tale uso dei quattrini, peraltro senza spiegarne le ragioni, ma non è un problema che preoccupi il mondo della politica perché in gioco non è l'onestà personale dei politici, che non interessa nessuno, ma la natura strutturale del nostro sistema. Non abbiamo la classe politica più corrotta al mondo; abbiamo solo la classe politica più esposta alle tentazioni. E, come è noto, sono le occasioni che fanno l'uomo ladro. Come ho detto, quando l'intermediazione politica prevale sulle logiche del mercato e che qualcuno, sul versante politico, ne approfitti è nella logica delle cose. Questa è anche la ragione per la quale tutti i governi che si sono ripromessi di riformare il Paese e i suo sistema politico non ce l'hanno fatta. Non ce l'ha fatta Berlusconi; non ce la fa Renzi malgrado predichi ogni giorno l'intenzione di cambiare l'Italia. Da mesi andavo scrivendo che l'immigrazione si era trasformata nell'«industria dell'immigrazione» in quanto l'arrivo di migliaia di immigrati era diventata l'occasione, per la politica, di utilizzare i quattrini stanziati per l'accoglienza dei nuovi arrivati a proprio esclusivo beneficio e delle proprie organizzazioni sociali. Sembrava una mia fissazione. Invece, gli scandali scoppiati in successione ai margini del fenomeno hanno confermato che non si è ancora regolamentata l'immigrazione perché non conviene a chi ci fa sopra dei guadagni più o meno leciti. Lasciamo perdere gli scafisti – che sono dei veri e propri criminali – e chiediamoci se la solidarietà di certi ambienti cattolici e di sinistra non sia pelosa: gli immigrati sono manodopera a basso costo che le cooperative che prosperano attorno al mondo cattolico e della sinistra hanno finora utilizzato impedendo qualsiasi tentativo di regolamentarne l'arrivo. È perfettamente inutile approvare marchingegni burocratici che dovrebbero impedire la suddetta speculazione. Prima o poi diventano essi stessi occasione di corruzione perché dove è possibile evitare monitoraggi e controlli è pressoché certo che la politica troverà il modo di eluderli. Finora è quello che è accaduto ed è probabile che l'andazzo non cambi. Potrebbe esserci qualche speranza di cambiamento se i media facessero il loro mestiere di cani da guardia del potere politico e, perché no, anche di quello economico. Se la proprietà, o il controllo, dei media serve da moneta di scambio con la politica per goderne del sostegno, è evidente che la politica prevarrà sempre a dispetto delle migliori intenzioni perché eludere monitoraggi e controlli conviene a troppa gente. Non è col moralismo a basso prezzo che si moralizza il Paese, bensì con riforme che ne mutino radicalmente la struttura, eliminando l'eccesso di intermediazione politica. Ma toglietevi dalla testa che Renzi le faccia. Continuerà a prometterle, senza farle. La furba retorica del presidente del Consiglio ha incominciato a deludere gli italiani, anche quelli che gli credevano, e il consenso di cui ha goduto sta calando. C'è anche un'altra regola che presiede a quest'ultimo fenomeno: non si possono imbrogliare tutti e sempre.

Questa volta ha ragione il Pd. Loro sono diversi: sono peggio. Nonostante Roma sia diventata una "cloaca massima, il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: "Non è vero che siamo tutti uguali". Almeno questa volta ha ragione: il Pd è peggio, scrive Salvatore Tramontano su "Il Giornale". Renzi doveva cambiare l'Italia, non ha cambiato nemmeno il suo partito. Mezzo Pd romano è coinvolto nello scandalo di Mafia capitale, ma per Orfini, presidente del Pd, la colpa è di Alemanno, Maroni e dei servizi segreti. Guerini, vice segretario del Pd, ritiene addirittura strampalate le richieste di dimissioni del sindaco: «Marino è considerato un nemico di chi vuole fare affari». Sarà strampalato, ma due settimane prima degli arresti di Salvatore Buzzi, Massimo Carminati & C., il capo della coop «29 giugno» replicava così ai collaboratori che parlavano delle richieste di dimissioni per il sindaco Marino, impelagato con la grana delle multe alla Panda rossa: «Ti dico una cosa - annotano gli uomini del Ros - lui (Marino) se resta sindaco altri tre anni e mezzo, con il mio amico capogruppo ci mangiamo Roma». Alla faccia di chi lo considera un nemico degli affaristi. Per Renzi, però, paladino a parole della legalità, il problema Marino non esiste. D'altra parte, come dimostra anche il caso Campania, meglio una poltrona in più che un impresentabile in meno. L'ordine, quindi, è blindare Marino, altrimenti addio sogni di gloria: ci penserebbero i romani a rottamare quel che resta dei Democratici. «Falso», urlano quelli del Pd. Dimenticate che a Roma abbiamo Zingaretti, il governatore della Regione Lazio. Forse sarebbe stato meglio dimenticarlo. Per evitare strumentalizzazioni, citiamo cosa ha scritto ieri Fiorenza Sarzanini su Il Corriere : «Un patto tra maggioranza e opposizione per spartirsi l'appalto più remunerativo della Regione Lazio, quello sul Recup, il centro unico di prenotazione. A siglarlo il consigliere del Pdl Luca Gramazio e Maurizio Venafro, il capo di gabinetto del governatore Nicola Zingaretti. Il giudice lo definisce un “accordo corruttivo” che ha consentito “all'organizzazione riconducibile a Salvatore Buzzi e Massimo Carminati di inserirsi, divenendo infine aggiudicataria del terzo lotto” in un affare da oltre 60 milioni». E dire che sei mesi fa Renzi aveva nominato Orfini commissario straordinario per ripulire Roma. Considerati i risultati, ha sbagliato mestiere: invece del commissario, Orfini avrebbe dovuto fare l'avvocato d'ufficio. Anche se la sua linea difensiva non brilla. Come si fa a dichiarare che: «Il Pd è il partito dell'antimafia» quando De Luca, il candidato del Pd appoggiato da Renzi, diventato governatore della Campania in barba alla legge Severino, denuncia il presidente della commissione Antimafia? Eppure, nonostante Roma sia diventata una «cloaca massima» (copywright Il manifesto ), il Partito democratico insiste nel riaffermare la propria diversità: «Non è vero che siamo tutti uguali».

Mafia Capitale: quello che la sinistra non vuole capire, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Ridurre lo scandalo di Mafia Capitale ad un derby tra destra e sinistra su chi ha rubato di più, è francamente patetico; chi lo fa non si rende conto che la posta in gioco non è un titolo sui giornali o un secchiello d’acqua al proprio mulino arrugginito. In gioco c’è ben altro: la tenuta di una democrazia, la legittimità della politica come funzione sovrana, il ruolo dei partiti come strumento fondante di partecipazione alla res publica. Per questo, di fronte ad alcune dichiarazioni di esponenti del Pd, sorge il dubbio che la sinistra italiana sia attraversata da un timor panico di fronte alla consapevolezza di non poter più rivendicare la sua presunta superiorità morale. Prendete per esempio Matteo Orfini, il commissario straordinario del Pd romano ed esponente di spicco del partito nazionale; lui, baldo giovane renziano, ex figgiciotto del Mamiani (il liceo romano dei fighetti radical-chic) ed ex dalemiano, tra una dichiarazione alla stampa ed una partita alla Playstation con Renzi, ha operato una medioevale reductio ad unum della complessità dello scandalo: Mafia Capitale è “Carminati con un banda di destra”. Sarà come dice lui ma se uno scorre l’elenco degli arrestati scopre che la maggioranza dei politici coinvolti sono del suo partito: il Presidente del consiglio comunale di Roma (del Pd), l’assessore alle Politiche Abitative della giunta Marino (del Pd), il presidente della Commissione Patrimonio di Roma (del Pd), il Presidente di uno dei più importanti Municipi di Roma (del Pd) e il capogruppo di Scelta Democratica partito che appoggia la giunta Marino; senza contare l’ex potentissimo vice-capo di Gabinetto di Veltroni già arrestato nel giro precedente e un coinvolgimento totale di quel sistema delle cooperative rosse da sempre fonte finanziaria, elettorale e spesso clientelare della sinistra italiana. Sono questi i componenti della “banda di destra” di cui parla Orfini? E non abbiamo dubbi che il sindaco di Roma Marino sia sincero quando dice di voler eliminare monopoli che esistono da decenni; ma in questi decenni, chi ha governato Roma? Tranne la breve, incolore ed inquietante esperienza della destra romana, ad occhio e croce diremmo la sinistra; ergo, quella “politica antica gravemente colpevole” che Marino si vanta di allontanare è quella dei suoi compagni? La sinistra vive sotto una costante forma di rimozione della realtà; non so se i suoi esponenti facciano uso di funghi allucinogeni, certò è che sembrano vivere in un universo psichedelico. Forse sarebbe utile abbandonare il tentativo di mostrarsi sempre migliori e provare a riflettere insieme sulla crisi della politica e delle regole democratiche; sull’inadeguatezza di una parte della classe politica, sulla fine dei partiti, sulla scomparsa delle leadership, sull’eccesso di malaffare che nasce sicuramente da anime sporche ma anche da un sistema sballato dove l’oppressione dello Stato (sotto forma di dittatura burocratica) favorisce le pratiche illegali, secondo quell’assioma che dai tempi di Tacito lega la corruzione all’eccesso di leggi (“Corruptissima re publica plurimae leges”). Allora, cari amici e compagni del Pd, aprite gli occhi: la narrazione degli “antropologicamente superiori” con cui vi hanno bevuto il cervello i vostri intellettuali, è una balla, meno vera di una striscia di fumetto. Siete come gli altri: tra voi albergano persone oneste e farabutti, persone capaci e imbecilli, persone responsabili e miseri intrallazzatori. La politica (e con essa la democrazia) non si aiuta alzando il dito medio, come fa Grillo, ma neppure con il solito indice puntato da maestrini, come fate voi. È ora che la classe politica capisca che la crisi di legittimità democratica dei partiti è un punto di non ritorno che uccide la partecipazione consente a poteri illegittimi di sostituirsi alla sovranità popolare; e questo non è un problema di destra o di sinistra.

Onestà non significa neanche mancanza di libertà. "Vietato esprimere opinioni autonome sui social": il regolamento del Partito comunista. Il decalogo del partito di Marco Rizzo per il comportamento (di iscritti e dirigenti) da seguire su Twitter e Facebook è un condensato di divieti e doveri: dalle bandiere ai tag, scrive Matteo Pucciarelli su "La Repubblica". Bastava la promessa per capire l'antifona: "La natura dei social network spinge oggettivamente all'individualismo e alle peggiori performance di protagonismo. Serve quindi regolamentare il loro uso, seguendo le ispirazioni della dottrina leninista dell'organizzazione". Il Partito Comunista di Marco Rizzo (famoso per l'esaltazione dello stalinismo e di esperienze di "socialismo" come la Corea del Nord) ha varato una sorta di decalogo per l'utilizzo di Facebook, Twitter e affini da parte dei propri dirigenti e militanti. Il risultato è una serie di divieti e compiti che ricorda il settarismo comunista dei tempi andati, anche se fuori tempo massimo: "È fatto assoluto divieto a ogni iscritto al partito (tanto più se dirigente) a fare considerazioni e analisi politiche generali autonome", è la prima regola, approvata dal Comitato centrale dell'organizzazione fondata dall'ex europarlamentare di Rifondazione prima e del Pdci poi. Poi: "È vietato taggare altri membri del partito sempre su questioni politiche, storiche, filosofiche e culturali". Dopo: "È fatto assoluto divieto ad usare bandiere o simboli del Partito nell'immagine del proprio account personale. Le bandiere ed i simboli del partito sono esclusivamente rappresentate negli account di partito ad ogni livello (da quello centrale sino a quello di cellula)". Per fortuna non esistono solo divieti, ai quali vanno aggiunti i doveri: "È invece auspicabile che i membri del partito e del comitato centrale promuovano, condividano e tagghino i post degli organi nazionali". Detto questo, "tutti gli account di partito (da quelli regionali a quelli della singola cellula) devono comunicare riservatamente alla direzione centrale (nella persona del coordinatore) la password". Al tutto va aggiunta una considerazione: "La pubblicazione di fotografie e filmati di manifestazioni del partito devono esser improntate alla massima efficacia propagandistica e consapevolezza politica dell'evento". E una minaccia: "Qualunque violazione verrà da ora in poi deferita alla CCCG", con quest'ultima parola che probabilmente significherà commissione di garanzia. Nel preambolo della lettera pubblicata sul sito nazionale del movimento, c'è scritto che "i pareri e le elaborazioni dei singoli compagni andranno ad arricchire la linea elaborata collettivamente". L'importante è non esprimerli, perlomeno via social...

Per il Pd a rubare sono sempre gli altri. Renzi si erge a paladino della legalità: "Chi viola le regole, deve pagare tutto". Ma il Pd non fa mea culpa. Marino: "Vado avanti, ho fatto pulizia". E Orfini chiama in causa i servizi segreti, scrive Sergio Rame su  “Il Giornale”. Mafia Capitale, si sa, è cosa di tutti. Gli arresti riguardato l'intero spettro politico. Ci mangiavano tutti. Pochi erano gli esclusi dal banchetto. Ma alla mangiatoia, per usare la metafora di Salvatore Buzzi, un posto privilegiato ce l'aveva proprio il Partito democratico con i suoi esponenti locali, i suoi amministratori e le sue cooperative. Diciannove persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l’ennesimo terremoto la seconda tranche dell’inchiesta denominata "Mafia Capitale" che già lo scorso dicembre aveva fatto scattare le manette ai polsi di 37 indagati, con il coinvolgimento di altri 40. Ancora una volta, l’ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell’ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all’alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra, del Campidoglio a della Regione Lazio: risultano tutti a libro paga dell’organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo e si aggiudicava i migliori appalti. "Un Paese solido è quello che combatte la corruzione come sta avvenendo in Italia con decisione e forza - commenta il premier Matteo Renzi - mandando chi ruba in galera, perchè è giusto che chi ha violato le regole paghi tutto e fino all’ultimo giorno". Ma sono solo dichiarazioni di circostanza. Perché, come dice anche il commissario del Pd romano Matteo Orfini, al Nazareno sono convinti che a rubare siano sempre glia altri. "Le amministrazioni di Marino e Zingaretti - commenta Orfini in conferenza stampa - sono state un baluardo della legalità". Eppure, aldilà di Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl in consiglio comunale e poi in Regione, la seconda "retata" di Mafia Capitale ha fatto scattare le manette ai polsi di numerosi esponenti dem. Tra questi spiccano Mirko Coratti, ex presidente del consiglio comunale in quota Pd, dimessosi a dicembre dopo la prima ondata di arresti, e il suo capo segreteria, Franco Figurelli. Per i pm, avrebbero ricevuto la promessa di 150mila euro, la somma di 10mila e l’assunzione di una persona segnalata da Coratti in cambio di una serie di favori da fare alle cooperative di Buzzi. In cella anche Daniele Ozzimo, ex assessore piddì alla Casa, Angelo Scozzafava, ex capo del quinto dipartimento Promozione dei Servizi Sociali e della salute di Roma, e Pierpaolo Pedetti, anche lui eletto consigliere comunale nel 2013 con il Pd, presidente della Commissione Patrimonio. Insomma, al pari di altre forze politiche, il Pd continua a comparire nelle carte dell'inchiesta. Eppure Orfini resta ancora convinto che non ci siano le condizioni per sciogliere il Comune di Roma, "perché questo significherebbe andare incontro alle richieste della criminalità". Dal canto suo, il sindaco di Roma Ignazio Marino rivendica il "cambiamento epocale" della sua giunta e si dice soddisfatto "della legalità contabile che abbiamo portato nella nostra città". "Continuiamo in questo modo - commenta il primo cittadino di Roma - la linea amministrativa che abbiamo assunto in questi due anni di governo sta dimostrando che veramente stiamo cambiando tutto". Per difenderlo, Orfini chiama addirittura in causa i servizi segreti: "Chiederò al Copasir di occuparsi della vicenda per capire come i servizi segreti non si siano accorti di cosa stesse facendo una persona a loro evidentemente nota come Carminati» e di come «abbia potuto costruire un sistema criminale di tale entità". Ma il teorema non regge proprio. "Che cos’altro deve accadere perché Marino se ne vada e si torni alle urne?", replica il leader della Lega Nord Matteo Salvini che vede proprio nel sindaco piddì il primo responsabile. Anche il Movimento 5 Stelle chiede le dimissioni di Marino: "Questa è l’ennesima prova che il sistema dei partiti è totalmente marcio, ivi incluso il Pd romano".

Fuoriluogo, scrive Franco Corleone su “L’Espresso”. L'onestà politica secondo Benedetto Croce. L’invocazione ossessiva dell’onestà è ben giustificata da mille episodi della cronaca del malaffare e però un bagno di razionalità può essere utile. Leggere il saggio di Benedetto Croce presente nel volume Etica e politica appare dissacrante di tanti luoghi comuni. “Un’altra manifestazione della volgare inintelligenza circa le cose della politica è la petulante richiesta che si fa dell’onestà nella vita politica”, così esordisce il filosofo e prosegue contestando la deriva per un Paese di affidare la cosa pubblica a onesti uomini tecnici. Croce definisce strana la pretesa che nelle cose della politica si chiedano non uomini politici ma onest’uomini. “Ma che cosa è, dunque, l’onestà politica?- si domanderà. L’onestà politica non è altro che la capacità politica: come l’onestà del medico e del chirurgo, è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze”. Vale la pena di leggere gli esempi della storia che presenta Croce per giustificare la sua posizione, ma soprattutto è istruttiva la sua conclusione: la disonestà coincide con la cattiva politica, con l’incapacità politica. Una tesi paradossale  che esalta la politica e in tempi di crisi, di vero abisso della politica, rappresenta una lezione aristocratica.

Mafia Capitale, la Procura: "Rubano tutti". Gli arresti posticipati per non influenzare il voto delle regionali, scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. "Rubano tutti, ecco il filo rosso di questa seconda parte dell'inchiesta....". A piazzale Clodio, sede della procura capitolina, il procuratore Pignatone non riceve i giornalisti e tutti i pm coinvolti, l'aggiunto Prestipino, i pm Luca Tescaroli, Giuseppe Cascini e Paolo Ielo, declinano gentilmente dichiarazioni e commenti. "Rubano tutti" resta l'amara constatazione dopo mesi di indagine e dopo aver riscontrato le dichiarazioni a verbale di numerosi manager e imprenditori che hanno spiegato "il sistema di potere trasversale ad ogni partito e maggioranza" che ha gestito ogni affare nella Capitale almeno negli ultimi dieci anni. Proprio per questa trasversalità, è stato chiaro a tutti che la seconda parte di Mafia capitale avrebbe avuto ricadute pesanti nelle settimane prima del voto già infuocate da una campagna elettorale durissima. "Abbiamo ritenuto necessario, per non influire sul voto, attendere la chiusura delle urne prima di procedere agli arresti" afferma una fonte in procura. Lo dimostrano le date: la richiesta della procura risale a marzo, l'ordinanza è stata firmata il 29 maggio, venerdì, quando già imperversava sul voto la lista dell'Antimafia. Attendere qualche giorno non avrebbe cambiato nulla. E così è stato deciso. Se in Mafia capitale parte Prima è stato protagonista Il sistema delle cooperative rosse che faceva capo a Salvatore Buzzi, nella parte Seconda la parte del leone la fanno le cooperative bianche. Al centro di molti passaggi dell'ordinanza lunga 500 pagine c'è infatti La Cascina, cooperativa bianca che fa riferimento a Comunione e Liberazione. Tra i 44 arresti di questa mattina per corruzione e concussione aggravati dalla modalità mafiosa, anche Menolascina, manager della cooperativa. Secondo l'accusa, la cooperativa garantiva un premio mensile di 10 mila a Lica Odevaine in quanto il tecnico che garantiva, dal tavolo nazionale per l'emergenza immigrazione, la gestione degli appalti per i centri profughi e immigrati. Una volta che La Cascina ha ottenuto l'appalto del Cara di Mineo (7 aprile 2014), il premio per Odevaine è stato raddoppiato (20 mila euro mensili). La cooperativa è emersa anche in un'altra delicata inchiesta del Ros dei Carabinieri: quella che ha portato in carcere Ettore Incalza, il super direttore generale del ministero delle Infrastrutture, e ha costretto alle dimissioni l'ex ministro Lupi (che non è mai stato indagato).

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Il prete delle coop fustiga tutti ma salva gli amici che lo finanziano. Questa volta don Ciotti, di fronte a scandali e corruzione, non ha lanciato scomuniche come nel suo stile. Nessuna sorpresa: sono le cooperative rosse che danno soldi alla sua associazione, scrive Stefano Filippi su "Il Giornale". Cacciate i ladri: è un vasto programma quello che don Luigi Ciotti, il sacerdote dell'antimafia, ha assegnato alla Lega delle cooperative. Era lo scorso dicembre, i giorni dello scandalo romano di «Mafia capitale». Degli arresti tra i «buoni». Dei cooperatori che sfruttano i disperati. Dei volontari (o pseudo tali) che intascano soldi da Stato e Regioni pontificando che invece li avevano usati per accogliere gli extracomunitari. Dei portaborse Pd che facevano da intermediari tra enti pubblici e malaffare. Del ministro Poletti fotografato a tavola con i capi di Legacoop poi indagati. Dell'ipocrisia di una certa parte della sinistra pronta a denunciare le pagliuzze negli occhi altrui senza accorgersi delle proprie travi. Ma don Ciotti, il custode della legalità, il campione della lotta contro le mafie, il prete che marcia in testa a qualsiasi corteo anti-corruzione e pro-Costituzione, ha trattato con i guanti le coop rosse. «Bisogna sempre vigilare - ha detto - non c'è realtà che si possa dire esente». E ancora: «Non possiamo spaventarci di alcune fragilità. Ve lo dico con stima, gratitudine e affetto: dobbiamo imparare sempre di più a fare scelte scomode». E poi: «Siate sereni, cacciate le cose che non vanno. Le notizie sulle tangenti non possono lasciarci tranquilli - ha proseguito -. Molti con la bocca hanno scelto la legalità ma dobbiamo evitare che ci rubino le parole. Non si sconfiggono le mafie se non si combatte la corruzione». Un appello generico, parole di circostanza davanti a un sistema smascherato dalla magistratura. Nulla a confronto delle scomuniche lanciate contro i mafiosi, i sì-Tav, i «nemici della Costituzione», i «guerrafondai», e naturalmente Silvio Berlusconi. D'altra parte, difficile per lui usare un tono diverso. Perché il prete veneto cresciuto a Torino è anche il cappellano di Legacoop. Il rapporto è organico. Le coop rosse (con la Torino-bene, la grande finanza laica e le istituzioni pubbliche) sono tra i maggiori finanziatori del Gruppo Abele e di Libera. L'associazione antimafia ha tre partner ufficiali: le coop della grande distribuzione, il gruppo Unipol e la loro fondazione, Unipolis. Nei bilanci annuali c'è una voce fissa: un contributo di 70mila euro da Unipolis. Legacoop collabora con il progetto «Libera terra», che si occupa di mettere a reddito i terreni confiscati ai mafiosi. «Un incubatore per la legalità», lo definiscono i cooperatori rossi che grazie a questa partnership aprono sempre nuove coop al Centro-Sud che sfornano prodotti «solidali». Don Ciotti si scomoda perfino per le aperture di qualche punto vendita, com'è successo quando le coop inaugurarono la loro libreria davanti all'Università Statale di Milano. L'agenda del prete è fittissima. Firma appelli, presenta libri di Laura Boldrini, promuove manifestazioni, guida cortei, interviene a tavole rotonde (a patto che non odorino di centrodestra), appare in tv, commemora le vittime della mafia, incontra studenti, ritira premi: l'ultimo è il Leone del Veneto 2015, ma nel 2010 fu insignito, tra gli altri, del premio Artusi «per l'originale contributo dato alla riflessione sui rapporti fra uomo e cibo». E poi inaugura mostre fotografiche e fa addirittura da padrino a rassegne di pattinaggio (è successo a Modena lo scorso 7 febbraio per il 19° trofeo intitolato a Mariele Ventre). In questo turbine di impegni, don Luigi non ha trovato il tempo di condannare apertamente le infiltrazioni della malavita organizzata nella galassia della cooperazione rossa. E non esistono soltanto «Mafia capitale» a Roma o le mazzette per il gas a Ischia; ci sono le indagini per la Tav, i lavori al porto di Molfetta, gli appalti di Manutencoop, le aziende legate al «Sistema Sesto» che coinvolgeva Filippo Penati, i cantieri Unieco in Emilia Romagna dove lavoravano famiglie della 'ndrangheta. Nei bilanci delle associazioni di don Ciotti i finanziamenti di Unipolis sono tra i pochi di cui è chiara la provenienza. Libera e Gruppo Abele rappresentano realtà consolidate. L'organizzazione antimafia ha chiuso il 2013 con entrate per 4 milioni 770mila euro raccolti in gran parte da enti pubblici: mezzo milione per la gestione dei beni confiscati, altrettanti per progetti e convenzioni internazionali, ulteriori 766mila per attività di formazione; 645mila euro arrivano grazie all'8 per mille, 200mila dalle tessere, 700mila dai campi estivi e 900mila da campagne di raccolta fondi. Maggiori problemi ha il Gruppo Abele, che ha chiuso il 2013 (ultimo bilancio disponibile) con una perdita di 273mila euro, e il 2012 era andato pure peggio: un buco di quasi due milioni su uno stato patrimoniale di circa 10. La situazione finanziaria è disastrosa, con debiti verso le banche per 5 milioni e altri 800mila verso fornitori garantiti da un cospicuo patrimonio immobiliare valutato in circa 6 milioni 300mila euro: la sede di Corso Trapani è un ex immobile industriale donato a don Ciotti dall'avvocato Agnelli. Affrontare il disagio sociale costa e molte attività assistenziali non possono essere soggette a «spending review». Indebitarsi è oneroso: 261mila euro (quasi tutta la perdita di esercizio) se ne vanno in anticipi e interessi su prestiti principalmente verso Banca Etica, Unicredit e Unipol banca. I ricavi non seguono l'andamento dei costi. Le rette delle persone ospitate in comunità e i proventi per corsi di formazione o vendita di libri e riviste fruttano 2.838.000 euro. Più consistenti sono le entrate da contributi: quasi 3.700.000 euro. Oltre tre milioni piovono da Commissione europea, ministeri, regioni ed enti locali, fondazioni imprecisate; altri generici «terzi» hanno donato 731mila euro mentre istituti bancari senza nome hanno erogato quasi 350mila euro. Don Ciotti è un campione nel fare incetta di finanziamenti pubblici. Ma non bastano. Ecco perché deve girare l'Italia e sollecitare la grande finanza progressista a essere generosa con i professionisti dell'antimafia e dell'antidroga. È uno dei preti di frontiera più famosi, con don Virginio Colmegna e don Gino Rigoldi. Dai convegni coop alle telecamere Mediaset (è andato da Maria De Filippi, ma nessuno si è indignato come per Renzi e adesso Saviano), dagli appelli per la Costituzione (con Rodotà, Zagrebelsky, Ingroia, Landini) perché «l'Italia è prigioniera del berlusconismo» fino alle manifestazioni no-Tav, don Ciotti è in perenne movimento. Non lo frenano gli incidenti di percorso: il settimanale Vita ha segnalato («legalità parolaia») che Libera e Gruppo Abele figurano tra i firmatari di un accordo con i gestori del business delle sale gioco mentre il loro leader si è sempre scagliato contro l'azzardo. Dopo che Papa Francesco l'anno scorso l'ha abbracciato e tenuto per mano alla commemorazione delle vittime di mafia, don Ciotti vive anche una sorta di rivincita verso la Chiesa «ufficiale» che a lungo l'aveva tenuto ai margini. Lo scorso Natale ha promosso un appello per «fermare gli attacchi a Papa Francesco»: è l'ultimo manifesto, per ora, proposto da don Ciotti. Ma non passerà troppo tempo per il prossimo.

 

Perché leggere Antonio Giangrande?

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Perché leggere Antonio Giangrande?

Ognuno di noi è segnato nella sua esistenza da un evento importante. Chi ha visto il film si chiede: perché la scena finale de “L’attimo fuggente” , ogni volta, provoca commozione? Il professor John Keating (Robin Williams), cacciato dalla scuola, lascia l’aula per l’ultima volta. I suoi ragazzi, riabilitati da lui dalla corruzione culturale del sistema, non ci stanno, gli rendono omaggio. Uno dopo l’altro, salgono in piedi sul banco ed esclamano: «Capitano, mio capitano!». Perché quella scena è così potente ed incisiva? Quella scena ci colpisce perché tutti sentiamo d’aver bisogno di qualcuno che ci insegni a guardare la realtà senza filtri.  Desideriamo, magari senza rendercene conto, una guida che indichi la strada: per di là. Senza spingerci: basta l’impulso e l’incoraggiamento. Il pensiero va a quella poesia che il vate americano Walt Whitman scrisse dopo l'assassinio del presidente Abramo Lincoln, e a lui dedicata. Gli stessi versi possiamo dedicare a tutti coloro che, da diversi nell'omologazione, la loro vita l’hanno dedicata per traghettare i loro simili verso un mondo migliore di quello rispetto al loro vivere contemporaneo. Il Merito: Valore disconosciuto ed osteggiato in vita, onorato ed osannato in morte.

Robin Williams è il professor Keating nel film L'attimo fuggente (1989)

Oh! Capitano, mio Capitano, il tremendo viaggio è compiuto,

La nostra nave ha resistito ogni tempesta: abbiamo conseguito il premio desiderato.

Il porto è prossimo; odo le campane, il popolo tutto esulta.

Mentre gli occhi seguono la salda carena,

la nave austera e ardita.

Ma o cuore, cuore, cuore,

O stillanti gocce rosse

Dove sul ponte giace il mio Capitano.

Caduto freddo e morto.

O Capitano, mio Capitano, levati e ascolta le campane.

Levati, per te la bandiera sventola, squilla per te la tromba;

Per te mazzi e corone e nastri; per te le sponde si affollano;

Te acclamano le folle ondeggianti, volgendo i Walt Whitman (1819-1892) cupidi volti.

Qui Capitano, caro padre,

Questo mio braccio sotto la tua testa;

È un sogno che qui sopra il ponte

Tu giaccia freddo e morto.

Il mio Capitano tace: le sue labbra sono pallide e serrate;

Il mio padre non sente il mio braccio,

Non ha polso, né volontà;

La nave è ancorata sicura e ferma ed il ciclo del viaggio è compiuto.

Dal tremendo viaggio la nave vincitrice arriva col compito esaurito,

Esultino le sponde e suonino le campane!

Ma io con passo dolorante

Passeggio sul ponte, ove giace il mio Capitano caduto freddo e morto.

Antonio Giangrande. Un capitano necessario. Perché in Italia non si conosce la verità. Gli italiani si scannano per la politica, per il calcio, ma non sprecano un minuto per conoscere la verità. Interi reportage che raccontano l’Italia di oggi  “salendo sulla cattedra” come avrebbe detto il professore Keating dell’attimo fuggente e come ha cercato di fare lo scrittore avetranese Antonio Giangrande.

Chi sa: scrive, fa, insegna.

Chi non sa: parla e decide.

Chissà perché la tv ed i giornali gossippari e colpevolisti si tengono lontani da Antonio Giangrande. Da quale pulpito vien la predica, dott. Antonio Giangrande?

Noi siamo quel che facciamo: quello che diciamo agli altri è tacciato di mitomania o pazzia. Quello che di noi gli altri dicono sono parole al vento, perche son denigratorie. Colpire la libertà o l’altrui reputazione inficia gli affetti e fa morir l’anima.

La calunnia è un venticello

un’auretta assai gentile

che insensibile sottile

leggermente dolcemente

incomincia a sussurrar.

Piano piano terra terra

sotto voce sibillando

va scorrendo, va ronzando,

nelle orecchie della gente

s’introduce destramente,

e le teste ed i cervelli

fa stordire e fa gonfiar.

Dalla bocca fuori uscendo

lo schiamazzo va crescendo:

prende forza a poco a poco,

scorre già di loco in loco,

sembra il tuono, la tempesta

che nel sen della foresta,

va fischiando, brontolando,

e ti fa d’orror gelar.

Alla fin trabocca, e scoppia,

si propaga si raddoppia

e produce un’esplosione

come un colpo di cannone,

un tremuoto, un temporale,

un tumulto generale

che fa l’aria rimbombar.

E il meschino calunniato

avvilito, calpestato

sotto il pubblico flagello

per gran sorte va a crepar.

E’ senza dubbio una delle arie più famose (Atto I) dell’opera lirica Il Barbiere di Siviglia del 1816 di Gioacchino Rossini (musica) e di Cesare Sterbini (testo e libretto). E’ l’episodio in cui Don Basilio, losco maestro di musica di Rosina (protagonista femminile dell’opera e innamorata del Conte d’Almaviva), suggerisce a Don Bartolo (tutore innamorato della stessa Rosina) di screditare e di calunniare il Conte, infamandolo agli occhi dell’opinione pubblica. Il brano “La calunnia è un venticello…” è assolutamente attuale ed evidenzia molto bene ciò che avviene (si spera solo a volte) nella quotidianità di tutti noi: politica, lavoro, rapporti sociali, etc.

Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza.  Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.

Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.

Ha la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?

Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le macagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

A’ Cuscienza di Antonio de Curtis-Totò

La coscienza

Volevo sapere che cos'è questa coscienza 

che spesso ho sentito nominare.

Voglio esserne a conoscenza, 

spiegatemi, che cosa significa. 

Ho chiesto ad un professore dell'università

il quale mi ha detto: Figlio mio, questa parola si usava, si, 

ma tanto tempo fa. 

Ora la coscienza si è disintegrata, 

pochi sono rimasti quelli, che a questa parola erano attaccati,

vivendo con onore e dignità.

Adesso c'è l'assegno a vuoto, il peculato, la cambiale, queste cose qua.

Ladri, ce ne sono molti di tutti i tipi, il piccolo, il grande, 

il gigante, quelli che sanno rubare. 

Chi li denuncia a questi ?!? Chi si immischia in questa faccenda ?!?

Sono pezzi grossi, chi te lo fa fare. 

L'olio lo fanno con il sapone di piazza, il burro fa rimettere, 

la pasta, il pane, la carne, cose da pazzi, Si è aumentata la mortalità.

Le medicine poi, hanno ubriacato anche quelle, 

se solo compri uno sciroppo, sei fortunato se continui a vivere. 

E che vi posso dire di certe famiglie, che la pelle fanno accapponare,

mariti, mamme, sorelle, figlie fatemi stare zitto, non fatemi parlare.

Perciò questo maestro di scuola mi ha detto, questa conoscenza (della coscienza)

perchè la vuoi fare, nessuno la usa più questa parola,

adesso arrivi tu e la vuoi ripristinare. 

Insomma tu vuoi andare contro corrente, ma questa pensata chi te l'ha fatta fare, 

la gente di adesso solo così è contenta, senza coscienza,

vuole stentare a vivere. (Vol tirà a campà)

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

Per il pontefice “il clima mediatico ha le sue forme di inquinamento, i suoi veleni. La gente lo sa, se ne accorge, ma poi purtroppo si abitua a respirare dalla radio e dalla televisione un’aria sporca, che non fa bene.  C’è bisogno di far circolare aria pulita. Per me i peccati dei media più grossi sono quelli che vanno sulla strada della bugia e della menzogna, e sono tre: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione. Dare attenzione a tematiche importanti per la vita delle persone, delle famiglie, della società, e trattare questi argomenti non in maniera sensazionalistica, ma responsabile, con sincera passione per il bene comune e per la verità. Spesso nelle grandi emittenti questi temi sono affrontati senza il dovuto rispetto per le persone e per i valori in causa, in modo spettacolare. Invece è essenziale che nelle vostre trasmissioni si percepisca questo rispetto, che le storie umane non vanno mai strumentalizzate”.  Infatti nessuno delle tv ed i giornali ne hanno parlato di questo intervento.

"Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione". E' l'esortazione che rivolge al mondo dell'informazione e della comunicazione Papa Francesco, cogliendo l'occasione dell'udienza del 15 dicembre 2014 in Aula Paolo VI dei dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Chiesa italiana. «Di questi tre peccati, la calunnia sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all'errore, ti porta a credere solo a una parte della verità. La disinformazione, in particolare spinge a dire la metà delle cose e questo porta a non potersi fare un giudizio preciso sulla realtà. Una comunicazione autentica non è preoccupata di colpire: l'alternanza tra allarmismo catastrofico e disimpegno consolatorio, due estremi che continuamente vediamo riproposti nella comunicazione odierna, non è un buon servizio che i media possono offrire alle persone. Occorre parlare alle persone “intere”, alla loro mente e al loro cuore, perché sappiano vedere oltre l'immediato, oltre un presente che rischia di essere smemorato e timoroso del futuro. I media cattolici hanno una missione molto impegnativa nei confronti della comunicazione sociale cercare di preservarla da tutto ciò che la stravolge e la piega ad altri fini. Spesso la comunicazione è stata sottomessa alla propaganda, alle ideologie, a fini politici o di controllo dell'economia e della tecnica. Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la “parresia”, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà. Se siamo veramente convinti di ciò che abbiamo da dire, le parole vengono. Se invece siamo preoccupati di aspetti tattici, il nostro parlare sarà artefatto e poco comunicativo, insipido. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare. Risvegliare le parole: ecco il primo compito del comunicatore. La buona comunicazione in particolare evita sia di "riempire" che di "chiudere". Si riempie  quando si tende a saturare la nostra percezione con un eccesso di slogan che, invece di mettere in moto il pensiero, lo annullano. Si chiude  quando alla via lunga della comprensione si preferisce quella breve di presentare singole persone come se fossero in grado di risolvere tutti i problemi, o al contrario come capri espiatori, su cui scaricare ogni responsabilità. Correre subito alla soluzione, senza concedersi la fatica di rappresentare la complessità della vita reale è un errore frequente dentro una comunicazione sempre più veloce e poco riflessiva. La libertà è anche quella rispetto alle mode, ai luoghi comuni, alle formule preconfezionate, che alla fine annullano la capacità di comunicare».

Questa sub cultura artefatta dai media crea una massa indistinta ed omologata. Un gregge di pecore. A questo punto vien meno il concetto di democrazia e prende forma l’esigenza di un uomo forte alla giuda del gregge che sappia prendersi la responsabilità del necessario cambiamento nell’afasia e nell’apatia totale. Sembra necessario il concetto che è meglio far decidere al buon e capace pastore dove far andare il gregge che far decidere alle pecore il loro destino rivolto all’inevitabile dispersione. 

Francesco di Sales, appena ordinato sacerdote, nel 1593, lo mandarono nel Chablais, che poi sarebbe il Chiablese, dato che sta nell’Alta Savoia, ma l’avevano invaso gli Svizzeri e tutti si erano convertiti al calvinismo, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Insomma, doveva essere proprio tosto predicare il cattolicesimo lì. Però, lui aveva studiato dai Gesuiti e poi si era laureato a Padova, perciò poteva con capacità d’argomentazione affrontare qualunque disputa teologica. Era uno che lavorava di fino, Francesco di Sales. Solo che tutto quello che diceva dal pulpito non sortiva grande effetto in quei cuori e quelle menti montanare, e allora per raggiungerli e scaldarli meglio con le sue parole gli venne l’idea di far affiggere nei luoghi pubblici dei “manifesti”, composti con uno stile agile e di grande efficacia, e di far infilare dei “volantini” sotto le porte.  Il risultato fu straordinario. È per questo che san Francesco di Sales è il santo patrono dei giornalisti. Per lo stile e l’efficacia, per la capacità di argomentare la verità. Almeno fino a ieri. Perché da ieri c’è un altro Francesco che ha steso le sue mani benedette sul giornalismo, ed è papa Bergoglio. «Evitare i tre peccati dei media: la disinformazione, la calunnia e la diffamazione». È l’esortazione che papa Francesco ha rivolto al mondo dell’informazione e della comunicazione, cogliendo l’occasione dell’udienza in Aula Paolo VI di dirigenti, dipendenti e operatori di Tv2000, la televisione della Cei, conferenza episcopale italiana. In realtà, ne aveva già parlato il 22 marzo, incontrando nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico Vaticano, i membri dell’Associazione ”Corallo”, network di emittenti locali di ispirazione cattolica presenti in tutte le regioni italiane. Ora c’è tornato sopra, ora ci batte il chiodo. Si vede che gli sta a cuore la cosa, e come dargli torto. Evidentemente non parlava solo ai giornalisti cattolici, papa Francesco, e quindi siamo tutti chiamati in causa. «Di questi tre peccati, la calunnia – ha continuato Francesco – sembra il più grave perché colpisce le persone con giudizi non veri. Ma in realtà il più grave e pericoloso è la disinformazione, perché ti porta all’errore, ti porta a credere solo a una parte della verità». Era stato anche più dettagliato nell’argomentazione il 22 marzo: «La calunnia è peccato mortale, ma si può chiarire e arrivare a conoscere che quella è una calunnia. La diffamazione è peccato mortale, ma si può arrivare a dire: questa è un’ingiustizia, perché questa persona ha fatto quella cosa in quel tempo, poi si è pentita, ha cambiato vita.  Ma la disinformazione è dire la metà delle cose, quelle che sono per me più convenienti, e non dire l’altra metà. E così, quello che vede la tv o quello che sente la radio non può fare un giudizio perfetto, perché non ha gli elementi e non glieli danno».

Sono i falsari dell’informazione, i peccatori più gravi.

«E io a lui: “Chi son li due tapini

che fumman come man bagnate ’l verno,

giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”.

L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo;

l’altr’è ’l falso Sinon greco di Troia:

per febbre aguta gittan tanto leppo».

Così Dante descrive nel Canto XXX dell’Inferno la sorte di due “falsari”, la moglie di Putifarre e Sinone. Sinone è quello che convinse i Troiani raccontando un sacco di panzane che quelli si bevvero come acqua fresca e fecero entrare il cavallo di legno, dentro cui si erano nascosti gli Achei che così presero la città. La moglie di Putifarre, ricco signore d’Egitto – così si racconta nella Genesi –, invece, s’era incapricciata del giovane schiavo Giuseppe, cercando di sedurlo. Solo che Giuseppe non ci sentiva da quell’orecchio. Offesa dal rifiuto del giovane, la donna si vendicò accusandolo di aver tentato di farle violenza. Per questa falsa accusa Giuseppe fu gettato nelle prigioni del Faraone. Eccolo, il “leppo” dantesco, che è un fumo puzzolente. E fumo puzzolente si leva dalle pagine dei giornali di disinformacija all’italiana.

Durante la Guerra fredda i russi si erano specializzati nel diffondere informazioni false e mezze verità: raccontavano un sacco di balle sui propri progressi, o magnificavano le sorti delle nazioni che erano sotto l’orbita del comunismo, e nello stesso tempo imbrogliavano le carte su quello che succedeva nell’Occidente maledettamente capitalistico. Pure gli americani avevano la loro disinformacija. Le loro porcherie diventavano battaglie di libertà e le puttanate che compivano erano gesti necessari per difendere la democrazia dall’orso russo e dai cavalli cosacchi. Fare disinformaciija non è banale, non è che ti metti a strillare le stronzate, è un lavoro sottile. Quel cervellone di Chomsky – e ne capisce della questione, visto che è un linguista – riferendosi alle falsificazioni delle prove e delle fonti l’ha definita “ingegneria storica”. Devi orientare l’opinione pubblica, mescolando verità e menzogna; devi sminuire l’importanza e l’attenzione su un evento dandogli una scarsa visibilità e, all’opposto, ingigantire gli spazi informativi su questioni di secondaria importanza; devi negare l’evidenza inducendo al dubbio e all’incredulità. Insomma, è un lavoraccio, che presuppone una vera e propria “macchina disinformativa”. Cioè, i giornali. «Ciò che fa bene alla comunicazione è in primo luogo la parresia, cioè il coraggio di parlare con franchezza e libertà», ha aggiunto papa Francesco. Ha ragione papa Francesco, ragione da vendere. Qualunque direttore di giornale, qualunque editore, qualunque comitato di redazione, qualunque corso dell’ordine dei giornalisti, ti dirà che questi, della franchezza e della libertà, sono i cardini del lavoro dell’informazione. Ma sono chiacchiere. Francesco, invece, non fa chiacchiere. E magari succede che domani troveremo in qualche piazza dei dazebao o dei volantini sotto le nostre porte con la sua firma.

Dalla prova scientifica a quella dichiarativa, passando per il legame tra magistratura e giornalismo. Il dibattito sul processo penale organizzato il 12 dicembre 2014 a Palmi, in provincia di Reggio Calabria, nell’auditorium della Casa della Cultura intitolata a Leonida Repaci dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati con la collaborazione del Comune e della Camera penale, è stato molto più di un semplice dibattito, andato oltre gli aspetti prettamente giuridici, scrive Viviana Minasi su “Il Garantista”. Si è infatti parlato a lungo del legame che esiste tra la magistratura e il giornalismo, quel giornalismo che molto spesso trasforma in veri e propri eventi mediatici alcuni processi penali o fatti di cronaca nera. Se ne è parlato con il direttore de Il Garantista Piero Sansonetti, il Procuratore di Palmi Emanuele Crescenti, il presidente del Tribunale di Palmi Maria Grazia Arena, l’onorevole Armando Veneto, presidente della Camera penale di Palmi e con il presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Francesco Napoli. Tanti gli ospiti presenti in questa due giorni dedicata al processo penale. Al direttore Sansonetti il compito di entrare nel vivo del dibattito, puntando quindi l’attenzione su quella sorta di “alleanza” tra magistratura e giornalismo, a volte tacita. «Mi piacerebbe apportare una correzione alla locandina di questo evento, ha detto ironicamente Sansonetti – scrivendo “Giornalismo è giustizia”, invece che “Giornalismo e giustizia”. Perché? Perché molto spesso, soprattutto negli ultimi decenni, è successo che i processi li ha fatti il giornalismo, li abbiamo fatti noi insieme ai magistrati». Fatti di cronaca quali il disastro della Concordia, Cogne, andando indietro negli anni anche Tangentopoli, fino a giungere all’evento che ha catalizzato l’attenzione dei media nazionali negli ultimi giorni, l’inchiesta su Mafia Capitale, sono stati portati alla ribalta dal giornalismo, magari a danno di altri eventi altrettanto importanti che però quasi cadono nell’oblio. «Ci sono eventi di cronaca che diventano spettacolo – ha proseguito il direttore Sansonetti – e questo accade quando alla stampa un fatto interessa, quando noi giornalisti fiutiamo “l’affare”». Sansonetti ha poi parlato di un principio importante tutelato dall’articolo 111 della Costituzione, l’articolo che parla del cosiddetto “giusto processo”, che in Italia sarebbe sempre meno applicato, soprattutto nella parte in cui si parla dell’informazione di reato a carico di un indagato. «Sempre più spesso accade che l’indagato scopre di essere indagato leggendo un giornale, o ascoltando un servizio in televisione, e non da un magistrato». Su Mafia Capitale, Sansonetti ha lanciato una frecciata al Procuratore capo di Roma Pignatone, definendo un «autointralcio alla giustizia» la comunicazione data in conferenza stampa, relativa a possibili altri blitz delle forze dell’ordine, a carico di altri soggetti che farebbero parte della “cupola”. Suggestivo anche l’intervento di Giuseppe Sartori, ordinario di neuropsicologia forense all’università di Padova, che ha relazionato su “tecniche di analisi scientifica del testimone”. Secondo quanto affermato da Sartori, le testimonianze nei processi, ma non solo, sono quasi sempre inattendibili. Il punto di partenza di questa affermazione è uno studio scientifico condotto su circa 1500 persone, che ha dimostrato come la testimonianza è deviata e deviabile, sia dal ricordo sia dalle domande che vengono poste al testimone. Un caso che si sarebbe evidenziato soprattutto nelle vicende che riguardano le molestie sessuali, nelle quali il ricordo è fortemente suggestionabile dal modo in cui vengono poste le domande. Il convegno era stato introdotto dall’ex sottosegretario del primo governo Prodi ed ex europarlamentare Armando Veneto, figura di primo piano della Camera penale di Palmi. L’associazione dei penalisti da anni è in prima linea per controbilanciare il “potere” (secondo gli avvocati) che la magistratura inquirente avrebbe nel distretto giudiziario di Reggio Calabria e il peso preponderante di cui la pubblica accusa godrebbe nelle aule di giustizia. Le posizione espresse da Veneto, anche all’interno della camera penale di Palmi, sono ormai state recepite da due generazioni di avvocati penalisti.

Purtroppo, però, in Italia non cambierà mai nulla.

Mamma l’italiani,  canzone del 2010 di Après La Class

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

nei secoli dei secoli girando per il mondo

nella pizzeria con il Vesuvio come sfondo

non viene dalla Cina non è neppure americano

se vedi uno spaccone è solamente un italiano

l'italiano fuori si distingue dalla massa

sporco di farina o di sangue di carcassa

passa incontrollato lui conosce tutti

fa la bella faccia fa e poi la mette in culo a tutti

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

a suon di mandolino nascondeva illegalmente

whisky e sigarette chiaramente per la mente

oggi è un po' cambiato ma è sempre lo stesso

non smercia sigarette ma giochetti per il sesso

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

l'Italia agli italiani e alla sua gente

è lo stile che fa la differenza chiaramente

genialità questa è la regola

con le idee che hanno cambiato tutto il corso della storia

l'Italia e la sua nomina e un alta carica

un eredità scomoda

oggi la visione italica è che

viaggiamo tatuati con la firma della mafia

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

vacanze di piacere per giovani settantenni

all'anagrafe italiani ma in Brasile diciottenni

pagano pesante ragazze intraprendenti

se questa compagnia viene presa con i denti

l'italiano è sempre stato un popolo emigrato

che guardava avanti con la mente nel passato

chi non lo capiva lui lo rispiegava

chi gli andava contro è saltato pure in a...

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

spara la famiglia del pentito che ha cantato

lui che viene stipendiato il 27 dallo Stato

nominato e condannato nel suo nome hanno sparato

e ricontare le sue anime non si può più

risponde la famiglia del pentito che ha cantato

difendendosi compare tutti giorni più incazzato

sarà guerra tra famiglie

sangue e rabbia tra le griglie

con la fama come foglie che ti tradirà

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

mafia mafia mafia

non mi appartiene none no questo marchio di fabbrica

aria aria aria

la gente è troppo stanca è ora di cambiare aria

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li cani

Mamma l'italiani mamma l'italiani mancu li cani mancu li ca

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

AVVOCATI. ABILITATI COL TRUCCO

Facile dire: sono avvocato. In Italia dove impera la corruzione e la mafiosità, quale costo intrinseco può avere un appalto truccato, un incarico pubblico taroccato, od una falsificata abilitazione ad una professione?

Ecco perché dico: italiani, popolo di corrotti! Ipocriti che si scandalizzano della corruttela altrui.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Concorsopoli ed esamopoli” che tratta degli esami e dei concorsi pubblici in generale. Tutti truccati o truccabili. Nessuno si salva. Inoltre, nel particolare, nel libro “Esame di avvocato, lobby forense, abilitazione truccata”, racconto, anche per esperienza diretta, quello che succede all’esame di avvocato. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno, neanche ai silurati a quest’esame farsa: la fiera delle vanità fasulle. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma la cronistoria di questi anni la si deve proprio leggere, affinchè, tu italiano che meriti, devi darti alla fuga dall’Italia, per poter avere una possibilità di successo.

Anche perché i furbetti sanno come cavarsela. Francesco Speroni principe del foro di Bruxelles. Il leghista Francesco Speroni, collega di partito dell’ing. Roberto Castelli che da Ministro della Giustizia ha inventato la pseudo riforma dei compiti itineranti, a sfregio delle commissioni meridionali, a suo dire troppo permissive all’accesso della professione forense. È l’ultima roboante voce del curriculum dell’eurodeputato leghista, nonché suocero del capogruppo alla Camera Marco Reguzzoni, laureato nel 1999 a Milano e dopo 12 anni abilitato a Bruxelles. Speroni ha avuto un problema nel processo di Verona sulle camicie verdi, ma poi si è salvato grazie all’immunità parlamentare. Anche lui era con Borghezio a sventolare bandiere verdi e a insultare l’Italia durante il discorso di Ciampi qualche anno fa, quando gli italiani hanno bocciato, col referendum confermativo, la controriforma costituzionale della devolution. E così commentò: “Gli italiani fanno schifo, l’Italia fa schifo perché non vuole essere moderna!”. Ecco, l’onorevole padano a maggio 2011 ha ottenuto l’abilitazione alla professione forense in Belgio (non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria) dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. Speroni dunque potrà difendere “occasionalmente in tutta Europa” spiega lo stesso neoavvocato raggiunto telefonicamente da Elisabetta Reguitti de “Il Fatto quotidiano”.

Perché Bruxelles?

Perché in Italia è molto più difficile mentre in Belgio l’esame, non dico sia all’acqua di rose, ma insomma è certamente più facile. Non conosco le statistiche, ma qui le bocciature sono molte meno rispetto a quelle dell’esame di abilitazione in Italia”.

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastelalla Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini.

La Calabria è bella perchè c’è sempre il sole, scrive Antonello Caporale su “La Repubblica”. Milano invece spesso è velata dalla nebbia. E’ bella la Calabria anche, per esempio, perchè il concorso per l’abilitazione alla professione di avvocato sembra più a misura d’uomo. Non c’è il caos di Milano, diciamolo. E  in una delle dure prove che la vita ci pone resiste quel minimo di comprensione, quell’alito di  compassione… In Calabria c’è il sole, e l’abbiamo detto. Ma vuoi mettere il mare?  ”Avevo bisogno di un luogo tranquillo, dove poter concentrarmi senza le distrazioni della mia città. Studiare e affrontare con serenità l’esame”. Ecco, questo bisogno ha portato Antonino jr. Giovanni Geronimo La Russa, il figlio di Ignazio, anch’egli avvocato ma soprattutto ministro della Difesa, a trasferirsi dalla Lombardia in Calabria. Laureato a pieni voti all’università Carlo Cattaneo, Geronimo si è abilitato con soddisfazione a Catanzaro a soli ventisei anni. Due anni ha risieduto a Crotone. Dal 25 luglio 2005, in piazza De Gasperi, nella casa di Pasquale Senatore, l’ex sindaco missino.  E’ rimasto nella città di Pitagora fino al 18 gennaio 2007. E si è rigenerato. Un po’ come capitò a Mariastella Gelmini, anche lei col bisogno di esercitare al meglio la professione di avvocato prima di darsi alla politica, e anche lei scesa in Calabria per affrontare con ottimismo l’esame. La scelta meridionale si è rivelata azzeccata per lei e per lui. Il piccolo La Russa è tornato in Lombardia con la forza di un leone. E dopo la pratica nello studio Libonati-Jager, nemmeno trentenne è divenuto titolare dello studio di famiglia. Quattordici avvocati a corso di porta Vittoria. Bellissimo. “Ma è tutto merito mio. Mi scoccia di passare per figlio di papà”. Geronimo è amante delle auto d’epoca, ha partecipato a due storiche millemiglia. E infatti è anche vicepresidente dell’Aci di Milano. “Sono stato eletto, e allora?”. Nutre rispetto per il mattone. Siede nel consiglio di amministrazione della Premafin, holding di Ligresti, anche della Finadin, della International Strategy. altri gioiellini del del costruttore. Geronimo è socio dell’immobiliare di famiglia, la Metropol srl. Detiene la nuda proprietà dei cespiti che per parte di mamma ha nel centro di Riccione. Studioso  e s’è visto. Ricco si è anche capito. Generoso, pure. Promuove infatti insieme a Barbara Berlusconi, Paolo Ligresti, Giulia Zoppas e tanti altri nomi glamour  Milano Young, onlus benefica. Per tanti cervelli che fuggono all’estero, eccone uno che resta.

Geronimo, figlio di cotanto padre tutore di lobby e caste, che sa trovare le soluzioni ai suoi problemi.

Vittoria delle lobby di avvocati e commercialisti: riforma cancellata, scrive Lucia Palmerini. “…il governo formulerà alle categorie proposte di riforma.” con questa frase è stata annullata e cancellata la proposta di abolizione degli ordini professionali. Il Consiglio Nazionale Forense ha fatto appello ai deputati-avvocati per modificare la norma del disegno di legge del Ministero dell’Economia che prevedeva non solo l’eliminazione delle restrizioni all’accesso, ma la possibilità di diventare avvocato o commercialista dopo un praticantato di 2 anni nel primo caso e 3 nel secondo, l’abolizione delle tariffe minime ed il divieto assoluto alla limitazione dello svolgimento della professione da parte degli ordini. La presa di posizione degli avvocati del PdL ha rischiato di portare alla bocciatura la manovra economica al cui interno era inserita la norma su avvocati e commercialisti.  Tra questi, Raffaello Masci, deputato-avvocato che ha preso in mano le redini della protesta, ha ottenuto l’appoggio del Ministro La Russa e del Presidente del Senato Schifani, tutti accomunati dalla professione di avvocato. La norma, apparsa per la prima volta ai primi di giugno, successivamente cancellata e nuovamente inserita nei giorni scorsi è stata definitivamente cancellata; il nuovo testo quanto mai inutile recita: “Il governo formulerà alle categorie interessate proposte di riforma in materia di liberalizzazione dei servizi e delle attività economiche si legge nel testo, e inoltre – trascorso il termine di 8 mesi dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, ciò che non sarà espressamente regolamentato sarà libero.” La situazione non cambia e l’Ordine degli avvocati può dormire sogni tranquilli. Ancora una volta gli interessi ed i privilegi di una casta non sono stati minimamente scalfiti o messi in discussione.

GLI ANNI PASSANO, NULLA CAMBIA ED E’ TUTTO TEMPO PERSO.

Devo dire, per onestà, che il mio calvario è iniziato nel momento in cui ho incominciato la mia pratica forense. A tal proposito, assistendo alle udienze durante la mia pratica assidua e veritiera, mi accorgevo che il numero dei Praticanti Avvocato presenti in aula non corrispondeva alla loro reale entità numerica, riportata presso il registro tenuto dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi accorsi, anche, che i praticanti, per l’opera prestata a favore del dominus, non ricevevano remunerazione, o ciò avveniva in nero, né per loro si pagavano i contributi. Chiesi conto al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto. Mi dissero “Fatti i fatti tuoi. Intanto facci vedere il libretto di pratica, che poi vediamo se diventi avvocato”. Controllarono il libretto, contestando la veridicità delle annotazioni e delle firme di controllo. Non basta. Nonostante il regolare pagamento dei bollettini di versamento di iscrizione, a mio carico venne attivata procedura di riscossione coattiva con cartella di pagamento, contro la quale ho presentato opposizione, poi vinta. Di fatto: con lor signori in Commissione di esame forense, non sono più diventato avvocato. A dar loro manforte, sempre nelle commissioni d’esame, vi erano e vi sono i magistrati che io ho denunciato per le loro malefatte.

Sessione d’esame d’avvocato 1998-1999. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce mi accorgo di alcune anomalie di legalità, tra cui il fatto che 6 Avetranesi su 6 vengono bocciati, me compreso, e che molti Commissari suggerivano ai candidati incapaci quanto scrivere nell’elaborato. Chi non suggeriva non impediva che gli altri lo facessero. Strano era, che compiti simili, copiati pedissequamente, erano valutati in modo difforme.

Sessione d’esame d’avvocato 1999-2000. Presidente di Commissione, Avv. Gaetano De Mauro, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Sul Quotidiano di Lecce  il Presidente della stessa Commissione d’esame dice che: “il numero degli avvocati è elevato e questa massa di avvocati è incompatibile con la realtà socio economica del Salento. Così nasce la concorrenza esasperata”. L’Avv. Pasquale Corleto nello stesso articolo aggiunge: “non basta studiare e qualificarsi, bisogna avere la fortuna di entrare in determinati circuiti, che per molti non sono accessibili”. L’abuso del potere della Lobby forense è confermato dall’Antitrust, che con provvedimento n. 5400, il 3 ottobre 1997 afferma: “ E' indubbio che, nel controllo dell'esercizio della professione, si sia pertanto venuto a determinare uno sbilanciamento tra lo Stato e gli Ordini e che ciò abbia potuto favorire la difesa di posizioni di rendita acquisite dai professionisti già presenti sul mercato.”

Sessione d’esame d’avvocato 2000-2001. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. La percentuale di idonei si diversifica: 1998, 60 %, 1999, 25 %, 2000, 49 %, 2001, 36 %. Mi accorgo che paga essere candidato proveniente dalla sede di esame, perché, raffrontando i dati per le province del distretto della Corte D’Appello, si denota altra anomalia: Lecce, sede d’esame, 187 idonei; Taranto 140 idonei; Brindisi 59 idonei. Non basta, le percentuali di idonei per ogni Corte D’Appello nazionale variano dal 10% del Centro-Nord al 99% di Catanzaro. L’esistenza degli abusi è nel difetto e nell’eccesso della percentuale. Il TAR Lombardia, con ordinanza n.617/00, applicabile per i compiti corretti da tutte le Commissioni d’esame, rileva che i compiti non si correggono per mancanza di tempo. Dai verbali risultano corretti in 3 minuti. Con esperimento giudiziale si accerta che occorrono 6 minuti solo per leggere l’elaborato. Il TAR di Lecce, eccezionalmente contro i suoi precedenti, ma conforme a pronunzie di altri TAR, con ordinanza 1394/00, su ricorso n. 200001275 di Stefania Maritati, decreta la sospensiva e accerta che i compiti non si correggono, perché sono mancanti di glosse o correzioni, e le valutazioni sono nulle, perché non motivate. In sede di esame si disattende la Direttiva CEE 48/89, recepita con D.Lgs.115/92, che obbliga ad  accertare le conoscenze deontologiche e di valutare le attitudini e le capacità di esercizio della professione del candidato, garantendo così l'interesse pubblico con equità e giustizia. Stante questo sistema di favoritismi, la Corte Costituzionale afferma, con sentenza n. 5 del 1999: "Il legislatore può stabilire che in taluni casi si prescinda dall'esame di Stato, quando vi sia stata in altro modo una verifica di idoneità tecnica e sussistano apprezzabili ragioni che giustifichino l'eccezione". In quella situazione, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame presso la Procura di Bari e alla Procura di Lecce, che la invia a Potenza. Inaspettatamente, pur con prove mastodontiche, le Procure di Potenza e Bari archiviano, senza perseguirmi per calunnia. Addirittura la Procura di Potenza non si è degnata di sentirmi.

Sessione d’esame d’avvocato 2001-2002. Presidente di Commissione, Avv. Antonio De Giorgi, Presidente Consiglio Ordine degli Avvocati di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. L’on. Luca Volontè, alla Camera, il 5 luglio 2001, presenta un progetto di legge, il n. 1202, in cui si dichiara formalmente che in Italia gli esami per diventare avvocato sono truccati. Secondo la sua relazione diventano avvocati non i capaci e i meritevoli, ma i raccomandati e i fortunati. Tutto mira alla limitazione della concorrenza a favore della Lobby. Addirittura c’è chi va in Spagna per diventare avvocato, per poi esercitare in Italia senza fare l’esame. A questo punto, presso la Procura di Taranto, presento denuncia penale contro la Commissione d’esame di Lecce con accluse varie fonti di prova. Così fanno altri candidati con decine di testimoni a dichiarare che i Commissari suggeriscono. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. Lo stesso Ministero della Giustizia, che indice gli esami di Avvocato,  mi conferma che in Italia gli esami sono truccati. Non basta, il Ministro della Giustizia, Roberto Castelli, propone il decreto legge di modifica degli esami, attuando pedissequamente la volontà del Consiglio Nazionale Forense che, di fatto, sfiducia le Commissioni d’esame di tutta Italia. Gli Avvocati dubitano del loro stesso grado di correttezza, probità e legalità. In data 03/05/03, ad Arezzo si riunisce il Consiglio Nazionale Forense con i rappresentanti dei Consigli dell’Ordine locali e i rappresentanti delle associazioni Forensi. Decidono di cambiare perché si accorgono che in Italia i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati abusano del loro potere per essere rieletti, chiedendo conto delle raccomandazioni elargite, e da qui la loro incompatibilità con la qualità di Commissario d’esame. In data 16/05/03, in Consiglio dei Ministri viene accolta la proposta di Castelli, che adotta la decisione del Consiglio Nazionale Forense. Ma in quella sede si decide, anche, di sbugiardare i Magistrati e i Professori Universitari, in qualità di Commissari d’esame, prevedendo l’incompatibilità della correzione del compito fatta dalla stessa Commissione d’esame. Con D.L. 112/03 si stabilisce che il compito verrà corretto da Commissione territorialmente diversa e i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere più Commissari. In Parlamento, in sede di conversione del D.L., si attua un dibattito acceso, riscontrabile negli atti parlamentari, dal quale scaturisce l’esistenza di un sistema concorsuale marcio ed illegale di accesso all’avvocatura. Il D.L. 112/03 è convertito nella Legge 180/03. I nuovi criteri prevedono l’esclusione punitiva dei Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati dalle Commissioni d’esame e la sfiducia nei Magistrati e i Professori Universitari per la correzione dei compiti. Però, acclamata  istituzionalmente l’illegalità, si omette di perseguire per abuso d’ufficio tutti i Commissari d’esame. Non solo. Ad oggi continuano ad essere Commissari d’esame gli stessi Magistrati e i Professori Universitari, ma è allucinante che, nelle nuove Commissioni d’esame, fanno parte ex Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati, già collusi in questo stato di cose quando erano in carica. Se tutto questo non basta a dichiarare truccato l’esame dell’Avvocatura, il proseguo fa scadere il tutto in una illegale “farsa”. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei. Durante la trasmissione “Diritto e Famiglia” di Studio 100, lo stesso Presidente dell’Ordine di Taranto, Egidio Albanese, ebbe a dire: “l’esame è blando, l’Avvocatura è un parcheggio per chi vuol far altro, diventa avvocato il fortunato, perché la fortuna aiuta gli audaci”. Si chiede copia del compito con la valutazione contestata. Si ottiene, dopo esborso di ingente denaro, per vederlo immacolato. Non contiene una correzione, né una motivazione alla valutazione data. Intanto, il Consiglio di Stato, VI sezione, con sentenza n.2331/03, non giustifica più l’abuso, indicando l’obbligatorietà della motivazione. Su queste basi di fatto e di diritto si presenta il ricorso al TAR. Il TAR, mi dice: “ dato che si disconosce il tutto, si rigetta l’istanza di sospensiva. Su queste basi vuole che si vada nel merito, per poi decidere sulle spese di giudizio?” 

Sessione d’esame d’avvocato 2003-2004. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Galluccio Mezio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. A Lecce le anomalie aumentano. I candidati continuano a copiare dai testi, dai telefonini, dai palmari, dai compiti passati dai Commissari. I candidati continuano ad essere aiutati dai suggerimenti dei Commissari. I nomi degli idonei circolano mesi prima dei risultati. I candidati leccesi, divenuti idonei, come sempre, sono la stragrande maggioranza rispetto ai brindisini e ai tarantini. Alla richiesta di visionare i compiti, senza estrarre copia, in segreteria, per ostacolarmi, non gli basta l’istanza orale, ma mi impongono la tangente della richiesta formale con perdita di tempo e onerose spese accessorie. Arrivano a minacciare la chiamata dei Carabinieri se non si fa come impongono loro, o si va via. Le anomalie di regolarità del Concorso Forense, avendo carattere generale, sono state oggetto della denuncia formale presentata presso le Procure Antimafia e presso tutti i Procuratori Generali delle Corti d’Appello e tutti i Procuratori Capo della Repubblica presso i Tribunali di tutta Italia. Si presenta l’esposto al Presidente del Consiglio e al Ministro della Giustizia, al Presidente della Commissione Parlamentare Antimafia e Giustizia del Senato. La Gazzetta del Mezzogiorno, in data 25/05/04, pubblica la notizia che altri esposti sono stati presentati contro la Commissione d’esame di Lecce (vedi Michele D’Eredità). Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2004-2005. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Marcello Marcuccio, Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Durante le prove d’esame ci sono gli stessi suggerimenti e le stesse copiature. I pareri motivati della prova scritta avvenuta presso una Commissione d’esame vengono corretti da altre Commissioni. Quelli di Lecce sono corretti dalla Commissione d’esame di Torino, che da anni attua un maggiore sbarramento d’idoneità. Ergo: i candidati sanno in anticipo che saranno bocciati in numero maggiore a causa dell’illegale limitazione della concorrenza professionale. Presento l’ennesima denuncia presso la Procura di Potenza, la Procura di Bari, la Procura di Torino e la Procura di Milano, e presso i Procuratori Generali e Procuratori Capo di Lecce, Bari, Potenza e Taranto, perché tra le altre cose, mi accorgo che tutti i candidati provenienti da paesi amministrati da una parte politica, o aventi Parlamentari dello stesso colore, sono idonei in percentuale molto maggiore. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2005-2006. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Raffaele Dell’Anna. Principe del Foro di Lecce. Sono stato bocciato. Addirittura i Commissari dettavano gli elaborati ai candidati. Gente che copiava dai testi. Gente che copiava dai palmari. Le valutazioni delle 7 Sottocommissioni veneziane non sono state omogenee, se non addirittura contrastanti nei giudizi. Il Tar di Salerno, Ordinanza n.1474/2006, conforme al Tar di Lecce, Milano e Firenze, dice che l’esame forense è truccato. I Tar stabiliscono che i compiti non sono corretti perché non vi è stato tempo sufficiente, perché non vi sono correzioni,  perché mancano le motivazioni ai giudizi, perché i giudizi sono contrastanti, anche in presenza di compiti copiati e non annullati. Si è presentata l’ulteriore denuncia a Trento e a Potenza. Tutto lettera morta.

Sessione d’esame d’avvocato 2006-2007. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Giangaetano Caiaffa. Principe del Foro di Lecce. Presente l’Ispettore Ministeriale Vito Nanna. I posti a sedere, negli anni precedenti assegnati in ordine alfabetico, in tale sessione non lo sono più, tant’è che si sono predisposti illecitamente gruppi di ricerca collettiva. Nei giorni 12,13,14 dicembre, a dispetto dell’orario di convocazione delle ore 07.30, si sono letti i compiti rispettivamente alle ore 11.45, 10.45, 11.10. Molte ore dopo rispetto alle ore 09.00 delle altre Commissioni d’esame. Troppo tardi, giusto per agevolare la dettatura dei compiti tramite cellulari, in virtù della conoscenza sul web delle risposte ai quesiti posti. Commissione di correzione degli scritti è Palermo. Per ritorsione conseguente alle mie lotte contro i concorsi forensi truccati e lo sfruttamento dei praticanti, con omissione di retribuzione ed evasione fiscale e contributiva, dopo 9 anni di bocciature ritorsive all’esame forense e ottimi pareri resi, quest’anno mi danno 15, 15, 18 per i rispettivi elaborati, senza correzioni e motivazioni: è il minimo. Da dare solo a compiti nulli. La maggior parte degli idonei è leccese, in concomitanza con le elezioni amministrative, rispetto ai tarantini ed ai brindisini. Tramite le televisioni e i media nazionali si promuove un ricorso collettivo da presentare ai Tar di tutta Italia contro la oggettiva invalidità del sistema giudiziale rispetto alla totalità degli elaborati nel loro complesso: per mancanza, nelle Sottocommissioni di esame, di tutte le componenti professionali necessarie e, addirittura, del Presidente nominato dal Ministero della Giustizia; per giudizio con motivazione mancante, o illogica rispetto al quesito, o infondata per mancanza di glosse o correzioni, o incomprensibile al fine del rimedio alla reiterazione degli errori; giudizio contrastante a quello reso per elaborati simili; giudizio non conforme ai principi di correzione; giudizio eccessivamente severo; tempo di correzione insufficiente. Si presenta esposto penale contro le commissioni di  Palermo, Lecce, Bari, Venezia, presso le Procure di Taranto, Lecce, Potenza, Palermo, Caltanissetta, Bari, Venezia, Trento. Il Pubblico Ministero di Palermo archivia immediatamente, iscrivendo il procedimento a carico di ignoti, pur essendoci chiaramente indicati i 5 nomi dei Commissari d’esame denunciati. I candidati di Lecce disertano in modo assoluto l’iniziativa del ricorso al Tar. Al contrario, in altre Corti di Appello vi è stata ampia adesione, che ha portato a verificare, comparando, modi e tempi del sistema di correzione. Il tutto a confermare le illegalità perpetrate, che rimangono impunite.

Sessione d’esame d’avvocato 2007-2008. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Massimo Fasano, Principe del Foro di Lecce. Addirittura uno scandalo nazionale ha sconvolto le prove scritte: le tracce degli elaborati erano sul web giorni prima rispetto alla loro lettura in sede di esame. Le risposte erano dettate da amici e parenti sul cellulare e sui palmari dei candidati. Circostanza da sempre esistita e denunciata dal sottoscritto nell’indifferenza generale. Questa volta non sono solo. Anche il Sottosegretario del Ministero dell’Interno, On. Alfredo Mantovano, ha presentato denuncia penale e una interrogazione parlamentare al Ministro della Giustizia, chiedendo la nullità della prova, così come è successo per fatto analogo a Bari, per i test di accesso alla Facoltà di Medicina. Anche per lui stesso risultato: insabbiamento dell’inchiesta.

Sessione d’esame d’avvocato 2008-2009. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Pietro Nicolardi, Principe del Foro di Lecce. E’ la undicesima volta che mi presento a rendere dei pareri legali. Pareri legali dettati ai candidati dagli stessi commissari o dai genitori sui palmari. Pareri resi su tracce già conosciute perché pubblicate su internet o perché le buste sono aperte ore dopo rispetto ad altre sedi, dando il tempo ai candidati di farsi passare il parere sui cellulari. Pareri di 5 o 6 pagine non letti e corretti, ma dichiarati tali in soli 3 minuti, nonostante vi fosse l’onere dell’apertura di 2 buste, della lettura, della correzione, del giudizio, della motivazione e della verbalizzazione. Il tutto fatto da commissioni illegittime, perché mancanti dei componenti necessari e da giudizi nulli, perché mancanti di glosse, correzioni e motivazioni. Il tutto fatto da commissioni che limitano l’accesso e da commissari abilitati alla professione con lo stesso sistema truccato. Da quanto emerge dal sistema concorsuale forense, vi è una certa similitudine con il sistema concorsuale notarile e quello giudiziario e quello accademico, così come le cronache del 2008 ci hanno informato. Certo è che se nulla hanno smosso le denunce del Ministro dell’Istruzione, Gelmini, lei di Brescia costretta a fare gli esami a Reggio Calabria, e del Sottosegretario al Ministero degli Interni, Mantovano, le denunce insabbiate dal sottoscritto contro i concorsi truccati, mi porteranno, per ritorsione, ad affrontare l’anno prossimo per la dodicesima volta l’esame forense, questa volta con mio figlio Mirko. Dopo essere stato bocciato allo scritto dell’esame forense per ben 11 volte, che ha causato la mia indigenza ho provato a visionare i compiti, per sapere quanto fossi inetto. Con mia meraviglia ho scoperto che il marcio non era in me. La commissione esaminatrice di Reggio Calabria era nulla, in quanto mancante di una componente necessaria. Erano 4 avvocati e un magistrato. Mancava la figura del professore universitario. Inoltre i 3 temi, perfetti in ortografia, sintassi e grammatica, risultavano visionati e corretti in soli 5 minuti, compresi i periodi di apertura di 6 buste e il tempo della consultazione, valutazione ed estensione del giudizio. Tempo ritenuto insufficiente da molti Tar. Per questi motivi, senza entrare nelle tante eccezioni da contestare nel giudizio, compresa la comparazione di compiti identici, valutati in modo difforme, si appalesava la nullità assoluta della decisione della commissione, già acclarata da precedenti giurisprudenziali. Per farmi patrocinare, ho provato a rivolgermi ad un principe del foro amministrativo di Lecce. Dal noto esponente politico non ho meritato risposta. Si è di sinistra solo se si deve avere, mai se si deve dare. L’istanza di accesso al gratuito patrocinio presentata personalmente, dopo settimane, viene rigettata. Per la Commissione di Lecce c’è indigenza, ma non c’è motivo per il ricorso!!! Nel processo amministrativo si rigettano le istanze di ammissione al gratuito patrocinio per il ricorso al Tar per mancanza di “fumus”: la commissione formata ai sensi della finanziaria 2007 (Governo Prodi) da 2 magistrati del Tar e da un avvocato, entra nel merito, adottando una sentenza preventiva senza contraddittorio, riservandosi termini che rasentano la decadenza per il ricorso al Tar.

Sessione d’esame d’avvocato 2009-2010. Tutto come prima. Presidente di Commissione Avv. Angelo Pallara, Principe del Foro di Lecce. Nella sua sessione, nonostante i candidati fossero meno della metà degli altri anni, non ci fu notifica postale dell’ammissione agli esami. E’ la dodicesima volta che mi presento. Questa volta con mio figlio Mirko. Quantunque nelle sessioni precedenti i miei compiti non fossero stati corretti e comunque giudicate da commissioni illegittime, contro le quali mi è stato impedito il ricorso al Tar. Le mie denunce penali presentate a Lecce, Potenza, Catanzaro, Reggio Calabria, e i miei esposti ministeriali: tutto lettera morta. Alle mie sollecitazioni il Governo mi ha risposto: hai ragione, provvederemo. Il provvedimento non è mai arrivato.  Intanto il Ministro della Giustizia nomina ispettore ministeriale nazionale per questa sessione, come negli anni precedenti, l’avv. Antonio De Giorgi, già Presidente di commissione di esame di Lecce, per gli anni 1998-99, 2000-01, 2001-02, e ricoprente l’incarico di presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce. Insomma è tutta una presa in giro: costui con la riforma del 2003 è incompatibile a ricoprire l’incarico di presidente di sottocommissione, mentre, addirittura, viene nominato ispettore su un concorso che, quando lui era presidente, veniva considerato irregolare. Comunque è di Avetrana (TA) l’avvocato più giovane d’Italia. Il primato è stabilito sul regime dell’obbligo della doppia laurea. 25 anni. Mirko Giangrande, classe 1985. Carriera scolastica iniziata direttamente con la seconda elementare; con voto 10 a tutte le materie al quarto superiore salta il quinto ed affronta direttamente la maturità. Carriera universitaria nei tempi regolamentari: 3 anni per la laurea in scienze giuridiche; 2 anni per la laurea magistrale in giurisprudenza. Praticantato di due anni e superamento dell’esame scritto ed orale di abilitazione al primo colpo, senza l’ausilio degli inutili ed onerosi corsi pre esame organizzati dal Consiglio dell’Ordine degli Avvocati. Et Voilà, l’avvocato più giovane d’Italia. Cosa straordinaria: non tanto per la giovane età, ma per il fatto che sia avvenuta contro ogni previsione, tenuto conto che Mirko è figlio di Antonio Giangrande, noto antagonista della lobby forense e della casta giudiziaria ed accademica. Ma nulla si può contro gli abusi e le ritorsioni, nonostante che ogni anno in sede di esame tutti coloro che gli siedono vicino si abilitano con i suoi suggerimenti. Volontariato da educatore presso l’oratorio della parrocchia di Avetrana, e volontariato da assistente e consulente legale presso l’Associazione Contro Tutte le Mafie, con sede nazionale proprio ad Avetrana, fanno di Mirko Giangrande un esempio per tanti giovani, non solo avetranesi. Questo giustappunto per evidenziare una notizia positiva attinente Avetrana, in alternativa a quelle sottaciute ed alle tante negative collegate al caso di Sarah Scazzi. L’iscrizione all’Albo compiuta a novembre nonostante l’abilitazione sia avvenuta a settembre, alla cui domanda con allegati l’ufficio non rilascia mai ricevuta, è costata in tutto la bellezza di 650 euro tra versamenti e bolli. Ingenti spese ingiustificate a favore di caste-azienda, a cui non corrispondono degni ed utili servizi alle migliaia di iscritti. Oltretutto oneri non indifferenti per tutti i neo avvocati, che non hanno mai lavorato e hanno sopportato con sacrifici e privazioni ingenti spese per anni di studio. Consiglio dell’Ordine di Taranto che, come riportato dalla stampa sul caso Sarah Scazzi, apre un procedimento contro i suoi iscritti per sovraesposizione mediatica, accaparramento illecito di cliente e compravendita di atti ed interviste (Galoppa, Russo e Velletri) e nulla dice, invece, contro chi, avvocati e consulenti, si è macchiato delle stesse violazioni, ma che, venuto da lontano, pensa che Taranto e provincia sia terra di conquista professionale e tutto possa essere permesso. Figlio di famiglia indigente ed oppressa: il padre, Antonio Giangrande, perseguitato (abilitazione forense impedita da 12 anni; processi, senza condanna, di diffamazione a mezzo stampa per articoli mai scritti e di calunnia per denunce mai presentate in quanto proprio le denunce presentate sono regolarmente insabbiate; dibattimenti in cui il giudice è sempre ricusato per grave inimicizia perché denunciato). Perseguitato perché noto antagonista del sistema giudiziario e forense tarantino, in quanto combatte e rende note le ingiustizie e gli abusi in quel che viene definito “Il Foro dell’Ingiustizia”. (insabbiamenti; errori giudiziari noti: Morrone, Pedone, Sebai; magistrati inquisiti e arrestati). Perseguitato perché scrive e dice tutto quello che si tace.

Sessione d’esame d’avvocato 2010-2011. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Maurizio Villani, Principe del Foro di Lecce. Compresa la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo. Presente anche il Presidente della Commissione Centrale Avv. Antonio De Giorgi, contestualmente componente del Consiglio Nazionale Forense, in rappresentanza istituzionale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati del distretto della Corte di Appello di Lecce. Tutto verificabile dai siti web di riferimento. Dubbi e critica sui modi inopportuni di nomina. Testo del Decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, recante modifiche urgenti alla disciplina degli esami di abilitazione alla professione forense, è convertito in legge con le modificazioni coordinate con la legge di conversione 18 Luglio 2003, n. 180: “Art. 1-bis: ….5. Il Ministro della giustizia nomina per la commissione e per ogni sottocommissione il presidente e il vicepresidente tra i componenti avvocati. I supplenti intervengono nella commissione e nelle sottocommissioni in sostituzione di qualsiasi membro effettivo. 6. Gli avvocati componenti della commissione e delle sottocommissioni sono designati dal Consiglio nazionale forense, su proposta congiunta dei consigli dell'ordine di ciascun distretto, assicurando la presenza in ogni sottocommissione, a rotazione annuale, di almeno un avvocato per ogni consiglio dell'ordine del distretto. Non possono essere designati avvocati che siano membri dei consigli dell'ordine…”. Antonio De Giorgi è un simbolo del vecchio sistema ante riforma, ampiamente criticato tanto da riformarlo a causa della “Mala Gestio” dei Consiglieri dell’Ordine in ambito della loro attività come Commissari d’esame. Infatti Antonio De Giorgi è stato a fasi alterne fino al 2003 Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Lecce e contestualmente Presidente di sottocommissioni di esame di quel Distretto. Oggi ci ritroviamo ancora Antonio De Giorgi, non più come Presidente di sottocommissione, ma addirittura come presidente della Commissione centrale. La norma prevede, come membro di commissione e sottocommissione, la nomina di avvocati, ma non di consiglieri dell’Ordine. Come intendere la carica di consigliere nazionale forense indicato dal Consiglio dell’Ordine di Lecce, se non la sua estensione istituzionale e, quindi, la sua incompatibilità alla nomina di Commissario d’esame. E quantunque ciò non sia vietato dalla legge, per la ratio della norma e per il buon senso sembra inopportuno che, come presidente di Commissione centrale e/o sottocommissione periferica d’esame, sia nominato dal Ministro della Giustizia non un avvocato designato dal Consiglio Nazionale Forense su proposta dei Consigli dell'Ordine, ma addirittura un membro dello stesso Consiglio Nazionale Forense che li designa. Come è inopportuno che sia nominato chi sia l’espressione del Consiglio di appartenenza e comunque che sia l’eredità di un sistema osteggiato. Insomma, qui ci stanno prendendo in giro: si esce dalla porta e si entra dalla finestra. Cosa può pensare un candidato che si sente dire dai presidenti Villani e De Giorgi, siamo 240 mila e ci sono quest’anno 23 mila domande, quindi ci dobbiamo regolare? Cosa può pensare Antonio Giangrande, il quale ha denunciato negli anni le sottocommissioni comprese quelle presiedute da Antonio De Giorgi (sottocommissioni a cui ha partecipato come candidato per ben 13 anni e che lo hanno bocciato in modo strumentale), e poi si accorge che il De Giorgi, dopo la riforma è stato designato ispettore ministeriale, e poi, addirittura, è diventato presidente della Commissione centrale? Cosa può pensare Antonio Giangrande, quando verifica che Antonio De Giorgi, presidente anche delle sottocommissioni denunciate, successivamente ha avuto rapporti istituzionali con tutte le commissioni d’esame sorteggiate, competenti a correggere i compiti di Lecce e quindi anche del Giangrande? "A pensare male, spesso si azzecca..." disse Giulio Andreotti. Nel procedimento 1240/2011, in cui si sono presentati ben 8 motivi di nullità dei giudizi (come in allegato), il TAR rigetta il ricorso del presente istante, riferendosi alla sentenza della Corte Costituzionale, oltre ad addurre, pretestuosamente, motivazioni estranee ai punti contestati (come si riscontra nella comparazione tra le conclusioni e il dispositivo in allegato). Lo stesso TAR, invece, ha disposto la misura cautelare per un ricorso di altro candidato che contestava un solo motivo, (procedimento 746/2009). Addirittura con ordinanza 990/2010 accoglieva l’istanza cautelare entrando nel merito dell’elaborato. Ordinanza annullata dal Consiglio di Stato, sez. IV, 22 febbraio 2011, n. 595. TENUTO CONTO CHE IN ITALIA NON VI E' GIUSTIZIA SI E' PRESENTATO RICORSO ALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI UMANI. Qui si rileva che la Corte di Cassazione, nonostante la fondatezza della pretesa, non ha disposto per motivi di Giustizia e di opportunità la rimessione dei processi dell’istante ai sensi dell’art. 45 ss. c.p.p.. Altresì qui si rileva che la Corte di Cassazione, sistematicamente, rigetta ogni istanza di rimessione da chiunque sia presentata e qualunque ne sia la motivazione. Inoltre qui si rileva che la Corte Costituzionale legittima per tutti i concorsi pubblici la violazione del principio della trasparenza. Trasparenza, da cui dedurre l’inosservanza delle norme sulla legalità, imparzialità ed efficienza.

Sessione d’esame d’avvocato 2011-2012. Tutto come prima. Spero che sia l'ultima volta. Presidente di Commissione, Avv. Nicola Stefanizzo, Principe del Foro di Lecce. Foro competente alla correzione: Salerno. Dal sito web della Corte d’Appello di Lecce si vengono a sapere le statistiche dell'anno 2011: Totale Candidati iscritti 1277 di cui Maschi 533 Femmine 744. Invece le statistiche dell'anno 2010: Totale Candidati inscritti 1161 di cui Maschi 471 Femmine 690. Ammessi all'orale 304; non Ammessi dalla Commissione di Palermo 857 (74%). Si è presentata denuncia penale a tutte le procure presso le Corti d'Appello contro le anomalie di nomina della Commissione centrale d'esame, oltre che contro la Commissione di Palermo, in quanto questa ha dichiarato falsamente come corretti i compiti del Dr Antonio Giangrande, dando un 25 senza motivazione agli elaborati non corretti. Contestualmente si è denunciato il Tar di Lecce che ha rigettato il ricorso indicanti molteplici punti di nullità al giudizio dato ai medesimi compiti. Oltretutto motivi sostenuti da corposa giurisprudenza. Invece lo stesso Tar ha ritenuto ammissibili le istanze di altri ricorsi analoghi, per giunta valutando il merito degli stessi elaborati. Antonio Giangrande, l’alfiere contro i concorsi truccati, che per gli ipocriti è un mitomane sfigato, presenta il conto. Anzi il rendiconto di un'Italia da schifo dove tutti si ergono a benpensanti e poi sono i primi a fottere la legge ed i loro conterranei. Un giudizio sull’operato di un certo giornalismo lo debbo proprio dare, tenuto conto che è noto il mio giudizio su un sistema di potere che tutela se stesso, indifferente ai cambiamenti sociali ed insofferente nei confronti di chi si ribella. Da anni sui miei siti web fornisco le prove su come si trucca un concorso pubblico, nella fattispecie quello di avvocato, e su come si paga dazio nel dimostrarlo. Nel tempo la tecnica truffaldina, di un concorso basato su regole di un millennio fa, si è affinata trovando sponda istituzionale. La Corte Costituzionale il 7 giugno 2011, con sentenza n. 175, dice: è ammesso il giudizio non motivato, basta il voto. Alla faccia della trasparenza e del buon andamento e della legalità. Insomma dove prima era possibile contestare ora non lo è più. D'altronde la Cassazione ammette: le commissioni sbagliano ed il Tar può sindacare i loro giudizi. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. L’essere omertosi sulla cooptazione abilitativa di una professione od incarico, mafiosamente conforme al sistema, significa essere complici e quindi poco credibili agli occhi dei lettori e telespettatori, che, come dalla politica, si allontana sempre più da un certo modo di fare informazione. Il fatto che io non trovi solidarietà e sostegno in chi dovrebbe raccontare i fatti, mi lascia indifferente, ma non silente sul malaffare che si perpetra intorno a me ed è taciuto da chi dovrebbe raccontarlo. Premiale è il fatto che i miei scritti sono letti in tutto il mondo, così come i miei video, in centinaia di migliaia di volte al dì, a differenza di chi e censorio. Per questo è ignorato dal cittadino che ormai, in video o in testi, non trova nei suoi servizi giornalistici la verità, se non quella prona al potere. Dopo 15 anni, dal 1998 ancora una volta bocciato all’esame di avvocato ed ancora una volta a voler trovare sponda per denunciare una persecuzione. Non perché voglia solo denunciare l’esame truccato per l’abilitazione in avvocatura, di cui sono vittima, ma perché lo stesso esame sia uguale a quello della magistratura (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni), del notariato (tracce già svolte), dell’insegnamento accademico (cattedra da padre in figlio) e di tanti grandi e piccoli concorsi nazionali o locali. Tutti concorsi taroccati, così raccontati dalla cronaca divenuta storia. Per ultimo si è parlato del concorso dell’Agenzia delle Entrate (inizio dell’esame con ore di ritardo e con il compito già svolto) e del concorso dell’Avvocatura dello Stato (con i codici commentati vietati, ma permessi ad alcuni). A quest’ultimi candidati è andata anche peggio rispetto a me: violenza delle Forze dell’Ordine sui candidati che denunciavano l’imbroglio. Non che sia utile trovare una sponda che denunci quanto io sostengo con prove, tanto i miei rumors fanno boato a sè, ma si appalesa il fatto che vi è una certa disaffezione per quelle categorie che giornalmente ci offrono con la cronaca il peggio di sé: censura ed omertà. Per qualcuno forse è meglio che a me non sia permesso di diventare avvocato a cause delle mie denunce presentate a chi, magistrato, oltre che omissivo ad intervenire, è attivo nel procrastinare i concorsi truccati in qualità di commissari. Sia chiaro a tutti: essere uno dei 10mila magistrati, uno dei 200mila avvocati, uno dei mille parlamentari, uno dei tanti professori o giornalisti, non mi interessa più, per quello che è il loro valore reale, ma continuerò a partecipare al concorso forense per dimostrare dall’interno quanto sia insano. Chi mi vuol male, per ritorsione alle mie lotte, non mi fa diventare avvocato, ma vorrebbe portarmi all’insana esasperazione di Giovanni Vantaggiato, autore della bomba a Brindisi. Invece, questi mi hanno fatto diventare l’Antonio Giangrande: fiero di essere diverso! Antonio Giangrande che con le sue deflagrazioni di verità, rompe l’omertà mafiosa. L’appoggio per una denuncia pubblica non lo chiedo per me, che non ne ho bisogno, ma una certa corrente di pensiero bisogna pur attivarla, affinché l’esasperazione della gente non travolga i giornalisti, come sedicenti operatori dell’informazione, così come già avvenuto in altri campi. E gli operatori dell’informazione se non se ne sono accorti, i ragazzi di Brindisi sono stati lì a ricordarglielo. Si è visto la mafia dove non c’è e non la si indica dove è chiaro che si annida. Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.). Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti). La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo. Quindi abolizione dei concorsi truccati e liberalizzazione delle professioni. Che sia il libero mercato a decidere chi merita di esercitare la professione in base alle capacità e non in virtù della paternità o delle amicizie. Un modo per poter vincere la nostra battaglia ed abolire ogni esame truccato di abilitazione, c'è! Essere in tanti a testimoniare il proprio dissenso. Ognuno di noi, facente parte dei perdenti, inviti altri ad aderire ad un movimento di protesta, affinchè possiamo essere migliaia e contare politicamente per affermare la nostra idea. Generalmente si è depressi e poco coraggiosi nell'affrontare l'esito negativo di un concorso pubblico. Se già sappiamo che è truccato, vuol dire che la bocciatura non è a noi addebitale. Cambiamo le cose, aggreghiamoci, contiamoci attraverso facebook. Se siamo in tanti saremo appetibili e qualcuno ci rappresenterà in Parlamento. Altrimenti ci rappresenteremo da soli. Facciamo diventare questo dissenso forte di migliaia di adesioni. Poi faremo dei convegni e poi delle manifestazioni. L'importante far sapere che il candidato perdente non sarà mai solo e potremo aspirare ad avere una nuova classe dirigente capace e competente.

Sessione d’esame d’avvocato 2012-2013. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco Flascassovitti, Principe del Foro di Lecce, il quale ha evitato la transumanza di candidati da un'aula all'altra per fare gruppo con una semplice soluzione: il posto assegnato. Ma ciò non ha evitato l’espulsione di chi è stato scoperto a copiare da fonti non autorizzate o da compiti stilati forse da qualche commissario, oppure smascherato perché scriveva il tema sotto dettatura da cellulare munito di auricolare. Peccato per loro che si son fatti beccare. Tutti copiavano, così come hanno fatto al loro esame gli stessi commissari che li hanno cacciati. Ed è inutile ogni tentativo di apparir puliti. Quattromila aspiranti avvocati si sono presentati alla Nuova Fiera di Roma per le prove scritte dell'esame di abilitazione forense 2012. I candidati si sono presentati all'ingresso del secondo padiglione della Fiera sin dalle prime ore del mattino, perchè a Roma c'è l'obbligo di consegnare i testi il giorno prima, per consentire alla commissione di controllare che nessuno nasconda appunti all'interno. A Lecce sono 1.341 i giovani (e non più giovani come me) laureati in Giurisprudenza. Foro competente alla correzione: Catania. Un esame di Stato che è diventato un concorso pubblico, dove chi vince, vince un bel niente. Intanto il mio ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro la valutazione insufficiente data alle prove scritte della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione, non ha prodotto alcun giudizio, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito del ricorso, a ben altre due sessioni successive, il cui esito è identico ai 15 anni precedenti: compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar è stati costretti di presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Dall’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Ormai l’esame lo si affronta non tanto per superarlo, in quanto dopo 15 anni non vi è più soddisfazione, dopo una vita rovinata non dai singoli commissari, avvocati o magistrati o professori universitari, che magari sono anche ignari su come funziona il sistema, ma dopo una vita rovinata da un intero sistema mafioso, che si dipinge invece, falsamente, probo e corretto, ma lo si affronta per rendere una testimonianza ai posteri ed al mondo. Per raccontare, insomma, una realtà sottaciuta ed impunita. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992. Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.  A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi, tanto chi mi conosce sa cosa faccio anche per l’Italia e per la sua città. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. A questo punto mi devono spiegare cosa centra, per esempio, la siciliana Anna Finocchiaro con la Puglia e con Taranto in particolare. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da venti anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presento l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei miei compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farmi partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il mio ricorso va rigettato, ma devono spiegare non a me, ma a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal sottoscritto e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti? QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME? Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi. La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato? «Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”. E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”. Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati. Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno. A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati. Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più? Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465). E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”. E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima». Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar. Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio? Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito. Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme. Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

Sessione d’esame d’avvocato 2013-2014. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Covella, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati.  Naturalmente anche in questa sessione un altro tassello si aggiunge ad inficiare la credibilità dell’esame forense. "La S.V. ha superato le prove scritte e dovrà sostenere le prove orali dinanzi alla Sottocommissione". "Rileviamo che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali". Due documenti, il secondo contraddice e annulla il primo (che è stato un errore), sono stati inviati dalla Corte di Appello di Lecce ad alcuni partecipanti alla prova d’esame per diventare avvocato della tornata 2013, sostenuta nel dicembre scorso. Agli esami di avvocato della Corte di Appello di Lecce hanno partecipato circa mille praticanti avvocati e gli elaborati sono stati inviati per la correzione alla Corte di Appello di Palermo. (commissari da me denunciati per concorsi truccati già in precedente sessione). L’errore ha provocato polemiche e critiche sul web da parte dei candidati. La vicenda sembra avere il sapore di una beffa travestita da caos burocratico, ma non solo. Che in mezzo agli idonei ci siano coloro che non debbano passare e al contrario tra gli scartati ci siano quelli da far passare? E lì vi è un dubbio che assale i malpensanti. Alle 17 del 19 giugno nella posta di alcuni candidati (nell’Intranet della Corte di Appello) è arrivata una comunicazione su carta intestata della stessa Corte di Appello, firmata dal presidente della commissione, avvocato Luigi Covella, con la quale si informava di aver superato "le prove scritte" fissando anche le date nelle quali sostenere le prove orali, con la prima e la seconda convocazione. Tre ore dopo, sul sito ufficiale corteappellolecce.it, la smentita con una breve nota. "Rileviamo – è scritto – che sono state erroneamente immesse nel sistema le comunicazioni relative all’esito delle prove scritte e le convocazioni per le prove orali. Le predette comunicazioni e convocazioni non hanno valore legale in quanto gli esiti delle prove scritte non sono stati ancora pubblicati in forma ufficiale. Gli esiti ufficiali saranno resi pubblici a conclusione delle operazioni di inserimento dei dati nel sistema, attualmente ancora in corso". Sui forum animati dai candidati sul web è scoppiata la protesta e in tanti si sono indignati. "Vergogna", scrive Rosella su mininterno.net. "Quello che sta accadendo non ha precedenti. Mi manca soltanto sapere di essere stato vittima di uno scherzo!", puntualizza Pier. Un candidato che si firma Sicomor: "un classico in Italia... divertirsi sulla sorte della povera gente! poveri noi!". Un altro utente attacca: "Si parano il c... da cosa? L’anno scorso i risultati uscirono il venerdì sera sul profilo personale e poi il sabato mattina col file pdf sul sito pubblico della Corte! La verità è che navighiamo in un mare di poca professionalità e con serietà pari a zero!". Frank aggiunge: "Ma come è possibile una cosa simile stiamo parlando di un concorso!". Il pomeriggio di lunedì 23 giugno 2014 sono stati pubblicati i nomi degli idonei all’orale. Quelli “giusti”, questa volta. E dire che trattasi della Commissione d’esame di Palermo da me denunciata e della commissione di Lecce, da me denunciata. Che consorteria tra toghe forensi e giudiziarie. Sono 465 i candidati ammessi alla prova orale presso la Corte di Appello di Lecce. E' quanto si apprende dalla comunicazione 21 giugno 2013 pubblicata sul sito della Corte di Appello di Lecce. Il totale dei partecipanti era di 1.258 unità: la percentuale degli ammessi risulta pertanto pari al 36,96%. Una percentuale da impedimento all’accesso. Percentuale propria delle commissioni d’esame di avvocato nordiste e non dell’insulare Palermo. Proprio Palermo. Il Presidente del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Termini Imerese, in primo grado fu condannato a 10 mesi. L’accusa: truccò il concorso per avvocati. Non fu sospeso. Da “La Repubblica” di Palermo del 10/01/2001: Parla il giovane aspirante avvocato, che ha portato con sé una piccola telecamera per filmare “palesi irregolarità”. «Ho le prove nel mio video del concorso truccato. Ho un’altra cassetta con sette minuti di immagini, che parlano da sole. Oggi sarò sentito dal magistrato. A lui racconterò tutto ciò che ho visto. La giornata di un concorsista, aspirante avvocato, comincia alle quattro e mezza del mattino. Alle sei devi esser in prima fila. Ed è quello il momento in cui capisci come vanno le cose. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla». I.D.B., 38 anni, ha voluto rompere il silenzio. Nei giorni dell’esame scritto per l’abilitazione forense si è portato dietro una piccola telecamera e ha documentato quelle che lui chiama “palesi irregolarità”. E’ stato bloccato dai commissari e la cassetta con le immagini è stata sequestrata. Ma lui non si perde d’animo: «in fondo io cerco solo la verità». Intanto, I.D.B. rompe il silenzio con “La Repubblica” perché dice «è importante cercare un movimento d’opinione attorno a questa vicenda ». E ha già ricevuto la solidarietà dell’associazione Nazionale Praticanti ed avvocati. «Vorrei dire – racconta – delle sensazioni che ho provato tutte le volte che ho fatto questo esame. Sensazioni di impotenza per quello che senti intorno. Ed è il segreto di Pulcinella. Eccone uno: basta comunicare la prima frase del compito a chi di dovere. Io ho chiesto i temi che avevo fatto nelle sessioni precedenti: non c’era una correzione, una motivazione, solo un voto». Il primo giorno degli esami scritti il giovane si è guardato intorno. L’indomani era già dietro la telecamera: «Ho filmato circa sette minuti, in lungo ed in largo nel padiglione 20 della Fiera del Mediterraneo, dove c’erano più di novecento candidati. A casa ho rivisto più volte il filmato e ho deciso che avrei dovuto documentare ancora. Così è stato. Il secondo filmato, quello sequestrato, dura più del primo. A un certo punto una collega si è accorta di me e ha chiamato uno dei commissari. Non ho avuto alcun problema, ho consegnato la cassetta. E sin dal primo momento ho detto: Mi sono accorto di alcune irregolarità e ho documentato. Allora mi hanno fatto accomodare in una stanza. E insistevano: perché l’ha fatto?. Tornavo a parlare delle irregolarità. Poi mi chiedevano chi le avesse fatte. Lo avrei detto al presidente della commissione, in disparte. Davanti a tutti, no!» Il giovane si dice stupito per il clamore suscitato dal suo gesto: «Non dovrebbe essere questo a sorprendere, ho avuto solo un po’ più di coraggio degli altri». Ma cosa c’è in quelle videocassette? L’aspirante avvocato non vuole dire di più, fa cenno ad un commissario sorpreso in atteggiamenti confidenziali con alcuni candidati: «Francamente non capisco perché non siano stati presi provvedimenti per il concorso. Quei capannelli che ho ripreso sono davvero troppo da tollerare. Altro che piccoli suggerimenti!».

Sessione d’esame d’avvocato 2014-2015. Tutto come prima. Presidente di Commissione, Avv. Francesco De Jaco, Principe del Foro di Lecce. Presidente coscienzioso e preparato. Compiti come sempre uguali perché la soluzione la forniva il commissario, il compagno di banco od i testi non autorizzati. Sede di Corte d’appello sorteggiata per la correzione è Brescia. Mi tocca, non come il ministro Gelmini che da Brescia ha scelto Reggio Calabria, dopo ben 12 anni dalla laurea conseguita a Milano. In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere tra fare l’esame a Brescia o scendere giù in Calabria, spiegherà a Flavia Amabile: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta, per fortuna poi modificata perché il sistema è stato completamente rivisto». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». Del resto, aggiunge, lei ha «una lunga consuetudine con il Sud. Una parte della mia famiglia ha parenti in Cilento». Certo, è a quasi cinquecento chilometri da Reggio. Ma sempre Mezzogiorno è. E l'esame? Com'è stato l'esame? «Assolutamente regolare». Non severissimo, diciamo, neppure in quella sessione. Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno. Così facevan tutti, dice Mariastella Gelmini. Io dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a lui di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati.  Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. A Bari avrebbero tentato di agevolare la prova d'esame di cinque aspiranti avvocati ma sono stati bloccati e denunciati dai Carabinieri, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. È accaduto nella Fiera del Levante di Bari dove è in corso da tre giorni l'esame di abilitazione professionale degli avvocati baresi. In circa 1500 hanno sostenuto le prove scritte in questi giorni ma oggi, ultimo giorno degli scritti, i Carabinieri sono intervenuti intercettando una busta contenente i compiti diretti a cinque candidati. Un dipendente della Corte di Appello, con il compito di sorvegliante nei tre giorni di prova, avrebbe consegnato ad una funzionaria dell'Università la busta con le tracce. Lei, dopo alcune ore, gli avrebbe restituito la busta con all'interno i compiti corretti e un biglietto con i cinque nomi a cui consegnare i temi. Proprio nel momento del passaggio sono intervenuti i Carabinieri, che pedinavano la donna fin dal primo giorno, dopo aver ricevuto una segnalazione. Sequestrata la busta i militari hanno condotto i due in caserma per interrogarli. Al momento sono indagati a piede libero per la violazione della legge n. 475 del 1925 sugli esami di abilitazione professionali, che prevede la condanna da tre mesi a un anno di reclusione per chi copia. Le indagini dei Carabinieri, coordinate dal pm Eugenia Pontassuglia, verificheranno nei prossimi giorni la posizione dei cinque aspiranti avvocati destinatari delle tracce e quella di altre persone eventualmente coinvolte nella vicenda. Inoltre tre aspiranti avvocatesse (una è figlia di due magistrati), sono entrate nell’aula tirandosi dietro il telefono cellulare che durante la prova hanno cercato di utilizzare dopo essersi rifugiate in bagno. Quando si sono rese conto che sarebbero state scoperte, sono tornate in aula. Pochi minuti dopo il presidente della commissione d’esame ha comunicato il ritrovamento in bagno dei due apparecchi ma solo una delle due candidate si è fatta avanti, subito espulsa. L’altra è rimasta in silenzio ma è stata identifica. Esame per avvocati, la banda della truffa: coinvolti tre legali e due dirigenti pubblici. Blitz dei carabinieri nella sede della Finanza. E la potente funzionaria di Giurisprudenza sviene, scrive Gabriella De Matteis e Giuliana Foschini su “La Repubblica”. Un ponte telefonico con l'esterno. Tre avvocati pronti a scrivere i compiti. Un gancio per portare il tutto all'interno. Sei candidati pronti a consegnare. Era tutto pronto. Anzi era tutto fatto. Ma qualcosa è andato storto: quando la banda dell'"esame da avvocato" credeva che tutto fosse andato per il verso giusto, sono arrivati i carabinieri del reparto investigativo a fare saltare il banco. E a regalare l'ennesimo scandalo concorsuale a Bari. E' successo tutto mercoledì 17 dicembre 2014 pomeriggio all'esterno dei padiglioni della Guardia di finanza dove stava andando in scena la prova scritta per l'esame da avvocato. Mille e cinquecento all'incirca i partecipanti, divisi in ordine alfabetico. Commissione e steward per evitare passaggi di compiti o copiature varie. Apparentemente nulla di strano. Apparentemente appunto. Perché non appena vengono aperte le buste e lette le tracce si comincia a muovere il Sistema scoperto dai carabinieri. Qualcuno dall'interno le comunica a Tina Laquale, potente dirigente amministrativo della facoltà di Giurisprudenza di Bari. E' lei a girarle, almeno questo hanno ricostruito i Carabinieri, a tre avvocati che avevano il compito di redigere il parere di civile e di penale e di scrivere l'atto. Con i compiti in mano la Laquale si è presentata all'esterno dei padiglioni. All'interno c'era un altro componente del gruppo, Giacomo Santamaria, cancelliere della Corte d'Appello che aveva il compito di fare arrivare i compiti ai sei candidati che all'interno li aspettavano. Compiti che sarebbero poi stati consegnati alla commissione e via. Ma qui qualcosa è andato storto. Sono arrivati infatti i carabinieri che hanno bloccato tutto. Laquale è svenuta, mentre a lei e a tutte quante le altre persone venivano sequestrati documenti e soprattutto supporti informatici, telefoni in primis, che verranno analizzati in queste ore. Gli investigatori devono infatti verificare se, come sembra, il sistema fosse da tempo organizzato e rodato, se ci fosse un corrispettivo di denaro e la vastità del fenomeno. Ieri si è tenuta la convalida del sequestro davanti al sostituto procuratore, Eugenia Pontassuglia. Ma com'è chiaro l'indagine è appena cominciata. Per il momento viene contestata la truffa e la violazione di una vecchia legge del 1925 secondo la cui "chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l'abilitazione all'insegnamento ed all'esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l'intento sia conseguito". È molto probabile infatti che l'esame venga invalidato per tutti. Certo è facile prendersela con i poveri cristi. Le macagne nelle segrete stanze delle commissioni di esame, in cui ci sono i magistrati, nessuno va ad indagare: perché per i concorsi truccati nessuno va in galera. Concorsi, i figli di papà vincono facile: "E noi, figli di nessuno, restiamo fuori". L’inchiesta sul dottorato vinto dal figlio del rettore della Sapienza nonostante l'uso del bianchetto ha raccolto centinaia di commenti e condivisioni. E ora siamo noi a chiedervi di raccontarci la vostra storia di candidati meritevoli ma senza parenti eccellenti. Ecco le prime due lettere arrivate, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A chi figli, e a chi figliastri: è questa la legge morale che impera in Italia, il Paese della discriminazione e delle corporazioni. Dove va avanti chi nasce privilegiato, mentre chi non vanta conoscenze e relazioni rischia, quasi sempre, di arrivare ultimo. Alla Sapienza di Roma l’assioma è spesso confermato: sono decine i parenti di professori eminenti assunti nei dipartimenti, con intere famiglie (su tutte quella dell’ex rettore Luigi Frati) salite in cattedra. A volte con merito, altre meno. La nostra inchiesta sullo strano concorso di dottorato vinto dal rampollo del nuovo magnifico Eugenio Gaudio, al tempo preside di Medicina, ha fatto scalpore: la storia del compito “sbianchettato” (qualsiasi segno di riconoscimento è vietato) e la notizia del singolare intervento dei legali dell’università (hanno chiesto un parere all’Avvocatura dello Stato, che ha invitato la Sapienza a “perdonare” il candidato ) hanno fatto il giro del web. Il pezzo è stato condiviso decine di migliaia di volte, con centinaia di commenti (piuttosto severi) di ex studenti e docenti dell’ateneo romano. Tra le decine di lettere arrivate in redazione, due sono metafora perfetta di come la sorte possa essere diversa a seconda del cognome che si porta. Livia Pancotto, 28 anni, laureata in Economia con 110 e lode, spiega che la storia del pargolo di Gaudio le ha fatto «montare dentro una rabbia tale da farmi scrivere» poche, infuriate righe. «Nel 2012, dopo la laurea, decisi di partecipare al concorso per il dottorato in Management, Banking and Commodity Sciences, sempre alla Sapienza», scrive in una lettera a “l’Espresso”. «Dopo aver superato sia l’esame scritto che l’orale ricevetti la buona notizia: ero stata ammessa, sia pure senza borsa». Dopo un mese, però, la mazzata. «Vengo a sapere dal professore che il mio concorso è stato annullato, visto che durante lo scritto ho utilizzato il bianchetto. Come nel caso del figlio del rettore Gaudio, nessuno aveva specificato, prima dell’inizio del compito, che il bando prevedesse che si potesse usare solo una penna nera». Se per il rampollo dell’amico che prenderà il suo posto il rettore Frati mobiliterà i suoi uffici legali, la Pancotto viene silurata subito, senza pietà. Oggi la giovane economista vive in Galles, dove ha vinto un dottorato con borsa all’università di Bangor. Anche la vicenda di Federico Conte, ora tesoriere dell’Ordine degli psicologi del Lazio, è paradossale. Dopo aver completato in un solo anno gli esami della laurea specialistica nel 2009, la Sapienza tentò di impedire la discussione della sua tesi. «Mi arrivò un telegramma a firma di Frati, dove mi veniva comunicato l’avvio di una “procedura annullamento esami”: il magnifico non era d’accordo nel farmi laureare in anticipo, ed era intenzionato a farmi sostenere gli esami una seconda volta». Conte domandò all’ateneo di chiedere un parere all’Avvocatura, ma senza successo. Il giovane psicologo fu costretto a ricorrere al Tar, che gli diede ragione permettendogli di laurearsi. «Leggendo la vostra inchiesta ho la percezione di un’evidente diversità di trattamento rispetto al figlio del rettore. Provo un certo disgusto nel constatare come le nostre istituzioni siano così attente e garantiste con chi sbianchetta, mentre si accaniscano su chi fa il proprio dovere». Magari pure più velocemente degli altri. Ma tant’è. Nel paese dove i figli “so’ piezz’ e core”, la meritocrazia e l’uguaglianza restano una chimera. Anche nelle università, luogo dove - per antonomasia - l’eccellenza e il rigore dovrebbero essere di casa. Se poi l’Esame di Avvocato lo passi, ti obbligano a lasciare. Giovani avvocati contro la Cassa Forense. Con la campagna "'Io non pago e non mi cancello". I giuristi più giovani in rivolta sui social network per la regola dei minimi obbligatori, che impone contributi previdenziali intorno ai 4 mila euro annui alla cassa indipendentemente dal reddito. Così c'è chi paga più di quello che guadagna. E chi non paga si deve cancellare dall'Albo, venendo escluso dalla categoria, scrive Antonio Sciotto su “L’Espresso”. Chi pensa ancora che la professione di avvocato sia garantita e ben retribuita dia in questi giorni uno sguardo attento ai social network. Twitter e Facebook da qualche giorno sono inondati da 'selfie' che raccontano tutta un'altra storia. "Io non pago e io non mi cancello" è lo slogan scelto dai giovani legali per la loro rivolta contro i colleghi più anziani e in particolare contro la regola dei "minimi obbligatori", che impone di pagare i contributi previdenziali alla Cassa forense in modo del tutto slegato dal reddito. Molti spiegano che la cifra minima richiesta – intorno ai 4 mila euro annui - è pari o a volte anche superiore ai propri redditi. E visto che se non riesci a saldare, devi cancellarti non solo dalla Cassa, ma anche dall'albo professionale. Il risultato è che ad esercitare alla fine restano tendenzialmente i più ricchi, mentre chi fa fatica ad arrivare a fine mese viene di fatto espulso dalla categoria. E' vero che per i primi 8 anni è prevista una buona agevolazione per chi guadagna sotto i 10 mila euro l'anno, ma al pari le prestazioni vengono drasticamente ridotte. Per capirci: è come se l'Inps chiedesse a un operaio e a un dirigente una stessa soglia minima di contributi annui, non calcolata in percentuale ai loro redditi. Mettiamo 5 mila euro uguali per tutti: salvo poi imporre la cancellazione dall'ente a chi non riesce a saldare. "Dovrei salassarmi oggi per ricevere un'elemosina domani – protesta Antonio Maria - mentre i vecchi tromboni ottantenni si godono le loro pensioni d'oro, non pagate, conquistate avendo versato tutta la vita lavorativa (ed erano altri tempi) il 10 per cento ed imponendo a me di pagare il 14 per cento". "Il regime dei cosiddetti minimi è vergognoso – aggiunge Rosario - Pretendere che si paghi 'a prescindere' del proprio reddito è una bestemmia giuridica. Basta furti generazionali. Basta falsità". Uno dei selfie addirittura viene da un reparto di emodialisi, a testimoniare la scarsa copertura sanitaria assicurata ai giovani professionisti. La protesta si è diffusa a partire dal blog dell'Mga - Mobilitazione generale avvocati , ha un gruppo facebook pubblico dove è possibile postare i selfie, mentre su Twitter naviga sull'onda dell'hashtag #iononmicancello. La battaglia contro le casse previdenziali non è nuova, se consideriamo gli avvocati una parte del più vasto mondo delle partite Iva e degli autonomi: già da tempo Acta, associazione dei freelance, ha lanciato la campagna #dicano33, contro il progressivo aumento dei contributi Inps dal 27 per cento al 33 per cento, imposto dalla legge per portarli al livello dei lavoratori dipendenti. Il regime dei minimi obbligatori della Cassa forense non solo darebbe luogo a una vera e propria "discriminazione generazionale", ma secondo molti giovani avvocati sarebbe anche incostituzionale, come spiega efficacemente Davide Mura nel suo blog: "E' palesemente in contrasto con l'articolo 53 della Costituzione, che sancisce il principio della progressività contributiva. Ma si viola anche l'articolo 3, quello sull'uguaglianza davanti alla legge, perché le condizioni cambiano a seconda se stai sopra o sotto i 10 mila euro di reddito annui". La soluzione? Secondo l'Mga sarebbe quella di eliminare l'obbligo dei minimi e passare al sistema contributivo, come è per tutti gli altri lavoratori. Vietando possibilmente agli avvocati già in pensione di poter continuare a esercitare. Un modo insomma per far sì che i "tromboni" lascino spazio ai più giovani.

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte? 

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

La Superbia-Vanità (desiderio irrefrenabile di essere superiori, fino al disprezzo di ordini, leggi, rispetto altrui);

L’Avarizia (scarsa disponibilità a spendere e a donare ciò che si possiede);

La Lussuria (desiderio irrefrenabile del piacere sessuale fine a sé stesso);

L’Invidia (tristezza per il bene altrui, percepito come male proprio);

La Gola (meglio conosciuta come ingordigia, abbandono ed esagerazione nei piaceri della tavola, e non solo);

L’Ira (irrefrenabile desiderio di vendicare violentemente un torto subito);

L’Accidia-Depressione (torpore malinconico, inerzia nel vivere e nel compiere opere di bene).

Essendo viziosi ci scanneremmo l’un l’altro per raggiungere i nostri scopi. E periodicamente lo facciamo.

Vari illuminati virtuosi, chiamati profeti, ci hanno indicato invano la retta via. La via indicata sono i precetti dettati dalle religioni nate da questi insegnamenti.  Le confessioni religiose da sempre hanno cercato di porre rimedio indicando un essere superiore come castigatore dei peccati con punizioni postume ed eterne. Ecco perché i vizi sono detti Capitali.

I vizi capitali sono un elenco di inclinazioni profonde, morali e comportamentali, dell'anima umana, spesso e impropriamente chiamati peccati capitali. Questo elenco di vizi (dal latino vĭtĭum = mancanza, difetto, ma anche abitudine deviata, storta, fuori dal retto sentiero) distruggerebbero l'anima umana, contrapponendosi alle virtù, che invece ne promuovono la crescita. Sono ritenuti "capitali" poiché più gravi, principali, riguardanti la profondità della natura umana. Impropriamente chiamati "peccati", nella morale filosofica e cristiana i vizi sarebbero già causa del peccato, che ne è invece il suo relativo effetto.

Una sommaria descrizione dei vizi capitali comparve già in Aristotele, che li definì gli "abiti del male". Al pari delle virtù, i vizi deriverebbero infatti dalla ripetizione di azioni, che formano nel soggetto che le compie una sorta di "abito" che lo inclina in una certa direzione o abitudine. Ma essendo vizi, e non virtù, tali abitudini non promuovono la crescita interiore, nobile e spirituale, ma al contrario la distruggono.

In questo mondo vizioso tutto ha un prezzo e quasi tutti sono disposti a svendersi per ottenerlo e/ o a dispensare torti ai propri simili. Ciclicamente i nomi degli aguzzini cambiano, ma i peccati sono gli stessi.

In questa breve vita senza giustizia, vissuta in un periodo indefinito, vincono loro: non hanno la ragione, ma il potere. Questo, però, non impedirà di raccontare la verità contemporanea nel tempo e nello spazio, affinché ai posteri sia delegata l’ardua sentenza contro i protagonisti del tempo trattato, per gli altri ci sarà solo l’ignominia senza fama né gloria o l’anonimato eterno.

“La superficie della Terra non era ancora apparsa. V’erano solo il placido mare e la grande distesa di Cielo... tutto era buio e silenzio". Così inizia il Popol Vuh, il libro sacro dei Maya Quiché che narra degli albori dell’umanità. Il Popol Vuh descrive questi primi esseri umani come davvero speciali: "Furono dotati di intelligenza, potevano vedere lontano, riuscivano a sapere tutto quel che è nel mondo. Quando guardavano, contemplavano ora l'arco del cielo ora la rotonda faccia della Terra. Contrariamente ai loro predecessori, gli esseri umani ringraziarono sentitamente gli dei per averli creati. Ma anche stavolta i creatori si indispettirono. "Non è bene che le nostre creature sappiano tutto, e vedano e comprendano le cose piccole e le cose grandi". Gli dei tennero dunque consiglio: "Facciamo che la loro vista raggiunga solo quel che è vicino, facciamo che vedano solo una piccola parte della Terra! Non sono forse per loro natura semplici creature fatte da noi? Debbono forse anch'essi essere dei? Debbono essere uguali a noi, che possiamo vedere e sapere tutto? Ostacoliamo dunque i loro desideri... Così i creatori mutarono la natura delle loro creature. Il Cuore del Cielo soffiò nebbia nei loro occhi, e la loro vista si annebbiò, come quando si soffia su uno specchio. I loro occhi furono coperti, ed essi poterono vedere solo quello che era vicino, solo quello che ad essi appariva chiaro."

E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.

Le vittime, vere o presunte, di soprusi, parlano solo di loro, inascoltati, pretendendo aiuto. Io da vittima non racconto di me e delle mie traversie.  Ascoltato e seguito, parlo degli altri, vittime o carnefici, che l’aiuto cercato non lo concederanno mai. “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai. Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare. Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Antonio Giangrande, perché è diverso dagli altri?

Perché lui spiega cosa è la legalità, gli altri non ne parlano, ma ne sparlano.

La legalità è un comportamento conforme alla legge ed ai regolamenti di attuazione e la sua applicazione necessaria dovrebbe avvenire secondo la comune Prassi legale di riferimento.

Legge e Prassi sono le due facce della stessa medaglia.

La Legge è votata ed emanata in nome del popolo sovrano. I Regolamenti di applicazione sono predisposti dagli alti Burocrati e già questo non va bene. La Prassi, poi, è l’applicazione della Legge negli Uffici Pubblici, nei Tribunali, ecc., da parte di un Sistema di Potere che tutela se stesso con usi e consuetudini consolidati. Sistema di Potere composto da Caste, Lobbies, Mafie e Massonerie.

Ecco perché vige il detto: La Legge si applica per i deboli e si interpreta per i forti.

La correlazione tra Legge e Prassi e come quella che c’è tra il Dire ed il Fare: c’è di mezzo il mare.

Parlare di legge, bene o male, ogni  leguleio o azzeccagarbugli o burocrate o boiardo di Stato può farlo. Più difficile per loro parlar di Prassi generale, conoscendo loro signori solo la prassi particolare che loro coltivano per i propri interessi di privilegiati. Prassi che, però, stanno attenti a non svelare.

Ed è proprio la Prassi che fotte la Legge.

La giustizia che debba essere uguale per tutti parrebbe essere un principio che oggi consideriamo irrinunciabile, anche se non sempre pienamente concretizzabile nella pratica quotidiana. Spesso assistiamo a fenomeni di corruzione, all’applicazione della legge in modo diverso secondo i soggetti coinvolti. E l’la disfunzione è insita nella predisposizione umana.

Essa vien da lontano.

E’ lo stesso Alessandro Manzoni che parla di “Azzeccagarbugli” genuflessi ai mafiosi del tempo al capitolo 3 dei “Promessi Sposi”. Ma non sarebbe stato il Manzoni a coniare l’accoppiata tra il verbo “azzeccare” e il sostantivo “garbuglio” stante che quando la parola entrò nei “Promessi Sposi”, aveva un’età superiore ai tre secoli. Il primo ad usarla fu Niccolò Machiavelli che, in un passo delle "Legazioni" (1510), scrive: “Voi sapete che i mercatanti vogliono fare le cose loro chiare e non azzeccagarbugli”. Questa spiegazione si trova nel Dizionario italiano ragionato e nel Dizionario etimologico di Cortelazzo-Zolli mentre gli altri vocabolari si limitano a indicare soltanto la matrice manzoniana. È giusto dare a Niccolò quello che è di Niccolò, ricordando inoltre che il Manzoni era un conoscitore dell’opera di Machiavelli ed è probabile che sia stato ispirato dal citato passo. Non si dimentichi, infatti, che nella prima stesura dei “Promessi Sposi” il personaggio si chiamava “dotor Pe’ ttola” e non Azzeccagarbugli.

La legge non era uguale per tutti anche nel Seicento, secolo di soprusi e di prepotenze da parte dei potenti. Renzo cerca giustizia recandosi da un noto avvocato del tempo, ma, allora come oggi, la giustizia non sta dalla parte degli oppressi, bensì da quella degli oppressori.

Azzecca-garbugli è un personaggio del romanzo storico ed è il soprannome di un avvocato di Lecco, chiamato, nelle prime edizioni del romanzo, dottor Pettola e dottor Duplica (nell'edizione definitiva il nome non viene mai detto, ma solo il soprannome). Il nome costituisce un'italianizzazione del termine dialettale milanese zaccagarbùj che il Cherubini traduce "attaccabrighe". Viene chiamato così dai popolani per la sua capacità di sottrarre dai guai, non del tutto onestamente, le persone. Spesso e volentieri aiuta i Bravi, poiché, come don Abbondio, preferisce stare dalla parte del più forte, per evitare una brutta fine.

Renzo Tramaglino giunge da lui, nel capitolo III, per chiedere se ci fosse una grida che avrebbe condannato don Rodrigo, ma lui sentendo nominare il potente signore, respinge Renzo perché non avrebbe potuto contrastare la sua potente autorità. Egli rappresenta quindi un uomo la cui coscienza meschina è asservita agli interessi dei potenti. Compare anche nel capitolo quinto quando fra Cristoforo va al palazzotto di don Rodrigo e lo trova fra gli invitati al banchetto che si sta tenendo a casa appunto di don Rodrigo.

Apparentemente, è un uomo di legge molto erudito, e nel suo studio è presente una notevole quantità di libri, il cui ruolo principale, però, è quello di elementi decorativi piuttosto che di materiale di studio. Il suo tavolo invece è cosparso di fogli che impressionano gli abitanti del paese che vi si recano. In realtà non consulta libri da molti anni addietro, quando andava a Milano per qualche causa d'importanza.

Il suo nome Azzeccagarbugli è dovuto dal fatto che Azzecca significa "indovinare" e garbugli "cose non giuste", quindi: Indovinare cose non giuste.

Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.

"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»

Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.

- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?

- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…

- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.

- Le giuro…

- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.

- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.

Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."

A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?

Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri.

Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti.

Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. 

Chi siamo noi?

Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti.

Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”.

Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi.

Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani.

Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni.

Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare.

E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.

Ho vissuto una breve vita confrontandomi con una sequela di generazioni difettate condotte in un caos organizzato. Uomini e donne senza ideali e senza valori succubi del flusso culturale e politico del momento, scevri da ogni discernimento tra il bene ed il male. L’Io è elevato all’ennesima potenza. La mia Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” composta da decine di saggi, riporta ai posteri una realtà attuale storica, per tema e per territorio, sconosciuta ai contemporanei perché corrotta da verità mediatiche o giudiziarie. 

Per la Conte dei Conti è l’Italia delle truffe. È l'Italia degli sprechi e delle frodi fotografata in un dossier messo a punto dalla procura generale della Corte dei Conti che ha messo insieme le iniziative più rilevanti dei procuratori regionali. La Corte dei Conti ha scandagliato l'attività condotta da tutte le procure regionali e ha messo insieme «le fattispecie di particolare interesse, anche sociale, rilevanti per il singolo contenuto e per il pregiudizio economico spesso ingente».

A parlar di sé e delle proprie disgrazie in prima persona, oltre a non destare l’interesse di alcuno pur nelle tue stesse condizioni, può farti passare per mitomane o pazzo. Non sto qui a promuovermi. Non si può, però, tacere la verità storica che ci circonda, stravolta da verità menzognere mediatiche e giudiziarie. Ad ogni elezione legislativa ci troviamo a dover scegliere tra: il partito dei condoni; il partito della CGIL; il partito dei giudici. Io da anni non vado a votare perché non mi rappresentano i nominati in Parlamento. Oltretutto mi disgustano le malefatte dei nominati. Un esempio per tutti, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani. Da anni inascoltato denuncio il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ho ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Insabbiamento delle denunce e attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua.

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Ognuno di noi antropologicamente ha un limite, non dovuto al sesso, od alla razza, od al credo religioso, ma bensì delimitato dall’istruzione ricevuta ed all’educazione appresa dalla famiglia e dalla società, esse stesse influenzate dall’ambiente, dalla cultura, dagli usi e dai costumi territoriali. A differenza degli animali la maggior parte degli umani non si cura del proprio limite e si avventura in atteggiamenti e giudizi non consoni al loro stato. Quando a causa dei loro limiti non arrivano ad avere ragione con il ragionamento, allora adottano la violenza (fisica o psicologica, ideologica o religiosa) e spesso con la violenza ottengono un effimero ed immeritato potere o risultato. I più intelligenti, conoscendo il proprio limite, cercano di ampliarlo per risultati più duraturi e poteri meritati. Con nuove conoscenze, con nuovi studi, con nuove esperienze arricchiscono il loro bagaglio culturale ed aprono la loro mente, affinché questa accetti nuovi concetti e nuovi orizzonti. Acquisizione impensabile in uno stato primordiale. In non omologati hanno empatia per i conformati. Mentre gli omologati sono mossi da viscerale egoismo dovuto all’istinto di sopravvivenza: voler essere ed avere più di quanto effettivamente si possa meritare di essere od avere. Loro ed i loro interessi come ombelico del mondo. Da qui la loro paura della morte e la ricerca di un dio assoluto e personale, finanche cattivo: hanno paura di perdere il niente che hanno e sono alla ricerca di un dio che dal niente che sono li elevi ad entità. L'empatia designa un atteggiamento verso gli altri caratterizzato da un impegno di comprensione dell'altro, escludendo ogni attitudine affettiva personale (simpatia, antipatia) e ogni giudizio morale, perché mettersi nei panni dell'altro per sapere cosa pensa e come reagirebbe costituisce un importante fattore di sopravvivenza in un mondo in cui l'uomo è in continua competizione con gli altri uomini. Fa niente se i dotti emancipati e non omologati saranno additati in patria loro come Gesù nella sua Nazareth: semplici figli di falegnami, perchè "non c'è nessun posto dove un profeta abbia meno valore che non nella sua patria e nella sua casa". Non c'è bisogno di essere cristiani per apprezzare Gesù Cristo: non per i suoi natali, ma per il suo insegnamento  e, cosa più importante, per il suo esempio. Fa capire che alla fine è importante lasciar buona traccia di sè, allora sì che si diventa immortali nella rimembranza altrui.

Tutti vogliono avere ragione e tutti pretendono di imporre la loro verità agli altri. Chi impone ignora, millanta o manipola la verità. L'ignoranza degli altri non può discernere la verità dalla menzogna. Il saggio aspetta che la verità venga agli altri. La sapienza riconosce la verità e spesso ciò fa ricredere e cambiare opinione. Solo gli sciocchi e gli ignoranti non cambiano mai idea, per questo sono sempre sottomessi. La Verità rende liberi, per questo è importante far di tutto per conoscerla. 

Tutti gli altri intendono “Tutte le Mafie” come un  insieme orizzontale di entità patologiche criminali territoriali (Cosa Nostra, ‘Ndrangheta, Camorra, Sacra Corona Unita, ecc.).

Io intendo “Tutte le Mafie” come un ordinamento criminale verticale di entità fisiologiche nazionali composte, partendo dal basso: dalle mafie (la manovalanza), dalle Lobbies, dalle Caste e dalle Massonerie (le menti).

La Legalità è il comportamento umano conforme al dettato della legge nel compimento di un atto o di un fatto. Se l'abito non fa il monaco, e la cronaca ce lo insegna, nè toghe, nè divise, nè poteri istituzionali o mediatici hanno la legittimazione a dare insegnamenti e/o patenti di legalità. Lor signori non si devono permettere di selezionare secondo loro discrezione la società civile in buoni e cattivi ed ovviamente si devono astenere dall'inserirsi loro stessi tra i buoni. Perchè secondo questa cernita il cattivo è sempre il povero cittadino, che oltretutto con le esose tasse li mantiene. Non dimentichiamoci che non ci sono dio in terra e fino a quando saremo in democrazia, il potere è solo prerogativa del popolo.

Non sono conformato ed omologato, per questo son fiero ed orgoglioso di essere diverso.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

Recensione di un’opera editoriale osteggiata dalla destra e dalla sinistra. Perle di saggezza destinate al porcilaio.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. Lo dice Beppe Grillo e forse ha ragione. Ma tra di loro vi sono anche eccellenze di gran valore. Questo vale per le maggiori testate progressiste (Il Corriere della Sera, L’Espresso, La Repubblica, Il Fatto Quotidiano), ma anche per le testate liberali (Panorama, Oggi, Il Giornale, Libero Quotidiano). In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci, questi eccelsi giornalisti, attraverso le loro coraggiose inchieste, sono fonte di prova incontestabile per raccontare l’Italia vera, ma sconosciuta. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia. Tramite loro, citando gli stessi e le loro inchieste scottanti, Antonio Giangrande ha raccolto in venti anni tutto quanto era utile per dimostrare che la mafia vien dall’alto. Pochi lupi e tante pecore. Una selezione di nomi e fatti articolati per argomento e per territorio. L’intento di Giangrande è rappresentare la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui il Giangrande è il massimo cultore. Questa è la collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo. 40 libri scritti da Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. In occasione delle festività ed in concomitanza con le nuove elezioni legislative sarebbe cosa buona e utile presentare ai lettori una lettura alternativa che possa rendere più consapevole l’opinione dei cittadini. Un’idea regalo gratuita o con modica spesa, sicuramente gradita da chi la riceve. Non è pubblicità gratuita che si cerca per fini economici, né tanto meno è concorrenza sleale. Si chiede solo di divulgare la conoscenza di opere che già sul web sono conosciutissime e che possono anche esser lette gratuitamente. Evento editoriale esclusivo ed aggiornato periodicamente. Di sicuro interesse generale. Fa niente se dietro non ci sono grandi o piccoli gruppi editoriali. Ciò è garanzia di libertà.

Grazie per l’adesione e la partecipazione oltre che per la solidarietà.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

Politica, giustizia ed informazione. In tempo di voto si palesa l’Italietta delle verginelle.

Da scrittore navigato, il cui sacco di 50 libri scritti sull’Italiopoli degli italioti lo sta a dimostrare, mi viene un rigurgito di vomito nel seguire tutto quanto viene detto da scatenate sgualdrine (in senso politico) di ogni schieramento politico. Sgualdrine che si atteggiano a verginelle e si presentano come aspiranti salvatori della patria in stampo elettorale.

In Italia dove non c’è libertà di stampa e vige la magistratocrazia è facile apparire verginelle sol perché si indossa l’abito bianco.

I nuovi politici non si presentano come preparati a risolvere i problemi, meglio se liberi da pressioni castali, ma si propongono, a chi non li conosce bene, solo per le loro presunti virtù, come verginelle illibate.

Ci si atteggia a migliore dell’altro in una Italia dove il migliore c’ha la rogna.

L’Italietta è incurante del fatto che Nicola Vendola a Bari sia stato assolto in modo legittimo dall’amica della sorella o Luigi De Magistris sia stato assolto a Salerno in modo legale dalla cognata di Michele Santoro, suo sponsor politico.

L’Italietta che non batte ciglio quando a Bari Massimo D’Alema in modo lecito esce pulito da un’inchiesta penale. Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, poi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema.

L’Italietta non si scandalizza del fatto che sui Tribunali e nella scuole si spenda il nome e l’effige di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino da parte di chi, loro colleghi, li hanno traditi in vita, causandone la morte.

L’Italietta non si sconvolge del fatto che spesso gli incriminati risultano innocenti e ciononostante il 40%  dei detenuti è in attesa di giudizio. E per questo gli avvocati in Parlamento, anziché emanar norme, scioperano nei tribunali, annacquando ancor di più la lungaggine dei processi.

L’Italietta che su giornali e tv foraggiate dallo Stato viene accusata da politici corrotti di essere evasore fiscale, nonostante sia spremuta come un limone senza ricevere niente in cambio.

L’Italietta, malgrado ciò, riesce ancora a discernere le vergini dalle sgualdrine, sotto l’influenza mediatica-giudiziaria.

Fa niente se proprio tutta la stampa ignava tace le ritorsioni per non aver taciuto le nefandezze dei magistrati, che loro sì decidono chi candidare al Parlamento per mantenere e tutelare i loro privilegi.

Da ultimo è la perquisizione ricevuta in casa dall’inviato de “La Repubblica”, o quella ricevuta dalla redazione del tg di Telenorba.

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice. E’ la testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki. L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da anni. Del secondo invece non si deve parlare.

I giornalisti della tv e stampa, sia quotidiana, sia periodica, da sempre sono tacciati di faziosità e mediocrità. Si dice che siano prezzolati e manipolati dal potere e che esprimano solo opinioni personali, non raccontando i fatti. La verità è che sono solo codardi.

E cosa c’è altro da pensare. In una Italia, laddove alcuni magistrati tacitano con violenza le contro voci. L’Italia dei gattopardi e dell’ipocrisia. L’Italia dell’illegalità e dell’utopia.

Tutti hanno taciuto "Le mani nel cassetto. (e talvolta anche addosso...). I giornalisti perquisiti raccontano". Il libro, introdotto dal presidente nazionale dell’Ordine Enzo Jacopino, contiene le testimonianze, delicate e a volte ironiche, di ventuno giornalisti italiani, alcuni dei quali noti al grande pubblico, che hanno subito perquisizioni personali o ambientali, in casa o in redazione, nei computer e nelle agende, nei libri e nei dischetti cd o nelle chiavette usb, nella biancheria e nel frigorifero, “con il dichiarato scopo di scoprire la fonte confidenziale di una notizia: vera, ma, secondo il magistrato, non divulgabile”. Nel 99,9% dei casi le perquisizioni non hanno portato “ad alcun rinvenimento significativo”.

Cosa pensare se si è sgualdrina o verginella a secondo dell’umore mediatico. Tutti gli ipocriti si facciano avanti nel sentirsi offesi, ma che fiducia nell’informazione possiamo avere se questa è terrorizzata dalle querele sporte dai PM e poi giudicate dai loro colleghi Giudici.

Alla luce di quanto detto, è da considerare candidabile dai puritani nostrani il buon “pregiudicato” Alessandro Sallusti che ha la sol colpa di essere uno dei pochi coraggiosi a dire la verità?

Si badi che a ricever querela basta recensire il libro dell’Ordine Nazionale dei giornalisti, che racconta gli abusi ricevuti dal giornalista che scrive la verità, proprio per denunciare l'arma intimidatoria delle perquisizioni alla stampa.

Che giornalisti sono coloro che, non solo non raccontano la verità, ma tacciono anche tutto ciò che succede a loro?

E cosa ci si aspetta da questa informazione dove essa stessa è stata visitata nella loro sede istituzionale dalla polizia giudiziaria che ha voluto delle copie del volume e i dati identificativi di alcune persone, compreso il presidente che dell'Ordine è il rappresentante legale?

La Costituzione all’art. 104 afferma che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere.”

Ne conviene che il dettato vuol significare non equiparare la Magistratura ad altro potere, ma differenziarne l’Ordine con il Potere che spetta al popolo. Ordine costituzionalizzato, sì, non Potere.

Magistrati. Ordine, non potere, come invece il più delle volte si scrive, probabilmente ricordando Montesquieu; il quale però aggiungeva che il potere giudiziario é “per così dire invisibile e nullo”. Solo il popolo è depositario della sovranità: per questo Togliatti alla Costituente avrebbe voluto addirittura che i magistrati fossero eletti dal popolo, per questo sostenne le giurie popolari. Ordine o potere che sia, in ogni caso è chiaro che di magistrati si parla.

Allora io ho deciso: al posto di chi si atteggia a verginella io voterei sempre un “pregiudicato” come Alessandro Sallusti, non invece chi incapace, invidioso e cattivo si mette l’abito bianco per apparir pulito.

E facile dire pregiudicato. Parliamo del comportamento degli avvocati. Il caso della condanna di Sallusti. Veniamo al primo grado: l’avvocato di Libero era piuttosto noto perché non presenziava quasi mai alle udienze, preferendo mandarci sempre un sostituto sottopagato, dice Filippo Facci. E qui, il giorno della sentenza, accadde un fatto decisamente singolare. Il giudice, una donna, lesse il dispositivo che condannava Sallusti a pagare circa 5mila euro e Andrea Monticone a pagarne 4000 (più 30mila di risarcimento, che nel caso dei magistrati è sempre altissimo) ma nelle motivazioni della sentenza, depositate tempo dopo, lo stesso giudice si dolse di essersi dimenticato di prevedere una pena detentiva. Un’esagerazione? Si può pensarlo. Tant’è, ormai era andata: sia il querelante sia la Procura sia gli avvocati proposero tuttavia appello (perché in Italia si propone sempre appello, anche quando pare illogico o esagerato) e la sentenza della prima sezione giunse il 17 giugno 2011. E qui accadeva un altro fatto singolare: l’avvocato di Libero tipicamente non si presentò in aula e però neppure il suo sostituto: il quale, nel frattempo, aveva abbandonato lo studio nell’ottobre precedente come del resto la segretaria, entrambi stufi di lavorare praticamente gratis. Fatto sta che all’Appello dovette presenziare un legale d’ufficio – uno che passava di lì, letteralmente – sicché la sentenza cambiò volto: come richiesto dall’accusa, Monticone si beccò un anno con la condizionale e Sallusti si beccò un anno e due mesi senza un accidente di condizionale, e perché? Perché aveva dei precedenti per l’omesso controllo legato alla diffamazione. Il giudice d’Appello, in pratica, recuperò la detenzione che il giudice di primo grado aveva dimenticato di scrivere nel dispositivo.

Ma anche il Tribuno Marco Travaglio è stato vittima degli avvocati. Su Wikipedia si legge che nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su “L’Indipendente”. Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell' avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire. Comunque lui stesso a “Servizio Pubblico” ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

Ma chi e quando le cose cambieranno?

Per fare politica in Italia le strade sono poche, specialmente se hai qualcosa da dire e proponi soluzioni ai problemi generali. La prima è cominciare a partecipare a movimenti studenteschi fra le aule universitarie, mettersi su le stellette di qualche occupazione e poi prendere la tessera di un partito. Se di sinistra è meglio. Poi c'è la strada della partecipazione politica con tesseramento magari sfruttando una professione che ti metta in contatto con molti probabili elettori: favoriti sono gli avvocati, i medici di base ed i giornalisti. C'è una terza via che sempre più prende piede. Fai il magistrato. Se puoi occupati di qualche inchiesta che abbia come bersaglio un soggetto politico, specie del centro destra, perché gli amici a sinistra non si toccano. Comunque non ti impegnare troppo. Va bene anche un'archiviazione. Poi togli la toga e punta al Palazzo. Quello che interessa a sinistra è registrare questo movimento arancione con attacco a tre punte: De Magistris sulla fascia, Di Pietro in regia e al centro il nuovo bomber Antonio Ingroia. Se è un partito dei magistrati e per la corporazione dei magistrati. Loro "ci stanno".

Rivoluzione Civile è una formazione improvvisata le cui figure principali di riferimento sono tre magistrati: De Magistris, Di Pietro e Ingroia. Dietro le loro spalle si rifugiano i piccoli partiti di Ferrero, Diliberto e Bonelli in cerca di presenza parlamentare. E poi, ci mancherebbe, con loro molte ottime persone di sinistra critica all’insegna della purezza. Solo che la loro severità rivolta in special modo al Partito Democratico, deve per forza accettare un’eccezione: Antonio Di Pietro. La rivelazione dei metodi disinvolti con cui venivano gestiti i fondi dell’Italia dei Valori, e dell’uso personale che l’ex giudice fece di un’eredità cospicua donata a lui non certo per godersela, lo hanno costretto a ritirarsi dalla prima fila. L’Italia dei Valori non si presenta più da sola, non per generosità ma perchè andrebbe incontro a una sconfitta certa. Il suo leader però viene ricandidato da Ingroia senza troppi interrogativi sulla sua presentabilità politica. “Il Fatto”, solitamente molto severo, non ha avuto niente da obiettare sul Di Pietro ricandidato alla chetichella. Forse perchè non era più alleato di Bersani e Vendola? Si chiede Gad Lerner.

Faceva una certa impressione nei tg ascoltare Nichi Vendola (che, secondo Marco Ventura su “Panorama”, la magistratura ha salvato dalle accuse di avere imposto un primario di sua fiducia in un concorso riaperto apposta e di essere coinvolto nel malaffare della sanità in Puglia) dire che mentre le liste del Pd-Sel hanno un certo profumo, quelle del Pdl profumano “di camorra”. E che dire di Ingroia e il suo doppiopesismo: moralmente ed eticamente intransigente con gli altri, indulgente con se stesso. Il candidato Ingroia, leader rivoluzionario, da pm faceva domande e i malcapitati dovevano rispondere. Poi a rispondere, come candidato premier, tocca a lui. E lui le domande proprio non le sopporta, come ha dimostrato nella trasmissione condotta su Raitre da Lucia Annunziata. Tanto da non dimettersi dalla magistratura, da candidarsi anche dove non può essere eletto per legge (Sicilia), da sostenere i No Tav ed avere come alleato l'inventore della Tav (Di Pietro), da criticare la legge elettorale, ma utilizzarla per piazzare candidati protetti a destra e a manca. L'elenco sarebbe lungo, spiega Alessandro Sallusti. Macchè "rivoluzione" Ingroia le sue liste le fa col manuale Cencelli. L'ex pm e i partiti alleati si spartiscono i posti sicuri a Camera e Senato, in barba alle indicazioni delle assemblee territoriali. Così, in Lombardia, il primo lombardo è al nono posto. Sono tanti i siciliani che corrono alle prossime elezioni politiche in un seggio lontano dall’isola. C’è Antonio Ingroia capolista di Rivoluzione Civile un po' dappertutto. E poi ci sono molti "paracadutati" che hanno ottenuto un posto blindato lontano dalla Sicilia. Pietro Grasso, ad esempio, è capolista del Pd nel Lazio: "Non mi candido in Sicilia per una scelta di opportunità", ha detto, in polemica con Ingroia, che infatti in Sicilia non è eleggibile. In Lombardia per Sel c'è capolista Claudio Fava, giornalista catanese, e non candidato alle ultime elezioni regionali per un pasticcio fatto sulla sua residenza in Sicilia (per fortuna per le elezioni politiche non c'è bisogno di particolare documentazione....). Fabio Giambrone, braccio destro di Orlando, corre anche in Lombardia e in Piemonte. Celeste Costantino, segretaria provinciale di Sel a Palermo è stata candidata, con qualche malumore locale, nella circoscrizione Piemonte 1. Anna Finocchiaro, catanese e con il marito sotto inchiesta è capolista del Pd, in Puglia. Sarà lei in caso di vittoria del Pd la prossima presidente del Senato. Sempre in Puglia alla Camera c'è spazio per Ignazio Messina al quarto posto della lista di Rivoluzione civile. E che dire di Don Gallo che canta la canzone partigiana "Bella Ciao" sull'altare, sventolando un drappo rosso.

"Serve una legge per regolamentare e limitare la discesa in politica dei magistrati, almeno nei distretti dove hanno esercitato le loro funzioni, per evitare che nell'opinione pubblica venga meno la considerazione per i giudici". Lo afferma il presidente della Cassazione, nel suo discorso alla cerimonia di inaugurazione del nuovo anno giudiziario 2013. Per Ernesto Lupo devono essere "gli stessi pm a darsi delle regole nel loro Codice etico". Per la terza e ultima volta - dal momento che andrà in pensione il prossimo maggio - il Primo presidente della Cassazione, Ernesto Lupo, ha illustrato - alla presenza del Presidente della Repubblica e delle alte cariche dello Stato - la «drammatica» situazione della giustizia in Italia non solo per la cronica lentezza dei processi, 128 mila dei quali si sono conclusi nel 2012 con la prescrizione, ma anche per la continua violazione dei diritti umani dei detenuti per la quale è arrivato l’ultimatum dalla Corte Ue. Sebbene abbia apprezzato le riforme del ministro Paola Severino - taglio dei “tribunalini” e riscrittura dei reati contro la pubblica amministrazione - Lupo ha tuttavia sottolineato che l’Italia continua ad essere tra i Paesi più propensi alla corruzione. Pari merito con la Bosnia, e persino dietro a nazioni del terzo mondo. Il Primo presidente ha, poi, chiamato gli stessi magistrati a darsi regole severe per chi scende in politica e a limitarsi, molto, nel ricorso alla custodia in carcere.  «È auspicabile - esorta Lupo - che nella perdurante carenza della legge, sia introdotta nel codice etico quella disciplina più rigorosa sulla partecipazione dei magistrati alla vita politica e parlamentare, che in decenni il legislatore non è riuscito ad approvare». Per regole sulle toghe in politica, si sono espressi a favore anche il Procuratore generale della Suprema Corte Gianfranco Ciani, che ha criticato i pm che flirtano con certi media cavalcando le inchieste per poi candidarsi, e il presidente dell’Anm Rodolfo Sabelli. Per il Primo presidente nelle celle ci sono 18.861 detenuti di troppo e bisogna dare più permessi premio. Almeno un quarto dei reclusi è in attesa di condanna definitiva e i giudici devono usare di più le misure alternative.

"Non possiamo andare avanti così - lo aveva già detto il primo presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, nella relazione che ha aperto la cerimonia dell’ inaugurazione dell’ Anno Giudiziario 2009 - In più, oltre a un più rigoroso richiamo dei giudici ai propri doveri di riservatezza, occorrerebbe contestualmente evitare la realizzazione di veri e propri 'processi mediatici', simulando al di fuori degli uffici giudiziari, e magari anche con la partecipazione di magistrati, lo svolgimento di un giudizio mentre è ancora in corso il processo nelle sedi istituzionali". "La giustizia - sottolinea Carbone - deve essere trasparente ma deve svolgersi nelle sedi proprie, lasciando ai media il doveroso ed essenziale compito di informare l'opinione pubblica, ma non di sostituirsi alla funzione giudiziaria".

Questo per far capire che il problema “Giustizia” sono i magistrati. Nella magistratura sono presenti "sacche di inefficienza e di inettitudine". La denuncia arriva addirittura dal procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, sempre nell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2009.

Ma è questa la denuncia più forte che viene dall'apertura dell'anno giudiziario 2013 nelle Corti d'Appello: «Non trovo nulla da eccepire sui magistrati che abbandonano la toga per candidarsi alle elezioni politiche - ha detto il presidente della Corte di Appello di Roma Giorgio Santacroce. Ma ha aggiunto una stoccata anche ad alcuni suoi colleghi - Non mi piacciono - ha affermato - i magistrati che non si accontentano di far bene il loro lavoro, ma si propongono di redimere il mondo. Quei magistrati, pochissimi per fortuna, che sono convinti che la spada della giustizia sia sempre senza fodero, pronta a colpire o a raddrizzare le schiene. Parlano molto di sè e del loro operato anche fuori dalle aule giudiziarie, esponendosi mediaticamente, senza rendersi conto che per dimostrare quell' imparzialità che è la sola nostra divisa, non bastano frasi ad effetto, intrise di una retorica all'acqua di rose. Certe debolezze non rendono affatto il magistrato più umano. I magistrati che si candidano esercitano un diritto costituzionalmente garantito a tutti i cittadini, ma Piero Calamandrei diceva che quando per la porta della magistratura entra la politica, la giustizia esce dalla finestra».

Dove non arrivano a fare le loro leggi per tutelare prerogative e privilegi della casta, alcuni magistrati, quando non gli garba il rispetto e l’applicazione della legge, così come gli è dovuto e così come hanno giurato, disapplicano quella votata da altri. Esempio lampante è Taranto. I magistrati contestano la legge, anziché applicarla, a scapito di migliaia di lavoratori. Lo strapotere e lo straparlare dei magistrati si incarna in alcuni esempi. «Ringrazio il Presidente della Repubblica, come cittadino ma anche di giudice, per averci allontanati dal precipizio verso il quale inconsciamente marciavamo». Sono le parole con le quali il presidente della Corte d'appello, Mario Buffa, ha aperto, riferendosi alla caduta del Governo Berlusconi, la relazione per l'inaugurazione dell'anno giudiziario 2012 nell'aula magna del palazzo di giustizia di Lecce. «Per fortuna il vento sembra essere cambiato – ha proseguito Buffa: la nuova ministra non consuma le sue energie in tentativi di delegittimare la magistratura, creando intralci alla sua azione». Ma il connubio dura poco. L’anno successivo, nel 2013, ad aprire la cerimonia di inaugurazione è stata ancora la relazione del presidente della Corte d’appello di Lecce, Mario Buffa. Esprimendosi sull’Ilva di Taranto ha dichiarato che “il Governo ha fatto sull’Ilva una legge ad aziendam, che si colloca nella scia delle leggi ad personam inaugurata in Italia negli ultimi venti anni, una legge che riconsegna lo stabilimento a coloro che fingevano di rispettare le regole di giorno e continuavano a inquinare di notte”. Alla faccia dell’imparzialità. Giudizi senza appello e senza processo. Non serve ai magistrati candidarsi in Parlamento. La Politica, in virtù del loro strapotere, anche mediatico, la fanno anche dai banchi dei tribunali. Si vuole un esempio? "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Ed allora “stronzi” chi li sta a sentire.

«L'unica spiegazione che posso dare è che ho detto sempre quello che pensavo anche affrontando critiche, criticando a mia volta la magistratura associata e gli alti vertici della magistratura. E' successo anche ad altri più importanti e autorevoli magistrati, a cominciare da Giovanni Falcone. Forse non è un caso - ha concluso Ingroia - che quando iniziò la sua attività di collaborazione con la politica le critiche peggiori giunsero dalla magistratura. E' un copione che si ripete». «Come ha potuto Antonio Ingroia paragonare la sua piccola figura di magistrato a quella di Giovanni Falcone? Tra loro esiste una distanza misurabile in milioni di anni luce. Si vergogni». È il commento del procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, ai microfoni del TgLa7 condotto da Enrico Mentana contro l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, ora leader di Rivoluzione civile. Non si è fatta attendere la replica dell'ex procuratore aggiunto di Palermo che dagli schermi di Ballarò respinge le accuse della sua ex collega: «Probabilmente non ha letto le mie parole, s'informi meglio. Io non mi sono mai paragonato a Falcone, ci mancherebbe. Denunciavo soltanto una certa reazione stizzita all'ingresso dei magistrati in politica, di cui fu vittima anche Giovanni quando collaborò con il ministro Martelli. Forse basterebbe leggere il mio intervento» E poi. «Ho atteso finora una smentita, invano. Siccome non è arrivata dico che l'unica a doversi vergognare è lei che, ancora in magistratura, prende parte in modo così indecente e astioso alla competizione politica manipolando le mie dichiarazioni. La prossima volta pensi e conti fino a tre prima di aprire bocca. Quanto ai suoi personali giudizi su di me, non mi interessano e alle sue piccinerie siamo abituati da anni. Mi basta sapere cosa pensava di me Paolo Borsellino e cosa pensava di lei. Ogni parola in più sarebbe di troppo». «Sì, è vero. È stato fatto un uso politico delle intercettazioni, ma questo è stato l’effetto relativo, la causa è che non si è mai fatta pulizia nel mondo della politica». Un'ammissione in piena regola fatta negli studi di La7 dall'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia. Che sostanzialmente ha ammesso l'esistenza (per non dire l'appartenenza) di toghe politicizzate. Il leader di Rivoluzione civile ha spiegato meglio il suo pensiero: «Se fosse stata pulizia, non ci sarebbero state inchieste così clamorose e non ci sarebbe state intercettazioni utilizzate per uso politico». L’ex pm ha poi affermato che «ogni magistrato ha un suo tasso di politicità nel modo in cui interpreta il suo ruolo. Si può interpretare la legge in modo più o meno estensiva, più o meno garantista altrimenti non si spiegherebbero tante oscillazione dei giudici nelle decisioni. Ogni giudice dovrebbe essere imparziale rispetto alle parti, il che non significa essere neutrale rispetto ai valori o agli ideali, c’è e c’è sempre stata una magistratura conservatrice e una progressista». Guai a utilizzare il termine toga rossa però, perché "mi offendo, per il significato deteriore che questo termine ha avuto", ha aggiunto Ingroia. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. Ed ancora a sfatare il mito dei magistrati onnipotenti ci pensano loro stessi, ridimensionandosi a semplici uomini, quali sono, tendenti all’errore, sempre impunito però. A ciò serve la polemica tra le Procure che indagano su Mps.  «In certi uffici di procura "sembra che la regola della competenza territoriale sia un optional. C'è stata una gara tra diversi uffici giudiziari, ma sembra che la new entry abbia acquisito una posizione di primato irraggiungibile». Nel suo intervento al congresso di Magistratura democratica del 2 febbraio 2013 il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati ha alluso criticamente, pur senza citarla direttamente, alla procura di Trani, l'ultima ad aprire, tra le tante inchieste aperte, un'indagine su Mps. «No al protagonismo di certi magistrati che si propongono come tutori del Vero e del Giusto magari con qualche strappo alle regole processuali e alle garanzie, si intende a fin di Bene». A censurare il fenomeno il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati nel suo intervento al congresso di Md. Il procuratore di Milano ha puntato l'indice contro il "populismo" e la "demagogia" di certi magistrati, che peraltro - ha osservato - "non sanno resistere al fascino" dell'esposizione mediatica. Di tutto quanto lungamente ed analiticamente detto bisogna tenerne conto nel momento in cui si deve dare un giudizio su indagini, processi e condanne. Perché mai nulla è come appare ed i magistrati non sono quegli infallibili personaggi venuti dallo spazio, ma solo uomini che hanno vinto un concorso pubblico, come può essere quello italiano. E tenendo conto di ciò, il legislatore ha previsto più gradi di giudizio per il sindacato del sottoposto. 

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

La Repubblica delle manette (e degli orrori giudiziari). Augusto Minzolini, già direttore del Tg1, è stato assolto ieri dall'accusa di avere usato in modo improprio la carta di credito aziendale. Tutto bene? Per niente, risponde scrive Alessandro Sallusti. Perché quell'accusa di avere mangiato e viaggiato a sbafo (lo zelante Pm aveva chiesto due anni di carcere) gli è costata il posto di direttore oltre che un anno e mezzo di linciaggio mediatico da parte di colleghi che, pur essendo molto esperti di rimborsi spese furbetti, avevano emesso una condanna definitiva dando per buono il teorema del Pm (suggerito da Antonio Di Pietro, guarda caso). Minzolini avrà modo di rifarsi in sede civile, ma non tutti i danni sono risarcibili in euro, quando si toccano la dignità e la credibilità di un uomo. Fa rabbia che non il Pm, non la Rai, non i colleghi infangatori e infamatori sentano il bisogno di chiedere scusa. È disarmante che questo popolo di giustizialisti non debba pagare per i propri errori. Che sono tanti e si annidano anche dentro l'ondata di manette fatte scattare nelle ultime ore: il finanziere Proto, l'imprenditore Cellino, il manager del Montepaschi Baldassarri. Storie diverse e tra i malcapitati c'è anche Angelo Rizzoli, l'erede del fondatore del gruppo editoriale, anziano e molto malato anche per avere subito un calvario giudiziario che gli ha bruciato un terzo dell'esistenza: 27 anni per vedersi riconosciuta l'innocenza da accuse su vicende finanziarie degli anni Ottanta. L'uso spregiudicato della giustizia distrugge le persone, ma anche il Paese. Uno per tutti: il caso Finmeccanica, che pare creato apposta per oscurare la vicenda Montepaschi, molto scomoda alla sinistra. Solo la magistratura italiana si permette di trattare come se fosse una tangente da furbetti del quartierino il corrispettivo di una mediazione per un affare internazionale da centinaia di milioni di euro. Cosa dovrebbe fare la più importante azienda di alta tecnologia italiana (70mila dipendenti iper qualificati, i famosi cervelli) in concorrenza con colossi mondiali, grandi quanto spregiudicati? E se fra due anni, come accaduto in piccolo a Minzolini, si scopre che non c'è stato reato, chi ripagherà i miliardi in commesse persi a favore di aziende francesi e tedesche? Non c'entra «l'elogio della tangente» che ieri il solito Bersani ha messo in bocca a Berlusconi, che si è invece limitato a dire come stanno le cose nel complicato mondo dei grandi affari internazionali. Attenzione, che l'Italia delle manette non diventi l'Italia degli errori e orrori.

Un tempo era giustizialista. Ora invece ha cambiato idea. Magari si avvicinano le elezioni e Beppe Grillo comincia ad avere paura anche lui. Magari per i suoi. Le toghe quando agiscono non guardano in faccia nessuno. E così anche Beppe se la prende con i magistrati: "La legge protegge i delinquenti e manda in galera gli innocenti", afferma dal palco di Ivrea. Un duro attacco alla magistratura da parte del comico genovese, che afferma: "Questa magistratura fa paura. Io che sono un comico ho più di ottanta processi e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 in meno, e poi va in televisione a lamentarsi". Il leader del Movimento Cinque Stelle solo qualche tempo fa chiedeva il carcere immediato per il crack Parmalat e anche oggi per lo scandalo di Mps. Garantista part-time - Beppe ora si scopre garantista. Eppure per lui la presunzione di innocenza non è mai esistita. Dai suoi palchi ha sempre emesso condanne prima che finissero le istruttorie. Ma sull'attacco alle toghe, Grillo non sembra così lontano dal Cav. Anche se in passato, il leader Cinque Stelle non ha mai perso l'occasione per criticare Berlusconi e le sue idee su una riforma della magistratura. E sul record di processi Berlusconi, ospite di Sky Tg24, ha precisato: "Grillo non è informato. Io ho un record assoluto di 2700 udienze. I procedimenti contro di me più di cento, credo nessuno possa battere un record del genere".

"La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera". Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”.

Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI.

MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO.

Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase  processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo.

Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Fino a prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo.

La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d'incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: "Non si può considerare la Tumini un cavallo di ....", ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell'accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. 

Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi.

 “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”.

A tal riguardo è uscito un articolo su “L’Espresso”. A firma di Ermanno Forte. “Ora processano Mastrogiovanni”. Requisitoria da anni '50 nel dibattimento sull'omicidio del maestro: il pm difende gli imputati e se la prende con le 'bizzarrie' della vittima. Non c'è stato sequestro di persona perché la contenzione è un atto medico e quindi chi ha lasciato un uomo legato mani e piedi a un letto, per oltre 82 ore, ha semplicemente agito nell'esercizio di un diritto medico. Al massimo ha ecceduto nella sua condotta, ma questo non basta a considerare sussistente il reato di sequestro. E' questa la considerazione centrale della requisitoria formulata da Renato Martuscelli al processo che vede imputati medici e infermieri del reparto di psichiatria dell'ospedale San Luca di Vallo della Lucania, per la morte di Francesco Mastrogiovanni. Il pm ha dunque in gran parte sconfessato l'impianto accusatorio imbastito nella fase delle indagini e di richiesta di rinvio a giudizio da Francesco Rotondo, il magistrato che sin dall'inizio ha lavorato sul caso, disponendo l'immediato sequestro del video registrato dalle telecamere di sorveglianza del reparto psichiatrico, e che poi è stato trasferito. Nella prima parte della requisitoria - durata un paio d'ore, davanti al presidente del tribunale Elisabetta Garzo –Martuscelli si è soffermato a lungo sui verbali di carabinieri e vigili urbani relativi alle ore precedenti al ricovero (quelli dove si descrivono le reazioni di Mastrogiovanni alla cattura avvenuta sulla spiaggia di San Mauro Cilento e le presunte infrazioni al codice della strada commesse dal maestro), oltre a ripercorrere la storia sanitaria di Mastrogiovanni, già sottoposto in passato a due Tso, nel 2002 e nel 2005. "Una buona metà dell'intervento del pm è stata dedicata a spiegare al tribunale quanto fosse cattivo e strano Franco Mastrogiovanni" commenta Michele Capano, rappresentante legale del Movimento per la Giustizia Robin Hood, associazione che si è costituita parte civile al processo "sembrava quasi che l'obiettivo di questa requisitoria fosse lo stesso maestro cilentano, e non i medici di quel reparto".

Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati.

“Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”,  dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. - Ricorda: riordina. - La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si  può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» 

VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO' NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL'OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA' IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

D'altronde di italiani si tratta: dicono una cosa ed un’altra ne fanno. Per esempio, rimanendo in ambito sportivo in tema di legalità, è da rimarcare come la parola di un altoatesino vale di più di quella di un napoletano. Almeno secondo Alex Schwazer, atleta nato in quel di Vipiteno il 26 dicembre 1984, trovato positivo al test antidoping prima delle Olimpiadi di Londra 2012. Era il 28 giugno 2012. Due giorni dopo, un test a sorpresa della Wada, l'agenzia mondiale antidoping, avrebbe rivelato la sua positività all'assunzione dell'Epo. «Posso giurare che non ho fatto niente di proibito – scriveva Schwazer, il 28 giugno 2012, al medico della Fidal Pierluigi Fiorella – ti ho dato la mia parola e non ti deluderò. Sono altoatesino, non sono napoletano». Due giorni dopo, il 30 giugno, l'atleta viene trovato positivo all'Epo. Ma l'insieme della contraddizioni (a voler essere gentili) non finisce qui. Nella sua confessione pubblica dell'8 agosto 2012, Schwazer ammise di aver assunto Epo a causa di un cedimento psicologico. Era un brutto periodo, e qualcosa bisognava pur fare. Ma le indagini dei Ros di Trento e dei Nas di Firenze contraddicono la versione dell'assunzione momentanea. I carabinieri, addirittura, parlano di “profilo ematologico personale”, un'assunzione continua e costante di sostanze dopanti per la quale non è escluso che Schwazer facesse utilizzo di Epo anche durante i giochi di Pechino 2008. Competizione, lo ricordiamo, dove l'atleta di Vipiteno, vinse l'oro alla marcia di 50 chilometri.  Infatti, questo si evince anche nel decreto di perquisizione della Procura di Bolzano. “La polizia giudiziaria giunge pertanto a ritenere che non possa escludersi che Schwazer Alex, già durante la preparazione per i Giochi Olimpici di Pechino 2008 (e forse ancor prima), sia stato sottoposto a trattamenti farmacologici o a manipolazioni fisiologiche capaci di innalzare considerevolmente i suoi valori ematici.” Insomma: Schwazer non solo offende i napoletani e di riporto tutti i meridionali, incluso me, ma poi, come un fesso, si fa cogliere pure con le mani nel sacco. E dire che, oltretutto, è la parola di un carabiniere, qual è Alex Schwazer.

L'Italia è un Paese fondato sulla fregatura: ecco tutti i modi in cui gli italiani raggirano gli altri (e sé stessi). In un libro, "Io ti fotto" di Carlo Tecce e Marco Morello, la pratica dell'arte della fregatura in Italia. Dai più alti livelli ai più infimi, dalle truffe moderne realizzate in Rete a quelle più antiche e consolidate. In Italia, fottere l'altro - una parola più tenue non renderebbe l'idea - è un vizio che è quasi un vanto, "lo ti fotto" è una legge: di più, un comandamento.

E fottuti siamo stati dagli albori della Repubblica. L'armistizio di Cassabile in Sicilia o armistizio corto, siglato segretamente il 3 settembre 1943, è l'atto con il quale il Regno d’Italia cessò le ostilità contro le forze anglo-americane (alleati) nell'ambito della seconda guerra mondiale. In realtà non si trattava affatto di un armistizio ma di una vera e propria resa senza condizioni da parte dell'Italia. Poiché tale atto stabiliva la sua entrata in vigore dal momento del suo annuncio pubblico, esso è comunemente detto dell'" 8 settembre", data in cui, alle 18.30, fu pubblicamente reso noto prima dai microfoni di Radio Algeri da parte del generale Dwight D. Eisenhower e, poco più di un'ora dopo, alle 19.42, confermato dal proclama del maresciallo Pietro Badoglio trasmesso dai microfoni dell' Eiar. In quei frangenti vi fu grande confusione e i gerarchi erano in fuga. L’esercito allo sbando. Metà Italia combatteva contro gli Alleati, l’altra metà a favore.

La grande ipocrisia vien da lontano. “I Vinti non dimenticano” (Rizzoli 2010), è il titolo del volume di Giampaolo Pansa. Ci si fa largo tra i morti, ogni pagina è una fossa e ci sono perfino preti che negano la benedizione ai condannati. E poi ci sono le donne, tante, tutte ridotte a carne su cui sbattere il macabro pedaggio dell’odio. È un viaggio nella memoria negata, quella della guerra civile, altrimenti celebrata nella retorica della Resistenza.. Le storie inedite di sangue e violenza che completano e concludono "Il sangue dei vinti", uscito nel 2003. Si tenga conto che da queste realtà politiche uscite vincenti dalla guerra civile è nata l'alleanza catto-comunista, che ha dato vita alla Costituzione Italiana e quantunque essa sia l'architrave delle nostre leggi, ad oggi le norme più importanti, che regolano la vita degli italiani (codice civile, codice penale, istituzione e funzionamento degli Ordini professionali, ecc.), sono ancora quelle fasciste: alla faccia dell'ipocrisia comunista, a cui quelle leggi non dispiacciono.

Esecuzioni, torture, stupri. Le crudeltà dei partigiani. La Resistenza mirava alla dittatura comunista. Le atrocità in nome di Stalin non sono diverse dalle efferatezze fasciste. Anche se qualcuno ancora lo nega scrive Giampaolo Pansa. (scrittore notoriamente comunista osteggiato dai suoi compagni di partito per essere ai loro occhi delatore di verità scomode). C’è da scommettere che il libro di Giampaolo Pansa, "La guerra sporca dei partigiani e dei fascisti" (Rizzoli, pagg. 446), farà infuriare le vestali della Resistenza. Mai in maniera così netta come nell’introduzione al volume (di cui per gentile concessione “Il Giornale” pubblica un estratto) i crimini partigiani sono equiparati a quelli dei fascisti. Giampaolo Pansa imbastisce un romanzo che, sull’esempio delle sue opere più note, racconta la guerra civile in chiave revisionista, sottolineando le storie dei vinti e i soprusi dei presunti liberatori, i partigiani comunisti in realtà desiderosi di sostituire una dittatura con un’altra, la loro.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto. Anche se numerosi sono gli studi che ne danno conto, di seguito brevemente tratteggiati. Riapriamo i libri di storia e cerchiamo di capire la successione dei fatti. La Germania è stata protagonista «sfortunata» di due guerre mondiali nella prima metà dello scorso secolo, entrambe perse in malo modo. Come spesso accade in questi casi, i vincitori hanno presentato il conto alle nazioni sconfitte, in primis alla Germania stessa. Un conto salato, soprattutto quello successivo alla Prima guerra mondiale, talmente tanto salato che John Maynard Keynes, nel suo Conseguenze economiche della pace, fu uno dei principali oppositori a tale decisione, sostenendo che la sua applicazione avrebbe minato in via permanente la capacità della Germania di avviare un percorso di rinascita post-bellica. Così effettivamente accadde, poiché la Germania entrò in un periodo di profonda depressione alla fine degli anni '20 (in un più ampio contesto di recessione mondiale post '29), il cui esito minò la capacità del Paese di far fronte ai propri impegni debitori internazionali. Secondo Scott Nelson, del William and Mary College, la Germania negli anni '20 giunse a essere considerata come «sinonimo di default». Arrivò così il 1932, anno del grande default tedesco. L'ammontare del debito di guerra, secondo gli studiosi, equivalente nella sua parte «realistica» al 100% del Pil tedesco del 1913 (!), una percentuale ragguardevole. Poi arrivò al potere Hitler e l'esposizione debitoria non trovò adeguata volontà di onorare puntualmente il debito (per usare un eufemismo). I marchi risparmiati furono destinati ad avviare la rinascita economica e il programma di riarmo. Si sa poi come è andata: scoppio della Seconda guerra mondiale e seconda sconfitta dei tedeschi. A questo punto i debiti pre-esistenti si cumularono ai nuovi e l'esposizione complessiva aumentò. Il 1953 rappresenta il secondo default tedesco. In quell'anno, infatti, gli Stati Uniti e gli altri creditori siglarono un accordo di ridefinizione complessiva del debito tedesco, procedendo a «rinunce volontarie» di parte dei propri crediti, accordo che consentì alla Germania di poter ripartire economicamente (avviando il proprio miracolo economico, o «wirtschaftswunder»). Il lettore non sia indotto in inganno: secondo le agenzie di rating, anche le rinegoziazioni volontaristiche configurano una situazione di default, non solo il mancato rimborso del capitale e degli interessi (la Grecia nel 2012 e l'Argentina nel 2001 insegnano in tal senso). Il risultato ottenuto dai tedeschi dalla negoziazione fu davvero notevole:

1) l'esposizione debitoria fu ridotta considerevolmente: secondo alcuni calcoli, la riduzione concessa alla Germania fu nell'ordine del 50% del debito complessivo!

2) la durata del debito fu estesa sensibilmente (peraltro in notevole parte anche su debiti che erano stati non onorati e dunque giunti a maturazione già da tempo). Il rimborso del debito fu «spalmato» su un orizzonte temporale di 30 anni;

3) le somme corrisposte annualmente ai creditori furono legate al fatto che la Germania disponesse concretamente delle risorse economiche necessarie per effettuare tali trasferimenti internazionali.

Sempre secondo gli accordi del '53, il pagamento di una parte degli interessi arretrati fu subordinata alla condizione che la Germania si riunificasse, cosa che, come noto, avvenne nell'ottobre del 1990. Non solo: al verificarsi di tale condizione l'accordo del 1953 si sarebbe dovuto rinegoziare, quantomeno in parte. Un terzo default, di fatto. Secondo Albrecht Frischl, uno storico dell'economia tedesco, in una intervista concessa a Spiegel, l'allora cancelliere Kohl si oppose alla rinegoziazione dell'accordo. A eccezione delle compensazioni per il lavoro forzato e il pagamento degli interessi arretrati, nessun'altra riparazione è avvenuta da parte della Germania dopo il 1990. Una maggiore sobrietà da parte dei tedeschi nel commentare i problemi altrui sarebbe quanto meno consigliabile. Ancora Fritschl, precisa meglio il concetto: «Nel Ventesimo secolo, la Germania ha dato avvio a due guerre mondiali, la seconda delle quali fu una guerra di annientamento e sterminio, eppure i suoi nemici annullarono o ridussero pesantemente le legittime pretese di danni di guerra. Nessuno in Grecia ha dimenticato che la Germania deve la propria prosperità alla generosità delle altre nazioni (tra cui la Grecia, ndr)». È forse il caso di ricordare inoltre che fu proprio il legame debito-austerità-crisi che fornì linfa vitale ad Adolf Hitler e alla sua ascesa al potere, non molto tempo dopo il primo default tedesco. Tre default, secondo una contabilità allargata. Non male per un Paese che con una discreta periodicità continua a emettere giudizi moralistici sul comportamento degli altri governi. Il complesso da primo della classe ottunde la memoria e induce a mettere in soffitta i propri periodi di difficoltà. «Si sa che la gente dà buoni consigli se non può più dare il cattivo esempio». Era un tempo la «bocca di rosa» di De André, è oggi, fra gli altri, la bocca del Commissario europeo Ottinger (e qualche tempo fa del ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schauble). A suo avviso, Bruxelles «non si è ancora resa abbastanza conto di quanto sia brutta la situazione» e l'Europa invece di lottare contro la crisi economica e del debito, celebra «il buonismo» e si comporta nei confronti del resto del mondo come una maestrina, quasi un «istituto di rieducazione». Accidenti, da quale pulpito viene la predica.

Non solo. Un altro luogo comune viene sfatato ed abbattuto. La Germania di Angela Merkel è il paese che ha l'economia sommersa più grande d'Europa in termini assoluti. L'economia in nero teutonica vale 350 miliardi di euro. Sono circa otto milioni i cittadini tedeschi che vivono lavorando in nero. Secondo gli esperti il dato è figlio dell'ostilità dei tedeschi ai metodi di pagamento elettronici. I crucchi preferiscono i contanti. La grandezza dell'economia in nero della Germania è stata stimata e calcolata dal colosso delle carte di credito e dei circuiti di pagamento Visa in collaborazione con l'università di Linz. In relazione al Pil tedesco il nero sarebbe al 13 per cento, pari a un sesto della ricchezza nazionale. Quindi in termini relativi il peso del sommerso è minore, ma per volume e in termini assoluti resta la più grande d'Europa. Chi lavora in nero in Germania di solito opera nel commercio e soprattutto nell'edilizia, poi c'è il commercio al dettaglio e infine la gastronomia. Il livello del nero in Germania comunque si è stabilizzato. Il picco è arrivato dieci anni fa. Nel 2003 la Germania ha attraversato la peggiore stagnazione economica degli ultimi vent'anni e all'epoca il nero valeva 370 miliardi. Ora con l'economia in ripresa che fa da locomotiva per l'Europa, il nero è fermo al 13 per cento del Pil. 

Tornando alla repubblica delle manette ci si chiede. Come può, chi indossa una toga, sentirsi un padreterno, specie se, come è noto a tutti, quella toga non rispecchia alcun meritocrazia? D’altronde di magistrati ve ne sono più di 10 mila a regime, cosi come gli avvocati sono intorno ai 150 mila in servizio effettivo.

Eppure nella mia vita non ho mai trovato sulla mia strada una toga degna di rispetto, mentre invece, per loro il rispetto si pretende. A me basta ed avanza essere Antonio Giangrande, senza eguali per quello che scrive e dice. Pavido nell’affrontare una ciurma togata pronta a fargli la pelle, mal riuscendoci questi, però, a tacitarlo sulle verità a loro scomode. 

Si chiedeva Sant’Agostino (354-430): «Eliminata la giustizia, che cosa sono i regni se non bande di briganti? E cosa sono le bande di briganti se non piccoli regni?». Secondo il Vescovo di Ippona è la giustizia il principale, per non dire l’unico, argine contro la voracità dei potenti.

Da quando è nato l’uomo, la libertà e la giustizia sono gli unici due strumenti a disposizione della gente comune per contrastare la condizione di sudditanza in cui tendono a relegarla i detentori del potere. Anche un bambino comprende che il potere assoluto equivale a corruzione assoluta.

Certo. Oggi nessuno parlerebbe o straparlerebbe di assolutismo. I tempi del Re Sole sembrano più lontani di Marte. Ma, a differenza della scienza e delle tecnologie, l’arte del governo è l’unica disciplina in cui non si riscontrano progressi. Per dirla con lo storico Tacito (55-117 d. C.), la sete di potere è la più scandalosa delle passioni. E come si manifesta questa passione scandalosa? Con l’inflazione di spazi, compiti e competenze delle classi dirigenti. Detto in termini aggiornati: elevando il tasso di statalismo presente nella nostra società.

Friedrich Engels (1820-1895) tutto era tranne che un liberale, ma, da primo marxista della Storia, scrisse che quando la società viene assorbita dallo Stato, che a suo giudizio è l’insieme della classe dirigente, il suo destino è segnato: trasformarsi in «una macchina per tenere a freno la classe oppressa e sfruttata». Engels ragionava in termini di classe, ma nelle sue parole riecheggiava una palese insofferenza verso il protagonismo dello Stato, che lui identificava con il ceto dirigente borghese, che massacrava la società. Una società libera e giusta è meno corrotta di una società in cui lo Stato comanda in ogni pertugio del suo territorio. Sembra quasi un’ovvietà, visto che la scienza politica lo predica da tempo: lo Stato, per dirla con Sant’Agostino, tende a prevaricare come una banda di briganti. Bisogna placarne gli appetiti.

E così i giacobini e i giustizialisti indicano nel primato delle procure la vera terapia contro il malaffare tra politica ed economia, mentre gli antigiustizialisti accusano i magistrati di straripare con le loro indagini e i loro insabbiamenti fino al punto di trasformarsi essi stessi in elementi corruttivi, dato che spesso le toghe, secondo i critici, agirebbero per fini politici, se non, addirittura, fini devianti, fini massonici e fini mafiosi.

Insomma. Uno Stato efficiente e trasparente si fonda su buone istituzioni, non su buone intenzioni. Se le Istituzioni non cambiano si potranno varare le riforme più ambiziose, dalla giustizia al sistema elettorale; si potranno pure mandare in carcere o a casa tangentisti e chiacchierati, ma il risultato (in termini di maggiore onestà del sistema) sarà pari a zero. Altri corrotti si faranno avanti. La controprova? Gli Stati meno inquinati non sono quelli in cui l’ordinamento giudiziario è organizzato in un modo piuttosto che in un altro, ma quelli in cui le leggi sono poche e chiare, e i cui governanti non entrano pesantemente nelle decisioni e nelle attività che spettano a privati e società civile.

Oggi ci si scontra con una dura realtà. La magistratura di Milano? Un potere separatista. Procure e tribunali in Italia fanno quello che vogliono: basta una toga e arrivederci, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. L’equivoco prosegue da una vita: un sacco di gente pensa che esista una sinergia collaudatissima tra i comportamenti della politica e le decisioni della giustizia, come se da qualche parte ci fosse una camera di compensazione in cui tutti i poteri (politici, giudiziari, burocratici, finanziari) contrattassero l’uno con l’altro e rendessero tutto interdipendente. Molti ragionano ancora come Giorgio Straquadanio sul Fatto: «Questo clima pacifico porta a Berlusconi una marea di benefici, l’aggressione giudiziaria è destinata a finire... c’è da aspettarsi che le randellate travestite da sentenze, così come gli avvisi di garanzie e le inchieste, cessino». Ora: a parte che solo una nazione profondamente arretrata potrebbe funzionare così, questa è la stessa mentalità che ha contribuito al crollo della Prima Repubblica, protesa com’era a trovare il volante «politico» di inchieste che viceversa avevano smesso di averne uno. In troppi, in Italia, non hanno ancora capito che non esiste più niente del genere, se non, in misura fisiologica e moderata, a livello di Quirinale-Consulta-Csm. Ma per il resto procure e tribunali fanno quello che vogliono: basta un singolo magistrato e arrivederci. L’emblema ne resta Milano, dove la separatezza tra giudici e procuratori non ci si preoccupa nemmeno di fingerla: la magistratura, più che separato, è ormai un potere separatista. 

Prodigio delle toghe: per lo stesso reato salvano il Pd e non il Pdl. A Bergamo "non luogo a procedere" per un democratico, a Milano invece continua il processo contro Podestà, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”.

Stesso fatto (firme tarocche autenticate), stesso capo d’accusa (falso ideologico), stesso appuntamento elettorale (le Regionali lombarde), stesso anno (il 2010). Eppure a Bergamo un esponente di centrosinistra esce dal processo perché il giudice stabilisce il «non luogo a procedere», mentre a Milano altri politici di centrodestra - tra cui il presidente della Provincia Guido Podestà - restano alla sbarra. Ma andiamo con ordine. Nel febbraio 2010 fervono i preparativi in vista delle elezioni. È sfida tra Roberto Formigoni e Filippo Penati. Matteo Rossi, consigliere provinciale di Bergamo del Pd, è un pubblico ufficiale e quindi può vidimare le sottoscrizioni a sostegno delle varie liste. Ne autentica una novantina in quel di Seriate a sostegno del Partito pensionati, all’epoca alleato del centrosinistra. Peccato che tra gli autografi ne spuntino sette irregolari, tra cui due persone decedute, una nel 2009 e l’altra nel 1992. È il Comune a sollevare dubbi e il caso finisce in Procura. All’udienza preliminare l’avvocato Roberto Bruni, ex sindaco del capoluogo orobico e poi consigliere regionale della lista Ambrosoli, invoca la prescrizione. Lo fa appellandosi a una riforma legislativa e il giudice gli dà ragione. È successo che Bruni, tra i penalisti più stimati della città, ha scandagliato il testo unico delle leggi sulle elezioni. Testo che in sostanza indica in tre anni il tempo massimo per procedere ed emettere la sentenza. Parliamo di una faccenda da Azzeccagarbugli, anche perché un recente pronunciamento della Cassazione conferma sì il limite di tre anni per arrivarne a una, ma solo se la denuncia è partita dai cittadini. Mentre nel caso di Rossi tutto è scattato per un intervento del Comune di Seriate. Fatto sta che a Milano c’è un altro processo con lo stesso capo d’imputazione e che riguarda la lista Formigoni. Nessuno, finora, ha sollevato la questione della prescrizione ma in questi giorni la decisione del giudice orobico ha incuriosito non poco gli avvocati Gaetano Pecorella e Maria Battaglini, dello stesso studio dell’ex parlamentare del Pdl. Vogliono capire com’è andata la faccenda di Rossi, così da decidere eventuali strategie a difesa dei loro assistiti, tra cui spicca Podestà. Nel suo caso, le sottoscrizioni fasulle sarebbero 770, raccolte in tutta la Lombardia: nell’udienza il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il pm Antonio D’Alessio hanno indicato come testimoni 642 persone che, sentite dai carabinieri nel corso dell’inchiesta, avevano affermato che quelle firme a sostegno del listino di Formigoni, apposte con il loro nome, erano false. Tra i testi ammessi figura anche l’allora responsabile della raccolta firme del Pdl, Clotilde Strada, che ha già patteggiato 18 mesi. A processo, oltre a Podestà, ci sono quattro ex consiglieri provinciali del Popolo della Libertà milanese: Massimo Turci, Nicolò Mardegan, Barbara Calzavara e Marco Martino. Tutti per falso ideologico, come Rossi, e tutti per firme raccolte tra gennaio e febbraio del 2010. All’ombra della Madonnina il processo era scattato per una segnalazione dei Radicali, in qualità di semplici cittadini. Non è detto che il destino del democratico Rossi coinciderà con quello degli imputati azzurri di Milano. Strano ma vero.

Certo c’è da storcere il naso nel constatare che non di democrazia si parla (POTERE DEL POPOLO) ma di magistocrazia (POTERE DEI MAGISTRATI).

Detto questo parliamo del Legittimo Impedimento. Nel diritto processuale penale italiano, il legittimo impedimento è l'istituto che permette all'imputato, in alcuni casi, di giustificare la propria assenza in aula. In questo caso l’udienza si rinvia nel rispetto del giusto processo e del diritto di difesa. In caso di assenza ingiustificata bisogna distinguere se si tratta della prima udienza o di una successiva. Nel caso di assenza in luogo della prima udienza il giudice, effettuate le operazioni riguardanti gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti (di cui al 2° comma dell'art. 420), in caso di assenza non volontaria dell'imputato se ne dichiara la condizione di contumacia e il procedimento non subisce interruzioni. Se invece l'assenza riguarda una udienza successiva alla prima ed in quella l'imputato non è stato dichiarato contumace, questi è dichiarato semplicemente assente. E ancora, se nell'udienza successiva alla prima alla quale l'imputato non ha partecipato (per causa maggiore, caso fortuito o forza maggiore) questi può essere ora dichiarato contumace.

''L'indipendenza, l'imparzialità, l'equilibrio dell'amministrazione della giustizia sono più che mai indispensabili in un contesto di persistenti tensioni e difficili equilibri sia sul piano politico che istituzionale''. Lo afferma il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano l’11 giugno 2013 al Quirinale ricevendo i neo giudici al Quirinale e, come se sentisse puzza nell’aria, invita al rispetto della Consulta. Tre ''tratti distintivi'' della magistratura, ha sottolineato il capo dello Stato, ricevendo al Quirinale i 343 magistrati ordinari in tirocinio, che rappresentano ''un costume da acquisire interiormente, quasi al pari di una seconda natura''. Napolitano ha chiesto poi rispetto verso la Consulta: serve "leale collaborazione, oltre che di riconoscimento verso il giudice delle leggi, ossia la Corte Costituzionale, chiamata ad arbitrare anche il conflitto tra poteri dello Stato''. E dopo aver fatto osservare che sarebbe ''inammissibile e scandaloso rimettere in discussione la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, per ciechi particolarismi anche politici'', Napolitano parlando del Consiglio superiore della magistratura ha detto che ''non è un organo di mera autodifesa, bensì un organo di autogoverno, che concorre alle riforme obiettivamente necessarie'' della giustizia.

D’altronde il Presidente della Repubblica in quanto capo dei giudici, non poteva dire altrimenti cosa diversa.

Eppure la corte Costituzionale non si è smentita.

Per quanto riguarda il Legittimo Impedimento attribuibile a Silvio Berlusconi, nelle funzioni di Presidente del Consiglio impegnato in una seduta dello stesso Consiglio dei Ministri, puntuale, atteso, aspettato, è piovuto il 19 giugno 2013 il "no" al legittimo impedimento. La Corte Costituzionale, nel caso Mediaset, si schiera contro Silvio Berlusconi. Per le toghe l'ex premier doveva partecipare all'udienza e non al CDM. È stato corretto l'operato dei giudici di Milano nel processo “Mediaset” quando, il primo marzo del 2010, non hanno concesso il legittimo impedimento a comparire in udienza all'allora premier e imputato di frode fiscale Silvio Berlusconi. A deciderlo, nel conflitto di attribuzioni sollevato dalla Presidenza del Consiglio dei ministri in dissidio con i togati milanesi, è stata la Corte Costituzionale che ha ritenuto che l'assenza dall'udienza non sia stata supportata da alcuna giustificazione relativa alla convocazione di un Cdm fuori programma rispetto al calendario concordato in precedenza.

"Incredibile" - In una nota congiunta i ministri PDL del governo Letta,  Angelino Alfano, Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Nunzia De Girolamo e Beatrice Lorenzin, commentano: "E' una decisione incredibile. Siamo allibiti, amareggiati e profondamente preoccupati. La decisione - aggiungono - travolge ogni principio di leale collaborazione e sancisce la subalternità della politica all'ordine giudiziario".  Uniti anche tutti i deputati azzurri, che al termine della seduta della Camera, hanno fatto sapere in un comunicato, "si sono riuniti e hanno telefonato al presidente Berlusconi per esprimere la loro profonda indignazione e preoccupazione per la vergognosa decisione della Consulta che mina gravemente la leale collaborazione tra gli organi dello Stato e il corretto svolgimento dell’esercizio democratico". Al Cavaliere, si legge, "i deputati hanno confermato che non sarà certo una sentenza giudiziaria a decretare la sua espulsione dalla vita politica ed istituzionale del nostro Paese, e gli hanno manifestato tutta la loro vicinanza e il loro affetto". "Siamo infatti all’assurdo di una Corte costituzionale che non ritiene legittimo impedimento la partecipazione di un presidente del Consiglio al Consiglio dei ministri", prosegue il capogruppo del Pdl alla Camera, Renato Brunetta, "Dinanzi all’assurdo, che documenta la resa pressoché universale delle istituzioni davanti allo strapotere dell’ingiustizia in toga, la tentazione sarebbe quella di chiedere al popolo sovrano di esprimersi e di far giustizia con il voto". Occorre – dice – una riforma del sistema per limitare gli abusi e una nuova regolazione dei poteri dell’ordine giudiziario che non è un potere ma un ordine in quanto la magistratura non è eletta dal popolo. ''A mente fredda e senza alcuna emozione il giudizio sulla sentenza è più chiaro e netto che mai. Primo: la sentenza è un'offesa al buon senso, tanto varrebbe dichiarare l'inesistenza del legittimo impedimento a prescindere, qualora ci sia di mezzo Silvio Berlusconi. Secondo: la Consulta sancisce che la magistratura può agire in quanto potere assoluto come princeps legibus solutus. Terzo: la risposta di Berlusconi e del Pdl con lui è di netta separazione tra le proteste contro l'ingiustizia e leale sostegno al governo Letta. Quarto: non rinunceremo in nessun caso a far valere in ogni sede i diritti politici del popolo di centrodestra e del suo leader, a cui vanno da parte mia solidarietà e ammirazione. Quinto: credo che tutta la politica, di destra, di sinistra e di centro, dovrebbe manifestare preoccupazione per una sentenza che di fatto, contraddicendo la Costituzione, subordina la politica all'arbitrio di qualsiasi Tribunale''. E' quanto afferma Renato Brunetta, presidente dei deputati del Pdl. Gli fa eco il deputato Pdl Deborah Bergamini, secondo cui "è difficile accettare il fatto che viviamo in un Paese in cui c’è un cittadino, per puro caso leader di un grande partito moderato votato da milioni di italiani, che è considerato da una parte della magistratura sempre e per forza colpevole e in malafede. Purtroppo però è così".

Nessuna preoccupazione a sinistra. "Per quanto riguarda il Pd le sentenze si applicano e si rispettano quindi non ho motivo di ritenere che possa avere effetti su un governo che è di servizio per i cittadini e il Paese in una fase molto drammatica della vita nazionale e dei cittadini", ha detto Guglielmo Epifani, "È una sentenza che era attesa da tempo. Dà ragione a una parte e torto all’altra, non vedo un rapporto tra questa sentenza e il quadro politico".

Non si aveva nessun dubbio chi fossero gli idolatri delle toghe.

LE SENTENZE DEI GIUDICI SI APPLICANO, SI RISPETTANO, MA NON ESSENDO GIUDIZI DI DIO SI POSSONO BEN CRITICARE SE VI SONO FONDATE RAGIONI.

Piero Longo e Niccolò Ghedini, legali di Silvio Berlusconi, criticano duramente la decisione della Consulta sull'ex premier. «I precedenti della Corte Costituzionale in tema di legittimo impedimento sono inequivocabili e non avrebbero mai consentito soluzione diversa dall'accoglimento del conflitto proposto dalla presidenza del Consiglio dei Ministri», assicurano. Per poi aggiungere: «Evidentemente la decisione assunta si è basata su logiche diverse che non possono che destare grave preoccupazione»."La preminenza della giurisdizione rispetto alla legittimazione di un governo a decidere tempi e modi della propria azione - continuano i due legali di Silvio Berlusconi - appare davvero al di fuori di ogni logica giuridica. Di contro la decisione, ampiamente annunciata da giorni da certa stampa politicamente orientata, non sorprende visti i precedenti della stessa Corte quando si è trattato del presidente Berlusconi e fa ben comprendere come la composizione della stessa non sia più adeguata per offrire ciò che sarebbe invece necessario per un organismo siffatto". Mentre per Franco Coppi, nuovo legale al posto di Longo, si tratta di «una decisione molto discutibile che crea un precedente pericoloso perché stabilisce che il giudice può decidere quando un Consiglio dei ministri è, o meno, indifferibile. Le mie idee sul legittimo impedimento non coincidono con quelle della Corte Costituzionale ma, purtroppo, questa decisione la dobbiamo tenere così come è perché è irrevocabile».

Ribatte l'Associazione Nazionale Magistrati: «È inaccettabile attribuire alla Consulta logiche politiche»; un'accusa che «va assolutamente rifiutata». A breve distanza dalla notizia che la Consulta ha negato il legittimo impedimento a Silvio Berlusconi nell'ambito del processo Mediaset, arriva anche la reazione di Rodolfo Sabelli, presidente dell'associazione nazionale magistrati, che ribadisce alle voci critiche che si sono sollevate dal Pdl la versione delle toghe."Non si può accettare, a prescindere dalla decisione presa - dice Sabelli - l’attribuzione alla Corte Costituzionale di posizioni o logiche di natura politica". Ribadendo l'imparzialità della Corte Costituzionale "a prescindere dal merito della sentenza", chiede "una posizione di rispetto" per la Consulta e una discussione che - se si sviluppa - sia però fatta "in modo informato, conoscendo le motivazioni della sentenza, e con rigore tecnico".

La Corte costituzionale ha detto no. Respinto il ricorso di Silvio Berlusconi per il legittimo impedimento  (giudicato non assoluto, in questo caso) che non ha consentito all’allora premier  di partecipare all’udienza  del 10 marzo 2010 del processo Mediaset, per un concomitante consiglio dei ministri.  Nel dare ragione ai giudici di Milano che avevano detto no alla richiesta di legittimo impedimento di Berlusconi, la Corte Costituzionale ha osservato che «dopo che per più volte il Tribunale (di Milano), aveva rideterminato il calendario delle udienze a seguito di richieste di rinvio per legittimo impedimento, la riunione del Consiglio dei ministri, già prevista in una precedente data non coincidente con un giorno di udienza dibattimentale, è stata fissata dall'imputato Presidente del Consiglio in altra data coincidente con un giorno di udienza, senza fornire alcuna indicazione (diversamente da quanto fatto nello stesso processo in casi precedenti), nè circa la necessaria concomitanza e la non rinviabilità» dell'impegno, né circa una data alternativa per definire un nuovo calendario. "La riunione del Cdm - spiega la Consulta - non è un impedimento assoluto". Si legge nella sentenza: "Spettava all'autorità giudiziaria stabilire che non costituisce impedimento assoluto alla partecipazione all'udienza penale del 1 marzo 2010 l'impegno dell'imputato Presidente del Consiglio dei ministri" Silvio Berlusconi "di presiedere una riunione del Consiglio da lui stesso convocata per tale giorno", che invece "egli aveva in precedenza indicato come utile per la sua partecipazione all'udienza".

Ma è veramente imparziale la Corte costituzionale?

Tutta la verità sui giornali dopo la bocciatura del “Lodo Alfano”, sulla sospensione dei procedimenti penali per le più alte cariche dello Stato, avvenuta da parte della Corte Costituzionale il 7 ottobre 2009. La decisione della Consulta è arrivata con nove voti a favore e sei contrari. Quanto al Lodo Alfano, si sottolinea che il mutamento di indirizzo della Corte "oltre che una scelta politica si configura anche come violazione del principio di leale collaborazione tra gli organi costituzionali che ha avuto la conseguenza di sviare l'azione legislativa del Parlamento". Berlusconi dice: "C'è un presidente della Repubblica di sinistra, Giorgio Napolitano, e c'è una Corte costituzionale con undici giudici di sinistra, che non è certamente un organo di garanzia, ma è un organo politico. Il presidente è stato eletto da una maggioranza di sinistra, ed ha le radici totali della sua storia nella sinistra. Credo che anche l'ultimo atto di nomina di un magistrato della Corte dimostri da che parte sta". La Corte ha 15 membri, con mandato di durata 9 anni: 5 nominati dal Presidente della Repubblica, Ciampi e Napolitano (di area centro-sinistra); 5 nominati dal Parlamento (maggioranza centro-sinistra); 5 nominati dagli alti organi della magistratura (che tra le sue correnti, quella più influente è di sinistra). Non solo. Dalla Lega Nord si scopre che 9 giudici su 15 sono campani. «Ci sembra alquanto strano che ben 9 dei 15 giudici della Consulta siano campani» osservano due consiglieri regionali veneti della Lega Nord, Emilio Zamboni e Luca Baggio. «È quasi incredibile - affermano Zamboni e Baggio - che un numero così elevato di giudici provenga da una sola regione, guarda caso la Campania. Siamo convinti che questo dato numerico debba far riflettere non solo l'opinione pubblica, ma anche i rappresentanti delle istituzioni». «Il Lodo Alfano è stato bocciato perché ritenuto incostituzionale. Ma cosa c'è di costituzionale - si chiedono Baggio e Zamboni - nel fatto che la maggior parte dei giudici della Consulta, che ha bocciato la contestata legge provenga da Napoli? Come mai c'è un solo rappresentante del Nord?».

Da “Il Giornale” poi, l’inchiesta verità: “Scandali e giudizi politici: ecco la vera Consulta”. Ermellini rossi, anche per l’imbarazzo. Fra i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il Lodo Alfano ve n’è uno che da sempre strizza un occhio a sinistra, ma li abbassa tutti e due quando si tratta di affrontare delicate questioni che riguardano lui o i suoi più stretti congiunti. È Gaetano Silvestri, 65 anni, ex csm, ex rettore dell’ateneo di Messina, alla Consulta per nomina parlamentare («alè, hanno eletto un altro comunista!» tuonò il 22 giugno 2005 l’onorevole Carlo Taormina), cognato di quell’avvocato Giuseppe «Pucci» Fortino arrestato a maggio 2007 nell’inchiesta Oro Grigio e sotto processo a Messina per volontà del procuratore capo Luigi Croce. Che ha definito quel legale intraprendente «il Ciancimino dello Stretto», con riferimento all’ex sindaco mafioso di Palermo, tramite fra boss e istituzioni. Per i pm l’«avvocato-cognato» era infatti in grado di intrattenere indifferentemente rapporti con mafiosi, magistrati, politici e imprenditori. Di Gaetano Silvestri s’è parlato a lungo anche per la vicenda della «parentopoli» all’università di Messina. Quand’era rettore s’è scoperto che sua moglie, Marcella Fortino (sorella di Giuseppe, il «Ciancimino di Messina») era diventata docente ordinario di Scienze Giuridiche. E che costei era anche cognata dell’ex pro-rettore Mario Centorrino, il cui figlio diventerà ordinario, pure lui, nel medesimo ateneo. E sempre da Magnifico, Silvestri scrisse una lettera riservata al provveditore agli studi Gustavo Ricevuto per perorare la causa del figlio maturando, a suo dire punito ingiustamente all’esito del voto (si fermò a 97/100) poiché agli scritti - sempre secondo Silvestri - il ragazzo aveva osato criticare un certo metodo d’insegnamento. La lettera doveva rimanere riservata, il 5 agosto 2001 finì in edicola. E fu scandalo. «Come costituzionalista - scrisse Silvestri - fremo all’idea che una scuola di una Repubblica democratica possa operare siffatte censure, frutto peraltro di un non perfetto aggiornamento da parte di chi autoritariamente le pone in atto. Ho fatto migliaia di esami in vita mia, ma sentirei di aver tradito la mia missione se avessi tolto anche un solo voto a causa delle opinioni da lui professate». Andando al luglio ’94, governo Berlusconi in carica, Silvestri firma un appello per «mettere in guardia contro i rischi di uno svuotamento della carta costituzionale attraverso proposte di riforme e revisione, che non rispettino precise garanzie». Nel 2002 con una pletora di costituzionalisti spiega di «condividere le critiche delle opposizioni al Ddl sul conflitto di interessi». L’anno appresso, a proposito del Lodo sull’immunità, se ne esce così: «Siamo costretti a fare i conti con questioni che dovrebbero essere scontate, che risalgono ai classici dello stato di diritto (...). Se si va avanti così fra breve saremo capaci di metabolizzare le cose più incredibili». Altro giudice contrarissimo al Lodo è Alessandro Criscuolo. Ha preso la difesa e perorato la causa dell’ex pm di Catanzaro, Luigi De Magistris, nel procedimento disciplinare al Csm: «Non ha mai arrestato nessuno ingiustamente, De Magistris è stato molto attento alla gestione dei suoi provvedimenti». Smentito. Quand’era presidente dell’Anm, alle accuse dei radicali sulla (mala) gestione del caso Tortora, Criscuolo rispose prendendo le parti dei magistrati, difese la sentenza di primo grado, ringraziò i pentiti per il loro contributo (sic!). Nel ’97 entrò a gamba tesa in un altro processo, quello per l’omicidio del commissario Calabresi, al grido di «meglio un colpevole libero che un innocente dentro». E che dire del giudice Franco Gallo, già ministro delle Finanze con Ciampi, nemico giurato del successore visto che all’insediamento di Giulio Tremonti (scrive Il Fatto) rassegnò le dimissioni dalla scuola centrale tributaria dopo esser uscito da un’inchiesta finita al tribunale dei ministri, su presunti illeciti compiuti a favore del Coni per il pagamento di canoni irrisori per alcuni immobili. Altro ministro-giudice di Ciampi, rigorosamente no-Lodo, è il professor Sabino Cassese, gettonatissimo in commissioni di studio e d’inchiesta, ai vertici di società importanti e di banche. A proposito della sentenza del gip Clementina Forleo, che assolveva cinque islamici accusati di terrorismo definendoli «guerriglieri», chiosò dicendo che gli Stati Uniti avevano violato lo stato di diritto. Giuseppe Tesauro, terza creatura di Ciampi alla Consulta, viene ricordato al vertice dell’Antitrust per la sua battaglia contro la legge Gasparri («è una legge contro la concorrenza», oppure, «il testo non è in odor di santità, la riforma mescola coca-cola, whisky e acqua»). Di lui si parlò come candidato dell’Ulivo a fine mandato 2005 e come «persecutore» di Gilberto Benetton e della sua Edizioni Holding interessata ad acquistare la società Autogrill (l’inchiesta venne archiviata). Considerato a sinistra da sempre anche Ugo De Siervo, almeno dal ’95 quando al convegno «Con la Costituzione non si scherza» parlò di comportamenti «ispirati a dilettantismo e tatticismo, interpretazioni di stampo plebiscitario, spregio della legalità costituzionale». A maggio 2001 è a fianco dell’ex sottosegretario e senatore dei Ds Stefano Passigli, che annuncia un esposto contro Berlusconi per la violazione dei limiti di spesa per la legge elettorale.

Tanto comandano loro: le toghe! Magistrati, raddoppiati gli incarichi extragiudiziari. Le richieste per svolgere un secondo lavoro sono aumentate in 12 mesi del 100%. Sono passate da 961 a 494. Un record. Consulenze e docenze le più appetibili, scrive “Libero Quotidiano”. La doppia vita dei magistrati. Alle toghe di casa nostra non bastano mai i soldi che incassano con il loro lavoro da magistrato. Le toghe preferiscono la seconda attività. Negli ultimi sei mesi il totale degli incarichi autorizzati dal Csm alle toghe ha toccato quota 961, quasi il doppio dei 494 concessi nei sei mesi precedenti. Insomma il doppio lavoro e la doppia busta paga servono per riempire le tasche. La doppia attività è una tradizione dei nostri magistrati. E la tendenza è in crescita. Si chiamano incarichi “extragiudiziari”, in quanto relativi ad attività che non fanno riferimento alla professione giudiziaria. Gli incarichi per le toghe arrivano dalle società, dagli enti di consulenza e università private, come quella della Confindustria. I dati sull'incremento degli incarichi extragiudiziari li fornisce il Csm. Tra novembre 2012 e maggio 2013 gli incarichi sono raddoppiati. A dare l'ok alla doppia attività è proprio il Csm. Le toghe amano le cattedre e così vanno ad insegnare alla Luiss, l’ateneo confindustriale diretto da Pier Luigi Celli. Poi ci sono le consulenze legali per la Wolters Kluwer, multinazionale che si occupa di editoria e formazione professionale. Ma non finisce qua. Qualche magistrato lavora per la Altalex Consulting, altra società attiva nell’editoria e nella formazione giuridica. Le paghe sono sostanziose. Ad esempio Giovanni Fanticini, racconta Lanotiziagiornale.it,  è giudice al tribunale di Reggio Emilia. Ma ha 11 incarichi extragiudiziali.  Tra docenze, seminari e lezioni varie, è semplicemente impressionante: dalla Scuola superiore dell’economia e delle finanze (controllata al ministero di via XX Settembre) ha avuto un incarico di 7 ore con emolumento orario di 130 euro (totale 910 euro); dalla società Altalex ha avuto sei collaborazioni: 15 ore per complessivi 2.500 euro, 7 ore per 1.300, 8 ore per 1.450, 15 ore per 2.500, 5 ore per 750 e 5 ore per 700; dal Consorzio interuniversitario per l’aggiornamento professionale in campo giuridico ha ottenuto due incarichi, complessivamente 8 ore da 100 euro l’una (totale 800 euro). Insomma un buon bottino. In Confindustria poi c'è l'incarico assegnato a Domenico Carcano, consigliere della Corte di cassazione, che per 45 ore di lezioni ed esami di diritto penale ha ricevuto 6 mila euro. C’è Michela Petrini, magistrato ordinario del tribunale di Roma, che ha incassato due docenze di diritto penale dell’informatica per complessivi 4.390 euro. Ancora, Enrico Gallucci, magistrato addetto all’Ufficio amministrazione della giustizia, ha ottenuto 5.500 euro per 36 ore di lezione di diritto penale. Il doppio incarico di certo non va molto d'accordo con l'imparzialità della magistratura. Se le società dove lavorano questi magistrati dovessero avere problemi giudiziari la magistratura e i giudici quanto sarebbero equidistanti nell'amministrare giustizia? L'anomalia degli incarichi extragiudiziari va eliminata.

“VADA A BORDO, CAZZO!!”.

E’ celebre il “vada a bordo, cazzo” del comandante De Falco. L’Italia paragonata al destino ed agli eventi che hanno colpito la nave Concordia.  Il naufragio della Costa Concordia, è un sinistro marittimo "tipico" avvenuto venerdì 13 gennaio 2012 alle 21:42 alla nave da crociera al comando di Francesco Schettino e di proprietà della compagnia di navigazione genovese Costa Crociere, parte del gruppo anglo-americano Carnival Corporation & plc. All'1.46 di sabato mattina 14 gennaio  il comandante della Concordia Francesco Schettino riceve l'ennesima telefonata dalla Capitaneria di Porto. In linea c'è il comandante Gregorio Maria De Falco. La chiamata è concitata e i toni si scaldano rapidamente.

De Falco: «Sono De Falco da Livorno, parlo con il comandante?

Schettino: «Sì, buonasera comandante De Falco»

De Falco: «Mi dica il suo nome per favore»

Schettino: «Sono il comandante Schettino, comandante»

De Falco: «Schettino? Ascolti Schettino. Ci sono persone intrappolate a bordo. Adesso lei va con la sua scialuppa sotto la prua della nave lato dritto. C'è una biscaggina. Lei sale su quella biscaggina e va a bordo della nave. Va a bordo e mi riporta quante persone ci sono. Le è chiaro? Io sto registrando questa comunicazione comandante Schettino...».

Schettino: «Comandante le dico una cosa...»

De Falco: «Parli a voce alta. Metta la mano davanti al microfono e parli a voce più alta, chiaro?».

Schettino: «In questo momento la nave è inclinata...».

De Falco: «Ho capito. Ascolti: c'è gente che sta scendendo dalla biscaggina di prua. Lei quella biscaggina la percorre in senso inverso, sale sulla nave e mi dice quante persone e che cosa hanno a bordo. Chiaro? Mi dice se ci sono bambini, donne o persone bisognose di assistenza. E mi dice il numero di ciascuna di queste categorie. E' chiaro? Guardi Schettino che lei si è salvato forse dal mare ma io la porto… veramente molto male… le faccio passare un’anima di guai. Vada a bordo, cazzo!»

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Parafrasando la celebre frase di De Falco mi rivolgo a tutti gli italiani: ““TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Il tema è “chi giudica chi?”. Chi lo fa, ha veramente una padronanza morale, culturale professionale per poterlo fare? Iniziamo con il parlare della preparazione culturale e professionale di ognuno di noi, che ci permetterebbe, in teoria, di superare ogni prova di maturità o di idoneità all’impiego frapposta dagli esami scolastici o dagli esami statali di abilitazione o di un concorso pubblico. In un paese in cui vigerebbe la meritocrazia tutto ciò ci consentirebbe di occupare un posto di responsabilità. In Italia non è così. In ogni ufficio di prestigio e di potere non vale la forza della legge, ma la legge del più forte. Piccoli ducetti seduti in poltrona che gestiscono il loro piccolo potere incuranti dei disservizi prodotti. La massa non è li ha pretendere efficienza e dedizione al dovere, ma ad elemosinare il favore. Corruttori nati. I politici non scardinano il sistema fondato da privilegi secolari. Essi tacitano la massa con provvedimenti atti a quietarla.

Panem et circenses, letteralmente: "pane e giochi del circo", è una locuzione in lingua latina molto conosciuta e spesso citata. Era usata nella Roma antica. Contrariamente a quanto generalmente ritenuto, questa frase non è frutto della fantasia popolare, ma è da attribuirsi al poeta latino Giovenale:

« ...duas tantum res anxius optat panem et circenses».

« ...[il popolo] due sole cose ansiosamente desidera pane e i giochi circensi».

Questo poeta fu un grande autore satirico: amava descrivere l'ambiente in cui viveva, in un'epoca nella quale chi governava si assicurava il consenso popolare con elargizioni economiche e con la concessione di svaghi a coloro che erano governati (in questo caso le corse dei carri tirati da cavalli che si svolgevano nei circhi come il Circo Massimo e il Circo di Massenzio).

Perché quel “TUTTI DENTRO CAZZO!!”. Perché la legge dovrebbe valere per tutti. Non applicata per i più ed interpretata per i pochi. E poi mai nessuno, in Italia, dovrebbe permettersi di alzare il dito indice ed accusare qualcun altro della sua stessa colpa. Prendiamo per esempio la cattiva abitudine di copiare per poter superare una prova, in mancanza di una adeguata preparazione. Ognuno di noi almeno un volta nella vita ha copiato. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini a base di formule trigonometriche, biografie del Manzoni e del Leopardi, storia della filosofia e traduzioni di Cicerone. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. Anche in questo caso l'inconveniente è che se ti sorprendono sono guai. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.  Pure quello difficile da gestire: solo gli artisti della copia copiarella possono.

Il consiglio è quello di studiare e non affidarsi a trucchi e trucchetti. Si rischia grosso e non tutti lo sanno. Anche perché il copiare lo si fa passare per peccato veniale. Copiare ad esami e concorsi, invece, potrebbe far andare in galera. E' quanto stabilito dalla legge n. 475/1925 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 32368/10. La legge recita all'art.1 :“Chiunque in esami o concorsi, prescritti o richiesti da autorità o pubbliche amministrazioni per il conferimento di lauree o di ogni altro grado o titolo scolastico o accademico, per l’abilitazione all’insegnamento ed all’esercizio di una professione, per il rilascio di diplomi o patenti, presenta, come propri, dissertazioni, studi, pubblicazioni, progetti tecnici e, in genere, lavori che siano opera di altri, è punito con la reclusione da tre mesi ad un anno. La pena della reclusione non può essere inferiore a sei mesi qualora l’intento sia conseguito”. A conferma della legge è intervenuta la Corte di Cassazione con la sentenza n.32368/10, che ha condannato una candidata per aver copiato interamente una sentenza del TAR in un elaborato a sua firma presentato durante un concorso pubblico. La sentenza della sezione VI penale n. 32368/10 afferma: “Risulta pertanto ineccepibile la valutazione dei giudici di merito secondo cui la (…) nel corso della prova scritta effettuò, pur senza essere in quel frangente scoperta, una pedissequa copiatura del testo della sentenza trasmessole (…). Consegue che il reato è integrato anche qualora il candidato faccia riferimento a opere intellettuali, tra cui la produzione giurisprudenziale, di cui citi la fonte, ove la rappresentazione del suo contenuto sia non il prodotto di uno sforzo mnemonico e di autonoma elaborazione logica ma il risultato di una materiale riproduzione operata mediante l’utilizzazione di un qualsiasi supporto abusivamente impiegato nel corso della prova”.

In particolare per gli avvocati la Riforma Forense, legge 247/2012, al CAPO II (ESAME DI STATO PER L’ABILITAZIONE ALL’ESERCIZIO DELLA PROFESSIONE DI AVVOCATO) Art. 46. (Esame di Stato) stabilisce che “….10. Chiunque faccia pervenire in qualsiasi modo ad uno o più candidati, prima o durante la prova d’esame, testi relativi al tema proposto è punito, salvo che il fatto costituisca più grave reato, con la pena della reclusione fino a tre anni. Per i fatti indicati nel presente comma e nel comma 9, i candidati sono denunciati al consiglio distrettuale di disciplina del distretto competente per il luogo di iscrizione al registro dei praticanti, per i provvedimenti di sua competenza.”

Ma, di fatto, quello previsto come reato è quello che succede da quando esiste questo tipo di esame e vale anche per i notai ed i magistrati. Eppure, come ogni altra cosa italiana c’è sempre l’escamotage tutto italiano. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce che copiare non è reato: niente più punizione. Dichiarando tuttavia “legale” copiare a scuola, si dichiara pure legale copiare nella vita. Non viene sanzionato un comportamento che è senza dubbio scorretto. Secondo il Consiglio di Stato, il superamento dell’esame costituisce di per sè attestazione delle “competenze, conoscenze e capacità anche professionali acquisite” dall'alunna e la norma che regola l'espulsione dei candidati dai pubblici concorsi per condotta fraudolenta, non può prescindere "dal contesto valutativo dell’intera personalità e del percorso scolastico dello studente, secondo i principi che regolano il cosiddetto esame di maturità": le competenze e le conoscenze acquisite….in relazione agli obiettivi generali e specifici propri di ciascun indirizzo e delle basi culturali generali, nonché delle capacità critiche del candidato. A ciò il Cds ha anche aggiunto un'attenuante, cioè "uno stato d’ansia probabilmente riconducibile anche a problemi di salute" della studentessa stessa, che sarebbe stato alla base del gesto. Il 12 settembre 2012 una sentenza del Consiglio di Stato ha ribaltato la decisione del Tar della Campania che aveva escluso dagli esami di maturità una ragazza sorpresa a copiare da un telefono palmare. Per il Consiglio di Stato la decisione del Tar non avrebbe adeguatamente tenuto conto né del “brillante curriculum scolastico” della ragazza in questione, né di un suo “stato di ansia”. Gli esami, nel frattempo, la giovane li aveva sostenuti seppur con riserva. L’esclusione della ragazza dagli esami sarà forse stata una sanzione eccessiva. Probabilmente la giovane in questione, sulla base del suo curriculum poteva esser perdonata. Gli insegnanti, conoscendola e comprendendo il suo stato d’ansia pre-esame, avrebbero potuto chiudere un occhio. Tutto vero. Ma sono valutazioni che spettavano agli insegnanti che la studente conoscono. Una sentenza del Consiglio di Stato stabilisce invece, di fatto, un principio. E in questo caso il principio è che copiare vale. Non è probabilmente elegante, ma comunque va bene. Questo principio applicato alla scuola, luogo in cui le generazioni future si forgiano ed educano, avrà ripercussioni sulla società del futuro. Se ci viene insegnato che a non rispettar le regole, in fondo, non si rischia nulla più che una lavata di capo, come ci porremo di fronte alle regole della società una volta adulti? Ovviamente male. La scuola non è solo il luogo dove si insegnano matematica e italiano, storia e geografia. Ma è anche il luogo dove dovrebbe essere impartito insegnamento di civica educazione, dove si impara a vivere insieme, dove si impara il rispetto reciproco e quello delle regole. Dove si impara a “vivere”. Se dalla scuola, dalla base, insegniamo che la “furbizia” va bene, non stupiamoci poi se chi ci amministra si compra il Suv con i soldi delle nostre tasse. In fondo anche lui avrà avuto il suo “stato d’ansia”. Ma il punto più importante non è tanto la vicenda della ragazza sorpresa a copiare e di come sia andata la sua maturità. Il punto è la sanzionabilità o meno di un comportamento che è senza dubbio scorretto. In un paese già devastato dalla carenza di etica pubblica, dalla corruzione e dall’indulgenza programmatica di molte vulgate pedagogiche ammantate di moderno approccio relazionale, ci mancava anche la corrività del Consiglio di Stato verso chi imbroglia agli esami.

E, comunque, vallo a dire ai Consiglieri di Stato, che dovrebbero già saperlo, che nell’ordinamento giuridico nazionale esiste la gerarchia della legge. Nell'ordinamento giuridico italiano, si ha una pluralità di fonti di produzione; queste sono disposte secondo una scala gerarchica, per cui la norma di fonte inferiore non può porsi in contrasto con la norma di fonte superiore (gerarchia delle fonti). nel caso in cui avvenga un contrasto del genere si dichiara l'invalidità della fonte inferiore dopo un accertamento giudiziario, finché non vi è accertamento si può applicare la "fonte invalida". Al primo livello della gerarchia delle fonti si pongono la Costituzione e le leggi costituzionali (fonti superprimarie). La Costituzione della Repubblica Italiana, entrata in vigore il 1º gennaio 1948, è composta da 139 articoli: essa detta i principi fondamentali dell'ordinamento (artt. 1-12); individua i diritti e i doveri fondamentali dei soggetti (artt. 13-54); detta la disciplina dell'organizzazione della Repubblica (artt. 55-139). La Costituzione italiana viene anche definita lunga e rigida, lunga perché non si limita "a disciplinare le regole generali dell'esercizio del potere pubblico e delle produzioni delle leggi" riguardando anche altre materie, rigida in quanto per modificare la Costituzione è richiesto un iter cosiddetto aggravato (vedi art. 138 cost.). Esistono inoltre dei limiti alla revisione costituzionale. Al di sotto delle leggi costituzionali si pongono i trattati internazionali e gli atti normativi comunitari, che possono presentarsi sotto forma di regolamenti o direttive. I primi hanno efficacia immediata, le seconde devono essere attuate da ogni paese facente parte dell'Unione europea in un determinato arco di tempo. A queste, si sono aggiunte poi le sentenze della Corte di Giustizia Europea "dichiarative" del Diritto Comunitario (Corte Cost. Sent. n. 170/1984). Seguono le fonti primarie, ovvero le leggi ordinarie e gli atti aventi forza di legge (decreti legge e decreti legislativi), ma anche le leggi regionali e delle provincie autonome di Trento e Bolzano. Le leggi ordinarie sono emanate dal Parlamento, secondo la procedura di cui gli artt. 70 ss. Cost., le cui fasi essenziali sono così articolate: l'iniziativa di legge; l'approvazione del testo di legge è affidata alle due Camere del Parlamento (Camera dei deputati e Senato della Repubblica); la promulgazione del Presidente della Repubblica; la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Al di sotto delle fonti primarie, si collocano i regolamenti governativi, seguono i regolamenti ministeriali e di altri enti pubblici e all'ultimo livello della scala gerarchica, si pone la consuetudine, prodotta dalla ripetizione costante nel tempo di una determinata condotta. Sono ammesse ovviamente solo consuetudini secundum legem e praeter legem non dunque quelle contra legem.

Pare che molte consuetudini sono contra legem e pervengono proprio da coloro che dovrebbero dettare i giusti principi.

Tutti in pensione da "presidente emerito". I giudici della Corte Costituzionale si danno una mano tra loro per dare una spinta in più alla remunerazione pensionistica a fine carriera. Gli ermellini in pratica a rotazione, anche breve, cambiano il presidente della Corte per regalargli il titolo più prestigioso prima che giunga il tramonto professionale. Nulla di strano se non fosse che il quinto comma dell'articolo 135 della Costituzione recita: "La Corte elegge tra i suoi componenti, secondo le norme stabilite dalla legge, il Presidente, che rimane in carica per un triennio, ed è rieleggibile, fermi in ogni caso i termini di scadenza dall’ufficio di giudice". Dunque secondo Costituzione il presidente dovrebbe cambiare ogni 3 anni, o quanto meno rieletto anche per un secondo mandato dopo 36 mesi. Le cose invece vanno in maniera completamente diversa. La poltrona da presidente con relativa pensione fa gola a tanti e allora bisogna accontentare tutti. Così dagli Anni Ottanta la norma è stata aggirata per un tornaconto personale, scrive “Libero Quotidiano”. Per consentire al maggior numero di membri di andare in pensione col titolo da presidente emerito, e fino al 2011 con tanto di auto blu a vita, si è deciso che il prescelto debba essere quello con il maggior numero di anni di servizio. Il principio di anzianità. Questo passaggio di consegne oltre a garantire una pensione più sostanziosa rispetto a quella di un semplice giudice costituzionale, offre anche un’indennità aggiuntiva in busta paga: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti ugualmente una retribuzione corrispondente al complessivo trattamento economico che viene percepito dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni. Al Presidente è inoltre attribuita una indennità di rappresentanza pari ad un quinto della retribuzione", recita la legge 87/1953. Successivamente, il legislatore è intervenuto con legge 27 dicembre 2002, n. 289, sostituendo il primo periodo dell'originario art. 12, comma 1, della legge 87/1953 nei seguenti termini: "I giudici della Corte costituzionale hanno tutti egualmente una retribuzione corrispondente al più elevato livello tabellare che sia stato raggiunto dal magistrato della giurisdizione ordinaria investito delle più alte funzioni, aumentato della metà". Resta ferma l'attribuzione dell'indennità di rappresentanza per il Presidente. Quella era intoccabile.  Così ad esempio accade che Giovanni Maria Flick è stato presidente per soli 3 mesi, dal 14 novembre 2008 al 18 febbraio 2009. Flick si difese dicendo che quella "era ormai una prassi consolidata". Già, consolidata in barba alla Carta Costituzionale che loro per primi dovrebbero rispettare. Gustavo Zagerblesky ad esempio è stato presidente per soli 7 mesi. Poi è stato il turno di Valerio Onida, presidente per 4 mesi dal 22 settembre 2004 al 30 maggio 2005. Ugo De Servio invece ha tenuto la poltrona dal 10 dicembre 2010 al 29 aprile 2011, 4 mesi anche per lui. Recordman invece Alfonso Quaranta che è stato in carica per un anno e sette mesi, dal 6 giugno 2011 al 27 gennaio 2012. Ora la corsa alla poltrona è per l'attuale presidente Franco Gallo, in carica dal gennaio 2013. Durerà fin dopo l'estate? Probabilmente no.

“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”

Per esempio nei processi, anche i testimoni della difesa.  

Tornando alla parafrasi del “TUTTI DENTRO, CAZZO!!” si deve rimarcare una cosa. Gli italiani sono:  “Un popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori, di trasmigatori”. Così è scritto sul Palazzo della Civiltà Italiana dell’EUR a Roma. Manca: “d’ingenui”. Ingenui al tempo di Mussolini, gli italiani, ingenui ancora oggi. Ma no, un popolo d’ingenui non va bene. Sul Palazzo della Civiltà aggiungerei: “Un popolo d’allocchi”, anzi “Un popolo di Coglioni”. Perché siamo anche un popolo che quando non sa un “cazzo” di quello che dice, parla. E parla sempre. Parla..…parla. Specialmente sulle cose di Giustizia: siamo tutti legulei.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Sul degrado morale dell’Italia berlusconiana (e in generale di tutti quelli che hanno votato Berlusconi nonostante sia, per dirla con Gad Lerner, un “puttaniere”) è stato detto di tutto, di più. Ma poco, anzi meno, è stato detto a mio parere sul degrado moralista della sinistra anti-berlusconiana (e in generale di molti che hanno votato “contro” il Cavaliere e che hanno brindato a champagne, festeggiato a casa o in ufficio, tirato un sospiro di sollievo come al risveglio da un incubo di vent’anni). Quella sinistra che, zerbino dei magistrati, ha messo il potere del popolo nelle mani di un ordine professionale, il cui profilo psico-fisico-attitudinale dei suoi membri non è mai valutato e la loro idoneità professionale incute dei dubbi.

Condanna a sette anni di carcere per concussione per costrizione (e non semplice induzione indebita) e prostituzione minorile, con interdizione perpetua dai pubblici uffici per Silvio Berlusconi: il processo Ruby a Milano finisce come tutti, Cavaliere in testa, avevano pronosticato. Dopo una camera di consiglio-fiume iniziata alle 10 di mattina e conclusa sette ore abbondanti dopo, le tre giudici della quarta sezione penale Giulia Turri, Orsola De Cristofaro e Carmen D'Elia hanno accolto in pieno, e anzi aumentato, le richieste di 6 anni dell'accusa, rappresentata dai pm Ilda Boccassini (in ferie e quindi non in aula, sostituita dal procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati, fatto mai avvenuto quello che il procuratore capo presenzi in dibattimento) e Antonio Sangermano. I giudici hanno anche trasmesso alla Procura, per le opportune valutazioni, gli atti relativi alla testimonianza, tra gli altri, di Giorgia Iafrate, la poliziotta che affidò Ruby a Nicole Minetti. Inoltre, sono stati trasmessi anche i verbali relativi alle deposizioni di diverse olgettine, di Mariano Apicella e di Valentino Valentini. Il tribunale di Milano ha disposto anche la confisca dei beni sequestrati a Ruby, Karima El Mahroug e al compagno Luca Risso, ai sensi dell'articolo 240 del codice penale, secondo cui il giudice "può ordinare la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prodotto o il profitto".

I paradossi irrisolti della sentenza sono che colpiscono anche la “vittima” Ruby e non solo il “carnefice” Berlusconi. L’ex minorenne, Karima El Mahroug, «per un astratta tutela della condizione di minorenne», viene dichiarata prima “prostituta” e poi i suoi beni le vengono confiscati: «Come nel caso del concusso, la parte lesa non si dichiara tale anzi si manifesta lesa per l’azione dei magistrati». Ruby «è doppiamente lesa dai magistrati», spiega Sgarbi, «nella reputazione e nel vedersi sottrarre, in via cautelativa, i denari che Berlusconi le ha dato».

«Non chiamiamola sentenza. Non chiamiamolo processo. Soprattutto, non chiamiamola giustizia». Comincia così, con queste amarissime parole, la nota di Marina Berlusconi in difesa di suo padre. «Quello cui abbiamo dovuto assistere è uno spettacolo assurdo che con la giustizia nulla ha a che vedere, uno spettacolo che la giustizia non si merita. La condanna - scrive Marina - era scritta fin dall'inizio, nel copione messo in scena dalla Procura di Milano. Mio padre non poteva non essere condannato. Ma se possibile il Tribunale è andato ancora più in là, superando le richieste dell'accusa e additando come spergiuri tutti i testi in contrasto con il suo teorema». Nonostante la "paccata" di testimoni portati in tribunale dalla difesa di Silvio Berlusconi, il presidente della Corte Giulia Turri e i giudici Orsolina De Cristofano e Carmen D'Elia hanno preferito inseguire il teorema costruito ad arte dal pm Ilda Boccassini e tacciare di falsa testimonianza tutte le persone che, con le proprie parole, hanno scagionato il Cavaliere. Insomma, se la "verità" non coincide con quella professata dalla magistratura milanese, allora diventa automaticamente bugia. Non importa che non ci sia alcuna prova a dimostrarlo.

L'accusa dei giudici milanesi è sin troppo chiara, spiega Andrea Indini su "Il Giornale": le trentadue persone che si sono alternate sul banco dei testimoni per rendere dichiarazioni favorevoli a Berlusconi hanno detto il falso. Solo le motivazioni, previste tra novanta giorni, potranno chiarire le ragioni per cui il collegio abbia deciso di trasmettere alla procura i verbali di testimoni che vanno dall’amico storico dell’ex premier Mariano Apicella all’ex massaggiatore del Milan Giorgio Puricelli, dall’europarlamentare Licia Ronzulli alla deputata Maria Rosaria Rossi. Da questo invio di atti potrebbe nascere, a breve, un maxi procedimento per falsa testimonianza. A finir nei guai per essersi opposta al teorema della Boccassini c'è anche il commissario Giorgia Iafrate che era in servizio in Questura la notte del rilascio di Ruby. La funzionaria aveva, infatti, assicurato di aver agito "nell’ambito dei miei poteri di pubblico ufficiale". "Di fronte alla scelta se lasciare la ragazza in Questura in condizioni non sicure o affidarla ad un consigliere regionale - aveva spiegato - ho ritenuto di seguire quest’ultima possibilità". Proprio la Boccassini, però, nella requisitoria aveva definito "avvilenti le dichiarazioni della Iafrate che afferma che il pm minorile Fiorillo le aveva dato il suo consenso". Alla procura finiscono poi i verbali di una ventina di ragazze. Si va da Barbara Faggioli a Ioana Visan, da Lisa Barizonte alle gemelle De Vivo, fino a Roberta Bonasia. Davanti ai giudici avevano descritto le serate di Arcore come "cene eleganti", con qualche travestimento sexy al massimo, e avevano sostenuto che Ruby si era presentata come una 24enne. "I giudici hanno dato per scontato che siamo sul libro paga di Berlusconi - ha tuonato Giovanna Rigato, ex del Grande Fratello - io tra l’altro al residence non ho mai abitato, sono una che ha sempre lavorato, l’ho detto in mille modi che in quelle serata ad Arcore non ho mai visto nulla di scabroso ma tanto...". Anche Marysthelle Polanco è scioccata dalla sentenza: "Non mi hanno creduto, non ci hanno creduto, io ho detto la verità e se mi chiamano di nuovo ripeterò quello che ho sempre raccontato". Sebbene si siano lasciate scivolare addosso insulti ben più pesanti, le ragazze che hanno partecipato alle feste di Arcore non sono disposte ad accettare l’idea di passare per false e bugiarde. Da Puricelli a Rossella, fino al pianista Mariani e ad Apicella, è stato tratteggiato in Aula un quadro di feste fatto di chiacchiere, balli e nessun toccamento.

Nel tritacarne giudiziario finisce anche la Ronzulli, "rea" di aver fornito una versione diversa da quella resa da Ambra e Chiara nel processo "gemello" e di aver negato di aver visto una simulazione di sesso orale con l’ormai famosa statuetta di Priapo. Stesso destino anche per l’ex consigliere per le relazioni internazionali Valentino Valentini che aveva svelato di esser stato lui a far contattare la Questura di Milano per "capire cosa stesse accadendo". Ed era stato sempre lui a parlare di una conversazione tra Berlusconi e l'ex raìs Hosni Mubarak sulla parentela con Ruby. Anche il viceministro Bruno Archi, all’epoca diplomatico, ai giudici aveva descritto quel pranzo istituzionale nel quale si sarebbe parlato di Karima. E ancora: sono stati trasmessi ai pm anche i verbali di Giuseppe Estorelli, il capo scorta di Berlusconi, e del cameriere di Arcore Lorenzo Brunamonti, "reo" di aver regalato al Cavaliere, di ritorno da un viaggio, la statuetta di Priapo. Tutti bugiardi, tutti nella tritarcarne del tribunale milanese. La loro colpa? Aver detto la verità. Una verità che non piace ai giudici che volevano far fuori a tutti i costi Berlusconi.

C'era un solo modo per condannare Silvio Berlusconi nel processo cosiddetto Ruby, spiega Alessandro Sallusti su "Il Giornale": fare valere il teorema della Boccassini senza tenere conto delle risultanze processuali, in pratica cancellare le decine e decine di testimonianze che hanno affermato, in due anni di udienze, una verità assolutamente incompatibile con le accuse. E cioè che nelle notti di Arcore non ci furono né vittime né carnefici, così come in Questura non ci furono concussi. Questo trucco era l'unica possibilità e questo è accaduto. Trenta testimoni e protagonisti della vicenda, tra i quali rispettabili parlamentari, dirigenti di questura e amici di famiglia sono stati incolpati in sentenza, cosa senza precedenti, di falsa testimonianza e dovranno risponderne in nuovi processi. Spazzate via in questo modo le prove non solo a difesa di Berlusconi ma soprattutto contrarie al teorema Boccassini, ecco spianata la strada alla condanna esemplare per il capo: sette anni più l'interdizione perpetua dai pubblici uffici, esattamente la stessa pronunciata nella scena finale del film Il Caimano di Nanni Moretti, in cui si immagina l'uscita di scena di Berlusconi. Tra questa giustizia e la finzione non c'è confine. Siamo oltre l'accanimento, la sentenza è macelleria giudiziaria, sia per il metodo sia per l'entità. Ricorda molto, ma davvero molto, quelle che i tribunali stalinisti e nazisti usavano per fare fuori gli oppositori: i testimoni che osavano alzare un dito in difesa del disgraziato imputato di turno venivano spazzati via come vermi, bollati come complici e mentitori, andavano puniti e rieducati. Come osi, traditore - sostenevano i giudici gerarchi - mettere in dubbio la parola dello Stato padrone? Occhio, che in galera sbatto pure te. Così, dopo Berlusconi, tocca ai berlusconiani passare sotto il giogo di questi pazzi scatenati travestiti da giudici. I quali vogliono che tutti pieghino la testa di fronte alla loro arroganza e impunità. In trenta andranno a processo per aver testimoniato la verità, raccontato ciò che hanno visto e sentito. Addio Stato di diritto, addio a una nobile tradizione giuridica, la nostra, in base alla quale il giudizio della corte si formava esclusivamente sulle verità processuali, che se acquisite sotto giuramento e salvo prova contraria erano considerate sacre.

Omicidi, tentati omicidi, sequestro di persona, occultamenti di cadavere. Per la giustizia italiana questi reati non sono poi così diversi da quello di concussione, scrive Nadia Francalacci su "Panorama". La condanna inflitta a Silvio Berlusconi a 7 anni di carcere, uno in più rispetto alla pena chiesta dai pubblici ministeri, e interdizione perpetua dai pubblici uffici per i reati di prostituzione minorile e concussione, non differisce che di poche settimane da quella inflitta a Michele Misseri il contadino di Avetrana che ha occultato il cadavere della nipotina Sara Scazzi in un pozzo delle campagne pugliesi. Non solo. La condanna all’ex premier è addirittura ancor più pesante rispetto a quella inflitta a due studenti di Giurisprudenza, Scattone e Ferraro, che “ quasi per gioco” hanno mirato alla testa di una studentessa, Marta Russo, uccidendola nel cortile interno della facoltà. Quasi per gioco. Così in pochi istanti hanno ucciso, tolto la vita, ad una ragazza che aveva tanti sogni da realizzare. Marta Russo così come Sara Scazzi oppure un Gabriele Sandri, il tifoso laziale ucciso nell’area di servizio dopo dei tafferugli con i tifosi juventini. Il poliziotto che ha premuto il grilletto colpendolo alla nuca, è stato condannato a 9 anni e 4 mesi. A soli 28 mesi in più di carcere rispetto a Silvio Berlusconi.

Analizzando casi noti e quelli meno conosciuti dall’opinione pubblica, non è possibile non notare una “sproporzione” di condanna tra il caso Ruby e una vicenda quale il caso Scazzi o Russo. Ecco alcuni dei casi e delle sentenze di condanna.

Caso Sandri: 9 anni e 4 mesi. Per la Cassazione è omicidio volontario. Per l'agente della Polstrada Luigi Spaccarotella, la sentenza è diventata definitiva con la pronuncia della Cassazione. La condanna è  di nove anni e quattro mesi di reclusione per  aver ucciso il tifoso della Lazio Gabriele Sandri dopo un tafferuglio con tifosi juventini nell'area di servizio aretina di Badia al Pino sulla A1. Sandri era sulla Renault che doveva portarlo a Milano, la mattina dell'11 novembre 2007, per vedere Inter-Lazio insieme ad altri quattro amici.  Spaccarotella  era stato condannato in primo grado a sei anni di reclusione per omicidio colposo, determinato da colpa cosciente. In secondo grado i fatti erano stati qualificati come omicidio volontario per dolo eventuale e la pena era stata elevata a nove anni e quattro mesi di reclusione.

Caso Scazzi: per Michele Misseri, 8 anni. Ergastolo per Sabrina. Ergastolo per sua madre Cosima Serrano. Otto anni per Michele Misseri, che ora rischia anche un procedimento per autocalunnia. Questo è il verdetto di primo grado sulla tragedia di Avetrana. il contadino  è accusato di soppressione di cadavere insieme al fratello e al nipote.

Caso Marta Russo. L’omicidio quasi per gioco di Marta Russo è stato punito con la condanna di Giovanni Scattone e Salvatore Ferraro, rispettivamente puniti con 5 anni e quattro mesi il primo e 4 anni e due mesi il secondo; Marta Russo, 22 anni, studentessa di giurisprudenza all'Università La Sapienza di Roma, fu uccisa all'interno della Città universitaria il 9 maggio 1997, da un colpo di pistola alla testa.

Caso Jucker. Ruggero Jucker, reo di aver assassinato la propria fidanzata sotto l’effetto di stupefacenti, è stato condannato, con un patteggiamento in appello a 16 anni di reclusione salvo poi essere stato liberato dopo 10 anni.

Casi minori e meno conosciuti dall’opinione pubblica.

Bari. 8 anni di carcere ad un politico che uccise un rapinatore. 5 giugno 2013. La Corte d’appello di Bari, ha chiesto la condanna a otto anni di reclusione per Enrico Balducci, l’ex consigliere regionale pugliese, gestore del distributore di carburante di Palo del Colle,  accusato di omicidio volontario e lesioni personali, per aver ucciso il 23enne Giacomo Buonamico e ferito il 25enne Donato Cassano durante un tentativo di rapina subito il 5 giugno 2010. In primo grado, Balducci era stato condannato con rito abbreviato alla pena di 10 anni di reclusione. Dinanzi ai giudici della Corte d’Assise d’Appello di Bari l’accusa ha chiesto una riduzione di pena ritenendo sussistente l’attenuante della provocazione, così come era stato chiesto anche dal pm in primo grado ma non era stato riconosciuto dal gup. Chiesta una condanna a quattro anni di reclusione per Cassano (condannato in primo grado a 5 anni) per i reati di rapina e tentativo di rapina. Prima di recarsi in moto al distributore di carburante gestito da Balducci, infatti, i due avrebbero compiuto un’altra rapina al vicino supermercato. Balducci, questa la ricostruzione dell’accusa, vedendosi minacciato, non sarebbe riuscito a controllare la sua ira, e consapevole di poter uccidere, avrebbe fatto fuoco ferendo Cassano e uccidendo Buonamico.

Sequestro Spinelli (ragioniere di Berlusconi): 8 anni e 8 mesi di carcere al capobanda Leone. Condannati anche i tre complici albanesi. Ma le pene  sono state dimezzate rispetto alle richieste dell'accusa. Il pm Paolo Storari ha chiesto la condanna a 16 anni di carcere per Francesco Leone, ritenuto il capo banda, e pene tra gli 8 e i 10 anni per gli altri tre imputati. I quattro furono arrestati nel novembre dell'anno scorso assieme ad altri due italiani, Pier Luigi Tranquilli e Alessandro Maier, per i quali invece è stata chiesta l'archiviazione. Il gup di Milano Chiara Valori ha condannato con il rito abbreviato a 8 anni e 8 mesi Francesco Leone, riqualificando il reato in sequestro semplice. Sono arrivate due condanne a 4 anni e 8 mesi, e una a 6 anni e 8 mesi, per gli altri tre imputati. La vicenda è quella del sequestro lampo di Giuseppe Spinelli e della moglie.

Pesaro. Picchiò e gettò la ex dal cavalcavia: condannato a 10 anni di carcere. Il 22 giugno scorso, Saimo Luchetti è stato condannato ieri a 10 anni di reclusione per sequestro di persona, stalking, violenza privata e tentato omicidio. Dovrà versare anche una provvisionale immediata di 60mila euro per la ragazza, 40mila per la madre e 15 per la sorella. Luchetti, 23 anni, calciatore dilettante, la notte del 18 marzo 2012 aveva malmenato e rapito sotto casa l’ex fidanzata Andrea Toccaceli di 18 anni, gettandola poi da un viadotto di Fossombrone alto 15 metri. Lui si gettò giù subito dopo. Sono sopravvissuti entrambi, ristabilendosi completamente. Luchetti è in carcere ad Ancona e dove dovrà rimanerci altri nove anni.

Caso Mancuso: condannato per tentato omicidio a 5 anni di carcere. Il diciannovenne Luigi Mancuso è stato condannato a 5 anni di reclusione per il tentato omicidio di Ion Sorin Sheau, un cittadino romeno aggredito e abbandonato in strada a San Gregorio d'Ippona. Assieme a Mancuso, figlio di Giuseppe Manuso, boss della 'ndrangheta, è stato condannato anche Danilo Pannace, 18 anni, che dovrà scontare la pena di 4 anni e 8 mesi sempre per tentato omicidio. I due imputati, giudicati col rito abbreviato, sono stati ritenuti responsabili del tentato omicidio del romeno Ion Sorin Sheau, aggredito e lasciato in strada con il cranio sfondato ed in un lago di sangue il 10 agosto del 2011 a San Gregorio d’Ippona, in provincia di Vibo. Mancuso è stato ritenuto responsabile anche del reato di atti persecutori  nei confronti della comunità romena di San Gregorio.

All’estero. In Argentina l’ex-presidente Carlos Menem è stato condannato a 8 anni di carcere per traffico d'armi internazionale. Sono otto gli anni di carcere che l’ex presidente, ora senatore al parlamento di Buenos Aires, dovrà scontare insieme a Óscar Camilión, ministro della difesa durante il suo governo, con l’accusa di contrabbando aggravato d’armi a Croazia ed Ecuador. Tra il 1991 e il 1995, l’Argentina esportò 6.500 tonnellate di armamenti destinati ufficialmente a Panama e Venezuela. Questi raggiunsero però la Croazia nel pieno del conflitto jugoslavo, e l’Ecuador che nel ‘95, combatteva con il Perú.

Parlare, però, di Berlusconi è come sminuire il problema. I Pasdaran della forca a buon mercato storcerebbero il naso: Bene, parliamo d’altro.

«In questo processo chiunque ha detto cose in contrasto con la tesi accusatoria è stato tacciato di falso, mentre ben altri testi non hanno detto la verità e sono passati per super testimoni» ha detto Franco De Jaco difensore di Cosima Serrano. E’ così è stato, perché sotto processo non c’è solo Sabrina Misseri, Michele Misseri, Cosima Serrano Misseri, Carmine Misseri, Cosimo Cosma, Giuseppe Nigro, Cosima Prudenzano Antonio Colazzo, Vito Junior Russo, ma c’è tutta Avetrana e tutti coloro che non si conformano alla verità mediatica-giudiziaria. Ed ancora Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono anche loro condannate per falsa testimonianza. Così funziona a Taranto. Vai contro la tesi accusatoria; tutti condannati per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’Assise d’Appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Taranto, Milano, l’Italia.

“Egregi signori, forse qualcuno di voi, componente delle più disparate commissioni di esame di avvocato di tutta Italia, da Lecce a Bari, da Venezia a Torino, da Palermo a Messina o Catania, pensa di intimorirmi con la forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri. Sicuramente il più influente tra di voi, bocciandomi o (per costrizione e non per induzione) facendomi bocciare annualmente senza scrupoli all’esame di avvocato dal lontano 1998, (da quando ho promosso interrogazioni parlamentari e inoltrato denunce penali, che hanno ottenuto dei risultati eclatanti, come l’esclusione dei consiglieri dell’ordine degli avvocati dalle commissioni d’esame e ciononostante uno di loro è diventato presidente nazionale), pensa che possa rompermi le reni ed impedirmi di proseguire la mia lotta contro questo concorso forense e tutti i concorsi pubblici che provo nei miei libri essere truccati. E sempre su quei libri provo il vostro sistema giudiziario essere, per gli effetti, fondato sull’ingiustizia. Mi conoscete tutti bene da vent’anni, come mi conoscono bene, prima di giudicarmi, i magistrati che critico. Per chi non fa parte del sistema e non MI conosce e non VI conosce bene, al di là dell’immagine patinata che vi rendono i media genuflessi, pensa che in Italia vige la meritocrazia e quindi chi esamina e giudica e chi supera gli esami, vale. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. Avete la forza del potere, non la ragione della legge. Forse qualcuno di voi, sicuramente il più influente, perseguendomi artatamente anche per diffamazione a mezzo stampa, senza mai riuscire a condannarmi, pur con le sentenze già scritte prima del dibattimento, pensa di tagliarmi la lingua affinchè non possa denunciare le vostre malefatte. Non è così e non mi impedirete mai di gridarlo al mondo. E non per me, ma per tutti coloro che, codardi, non hanno il coraggio di ribellarsi. Anche perché se lo fate a me, lo fate anche agli altri. Fino a che ci saranno centinaia di migliaia di giovani vittime che mi daranno ragione, voi sarete sempre dalla parte del torto. Avete un potere immeritato, non la ragione. Un ordine che dileggia il Potere del popolo sovrano. In Italia succede anche questo. Potete farmi passare per mitomane o pazzo. E’ nell’ordine delle cose: potrebbe andarmi peggio, come marcire in galera o peggio ancora. Potete, finché morte non ci separi, impedirmi di diventare avvocato. Farò vita eremitica e grama. Comunque, cari miei, vi piaccia o no, di magistrati ce ne sono più di dieci mila, criticati e non sono certo apprezzati; di avvocati più di 250 mila e questi, sì, disprezzati. Alla fine per tutti voi arriva comunque la Livella e l’oblio. Di Antonio Giangrande c’è uno solo. Si ama o si odia, ma fatevene un ragione: sarò per sempre una spina nel vostro fianco e sopravviverò a voi. Più mi colpite, più mi rendete altrettanto forte. Eliminarmi ora? E’ troppo tardi. Il virus della verità si diffonde. E ringraziate Dio che non ci sia io tra quei 945 parlamentari che vi vogliono molto, ma molto bene, che a parlar di voi si cagano addosso. Solo in Italia chi subisce un’ingiustizia non ha nessuno a cui rivolgersi, siano essi validi bocciati ai concorsi pubblici o innocenti in galera, che si chiamino Berlusconi o Sallusti o Mulè o Riva (e tutti questi li chiamano “persone influenti e potenti”). I nostri parlamentari non sanno nemmeno di cosa tu stia parlando, quando ti prestano attenzione. Ed è raro che ciò succeda. In fede Antonio Giangrande”.

Una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e diffamazione contro la Commissione d’esame di avvocato di Catania per tutelare l’immagine dei professionisti e di tutti i cittadini leccesi, tarantini e brindisini è quanto propone il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” (www.controtuttelemafie.it) e profondo conoscitore del fenomeno degli esami e dei concorsi pubblici truccati. Proposta presentata a tutti coloro che sono stati esclusi ed a tutti gli altri, anche non candidati all’esame di avvocato, che si sentono vittime di questo fenomeno di caccia alle streghe o che si sentano diffamati come rappresentanti e come cittadini del territorio, ormai sputtanato in tutta Italia. E proposta di presentazione del ricorso al Tar che sarebbe probabilmente accolto, tenuto conto dei precedenti al Consiglio di Stato.

«A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65%  a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Da 20 anni denuncio che in Italia agli esami tutti si copia ed adesso scoprono l’acqua calda. E copiano tutti. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010 o di magistrato nel 1992.

Le mie denunce sono state sempre archiviate ed io fatto passare per pazzo o mitomane.

Quindi chi si è abilitato barando, ha scoperto l’acqua calda. Questa caccia alle streghe, perché? Vagito di legalità? Manco per idea. In tempo di magra per i professionisti sul mercato, si fa passare per plagio, non solo la dettatura uniforme dell’intero elaborato (ripeto, che c’è sempre stata), ma anche l’indicazione della massima giurisprudenziale senza virgolette. Ergo: dov’è il dolo? Per chi opera in ambito giuridico le massime della Cassazione sono l’appiglio per tutte le tesi difensive di parte o accusatorie. Senza di queste sarebbero solo opinioni personali senza valore. Altra cosa è riportare pari pari, più che le massime, le motivazioni delle sentenze.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Ed allora i candidati esclusi alla prova scritta dell’esame di avvocato tenuta presso la Corte d’Appello di Lecce si rivolgano a noi per coordinare tutte le azioni di tutela:  una denuncia per calunnia, abuso d’ufficio e per diffamazione contro tutti coloro che si son resi responsabili di una campagna diffamatoria ed un accanimento senza precedenti. Premo ricordare che l’esame è truccato insitamente e non bisogna scaricare sulla dignità e l’onore dei candidati gli interessi di una categoria corporativistica. Nessuno li difende i ragazzi, esclusi e denunciati (cornuti e mazziati) ma, dato che io c’ero e ci sono dal 1998, posso testimoniare che se plagio vi è stato, vi è sempre stato, e qualcuno ha omesso il suo intervento facendola diventare una consuetudine e quindi una norma da rispettare, e sono concorsi nel reato anche la commissione di Lecce ed il Presidente della Corte d’Appello, Mario Buffa, in quanto hanno agevolato le copiature. L’esame di avvocato in tutta Italia si apre alle 9 con la lettura delle tracce, che così finiscono in rete sul web. A Lecce l’esame non inizia mai prima delle undici. I ragazzi più furbi hanno tutto il tempo di copiare legalmente, in quanto l’esame non è ancora iniziato e quindi, se hanno copiato, non lo hanno fatto in quel frangente, perché non ci si può spostare dal banco. Anche se, devo dire, si è sempre permessa la migrazione per occupare posti non propri. 

Su questi punti chiamerei a testimoniare, a rischio di spergiuro, tutti gli avvocati d’Italia.

Ai malfidati, poi, spiegherei per filo e per segno come si trucca l’esame, verbalmente, in testi ed in video.

Mi chiedo, altresì, perché tanto accanimento su Lecce se sempre si è copiato ed in tutta Italia? E perché non ci si impegna ha perseguire le commissioni che i compiti non li correggono e li dichiarano tali?

Ma la correzione era mirata al dare retti giudizi o si sono solo impegnati a fare opera inquisitoria e persecutoria?

Inoltre ci sono buone possibilità che il ricorso al Tar avverso all’esclusione possa essere accolto in base ai precedenti del Consiglio di Stato».

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

I commissari dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza.

Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo).

Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso.

Sarebbe il colmo dei paradossi se tra quei 100 ci fosse il mio nome.

Io che ho denunciato e dimostrato che gli esami ed i concorsi pubblici sono truccati. Forse per questo per le mie denunce sono stato fatto passare per mitomane o pazzo ed ora anche per falsario.

Denigrare la credibilità delle vittime e farle passare per carnefici. Vergogna, gentaglia.

INDIZIONE DEL CONCORSO: spesso si indice un concorso quando i tempi sono maturi per soddisfare da parte dei prescelti i requisiti stabiliti (acquisizione di anzianità, titoli di studio, ecc.). A volte chi indice il concorso lo fa a sua immagine e somiglianza (perché vi partecipa personalmente come candidato). Spesso si indice il concorso quando non vi sono candidati (per volontà o per induzione), salvo il prescelto. Queste anomalie sono state riscontrate nei concorsi pubblici tenuti presso le Università e gli enti pubblici locali. Spesso, come è successo per la polizia ed i carabinieri, i vincitori rimangono casa.

COMMISSIONE D’ESAME: spesso a presiedere la commissione d’esame di avvocato sono personalità che hanno una palese incompatibilità. Per esempio nella Commissione d’esame centrale presso il Ministero della Giustizia del concorso di avvocato 2010 è stato nominato presidente colui il quale non poteva, addirittura, presiedere la commissione locale di Corte d’Appello di Lecce. Cacciato in virtù della riforma (decreto-legge 21 maggio 2003, n. 112, coordinato con la legge di conversione 18 luglio 2003, n. 180). La legge prevede che i Consiglieri dell’Ordine degli Avvocati non possono essere Commissari d’esame (e per conseguenza i nominati dal Consiglio locale per il Consiglio Nazionale Forense, che tra i suoi membri nomina il presidente di Commissione centrale). La riforma ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame di avvocato sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Essenziale nelle commissioni a cinque è la figura del magistrato, dell’avvocato, del professore universitario: se una manca, la commissione è nulla. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari.

I CONCORSI FARSA: spesso i concorsi vengono indetti per sanare delle mansioni già in essere, come il concorso truffa a 1.940 posti presso l’INPS, bandito per sistemare i lavoratori socialmente utili già operanti presso l’Ente.

LE TRACCE: le tracce sono composte da personalità ministeriali scollegate alla realtà dei fatti. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Altre volte si son riportate tracce con massime vecchissime e non corrispondenti con le riforme legislative successive. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.

LE PROVE D’ESAME: spesso sono conosciute in anticipo. A volte sono pubblicate su internet giorni prima, come è successo per il concorso degli avvocati (con denuncia del sottosegretario Alfredo Mantovano di Lecce), dei dirigenti scolastici, o per l’accesso alle Università a numero chiuso (medicina), ovvero, come succede all’esame con più sedi (per esempio all’esame forense o per l’Agenzia delle Entrate, le tracce sono conosciute tramite cellulari o palmari in virtù del tardivo inizio delle prove in una sede rispetto ad altre. Si parla di ore di ritardo tra una sede ed un’altra). A volte le tracce sono già state elaborate in precedenza in appositi corsi, così come è successo all’esame di notaio. A volte le prove sono impossibili, come è successo al concorsone pubblico per insegnanti all’estero: 40 quesiti a risposta multipla dopo averli cercati, uno ad uno, in un volume di oltre 4mila che i partecipanti alla selezione hanno visto per la prima volta, leggere quattro testi in lingua straniera e rispondere alle relative domande. Il tutto nel tempo record di 45 minuti, comprese parti di testo da tradurre. Quasi 1 minuto a quesito.

MATERIALE CONSULTABILE: c’è da dire che intorno al materiale d’esame c’è grande speculazione e un grande salasso per le famiglie dei candidati, che sono rinnovati anno per anno in caso di reiterazione dell’esame a causa di bocciatura. Centinaia di euro per codici e materiale vario. Spesso, come al concorso di magistrato o di avvocato dello Stato ed in tutti gli altri concorsi, ad alcuni è permessa la consultazione di materiale vietato (codici commentati, fogliettini, fin anche compiti elaborati dagli stessi commissari) fino a che non scoppia la bagarre. Si ricordi il “Vergogna, Vergogna” all’esame per magistrato o il “Buffoni, Buffoni” all’esame di notaio, o le intemperanze agli esami per l’avvocatura di Stato o la prova annullata per l’esame di notaio nel 2010. Al concorso di avvocato, invece, è permesso consultare codici commentati con la giurisprudenza. Spesso, come succede al concorso di avvocato, sono proprio i commissari a dettare il parere da scrivere sull’elaborato, tale da rendere le prove dei candidati uniformi e nonostante ciò discriminati in sede di correzione. Il caso esemplare è lo scandalo di Catanzaro: oltre duemila compiti-fotocopia. Su 2301 prove scritte per l’accesso all’albo degli avvocati consegnate a metà dicembre del 1997 alla commissione d’esame di Catanzaro, ben 2295 risultano identiche. Soltanto sei elaborati, cioè lo 0,13 per cento del totale, appare non copiato. Compiti identici, riga per riga, parola per parola. Le tre prove di diritto civile, diritto penale e atti giudiziari non mettono in risalto differenze. Sono uguali anche negli errori: tutti correggono l’avverbio «recisamente» in «precisamente». Una concorrente rivela che un commissario avrebbe letteralmente dettato lo svolgimento dei temi ai candidati. Racconta: «Entra un commissario e fa: “scrivete”. E comincia a dettare il tema, piano piano, per dar modo a tutti di non perdere il filo».  «Che imbecilli quelli che hanno parlato, sono stati loro a incasinare tutto. Se non avessero piantato un casino sarebbe andato tutto liscio», dice una candidata, che poi diventerà avvocato e probabilmente commissario d’esame, che rinnegherà il suo passato e che accuserà di plagio i nuovi candidati. L’indagine è affidata ai pm Luigi de Magistris e Federica Baccaglini, che ipotizzano il reato di falso specifico e inviano ben 2295 avvisi di garanzia. Catanzaro non è l’unica mecca delle toghe: le fa concorrenza anche Reggio Calabria che, tra l’altro, nel 2001 promuove il futuro ministro dell’Istruzione per il Pdl Mariastella Gelmini in trasferta da Brescia. Ma Catanzaro è da Guinness dei primati. I candidati arrivano da tutta Italia, e i veri intoccabili soprattutto dalle sedi del Nord dove gli esami sono molto selettivi per impedire l’accesso di nuovi avvocati nel mercato saturo. Gli aspiranti avvocati milanesi o torinesi risultano residenti a Catanzaro per i sei mesi necessari per il tirocinio, svolto in studi legali del luogo, i quali certificano il praticantato dei futuri colleghi. Frotte di giovani si fanno consigliare dove e come chiedere ospitalità. In città esistono numerose pensioni e alloggi, oltre a cinque alberghi, che periodicamente accolgono con pacchetti scontati i pellegrini forensi. Tutti sanno come funziona e nessuno se ne lamenta. L’omertà è totale. I magistrati interrogano gruppi di candidati dell’esame del dicembre 1997, che rispondono all’unisono: «Mi portai sovente in bagno per bisogni fisiologici […]. Non so spiegare la coincidenza tra gli elaborati da me compilati e quelli esibiti. Mi preme tuttavia evidenziare che qualcuno potrebbe avermi copiato durante la mia assenza». Mentre il procedimento giudiziario avanza a fatica per la difficoltà di gestire un numero così grande di indagati, tutti gli aspiranti avvocati dell’esame del 1997 rifanno le prove nel 1998 nel medesimo posto e sono promossi. Dopo otto anni di indagini e rinvii, nell’estate 2005 il pm Federico Sergi, nuovo titolare dell’indagine, chiede e ottiene per ciascuno il «non luogo a procedere per avvenuta prescrizione». Tutto finito. Ultimamente le tracce si riferiscono a massime giurisprudenziali espresse nell’imminenza della stilazione della traccia, quindi, in prossimità dell’esame. Quasi nessun testo recente, portato legalmente dai candidati, è talmente aggiornato da riportare quella massima. Ecco perché i commissari d’esame, con coscienza e magnanimità, aiutano i candidati. Altrimenti nessuno passerebbe l’esame. I commissari dovrebbero sapere quali sono le fonti di consultazioni permesse e quali no. Per esempio all’esame di avvocato può capitare che il magistrato commissario d’esame, avendo fatto il suo esame senza codici commentati, non sappia che per gli avvocati ciò è permesso. I commissari d’esame dovrebbero dimostrare che, in quei pochi minuti, la loro attenzione era rivolta, non a correggere ed a valutare i compiti, ma esclusivamente a cercare l’opera primaria, fonte del plagio,  presentata come propria dal candidato, per verificarne l’esatta ed integrale corrispondenza. Essi, al di là della foga persecutoria, dovrebbero dimostrare che la Premessa, la Tesi e l’Antitesi, le Conclusioni sono frutto di imitazione totale dell’altrui pensiero. Dovrebbero, altresì, dimostrare che il richiamo essenziale alle massime giurisprudenziali (spesso contrastanti tra loro) per suffragare la propria tesi e renderla convincente, siano anch’esse plagio, pur essendo ammessi i codici commentati dalla giurisprudenza, così come non lo sono per i magistrati e per i prossimi esami di avvocato (tempi di applicazione della riforma permettendo). Dovrebbero, i commissari, dimostrare che quei pochi minuti sono bastati a loro per correggere, accusare e giudicare, rischiando si dichiarare il falso. Impuniti, invece sono coloro che veramente copiano integralmente i compiti. In principio era la vecchia “cartucciera” la fascia di stoffa da stringere in vita con gli involtini. Poi il vocabolario farcito d'ogni foglio e foglietto, giubbotti imbottiti di cultura bignami e addirittura scarpe con suola manoscritta. Oggi i metodi per “aiutarsi” durante gli esami sono più tecnologici: il telefonino, si sa, non si può portare, ma lo si porta lo stesso. Al massimo, se c’è la verifica, lo metti sul tavolo della commissione. Quindi non è  malsana l'idea dell'iPhone sul banco, collegato a Wikipedia e pronto a rispondere ad ogni quesito nozionistico. Comunque bisogna attrezzarsi, in maniera assolutamente diversa. La rete e i negozi di cartolibreria vendono qualsiasi accrocchio garantendo si tratti della migliore soluzione possibile per copiare durante le prove scritte. C'è ad esempio la  penna UV cioè a raggi ultravioletti scrive con inchiostro bianco e si legge passandoci sopra un led viola incluso nel corpo della penna. Inconveniente: difficile non far notare in classe una luce da discoteca. Poi c'è la cosiddetta penna-foglietto: nel corpo della stilo c'è un foglietto avvolto sul quale si è scritto precedentemente formule, appunti eccetera. Foglietto che in men che non si dica si srotola e arrotola. E infine, c'è l'ormai celebre orologio-biglietto col display elettronico  e una porta Usb sulla quale caricare testi d'ogni tipo.

IL MATERIALE CONSEGNATO: il compito dovrebbe essere inserito in una busta da sigillare contenente un’altra busta chiusa con inserito il nome del candidato. Non ci dovrebbero essere segni di riconoscimento. Non è così come insegna il concorso di notaio. Oltre ai segni di riconoscimento posti all’interno (nastri), i commissari firmano in modo diverso i lembi di chiusura della busta grande consegnata.

LA CORREZIONE DEGLI ELABORATI. Quanto già indicato sono i trucchi che i candidati possono vedere ed eventualmente denunciare. Quanto avviene in sede di correzione è lì la madre di tutte le manomissioni. Proprio perchè nessuno vede. La norma prevede che la commissione d’esame (tutti i componenti) partecipi alle fasi di:

• apertura della busta grande contenente gli elaborati;

• lettura del tema da parte del relatore ed audizione degli altri membri;

• correzione degli errori di ortografia, sintassi e grammatica;

• richiesta di chiarimenti, valutazione dell’elaborato affinchè le prove d’esame del ricorrente evidenzino un contesto caratterizzato dalla correttezza formale della forma espressiva e dalla sicura padronanza del lessico giuridico, anche sotto il profilo più strettamente tecnico-giuridico, e che anche la soluzione delle problematiche giuridiche poste a base delle prove d’esame evidenzino un corretto approccio a problematiche complesse;

• consultazione collettiva, interpello e giudizio dei singoli commissari, giudizio numerico complessivo, motivazione, sottoscrizione;

• apertura della busta piccola contenete il nome del candidato da abbinare agli elaborati corretti;

• redazione del verbale.

Queste sono solo fandonie normative. Di fatto si apre prima la busta piccola, si legge il nome, se è un prescelto si dà agli elaborati un giudizio positivo, senza nemmeno leggerli. Quando i prescelti sono pochi rispetto al numero limite di idonei stabilito illegalmente, nonostante il numero aperto, si aggiungono altri idonei diventati tali “a fortuna”.

La riforma del 2003 ha cacciato gli avvocati e sbugiardato i magistrati e professori universitari (in qualità anch’essi di commissari d’esame) perché i compiti vengono letti presso altre sedi: tutto questo perché prima tutti hanno raccomandato a iosa ed abusato del proprio potere dichiarando altresì il falso nei loro giudizi abilitativi od osteggiativi. Spesso le commissioni d’esame sono mancanti delle componenti necessarie per la valutazione tecnica della materia d’esame. Le Commissioni d’esame hanno sempre e comunque interessi amicali, familistiche e clientelari. Seguendo una crescente letteratura negli ultimi anni abbiamo messo in relazione l’età di iscrizione all’albo degli avvocati con un indice di frequenza del cognome nello stesso albo. In particolare, per ogni avvocato abbiamo calcolato la frequenza del cognome nell’albo, ovvero il rapporto tra quante volte quel cognome vi appare sul totale degli iscritti, in relazione alla frequenza dello stesso cognome nella popolazione. In media, il cognome di un avvocato appare nell’albo 50 volte di più che nella popolazione. Chi ha un cognome sovra-rappresentato nell’albo della sua provincia diventa avvocato prima. Infine vi sono commissioni che, quando il concorso è a numero aperto, hanno tutto l’interesse a limitare il numero di idonei per limitare la concorrenza: a detta dell’economista Tito Boeri: «Nelle commissioni ci sono persone che hanno tutto da perderci dall’entrata di professionisti più bravi e più competenti».

Paola Severino incoraggia gli studenti e racconta: “Anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato”. Raccontare una propria disavventura per infondere coraggio alle nuove generazioni. Questa è la tecnica adottata dal Ministro della Giustizia Paola Severino con i ragazzi della «Summer School» promossa dalla Fondazione Magna Charta di Gaetano Quagliariello e Maurizio Gasparri. “Cari ragazzi, non dovete scoraggiarvi perché anch’io la prima volta fui bocciata all’esame per diventare avvocato… Quella volta ero con il mio futuro marito: lui fu promosso e io non ce la feci… Ma eccoci ancora qua. Siamo sposati da tanti anni” ha raccontato di fronte ai futuri avvocati puntando tutto sulla love story e omettendo che, nonostante quella bocciatura, sarà titolare fino a novembre di uno degli studi legali più importanti d’Italia (con cifre che si aggirano intorno ai 7 milioni di euro). Una piccola consolazione non solo per i laureati in legge, ma anche per tutte le future matricole che sosterranno i test di ammissione. In fondo anche Albert Einstein venne bocciato. E a quanto pare anche la Severino. Bisognerebbe, però, chiedere al ministro: gli amorosi l’aiuto se lo son dato vicendevolmente ed i compiti sicuramente erano simili, quindi perché un diverso giudizio?

In quei mesi di tormenti a cavallo tra il 2000 e il 2001 la Mariastella Gelmini si trova dunque a scegliere, spiegherà essa stessa a Flavia Amabile de “La Stampa.it”: «La mia famiglia non poteva permettersi di mantenermi troppo a lungo agli studi, mio padre era un agricoltore. Dovevo iniziare a lavorare e quindi dovevo superare l'esame per ottenere l'abilitazione alla professione». Quindi? «La sensazione era che esistesse un tetto del 30% che comprendeva i figli di avvocati e altri pochi fortunati che riuscivano ogni anno a superare l'esame. Per gli altri, nulla. C'era una logica di casta». E così, «insieme con altri 30-40 amici molto demotivati da questa situazione, abbiamo deciso di andare a fare l'esame a Reggio Calabria». I risultati della sessione del 2000, del resto, erano incoraggianti. Nonostante lo scoppio dello scandalo, nel capoluogo calabrese c'era stato il primato italiano di ammessi agli orali: 93,4%. Il triplo che nella Brescia della Gelmini (31,7) o a Milano (28,1), il quadruplo che ad Ancona. Idonei finali: 87% degli iscritti iniziali. Contro il 28% di Brescia, il 23,1% di Milano, il 17% di Firenze. Totale: 806 idonei. Cinque volte e mezzo quelli di Brescia: 144. Quanti Marche, Umbria, Basilicata, Trentino, Abruzzo, Sardegna e Friuli Venezia Giulia messi insieme. Insomma, la tentazione era forte. Spiega il ministro dell'Istruzione: «Molti ragazzi andavano lì e abbiamo deciso di farlo anche noi». E l'esame? Com'è stato l'esame? Quasi 57% di ammessi agli orali. Il doppio che a Roma o a Milano. Quasi il triplo che a Brescia. Dietro soltanto la solita Catanzaro, Caltanissetta, Salerno.

Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa  di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati.

Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR  per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio.

Di scandali per i compiti non corretti, ma ritenuti idonei, se ne è parlato.

Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. "Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa", ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. L'esposto viene palleggiato da mesi tra lo stesso Consiglio di Stato e la presidenza del Consiglio dei ministri, ma i dubbi e "qualche perplessità" serpeggiano anche tra alcuni consiglieri. "Il bando sembra introdurre l'ulteriore requisito dell'anzianità quinquennale" ha messo a verbale uno di loro durante una sessione dell'organo di presidenza: "Giovagnoli era stato dirigente presso la Corte dei conti per circa 6 mesi (...) Il bando non sembra rispettato su questo punto". Per legge, a decidere se i concorsi siano stati o meno taroccati, saranno gli stessi membri del Consiglio. Vedremo.

In effetti, con migliaia di ricorsi al TAR si è dimostrato che i giudizi resi sono inaffidabili. La carenza, ovvero la contraddittorietà e la illogicità del giudizio negativo reso in contrapposizione ad una evidente assenza o rilevanza di segni grafici sugli elaborati, quali glosse, correzioni, note, commenti, ecc., o comunque la infondatezza dei giudizi assunti, tale da suffragare e giustificare la corrispondente motivazione indotta al voto numerico. Tutto ciò denota l’assoluta discrasia tra giudizio e contenuto degli elaborati, specie se la correzione degli elaborati è avvenuta in tempi insufficienti, tali da rendere un giudizio composito. Tempi risibili, tanto da offendere l’umana intelligenza. Dai Verbali si contano 1 o 2 minuti per effettuare tutte le fasi di correzione, quando il Tar di Milano ha dichiarato che ci vogliono almeno 6 minuti solo per leggere l’elaborato. La mancanza di correzione degli elaborati ha reso invalido il concorso in magistratura. Per altri concorsi, anche nella stessa magistratura, il ministero della Giustizia ha fatto lo gnorri e si è sanato tutto, alla faccia degli esclusi. Già nel 2005 candidati notai ammessi agli orali nonostante errori da somari, atti nulli che vengono premiati con buoni voti, mancata verbalizzazione delle domande, elaborati di figli di professionisti ed europarlamentari prima considerati “non idonei” e poi promossi agli orali. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Riguardo la magistratura, l’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. O ancora l’esame di ammissione all’albo dei giornalisti professionisti del 1991, audizione riscontrabile negli archivi di radio radicale, quando la presenza di un folto gruppo di raccomandati venne scoperta per caso da un computer lasciato acceso nella sala stampa del Senato proprio sul file nel quale il caposervizio di un’agenzia, commissario esaminatore, aveva preso nota delle prime righe dei temi di tutti quelli da promuovere. E ancora lo scandalo denunciato da un’inchiesta del 14 maggio 2009 apparsa su “La Stampa”. A finire sotto la lente d’ingrandimento del quotidiano torinese l’esito del concorso per allievi per il Corpo Forestale. Tra i 500 vincitori figli di comandanti, dirigenti, uomini di vertice. La casualità ha voluto, inoltre, che molti dei vincitori siano stati assegnati nelle stazioni dove comandano i loro genitori. Una singolare coincidenza che diventa ancor più strana nel momento in cui si butta un occhio ad alcuni “promemoria”, sotto forma di pizzini, ritrovati nei corridoi del Corpo forestale e in cui sono annotati nomi, cognomi, date di nascita e discendenze di alcuni candidati. «Per Alfonso, figlio di Rosetta», «Per Emidio, figlio di Cesarina di zio Antonio», «Per Maria, figlia di Raffaele di zia Maria». Piccole annotazioni, certo. Il destino, però, ha voluto che le tutte persone segnalate nei pizzini risultassero vincitrici al concorso.

GLI ESCLUSI, RIAMMESSI. Candidati che sono stati esclusi dalla prova per irregolarità, come è successo al concorso per Dirigenti scolastici, o giudicati non idonei, che poi si presentano regolarmente agli orali. L’incipit della confidenza di Elio Belcastro, parlamentare dell’Mpa di Raffaele Lombardo, pubblicata su “Il Giornale”. Belcastro ci fa subito capire, scandendo bene le parole, che Tonino non era nemmeno riuscito a prenderlo quel voto, minimo. «Tempo fa l’ex procuratore capo di Roma, Felice Filocamo, che di quella commissione d’esami era il segretario, mi ha raccontato che quando Carnevale si accorse che i vari componenti avevano bocciato Di Pietro, lo chiamò e si arrabbiò molto. Filocamo fu costretto a tornare in ufficio, a strappare il compito del futuro paladino di Mani pulite e a far sì che, non saprei dire come, ottenesse il passaggio agli orali, seppur con il minimo dei voti». Bocciato e ripescato? Magistrato per un falso? Possibile? Non è l’unico caso. Era già stato giudicato non idoneo, ma in una seconda fase sarebbero saltati fuori degli strani fogli aggiuntivi che prima non c’erano. Ecco come sarebbe sorto il sospetto che qualcuno li avesse inseriti per “salvare” il candidato già bocciato, in modo da giustificare una valutazione diversa oppure da consentire un successivo ricorso al TAR. I maggiori quotidiani nazionali e molti locali, ed anche tanti periodici, si sono occupati di tale gravissimo fatto, e che è stato individuato con nome e cognome il magistrato (una donna) in servizio a Napoli quale autore del broglio accertato. Per tale episodio il CSM ha deciso di sospendere tale magistrato dalle funzioni e dallo stipendio. In quella sessione a fronte di 350 candidati ammessi alle prove orali pare che oltre 120 siano napoletani, i quali sembrano avere particolari attitudini naturali verso le scienze giuridiche e che sembrano essere particolarmente facilitati nel loro cammino anche dalla numerosa presenza nella commissione di esami di magistrati e professori napoletani.

TUTELA AMMINISTRATIVA: non è ammesso ricorso amministrativo gerarchico. Sessione d’esame d’avvocato 2002-2003. Presidente di Commissione, Avv. Luigi Rella, Principe del Foro di Lecce. Ispettore Ministeriale, Giorgino. Sono stato bocciato. Il Ministero, alla prova di scritto di diritto penale, alla traccia n. 1, erroneamente chiede ai candidati cosa succede al Sindaco, che prima nega e poi rilascia una concessione edilizia ad un suo amico, sotto mentite spoglie di un’ordinanza. In tale sede i Commissari penalisti impreparati suggerivano in modo sbagliato. Solo io rilevavo che la traccia era errata, in quanto riferita a sentenze della Cassazione riconducibili a violazioni di legge non più in vigore. Si palesava l’ignoranza dell’art.107, D.Lgs. 267/00, Testo Unico sull’Ordinamento degli Enti Locali, in cui si dispongono le funzioni dei dirigenti, e l’ignoranza del D.P.R. 380/01, Testo Unico in materia edilizia. Da molti anni, con le varie Bassanini, sono entrate in vigore norme, in cui si prevede che è competente il Dirigente dell’Ufficio Tecnico del Comune a rilasciare o a negare le concessioni edilizie. Rilevavo che il Sindaco era incompetente. Rilevavo altresì che il Ministero dava per scontato il comportamento dei Pubblici Ufficiali omertosi, che lavorando con il Sindaco e conoscendo i fatti penalmente rilevanti, non li denunciavano alla Magistratura. Per non aver seguito i loro suggerimenti, i Commissari mi danno 15 (il minimo) al compito esatto, 30 (il massimo) agli altri 2 compiti. I candidati che hanno scritto i suggerimenti sbagliati, sono divenuti idonei.  Il presidente di Commissione d’esame di Lecce, ricevendo il ricorso amministrativo gerarchico contro l’esito della valutazione della sottocommissione, non ha risposto entro i trenta giorni (nemmeno per il diniego) impedendomi di presentare ricorso al Tar.

TUTELA GIUDIZIARIA. Un ricorso al TAR non si nega a nessuno: basta pagare la tangente delle spese di giudizio. Per veder accolto il ricorso basta avere il principe del Foro amministrativo del posto; per gli altri non c’è trippa per gatti. Cavallo di battaglia: mancanza della motivazione ed illogicità dei giudizi. Nel primo caso, dovendo accertare un’ecatombe dei giudizi, la Corte Costituzionale, con sentenza 175 del 2011, ha legittimato l’abuso delle commissioni: “buon andamento, economicità ed efficacia dell’azione amministrativa rendono non esigibile una dettagliata esposizione, da parte delle commissioni esaminatrici, delle ragioni sottese ad un giudizio di non idoneità, sia per i tempi entro i quali le operazioni concorsuali o abilitative devono essere portate a compimento, sia per il numero dei partecipanti alle prove”. Così la Corte Costituzionale ha sancito, il 7 giugno 2011, la legittimità costituzionale del cd. “diritto vivente”, secondo cui sarebbe sufficiente motivare il giudizio negativo, negli esami di abilitazione, con il semplice voto numerico. La Corte Costituzionale per ragion di Stato (tempi ristretti ed elevato numero) afferma piena fiducia nelle commissioni di esame (nonostante la riforma e varie inchieste mediatiche e giudiziarie ne minano la credibilità), stabilendo una sorta d’infallibilità del loro operato e di insindacabilità dei giudizi resi, salvo che il sindacato non promani in sede giurisdizionale. I candidati, quindi, devono sperare nel Foro presso cui vi sia tutela della meritocrazia ed un certo orientamento giurisprudenziale a favore dei diritti inviolabili del candidato, che nella massa è ridimensionato ad un semplice numero, sia di elaborato, sia di giudizio. Giudizi rapidi e sommari, che spesso non valorizzano le capacità tecniche e umane che da un’attenta lettura dell’elaborato possono trasparire. Fatto assodato ed incontestabile il voto numerico, quale giudizio e motivazione sottesa. Esso deve, però, riferire ad elementi di fatto corrispondenti che supportino quel voto. Elementi di fatto che spesso mancano o sono insussistenti. All’improvvida sentenza della Corte Costituzionale viene in soccorso la Corte di Cassazione. Il sindacato giurisdizionale di legittimità del giudice amministrativo sulle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici di esami o concorsi pubblici (valutazioni inserite in un procedimento amministrativo complesso nel quale viene ad iscriversi il momento valutativo tecnico della commissione esaminatrice quale organo straordinario della pubblica amministrazione), è legittimamente svolto quando il giudizio della commissione esaminatrice è affetto da illogicità manifesta o da travisamento del fatto in relazione ai presupposti stessi in base ai quali è stato dedotto il giudizio sull’elaborato sottoposto a valutazione. In sostanza il TAR può scendere sul terreno delle valutazioni tecniche delle commissioni esaminatrici per l’accesso a una professione o in un concorso pubblico, quando il giudizio è viziato da evidente illogicità e da travisamento del fatto. Ad affermare l’importante principio di diritto sono le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 8412, depositata il 28 maggio 2012. Insomma, la Cassazione afferma che le commissioni deviano il senso della norma concorsuale.

Sì, il Tar può salvare tutti, meno che Antonio Giangrande. Da venti anni inascoltato Antonio Giangrande denuncia il malaffare di avvocati e magistrati ed il loro malsano accesso alla professione. Cosa ha ottenuto a denunciare i trucchi per superare l’esame? Prima di tutto l’ostracismo all’abilitazione. Poi, insabbiamento delle denunce contro i concorsi truccati ed attivazione di processi per diffamazione e calunnia, chiusi, però, con assoluzione piena. Intanto ti intimoriscono. Ed anche la giustizia amministrativa si adegua. A parlar delle loro malefatte i giudici amministrativi te la fanno pagare. Presenta l’oneroso ricorso al Tar di Lecce (ma poteva essere qualsiasi altro Tribunale Amministrativo Regionale) per contestare l’esito negativo dei suoi compiti all’esame di avvocato: COMMISSIONE NAZIONALE D'ESAME PRESIEDUTA DA CHI NON POTEVA RICOPRIRE L'INCARICO, COMMISSARI (COMMISSIONE COMPOSTA DA MAGISTRATI, AVVOCATI E PROFESSORI UNIVERSITARI) DENUNCIATI CHE GIUDICANO IL DENUNCIANTE E TEMI SCRITTI NON CORRETTI, MA DA 15 ANNI SONO DICHIARATI TALI. Ricorso, n. 1240/2011 presentato al Tar di Lecce il 25 luglio 2011 contro il voto numerico insufficiente (25,25,25) dato alle prove scritte di oltre 4 pagine cadaune della sessione del 2010 adducente innumerevoli nullità, contenente, altresì, domanda di fissazione dell’udienza di trattazione. Tale ricorso non ha prodotto alcun giudizio nei tempi stabiliti, salvo se non il diniego immediato ad una istanza cautelare di sospensione, tanto da farlo partecipare, nelle more ed in pendenza dell’esito definitivo del ricorso, a ben altre due sessioni successive, i cui risultati sono stati identici ai temi dei 15 anni precedenti (25,25,25): compiti puliti e senza motivazione, voti identici e procedura di correzione nulla in più punti. Per l’inerzia del Tar si è stati costretti a presentare istanza di prelievo il 09/07/2012. Inspiegabilmente nei mesi successivi all’udienza fissata e tenuta del 7 novembre 2012 non vi è stata alcuna notizia dell’esito dell’istanza, nonostante altri ricorsi analoghi presentati un anno dopo hanno avuto celere ed immediato esito positivo di accoglimento. Eccetto qualcuno che non poteva essere accolto, tra i quali i ricorsi dell'avv. Carlo Panzuti  e dell'avv. Angelo Vantaggiato in cui si contestava il giudizio negativo reso ad un elaborato striminzito di appena una pagina e mezza. Solo in data 7 febbraio 2013 si depositava sentenza per una decisione presa già in camera di consiglio della stessa udienza del 7 novembre 2012. Una sentenza già scritta, però, ben prima delle date indicate, in quanto in tale camera di consiglio (dopo aver tenuto anche regolare udienza pubblica con decine di istanze) i magistrati avrebbero letto e corretto (a loro dire) i 3 compiti allegati (più di 4 pagine per tema), valutato e studiato le molteplici questioni giuridiche presentate a supporto del ricorso. I magistrati amministrativi potranno dire che a loro insindacabile giudizio il ricorso di Antonio Giangrande va rigettato, ma devono spiegare a chi in loro pone fiducia, perché un ricorso presentato il 25 luglio 2011, deciso il 7 novembre 2012, viene notificato il 7 febbraio 2013? Un'attenzione non indifferente e particolare e con un risultato certo e prevedibile, se si tiene conto che proprio il presidente del Tar era da considerare incompatibile perchè è stato denunciato dal Giangrande e perché le sue azioni erano oggetto di inchiesta video e testuale da parte dello stesso ricorrente? Le gesta del presidente del Tar sono state riportate da Antonio Giangrande, con citazione della fonte, nella pagina d'inchiesta attinente la città di Lecce. Come per dire: chi la fa, l'aspetti?

In Italia tutti sanno che i concorsi pubblici sono truccati e nessuno fa niente, tantomeno i magistrati. Gli effetti sono che non è la meritocrazia a condurre le sorti del sistema Italia, ma l’incompetenza e l’imperizia. Non ci credete o vi pare un’eresia? Basta dire che proprio il Consiglio Superiore della Magistratura, dopo anni di giudizi amministrativi, è stato costretto ad annullare un concorso già effettuato per l’accesso alla magistratura. Ed i candidati ritenuti idonei? Sono lì a giudicare indefessi ed ad archiviare le denunce contro i concorsi truccati. E badate, tra i beneficiari del sistema, vi sono nomi illustri.

Certo che a qualcuno può venire in mente che comunque una certa tutela giuridica esiste. Sì, ma dove? Ma se già il concorso al TAR è truccato. Nel 2008 un consigliere del Tar trombato al concorso per entrare nel Consiglio di Stato, si è preso la briga di controllare gli atti del giorno in cui sono state corrette le sue prove, scoprendo che i cinque commissari avevano analizzato la bellezza di 690 pagine. “Senza considerare la pausa pranzo e quella della toilette, significa che hanno letto in media tre pagine e mezzo in 60 secondi. Un record da guinness, visto che la materia è complessa”, ironizza Alessio Liberati. Che ha impugnato anche i concorsi del 2006 e del 2007: a suo parere i vincitori hanno proposto stranamente soluzioni completamente diverse per la stessa identica sentenza. Il magistrato, inoltre, ha sostenuto che uno dei vincitori, Roberto Giovagnoli, non aveva nemmeno i titoli per partecipare al concorso. Mentre il Governo rifiuta da mesi di rispondere alle varie interrogazioni parlamentari sul concorso delle mogli (il concorso per magistrati Tar vinto da Anna Corrado e Paola Palmarini, mogli di due membri dell’organo di autogoverno che ne nominò la commissione) si è svolto un altro – già discusso – concorso per l’accesso al Tar. Nonostante l’organo di autogoverno dei magistrati amministrativi (Consiglio di Presidenza – Cpga) si sia stretto in un imbarazzante riserbo, che davvero stride con il principio di trasparenza che i magistrati del Tar e del Consiglio di Stato sono preposti ad assicurare controllando l’operato delle altre amministrazioni, tra i magistrati amministrativi si vocifera che gli elaborati scritti del concorso sarebbero stati sequestrati per mesi dalla magistratura penale, dopo aver sorpreso un candidato entrato in aula con i compiti già svolti, il quale avrebbe già patteggiato la pena. Dopo il patteggiamento la commissione di concorso è stata sostituita completamente ed è ricominciata la correzione dei compiti. Si è già scritto della incredibile vicenda processuale del dott. Enrico Mattei, fratello di Fabio Mattei (oggi membro dell’organo di autogoverno), rimesso “in pista” nel precedente concorso c.d. delle mogli grazie ad una sentenza del presidente del Tar Lombardia, assolutamente incompetente per territorio, che, prima di andare in pensione coinvolto dallo scandalo della c.d. cricca, si era autoassegnato il ricorso ed aveva ammesso a partecipare al concorso il Mattei, redigendo addirittura una sentenza breve (utilizzabile solo in caso di manifesta fondatezza), poco dopo stroncata dal Consiglio di Stato (sentenza n. 6190/2008), che ha rilevato perfino l’appiattimento lessicale della motivazione della decisione rispetto alle memorie difensive presentate dal Mattei. Dopo il concorso delle mogli e il caso Mattei, un altro concorso presieduto da Pasquale De Lise è destinato a far parlare di sé. Si sono infatti concluse le prove scritte del concorso per 4 posti a consigliere di Stato, presieduto da una altisonante commissione di concorso: il presidente del Consiglio di Stato (Pasquale De Lise), il presidente aggiunto del Consiglio di Stato (Giancarlo Coraggio), il presidente del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la regione Sicilia (Riccardo Virgilio), il preside della facoltà di giurisprudenza (Carlo Angelici) ed un presidente di sezione della Corte di Cassazione (Luigi Antonio Rovelli). Ma anche il concorso al Consiglio di Stato non è immune da irregolarità. Tantissime le violazioni di legge già denunciate all’organo di autogoverno: area toilettes non sigillata e accessibile anche da avvocati e magistrati durante le prove di concorso, ingresso a prove iniziate di pacchi non ispezionati e asseritamente contenenti cibi e bevande, ingresso di estranei nella sala durante le prove di concorso, uscita dei candidati dalla sala prima delle due ore prescritte dalla legge, mancanza di firma estesa dei commissari di concorso sui fogli destinati alle prove, presenza di un solo commissario in aula. Tutti vizi, questi, in grado di mettere a rischio la validità delle prove. Qual è l’organo deputato a giudicare, in caso di ricorso, sulla regolarità del concorso per consigliere di Stato? Il Consiglio di Stato… naturalmente! Ecco perché urge una riforma dei concorsi pubblici. Riforma dove le lobbies e le caste non ci devono mettere naso. E c’è anche il rimedio. Niente esame di abilitazione. Esame di Stato contestuale con la laurea specialistica. Attività professionale libera con giudizio del mercato e assunzione pubblica per nomina del responsabile politico o amministrativo che ne risponde per lui (nomina arbitraria così come di fatto è già oggi). E’ da vent’anni che Antonio Giangrande studia il fenomeno dei concorsi truccati. Anche la fortuna fa parte del trucco, in quanto non è tra i requisiti di idoneità. Qualcuno si scandalizzerà. Purtroppo non sono generalizzazioni, ma un dato di fatto. E da buon giurista, consapevole del fatto che le accuse vanno provate, pur in una imperante omertà e censura, l’ha fatto. In video ed in testo. Se non basta ha scritto un libro, tra i 50, da leggere gratuitamente su www.controtuttelemafie.it o su Google libri o in ebook su Amazon.it o cartaceo su Lulu.com. Invitando ad informarsi tutti coloro che, ignoranti o in mala fede, contestano una verità incontrovertibile, non rimane altro che attendere: prima o poi anche loro si ricrederanno e ringrazieranno iddio che esiste qualcuno con le palle che non ha paura di mettersi contro Magistrati ed avvocati. E sappiate, in tanti modi questi cercano di tacitare Antonio Giangrande, con l’assistenza dei media corrotti dalla politica e dall’economia e genuflessi al potere. Ha perso le speranze. I praticanti professionali sono una categoria incorreggibile: “so tutto mi”, e poi non sanno un cazzo, pensano che essere nel gota, ciò garantisca rispetto e benessere. Che provino a prendere in giro chi non li conosce. La quasi totalità è con le pezze al culo e genuflessi ai Magistrati. Come avvoltoi a buttarsi sulle carogne dei cittadini nei guai e pronti a vendersi al miglior offerente. Non è vero? Beh! Chi esercita veramente sa che nei Tribunali, per esempio, vince chi ha più forza dirompente, non chi è preparato ed ha ragione. Amicizie e corruttele sono la regola. Naturalmente per parlare di ciò, bisogna farlo con chi lavora veramente, non chi attraverso l’abito, cerca di fare il monaco.

Un esempio per tutti di come si legifera in Parlamento, anche se i media lo hanno sottaciuto. La riforma forense, approvata con Legge 31 dicembre 2012, n. 247, tra gli ultimi interventi legislativi consegnatici frettolosamente dal Parlamento prima di cessare di fare danni. I nonni avvocati in Parlamento (compresi i comunisti) hanno partorito, in previsione di un loro roseo futuro, una contro riforma fatta a posta contro i giovani. Ai fascisti che hanno dato vita al primo Ordinamento forense (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 - Ordinamento della professione di avvocato e di procuratore convertito con la legge 22 gennaio 1934 n.36) questa contro riforma reazionaria gli fa un baffo. Trattasi di una “riforma”, scritta come al solito negligentemente, che non viene in alcun modo incontro ed anzi penalizza in modo significativo i giovani.

In tema di persecuzione giudiziaria, vi si racconta una favola e per tale prendetela.

C‘era una volta in un paese ridente e conosciuto ai più come il borgo dei sognatori, un vecchietto che andava in bicicletta per la via centrale del paese. Il vecchietto non era quello che in televisione indicano come colui che buttava le bambine nei pozzi. In quel frangente di tempo una sua coetanea, avendo parcheggiato l’auto in un tratto di strada ben visibile, era in procinto di scendere, avendo aperto la portiera. Ella era sua abitudine, data la sua tarda età, non avere una sua auto, ma usare l’auto della nipote o quella simile del fratello. Auto identiche in colore e marca. Il vecchietto, assorto nei suoi pensieri, investe lo sportello aperto dell’auto e cade. Per sua fortuna, a causa della bassa velocità tenuta, la caduta è indolore. Assicurato alla signora che nulla era accaduto, il vecchietto inforca la bicicletta e va con le sue gambe. Dopo poco tempo arriva alla signora da parte del vecchietto una richiesta di risarcimento danni, su mandato dato allo studio legale di sua figlia. L’assicurazione considera che sia inverosimile la dinamica indicata ed il danno subito e ritiene di non pagare.

Dopo due anni arriva una citazione da parte di un’altro avvocato donna. Una richiesta per danni tanto da farsi ricchi. Ma non arriva alla vecchietta, ma a sua nipote. Essa indica esattamente l’auto, la zona del sinistro e la conducente, accusando la nipote di essere la responsabile esclusiva del sinistro.

E peccato, però, che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto la targa, pur posti a pochi metri del fatto; che nessun testimone in giudizio ha riconosciuto l’auto distinguendola da quella simile; che nessun testimone in giudizio ha disconosciuto la vecchietta come protagonista; che nessun testimone in giudizio ha ammesso che vi siano stati conseguenze per la caduta.

E peccato, però, che l’auto non era in curva, come da essa indicato.

Peccato, però, che la responsabile del sinistro non fosse quella chiamata in giudizio, ma la vecchietta di cui sopra.

Una prima volta sbaglia il giudice competente ed allora cambia l’importo, riproponendo la domanda.

Tutti i giudici di pace ed onorari (avvocati) fanno vincere la causa del sinistro fantasma alla collega.

La tapina chiamata in causa afferma la sua innocenza e presenta una denuncia contro l’avvocato. La poveretta, che poteva essere querelata per lesioni gravissime, si è cautelata. La sua denuncia è stata archiviata, mentre contestualmente, alla stessa ora, i testimoni venivano sentiti alla caserma dei carabinieri.

La poveretta non sapeva che l’avvocato denunciato era la donna del pubblico ministero, il cui ufficio era competente sulla denuncia contro proprio l’avvocato.

Gli amorosi cosa hanno pensato per tacitare chi ha osato ribellarsi? L’avvocato denuncia per calunnia la poveretta, ingiustamente accusata del sinistro, la procura la persegue e gli amici giudici la condannano.

L’appello sacrosanto non viene presentato dagli avvocati, perché artatamente ed in collusione con la contro parte sono fatti scadere i termini. L’avvocato amante del magistrato altresì chiede ed ottiene una barca di soldi di danni morali.

La poveretta ha due fratelli: uno cattivo, amico e succube di magistrati ed avvocati, che le segue le sue cause e le perde tutte: uno buono che è conosciuto come il difensore dei deboli contro i magistrati e gli avvocati. I magistrati le tentano tutte per condannarlo: processi su processi. Ma non ci riescono, perché è innocente e le accuse sono inventate. L’unica sua colpa è ribellarsi alle ingiustizie su di sé o su altri. Guarda caso il fratello buono aveva denunciato il magistrato amante dell’avvocato donna di cui si parla. Magistrato che ha archiviato la denuncia contro se stesso.

La procura ed i giudici accusano anche il fratello buono di aver presentato una denuncia contro l’avvocato e di aver fatto conoscere la malsana storia a tutta l’Italia. Per anni si cerca la denuncia: non si trova. Per anni si riconduce l’articolo a lui: non è suo.

Il paradosso è che si vuol condannare per un denuncia, che tra tante, è l’unica non sua.  

Il paradosso è che si vuol condannare per un articolo, che tra tanti (è uno scrittore), è l’unico non suo e su spazio web, che tra tanti, non è suo.  

Se non si può condannare, come infangare la sua credibilità? Dopo tanti e tanti anni si fa arrivare il conto con la prescrizione e far pagare ancora una volta la tangente per danni morali all’avvocato donna, amante di magistrati.

Questa è il finale triste di un favola, perché di favola si tratta, e la morale cercatevela voi.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

I magistrati, diceva Calamandrei, sono come i maiali. Se ne tocchi uno gridano tutti. Non puoi metterti contro la magistratura, è sempre stato così, è una corporazione.

In tema di Giustizia l'Italia è maglia nera in Europa. In un anno si sono impiegati 564 giorni per il primo grado in sede civile, contro una media  di 240 giorni nei Paesi Ocse. Il tempo medio per la conclusione di un procedimento civile nei tre gradi di giudizio si attesta sui 788 giorni. Non se la passa meglio la giustizia penale: la sua lentezza è la causa principale di sfiducia nella giustizia (insieme alla percezione della mancata indipendenza dei magistrati e della loro impunità, World Economic Forum). La durata media di un processo penale, infatti, tocca gli otto anni e tre mesi, con punte di oltre 15 anni nel 17% dei casi. Ora, tale premessa ci sbatte in faccia una cruda realtà. Per Silvio Berlusconi la giustizia italiana ha tempi record, corsie preferenziali e premure impareggiabili. Si prenda ad esempio il processo per i diritti televisivi: tre gradi di giudizio in nove mesi, una cosa del genere non si è mai vista in Italia. Il 26 ottobre 2012 i giudici del Tribunale di Milano hanno condannato Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, una pena più dura di quella chiesta dalla pubblica accusa (il 18 giugno 2012 i PM Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro chiedono al giudice una condanna di 3 anni e 8 mesi per frode fiscale di 7,3 milioni di euro). Il 9 novembre 2012 Silvio Berlusconi, tramite i suoi legali, ha depositato il ricorso in appello. L'8 maggio 2013 la Corte d'Appello di Milano conferma la condanna di 4 anni di reclusione, 5 anni di interdizione dai pubblici uffici e 3 anni dagli uffici direttivi. Il 9 luglio 2013 la Corte di Cassazione ha fissato al 30 luglio 2013 l'udienza del processo per frode fiscale sui diritti Mediaset. Processo pervenuto in Cassazione da Milano il 9 luglio con i ricorsi difensivi depositati il 19 giugno. Per chi se ne fosse scordato - è facile perdere il conto tra i 113 procedimenti (quasi 2700 udienze) abbattutisi sull'ex premier dalla sua discesa in campo, marzo 1994 - Berlusconi è stato condannato in primo grado e in appello a quattro anni di reclusione e alla pena accessoria di cinque anni di interdizione dai pubblici uffici. Secondo i giudici, l'ex premier sarebbe intervenuto per far risparmiare a Mediaset tre milioni di imposte nel 2002-2003. Anni in cui, per quanto vale, il gruppo versò all'erario 567 milioni di tasse. I legali di Berlusconi avranno adesso appena venti giorni di tempo per articolare la difesa. «Sono esterrefatto, sorpreso, amareggiato» dichiara Franco Coppi. Considerato il migliore avvocato cassazionista d'Italia, esprime la sua considerazione con la sua autorevolezza e il suo profilo non politicizzato: «Non si è mai vista un'udienza fissata con questa velocità», che «cade tra capo e collo» e «comprime i diritti della difesa». Spiega: «Noi difensori dovremo fare in 20 giorni quello che pensavamo di fare con maggior respiro». Tutto perché? «Evidentemente - ragiona Coppi -, la Cassazione ha voluto rispondere a chi paventava i rischi della prescrizione intermedia. Ma di casi come questo se ne vedono molti altri e la Suprema Corte si limita a rideterminare la pena, senza andare ad altro giudice. Al di là degli aspetti formali, sul piano sostanziale, dover preparare una causa così rinunciando a redigere motivi nuovi, perché i tempi non ci sono, significa un'effettiva diminuzione delle possibilità di difesa». Il professore risponde così anche all'Anm che definisce «infondate» le polemiche e nega che ci sia accanimento contro il Cavaliere.

113 procedimenti. Tutto iniziò nel 1994 con un avviso di garanzia (poi dimostratosi infondato) consegnato a mezzo stampa dal Corriere della Sera durante il G8 che si teneva a Napoli. Alla faccia del segreto istruttorio. E’ evidentemente che non una delle centinaia di accuse rivoltegli contro era fondata. Nessun criminale può farla sempre franca se beccato in castagna. E non c’è bisogno di essere berlusconiano per affermare questo.

E su come ci sia commistione criminale tra giornali e Procure è lo stesso Alessandro Sallusti che si confessa. In un'intervista al Foglio di Giuliano Ferrara, il direttore de Il Giornale racconta i suoi anni al Corriere della Sera, e il suo rapporto con Paolo Mieli: «Quando pubblicammo l'avviso di garanzia che poi avrebbe fatto cadere il primo governo di Silvio Berlusconi, ero felicissimo. Era uno scoop pazzesco. E lo rifarei. Ma si tratta di capire perché certe notizie te le passano. Sin dai tempi di Mani pulite il Corriere aveva due direttori, Mieli e Francesco Saverio Borrelli, il procuratore capo di Milano. I magistrati ci passavano le notizie, con una tempistica che serviva a favorire le loro manovre. Mi ricordo bene la notte in cui pubblicammo l'avviso di garanzia a Berlusconi. Fu una giornata bestiale, Mieli a un certo punto, nel pomeriggio, sparì. Poi piombò all'improvviso nella mia stanza, fece chiamare Goffredo Buccini e Gianluca Di Feo, che firmavano il pezzo, e ci disse, pur con una certa dose di insicurezza, di scrivere tutto, che lo avremmo pubblicato. Parlava con un tono grave, teso. Quella notte, poi, ci portò in pizzeria, ci disse che aveva già scritto la lettera di dimissioni, se quello che avevamo non era vero sarebbero stati guai seri. Diceva di aver parlato con Agnelli e poi anche con il presidente Scalfaro. Ma poi ho ricostruito che non era così, non li aveva nemmeno cercati, secondo me lui pendeva direttamente dalla procura di Milano».

Si potrebbe sorridere al fatto che i processi a Silvio Berlusconi, nonostante cotanto di principi del foro al seguito, innalzino sensibilmente la media nazionale dello sfascio della nostra giustizia. Ma invece la domanda, che fa capolino e che sorge spontanea, è sempre la stessa: come possiamo fidarci di "questa" giustizia, che se si permette di oltraggiare se stessa con l’uomo più potente d’Italia, cosa potrà fare ai poveri cristi? La memoria corre a quel film di Dino Risi, "In nome del popolo italiano", 1971. C'è il buono, il magistrato impersonato da Tognazzi. E poi c'è il cialtrone, o presunto tale, che è uno strepitoso Gassman. Alla fine il buono fa arrestare il cialtrone, ma per una cosa che non ha fatto, per un reato che non ha commesso. Il cialtrone è innocente, ma finalmente è dentro.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia,i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730. Accadde che un vigile, a Montagnano, provincia di Campobasso, nel lontano 2 novembre 2005 fermò un uomo di 70 anni: la sua auto viaggiava con un solo faro acceso. Ne seguì una vivace discussione tra il prossimo multato e l'agente. Quando contravvenzione fu, il guidatore si lasciò andare al seguente sfogo: "Invece di andare ad arrestare i tossici a Campobasso, pensate a fare queste stronzate e poi si vedono i risultati. In questo schifo di Italia di merda...". Il vigile zelante prese nota di quella frase e lo denunciò. Mille euro di multa - In appello, il 26 aprile del 2012, per il viaggiatore senza faro che protestò aspramente contro la contravvenzione arrivò la condanna, pena interamente coperta da indulto. L'uomo decise così di rivolgersi alla Cassazione. La  sentenza poi confermata dai giudici della prima sezione penale del Palazzaccio. Il verdetto: colpevole di "vilipendio alla nazione". Alla multa di ormai otto anni fa per il faro spento, si aggiunge quella - salata - di mille euro per l'offesa al tricolore. L'uomo si era difeso sostenendo che non fosse sua intenzione offendere lo Stato e appellandosi al "diritto alla libera manifestazione di pensiero". «Il diritto di manifestare il proprio pensiero in qualsiasi modo - si legge nella sentenza depositata - non può trascendere in offese grossolane e brutali prive di alcuna correlazione con una critica obiettiva»: per integrare il reato, previsto dall'articolo 291 del codice penale, «è sufficiente una manifestazione generica di vilipendio alla nazione, da intendersi come comunità avente la stessa origine territoriale, storia, lingua e cultura, effettuata pubblicamente». Il reato in esame, spiega la Suprema Corte, «non consiste in atti di ostilità o di violenza o in manifestazioni di odio: basta l'offesa alla nazione, cioè un'espressione di ingiuria o di disprezzo che leda il prestigio o l'onore della collettività nazionale, a prescindere dai vari sentimenti nutriti dall'autore». Il comportamento dell'imputato, dunque, che «in luogo pubblico, ha inveito contro la nazione», gridando la frase “incriminata”, «sia pure nel contesto di un'accesa contestazione elevatagli dai carabinieri per aver condotto un'autovettura con un solo faro funzionante, integra - osservano gli “ermellini” - il delitto di vilipendio previsto dall'articolo 291 cp, sia nel profilo materiale, per la grossolana brutalità delle parole pronunciate pubblicamente, tali da ledere oggettivamente il prestigio o l'onore della collettività nazionale, sia nel profilo psicologico, integrato dal dolo generico, ossia dalla coscienza e volontà di proferire, al cospetto dei verbalizzanti e dei numerosi cittadini presenti sulla pubblica via nel medesimo frangente, le menzionate espressioni di disprezzo, a prescindere dai veri sentimenti nutriti dall'autore e dal movente, nella specie di irata contrarietà per la contravvenzione subita, che abbia spinto l'agente a compiere l'atto di vilipendio». 

A questo punto ognuno di noi ammetta e confessi che, almeno per un volta nella sua vita, ha proferito la fatidica frase “che schifo questa Italia di merda” oppure “che schifo questi italiani di merda”.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!! 

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e e gran parte della classe politica del tempo tranne quei pochi che ne erano i veri destinatari (Craxi e Forlani) e quei pochissimi che si rifiutarono di partecipare al piano stragista (Andreotti Lima e Mannino) e che per questo motivo furono assassinati o lungamente processati. La Sinistra non di governo sapeva. La Sinistra Democristiana ha partecipato al piano stragista fino all'elezione di Scalfaro poi ha cambiato rotta. I traditori di Craxi e la destra neofascista sono gli artefici delle stragi. Quelli che pensavamo essere i peggio erano i meglio. E quelli che pensavamo essere i meglio erano i peggio. In questo contesto non si può cercare dai carabinieri Mario Mori e Mario Obinu che comunque dipendevano dal Ministero degli Interni e quindi dal Potere Politico, un comportamento lineare e cristallino.

Ed a proposito del “TUTTI DENTRO”, alle toghe milanesi Ruby non basta mai. Un gigantesco terzo processo per il caso Ruby, dove sul banco degli imputati siedano tutti quelli che, secondo loro, hanno cercato di aiutare Berlusconi a farla franca: poliziotti, agenti dei servizi segreti, manager, musicisti, insomma quasi tutti i testimoni a difesa sfilati davanti ai giudici. Anche Ruby, colpevole di avere negato di avere fatto sesso con il Cavaliere. Ma anche i suoi difensori storici, Niccolò Ghedini e Piero Longo. E poi lui medesimo, Berlusconi. Che della opera di depistaggio sarebbe stato il regista e il finanziatore. I giudici con questa decisione mandano a dire (e lo renderanno esplicito nelle motivazioni) che secondo loro in aula non si è assistito semplicemente ad una lunga serie di false testimonianze, rese per convenienza o sudditanza, ma all'ultima puntata di un piano criminale architettato ben prima che lo scandalo esplodesse, per mettere Berlusconi al riparo dalle sue conseguenze. Corruzione in atti giudiziari e favoreggiamento, questi sono i reati che i giudici intravedono dietro quanto è accaduto. Per l'operazione di inquinamento e depistaggio la sentenza indica una data di inizio precisa: il 6 ottobre 2010, quando Ruby viene a Milano insieme al fidanzato Luca Risso e incontra l'avvocato Luca Giuliante, ex tesoriere del Pdl, al quale riferisce il contenuto degli interrogatori che ha già iniziato a rendere ai pm milanesi. I giudici del processo a Berlusconi avevano trasmesso gli atti su quell'incontro all'Ordine degli avvocati, ritenendo di trovarsi davanti a una semplice violazione deontologica. Invece la sentenza afferma che fu commesso un reato, e che insieme a Giuliante ne devono rispondere anche Ghedini e Longo. E l'operazione sarebbe proseguita a gennaio, quando all'indomani delle perquisizioni e degli avvisi di garanzia, si tenne una riunione ad Arcore tra Berlusconi e alcune delle «Olgettine» che erano state perquisite. Berlusconi come entra in questa ricostruzione? Essendo imputato nel processo, il Cavaliere non può essere accusato né di falsa testimonianza né di favoreggiamento. La sua presenza nell'elenco vuol dire che per i giudici le grandi manovre compiute tra ottobre e gennaio si perfezionarono quando Berlusconi iniziò a stipendiare regolarmente le fanciulle coinvolte nell'inchiesta. Corruzione di testimoni, dunque. Ghedini e Longo ieri reagiscono con durezza, definendo surreale la mossa dei giudici e spiegando che gli incontri con le ragazze erano indagini difensive consentite dalla legge. Ma la nuova battaglia tra Berlusconi e la Procura di Milano è solo agli inizi. D’altra parte anche Bari vuol dire la sua sulle voglie sessuali di Berlusconi. Silvio Berlusconi avrebbe pagato l'imprenditore barese Gianpaolo Tarantini tramite il faccendiere Walter Lavitola, perchè nascondesse dinanzi ai magistrati la verità sulle escort portate alle feste dell’ex premier. Ne è convinta la procura di Bari che ha notificato avvisi di conclusioni delle indagini sulle presunte pressioni che Berlusconi avrebbe esercitato su Tarantini perchè lo coprisse nella vicenda escort. Nell’inchiesta Berlusconi e Lavitola sono indagati per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria. Secondo quanto scrivono alcuni quotidiani, l’ex premier avrebbe indotto Tarantini a tacere parte delle informazioni di cui era a conoscenza e a mentire nel corso degli interrogatori cui è stato sottoposto dai magistrati baresi (tra luglio e novembre 2009) che stavano indagando sulla vicenda escort. In cambio avrebbe ottenuto complessivamente mezzo milione di euro, la promessa di un lavoro e la copertura delle spese legali per i processi. Secondo l’accusa, Tarantini avrebbe mentito, tra l'altro, negando che Berlusconi fosse a conoscenza che le donne che Gianpy reclutava per le sue feste erano escort. Sono indagati Berlusconi e Lavitola, per induzione a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria.

Comunque torniamo alle condanne milanesi. Dopo il processo Ruby 1, concluso con  la condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni, ecco il processo Ruby 2, con altri 7 anni di carcere per Emilio Fede e Lele Mora e 5 per Nicole Minetti. Ma attenzione, perché si parlerà anche del processo Ruby 3, perché come accaduto con la Corte che ha giudicato il Cav anche quella che ha condannato Fede, Mora e Minetti per induzione e favoreggiamento della prostituzione ha stabilito la trasmissione degli atti al pm per valutare eventuali ipotesi di reato in relazione alle indagini difensive. Nel mirino ci sono, naturalmente, Silvio Berlusconi, i suoi legali Niccolò Ghedini e Piero Longo e la stessa Karima el Mahroug, in arte Ruby. Come accaduto per il Ruby 1 anche per il Ruby 2 il profilo penale potrebbe essere quello della falsa testimonianza. La procura, rappresentata dal pm Antonio Sangermano e dall’aggiunto Piero Forno, per gli imputati aveva chiesto sette anni di carcere per induzione e favoreggiamento della prostituzione anche minorile. Il processo principale si era concluso con la condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi, accusato di concussione e prostituzione minorile. Durante la requisitoria l’accusa aveva definito le serate di Arcore “orge bacchiche”. Secondo gli inquirenti sono in tutto 34 le ragazze che sono state indotte a prostituirsi durante le serate ad Arcore per soddisfare, come è stato chiarito in requisitoria, il “piacere sessuale” del Cavaliere. Serate che erano “articolate” in tre fasi: la prima “prevedeva una cena”, mentre la seconda “definita ‘bunga bunga’” si svolgeva “all’interno di un locale adibito a discoteca, dove le partecipanti si esibivano in mascheramenti, spogliarelli e balletti erotici, toccandosi reciprocamente ovvero toccando e facendosi toccare nelle parti intime da Silvio Berlusconi”. La terza fase riguardava infine la conclusione della serata e il suo proseguimento fino alla mattina dopo: consisteva, scrivono i pm, “nella scelta, da parte di Silvio Berlusconi, di una o più ragazze con cui intrattenersi per la notte in rapporti intimi, persone alle quali venivano erogate somme di denaro ed altre utilità ulteriori rispetto a quelle consegnate alle altre partecipanti”. A queste feste, per 13 volte (il 14, il 20, il 21, il 27 e il 28 febbraio, il 9 marzo, il 4, il 5, il 24, il 25 e il 26 aprile, e l’1 e il 2 maggio del 2010) c’era anche Karima El Mahroug, in arte Ruby Rubacuori, non ancora 18enne. La ragazza marocchina, in base all’ipotesi accusatoria, sarebbe stata scelta da Fede nel settembre del 2009 dopo un concorso di bellezza in Sicilia, a Taormina, dove lei era tra le partecipanti e l’ex direttore del Tg4 uno dei componenti della giuria. Secondo le indagini, andò ad Arcore la prima volta accompagnata da Fede con una macchina messa a disposizione da Mora. Per i pm, però, ciascuno dei tre imputati, in quello che è stato chiamato “sistema prostitutivo”, aveva un ruolo ben preciso. Lele Mora “individuava e selezionava”, anche insieme a Emilio Fede, “giovani donne disposte a prostituirsi” nella residenza dell’ex capo del Governo scegliendole in alcuni casi “tra le ragazze legate per motivi professionali all’agenzia operante nel mondo dello spettacolo” gestita dall’ex agente dei vip. Inoltre Mora, come Fede, “organizzava” in alcune occasioni “l’accompagnamento da Milano ad Arcore” di alcune delle invitate alla serate “mettendo a disposizione le proprie autovetture”, con tanto di autista. I pm in requisitoria hanno paragonato Mora e Fede ad “assaggiatori di vini pregiati”, perché valutavano la gradevolezza estetica delle ragazze e le sottoponevano a “un minimo esame di presentabilità socio-relazionale”, prima di immetterle nel “circuito” delle cene. Nicole Minetti, invece, avrebbe fatto da intermediaria per i compensi alle ragazze – in genere girati dal ragionier Giuseppe Spinelli, allora fiduciario e “ufficiale pagatore” per conto del leader del Pdl – che consistevano “nella concessione in comodato d’uso” degli appartamenti nel residence di via Olgettina e “in contributi economici” per il loro mantenimento o addirittura per il pagamento delle utenze di casa o delle spese mediche fino agli interventi di chirurgia estetica.

Il rischio di una sentenza che smentisse quella inflitta a Berlusconi è stato dunque scongiurato: e di fatto la sentenza del 19 luglio 2013 e quella che del 24 giugno 2013 rifilò sette anni di carcere anche al Cavaliere si sorreggono a vicenda. Chiamati a valutare sostanzialmente il medesimo quadro di prove, di testimonianze, di intercettazioni, due tribunali composti da giudici diversi approdano alle stesse conclusioni. Vengono credute le ragazze che hanno parlato di festini hard. E non vengono credute le altre, Ruby in testa, che proprio nell’aula di questo processo venne a negare di avere mai subito avances sessuali da parte di Berlusconi.  La testimonianza di Ruby viene trasmessa insieme a quella di altri testimoni alla procura perché proceda per falso, insieme a quella di molti altri testimoni. I giudici, come già successo nel processo principale, hanno trasmesso gli atti alla Procura perché valutino le dichiarazioni di 33 testimoni della difesa compresa la stessa Ruby; disposta la trasmissione degli atti anche per lo stesso Silvio Berlusconi e dei suoi avvocati: Niccolò Ghedini e Piero Longo per violazione delle indagini difensive. Il 6-7 ottobre 2010 (prima che scoppiasse lo scandalo) e il 15 gennaio 2011 (il giorno dopo l’avviso di garanzia al Cavaliere) alcune ragazze furono convocate ad Arcore, senza dimenticare l’interrogatorio fantasma fatto a Karima. Durante le perquisizioni in casa di alcune Olgettine erano stati trovati verbali difensivi già compilati. Vengono trasmessi gli atti alla procura anche perché proceda nei confronti di Silvio Berlusconi e dei suoi difensori Niccolò Ghedini e Piero Longo, verificando se attraverso l'avvocato Luca Giuliante abbiano tentato di addomesticare la testimonianza di Ruby. In particolare la Procura dovrà valutare la posizione, al termine del processo di primo grado «Ruby bis» non solo per Silvio Berlusconi, i suoi legali e Ruby, ma anche per altre ventinove persone. Tra queste, ci sono numerose ragazze ospiti ad Arcore che hanno testimoniato, tra le quali: Iris Berardi e Barbara Guerra (che all'ultimo momento avevano ritirato la costituzione di parte civile) e Alessandra Sorcinelli. Il tribunale ha disposto la trasmissione degli atti alla Procura della Repubblica anche per il primo avvocato di Ruby, Luca Giuliante. «Inviare gli atti a fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e i suoi difensori è davvero surreale». Lo affermano i legali di Berlusconi, Niccolò Ghedini e Piero Longo, in merito alla decisione dei giudici di Milano di trasmettere gli atti alla procura in relazione alla violazione delle indagini difensive. «Quando si cerca di esplicare il proprio mandato defensionale in modo completo, e opponendosi ad eventuali prevaricazioni, a Milano possono verificarsi le situazioni più straordinarie» proseguono i due avvocati. E ancora: «La decisione del Tribunale di Milano nel processo cosiddetto Ruby bis di inviare gli atti per tutti i testimoni che contrastavano la tesi accusatoria già fa ben comprendere l'atteggiamento del giudicante. Ma inviare gli atti ai fini di indagini anche per il presidente Berlusconi e per i suoi difensori è davvero surreale. Come è noto nè il presidente Berlusconi nè i suoi difensori hanno reso testimonianza in quel processo. Evidentemente si è ipotizzato che vi sarebbe stata attività penalmente rilevante in ordine alle esperite indagini difensive. Ciò è davvero assurdo».

La sentenza è stata pronunciata dal giudice Annamaria Gatto. Ad assistere all'udienza anche per il Ruby 2, in giacca e cravatta questa volta e non in toga, anche il procuratore Edmondo Bruti Liberati, che anche in questo caso, come nel processo a Berlusconi, ha voluto rivendicare in questo modo all'intera Procura la paternità dell'inchiesta Ruby. Il collegio presieduto da Anna Maria Gatto e composto da Paola Pendino e Manuela Cannavale è formato da sole donne. Giudici donne come quelle del collegio del processo principale formato dai giudici Orsola De Cristofaro, Carmela D'Elia e dal presidente Giulia Turri. Anche la Turri, come la Gatto, ha deciso anche di rinviare al pm le carte per valutare l'eventuale falsa testimonianza per le dichiarazioni rese in aula da 33 testi: una lunga serie di testimoni che hanno sfilato davanti alla corte.

TOGHE ROSA

Dici donna e dici danno, anzi, "condanno".

È il sistema automatico che porta il nome di una donna, Giada (Gestione informatica assegnazioni dibattimentali) che ha affidato il caso della minorenne Karima el Mahroug, detta Ruby Rubacuori, proprio a quelle tre toghe. Che un processo possa finire a un collegio tutto femminile non è una stranezza, come gridano i falchi del Pdl che dopo troppi fantomatici complotti rossi ora accusano la trama rosa: è solo il segno dell'evoluzione storica di una professione che fino a 50 anni fa era solo maschile. Tra i giudici del tribunale di Milano oggi si contano 144 donne e 78 uomini: quasi il doppio.

Donna è anche Ilda Boccassini, che rappresentava l’accusa contro Berlusconi. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: "Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine". «E' una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo - ha proseguito la Boccassini -  ha accomunato la minore "con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate - afferma il pm - si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo».

Dovesse mai essere fermata un'altra Ruby, se ne occuperebbe lei. Il quadro in rosa a tinta forte si completa con il gip Cristina Di Censo, a cui il computer giudiziario ha affidato l'incarico di rinviare a "giudizio immediato" Berlusconi, dopo averle fatto convalidare l'arresto di Massimo Tartaglia, il folle che nel 2010 lo ferì al volto con una statuetta del Duomo. Per capirne la filosofia forse basta la risposta di una importante giudice di Milano a una domanda sulla personalità di queste colleghe: «La persona del magistrato non ha alcuna importanza: contano solo le sentenze. È per questo che indossiamo la toga».

Donna di carattere anche Annamaria Fiorillo, il magistrato dei minori che, convocata dal tribunale, ha giurato di non aver mai autorizzato l'affidamento della minorenne Ruby alla consigliera regionale del Pdl Nicole Minetti e tantomeno alla prostituta brasiliana Michelle Conceicao. Per aver smentito l'opposta versione accreditata dall'allora ministro Roberto Maroni, la pm si è vista censurare dal Csm per "violazione del riserbo".

Ruby 2, chi sono le tre giudicesse che hanno condannato Mora, Fede e la Minetti, e trasmesso gli atti per far condannare Berlusconi, i suoi avvocati e tutti i suoi testimoni? Anna Maria Gatto, Paola Pendino e Manuela Cannavale. Si assomigliano molto anche nel look alle loro colleghe del Ruby 1.

Anna Maria Gatto si ricorda per una battuta. La testimone Lisa Barizonte, sentita in aula, rievoca le confidenze tra lei e Karima El Mahrough, alias Ruby. In particolare il giudice le chiede di un incidente con l’olio bollente. La teste conferma: “Mi disse che lo zio le fece cadere addosso una pentola di olio bollente”. “Chi era lo zio? Mubarak?”, chiede Anna Maria Gatto strappando un sorriso ai presenti in aula. Ironia che punta dritta al centro dello scandalo. La teste, sottovoce, risponde: “No, non l’ha detto”. Annamaria Gatto, presidente della quinta sezione penale, è il giudice che, tra le altre cose, condannò in primo grado a 2 anni l'ex ministro Aldo Brancher per ricettazione e appropriazione indebita, nell'ambito di uno stralcio dell'inchiesta sulla tentata scalata ad Antonveneta da parte di Bpi.

Manuela Cannavale, invece, ha fatto parte del collegio che nel 2008 ha condannato in primo grado a tre anni di reclusione l'ex ministro della Sanità Girolamo Sirchia.

Paola Pendino è stata invece in passato membro della Sezione Autonoma Misure di Prevenzione di Milano, e si è occupata anche di Mohammed Daki, il marocchino che era stato assolto dall'accusa di terrorismo internazionale dal giudice Clementina Forleo.

Ruby 1, chi sono le tre giudichesse che hanno condannato Berlusconi?

Giulia Turri, Carmen D’Elia e Orsola De Cristofaro: sono i nomi dei tre giudici che hanno firmato la sentenza di condanna di Berlusconi a sette anni. La loro foto sta facendo il giro del web e tra numerosi commenti di stima e complimenti, spunta anche qualche offesa (perfino dal carattere piuttosto personale). L’aggettivo più ricorrente, inteso chiaramente in senso dispregiativo, è quello di “comuniste”. Federica De Pasquale le ha definite “il peggior esempio di femminismo” arrivando ad ipotizzare per loro il reato di stalking. Ma su twitter qualche elettore del Pdl non ha esitato a definirle come “represse” soppesandone il valore professionale con l’aspetto fisico e definendole “quasi più brutte della Bindi”. Ma cosa conta se il giudice è uomo/donna, bello/brutto?

Condanna a Berlusconi: giudici uomini sarebbero stati più clementi? Ma per qualcuno il problema non è tanto che si trattasse di “toghe rosse” quanto piuttosto di “giudici rosa”. Libero intitola l’articolo sulla sentenza di condanna alle “giudichesse”, sottolineando con un femminile forzato di questo sostantivo la natura di genere della condanna e quasi a suggerire che se i giudici fossero stati uomini la sentenza sarebbe stata diversa da quella che il giornale definisce “castrazione” e “ergastolo politico” del Cav. La natura rosa del collegio quindi avrebbe influenzato l’esito del giudizio a causa di un “dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi”. Eppure è lo stesso curriculum dei giudici interessati, sintetizzato sempre da Libero, a confermare la preparazione e la competenza delle tre toghe a giudicare con lucidità in casi di grande impatto mediatico.

Giulia Turri è nota come il giudice che nel marzo del 2007 firmò l’ordinanza di arresto per Fabrizio Corona ma è anche la stessa che ha giudicato in qualità di gup due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro e che, nel 2010, ha disposto l’arresto di cinque persone nell’ambito dell’inchiesta su un giro di tangenti e droga che ha coinvolto la movida milanese, e in particolare le note discoteche Hollywood e The Club.

Orsola De Cristofaro è stata giudice a latere nel processo che si è concluso con la condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l’ex primario di chirurgia toracica, nell’ambito dell’inchiesta sulla clinica Santa Rita.

Carmen D’Elia si è già trovata faccia a faccia con Berlusconi in tribunale: ha fatto infatti parte del collegio di giudici del processo Sme in cui era imputato.

A condannare Berlusconi sono state tre donne: la Turri, la De Cristofaro e la D'Elia che già lo aveva processato per la Sme. La presentazione è fatta da “Libero Quotidiano” con un articolo del 24 giugno 2013. A condannare Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione e all'interdizione a vita dai pubblici uffici nel primo grado del processo Ruby sono state tre toghe rosa. Tre giudichesse che hanno propeso per una sentenza pesantissima, ancor peggiore delle richieste di Ilda Boccassini. Una sentenza con cui si cerca la "castrazione" e l'"ergastolo politico" del Cav. Il collegio giudicante della quarta sezione penale del Tribunale di Milano che è entrato a gamba tesa contro il governo Letta e contro la vita democratica italiana era interamente composto da donne, tanto che alcuni avevano storto il naso pensando che la matrice "rosa" del collegio avrebbe potuto avere il dente avvelenato in un caso così discusso e pruriginoso. Un dente avvelenato che ha puntualmente azzannato Berlusconi.

A presiedere il collegio è stata Giulia Turri, arrivata in Tribunale dall'ufficio gip qualche mese prima del 6 aprile 2011, giorno dell'apertura del dibattimento. Come gup ha giudicato due degli assassini del finanziere Gian Mario Roveraro, sequestrato e ucciso nel 2006, pronunciando due condanne, una all'ergastolo e una a 30 anni. Nel marzo del 2007 firmò l'ordinanza di arresto per il "fotografo dei vip" Fabrizio Corona, e nel novembre del 2008 ha rinviato a giudizio l'ex consulente Fininvest e deputato del Pdl Massimo Maria Berruti. Uno degli ultimi suoi provvedimenti come gip, e che è salito alla ribalta della cronaca, risale al luglio 2010: l'arresto di cinque persone coinvolte nell'inchiesta su un presunto giro di tangenti e droga nel mondo della movida milanese, e in particolare nelle discoteche Hollywood e The Club, gli stessi locali frequentati da alcune delle ragazze ospiti delle serate ad Arcore e che sono sfilate in aula. 

La seconda giudichessa è stata Orsola De Cristofaro, con un passato da pm e gip, che è stata giudice a latere nel processo che ha portato alla condanna a quindici anni e mezzo di carcere per Pier Paolo Brega Massone, l'ex primario di chirurgia toracica, imputato con altri medici per il caso della clinica Santa Rita e che proprio sabato scorso si è visto in pratica confermare la condanna sebbene con una lieve diminuzione per via della prescrizioni di alcuni casi di lesioni su pazienti. 

Carmen D'Elia invece è un volto noto nei procedimenti contro il Cavaliere: nel 2002, ha fatto parte parte del collegio di giudici del processo Sme che vedeva come imputato, tra gli altri, proprio Silvio Berlusconi. Dopo che la posizione del premier venne stralciata - per lui ci fu un procedimento autonomo - insieme a Guido Brambilla e a Luisa Ponti, il 22 novembre 2003 pronunciò la sentenza di condanna in primo grado a 5 anni per Cesare Previti e per gli altri imputati, tra cui Renato Squillante e Attilio Pacifico. Inoltre è stata giudice nel processo sulla truffa dei derivati al Comune di Milano.

Donna è anche Patrizia Todisco del caso Taranto. Ed è lo stesso “Libero Quotidiano” che la presenta con un articolo del 13 agosto 2012. Patrizia Todisco, gip: la zitella rossa che licenzia 11mila operai Ilva.

Patrizia Todisco, il giudice per le indagini preliminari che sabato 11 agosto ha corretto il tiro rispetto alla decisione del Tribunale di Riesame decidendo di fermare la produzione dell'area a caldo dell'Ilva si Taranto lasciando quindi a casa 11mila operai, è molto conosciuta a Palazzo di giustizia per la sua durezza. Una rigorosa, i suoi nemici dicono "rigida", una a cui gli avvocati che la conoscono bene non osano avvicinarsi neanche per annunciare la presentazione di un'istanza. Il gip è nata a Taranto, ha 49 anni, i capelli rossi, gli occhiali da intellettuale, non è sposata, non ha figli e ha una fama di "durissima". Come scrive il Corriere della Sera, è una donna che non si fermerà davanti alle reazioni alla sua decisione che non si aspetta né la difesa della procura tarantina né di quella generale che sulle ultime ordinanze non ha aperto bocca. Patrizia Todisco è entrata in magistratura 19 anni fa, e non si è mai spostata dal Palazzo di giustizia di Taranto, non si è mai occupata dell'Ilva dove sua sorella ha lavorato come segretaria della direzione fino al 2009. Non si è mai occupata del disastro ambientale dell'Ilva ma, vivendo da sempre  a Taranto, ha osservato da lontano il profilo delle ciminiere che hanno dato lavoro e morte ai cittadini. La sua carriera è cominciata al Tribunale per i minorenni, poi si si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata e corruzione. Rigorosissima nell'applicazione del diritto, intollerante verso gli avvocati che arrivano in ritardo, mai tenera con nessuno. Sempre il Corriere ricorda quella volta che, davanti a un ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità. Fu assolto, come come dice un avvocato "lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali". 

Ma anche Giusi Fasano per "Il Corriere della Sera" ne dà una definizione. Patrizia va alla guerra. Sola. Gli articoli del codice penale sono i suoi soldati e il rumore dell'esercito «avversario» finora non l'ha minimamente spaventata. «Io faccio il giudice, mi occupo di reati...» è la sua filosofia. Il presidente della Repubblica, il Papa, il ministro dell'Ambiente, il presidente della Regione, i sindacati, il Pd, il Pdl... L'Ilva è argomento di tutti. Da ieri anche del ministro Severino, che ha chiesto l'acquisizione degli atti, e del premier Mario Monti che vuole i ministri di Giustizia, Ambiente e Sviluppo a Taranto il 17 agosto, per incontrare il procuratore della Repubblica. Anna Patrizia Todisco «ha le spalle grosse per sopportare anche questa» giura chi la conosce. Ha deciso che l'Ilva non deve produrre e che Ferrante va rimosso? Andrà fino in fondo. Non è donna da farsi scoraggiare da niente e da nessuno: così dicono di lei. E nemmeno si aspetta la difesa a spada tratta della procura tarantina o di quella generale che sulle ultime ordinanze, comunque, non hanno aperto bocca. Ieri sera alle otto il procuratore generale Giuseppe Vignola, in Grecia in vacanza, ha preferito non commentare gli interventi del ministro Severino e del premier Monti «perché non ho alcuna notizia di prima mano e non me la sento di prendere posizione». È stato un prudente «no comment» anche per il procuratore capo di Taranto Franco Sebastio. Nessuna affermazione. Che vuol dire allo stesso tempo nessuna presa di posizione contro o a favore della collega Todisco. Quasi un modo per studiare se prenderne o no le distanze. Lei, classe 1963, né sposata né figli, lavora e segue tutto in silenzio. La rossa Todisco (e parliamo del colore dei capelli) è cresciuta a pane e codici da quando diciannove anni fa entrò nella magistratura scegliendo e rimanendo sempre nel Palazzo di giustizia di Taranto. Dei tanti procedimenti aperti sull'Ilva finora non ne aveva seguito nessuno. Il mostro d'acciaio dove sua sorella ha lavorato fino al 2009 come segretaria della direzione, lo ha sempre osservato da lontano. Non troppo lontano, visto che è nata e vive a pochi chilometri dal profilo delle ciminiere che dev'esserle quantomeno familiare. Il giudice Todisco non è una persona riservata. Di più. E ovviamente è allergica ai giornalisti. «Non si dispiaccia, proprio non ho niente da dire» è stata la sola cosa uscita dalle sue labbra all'incrocio delle scale che collegano il suo piano terra con il terzo, dov'è la procura. Lei non parla, ma i suoi provvedimenti dicono di lei. Di quel «rigore giuridico perfetto» descritto con ammirazione dai colleghi magistrati, o dell'interpretazione meno benevola di tanti avvocati: «Una dura oltremisura, rigida che più non si può». Soltanto un legale che non la conosce bene potrebbe avvicinarla al bar del tribunale per dirle cose tipo «volevo parlarle di quell'istanza che vorrei presentare...». Nemmeno il tempo di finire la frase. «Non c'è da parlare, avvocato. Lei la presenti e poi la valuterò». E che dire dei ritardi in aula? La sua pazienza dura qualche minuto, poi si comincia, e poco importa se l'avvocatone sta per arrivare, come spiega inutilmente il tirocinante. Istanza motivata o niente da fare: si parte senza il principe del foro. La carriera di Patrizia Todisco è cominciata nel più delicato dei settori: i minorenni, poi fra i giudici del tribunale e infine all'ufficio gip dove si è occupata di violenze sessuali, criminalità organizzata, corruzione. Qualcuno ricorda che la giovane dottoressa Todisco una volta fece marcia indietro su un suo provvedimento, un bimbetto di cinque anni che aveva tolto alla famiglia per presunti maltrattamenti. Una perizia medica dimostrò che i maltrattamenti non c'entravano e lei si rimangiò l'ordinanza. Mai tenera con nessuno. Nemmeno con il ragazzino che aveva rubato un pezzo di formaggio dal frigorifero di una comunità: «alla fine fu assolto» racconta l'avvocato «ma lo fece così nero da farlo sentire il peggiore dei criminali».

Donne sono anche le giudici del caso Scazzi. Quelle del tutti dentro anche i testimoni della difesa e del fuori onda. «Bisogna un po' vedere, no, come imposteranno...potrebbe essere mors tua vita mea». È lo scambio di opinioni tra il presidente della Corte d'assise di Taranto, Rina Trunfio, e il giudice a latere Fulvia Misserini. La conversazione risale al 19 marzo ed è stata registrata dai microfoni delle telecamere «autorizzate a filmare l'udienza». Il presidente della corte, tra l'altro, afferma: «Certo vorrei sapere se le due posizioni sono collegate. Quindi bisogna vedere se si sono coordinati tra loro e se si daranno l'uno addosso all'altro»; il giudice a latere risponde: «Ah, sicuramente». Infine il presidente conclude: «(Non è che) negheranno in radice».

Donne sono anche le giudici coinvolte nel caso Vendola. Susanna De Felice, il magistrato fu al centro delle polemiche dopo che i due magistrati che rappresentavano l'accusa nel processo a Vendola, Desirée Digeronimo (trasferita alla procura di Roma) e Francesco Bretone, dopo l'assoluzione del politico (per il quale avevano chiesto la condanna a 20 mesi di reclusione) inviarono un esposto al procuratore generale di Bari e al capo del loro ufficio segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore, Patrizia.

Donna è anche il giudice che ha condannato Raffaele Fitto. Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta. Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole.

Donna è anche Rita Romano, giudice di Taranto che è stata denunciata da Antonio Giangrande, lo scrittore autore di decine di libri/inchieste, e da questa denunciato perchè lo scrittore ha chiesto la ricusazione del giudice criticato per quei processi in cui questa giudice doveva giudicarlo. La Romano ha condannato la sorella del Giangrande che si proclamava estranea ad un sinistro di cui era accusata di essere responsabile esclusiva, così come nei fatti è emerso, e per questo la sorella del Giangrande aveva denunciato l'avvocato, che aveva promosso i giudizi di risarcimento danni. Avvocato, molto amica di un pubblico ministero del Foro. La Romano ha condannato chi si professava innocente e rinviato gli atti per falsa testimonianza per la sua testimone.

E poi giudice donna è per il processo………

E dire che la Nicole Minetti ebbe a dire «Ovvio che avrei preferito evitarlo, ma visto che ci sarà sono certa che riuscirò a chiarire la mia posizione e a dimostrare la mia innocenza. Da donna mi auguro che a giudicarmi sia un collegio di donne o per lo meno a maggioranza femminile». Perché, non si fida degli uomini? «Le donne riuscirebbero a capire di più la mia estraneità ai fatti. Le donne hanno una sensibilità diversa».

Quello che appare accomunare tutte queste donne giudice è, senza fini diffamatori, che non sono donne normali, ma sono donne in carriera. Il lavoro, innanzi tutto, la famiglia è un bisogno eventuale. E senza famiglia esse sono. Solo la carriera per esse vale e le condanne sono una funzione ausiliare e necessaria, altrimenti che ci stanno a fare: per assolvere?!?

Ma quanti sono le giudici donna? A questa domanda risponde Gabriella Luccioli dal sito Donne Magistrato. La presenza delle donne nella Magistratura Italiana.

L'ammissione delle donne all'esercizio delle funzioni giurisdizionali in Italia ha segnato il traguardo di un cammino lungo e pieno di ostacoli. Come è noto, l'art. 7 della legge 17 luglio 1919 n. 1176 ammetteva le donne all'esercizio delle professioni ed agli impieghi pubblici, ma le escludeva espressamente dall'esercizio della giurisdizione. L'art. 8 dell'ordinamento giudiziario del 1941 poneva quali requisiti per accedere alle funzioni giudiziarie “essere cittadino italiano, di razza ariana, di sesso maschile ed iscritto al P.N.F.". Pochi  anni dopo, il dibattito in seno all’Assemblea Costituente circa l’accesso delle donne alla magistratura fu ampio e vivace ed in numerosi interventi chiaramente rivelatore delle antiche paure che la figura della donna magistrato continuava a suscitare: da voci autorevoli si sostenne che “nella donna prevale il sentimento sul raziocinio, mentre nella funzione del giudice deve prevalere il raziocinio sul sentimento” (on. Cappi); che “ soprattutto per i motivi addotti dalla scuola di Charcot riguardanti il complesso anatomo-fisiologico la donna non può giudicare” (on. Codacci); si ebbe inoltre cura di precisare che “non si intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile” (on. Molè). Più articolate furono le dichiarazioni dell’onorevole Leone, il quale affermò: “Si ritiene che la partecipazione illimitata delle donne alla funzione giurisdizionale non sia per ora da ammettersi. Che la donna possa partecipare con profitto là dove può far sentire le qualità che le derivano dalla sua sensibilità e dalla sua femminilità, non può essere negato. Ma negli alti gradi della magistratura, dove bisogna arrivare alla rarefazione del tecnicismo, è da ritenere che solo gli uomini possono mantenere quell’equilibrio di preparazione che più corrisponde per tradizione a queste funzioni”; e che pertanto alle donne poteva essere consentito giudicare soltanto in quei procedimenti per i quali era maggiormente avvertita la necessità di una presenza femminile, in quanto richiedevano un giudizio il più possibile conforme alla coscienza popolare. Si scelse infine di mantenere il silenzio sulla specifica questione della partecipazione delle donne alle funzioni giurisdizionali, stabilendo all’art. 51 che “tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Si intendeva in tal modo consentire al legislatore ordinario di prevedere il genere maschile tra i requisiti per l’esercizio delle funzioni giurisdizionali, in deroga al principio dell’eguaglianza tra i sessi, e ciò ritardò fortemente l’ingresso delle donne in magistratura. Solo con la legge 27 dicembre 1956 n. 1441 fu permesso alle donne di far parte nei collegi di corte di assise, con la precisazione che almeno tre giudici dovessero essere uomini. La legittimità costituzionale di tale disposizione fu riconosciuta dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 56 del 1958, nella quale si affermò che ben poteva la legge “ tener conto, nell’interesse dei pubblici servizi, delle differenti attitudini proprie degli appartenenti a ciascun sesso, purchè non fosse infranto il canone fondamentale dell’eguaglianza giuridica”. Fu necessario aspettare quindici anni dall’entrata in vigore della Carta fondamentale perchè il Parlamento - peraltro direttamente sollecitato dalla pronuncia della Corte Costituzionale n. 33 del 1960, che aveva dichiarato parzialmente illegittimo il richiamato art. 7 della legge n. 1176 del 1919, nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici pubblici che implicavano l’esercizio di diritti e di potestà politiche  - approvasse una normativa specifica, la legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì l' accesso delle donne a tutte le cariche, professioni ed impieghi pubblici,  compresa la magistratura. Dall'entrata in vigore della Costituzione si erano svolti ben sedici concorsi per uditore giudiziario, con un totale di 3127 vincitori, dai quali le donne erano state indebitamente escluse. Con decreto ministeriale del 3 maggio 1963 fu bandito il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne: otto di loro risultarono vincitrici e con d.m. 5 aprile del 1965 entrarono nel ruolo della magistratura. Da quel primo concorso l’accesso delle donne nell’ordine giudiziario ha registrato nel primo periodo dimensioni modeste, pari ad una media del 4% -5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente  intorno al 10% -20%“ dopo gli anni ’70, al 30% - 40% negli anni ’80 e registrare un’impennata negli anni successivi, sino a superare ormai da tempo ampiamente la metà. Attualmente le donne presenti in magistratura sono 3788, per una percentuale superiore al 40% del totale, e ben presto costituiranno  maggioranza, se continuerà il trend che vede le donne vincitrici di concorso in numero di gran lunga superiore a quello degli uomini. Come è evidente, tale fenomeno è reso possibile dal regime di assunzione per concorso pubblico, tale da escludere qualsiasi forma di discriminazione di genere; esso è inoltre alimentato dalla presenza sempre più marcata delle studentesse nelle facoltà di giurisprudenza, superiore a quello degli uomini. Dal primo concorso ad oggi il profilo professionale delle donne magistrato è certamente cambiato. Alle prime generazioni fu inevitabile, almeno inizialmente, omologare totalmente il proprio ideale di giudice all’unico modello professionale di riferimento ed integrarsi in quel sistema declinato unicamente al maschile  attraverso un processo di completa imitazione ed introiezione di tale modello, quale passaggio necessario per ottenere una piena legittimazione. Ma ben presto, una volta pagato per intero il prezzo della loro ammissione, superando la prova che si richiedeva loro di essere brave quanto gli uomini, efficienti quanto gli uomini, simili il più possibile agli uomini, e spesso vivendo in modo colpevolizzante i tempi della gravidanza e della maternità come tempi sottratti all’attività professionale, si pose alle donne magistrato il dilemma se continuare in una assunzione totale del modello dato, di per sé immune da rischi e collaudata da anni di conquistate gratificazioni, o tentare il recupero di una identità complessa,  tracciando  un approccio al lavoro, uno stile, un linguaggio, delle regole comportamentali sulle quali costruire una figura professionale di magistrato al femminile.

Certo che a parlar male di loro si rischia grosso. Ma i giornalisti questo coraggio ce l’hanno?

Certo che no! Per fare vero giornalismo forse è meglio non essere giornalisti.

PARLIAMO DEI BRAVI CHE NON POSSONO ESERCITARE, EPPURE ESERCITANO.

Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale. Milena Gabanelli intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Tornando al caso Ruby, logica vorrebbe che chi ha avuto la fortuna nella vita di fare tanti soldi dovrebbe sistemare innanzi tutto i propri figli. Fatto ciò, dovrebbe divertirsi e godersi la vita e se, altruista, fare beneficenza.

Bene.  L’assurdità di un modo di ragionare sinistroide ed invidioso, perverso e squilibrato, pretenderebbe (e di fatto fa di tutto per attuarlo) che per i ricchi dovrebbe valere la redistribuzione forzosa della loro ricchezza agli altri (meglio se sinistri)  e se a questo vi si accomuna un certo tipo di divertimento, allora vi è meretricio. In questo caso non opera più la beneficenza volontaria, ma scatta l’espropriazione proletaria.

Una cosa è certa. In questa Italia di m….. le tasse aumentano, cosi come le sanguisughe. I disservizi e le ingiustizie furoreggiano. Ma allora dove cazzo vanno a finire i nostri soldi se è vero, come è vero, che sono ancora di più gli italiani che oltre essere vilipesi, muoiono di fame? Aumenta in un anno l’incidenza della povertà assoluta in Italia. Come certifica l’Istat, le persone in povertà assoluta passano dal 5,7% della popolazione del 2011 all’8% del 2012, un record dal 2005. È quanto rileva il report «La povertà in Italia», secondo cui nel nostro Paese sono 9 milioni 563 mila le persone in povertà relativa, pari al 15,8% della popolazione. Di questi, 4 milioni e 814 mila (8%) sono i poveri assoluti, cioè che non riescono ad acquistare beni e servizi essenziali per una vita dignitosa. Una situazione accentuata soprattutto al Sud. Nel 2012 infatti quasi la metà dei poveri assoluti (2 milioni 347 mila persone) risiede nel Mezzogiorno. Erano 1 milione 828 mila nel 2011.

Ed è con questo stato di cose che ci troviamo a confrontarci quotidianamente. Ed a tutto questo certo non corrisponde un Stato efficace ed efficiente, così come ampiamente dimostrato. Anzi nonostante il costo del suo mantenimento questo Stato si dimostra incapace ed inadeguato.

Eppure ad una mancanza di servizi corrisponde una Spesa pubblica raddoppiata. E tasse locali che schizzano all'insù. Negli ultimi venti anni le imposte riconducibili alle amministrazioni locali sono aumentate da 18 a 108 miliardi di euro, «con un eccezionale incremento di oltre il 500% ». È quanto emerge da uno studio della Confcommercio in collaborazione con il Cer (Centro Europa Ricerche) che analizza le dinamiche legate al federalismo fiscale a partire dal 1992. È uno studio del Corriere della Sera a riportare al centro del dibattito la questione delle tasse locali e della pressione fiscale sugli italiani. Con una interessante intervista a Luca Antonini, presidente della Commissione sul federalismo fiscale e poi alla guida del Dipartimento delle Riforme di Palazzo Chigi, si mettono in luce le contraddizioni e il peso di “un sistema ingestibile”: “Cresce la spesa statale e cresce la spesa locale, crescono le tasse nazionali (+95% in 20 anni secondo Confcommercio) e crescono quelle locali (+500%). Così non può funzionare. Non c'è una regia, manca completamente il ruolo di coordinamento dello Stato”. Sempre dal 1992 la spesa corrente delle amministrazioni centrali (Stato e altri enti) è cresciuta del 53%. La spesa di regioni, province e comuni del 126% e quella degli enti previdenziali del 127%: il risultato è che la spesa pubblica complessiva è raddoppiata. «Per fronteggiare questa dinamica - sottolinea il dossier - si è assistito ad una esplosione del gettito derivante dalle imposte (dirette e indirette) a livello locale con un aumento del 500% a cui si è associato il sostanziale raddoppio a livello centrale. I cittadini si aspettavano uno Stato più efficiente, una riduzione degli sprechi, maggior responsabilità politica dagli amministratori locali. Non certo di veder aumentare le tasse pagate allo Stato e pure quelle versate al Comune, alla Provincia e alla Regione. E invece è successo proprio così: negli ultimi vent'anni le imposte nazionali sono raddoppiate, e i tributi locali sono aumentati addirittura cinque volte. Letteralmente esplosi. Tanto che negli ultimi dodici anni le addizionali Irpef regionali e comunali sono cresciute del 573%, ed il loro peso sui redditi è triplicato, arrivando in alcuni casi oltre il 17%.

Nonostante che i Papponi di Stato, centrali e periferici, siano mantenuti dai tartassati ecco che è clamorosa l'ennesima uscita dell'assessore Franco D'Alfonso, lo stesso che voleva proibire i gelati dopo mezzanotte ricoprendo Milano di ridicolo e che si è ripetuto in versione giacobina accusando Dolce e Gabbana di evasione fiscale a iter giudiziario non ancora concluso. Provocando i tre giorni di serrata dei nove negozi D&G di Milano. E a chi avesse solo immaginato la possibilità di rinnegarlo, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia fa subito capire che il suo vero bersaglio non è D'Alfonso e il suo calpestare il più elementare stato di diritto, ma gli stilisti offesi. «Che c'entra “Milano fai schifo”? Sono molte - va all'attacco un durissimo Pisapia - le cose che fanno schifo, ma non ho mai visto chiudere i loro negozi per le stragi, le guerre, le ingiustizie».  Ricordando che il fisco, le sue regole e le sanzioni contro le infrazioni, non sono materia di competenza del Comune. Giusto. Perché in quella Babilonia che è diventata il Comune tra registri per le coppie omosessuali, no-global che occupano e rom a cui rimborsare le case costruite abusivamente, nulla succede per caso.  Intanto, però, i negozi, i ristoranti, i bar e l'edicola di Dolce e Gabbana sono rimasti chiusi per giorni. In protesta contro le indagini della Gdf e le sentenze di condanna in primo grado del Tribunale, dopo le dichiarazioni dell'assessore al Commercio, Franco D'Alfonso, sul non «concedere spazi pubblici a marchi condannati per evasione». «Spazi mai richiesti», secondo i due stilisti, che con l'ennesimo tweet hanno rilanciato la campagna contro il Comune.

Uomini trattati da animali dai perbenisti di maniera. Politici inetti, incapaci ed ipocriti che si danno alla zoologia.

Anatra – Alla politica interessa solo se è zoppa. Una maggioranza senza maggioranza.

Asino – Simbolo dei democrat Usa. In Italia ci provò Prodi con risultati scarsi.

Balena – La b. bianca fu la Dc. La sua estremità posteriore è rimasta destinazione da augurio.

Caimano – Tra le definizioni correnti di Berlusconi. Dovuto a un profetico film di Nanni Moretti.

Cignalum – Sistema elettorale toscano da cui, per involuzione, nacque il porcellum (v.).

Cimice – Di provenienza statunitense, di recente pare abbia invaso l’Europa.

Colomba – Le componenti più disponibili al dialogo con gli avversari. Volatili.

Coccodrillo – Chi piange sul latte versato. Anche articolo di commemorazione redatto pre-mortem.

Delfino – Destinato alla successione. Spesso è un mistero: a oggi non si sa chi sia il d. del caimano (v.).

Elefante – Simbolo dei republican Usa. L’e. rosso fu il Pci. La politica si muove “Come un e. in una cristalleria”.

Falco – Le componenti meno disponibili al dialogo con gli avversari. Amano le picchiate.

Gambero – Il suo passo viene evocato quando si parla della nostra economia.

Gattopardo – Da Tomasi di Lampedusa in poi segno dell’immutabilità della politica. Sempre attuale.

Giaguaro – Ci fu un tentativo di smacchiarlo. Con esiti assai deludenti.

Grillo – Il primo fu quello di Pinocchio. L’attuale, però, dice molte più parolacce.

Gufo – Uno che spera che non vincano né i falchi né le colombe.

Orango – L’inventore del Porcellum (vedi Roberto Calderoli Cecile Kyenge) ne ha fatto un uso ributtante confermandosi uomo bestiale.

Piccione – Di recente evocato per sé, come obiettivo di tiro libero, da chi disprezzò il tacchino (v.).

Porcellum – Una porcata di sistema elettorale che tutti vogliono abolire, ma è sempre lì.

Pitonessa – Coniato specificatamente per Daniela Santanchè. Sinuosa e infida, direi.

Struzzo - Chi non vuol vedere e mette la testa nella sabbia. Un esercito.

Tacchino – Immaginato su un tetto da Bersani, rischiò di eclissare il giaguaro.

Tartaruga – La t. un tempo fu un animale che correva a testa in giù. Ora dà il passo alla ripresa.

Ed a proposito di ingiustizia e “canili umani”. La presidente della Camera, Laura Boldrini, il 22 luglio 2013 durante la visita ai detenuti del carcere di Regina Coeli, ha detto: «Il sovraffollamento delle carceri non è più tollerabile, spero che Governo e Parlamento possano dare una risposta di dignità ai detenuti e a chi lavora. Ritengo che sia importante tenere alta l’attenzione sull’emergenza carceri e sono qui proprio per dare attenzione a questo tema, la situazione delle carceri è la cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese. La certezza del diritto è fondamentale: chi ha sbagliato deve pagare, non chiediamo sconti, ma è giusto che chi entra in carcere possa uscire migliore, è giusto che ci sia la rieducazione e in una situazione di sovraffollamento è difficile rieducare perché non si fa altro che tirare fuori il peggio dell’essere umano e non il meglio. Nel codice non c’è scritto che un’ulteriore pena debba essere quella del sovraffollamento. Costruire nuove strutture è complicato perché non ci sono risorse ma in alcuni carceri ci sono padiglioni non utilizzati e con un po’ di fondi sarebbe possibile renderli agibili. In più bisogna mettere in atto misure alternative e considerare le misure di custodia cautelare perché il 40% dei detenuti non ha una condanna definitiva. Bisogna ripensare, rivedere il sistema di custodia cautelare. Perché se quelle persone sono innocenti, il danno è irreparabile». «Dignità, dignità». Applaudono e urlano, i detenuti della terza sezione del carcere di Regina Coeli quando vedono arrivare il presidente della Camera Laura Boldrini, in visita ufficiale al carcere romano che ha una capienza di 725 unità e ospita, invece, più di mille persone. Urlano i detenuti per invocare «giustizia e libertà» che il sovraffollamento preclude non solo a loro, ma anche agli agenti di polizia penitenziaria costretti a turni insostenibili (a volte «c'è un solo agente per tre piani, per circa 250 detenuti» confessa un dipendente). “Vogliamo giustizia, libertà e dignità”, sono queste invece le parole che hanno intonato i detenuti durante la visita della Boldrini. I detenuti nell'incontro con il presidente della Camera hanno voluto sottolineare che cosa significa in concreto sovraffollamento: "Secondo la Corte europea di Giustizia ", ha detto uno di loro "ogni detenuto ha diritto a otto metri quadri di spazio, esclusi bagno e cucina. Noi abbiamo 17 metri quadri per tre detenuti, in letti a castello con materassi di gomma piuma che si sbriciolano e portano l'orma di migliaia di detenuti. Anche le strutture ricreative sono state ridotte a luoghi di detenzione. Questo non è un carcere ma un magazzino di carne umana". E' stata la seconda visita a un istituto carcerario italiano per Laura Boldrini da quando è diventata presidente della Camera dei deputati. A Regina Coeli, dove la capienza sarebbe di 725 detenuti, ve ne sono attualmente circa 1.050; le guardie carcerarie sono 460 ma ne sarebbero previste 614. «Ho voluto fortemente questo incontro, non avrebbe avuto senso la mia visita, sarebbe stata una farsa. Ora mi sono resa conto di persona della situazione nelle celle e condivido la vostra indignazione» ha replicato la Boldrini ai detenuti. Dici Roma, dici Italia.

Già!! La giustizia e le nostre vite in mano a chi?

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

MA CHE CAZZO DI GIUSTIZIA E’!?!?

Funziona alla grande, la giustizia in Italia, scrive Marco Ventura su Panorama. Negli ultimi tempi abbiamo assistito a punizioni esemplari, sentenze durissime nei confronti di fior di criminali. Castighi detentivi inflitti da giudici inflessibili. Due esempi per tutti. Il primo: Lele Mora e Emilio Fede condannati a 7 anni di carcere e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici per aver “presentato” Ruby a Silvio Berlusconi. Il secondo: Ottaviano Del Turco condannato a 9 anni e 6 mesi per le tangenti sulla sanità in Abruzzo, anche se i 6 milioni di mazzette non sono mai stati trovati sui conti suoi o riconducibili a lui, e anche se il suo grande accusatore ha dimostrato in diverse occasioni di non essere attendibile nell’esibire “prove” contro l’ex governatore. In compenso, per cinque imputati del processo sul naufragio della Costa Concordia (32 i morti, più incalcolabili effetti economici, d’inquinamento ambientale e d’immagine internazionale dell’Italia), sono state accettate le richieste di patteggiamento. Risultato: a fronte di accuse come omicidio plurimo colposo e lesioni colpose, ma anche procurato naufragio, i cinque ottengono condanne che variano, a seconda delle responsabilità e dei reati contestati, da 1 anno e 8 mesi a 2 anni e 10 mesi. Tutto previsto dal codice. Tutto legale. Tutto giuridicamente ineccepibile. Ma avverto un certo disagio se poi faccio confronti. Se navigo nel web e scopro che mentre l’ex direttore del Tg4, Fede, subisce la condanna a 7 anni di carcere per il caso Ruby, la stessa pena viene inflitta a un tale che abusa della figlia di 8 anni e a un altro che, imbottito di cocaina, travolge e uccide una diciottenne sulle strisce pedonali. E non trovo altri colpevoli per crimini analoghi a quelli contestati a Fede a Milano, né personaggi che abbiano pagato (o per i quali sia valsa la fatica di provare a identificarli) per complicità nella pubblicazione di intercettazioni coperte da segreto come qualcuno ben noto agli italiani, che di intercettazioni pubblicate è vittima quasi ogni giorno. E temo pure che la percezione della pubblica opinione sia molto distante dalla scala di gravità dei tribunali, almeno stando a questi casi. Un anno e 8 mesi è un quarto della pena comminata a Fede. Ho ancora nella mente, negli occhi, la scena della “Costa Concordia” coricata col suo carico di morte per l’incosciente inchino al Giglio. E ricordo il massacro dei media di tutto il mondo sull’Italietta di Schettino (l’unico per il quale non ci sarà patteggiamento e che presumibilmente pagherà per intero le sue colpe). Nei paesi anglosassoni con una tradizione marinara, colpe come quelle emerse nella vicenda “Costa Concordia” sono trattate con la gravità che meritano: la sicurezza è una priorità assoluta. Ciascuno di noi ha esperienza diretta o indiretta di come funzioni la giustizia in Italia: della sua rapidità o lentezza, della sua spietatezza o clemenza, dei suoi pesi e delle sue misure. Une, doppie, trine. La lettera della legge e delle sentenze non combacia col (buon) senso comune. Sarà un caso che la fiducia nelle toghe, in Italia, risulti ai livelli più bassi delle classifiche mondiali? 

Sul Foglio del del 24 luglio 2013 Massimo Bordin spiega bene che nel processo Del Turco la difesa ha dimostrato che in determinati giorni citati dai pm nel capo d'accusa, l'ex governatore abruzzese sicuramente non aveva potuto commettere il reato che gli era imputato. "E' vero" risponde l'accusa. Vorrà dire che cambieremo la data" Capito? Le date non corrispondono così le cambieranno, elementare. Perché Del Turco è, nella loro formazione barbarica, colpevole a prescindere. E quindi quel corpo lo vogliono, anche senza prove. Tutto per loro. Dunque, ecco a voi servita "l'indipendenza della magistratura". A me avevano insegnato che per essere indipendenti, bisogna prima esseri liberi. E per essere liberi, bisogna essere soprattutto Responsabili. A questi giudici gli si potrebbe sicuramente attribuire una certa inclinazione alla libertà, ma intesa come legittimazione a delinquere. E' vero, Del Turco non sarà Tortora. Ma il comportamento da canaglie di alcuni magistrati italiani - salvaguardato da sessant'anni da giornali e apparati - continua e continuerà ad avere, nel tempo, lo stesso tanfo di sempre. E che dire del Processo Mediaset. Un processo "assurdo e risibile", per di più costato ai contribuenti "una ventina di milioni di euro". I conti, e le valutazioni politiche, sono del Pdl che mette nero su bianco i motivi per cui "in qualunque altra sede giudiziaria, a fronte di decisioni consimili si sarebbe doverosamente ed immediatamente pervenuti ad una sentenza più che assolutoria. Ma non a Milano". "Il 'processo diritti Mediaset', così convenzionalmente denominato, è basato su una ipotesi accusatoria così assurda e risibile che in presenza di giudici non totalmente appiattiti sull'accusa e "super partes", sarebbe finito ancor prima di iniziare, con grande risparmio di tempo per i magistrati e di denaro per i contribuenti", si legge nel documento politico elaborato dal Pdl a proposito del processo "diritti Mediaset", "dopo una approfondita analisi delle carte processuali". "Basti pensare - scrive ancora il Pdl - che una sola delle molte inutili consulenze contabili ordinate dalla Procura è costata ai cittadini quasi tre milioni di euro. Non è azzardato ipotizzare che tra consulenze, rogatorie ed atti processuali questa vicenda sia già costata allo Stato una ventina di milioni di euro".

Del Turco come Tortora. Un punto di vista (di sinistra) contro la condanna dell'ex governatore Del Turco. Il caso Del Turco come il caso Tortora: Una condanna senza indizi né prove, scrive Piero Sansonetti il 23 luglio 2013 su “Gli Altri. Il problema non è quello della persecuzione politica o dell’accanimento. La persecuzione è lo spunto, ma il problema è molto più grave: se la cosiddetta “Costituzione materiale” si adatterà al metodo (chiamiamolo così) Del Turco-Minetti, la giustizia in Italia cambierà tutte le sue caratteristiche, sostituendosi allo stato di diritto. E ci rimetteranno decine di migliaia di persone. E saranno riempite le carceri di persone innocenti. Non più per persecuzione ma per “burocrazia” ed eccesso di potere. Il rischio è grandissimo perché, in qualche modo, prelude ad un salto di civiltà. Con le sentenze contro Minetti e, neppure sette giorni dopo, contro Del Turco, la magistratura ha maturato una svolta fondata su due pilastri: il primo è la totale identificazione della magistratura giudicante con la magistratura inquirente: tra le due magistrature si realizza una perfetta integrazione e collaborazione (non solo non c’è separazione delle carriere ma viene stabilita la unità e l’obbligo di lealtà e di collaborazione attiva); il secondo pilastro è la cancellazione, anzi proprio lo sradicamento del principio di presunzione di innocenza. Nel caso della Minetti (accusata di avere organizzato una festa e per questo condannata a cinque anni di carcere) al processo mancavano, più che le prove, il reato. E infatti i giudici, in assenza di delitti definibili giuridicamente, sono ricorsi al “favoreggiamento”. L’hanno condannata per aver “favorito” un festino. Nel caso di Del Turco il reato c’era, ma erano del tutto assenti le prove, e anzi – cosa più grave – i pochi indizi racimolati si sono rivelati falsi durante il processo. Non solo mancavano le prove, e persino gli indizi, ma mancava il corpo del reato. In questi casi è difficile la condanna anche in situazioni di dittatura. I giudici hanno deciso allora di usare questo nuovo principio: è vero che non ci sono né prove né indizi a carico dell’imputato, però la sua difesa ha mostrato solo indizi di innocenza e non una prova regina. E hanno stabilito che non sono consentite “assoluzioni indiziarie”, decidendo di conseguenza la condanna con una nuova formula: insufficienza di prove a discolpa. Avete presenti quei processi americani nei quali il giudice a un certo punto chiede ai giurati: “siete sicuri, oltre ogni ragionevole dubbio, della colpevolezza dell’imputato?”. In America basta che un solo giurato dica: “no, io un piccolo dubbio ce l’ho ancora…” e l’imputato è assolto. Può essere condannato solo all’unanimità e senza il più piccolo dubbio. Con Del Turco si è fatto al contrario: i giurati hanno stabilito che a qualcuno (per esempio a Travaglio) poteva essere rimasto qualche ragionevole dubbio sulla sua innocenza. E gli hanno rifilato 10 anni di carcere, come fecero una trentina d’anni fa con Enzo Tortora. Con Tortora i Pm avevano lavorato sulla base di indizi falsi o del tutto inventati. In appello Tortora fu assolto, il mondo intero si indignò, ma i pubblici ministeri non ricevettero neppur una noticina di censura e fecero delle grandi carrierone. Sarà così anche con Del Turco. Per oggi dobbiamo però assistere allo spettacolo di uno dei protagonisti della storia del movimento operaio e sindacale italiano condannato sulla base esclusivamente dell’accusa di un imprenditore che probabilmente non aveva ottenuto dalla Regione quello che voleva.

Toghe impunite e fannullone: loro il problema della giustizia. Le condanne abnormi sono ormai quotidiane: da Tortora a Del Turco, è colpa dei magistrati. Ma non si può dire. Su Libero di mercoledì 24 luglio il commento di Filippo Facci: "Toghe impunite e fannullone. Così c'è un Del Turco al giorno". Secondo Facci le condanne abnormi sono ormai quotidiane: dal caso Tortora a oggi il problema giustizia, spiega, è colpa dei magistrati. Ma è vietato dirlo. I casi Del Turco durano un giorno, ormai: scivolano subito in una noia mediatica che è generazionale. La verità è che l’emergenza giustizia e l’emergenza magistrati (ripetiamo: magistrati) non è mai stata così devastante: solo che a forza di ripeterlo ci siamo sfibrati, e l’accecante faro del caso Berlusconi ha finito per vanificare ogni battaglia. E’ inutile girarci attorno: in nessun paese civile esiste una magistratura così, una casta così, una sacralità e un’intangibilità così.

Accade, nelle carceri italiani, che persone indagate per i reati più disparati vengano sbattute in cella per obbligarle a vuotare il sacco. Accade anche che le chiavi che danno la libertà vengano dimenticate in un cassetto per settimane, se non mesi. In barba al principio di non colpevolezza fino al terzo grado di giudizio. Tanto che il carcere preventivo diventa una vera e propria tortura ad uso e consumo delle toghe politicizzate. Toghe che con tipi loschi come gli stupratori si trasformano in specchiati esempi di garantismo. No alla custodia cautelare in carcere per il reato di violenza sessuale di gruppo qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 275, comma 3, terzo periodo, del Codice di procedura penale. I «gravi indizi di colpevolezza». si legge nella motivazione, non rendono automatica la custodia in carcere. La decisione segue quanto già stabilito in relazione ad altri reati, tra cui il traffico di stupefacenti, l'omicidio, e delitti a sfondo sessuale e in materia di immigrazione. La norma “bocciata” dalla Corte Costituzionale con la sentenza n.232 depositata il 23 luglio 2013, relatore il giudice Giorgio Lattanzi, prevede che quando sussistono gravi indizi di colpevolezza per il delitto di violenza sessuale di gruppo si applica unicamente la custodia cautelare in carcere. Ora la Consulta ha stabilito che, se in relazione al caso concreto, emerga che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, il giudice può applicarle. Nella sentenza, peraltro, la Corte conferma la gravità del reato, da considerare tra quelli più «odiosi e riprovevoli». Ma la «più intensa lesione del bene della libertà sessuale», «non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata», scrive la Corte. Alla base del pronunciamento una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni la Consulta ricorda in sentenza come «la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario”: la compressione della libertà personale deve essere, pertanto, contenuta entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari del caso concreto. Ciò impegna il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma di misure alternative, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale, e, dall’altra, a prefigurare criteri per scelte “individualizzanti” del trattamento cautelare, parametrate sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete». Sul punto si era pronunciata analogamente la Corte di Cassazione nel 2012, accogliendo il ricorso di due imputati per lo stupro subìto da una minorenne a Cassino. Il Tribunale di Roma aveva confermato il carcere nell'agosto 2011, ma la Cassazione motivò così la sua decisione: «L'unica interpretazione compatibile con i principi fissati dalla sentenza 265 del 2010 della Corte Costituzionale è quella che estende la possibilità per il giudice di applicare misure diverse dalla custodia in carcere anche agli indagati sottoposti a misura cautelare per il reato previsto all'art. 609 octies c.p.». In pratica recependo il dettato della Consulta del 2010 e l'indicazione della Corte di Strasburgo.

Da questo si evince che la Corte Costituzionale se ne infischia della violenza sessuale di gruppo. Oggi le toghe hanno, infatti, deciso che gli stupratori non dovranno scontare la custodia cautelare in carcere qualora il caso concreto consenta di applicare misure alternative. Nessuna preoccupazione, da parte dei giudici costituzionalisti, che le violenze possano essere reiterate. La beffa maggiore? Nella sentenza, della Corte costituzionale le toghe si premurano di confermare la gravità del reato invitando i giudici a considerarlo tra quelli più "odiosi e riprovevoli". Non abbastanza - a quanto pare - per assicurarsi che lo stupratore non commetta più la brutale violenza di cui si macchia. "La più intensa lesione del bene della libertà sessuale - si legge nella sentenza shock redatta dalla Corte - non offre un fondamento giustificativo costituzionalmente valido al regime cautelare speciale previsto dalla norma censurata". Alla base del pronunciamento della Consulta c'è una questione di legittimità sollevata dalla sezione riesame del Tribunale di Salerno. Richiamando anche precedenti decisioni, la Consulta ricorda come la disciplina delle misure cautelari debba essere ispirata al criterio del "minore sacrificio necessario". Già nel 2010 la Corte aveva bocciato le norme in materia di misure cautelari nelle parti in cui escludevano la facoltà del giudice di decidere se applicare la custodia cautelare in carcere o un altro tipo di misura cautelare per chi ha abusato di un minore. Insomma, adesso appare chiaro che il carcere preventivo sia una misura "cautelare" pensata ad hoc per far fuori gli avversari politici. Nemmeno per gli stupratori è più prevista.

Stupro, dalla parte dei carnefici: niente carcere (per un po’) per il branco. Firmato: Corte Costituzionale, scrive Deborah Dirani su Vanity Fair. C’era una volta, 3 anni fa, a Cassino, comune ciociaro di 33 mila anime (per la maggior parte buone), una ragazzina che non aveva ancora compiuto 18 anni ed era molto graziosa. Sgambettava tra libri e primi “ti amo” sussurrati all’orecchio del grande amore, e pensava che la vita fosse bella. Pensava che il sole l’avrebbe sempre scaldata, che le avrebbe illuminato la vita ogni giorno. Non pensava che il sole potesse scomparire, che potesse tramontare e non tornare più a riscaldarle la pelle, a illuminarle la vita. Ma un giorno, un giorno di 3 anni fa, il suo sole tramontò oscurato dal buio di due ragazzi del suo paese, due che la volevano e, dato che con le buone non erano riusciti a prenderla, quel giorno scuro decisero di ricordarle che la donna è debole e l’uomo è forte. Così, quei due maschi del suo paese, la stuprarono, assieme, dandosi il cambio, a turno. Lei non voleva, lei piangeva, lottava, mordeva e graffiava con le sue unghie dipinte di smalto. Lei urlava, ci provava, perché poi quelli erano in due e si ritrovava sempre con una mano sulla bocca che la faceva tacere, che non la faceva respirare. Ma gli occhi quella ragazzina li aveva aperti a cercare quelli di quei due, a chiedere pietà, a scongiurarli di ritirarsi su i pantaloni, di uscire da lei, che le facevano male, nel cuore, più ancora che tra le gambe. Raccontano che quella ragazzina oggi non viva più nel suo paese, che quella notte sia scesa sulla sua vita e ancora non l’abbia lasciata. Raccontano che non esca di casa, che soffra di depressione e attacchi di panico. Raccontano che il suo buio sia denso come il petrolio. Raccontano che sia come un cormorano con le ali zuppe di olio nero che non può più volare. Raccontano anche che quando, a pochi mesi dal giorno più brutto della sua vita, la Corte di Cassazione ha stabilito che i suoi due stupratori non dovessero stare in custodia cautelare in carcere, ma potessero (in attesa della sentenza definitiva) essere trattenuti ai domiciliari, lei abbia pensato che Rino Gaetano non avesse mica ragione a cantare che il cielo è sempre più blu. Secondo la Cassazione, la galera (prevista da una legge approvata dal Parlamento nel 2009 che stabiliva che dovesse stare in carcere chiunque avesse abusato di una minorenne) non era giusta per quei due bravi figlioli perché quella stessa legge del 2009 violava gli articoli 3 (uguaglianza davanti alla legge), 13 (libertà personale) e 27 (funzione rieducativa della pena) della Costituzione. Secondo i giudici, insomma, ci sono misure alternative al carcere (nella fattispecie gli arresti domiciliari) alle quali ricorrere in casi come questo. Questo che, per la cronaca, è uno stupro di gruppo. I giorni passano, la vita continua, le sentenze si susseguono e quella della Cassazione  apre un’autostrada a 4 corsie per chi, in compagnia di un paio di amici, prende una donna le apre le gambe e la spacca a metà. Così la Corte Costituzionale, la Suprema Corte, con una decisione barbara, incivile, retrograda, vigliacca, pilatesca, giusto poche ore fa,  ha dichiarato illegittimo l’articolo 275, comma 3, periodo terzo del Codice di Procedura Penale che prevede che gravi indizi di colpevolezza rendano automatica la custodia cautelare in carcere per chi commette il reato previsto all’articolo 609 octies del Codice Penale: lo stupro di gruppo (niente carcere subito per chi violenta in gruppo, non importa, dice la Corte Costituzionale). Fortuna che quella ragazzina, che lo stupro di gruppo lo ha provato sulla sua luminosa pelle di adolescente,  non può guardare in faccia i giudici di quella che  si chiama Suprema Corte che hanno sentenziato che i suoi stupratori in galera non ci debbano andare (almeno fino al terzo grado di giudizio), ma che possano beatamente starsene ai domiciliari. Che possano evadere dai domiciliari (fossero i primi), possano prendere un’altra ragazzina, un’altra donna, un’altra mamma, una vedova, una che comunque in mezzo alle gambe ha un taglio e abusarne a turno, per ore, per giorni. Fino a quando ne hanno voglia. E poi, ritirati su i pantaloni, possano tonarsene  a casa, ai domiciliari, che il carcere chissà se e quando lo vedranno. Bastardi, loro, e chi non fa giustizia. Che una donna non è un pezzo di carne con un taglio tra le gambe. Questa ragazzina non era quello che quei due maschi avevano visto in lei: un pezzo di carne, giovane, con un taglio in cui entrare a forza. No, non era un pezzo di carne, era un essere umano, e la Corte Costituzionale, la CORTE COSTITUZIONALE, non un giudice qualunque oberato e distratto di carte e senza un cancelliere solerte, ha certificato che il suo dolore non meritava nemmeno la consolazione che si dovrebbe alle vittime, agli esseri umani umiliati e offesi. Chi ha negato a questa giovane donna il diritto a credere nel sole della giustizia non è in galera, oggi. Chi da oggi lo negherà a qualunque donna: a voi che mi leggete, alle vostre figlie, mamme, nonne, sorelle, non andrà in galera. Non ci andrà fino a quando l’ultimo grado di giudizio non avrà stabilito che sì, in effetti, un po’ di maschi che tengono ferma una donna e che a turno le entrano dentro al corpo e all’anima, sono responsabili del suo dolore, del buio in cui l’hanno sepolta. E allora, voglio le parole della presidente della Camera, del ministro per le Pari opportunità, voglio le parole di ogni donna: le voglio sentire perché non serve essere femministe e professioniste delle dichiarazioni per scendere in piazza, in tutte le piazze, e incazzarsi. Non ci vuole sempre un capo del Governo antipatico e discutibile per fare scendere in piazza noi donne. Perché: SE NON OGGI, QUANDO?

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO!!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità. E le toghe di Md si salvano, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La legge è uguale per tutti. Ma non al tribunale dei giudici. Vincenzo Barbieri, toga disinvolta, viene inchiodato dalle intercettazioni telefoniche, ma le stesse intercettazioni vengono cestinate nel caso di Paolo Mancuso, nome storico di Magistratura democratica. Eduardo Scardaccione, altro attivista di Md, la corrente di sinistra delle toghe italiane, se la cava anche se ha avuto la faccia tosta di inviare un pizzino al collega, prima dell'udienza, per sponsorizzare il titolare di una clinica. Assolto pure lui, mentre Domenico Iannelli, avvocato generale della Suprema corte, si vede condannare per aver semplicemente sollecitato una sentenza attesa da quasi sette anni. Sarà un caso ma il tribunale disciplinare funziona così: spesso i giudici al di fuori delle logiche correntizie vengono incastrati senza pietà. Quelli che invece hanno un curriculum sfavillante, magari a sinistra, magari dentro Md, trovano una via d'uscita. Non solo. Quel che viene stabilito dalla Sezione disciplinare del Csm trova facilmente sponda nel grado superiore, alle Sezioni unite civili della Cassazione, scioglilingua chilometrico, come i titoli dei film di Lina Wertmüller, per indicare la più prestigiosa delle corti. E proprio le Sezioni unite civili della Cassazione, nei mesi scorsi, hanno teorizzato il principio che sancisce la discrezionalità assoluta per i procedimenti disciplinari: se un magistrato viene punito e l'altro no, si salva anche se la mancanza è la stessa, pazienza. Il primo se ne dovrà fare una ragione. Testuale. Così scrive l'autorevolissimo collegio guidato da Roberto Preden, dei Verdi, l'altra corrente di sinistra della magistratura italiana, e composto da eminenti giuristi come Renato Rordorf e Luigi Antonio Rovelli, di Md, e Antonio Segreto di Unicost, la corrente di maggioranza, teoricamente centrista ma spesso orientata a sua volta a sinistra. A lamentarsi è Vincenzo Brancato, giudice di Lecce, incolpato per gravi ritardi nella stesura delle sentenze e di altri provvedimenti. La Cassazione l'ha condannato e le sezioni unite civili confermano ribadendo un principio choc: la legge non è uguale per tutti. O meglio, va bene per gli altri, ma non per i giudici. Un collega di Lecce, fa notare Brancato, ha avuto gli stessi addebiti ma alla fine è uscito indenne dal processo disciplinare. Come mai? È tutto in regola, replica il tribunale di secondo grado. «La contraddittorietà di motivazione - si legge nel verdetto del 25 gennaio 2013 - va colta solo all'interno della stessa sentenza e non dal raffronto fra vari provvedimenti, per quanto dello stesso giudice». Chiaro? Si può contestare il diverso trattamento solo se i due pesi e le due misure convivono dentro lo stesso verdetto. Altrimenti ci si deve rassegnare. E poiché Brancato e il collega più fortunato, valutato con mano leggera, sono protagonisti di due sentenze diverse, il caso è chiuso. Senza se e senza ma: «Va ribadito il principio già espresso da queste sezioni unite secondo cui il ricorso avverso le pronunce della sezione disciplinare del Csm non può essere rivolto a conseguire un sindacato sui poteri discrezionali di detta sezione mediante la denuncia del vizio di eccesso di potere, attesa la natura giurisdizionale e non amministrativa di tali pronunce». Tante teste, tante sentenze. «Pertanto non può censurarsi il diverso metro di giudizio adottato dalla sezione disciplinare del Csm nel proprio procedimento rispetto ad altro, apparentemente identico, a carico di magistrato del medesimo ufficio giudiziario, assolto dalla stessa incolpazione». Tradotto: i magistrati, nelle loro pronunce, possono far pendere la bilancia dalla parte che vogliono. Il principio è srotolato insieme a tutte le sue conseguenze e porta il timbro di giuristi autorevolissimi, fra i più titolati d'Italia. È evidente che si tratta di una massima sconcertante che rischia di creare figli e figliastri. È, anche, sulla base di questo ragionamento che magistrati appartenenti alle correnti di sinistra, in particolare Md, così come le toghe legate alle corporazioni più strutturate, sono stati assolti mentre i loro colleghi senza reti di rapporti o di amicizie sono stati colpiti in modo inflessibile. Peccato che questo meccanismo vada contro la Convenzione dei diritti dell'uomo: «L'articolo 14 vieta di trattare in modo differente, salvo giustificazione ragionevole e obiettiva, persone che si trovino in situazioni analoghe». Per i giudici italiani, a quanto pare, questo criterio non è valido. Non solo. La stessa Cassazione, sezione Lavoro, afferma che la bilancia dev'essere perfettamente in equilibrio. Il caso è quello di due dipendenti Telecom che avevano usato il cellulare aziendale per conversazioni private. Il primo viene licenziato, il secondo no. E dunque quello che è stato spedito a casa si sente discriminato e fa causa. La Cassazione gli dà ragione: «In presenza del medesimo illecito disciplinare commesso da più dipendenti, la discrezionalità del datore di lavoro non può trasformarsi in arbitrio, con la conseguenza che è fatto obbligo al datore di lavoro di indicare le ragioni che lo inducono a ritenere grave il comportamento illecito di un dipendente, tanto da giustificare il licenziamento, mentre per altri dipendenti è applicata una sanzione diversa». Il metro dev'essere sempre lo stesso. Ma non per i magistrati, sudditi di un potere discrezionale che non è tenuto a spiegare le proprie scelte. La regola funziona per i dipendenti Telecom, insomma, per i privati. Non per i magistrati e il loro apparato di potere. La legge è uguale per tutti ma non tutti i magistrati sono uguali davanti alla legge. La Legge che non sia uguale per tutti è pacifico. Invece è poco palese la sua conoscenza, specie se in Italia è tutto questione di famiglia. Famiglia presso cui si devono lavare i panni sporchi.

Quando anche per i comunisti è tutto questione di famiglia.

Luigi Berlinguer (ex ministro PD) è il cugino di Bianca Berlinguer (direttrice del Tg3 e figlia di Enrico) che è sposata con Luigi Manconi (senatore PD, fondatore e presidente dell’Associazione “A Buon Diritto”) che è cognato di Luca Telese (giornalista La7 e Canale 5) che è marito di Laura Berlinguer (giornalista MEDIASET) che è cugina di Sergio Berlinguer (consigliere di Stato), fratello di Luigi e cugino di Enrico.

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

La Commissione europea, la Corte Europea dei diritti dell’uomo e “Le Iene”, sputtanano. Anzi, “Le Iene” no!!

E la stampa censura pure…..

Pensavo di averle viste tutte.

La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. Qual è il problema per l'Ue? Si chiede “Libero Quotidiano”. Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. E, comunque, non pagano i giudici, paghiamo noi.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano.

La Convenzione e la Corte europea dei diritti dell’uomo ampliano il diritto di  cronaca (“dare e ricevere notizie”) e proteggono il segreto professionale dei giornalisti. No alle perquisizioni in redazione! Il giudice nazionale deve tener conto delle sentenze della Corte europea dei diritti dell'uomo ai fini della decisione, anche in corso di causa, con effetti immediati e assimilabili al giudicato: è quanto stabilito dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 19985 del 30/9/2011.

Cedu. Decisione di Strasburgo. Il diritto di cronaca va sempre salvato. Per i giudici l'interesse della collettività all'informazione prevale anche quando la fonte siano carte segretate, scrive Marina Castellaneta per Il Sole 24 Ore il 17/4/2012. La Corte europea dei diritti dell'uomo pone un freno alle perquisizioni nei giornali e al sequestro da parte delle autorità inquirenti dei supporti informatici dei giornalisti. Con un preciso obiettivo. Salvaguardare il valore essenziale della libertà di stampa anche quando sono pubblicate notizie attinte da documenti coperti da segreto. Lo ha chiarito la Corte dei diritti dell'uomo nella sentenza depositata il 12 aprile 2012 (Martin contro Francia) che indica i criteri ai quali anche i giudici nazionali devono attenersi nella tutela del segreto professionale dei giornalisti per non incorrere in una violazione della Convenzione e in una condanna dello Stato. A Strasburgo si erano rivolti quattro giornalisti di un quotidiano francese che avevano pubblicato un resoconto di documenti della Corte dei conti che riportavano anomalie nell'amministrazione di fondi pubblici compiute da un ex governatore regionale. Quest'ultimo aveva agito contro i giornalisti sostenendo che era stato leso il suo diritto alla presunzione d'innocenza anche perché erano stati pubblicati brani di documenti secretati. Il giudice istruttore aveva ordinato una perquisizione nel giornale con il sequestro di supporti informatici, agende e documenti annotati. Per i giornalisti non vi era stato nulla da fare. Di qui il ricorso a Strasburgo che invece ha dato ragione ai cronisti condannando la Francia per violazione del diritto alla libertà di espressione (articolo 10 della Convenzione). Per la Corte la protezione delle fonti dei giornalisti è una pietra angolare della libertà di stampa. Le perquisizioni nel domicilio e nei giornali e il sequestro di supporti informatici con l'obiettivo di provare a identificare la fonte che viola il segreto professionale trasmettendo un documento ai giornalisti compromettono la libertà di stampa. Anche perché il giornalista potrebbe essere dissuaso dal fornire notizie scottanti di interesse della collettività per non incorrere in indagini. È vero - osserva la Corte - che deve essere tutelata la presunzione d'innocenza, ma i giornalisti devono informare la collettività. Poco contano - dice la Corte - i mezzi con i quali i giornalisti si procurano le notizie perché questo rientra nella libertà di indagine che è inerente allo svolgimento della professione. D'altra parte, i giornalisti avevano rispettato le regole deontologiche precisando che i fatti riportati erano ricavati da un rapporto non definitivo. Giusto, quindi, far conoscere al pubblico le informazioni in proprio possesso sulla gestione di fondi pubblici.

Ed ancora. La Corte europea dei diritti dell’Uomo ha accolto il ricorso presentato dall’autore di “Striscia la notizia”, Antonio Ricci, per violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’Uomo. Il ricorso era stato presentato in seguito alla sentenza con la quale, nel 2005, la Corte di cassazione – pur dichiarando la prescrizione del reato – aveva ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 617 quater e 623 bis c.p., per avere “Striscia la notizia” divulgato nell’ottobre del 1996 un fuori onda della trasmissione di Rai3 “L’altra edicola”, con protagonisti il filosofo Gianni Vattimo e lo scrittore Aldo Busi che se ne dicevano di tutti i colori.

I fatti risalgono al 1996 e c'erano voluti 10 anni perchè la Cassazione ritenesse Ricci colpevole per la divulgazione del fuori onda di Rai Tre. 

«Superando le eccezioni procedurali interposte dal Governo Italiano, che - dicono i legali di Ricci, Salvatore Pino e Ivan Frioni - ha provato a scongiurare una pronuncia che entrasse nel merito della vicenda, ha ottenuto l’auspicato risarcimento morale, sancito dalla Corte che – al termine di una densa motivazione – ha riconosciuto la violazione dell’art. 10 della Convenzione, posto a tutela della libertà d’espressione».

«La Corte – dopo aver riconosciuto che “il rispetto della vita privata e il diritto alla libertà d’espressione meritano a priori un uguale rispetto” – diversamente da quanto sostenuto dai giudici italiani, “che -spiega l’avvocato Salvatore Pino- avevano escluso la possibilità stessa di un bilanciamento – ha ritenuto che la condanna di Antonio Ricci abbia costituito un’ingerenza nel suo diritto alla libertà di espressione garantito dall’articolo 10 § 1 della Convenzione ed ha altresì stigmatizzato la sproporzione della pena applicata rispetto ai beni giuridici coinvolti e dei quali era stata lamentata la lesione».

«Sono felice per la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo - ha commentato Antonio Ricci, creatore di Striscia la notizia.- La condanna aveva veramente dell’incredibile, tra l’altro sia in primo che in secondo grado la Pubblica Accusa aveva chiesto la mia assoluzione. E' una vittoria di Antonio Ricci contro lo Stato italiano, per questo la sentenza di Strasburgo è molto importante». E' soddisfatto il patron di Striscia la notizia per quella che ritiene essere stata una vittoria di principio. «Il fatto che l'Europa si sia pronunciata a mio favore - ha dichiarato Ricci - implica che esiste una preoccupazione in merito alla libertà d'espressione nel nostro Paese». Una vittoria importante nella battaglia per la libertà d'espressione che segna un punto a favore di Ricci e che pone ancora una volta l'accento sui lacci e lacciuoli con i quali bisogna fare i conti in Italia quando si cerca di fare informazione, come spiega lo stesso Ricci nella video intervista. «Quante volte sono andati in onda dei fuori onda - si è chiesto Ricci - E nessuno è mai stato punito? Per questo sono voluto andare fino in fondo, la mia è stata una battaglia di principio». 

Trattativa stato-mafia, Ingroia rientra nel processo come avvocato parte civile. Rappresenta l'associazione vittime della strage di via Georgofili. Si presenta con la sua vecchia toga, abbracciato dagli amici pm. Antonio Ingroia, nelle vesti di avvocato di parte civile. Il leader di Azione civile rappresenta l'associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, presieduta da Giovanna Maggiani Chelli. Ingroia sarà il sostituto processuale dell'avvocato Danilo Ammannato. Antonio Ingroia denunciato per esercizio abusivo della professione? Il rischio c'è. Il segretario dell’Ordine di Roma, dove Ingroia è iscritto, e il presidente del Consiglio di Palermo, dove sarebbe avvenuto l’esercizio abusivo della professione, ritengono "che prima di potere esercitare la professione l’avvocato debba giurare davanti al Consiglio".

Ed Ancora. Bruxelles avvia un'azione contro l'Italia per l'Ilva di Taranto. La Commissione "ha accertato" che Roma non garantisce che l'Ilva rispetti le prescrizioni Ue sulle emissioni industriali, con gravi conseguenze per salute e ambiente. Roma è ritenuta "inadempiente" anche sulla norma per la responsabilità ambientale. La Commissione europea ha avviato la procedura di infrazione sull’Ilva per violazione delle direttive sulla responsabilità ambientale e un’altra sul mancato adeguamento della legislazione italiana alle direttive europee in materia di emissioni industriali. Le prove di laboratorio «evidenziano un forte inquinamento dell'aria, del suolo, delle acque di superficie e delle falde acquifere, sia sul sito dell'Ilva, sia nelle zone abitate adiacenti della città di Taranto. In particolare, l'inquinamento del quartiere cittadino di Tamburi è riconducibile alle attività dell'acciaieria». Oltre a queste violazioni della direttiva IPPC e al conseguente inquinamento, risulta che «le autorità italiane non hanno garantito che l'operatore dello stabilimento dell'Ilva di Taranto adottasse le misure correttive necessarie e sostenesse i costi di tali misure per rimediare ai danni già causati».

Bene. Di tutto questo la stampa si guarda bene di indicare tutti i responsabili, non fosse altro che sono i loro referenti politici. Ma sì, tanto ci sono “Le Iene” di Italia 1 che ci pensano a sputtanare il potere.

Cosa????

Invece “Le Iene” ci ricascano. Tralasciamo il fatto che è da anni che cerco un loro intervento a pubblicizzare l’ignominia dell’esame forense truccato, ma tant’è. Ma parliamo di altro. La pubblicazione del video di Alessandro Carluccio denuncia la censura de “Le Iene” su Francesco Amodeo, quando Francesco ha parlato è stato censurato...non serve parlare !! il Mes, il gruppo Bilderberg, Mario Monti, Enrico Letta, Giorgio Napolitano, il Signoraggio Bancario, la Guerra Invisibile,...e tanta truffa ancora!!! Alessandro Carluccio, il bastardo di professione .. "figlio di iene"….indaga,..spiegando che non è crisi.. è truffa..se accarezzi la iena rischi di esser azzannato...in quanto la iena approfitta delle prede facili...ma se poi dopo diventi il leone sono costrette a scappare...un faccia a faccia con Matteo Viviani e Pablo Trincia in arte LE IENE....con Francesco Amodeo.

Dopo questo, ci si imbatte nel caso di Andrea Mavilla, vittima di violenza e di censura. C’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro. “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive Francesca su “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 24 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Quando la tv criminalizza un territorio.

7 ottobre 2013. Dal sito di Striscia la Notizia si legge “Stasera a Striscia la notizia Fabio e Mingo documentano la situazione di drammatico degrado in cui vivono migliaia di persone nelle campagne di Foggia. Si tratta di lavoratori stranieri che vengono in Italia per raccogliere i pomodori e lavorano dalle 5 del mattino fino a notte per pochi euro. Il caso documentato da Striscia riguarda un gruppo di lavoratori bulgari che per otto mesi l'anno vivono con le loro famiglie in case improvvisate, senza acqua, gas e elettricità, in condizioni igieniche insostenibili, tra fango e rifiuti di ogni genere, tra cui anche lastre di amianto.”

In effetti il filmato documenta una situazione insostenibile. Certo, però, ben lontana dalla situazione descritta. Prima cosa è che non siamo in periodo di raccolta del pomodoro, né dell’uva. Nel filmato si vede un accampamento di poche famiglie bulgare, ben lontane dal numero delle migliaia di persone richiamate nel servizio. Famiglie senza acqua, luce e servizi igienici. Un accampamento immerso nell’immondizia e con auto di grossa cilindrata parcheggiate vicino alle baracche. «Scusate ma a me sembra un "normale" accampamento di Zingari, come ci sono ahimè in tutte le città italiane - scrive Antonio sul sito di Foggia Today - Purtroppo oggi la televisione per fare audience, deve proporre continuamente lo scoop, specialmente quando si tratta di televisione cosiddetta commerciale. Ma anche la televisione pubblica a volte non è esente da criticare a riguardo. Fare televisione oggi significa soprattutto speculare sulla notizia, e molte volte non ci si fa scrupoli di speculare anche sulle tragedie, pur di raggiungere gli agognati indici di ascolto. E tutto questo senza preoccuparsi minimamente, di quanto viene proposto agli spettatori, a volte paganti (vedi il canone Rai). Tanto a nessuno importa, perchè vige la regola: "Il popolo è ignorante".» Giovanni scrive: «quello è un campo nomadi e non il campo dei lavoratori agricoli stagionali».

Questo non per negare la terribile situazione in cui versano i lavoratori stagionali, a nero e spesso clandestini, che coinvolge tutta l’Italia e non solo il Foggiano, ma per dare a Cesare quel che è di Cesare.

In effetti di ghetto ne parla “Foggia Città Aperta”. Ma è un’altra cosa rispetto a quel campo documentato da Striscia. Una fetta di Africa a dodici chilometri da Foggia. Benvenuti nel cosiddetto Ghetto di Rignano, un villaggio di cartone sperduto fra le campagne del Tavoliere Dauno che ogni estate ospita circa 700 migranti. Tutti, o quasi, impegnati nella raccolta dei campi, in modo particolare dei pomodori. Dodici ore di lavoro sotto al sole e al ritorno neanche la possibilità di farsi la doccia. Attenzione si parla di Africani, non di Bulgari.

Sicuramente qualcuno mi farà passare per razzista, ma degrado e sudiciume illustrato da Striscia, però, sono causati da quelle persone che ivi abitano e non sono certo da addebitarsi all’amministrazione pubblica Foggiana, che eventualmente, per competenza, non ha ottemperato allo sgombero ed alla bonifica dei luoghi.

Ai buonisti di maniera si prospettano due soluzioni:

L’Amministrazione pubblica assicura ai baraccati vitto, alloggio e lavoro, distogliendo tale diritto ai cittadini italiani, ove esistesse;

L’Amministrazione pubblica assicura la prole ad un centro per minori, togliendoli alle famiglie; libera con forza l’accampamento abusivo e persegue penalmente i datori di lavori, ove vi sia sfruttamento della manodopera; chiede ai baraccati ragione del loro tenore di vita in assenza di lavoro, per verificare che non vi siano da parte loro atteggiamenti e comportamenti criminogeni, in tal caso provvede al rimpatrio coatto.  

Colui il quale dalla lingua biforcuta sputerà anatemi per aver ristabilito una certa verità, sicuramente non avrà letto il mio libro “UGUAGLIANZIOPOLI L’ITALIA DELLE DISUGUAGLIANZE. L'ITALIA DELL'INDISPONENZA, DELL'INDIFFERENZA, DELL'INSOFFERENZA”, tratto dalla collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Opere reperibili su Amazon.it.

Alla fine della fiera, si può dire che stavolta Fabio e Mingo e tutta Striscia la Notizia per fare sensazionalismo abbiano toppato?

Che anche le toghe paghino per i loro errori: adesso lo pretende la Ue, chiede “Libero Quotidiano”. La Commissione Europea ha aperto una procedura di infrazione contro l'Italia perchè non adegua la sua normativa sulla responsabilità civile dei giudici al diritto comunitario. Bruxelles si aspetta che il governo nostrano estenda la casistica per i risarcimenti "cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie". Casistica regolata da una legge del 1988 e assai stretta: il legislatore prevede che le toghe rispondano in prima persona solo in caso di dolo o colpa grave nel compimento dell'errore giudiziario. All'Ue non sta bene, e il procedimento di infrazione non è un fulmine a ciel sereno. E' del novembre 2011 la condanna all'Italia da parte della Corte di Giustizia Ue per l'inadeguatezza della nostra normativa in materia di responsabilità civile dei giudici, mentre già nel settembre 2012 la Commissione aveva chiesto al governo aggiornamenti sull'applicazione del decreto di condanna. Ma non è bastato. In due anni i governi di Mario Monti e Enrico Letta non hanno adeguato la legge italiana a quella europea, e ora l'Ue passa ai provvedimenti sanzionatori. L'Italia è responsabile della violazione del diritto dell'Unione da parte di un suo organo (in questo caso giudiziario), e per questo sarà chiamata a pagare. Qual è il problema per l'Ue? Che i giudici italiani sono chiamati a pagare per i propri errori in casi troppo ristretti, godendo di una normativa che non solo li avvantaggia rispetto ad altri lavoratori e professionisti italiani, ma anche rispetto ai propri colleghi europei. La legge italiana 117/88 restringe la responsabilità dei giudici ai soli casi di errore viziato da "dolo e colpa grave". E, come se non fosse abbastanza, il legislatore assegna l'onere della prova (ovvero la dimostrazione del dolo e della colpa del giudice) al querelante che chiede risarcimento per il danno subito. Per l'Ue troppo poco. La Commissione Ue chiede all'Italia di conformarsi al diritto comunitario. Innanzitutto via l'onere della dimostrazione del dolo e della colpa. E poi estensione della responsabilità del giudice di ultima istanza anche ai casi di sbagliata interpretazione delle leggi e di errata valutazione delle prove, anche senza il presupposto della malevolezza della toga verso l'imputato. Anche per colpa semplice, insomma. Interpellate da Bruxelles nel settembre 2012, le autorità italiane avevano risposto in maniera rassicurante: cambieremo la legge. In dodici mesi non si è mossa una foglia, e ora il Belpaese va incontro a un procedimento di infrazione, cioè a una cospicua multa. Insomma, non pagano i giudici, paghiamo noi.

La proposta di aprire una nuova procedura d'infrazione è stata preparata dal servizio giuridico della Commissione che fa capo direttamente al gabinetto del presidente Josè Manuel Barroso, scrive “La Repubblica”. Bruxelles si è in pratica limitata a constatare che a quasi due anni dalla prima condanna, l'Italia non ha fatto quanto necessario per eliminare la violazione del diritto europeo verificata nel 2011. La prima sentenza emessa dai giudici europei ha decretato che la legge italiana sulla responsabilità civile dei magistrati li protegge in modo eccessivo dalle conseguenze del loro operato, ovvero rispetto agli eventuali errori commessi nell'applicazione del diritto europeo (oggi circa l'80% delle norme nazionali deriva da provvedimenti Ue). Due in particolare le ragioni che hanno portato Commissione e Corte a censurare la normativa italiana giudicandola incompatibile con il diritto comunitario. In primo luogo, osservano fonti europee, la legge nazionale esclude in linea generale la responsabilità dei magistrati per i loro errori di interpretazione e valutazione. Inoltre, la responsabilità dello Stato scatta solo quando sia dimostrato il dolo o la colpa grave. Un concetto, quest'ultimo, che secondo gli esperti Ue la Cassazione ha interpretato in maniera troppo restrittiva, circoscrivendola a sbagli che abbiano un carattere “manifestamente aberrante”.

Ciò che l'Unione Europea contestava, e ancora contesta, è l'eccessiva protezione garantita alla magistratura italiana, scrive “Il Giornale”. Per eventuali errori commessi nell'applicare il diritto europeo, non è infatti prevista responsabilità civile, che entra in gioco per dolo o colpa grave, ma non per errori di valutazione o interpretazione. Una differenzia importante, se si considera che circa l'80% delle norme italiana deriva ormai da provvedimenti comunitari.

Pronta la replica delle toghe: guai a toccare i magistrati.

Nessun "obbligo per l'Italia di introdurre una responsabilità diretta e personale del singolo giudice": l'Europa "conferma che nei confronti del cittadino l'unico responsabile è lo Stato". Il vice presidente del Csm Michele Vietti commenta così la notizia dell'avvio di una procedura da parte dell'Ue. "L'Europa ha parlato di responsabilità dello Stato per violazione del diritto comunitario; non entra invece nella questione della responsabilità personale dei giudici perché é un problema di diritto interno, regolato diversamente nei vari Stati membri", ha puntualizzato il presidente dell'Associazione nazionale magistrati Rodolfo Sabelli, che sin da ora avverte: "Denunceremo ogni tentativo di condizionamento dei magistrati attraverso una disciplina della responsabilità civile che violi i principi di autonomia e indipendenza".

Tutti uguali davanti alla legge. Tutti uguali? Anche i magistrati? E invece no. I magistrati sono al di sopra della legge, ci si tengono - al di sopra - con pervicacia, si rifugiano sotto l’ombrello dell’autonomia, indipendenza dalla politica, in realtà tenendosi stretto il privilegio più anacronistico che si possa immaginare: l’irresponsabilità civile. O irresponsabilità incivile, scrive Marvo Ventura su “Panorama”. La Commissione Europea ha deciso di avviare una procedura d’infrazione nei confronti dell’Italia per l’eccessiva protezione offerta dalle norme ai magistrati, per i limiti all’azione di risarcimento delle vittime di palesi e magari volute ingiustizie. Per l’irresponsabilità del magistrato che per dolo o colpa grave rovini la vita delle persone con sentenze chiaramente errate, se non persecutorie. Succede che in capo direttamente al presidente della Commissione UE, Barroso, è partita la proposta di agire contro l’Italia per aver totalmente ignorato la condanna del 2011 della Corte di Giustizia che fotografava l’inadeguatezza del sistema italiano agli standard del diritto europeo rispetto alla responsabilità civile delle toghe. Dov’è finita allora l’urgenza, la fretta, quel rimbocchiamoci le maniche e facciamo rispettare la legge e le sentenze, che abbiamo visto negli ultimi giorni, settimane, mesi, come una battaglia di principio che aveva e ha come bersaglio l’avversario politico Silvio Berlusconi. Perché dal 1987, anno del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, c’è stata solo una legge, la Vassalli dell’anno successivo, che serviva purtroppo per introdurre una qualche responsabilità ma non troppa, per non pestare i piedi alla magistratura, forte già allora di uno strapotere discrezionale nella sua funzione inquirente e nella sua vocazione sovente inquisitoria. Adesso che l’Europa ci bacchetta (e la minaccia è anche quella di farci pagare per l’irresponsabilità dei nostri magistrati, dico far pagare a noi contribuenti che sperimentiamo ogni giorno le inefficienze e i ritardi della giustizia civile e penale), l’Europa non è più quel mostro sacro che ha sempre ragione. Non è più neanche il depositario del bene e del giusto. È invece la fonte di una raccomandazione che merita a stento dichiarazioni di seconda fila. E l’Associazione nazionale magistrati stavolta non tuona, non s’indigna, non incalza. Si limita a scaricare il barile al governo, dice per bocca dei suoi vertici che la Commissione non ha infilzato i singoli magistrati ma lo Stato italiano per la sua inadempienza al diritto UE, comunitario. Come se i magistrati e la loro associazione corporativa non avessero avuto alcuna voce in capitolo nel tornire una legislazione che non è in linea con lo stato di diritto di un avanzato paese europeo. Come se in questo caso le toghe potessero distinguere le loro (ir)responsabilità da quelle di una parte della politica che ha fatto sponda alle correnti politiche giudiziarie e alla loro campagna ventennale. Come se i magistrati più in vista, più esposti, non avessero facilmente e disinvoltamente travalicato i confini e non si fossero gettati in politica facendo tesoro della popolarità che avevano conquistato appena il giorno prima con le loro inchieste di sapore “politico”. Ma quel che è peggio è l’odissea di tanti cittadini vittime di ingiustizia che si sono dovuti appellare all’Europa, avendo i soldi per farlo e il tempo di aspettare senza morire (a differenza di tanti altri). A volte ho proprio l’impressione di non trovarmi in Europa ma in altri paesi che non saprei citare senza peccare di presunzione. L’Italia, di certo, non appartiene più al novero dei paesi nei quali vi è certezza del diritto. Per quanto ancora?

Di altro parere rispetto a quello espresso dalle toghe, invece è il Presidente della Repubblica e capo del CSM. L’opposizione dei giudici alla riforma della giustizia è eccessiva, spiega “Libero Quotidiano”. Se ne è accorto anche Giorgio Napolitano che, il 20 settembre 2013 intervenendo alla Luiss per ricordare Loris D'Ambrosio, riflette sul rapporto tra magistratura e politica: entrambi i poteri sbagliano, ma la magistratura è troppo piegata sulle sue posizioni ed una rinfrescata ai codici sarebbe cosa buona. Secondo Napolitano, le critiche che le piovono addosso, vero, sono eccessive; ma ai punti a perdere sono i magistrati, sempre più convinti di essere intoccabili. La politica e la giustizia devono smettere di "concepirsi come mondi ostili, guidati dal sospetto reciproco", dice Napolitano che sogna, invece, l’esaltazione di quella "comune responsabilità istituzionale" propria dei due poteri. "Ci tocca operare in questo senso - precisa Napolitano -  senza arrenderci a resistenze ormai radicate e a nuove recrudescenze del conflitto da spegnere nell'interesse del Paese". Per superare quelle criticità emerse con foga negli ultimi vent’anni (prendendo Tangentopoli come primo e vero momento di scontro tra politica e magistratura), secondo Napolitano, la soluzione si può trovare "attraverso un ridistanziamento tra politica e diritto" ma soprattutto non senza la cieca opposizione ad una riforma completa della magistratura. Il presidente della Repubblica sembra non sapersi spiegare perché proprio i magistrati siano sulle barricate per difendere il loro status. Tra i giudici, dice Napolitano, dovrebbe "scaturire un'attitudine meno difensiva e più propositiva rispetto al discorso sulle riforme di cui la giustizia ha indubbio bisogno da tempo e che sono pienamente collocabili nel quadro dei principi della Costituzione repubblicana". Sul Quirinale non sventola mica la bandiera di Forza Italia, ma bastano le lampanti criticità ad illuminare il discorso di Re Giorgio. "L'equilibrio, la sobrietà ed il riserbo, l'assoluta imparzialità e il senso della misura e del limite, sono il miglior presidio dell'autorità e dell'indipendenza del magistrato". Così Napolitano non si lascia sfuggire l’occasione di parlare indirettamente a quei magistrati che fanno del protagonismo la loro caratteristica principale. Pm, come Henry John Woodcock, o giudicanti, come il cassazionista Antonio Esposito, che si sono lasciarti sedurre da taccuini e telecamere quando, invece, avrebbero dovuto seguire quei dettami di "sobrietà e riserbo". Il presidente, poi, ricorda che nessun lavoro è delicato quanto quello del  giudice perché sa che dalla magistratura dipende la vita (o la non-vita) degli indagati.

Inoltre su un altro punto è intervenuta l’Europa. Condannare un giornalista alla prigione è una violazione della libertà d’espressione, salvo casi eccezionali come incitamento alla violenza o diffusione di discorsi razzisti. A stabilirlo, ancora una volta. è la Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza in cui dà ragione a Maurizio Belpietro, direttore di Libero, condannato a quattro anni dalla Corte d’Appello di Milano. In sostanza, scrive Vittorio Feltri, i giudici continentali si sono limitati a dire ai tribunali italiani che i giornalisti non devono andare in galera per gli sbagli commessi nello svolgimento del loro lavoro, a meno che inneggino alla violenza o incitino all'odio razziale. Tutti gli altri eventuali reati commessi dai colleghi redattori vanno puniti, a seconda della gravità dei medesimi, con sanzioni pecuniarie. Perché la libertà di espressione non può essere compressa dal terrore dei giornalisti di finire dietro le sbarre. La Corte, per essere ancora più chiara, ha detto che il carcere collide con la Carta dei diritti dell'uomo. Inoltre, scrive “Panorama”, ha condannato lo Stato italiano a risarcire Belpietro - per il torto patito - con 10mila euro, più 5mila per le spese legali. La Corte europea dei diritti dell'uomo ha condannato lo Stato italiano a pagare a Maurizio Belpietro 10 mila euro per danni morali e 5 mila per le spese processuali a causa della condanna a 4 anni di carcere, inflittagli dai giudici d'appello di Milano, per aver ospitato sul suo giornale un articolo del 2004 ritenuto gravemente diffamatorio a firma Lino Jannuzzi, allora senatore PdL. Senza  entrare nel merito della questione giudiziaria, la Corte ha cioè ribadito un principio assimilato da tutti i Paesi europei: il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione - previsto dal nostro codice penale - è un abominio giuridico incompatibile con i principi della libertà d'informazione. A questo tema, di cui si è occupato  anche Panorama , è dedicato il fondo di Vittorio Feltri su Il Giornale intitolato E l'Europa ci bastona. Un orrore il carcere per i giornalisti . “La vicenda dell'attuale direttore di Libero è addirittura paradossale. Udite. Lino Jannuzzi scrive un articolo scorticante sui misteri della mafia, citando qualche magistrato, e lo invia al Giornale. La redazione lo mette in pagina. E il dì appresso partono le querele delle suddette toghe. Si attende il processo di primo grado. Fra la sorpresa generale, il tribunale dopo avere udito testimoni ed esaminato approfonditamente le carte, assolve sia Jannuzzi sia Belpietro. Jannuzzi perché era senatore ed era suo diritto manifestare le proprie opinioni, senza limitazioni. Belpietro perché pubblicare il pezzo di un parlamentare non costituisce reato. Ovviamente, i soccombenti, cioè i querelanti, ricorrono in appello. E qui si ribalta tutto. Il direttore si becca quattro mesi di detenzione, per non parlare della sanzione economica: 100mila e passa euro. Trascorrono mesi e anni, e si arriva in Cassazione - suprema corte - che, lasciando tutti di stucco, conferma la sentenza di secondo grado, a dimostrazione che la giustizia è un casino, dove la certezza del diritto è un sogno degli ingenui o dei fessi. Belpietro, allora, zitto zitto, inoltra ricorso alla Corte di Strasburgo che, essendo più civile rispetto al nostro sistema marcio, riconosce al ricorrente di avere ragione. Attenzione. Le toghe europee non se la prendono con i colleghi italiani che, comunque , hanno esagerato con le pene, bensì con lo Stato e chi lo guida (governo e Parlamento) che consentono ancora - non avendo mai modificato i codici - di infliggere ai giornalisti la punizione del carcere, prediletta dalle dittature più infami.”

Anche il fondo di Belpietro è dedicato alla storica decisione della Corte di Strasburgo che ha dato ragione a quanti, tra cui Panorama, sostengono che il carcere per i giornalisti sia una stortura liberticida del nostro sistema penale che un Parlamento degno di questo nome dovrebbe subito cancellare con una nuova legge che preveda la pena pecuniaria, anziché il carcere. Così ricostruisce la vicenda il direttore di Libero.

La questione è che per aver dato conto delle opinioni di un senatore su un fatto di rilevante interesse nazionale un giornalista è stato condannato al carcere. Ho sbagliato a dar voce a Iannuzzi? Io non credo, perché anche le opinioni sbagliate se corrette da un contraddittorio o da una rettifica contribuiscono a far emergere la verità. Tuttavia, ammettiamo pure che io sia incorso in un errore, pubblicando opinioni non corrette: ma un errore va punito con il carcere? Allora cosa dovrebbe succedere ai magistrati che commettono errori giudiziari e privano della libertà una persona? Li mettiamo in cella e buttiamo via la chiave? Ovvio che no, ma nemmeno li sanzioniamo nella carriera o nel portafoglio, a meno che non commettano intenzionalmente lo sbaglio. Naturalmente non voglio mettere noi infimi cronisti sullo stesso piano di superiori uomini di legge, ma è evidente che c’è qualcosa che non va. Non dico che i giornalisti debbano avere licenza di scrivere, di diffamare e di insultare, ma nemmeno devono essere puniti con la galera perché sbagliano. Altrimenti la libertà di stampa e di informare va a quel paese, perché nel timore di incorrere nei rigori della legge nessuno scrive più nulla. Tradotto in giuridichese, questo è quel che i miei avvocati hanno scritto nel ricorso contro la condanna presentato alla Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale proprio ieri ci ha dato ragione, condannando l’Italia a risarcirmi per i danni morali subiti e sentenziando che un omesso controllo in un caso di diffamazione non giustifica una sanzione tanto severa quale il carcere. Qualcuno penserà a questo punto che io mi sia preso una rivincita contro i giudici, ma non è così.

Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo, scrive Filippo Facci. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano (il giornale di Marco Travaglio), a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente.

Tutt’altro trattamento, però, è riservato a Roberto Saviano. Ci dev'essere evidentemente un delirio nella mente di Saviano dopo la condanna per plagio, scrive Vittorio Sgarbi. Lo hanno chiamato per una occasione simbolico-folkloristica: guidare la Citroen Mehari che fu di Giancarlo Siani, un'automobile che rappresenta il gusto per la libertà di una generazione. All'occasione Saviano dedica un'intera pagina della Repubblica. Possiamo essere certi che non l'ha copiata, perché senza paura del ridicolo, di fronte alla tragedia della morte del giornalista, per il suo coraggio e le sue idee, che si potrebbero semplicemente celebrare ripubblicando i suoi articoli in un libro da distribuire nelle scuole (pensiero troppo facile) scrive: «Riaccendere la Mehari, ripartire, è il più bel dono che Paolo Siani (il fratello) possa fare non solo alla città di Napoli ma al Paese intero... la Mehari che riparte è il contrario del rancore, è il contrario di un legittimo sentimento di vendetta che Paolo Siani potrebbe provare». Eppure Roberto Saviano e la Mondadori sono stati condannati per un presunto plagio ai danni del quotidiano Cronache di Napoli, scrive “Il Corriere del Mezzogiorno”. Editore e scrittore sono stati ritenuti responsabili di «illecita riproduzione» nel bestseller Gomorra di tre articoli (pubblicati dai quotidiani locali «Cronache di Napoli» e «Corriere di Caserta»). In particolare, Saviano e Mondadori , suo editore prima del passaggio con Feltrinelli, sono stati condannati in solido al risarcimento dei danni, patrimoniali e non, per 60mila euro. Questa la decisione del secondo grado di giudizio. Spetterà adesso ai giudici di Cassazione dire l'ultima parola su una querelle che si trascina da almeno cinque anni, da quando cioè la società Libra, editrice dei due quotidiani campani, imputò allo scrittore anticamorra di essersi appropriato di diversi articoli senza citare la fonte per redigere alcune parti di Gomorra (corrispondenti, sostiene Saviano, a due pagine).

Detto questo si presume che le ritorsioni su chi testimonia una realtà agghiacciante abbiano uno stop ed invece c’è il servizio shock delle Iene sui carabinieri, ma il video scompare scatenando le ire del web.

 “Ma il servizio di Viviani?”, “dove si può vedere il video riguardo Andrea Mavilla e il vergognoso abuso di potere che ha subito?”, “TIRATE FUORI IL VIDEO!”. Sono solo alcuni dei commenti che hanno inondato il 25 settembre 2013 la pagina Facebook di Le Iene, noto programma di Italia Uno la cui fama è legata ai provocatori, ma anche il più delle volte illuminanti, servizi di inchiesta, scrive “Che Donna”. Proprio oggi però l’intrepido coraggio dei ragazzi in giacca e cravatta è stato messo in dubbio proprio dai loro stessi fan. Ma andiamo con ordine.

Tempo fa Andrea Mavilla, blogger, filmò un’auto dei carabinieri mentre sostava contromano sulle strisce pedonali: l’uomo dimostrò che i tre militari rimasero diversi minuti nella pasticceria lì vicino, uscendo poi con un pacchetto della stessa. I carabinieri dovettero poi ricorrere alle vie legali, dimostrando con tanto di verbale che il pasticcere li aveva chiamati e loro, seguendo il regolamento, erano intervenuti parcheggiando la volante quanto più vicino possibile al locale. Il pacchetto? Un semplice regalo del negoziante riconoscente per la celerità dell’arma. Storia finita dunque? A quanto pare no. Il blogger infatti sostiene di aver subito una ritorsione da parte dell’arma: i carabinieri sarebbero entrati senza mandato in casa sua svolgendo una perquisizione dunque non autorizzata. Proprio qui sono intervenute Le Iene: Viviani, inviato del programma, ha infatti realizzato sull’accaduto un servizio andato in onda la sera del 25 settembre 2013, alla ripresa del programma dopo la pausa estiva. Inutile dire che la cosa ha subito calamitato l’attenzione del pubblico che così, la mattina dopo, si è catapultato sul web per rivedere il servizio. Peccato che questo risulta ad oggi irreperibile e la cosa non è proprio piaciuta al pubblico che ora alza la voce su Facebook per richiedere il filmato in questione. Come mai manca proprio quel filmato? Che i temerari di Italia Uno non siano poi così impavidi? Le provocazioni e le domande fioccano da questa mattina sul social network e la storia sembra dunque non finire qui.

Andrea Mavilla, blogger dallo spiccato senso civico, ha pubblicato su YouTube un filmato in cui pizzicava un’auto dei carabinieri in divieto di sosta, sulle strisce pedonali, in prossimità di un semaforo e controsenso, scrive “Blitz Quotidiano”. Oltre trecentomila contatti in poche ore e poco dopo un plotone di 30 carabinieri si precipita a casa sua, a Cavenago di Brianza, comune alle porte di Milano. Il video è stato girato domenica mattina, nel filmato intitolato “operazione pasticcini” il blogger insinua che i militari stessero comprando pasticcini all’interno della pasticceria accanto. Per svariati minuti il videoamatore resta in attesa dei carabinieri: ferma i passanti “signora guardi sono sulle strisce, in prossimità di un semaforo, saranno entrati a prendere i pasticcini in servizio”, commenta ironico “è scioccante”, “normale parcheggiare sulle strisce vero?”. Quando infine i carabinieri escono dalla pasticceria, con in mano un pacchetto, notano l’uomo con la telecamera in mano. Il blogger li bracca e chiede loro spiegazioni e i militari lo fermano per identificarlo. Il legale dei tre carabinieri, Luigi Peronetti, spiega che: “La realtà è un’altra. E lo dicono i documenti, non solo i miei assistiti. Il caso è agghiacciante e mostra come immagini neutre con un commentatore che insinua a e fa deduzioni malevole possano distorcere la realtà”. Sulla carta, in effetti, risulta che i carabinieri erano in quella pasticceria perché il proprietario aveva chiesto il loro intervento, hanno lasciato l’auto nel posto più vicino, come prevedono le disposizioni interne all’Arma in materia di sicurezza, hanno verificato richieste e problemi del pasticcere, hanno redatto un verbale, poi sono usciti. In mano avevano un pacchetto, è vero: “Ma certo. Solo che non l’avevano acquistato – continua l’avvocato Peronetti – in realtà i negozianti, per ringraziare i militari della gentilezza e della professionalità, hanno regalato loro alcune brioches avanzate a fine mattinata, da portare anche ai colleghi in caserma. I militari hanno rifiutato, e solo dopo alcune insistenze, hanno accettato il pacchetto. Al blogger bastava chiedere, informarsi prima di screditare così i miei assistiti!. Ora il blogger rischia guai grossi, perché i militari stanno valutando se procedere contro di lui legalmente per aver screditato la loro professionalità. Ma Andrea Mavilla non si arrende e controbatte: “Ho le prove che dimostrano i soprusi di cui sono stato vittima – annuncia – ho solo cercato di documentare un fatto che ho visto e ho ripreso per il mio blog, la mia passione. Ho visto quella che secondo me è una violazione al codice della strada, che in realtà è concessa ai carabinieri solo in caso di pericolo o emergenze. Poi hanno effettuato una perquisizione, ma i carabinieri non dovevano entrare in casa mia e la vicenda è in mano agli avvocati. Per questo motivo sono sotto choc, sconvolto e mi sento sotto attacco”.

Nel servizio de Le Iene, in onda martedì 25 settembre 2013, Andrea Mavilla è protagonista di un sequestro di beni non dovuto, a seguito di un video che documentava una macchina dei carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e in controsenso, davanti ad una pasticceria. Mavilla, già ospite a Pomeriggio 5 per via di un’altra vicenda, è stato poi convocato in questura dove, racconta a Matteo Viviani de Le Iene, sarebbe stato costretto a denudarsi mentre veniva insultato: dichiarazioni che tuttavia non sono supportate da registrazioni audio o video, e che quindi non possono essere provate. Un esperto di informatica, però, ha fatto notare che, in seguito al sequestro dei computer di Mavilla, i carabinieri avrebbero cancellato ogni cosa presente sul pc dell’autore del filmato incriminato.

Uno dei servizi più interessanti (e, a tratti, agghiaccianti) andati in onda nella prima puntata de Le Iene Show, è stato quello curato da Matteo Viviani che ha documentato un presunto caso di abuso di potere perpetrato dai Carabinieri nei confronti di Andrea Mavilla. L’uomo è molto famoso su internet e, ultimamente, è apparso anche in televisione ospite di Barbara D’Urso a Pomeriggio Cinque. Ecco cos’è accaduto nel servizio de Le Iene.

Andrea accoglie la Iena Matteo Viviani in lacrime: ha la casa a soqquadro, come se fosse stata appena svaligiata dai ladri. Ma la verità è ben diversa. Purtroppo. L’incubo comincia quando Andrea Mavilla filma, con il proprio cellulare, una volante dei Carabinieri parcheggiata sulle strisce pedonali e davanti ad uno scivolo per disabili. L’auto rimane parcheggiata sulle strisce per circa venti minuti mentre i Carabinieri, presumibilmente, sono in pasticceria. Non appena gli agenti si accorgono di essere filmati, intimano ad Andrea di spegnere il cellulare e di mostrare loro i documenti. Poi inizia l’incubo. Il Comandante dei Carabinieri si sarebbe recato a casa di Andrea per intimargli di consegnargli tutto il materiale video e fotografico in suo possesso. Al rifiuto del ragazzo, gli agenti avrebbero iniziato a perquisire la sua casa alla ricerca di materiale compromettente. Matteo Viviani, nel suo servizio, ha riportato l’audio della la conversazione tra Andrea ed i carabinieri registrato tramite Skype da una collaboratrice di Andrea. Nel servizio andato in onda a Le Iene Show, poi, Andrea racconta quel che è accaduto dopo la presunta perquisizione: secondo Mavilla i Carabinieri lo avrebbero condotto in Caserma ed insultato pesantemente. Il giovane si sarebbe sentito poi male tanto da rendere necessario il suo ricovero in Ospedale. Una storia davvero incredibile che ha lasciato tutto il pubblico de Le Iene Show senza parole. Peccato che le stesse Iene abbiano censurato, o siano state costrette a farlo, il loro stesso lavoro.

MALAGIUSTIZIA. PUGLIA: BOOM DI CASI.

C’è l’elettricista incensurato scambiato per un pericoloso narcotrafficante per un errore nella trascrizione delle intercettazioni; e ci sono i due poliziotti accusati di rapina ai danni di un imprenditore, sottoposti nel 2005 a misura cautelare per 13 mesi, spogliati della divisa e poi assolti con formula piena. Ma nel frattempo hanno perso il lavoro, scrive Vincenzo Damiani su “Il Corriere del Mezzogiorno”. Sino alla drammatica storia di Filippo Pappalardi, ammanettato e rinchiuso in una cella con l’accusa - rivelatasi poi completamente sbagliata - di aver ucciso i suoi due figli, Francesco e Salvatore. E’ lungo l’elenco delle persone incastrate nelle maglie della malagiustizia, che hanno - loro malgrado - vissuto per mesi o per anni un incubo chiamato carcere. A Bari, secondo i dati ufficiali raccolti dal sito errori giudiziari.com, le richieste di risarcimento presentate per ingiusta detenzione, nell’ultimo anno, si sono più che raddoppiate: nel 2012 i giudici della Corte di appello hanno riconosciuto 29 errori da parte dei loro colleghi, condannando lo Stato a pagare complessivamente 911mila euro. A metà dell’ultimo anno i casi sono già passati a 64, valore totale degli indennizzi oltre 1,7 milioni. In aumento gli errori anche a Taranto, dove si è passati dai due risarcimenti riconosciuti nel 2012 ai sette del 2013. In controtendenza, invece, l’andamento nel distretto di Lecce: nel 2012 gli errori riconosciuti sono stati ben 97, quest’anno la statistica è ferma a 37. Spesso i mesi o addirittura gli anni trascorsi da innocente dietro le sbarre vengono "liquidati" con poche migliaia di euro, al danno così si unisce la beffa. Secondo quanto disposto dagli articoli 314 e 315 del codice penale e dalla Convenzione dei diritti dell’uomo, la persona diventata suo malgrado imputato ha diritto ad un’equa riparazione. La legge "Carotti" ha aumentato il limite massimo di risarcimento per aver patito un'ingiusta permanenza in carcere, passando da cento milioni di lire a 516mila euro, ma raramente viene riconosciuto il massimo. Per non parlare dei tempi per ottenere la riparazione: le cause durano anni, basti pensare che Filippo Pappalardi, giusto per fare un esempio, è ancora in attesa che venga discussa la sua richiesta. Ma il papà dei due fratellini di Gravina, i ragazzini morti dopo essere caduti accidentalmente in una cisterna, non è l’unico arrestato ingiustamente. Attenzione ingiusta detenzione da non confondere il risarcimento del danno per l’errore giudiziario causato da colpa grave o dolo. Eventi, questi, quasi mai rilevati dai colleghi magistrati contro i loro colleghi magistrati. Gianfranco Callisti conduceva una vita normale e portava avanti serenamente la sua attività di elettricista. Sino al giorno in cui, nel 2002, viene prelevato dai carabinieri e trasferito in carcere all’improvviso. La Procura e il Tribunale di Bari erano convinti che fosse coinvolto in un vasto traffico di droga, la storia poi stabilirà che si trattò di un tragico errore provocato da uno sbaglio nella trascrizione delle intercettazioni. Callisti da innocente fu coinvolto nella maxi inchiesta denominata "Operazione Fiume", come ci finì? Il suo soprannome, "Callo", fu confuso con il nome "Carlo", che era quello di una persona effettivamente indagato. Il telefono dell’elettricista non era sotto controllo, ma quello di un suo conoscente si, una casualità sfortunata che lo fece entrare nell’ordinanza di custodia cautelare. Si fece sei mesi in carcere, tre mesi ai domiciliari e tre mesi di libertà vigilata, prima che i giudici riconobbero il clamoroso abbaglio. Dopo 10 anni lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di 50mila euro, nulla in confronto all’inferno vissuto.

Correva l'anno 1985 e Indro Montanelli, che a quel tempo direttore del Giornale, era ospite di Giovanni Minoli a Mixer, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. In un'intervista del 1985 il giornalista attacca le toghe. Dopo ventotto anni è ancora attuale: "C'è pieno di giudici malati di protagonismo. Chiedo ed esigo che la magistratura risponda dei suoi gesti e dei suoi errori spesso catastrofici"Un pezzo di modernariato, direte voi. Invece è una perfetta, precisa, lucida ma soprattutto attuale, fotografia della giustizia italiana. Sono passati ventotto anni. Si vede dai colori delle riprese, dagli abiti e anche dal format stesso della trasmissione. Ma solo da questo. In tutto il resto, il breve spezzone che vi riproponiamo, sembra una registrazione di poche ore fa. Attuale. Più che mai. Una prova della lungimiranza di Montanelli, ma anche la testimonianza dell'immobilità di un Paese che sembra correre su un tapis roulant: sempre in movimento, ma sempre nello stesso posto, allo stesso punto di partenza. Montanelli parla di giustizia e ci va giù pesante. Minoli lo interpella sul un articolo in cui aveva attaccato i giudici che avevano condannato Vincenzo Muccioli, fondatore ed allora patron di San Patrignano. Una presa di posizione che gli costò una querela. "Quello di Muccioli è uno dei più clamorosi casi in cui la giustizia si è messa contro la coscienza popolare", spiega Montanelli. Poi torna sulla sua querela: "Ne avrò delle altre. Non sono affatto disposto a tollerare una magistratura come quella che abbiamo in Italia". Montanelli continua attaccando il protagonismo delle toghe, puntando il dito in particolare contro il magistrato Carlo Palermo, e denunciando le degenerazioni di una stampa sempre più sensazionalistica e di una magistratura sempre più arrogante. Ma non solo. Il giornalista mette alla berlina i giudici che cavalcano le indagini per farsi vedere e poi, dopo aver rovinato uomini e aziende, non pagano per i loro errori. Parole profetiche. Sembra storia di oggi, invece è storia e basta. Insomma, una lezione attualissima. Una pagina sempreverde dell'infinita cronaca del Paese Italia. Purtroppo.

Libri. "Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno" di Trupia Flavia. Giusto per dire: con le parole fotti il popolo…che i fatti possono aspettare.  Alcuni discorsi colpiscono; altri, invece, generano solo un tiepido applauso di cortesia. Dov'è la differenza? Cosa rende un discorso potente? Certamente l'argomento, l'oratore, il luogo e il momento storico sono fattori rilevanti. Ma non basta, occorre altro per dare forza a un discorso. Occorre la retorica. L'arte del dire non può essere liquidata come artificio ampolloso e manieristico. È, invece, una tecnica che permette di dare gambe e respiro a un'idea. È la persuasione la sfida affascinante della retorica. Quell'istante magico in cui le parole diventano condivisione, emozione, voglia di agire, senso di appartenenza, comune sentire dell'uditorio. Non è magia nera, ma bianca, perché la parola è lo strumento della democrazia. La retorica non è morta, non appartiene al passato. Fa parte della nostra vita quotidiana molto più di quanto immaginiamo. Siamo tutti retori, consapevoli o inconsapevoli. Tuttavia, per essere buoni retori è necessaria la conoscenza dell'arte oratoria. Ciò non vale solo per i politici ma per tutti coloro che si trovano nella condizione di pronunciare discorsi, presentare relazioni, convincere o motivare i propri interlocutori, argomentare sulla validità di una tesi o di un pensiero. Ecco allora un manuale che analizza le tecniche linguistiche utilizzate dai grandi oratori dei nostri giorni e ne svela i meccanismi di persuasione. Perché anche noi possiamo imparare a "lasciare il segno".

«Grillo è l'invidia», B. è l'inganno', dice Trupia a Rossana Campisi su “L’Espresso”.

Quali sono gli strumenti retorici dei politici? Un'esperta di comunicazione li ha studiati. E sostiene che il fondatore del M5S punta sulla rabbia verso chi sta in alto, mentre il capo del Pdl 'vende' sempre un sogno che non si realizzerà mai.

Che la nostra felicità dipendesse da un pugnetto di anafore, non ce lo avevano ancora detto. O forse si. «Gorgia da Lentini si godeva la Magna Grecia. Un bel giorno, smise di pensare e disse: la parola è farmacon. Medicina ma anche veleno». Flavia Trupia, ghostwriter ed esperta di comunicazione, ce lo ricorda. La storia dell'umanità, del resto, è lunga di esempi che lei ha ripreso in Discorsi potenti. Tecniche di persuasione per lasciare il segno (FrancoAngeli) e nel suo blog. «Spesso dimentichiamo il potere dell'arte della parola. La retorica insomma. Poi arrivano certi anniversari e tutti lì a prendere appunti».

Sono i 50 anni di I Have a Dream. Martin Luther King Jr., davanti al Lincoln Memorial di Washington, tiene il discorso conclusivo della marcia su Washington. Partiamo da qui?

«Sì, è uno di quelli che i linguisti non hanno mai smesso di studiare. Si tratta di un vero atto linguistico: le parole diventano azione. King aveva 34 anni, sarebbe morto dopo cinque anni. Quel 28 agosto del 1963 ha cambiato il mondo».

Con le sue parole?

«Chiamale parole. Lì dentro c'è tutto il mondo in cui credono ancora oggi gli americani: i riferimenti alla Bibbia, ne trovi una in ogni hotel e in ogni casa, quelli alle costituzioni e alle dichiarazioni nazionali, quelli ai motel, luogo tipico della cultura americana dove ti puoi riposare in viaggio. E poi ripeteva sempre "today": l'efficienza americana è da sempre impaziente».

Strategia dei contenuti.

«Magari fossero solo quelli. C'è il ritmo che è fondamentale. E poi cosa dire di quella meravigliosa anafora diventata quasi il ritornello di una canzone? "I Have a Dream" è ripetuto ben otto volte».

Il potere ha proprio l'oro in bocca.

«King ha cambiato il mondo rendendo gli uomini più uomini e meno bestie. Anche Goebbles faceva discorsi molto applauditi. Ma ha reso gli uomini peggio delle bestie».

Anche gli italiani hanno avuto bisogno di "discorsi" veri, no?

«Certo. Beppe Grillo è stato un grande trascinatore, ha emozionato le piazze, le ha fatte ridere e piangere. Il suo stile però è quello delle Filippiche. Inveire sempre. Scatenare l'invidia e l'odio per chi ha il posto fisso, per chi sta in Parlamento. Muove le folle ma costruisce poco».

Abbiamo perso anche questa occasione.

«King diceva di non bere alla coppa del rancore e dell'odio. Questa è una grande differenza tra i due. Il suo era in fondo un invito in fondo all'unità nazionale e la gente, bianca e nera, lo ha sentito».

Ma era anche un invito a sognare.

«Anche Berlusconi ha fatto sognare gli italiani. Indimenticabile il suo discorso d'esordio: "L'Italia è il paese che io amo". La gente aveva iniziato a pensare che finalmente si poteva fare politica in modo diverso e che si poteva parlare di ricchezza senza imbarazzi. Quello che propone però è un sogno infinito».

In che senso?

«Lo scorso febbraio ha fatto ancora promesse: non far pagare l'Imu. Lo ha fatto anche lui in termini biblici sancendo una sorta di alleanza tra gli italiani e lo Stato. Ma non è questo quello di cui abbiamo bisogno».

E di cosa?

«L'Imu da non pagare non basta. Aneliamo tutti a una visione diversa del paese dove viviamo, della nostra storia comune e personale».

Ci faccia un esempio.

«Alcide De Gasperi. Era appena finita la seconda guerra mondiale, lo aspettava la Conferenza di pace a Parigi. Partì per andare a negoziare le sanzioni per l'Italia che ne era uscita perdente. Questo piccolo uomo va ad affrontare letteralmente il mondo. Arriva e non gli stringono neanche la mano».

Cosa otterrà?

«Inizia il suo discorso così: "Avverto che in quest'aula tutto è contro di me...". Ha usato parole semplici ed educate. E' riuscito a far capire che l'Italia era ancora affidabile. Ha ottenuto il massimo del rispetto. Tutti cambiarono idea, capirono che il paese aveva chiuso col fascismo».

Sono passati un bel po' di anni.

«Solo dopo dieci quel discorso l'Italia divenne tra le potenze industriali più potenti del mondo».

La domanda «Perché oggi non ci riusciamo?» potrebbe diventare un'ennesima figura retorica: excusatio non petita accusatio manifesta.... Tanto vale.

STATO DI DIRITTO?

Berlusconi, il discorso integrale. Ecco l’intervento video del Cavaliere: «Care amiche, cari amici, voglio parlarvi con la sincerità con cui ognuno di noi parla alle persone alle quali vuole bene quando bisogna prendere una decisione importante che riguarda la nostra famiglia. Che si fa in questi casi? Ci si guarda negli occhi, ci si dice la verità e si cerca insieme la strada migliore. Siete certamente consapevoli che siamo precipitati in una crisi economica senza precedenti, in una depressione che uccide le aziende, che toglie lavoro ai giovani, che angoscia i genitori, che minaccia il nostro benessere e il nostro futuro. Il peso dello Stato, delle tasse, della spesa pubblica è eccessivo: occorre imboccare la strada maestra del liberalismo che, quando è stata percorsa, ha sempre prodotto risultati positivi in tutti i Paesi dell’Occidente: qual è questa strada? Meno Stato, meno spesa pubblica, meno tasse. Con la sinistra al potere, il programma sarebbe invece, come sempre, altre tasse, un’imposta patrimoniale sui nostri risparmi, un costo più elevato dello Stato e di tutti i servizi pubblici. I nostri ministri hanno già messo a punto le nostre proposte per un vero rilancio dell’economia, proposte che saranno principalmente volte a fermare il bombardamento fiscale che sta mettendo in ginocchio le nostre famiglie e le nostre imprese. Ma devo ricordare che gli elettori purtroppo non ci hanno mai consegnato una maggioranza vera, abbiamo sempre dovuto fare i conti con i piccoli partiti della nostra coalizione che, per i loro interessi particolari, ci hanno sempre impedito di realizzare le riforme indispensabili per modernizzare il Paese, prima tra tutte quella della giustizia. E proprio per la giustizia, diciamoci la verità, siamo diventati un Paese in cui non vi è più la certezza del diritto, siamo diventati una democrazia dimezzata alla mercé di una magistratura politicizzata, una magistratura che, unica tra le magistrature dei Paesi civili, gode di una totale irresponsabilità, di una totale impunità. Questa magistratura, per la prevalenza acquisita da un suo settore, Magistratura Democratica, si è trasformata da “Ordine” dello Stato, costituito da impiegati pubblici non eletti, in un “Potere” dello Stato, anzi in un “Contropotere” in grado di condizionare il Potere legislativo e il Potere esecutivo e si è data come missione, quella - è una loro dichiarazione - di realizzare “la via giudiziaria” al socialismo.  Questa magistratura, dopo aver eliminato nel ’92 - ’93 i cinque partiti democratici che ci avevano governati per cinquant’anni, credeva di aver spianato definitivamente la strada del potere alla sinistra. Successe invece quel che sapete: un estraneo alla politica, un certo Silvio Berlusconi, scese in campo, sconfisse la gioiosa macchina da guerra della sinistra, e in due mesi portò i moderati al governo. Ero io. Subito, anzi immediatamente, i P.M. e i giudici legati alla sinistra e in particolare quelli di Magistratura Democratica si scatenarono contro di me e mi inviarono un avviso di garanzia accusandomi di un reato da cui sarei stato assolto, con formula piena, sette anni dopo. Cadde così il governo, ma da quel momento fino ad oggi mi sono stati rovesciati addosso, incredibilmente, senza alcun fondamento nella realtà, 50 processi che hanno infangato la mia immagine e mi hanno tolto tempo, tanto tempo, serenità e ingenti risorse economiche. Hanno frugato ignobilmente e morbosamente nel mio privato, hanno messo a rischio le mie aziende senza alcun riguardo per le migliaia di persone serie ed oneste che vi lavorano, hanno aggredito il mio patrimonio con una sentenza completamente infondata, che ha riconosciuto a un noto, molto noto, sostenitore della sinistra una somma quattro volte superiore al valore delle mie quote, con dei pretesti hanno attaccato me, la mia famiglia, i miei collaboratori, i miei amici e perfino i miei ospiti. Ed ora, dopo 41 processi che si sono conclusi, loro malgrado, senza alcuna condanna, si illudono di essere riusciti ad estromettermi dalla vita politica, con una sentenza che è politica, che è mostruosa, ma che potrebbe non essere definitiva come invece vuol far credere la sinistra, perché nei tempi giusti, nei tempi opportuni, mi batterò per ottenerne la revisione in Italia e in Europa. Per arrivare a condannarmi si sono assicurati la maggioranza nei collegi che mi hanno giudicato, si sono impadroniti di questi collegi, si sono inventati un nuovo reato, quello di “ideatore di un sistema di frode fiscale”, senza nessuna prova, calpestando ogni mio diritto alla difesa, rifiutandosi di ascoltare 171 testimoni a mio favore, sottraendomi da ultimo, con un ben costruito espediente, al mio giudice naturale, cioè a una delle Sezioni ordinarie della Cassazione, che mi avevano già assolto, la seconda e la terza, due volte, su fatti analoghi negando - cito tra virgolette - “l’esistenza in capo a Silvio Berlusconi di reali poteri gestori della società Mediaset”. Sfidando la verità, sfidando il ridicolo, sono riusciti a condannarmi a quattro anni di carcere e soprattutto all’interdizione dai pubblici uffici, per una presunta ma inesistente evasione dello zero virgola, rispetto agli oltre 10 miliardi, ripeto 10 miliardi di euro, quasi ventimila miliardi di vecchie lire, versati allo Stato, dal ’94 ad oggi, dal gruppo che ho fondato. Sono dunque passati vent’anni da quando decisi di scendere in campo. Allora dissi che lo facevo per un Paese che amavo. Lo amo ancora, questo Paese, nonostante l’amarezza di questi anni, una grande amarezza, e nonostante l’indignazione per quest’ultima sentenza paradossale, perché, voglio ripeterlo ancora, con forza, “io non ho commesso alcun reato, io non sono colpevole di alcunché, io sono innocente, io sono assolutamente innocente”. Ho dedicato l’intera seconda parte della mia vita, quella che dovrebbe servire a raccogliere i frutti del proprio lavoro, al bene comune. E sono davvero convinto di aver fatto del bene all’Italia, da imprenditore, da uomo di sport, da uomo di Stato. Per il mio impegno ho pagato e sto pagando un prezzo altissimo, ma ho l’orgoglio di aver impedito la conquista definitiva del potere alla sinistra, a questa sinistra che non ha mai rinnegato la sua ideologia, che non è mai riuscita a diventare socialdemocratica, che è rimasta sempre la stessa: la sinistra dell’invidia, del risentimento e dell’odio. Devo confessare che sono orgoglioso, molto orgoglioso, di questo mio risultato. Proprio per questo, adesso, insistono nel togliermi di mezzo con un’aggressione scientifica, pianificata, violenta del loro braccio giudiziario, visto che non sono stati capaci di farlo con gli strumenti della democrazia. Per questo, adesso, sono qui per chiedere a voi, a ciascuno di voi, di aprire gli occhi, di reagire e di scendere in campo per combattere questa sinistra e per combattere l’uso della giustizia a fini di lotta politica, questo male che ha già cambiato e vuole ancora cambiare la storia della nostra Repubblica.  Non vogliamo e non possiamo permettere che l’Italia resti rinchiusa nella gabbia di una giustizia malata, che lascia tutti i giorni i suoi segni sulla carne viva dei milioni di italiani che sono coinvolti in un processo civile o penale. È come per una brutta malattia: uno dice “a me non capiterà”, ma poi, se ti arriva addosso, entri in un girone infernale da cui è difficile uscire. Per questo dico a tutti voi, agli italiani onesti, per bene, di buon senso: reagite, protestate, fatevi sentire. Avete il dovere di fare qualcosa di forte e di grande per uscire dalla situazione in cui ci hanno precipitati. So bene, quanto sia forte e motivata la vostra sfiducia, la vostra nausea verso la politica, verso “questa” politica fatta di scandali, di liti in tv, di una inconcludenza e di un qualunquismo senza contenuti: una politica che sembra un mondo a parte, di profittatori e di mestieranti drammaticamente lontani dalla vita reale. Ma nonostante questo, ed anzi proprio per questo, occorre che noi tutti ci occupiamo della politica. È sporca? Ma se la lasci a chi la sta sporcando, sarà sempre più sporca… Non te ne vuoi occupare? Ma è la politica stessa che si occuperà comunque di te, della tua vita, della tua famiglia, del tuo lavoro, del tuo futuro. È arrivato quindi davvero il momento di svegliarci, di preoccuparci, di ribellarci, di indignarci, di reagire, di farci sentire. È arrivato il momento in cui tutti gli italiani responsabili, gli italiani che amano l’Italia e che amano la libertà, devono sentire il dovere di impegnarsi personalmente. Per questo credo che la cosa migliore da fare sia quella di riprendere in mano la bandiera di Forza Italia. Perché Forza Italia non è un partito, non è una parte, ma è un’idea, un progetto nazionale che unisce tutti.  Perché Forza Italia è l’Italia delle donne e degli uomini che amano la libertà e che vogliono restare liberi.  Perché Forza Italia è la vittoria dell’amore sull’invidia e sull’odio. Perché Forza Italia difende i valori della nostra tradizione cristiana, il valore della vita, della famiglia, della solidarietà, della tolleranza verso tutti a cominciare dagli avversari. Perché Forza Italia sa bene che lo Stato deve essere al servizio dei cittadini e non invece i cittadini al servizio dello Stato. Perché Forza Italia è l’ultima chiamata prima della catastrofe.  È l’ultima chiamata per gli italiani che sentono che il nostro benessere, la nostra democrazia, la nostra libertà sono in pericolo e rendono indispensabile un nuovo, più forte e più vasto impegno.  Forza Italia sarà un vero grande movimento degli elettori, dei cittadini, di chi vorrà diventarne protagonista.  Una forza che può e che deve conquistare la maggioranza dei consensi perché, vi ricordo, che solo con una vera e autonoma maggioranza in Parlamento si può davvero fare del bene all’Italia, per tornare ad essere una vera democrazia e per liberarci dall’oppressione giudiziaria, per liberarci dall’oppressione fiscale, per liberarci dall’oppressione burocratica.  Per questo vi dico: scendete in campo anche voi. Per questo ti dico: scendi in campo anche tu, con Forza Italia. Diventa anche tu un missionario di libertà, diffondi i nostri valori e i nostri programmi, partecipa ai nostri convegni e alle nostre manifestazioni, impegnati nelle prossime campagne elettorali e magari anche nelle sezioni elettorali per evitare che ci vengano sottratti troppi voti, come purtroppo è sempre accaduto. Voglio ripeterlo ancora: in questo momento, nella drammatica situazione in cui siamo, ogni persona consapevole e responsabile che vuol continuare a vivere in Italia ha il dovere di occuparsi direttamente del nostro comune destino. Io sarò sempre con voi, al vostro fianco, decaduto o no. Si può far politica anche senza essere in Parlamento. Non è il seggio che fa un leader, ma è il consenso popolare, il vostro consenso. Quel consenso che non mi è mai mancato e che, ne sono sicuro, non mi mancherà neppure in futuro. Anche se, dovete esserne certi, continueranno a tentare di eliminare dalla scena politica, privandolo dei suoi diritti politici e addirittura della sua libertà personale, il leader dei moderati, quegli italiani liberi che, voglio sottolinearlo, sono da sempre la maggioranza del Paese e lo saranno ancora se sapranno finalmente restare uniti. Sono convinto che mi state dando ragione, sono convinto che condividete questo mio allarme, sono convinto che saprete rispondere a questo mio appello, che è prima di tutto una testimonianza di amore per la nostra Italia. E dunque: Forza Italia! Forza Italia! Forza Italia! Viva l’Italia, viva la libertà: la libertà è l’essenza dell’uomo e Dio creando l’uomo, l’ha voluto libero.» 

Lettera aperta al dr Silvio Berlusconi.

«Sig. Presidente, sono Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso. Diverso, perché, nell’informare la gente dell’imperante ingiustizia, i magistrati se ne lamentano. E coloro che io critico, poi, sono quelli che mi giudicano e mi condannano. Ma io, così come altri colleghi perseguitati che fanno vera informazione, non vado in televisione a piangere la mia malasorte.

Pur essendo noi, per i forcaioli di destra e di sinistra, “delinquenti” come lei. 

Sono un liberale, non come lei, ed, appunto, una cosa a Lei la voglio dire.

Quello che le è capitato, in fondo, se lo merita. 20 anni son passati. Aveva il potere economico. Aveva il potere mediatico. Aveva il potere politico. Aveva il potere istituzionale. E non è stato capace nemmeno di difendere se stesso dallo strapotere dei magistrati. Li ha lasciati fare ed ha tutelato gli interessi degli avvocati e di tutte le lobbies e le caste, fregandosene dei poveri cristi. Perché se quello di cui si lamenta, capita a lei, figuriamoci cosa capita alla povera gente. E i suoi giornalisti sempre lì a denunciare abusi ed ingiustizie a carico del loro padrone. Anzi, lei, oltretutto, imbarca nei suoi canali mediatici gente comunista genuflessa ai magistrati. Non una parola sul fatto che l’ingiustizia contro uno, siffatto potente, è l’elevazione a sistema di un cancro della democrazia. Quanti poveri cristi devono piangere la loro sorte di innocenti in carcere per convincere qualcuno ad intervenire? Se è vero, come è vero, che se funzionari di Stato appartenenti ad un Ordine si son elevati a Potere, è sacrosanto sostenere che un leader politico che incarna il Potere del popolo non sta lì a tergiversare con i suoi funzionari, ma toglie loro la linfa che alimenta lo strapotere di cui loro abusano. Ma tanto, chi se ne fotte della povera gente innocente rinchiusa in canili umani.

 “Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso! Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti? Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente in Italia. Cose che nessuno a lei vicino le dirà mai. Non troverà le cose ovvie. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

Ad oggi, per esempio, sappiamo che lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più gli avversari politici; i magistrati di destra insabbiano di più le accuse contro i loro amici e colleghi. E poi. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi. Inutile lamentarci dei "Caccamo" alla Cassazione. Carmine Schiavone ha detto: Roma nostra! "Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori. Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

Bene, dr Berlusconi, Lei, avendone il potere per 20 anni, oltre che lamentarsi, cosa ha fatto per tutelare, non tanto se stesso, i cui risultati sono evidenti, ma i cittadini vittime dell’ingiustizia (contro il singolo) e della malagiustizia (contro la collettività)?

Quello che i politici oggi hanno perso è la credibilità: chi a torto attacca i magistrati; chi a torto li difende a spada tratta; chi a torto cerca l’intervento referendario inutile in tema di giustizia, fa sì che quel 50 % di astensione elettorale aumenti. Proprio perché, la gente, è stufa di farsi prendere in giro. Oltremodo adesso che siete tutti al Governo delle larghe intese per fottere il popolo. Quel popolo che mai si chiede: ma che cazzo di fine fanno i nostri soldi, che non bastano mai? E questo modo di fare informazione e spettacolo della stampa e della tv, certamente, alimenta il ribrezzo contro l'odierno sistema di potere.

Per fare un sillogismo. Se l’Italia è la Costa Concordia, e come tale è affondata, la colpa non è dello Schettino di turno, ma dell’equipaggio approssimativo di cui si è circondato. E se la Costa Crociere ha la sua Flotta e l’Italia ha la sua amministrazione centrale e periferica, quanti Schettino e relativi equipaggi ci sono in giro a navigare? E quante vittime i loro naufragi provocano? Si dice che l’Italia, come la Costa Concordia, è riemersa dall’affondamento? Sì, ma come? Tutta ammaccata e da rottamare!!! E gli italioti lì a belare……»

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. È uno Stato di diritto che funziona quello che è costretto a sborsare ogni anno decine di milioni per rimborsare cittadini che hanno dovuto trascorrere giorni, mesi, anni in carcere da innocenti? È uno Stato di diritto quello in cui dove dovrebbero stare 100 detenuti ce ne stanno 142? È uno Stato di diritto quello in cui ogni quattro procedimenti già fissati per il dibattimento tre vengono rinviati per motivi vari?

Domande che con Andrea Cuomo su “Il Giornale” giriamo al premier Enrico Letta del Partito Democratico (ex PCI), che  - in funzione chiaramente anti-Cav - ha giurato: «In Italia lo Stato di diritto funziona». Postilla: «Non ci sono persecuzioni». Chissà che cosa pensano in particolare di questa ultima affermazione categorica le tantissime vittime di errori giudiziari a cui il quotidiano romano Il Tempo ha dedicato un'inchiesta di cinque giorni che ha contrassegnato l'insediamento alla direzione del nostro ex inviato Gian Marco Chiocci, che di giornalismo giudiziario ne mastica eccome.

Tanti i dati sciorinati e le storie raccontate dal quotidiano di piazza Colonna. Secondo cui per il Censis, nel dopoguerra, sono stati 5 milioni gli italiani coinvolti in inchieste giudiziarie e poi risultati innocenti. Di essi circa 25mila sono riusciti a ottenere il rimborso per ingiusta detenzione a partire dal 1989, per un esborso totale di 550 milioni di euro in tutto: del resto per ogni giorno passato in carcere lo Stato riconosce all'innocente 235,83 euro, e la metà (117,91) in caso di arresti domiciliari. Il tetto massimo di rimborso sarebbe di 516.456,90 euro. Ma Giuseppe Gulotta, che con il marchio di duplice assassino impresso sulla pelle da una confessione estorta a forza di botte (metodo usato per tutti) ha trascorso in cella 22 anni per essere scagionato nel 2012, pretende 69 milioni. Tanto, se si pensa al tetto di cui sopra. Nulla se questo è il prezzo di una vita squartata, merce che un prezzo non ce l'ha. Per il caso Sebai, poi, è calata una coltre di omertà. I condannanti per i delitti di 13 vecchiette, anche loro menati per rendere una confessione estorta, sono ancora dentro, meno uno che si è suicidato. Questi non risultano come vittime di errori giudiziari, nonostante il vero assassino, poi suicidatosi, ha confessato, con prove a sostegno, la sua responsabilità. Lo stesso fa Michele Misseri, non creduto, mentre moglie e figlia marciscono in carcere. Siamo a Taranto, il Foro dell’ingiustizia.  

E siccome i cattivi giudici non guardano in faccia nessuno, spesso anche i vip sono caduti nella trappola dell'errore giudiziario. Il più famoso è Enzo Tortora. Ma ci sono anche Serena Grandi, Gigi Sabani, Lelio Luttazzi, Gioia Scola, Calogero Mannino e Antonio Gava nel Who's Who della carcerazione ingiusta. Carcerazione che è a suo modo ingiusta anche per chi colpevole lo è davvero quando è trascorsa nelle 206 carceri italiane. La cui capienza ufficiale sarebbe di 45.588 persone ma ne ospitano 66.632. Lo dice il rapporto «Senza Dignità 2012» dell'associazione Antigone, vero museo degli orrori delle prigioni d'Italia. Il Paese secondo il cui premier «lo Stato di diritto è garantito». Pensate se non lo fosse.

Non solo ci è impedito dire “Italia di Merda” in base alla famosa sentenza della Corte di Cassazione. In questo Stato, addirittura, è vietato dire “Fisco di Merda”. Per gli stilisti Domenico Dolce e Stefano Gabbana, con le motivazioni della sentenza del tribunale di Milano che il 19 luglio 2013 li ha condannati a un anno e otto mesi di reclusione per il reato di omessa dichiarazione dei redditi, è arrivata, dopo il danno, anche la beffa. La sentenza li obbliga  a risarcire con 500mila euro il «danno morale» arrecato al Fisco italiano. Di cosa sono colpevoli? Da molti anni i «simboli» della moda italiana denunciano l’eccessiva pressione fiscale. All’indomani della sentenza avevano chiuso per protesta i negozi di Milano. E una critica, pare, può costare cara. La sentenza sembra quasi contenere una excusatio non petita: il danno, scrivono i magistrati, è dovuto «non tanto, ovviamente, per l’esposizione a legittime critiche in merito agli accertamenti, quanto per il pregiudizio che condotte particolarmente maliziose cagionano alla funzionalità del sistema di accertamento ed alla tempestiva percezione del tributo».

Ora venite a ripeterci che le sentenze non si discutono, scrive Filippo Facci. Gli stilisti Dolce & Gabbana sono già stati condannati a un anno e otto mesi per evasione fiscale, e pace, lo sapevamo. Ma, per il resto, chiudere i propri negozi per protesta è un reato oppure non lo è. E non lo è. Il semplice denunciare l’eccesso di pressione fiscale è un reato oppure non lo è. E non lo è. Comprare una pagina di giornale per lamentarsi contro Equitalia è un reato oppure non lo è. E non lo è. Rilasciare interviste contro il fisco rapace è un reato oppure non lo è. E non lo è. E se non lo è - se queste condotte non sono reati - la magistratura non può prendere questi non-reati e stabilire che nell’insieme abbiano inferto un «danno morale» al fisco italiano, come si legge nelle motivazioni della sentenza appena rese note.  I giudici non possono stabilire che degli atti leciti «cagionano pregiudizio alla funzionalità del sistema di accertamento e alla tempestiva percezione del tributo». Ergo, i giudici non possono affibbiare a Dolce & Gabbana altri 500mila euro di risarcimento per «danno morale», come hanno fatto: perché significa che il diritto di critica è andato definitivamente a ramengo e che la sola cosa da fare è pagare e stare zitti, perché sennò la gente, sai, poi pensa male di Equitalia. Ecco perché occorre proteggerla da quella moltitudine di crudeli cittadini pronti a infliggerle terrificanti danni morali con le loro lagnanze. Siamo alla follia.

Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

CHI E’ IL POLITICO?

Ora lo dice anche la scienza: la politica manda fuori di testa. Incapace di accettare idee diverse e pronto a manipolare i dati a proprio comodo. Il cervello della casta secondo Yale, scrive “Libero Quotidiano”. Oramai c'è anche il sigillo della scienza: la politica rende intellettualmente disonesti. Lo dimostra uno studio condotto da Dan Kahan della Yale University: la passione politica compromette il funzionamento della mente e induce a distorcere logica e capacità di calcolo. Perché? Perché il cervello del politico, come risulta dallo studio, prova a ogni costo a modificare i dati reali per farli aderire alla propria visione del mondo.

L'esperimento, la prima parte - Tra i vari esperimenti che hanno composto lo studio (pubblicato col titolo “Motivated numeracy and Enlightened self-government”), ce n'è uno che illustra meglio di tutti il meccanismo di deformazione intellettuale dei politici. E' stato chiesto alle "cavie" di interpretare delle tavole numeriche relativa alla capacità di provocare prurito di alcune creme dermatologiche. Non avendo l'argomento implicazioni sociali, i politici sono stati in grado di eseguire correttamente i calcoli aritmetici.

L'esperimento, la seconda parte - In seconda battuta, allo stesso campione umano è stato chiesto di leggere tavole che per tema, però, avevano il rapporto tra licenze dei porti d'armi e variazione del tasso di criminalità. E i nodi sono venuti al pettine. Avendo l'argomento ovvia rilevanza politica, le cavie sono andate in tilt. Quando si trovavano a dover rispondere a quesiti aritmetici in contraddizione con le proprie convinzioni, sbagliavano in maniera inconscia anche calcoli semplici per non dover arrivare a una soluzione sgradita. Insomma: meglio andare fuori strada che imboccare una strada spiacevole.

Le conclusioni - Il prof della Yale non ha dubbi: la passione politica è una fatto congenito che però condiziona il cervello. Una volta che il politico fa sua una certa visione del mondo, non c'è dato o riscontro oggettivo che possa fargli cambiare idea.

CHI E’ L’AVVOCATO?

Chi è l’avvocato: fenomenologia di una categoria, spiega un anonimo sul portale “La Legge per tutti”.

O li si ama o li si odia: non esistono vie di mezzo per gli avvocati, una delle categorie professionali più contraddittorie e discusse dai tempi degli antichi greci.

“E il Signore disse: Facciamo Satana, così la gente non mi incolperà di tutto. E facciamo gli avvocati, così la gente non incolperà di tutto Satana”.

La battuta del comico statunitense, George Burns, è il modo migliore per aprire l’argomento su una delle professioni da sempre più discusse. Perché, diciamoci la verità, appena si parla di “avvocati” la prima idea che corre è quella di una “categoria“: non tanto nel senso di lobby, quanto di un mondo sociale a parte, con i suoi strani modi di essere e di pensare. Insomma, proprio come quando si pensa ad una razza animale.

Difensori dei diritti o azzeccagarbugli abili solo a far assolvere i colpevoli? Professionisti della logica o dotati retori? La linea di confine è così labile che l’immaginario collettivo li ha sempre collocati a cavallo tra la menzogna e il rigore.

Di tutto questo, però, una cosa è certa: gli avvocati formano un mondo a sé.

La parola “avvocato” deriva dal latino “vocatus“‘ ossia “chiamato”. Non nel senso, come verrebbe spontaneo pensare, che all’indirizzo di questa figura vengono rivolti irripetibili epiteti offensivi, ma nel significato che a lui ci si rivolge quando si ha bisogno di aiuto.

L’odio da sempre legato al legale va a braccetto con la parola “parcella“: un peso che ha trascinato questa categoria nel più profondo girone dantesco. Perché – la gente si chiede – bisogna pagare (anche profumatamente) per far valere i propri diritti? In realtà, la risposta è la stessa per cui bisogna remunerare un medico per godere di buona salute o aprire un mutuo per avere un tetto sotto cui dormire. Tuttavia, i fondamenti della difesa legale risalgono a quando, già dagli antichi greci, i soliti individui omaggiati di improvvisa ricchezza erano anche quelli inabissati di profonda ignoranza: costoro trovarono più conveniente affidare ai più istruiti la difesa dei propri interessi. E ciò fu anche la consegna delle chiavi di un’intera scienza. Perché, da allora, il popolo non si è più riappropriato di ciò che era nato per lui: la legge.

I primi avvocati erano anche filosofi, e questo perché non esistevano corpi legislativi definiti e certi. Erano, insomma, la classe che non zappava, ma guardava le stelle. Un’anima teorica che, a quanto sembra, è rimasta sino ad oggi.

Ciò che, però, si ignora è che, ai tempi dei romani, il compenso dell’avvocato era la fama, acquisita la quale si poteva pensare d’intraprendere la carriera politica. In quel periodo sussisteva il divieto di ricevere denaro in cambio delle proprie prestazioni professionali e la violazione di tale precetto era sanzionata con una pena pecuniaria. Il divieto, sin da allora e secondo buona prassi italica, veniva sistematicamente raggirato poiché era consentito – proprio come avviene oggi nei migliori ambienti della pubblica amministrazione – accettare doni e regalie da parte dei clienti riconoscenti. Da qui venne il detto: “ianua advocati pulsanda pede” (“alla porta dell’avvocato si bussa col piede”, visto che le mani sono occupate a reggere i doni).

“La giurisprudenza estende la mente e allarga le vedute”: una considerazione che, seppur vera, si scontra con la prassi. Il carattere di un avvocato, infatti, è permaloso e presuntuoso. Provate a fargli cambiare idea: se ci riuscirete sarà solo perché lui vi ha fatto credere così. In realtà, ogni avvocato resta sempre della propria idea. Giusta o sbagliata che sia. Ed anche dopo la sentenza che gli dà torto. A sbagliare è sempre il giudice o la legge.

L’avvocato è una persona abituata a fare domande e, nello stesso tempo, ad essere evasivo a quelle che gli vengono rivolte. È solito prendere decisioni e a prenderle in fretta (calcolate la differenza di tempi con un ingegnere e vedrete!). È dotato di problem solving e il suo obiettivo è trovare l’escamotage per uscire fuori dal problema, in qualsiasi modo possibile.

Inoltre, l’avvocato, nell’esercizio della propria professione, è un irriducibile individualista: se ne sta nel suo studio, a coltivare le sue pratiche, e l’idea dell’associativismo gli fa venire l’orticaria.

Egli considera ogni minuto sottratto al proprio lavoro una perdita di tempo. Il tempo appunto: ogni legale nasce con l’orologio al polso, e questo perché la vita professionale è costellata di scadenze. Tra termini iniziali, finali, dilatori, ordinatori, perentori, ogni avvocato considera la propria agenda più della propria compagna di letto.

Così come la caratteristica di ogni buon medico è quella di scrivere le ricette con una grafia incomprensibile, dote di ogni avvocato è parlare con un linguaggio mai chiaro per il cittadino. Tra latinismi, istituti, tecnicismi, concettualismi, astrazioni, teorie e interpretazioni, commi, articoli, leggi, leggine e sentenze, il vocabolario del legale è precluso ad ogni persona che non sia, appunto, un altro legale. E questo – a quanto sembra – gratifica infinitamente ogni avvocato che si rispetti.

Su tutto, però, l’avvocato è un relativista nell’accezione più pirandelliana del termine. La realtà non esiste (e chi se ne frega!): esiste solo ciò che appare dalle carte. Tutto il resto è mutevole, contraddittorio, variabile, volubile, capriccioso, instabile. Tanto vale non pensarci e accontentarsi di ciò che racconta il cliente.

Si dice che il problema dell’avvocatura sia il numero. Su 9.000 giudici, in Italia ci sono circa 220.000 avvocati. In realtà, il problema sarebbe di gran lunga più grave se di avvocati ve ne fossero pochi, circostanza che aprirebbe le porte alla scarsità e, quindi, a tariffe ancora più alte e a una certa difficoltà a poter difendere tutti.

La ragione di tale eccesso di offerta risiede nel fatto che la facilità con cui si accede, oggi, all’avvocatura ha fatto si che tale professione venisse considerata una sorta di area di transito in cui potersi parcheggiare in attesa di un lavoro più soddisfacente (e, di questi tempi, remunerativo). Poi, però, le cose non vanno mai come programmato e ciò che doveva essere un impegno momentaneo diventa quello di una vita (salvo tentare il classico concorso pubblico e inseguire la chimera del posto fisso a reddito certo).

Ci piace terminare con le parole di Giulio Imbarcati, pseudonimo di un collega che ha saputo prendere in giro la categoria, disegnandola anche finemente in un suo libro di successo.

Il problema è che oggi nel campo dell’avvocatura (più che in altre professioni) non è il mercato a operare la selezione.

Se così fosse tutti saremmo più tranquilli e fiduciosi, perché questo vorrebbe dire qualità del servizio. E, come dovrebbe essere in qualsiasi sistema sociale che voglia definirsi giusto, dopo l’uguale allineamento ai nastri di partenza, i più dotati procedono veloci, i mediocri arrancano, gli inadatti si fermano.

Ma, nel mondo all’incontrario che abbiamo costruito con lungimirante impegno, le cose funzionano diversamente.

Capita che siano proprio i più dotati a soccombere e non solo davanti ai mediocri, ma anche rispetti agli inadatti.

Perché? Ma perché proprio i mediocri e gli inadatti sono quelli più disposti al compromesso e all’ipocrisia.

Proprio loro, cioè, per raggiungere gli obiettivi, e consapevoli della modesta dote professionale, hanno meno difficoltà a discostarsi da quelle coordinate di riferimento che i dotati continuano a considerare sacre e inviolabili.

L’effetto, nel settore dell’avvocatura, è dirompente e a pagarne gli effetti non sarà solo il fruitore immediato (ossia il cittadino), ma l’intero sistema giustizia.“ 

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

CHI E’ IL MAGISTRATO?

"Giustizia usata per scopi politici". Se lo dice anche la Boccassini... Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Ognuno deve fare la sua parte, anche i politici, anche i giornalisti, ma in questi vent'anni lo sbaglio di noi magistrati è di non aver mai fatto un'autocritica o una riflessione. Perché si è verificato ed è inaccettabile che alcune indagini sono servite ad altro (per gli stessi magistrati, per carriere, per entrare in politica)».  Alcuni suoi colleghi si sono sentiti portatori di verità assolute per le loro indagini grazie al "consenso sociale", cosa sbagliatissima, una "patologia", sia per lei, sia per Giuseppe Pignatone, procuratore capo di Roma, seduto al suo fianco. Una sparata senza precedenti contro le toghe politicizzate, contro quella branca della magistratura che ha usato le aule di tribunale per spiccare il volo in parlamento. A Ilda la Rossa, che la politica l'ha sempre fatta direttamente nei corridoi del Palazzo di Giustizia di Milano, proprio non vanno giù i vari Antonio Di Pietro, Luigi De Magistris e Antonio Ingroia che, negli ultimi anni, hanno amaramente tentato di accaparrarsi una poltrona. "Non è una patologia della magistratura - ha spiegato la pm di Milano - ma ci sono dei pubblici ministeri che hanno usato il loro lavoro per altro".

«Io - racconta Boccassini, che dopo trent'anni ha cambiato colore e taglio di capelli, è diventata bionda - durante Tangentopoli, stavo in Sicilia. Noi vivevano in hotel "bunkerizzati", con i sacchi di sabbia, intorno era guerra. E quando arrivavo a Milano, per salutare i colleghi, vedevo le manifestazioni a loro favore, "Forza mani pulite""». E non le piaceva, anzi "ho provato una cosa terribile" quando la folla scandiva i nomi dei magistrati, perché a muoverli "non dev'essere l'approvazione". «Non è il consenso popolare che ci deve dare la forza di andare avanti, ma il fatto di far bene il nostro mestiere. Ho sempre vissuto molto male gli atteggiamenti osannanti delle folle oceaniche degli anni di Mani pulite e delle stragi di mafia"». Intervenuta alla presentazione del libro di Lionello Mancini, "L'onere della toga", il 14 settembre 2013 il pm milanese Ilda Boccassini ha sottolineato gli atteggiamenti e le dinamiche che si sono sviluppate nella magistratura negli ultimi vent'anni. «Un'anomalia dalla quale dovremo uscire per forza di cose. Quello che rimprovero alla mia categoria è di non aver mai fatto una seria autocritica in tutti questi anni», ha concluso. 

Come ha sottolineato Giuseppe Pignatone, una riflessione dovrebbe nascere in seguito al processo Borsellino: ci sono stati dei condannati sino alla cassazione, ma poi le confessioni di un collaboratore di giustizia hanno raccontato che la verità era un'altra: "Chi ha sbagliato in buona fede deve dirlo", perché i magistrati dell'accusa devono muoversi sempre sulle prove certe, invece, a volte, ripete Pignatone, "quando le prove non ci sono, alcune notizie vengono fatte uscire sui giornali, per una carica moralistica che non deve appartenere alla magistratura". Anzi, è il contrario. La parola che Pignatone usa di più è "equilibrio", sia per fermarsi, per evitare che persone finiscano nei guai senza prove, sia "per partire e andare sino in fondo quando le prove ci sono". Tutti e due hanno collaborato a lungo nelle inchieste che hanno decimato alcune tra le cosche più potenti della 'ndrangheta. Descrizione: http://imageceu1.247realmedia.com/0/default/empty.gif

Sono entrambi - e lo dicono - in prima pagina dieci volte di più dei colleghi citati nel libro di Mancini, ma conoscono la "nausea" comune a chiunque debba fare un mestiere difficile, che ha a che fare con la vita, la morte, il dolore. E per questo, "se un giornalista ha una notizia che mette in pericolo la vita di una persona, non la deve dare", dice Boccassini, Pignatone concorda, De Bortoli e Mancini alzano gli occhi al cielo.

L’idolatria è il male endemico di una società debole. Ha come effetti il ridimensionamento della condizione civile del singolo, il suo declassamento da cittadino a cliente oppure a percettore di una identità e/o idealità passive, chiuse nel recinto di una tifoseria. Io sono con te, sempre e comunque. Non amo altro Dio all’infuori di te. Fa dunque bene Ilda Boccassini a denunciare la trasformazione sociale dell’identità del magistrato, sia esso giudice o pubblico ministero, che nella storia recente della Repubblica è spesso assurto a stella del firmamento sociale, si è fatto, malgrado ogni sua buona e condivisibile intenzione, parte di una battaglia; ha goduto di un riconoscimento che magari esuberava dalle sue funzioni, dalla qualità di rappresentante della legge (“uguale per tutti”) che gli avrebbe dovuto far osservare l’obbligo di assoluta e rigorosa discrezione.

LA SCIENZA LO DICE: I MAGISTRATI FANNO POLITICA. I ROSSI ATTACCANO. GLI AZZURRI INSABBIANO.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

TRAMONTO ROSSO. I COMUNISTI E LA GIUSTIZIA.

Questo libro va usato come uno strumento per capire chi sono i Rossi, la classe politica di centrosinistra chiamata a rinnovare il paese. Scritto come un viaggio in Italia, da nord a sud, regione per regione, città per città. I protagonisti, gli affari, gli scandali, le inchieste. Uomini chiave come l’ex capo della segreteria politica Pd Filippo Penati, accusato di aver imposto tangenti, o il tesoriere della fu Margherita Luigi Lusi, che ha fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Roccaforti rosse come l’Emilia investite da casi di malaffare e penetrazioni mafiose mai visti. Nel Comune di Serramazzoni (Modena) indagini su abusi edilizi e gare pubbliche. I 3 milioni di cittadini accorsi alle primarie per la scelta del leader sono un’iniezione di fiducia. Ma nella contesa manca un programma chiaro di riforme in termini di diritti, lavoro, crescita. La difesa del finanziamento pubblico ai partiti spetta al tesoriere dei Ds Ugo Sposetti da Viterbo. Sposetti blinda in una serie di fondazioni il “patrimonio comunista” prima della fusione con la Margherita. Il Pd continua a occuparsi di banche dopo la scalata illegale di Unipol a Bnl (caso Monte dei Paschi). Il sistema sanitario nelle regioni rosse è piegato agli interessi corporativi. Tutta una classe politica che per anni ha vissuto di inciuci con Berlusconi, ora si dichiara ripulita e finalmente pronta a governare. Ma i nomi sono gli stessi di sempre. Ma anche il sistema Ds prima e  Pd poi in tutte le regioni d’Italia dove il governo si è protratto per anni e che tra sanità, cemento e appalti e municipalizzata , i conflitti di interesse dal Lazio alla Puglia all’Emilia si moltiplicano.

Così gli ex Pci condizionano le procure. Inchieste insabbiate, politici protetti, giudici trasferiti: le anomalie da Nord a Sud nel libro "Tramonto rosso", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Il Pd e i suoi scandali, dal nord al sud d'Italia, dentro e fuori le Procure. Abusi, tangenti, speculazioni edilizie, scalate bancarie, interessi corporativi nel sistema sanitario, magistrati scomodi isolati, intimiditi, trasferiti. Potenti di turno miracolosamente soltanto sfiorati da certe indagini. È un libro che farà discutere quello scritto da Ferruccio Pinotti, giornalista d'inchiesta autore di numerosi libri di indagine su temi scomodi, e Stefano Santachiara, blogger del Fatto. Atteso e temuto Tramonto rosso, edito da Chiarelettere, sarà in libreria a fine ottobre 2013, nonostante le voci di un blocco, smentito dagli autori, e dopo un piccolo slittamento (inizialmente l'uscita era prevista a giugno 2013) dovuto, pare, ad un capitolo particolarmente spinoso su una forte influenza «rossa» che agirebbe all'interno di uno dei tribunali più importanti d'Italia, quello di Milano, dove indagini che imboccano direzioni non previste non sarebbero le benvenute mentre altre troverebbero la strada spianata. Il libro presenta un ritratto della classe politica di centrosinistra, quella che si dichiara pulita e pronta a prendere in mano le redini del Paese, ma che è sempre la stessa. Stessi nomi, stesse beghe, stessi affanni. Un partito, il Pd, per niente diverso dagli altri nonostante si proclami tale. Gli uomini chiave della sinistra troveranno molte pagine dedicate a loro. Ce n'è per tutti. Per il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, che ha blindato in una serie di fondazioni il «patrimonio comunista» prima della fusione con la Margherita, per l'ex componente della segreteria di Bersani, Filippo Penati, accusato di corruzione e di finanziamento illecito, per l'ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, che avrebbe fatto sparire 22 milioni di euro di fondi elettorali. Gli autori passano dagli abusi edilizi e dalle infiltrazioni mafiose nell'Emilia rossa al pericoloso rapporto della sinistra con gli istituiti bancari, da Unipol a Monte dei Paschi. Molto è stato scritto sulla scalata Unipol-Bnl, sulla partecipazione ai vertici Ds e sul sequestro di 94 milioni di euro di azioni di Antonveneta disposto nel 2005 dal gip Clementina Forleo. Poco si sa, invece, su cosa è accaduto dopo al giudice che si è trovato tra le mani un fascicolo con i nomi di pezzi molto grossi del Pd. «Tramonto rosso» riordina alcuni fatti e segnala circostanze, talvolta inquietanti, che certamente fanno riflettere. Come le gravi intimidazioni subite dalla Forleo, le minacce, gli attacchi politici, le azioni disciplinari, l'isolamento. Fino al trasferimento per incompatibilità ambientale, nel 2008, poi clamorosamente bocciato da Tar e Consiglio di Stato. Il tutto nel silenzio dei colleghi per i quali i guai del gip erano legati al suo brutto carattere e non certo ai suoi provvedimenti sulle scalate bancarie. «Questa pervicacia contra personam è l'emblema dell'intromissione politica nella magistratura», si legge nel testo. Gli autori approfondiscono poi il noto salvataggio operato dalla Procura di Milano nei confronti di Massimo D'Alema e Nicola Latorre, descritti dalla Forleo nell'ordinanza del luglio 2007, finalizzata a chiedere il placet parlamentare all'uso delle telefonate nei procedimenti sulle scalate, come concorrenti del reato di aggiotaggio informativo del presidente di Unipol Gianni Consorte. Con la Forleo, sempre più nel mirino, oggetto di riunioni pomeridiane in cui alcuni colleghi milanesi avrebbero discusso la strategia contro di lei, come rivelato dal gip Guido Salvini. Per trovare un altro esempio di come riescono ad essere minimizzate le inchieste che coinvolgono il Pd basta scendere a Bari. Qui a fare le spese di un'indagine scomoda su alcuni illeciti nel sistema sanitario regionale è stato il pm Desirèe Digeronimo, duramente osteggiata dai colleghi fino al trasferimento.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare. Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro.

 “La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

E quindi in tema di giustizia ed informazione. Lettera aperta a “Quarto Grado”.

Egregio Direttore di “Quarto Grado”, dr Gianluigi Nuzzi, ed illustre Comitato di Redazione e stimati autori.

Sono il Dr Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica. In tema di Giustizia per conoscere gli effetti della sua disfunzione ho scritto dei saggi pubblicati su Amazon.it: “Giustiziopoli. Ingiustizia contro i singoli”; “Malagiustiziopoli”. Malagiustizia contro la Comunità”. Per conoscere bene coloro che la disfunzione la provocano ho scritto “Impunitopoli. Magistrati ed Avvocati, quello che non si osa dire”. Per giunta per conoscere come questi rivestono la loro funzione ho scritto “Concorsopoli. Magistrati ed avvocati col trucco”. Naturalmente per ogni città ho rendicontato le conseguenze di tutti gli errori giudiziari.  Errore giudiziario non è quello conclamato, ritenuto che si considera scleroticamente solo quello provocato da dolo o colpa grave. E questo con l’addebito di infrazione da parte dell’Europa. Né può essere considerato errore quello scaturito solo da ingiusta detenzione. E’ errore giudiziario ogni qualvolta vi è una novazione di giudizio in sede di reclamo, a prescindere se vi è stata detenzione o meno, o conclamato l’errore da parte dei colleghi magistrati. Quindi vi è errore quasi sempre.

Inoltre, cari emeriti signori, sono di Avetrana. In tal senso ho scritto un libro: “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire” giusto per far sapere come si lavora presso gli uffici giudiziari locali. Taranto definito il Foro dell’Ingiustizia. Cosa più importante, però, è che ho scritto: “Sarah Scazzi. Il delitto di Avetrana. Il resoconto di un avetranese. Quello che non si osa dire”. Tutti hanno scribacchiato qualcosa su Sarah, magari in palese conflitto d’interesse, o come megafono dei magistrati tarantini, ma solo io conosco i protagonisti, il territorio e tutto quello che è successo sin dal primo giorno. Molto prima di coloro che come orde di barbari sono scesi in paese pensando di trovare in loco gente con l’anello al naso e così li hanno da sempre dipinti. Certo che magistrati e giornalisti cercano di tacitarmi in tutti i modi, specialmente a Taranto, dove certa stampa e certa tv è lo zerbino della magistratura. Come in tutta Italia, d’altronde. E per questo non sono conosciuto alla grande massa, ma sul web sono io a spopolare.

Detto questo, dal mio punto di vista di luminare dell’argomento Giustizia, generale e particolare, degli appunti ve li voglio sollevare sia dal punto giuridico (della legge) sia da punto della Prassi. Questo vale per voi, ma vale anche per tutti quei programmi salottieri che di giustizia ne sparlano e non ne parlano, influenzando i telespettatori o da questi sono condizionati per colpa degli ascolti. La domanda quindi è: manettari e forcaioli si è o si diventa guardando certi programmi approssimativi? Perché nessuno sdegno noto nella gente quando si parla di gente rinchiusa per anni in canili umani da innocente. E se capitasse agli ignavi?

Certo, direttore Nuzzi, lei si vanta degli ascolti alti. Non è la quantità che fa un buon programma, ma la qualità degli utenti. Fare un programma di buon livello professionale, si pagherà sullo share, ma si guadagna in spessore culturale e di levatura giuridica. Al contrario è come se si parlasse di calcio con i tifosi al bar: tutti allenatori. 

Il suo programma, come tutti del resto, lo trovo: sbilanciatissimo sull’accusa, approssimativo, superficiale, giustizialista ed ora anche confessionale. Idolatria di Geova da parte di Concetta e pubblicità gratuita per i suoi avvocati. Visibilità garantita anche come avvocati di Parolisi. Nulla di nuovo, insomma, rispetto alla conduzione di Salvo Sottile.

Nella puntata del 27 settembre 2013, in studio non è stato detto nulla di nuovo, né di utile, se non quello di rimarcare la colpevolezza delle donne di Michele Misseri. La confessione di Michele: sottigliezze. Fino al punto che Carmelo Abbate si è spinto a dire: «chi delle due donne mente?». Dando per scontato la loro colpevolezza. Dal punto di vista scandalistico e gossipparo, va bene, ma solo dalla bocca di un autentico esperto è uscita una cosa sensata, senza essere per forza un garantista.

Alessandro Meluzzi: «non si conosce ora, luogo, dinamica, arma, movente ed autori dell’omicidio!!!».

Ergo: da dove nasce la certezza di colpevolezza, anche se avallata da una sentenza, il cui giudizio era già stato prematuramente espresso dai giudici nel corso del dibattimento, sicuri di una mancata applicazione della loro ricusazione e della rimessione del processo? 

E quello del dubbio scriminante, ma sottaciuto, vale per tutti i casi trattati in tv, appiattiti invece sull’idolatria dei magistrati. Anzi di più, anche di Geova.

Una cosa è certa, però. Non sarà la coerenza di questi nostri politicanti a cambiare le sorti delle nostre famiglie.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

«Perché ho scelto di porre un termine al governo Letta». Silvio Berlusconi, lettera a Tempi del 1 ottobre 2013. «Gentile direttore, non mi sfuggono, e non mi sono mai sfuggiti, i problemi che affrontano l’Italia che amo ed i miei concittadini. La situazione internazionale continua a essere incerta. I dati economici nazionali non sono indirizzati alla ripresa. E, nonostante le puntuali resistenze del centrodestra, un esorbitante carico fiscale continua a deprimere la nostra industria, i commerci, i bilanci delle famiglie». Inizia così la lunga lettera che Silvio Berlusconi ha scritto a Tempi. Berlusconi si chiede quanti danni abbia provocato all’Italia «un ventennio di assalto alla politica, alla società, all’economia, da parte dei cosiddetti “magistrati democratici” e dei loro alleati nel mondo dell’editoria, dei salotti, delle lobby? Quanto male ha fatto agli italiani, tra i quali mi onoro di essere uno dei tanti, una giustizia al servizio di certi obiettivi politici?». Berlusconi cita il caso dell’Ilva di Taranto, la cui chiusura è avvenuta «grazie anche a quella che, grottescamente, hanno ancora oggi il coraggio di chiamare “supplenza dei giudici alla politica”», e torna a chiedere: «Di quanti casi Ilva è lastricata la strada che ci ha condotto nell’inferno di una Costituzione manomessa e sostituita con le carte di un potere giudiziario che ha preso il posto di parlamento e governo? (…) Hanno “rovesciato come un calzino l’Italia”, come da programma esplicitamente rivendicato da uno dei pm del pool di Mani Pulite dei primi anni Novanta, ed ecco il bel risultato: né pulizia né giustizia. Ma il deserto». «Non è il caso Berlusconi che conta – prosegue -. Conta tutto ciò che, attraverso il caso Silvio Berlusconi, è rivelatore dell’intera vicenda italiana dal 1993 ad oggi. Il caso cioè di una persecuzione giudiziaria violenta e sistematica di chiunque non si piegasse agli interessi e al potere di quella parte che noi genericamente enunciamo come “sinistra”. Ma che in realtà è rappresentata da quei poteri e forze radicate nello Stato, nelle amministrazioni pubbliche, nei giornali, che sono responsabili della rapina sistemica e del debito pubblico imposti agli italiani. Berlusconi non è uno di quegli imprenditori fasulli che ha chiuso fabbriche o ha fatto a spezzatini di aziende per darsi alla speculazione finanziaria. Berlusconi non è uno di quelli che hanno spolpato Telecom o hanno fatto impresa con gli aiuti di Stato. (…) Berlusconi è uno dei tanti grandi e piccoli imprenditori che al loro paese hanno dato lavoro e ricchezza. Per questo, l’esempio e l’eccellenza di questa Italia che lavora dovevano essere invidiati, perseguitati e annientati (questo era l’obbiettivo di sentenze come quella che ci ha estorto 500 milioni di euro e, pensavano loro, ci avrebbe ridotto sul lastrico) dalle forze della conservazione». Il leader del centrodestra ripercorre poi le vicende politiche degli ultimi anni, ricordando il suo sostegno al governo Monti e, oggi, al governo Letta. Scrive Berlusconi: «Abbiamo contribuito, contro gli interessi elettorali del centrodestra, a sostenere governi guidati da personalità estranee – talvolta ostili – al nostro schieramento. Abbiamo dato così il nostro contributo perché la nazione tornasse a respirare, si riuscisse a riformare lo Stato, a costruire le basi per una nostra più salda sovranità, a rilanciare l’economia. Con il governo Monti le condizioni stringenti della politica ci hanno fatto accettare provvedimenti fiscali e sul lavoro sbagliati. Con il governo Letta abbiamo ottenuto più chiarezza sulle politiche fiscali, conquistando provvedimenti di allentamento delle tasse e l’impostazione di una riforma dello Stato nel senso della modernizzazione e della libertà». «Alla fine, però, i settori politicizzati della magistratura sono pervenuti a un’incredibile, ingiusta perché infondata, condanna di ultima istanza nei miei confronti. Ed altre manovre persecutrici procedono in ogni parte d’Italia». «Enrico Letta e Giorgio Napolitano – scrive l’ex presidente del Consiglio - avrebbero dovuto rendersi conto che, non ponendo la questione della tutela dei diritti politici del leader del centrodestra nazionale, distruggevano un elemento essenziale della loro credibilità e minavano le basi della democrazia parlamentare. Come può essere affidabile chi non riesce a garantire l’agibilità politica neanche al proprio fondamentale partner di governo e lascia che si proceda al suo assassinio politico per via giudiziaria?». «Il Pd (compreso Matteo Renzi) ha tenuto un atteggiamento irresponsabile soffiando sul fuoco senza dare alcuna prospettiva politica. Resistere per me è stato un imperativo morale che nasce dalla consapevolezza che senza il mio argine – che come è evidente mi ha portato ben più sofferenze che ricompense – si imporrebbe un regime di oppressione insieme giustizialista e fiscale. Per tutto questo, pur comprendendo tutti i rischi che mi assumo, ho scelto di porre un termine al governo Letta». Infine la conclusione: «Ho scelto la via del ritorno al giudizio del popolo non per i “miei guai giudiziari” ma perché si è nettamente evidenziata la realtà di un governo radicalmente ostile al suo stesso compagno di cosiddette “larghe intese”. Un governo che non vuole una forza organizzata di centrodestra in grado di riequilibrarne la sua linea ondivaga e subalterna ai soliti poteri interni e internazionali». Berlusconi dice di voler recuperare «quanto di positivo è stato fatto ed elaborato (per esempio in tema di riforme istituzionali) da questo governo che, ripeto, io per primo ho voluto per il bene dell’Italia e che io per primo non avrei abbandonato se soltanto ci fosse stato modo di proseguire su una linea di fattiva, di giusta, di leale collaborazione». Ma spiega anche di non averlo più voluto sostenere «quando Letta ha usato l’aumento dell’Iva come arma di ricatto nei confronti del mio schieramento ho capito che non c’era più margine di trattativa». «Non solo – aggiunge -. Quando capisci che l’Italia è un Paese dove la libera iniziativa e la libera impresa del cittadino diventano oggetto di aggressione da ogni parte, dal fisco ai magistrati; quando addirittura grandi imprenditori vengono ideologicamente e pubblicamente linciati per l’espressione di un libero pensiero, quando persone che dovrebbero incarnare con neutralità e prudenza il ruolo di rappresentanti delle istituzioni pretendono di insegnarci come si debba essere uomini e come si debba essere donne, come si debbano educare i figli e quale tipo di famiglia devono avere gli italiani, insomma, quando lo Stato si fa padrone illiberale e arrogante mentre il governo tace e non ha né la forza né la volontà di difendere la libertà e le tasche dei suoi cittadini, allora è bene che la parola ritorni al nostro unico padrone: il popolo italiano».

Sceneggiata in fondo a destra, scrive Stefania Carini su “Europa Quotidiano”. Nessuna sceneggiatura al mondo può batterci, perché noi teniamo la sceneggiata. Non ci scalfisce manco Sorkin con West Wing e The Newsroom (uno degli attori di quest’ultima serie era pure presente al Roma Fiction Fest per annunciarne la messa in onda su Raitre). Tze, nessun giornalista o politico sul piccolo schermo può batterci in queste ore. Bastava vedere oggi le prime pagine di due giornali dall’opposto populismo: per Il Giornale è tradimento, per Il Fatto è inciucio. Ah, la crisi secondo il proprio target di spettatori! E ‘O Malamente che dice? Ma come in tutti i melodrammi, i gesti sono più importanti. Vedere per capire. In senato prima arriva Alfano e si siede accanto a Letta, vorrà dire qualcosa? Poi arriva Berlusconi, e allora colpa di scena! Marcia indietro? Sardoni (sempre la più brava) racconta di un Bondi che si scrolla dalla pacca sulla spalla di Lupi. Non toccarmi, impuro! Biancofiore e Giovanardi litigano a Agorà, ma ieri sera già aleggiava una forza di schizofrenia sui nostri schermi. Sallusti e Cicchitto erano seduti a Ballarò dalla stessa parte, secondo solita partitura visiva del talk. Solo che invece di scannarsi con i dirimpettai, con quelli della sinistra, si scannavano fra di loro. Una grande sequenza comico-drammatica, riproposta pure da Mentana durante la sua consueta lunga maratona in mattinata.

A Matrix pure Feltri faceva il grande pezzo d’attore, andandosene perché: «Non ne posso più di Berlusconi, di Letta e di queste discussioni interminabili, come non ne possono più gli italiani». Oh, sì, gli italiani non ne possono più, ma davanti a un tale spettacolo come resistere? Siamo lì, al Colosseo pieno di leoni, e noi con i popcorn. Alla fine ‘O Malamente vota il contrario di quanto detto in mattinata, e il gesto plateale si scioglie in un risata farsesca per non piangere. Tze, Sorkin, beccati questo. Noi teniamo Losito. Solo che nella realtà non abbiamo nessuno bello come Garko.

COSA HA RIPORTATO LA STAMPA.

IL CORRIERE DELLA SERA - In apertura: “Resa di Berlusconi, ora il governo è più forte”.

LA REPUBBLICA - In apertura: “La sconfitta di Berlusconi”.

LA STAMPA - In apertura: “Fiducia a Letta e il Pdl si spacca”.

IL GIORNALE - In apertura: “Caccia ai berlusconiani”.

IL SOLE 24 ORE - In apertura: “Resa di Berlusconi, fiducia larga a Letta”.

IL TEMPO - In apertura: “Berlusconi cede ad Alfano e vota la fiducia al governo. Pdl sempre più nel caos”.

IL FATTO QUOTIDIANO – In apertura: “La buffonata”.

Il Financial Times titola a caratteri cubitali sulla "vittoria" del premier Letta al senato e sottolinea che l'Italia si è allontanata dal baratro dopo "l'inversione a U" di Berlusconi.

Sulla homepage di BBC News campeggia la foto di Berlusconi in lacrime con sotto il titolo "Vittoria di Letta dopo l'inversione a U di Berlusconi".

Apertura italiana anche per il quotidiano The Guardian, che evidenzia un piccolo giallo e chiede la partecipazione dei lettori. "Cosa ha detto Enrico Letta subito dopo l'annuncio di Berlusconi di votare per la fiducia al Governo"?. Passando alle testate spagnole, il progressista El Paìs pubblica in homepage una photogallery dal titolo "Le facce di Berlusconi" (tutte particolarmente adombrate) e titola il pezzo portante sulla crisi italiana dicendo che l'ex premier, "avendo avuto certezza di non poter vincere, ha deciso di non perdere".

Il conservatore El Mundo, invece, dedica l'apertura oltre che alla cronaca della giornata al Senato alla figura di Angelino Alfano, con un editoriale intitolato: "Il delfino che ha detto basta", nel quale si evidenzia la spaccatura profonda che ha minato l'integrità finora incrollabile del partito di Silvio Berlusconi.

E poi ci sono i quotidiani tedeschi. Lo Spiegel International titola a tutta pagina "Fallito il colpo di Stato in Parlamento. L'imbarazzo di Berlusconi". Lo Spiegel in lingua madre, invece, pone l'accento sulla "ribellione contro il Cavaliere, che sancisce la fine di un'epoca".

Foto con cravatta in bocca per Enrico Letta sul Frankfurter Allgemeine. Il quotidiano, da sempre molto critico nei confronti di Berlusconi, titola in apertura: "Enrico Letta vince il voto di fiducia" e poi si compiace che sia "stata scongiurata in Italia una nuova elezione" dopo una svolta a 180 gradi di Berlusconi.

Il New York Times dedica uno spazio in prima pagina a "Berlusconi che fa marcia indietro sulla minaccia di far cadere il governo".

Tra i giornali russi, il primo ad aprire sull'Italia è il moderato Kommersant, che dedica al voto di fiducia un articolo di cronaca con foto triste di Berlusconi, sottolineando che "L'Italia ha evitato nuove elezioni". Stessa cosa vale anche per il sito in lingua inglese di Al Jazeera, l'emittente del Qatar, che apre la sua edizione online con una foto di Enrico Letta che sorride sollevato "dopo la vittoria". 

Telegrafico Le Monde, che titola: "Il governo Letta ottiene la fiducia. Dopo la defezione di 25 senatori del PdL, Silvio Berlusconi ha deciso di votare la fiducia all'esecutivo".

"Berlusconi cambia casacca" è invece il titolo scelto dal quotidiano di sinistra Liberation.

Infine Le Figaro, quotidiano sarkozysta, titola: "Il voltafaccia di Silvio Berlusconi risparmia all'Italia una crisi".

FARSA ITALIA. UNA GIORNATA DI ORDINARIA FOLLIA.

Tra le 12, quando Sandro Bondi scandisce in Aula “fallirete”, e le 13,30, quando Silvio Berlusconi si arrende e, con un sorriso tirato, annuncia il sì al governo, è racchiuso tutto il senso di una giornata che, senza enfasi, il premier Enrico Letta definirà storica. Per la prima volta, infatti, il Cavaliere è costretto a ripiegare e a cedere sovranità alla decisione imposta da Angelino Alfano, il delfino considerato come un figlio che ha ucciso il padre. Che per il Pdl sia stata una giornata convulsa è ormai chiaro a tutti. E lo dimostra anche questa dichiarazione di Renato Brunetta, il quale, uscendo dalla riunione dei parlamentari del partito a Palazzo Madama, annuncia convinto che il Pdl toglierà la fiducia al Governo Letta. Poco dopo, in aula, la retromarcia di Berlusconi. Mercoledì 2 ottobre intorno alle 13.32 Silvio Berlusconi ha preso la parola al Senato e ha detto a sorpresa che il PdL avrebbe confermato la fiducia al governo Letta. Poco prima, il capogruppo del PdL alla Camera Renato Brunetta aveva detto perentoriamente ad alcuni giornalisti che «dopo lunga e approfondita discussione» nel gruppo dei parlamentari PdL, «l’opzione di votare la sfiducia al governo è stata assunta all’u-na-ni-mi-tà dei presenti».

La cronaca della giornata comincia, infatti, molto presto.

2,30 del mattino,  Angelino Alfano ha lasciato palazzo Grazioli dopo un lunghissimo faccia a faccia con il Cavaliere, concluso con una rottura dolorosa, ed una sfida, quella lanciata dal leader del centrodestra: "Provate a votare la fiducia a Letta e vedremo in quanti vi seguiranno".

9.30, “L’Italia corre un rischio fatale, cogliere o non cogliere l’attimo, con un sì o un no, dipende da noi”, ha esordito Letta, aggiungendo che "gli italiani ci urlano che non ne possono più di ‘sangue e arena’, di politici che si scannano e poi non cambia niente”, ma al tempo stesso ribadendo che “i piani della vicenda giudiziaria che investe Silvio Berlusconi e del governo, non potevano, né possono essere sovrapposti” e che ”il governo, questo governo in particolare, può continuare a vivere solo se è convincente. Per questo serve un nuovo patto focalizzato sui problemi delle famiglie e dei cittadini”.

Quando il presidente del Consiglio Letta ha cominciato a parlare in Senato, Giovanardi, Roberto Formigoni e Paolo Naccarato, i più decisi fra gli scissionisti, facevano circolare una lista  di 23 nomi, aggiungendo però che al momento della conta il risultato finale sarebbe stato ancoro più corposo. "Siamo già in 25 - dice  Roberto Formigoni parlando con i cronisti in Transatlantico della scissione dal gruppo Pdl - E' possibile che altri si aggiungano. Nel pomeriggio daremo vita a un gruppo autonomo chiamato 'I Popolari'. Restiamo alternativi al centrosinistra, collocati nel centrodestra". Questi i cognomi dei primi firmatari: Naccarato, Bianconi, Compagna, Bilardi, D'Ascola, Aielo, Augello, Caridi, Chiavaroli, Colucci, Formigoni, Gentile, Giovanardi, Gualdani, Mancuso, Marinello, Pagano, Sacconi, Scoma, Torrisi, Viceconte, L.Rossi, Quagliariello. Con questi numeri, come già aveva pensato anche il ministro Gaetano Quagliariello, il premier Letta aveva già raggiunto il quorum teorico al Senato. Infatti il presidente del Consiglio parte da una base di 137 voti (escluso quello del presidente del Senato che per tradizione non vota), ai quali si aggiungono i 5 dei senatori a vita ed i 4 annunciati dai fuoriusciti M5s. In questo modo il governo supera abbondantemente la fatidica ‘quota 161′ necessaria a Palazzo Madama assestandosi intorno a quota 170.

Berlusconi, che a seduta ancora in corso ha riunito i suoi per decidere il da farsi, ha detto che ''sarà il gruppo in maniera compatta a decidere cosa fare. Prendiamo una decisione comune per non deludere il nostro popolo''. Alla riunione non hanno partecipato i senatori considerati i ormai con le valigie in mano e una prima votazione si è chiusa con una pattuglia di 27 falchi schieratissimi sulla sfiducia al governo, mentre 23 erano per lasciare l'aula al momento del voto (al Senato l'astensione è equiparata al voto contrario) mentre solo due si sono comunque espressi per il voto di fiducia. Nonostante i no assoluti a Letta fossero quindi una netta minoranza rispetto al plenum del gruppo Pdl, Berlusconi ha tagliato corto "voteremo contro la fiducia", come il capo ufficio stampa del partito si è premurato di far sapere a tutti i giornalisti presenti nella sala antistante l'aula. Il Cavaliere dichiara: “voteremo no e resteremo in aula Se uscissimo fuori sarebbe un gesto ambiguo e gli elettori non lo capirebbero''. In aula al Senato è Sandro Bondi a schierarsi contro Enrico Letta con queste parole: “avete spaccato il Pdl ma fallirete.

11.30. Contrariamente a quanto si vociferava, non è Silvio Berlusconi ad intervenire in aula al Senato ma Sandro Bondi. Bondi ricorda a Letta di essere a Palazzo Chigi grazie anche al PdL; rimarca il passaggio di Letta circa il concetto di pacificazione e sostiene che per Letta, la pacificazione sta nell’eliminare politicamente Silvio Berlusconi. Bondi ricorda a Letta che il problema giudiziario di Berlusconi nasce anche da Tangentopoli quando la tempesta giudiziaria travolse anche la Democrazia Cristiana, partito d’origine del Premier. Intanto, il PdL ha deciso: voterà la sfiducia all’unanimità. Questo è il quanto alle 12.00. 

Poco dopo le 12.10 Enrico Letta riprende la parola nell’aula del Senato. Parla di giornata storica ma dai risvolti drammatici e ricorda che il travaglio di molti senatori va rispettato. Esprime gratitudine e solidarietà alla Senatrice Paola De Pin, per l’intervento in aula e per aver rischiato un attacco fisico da parte dei suoi ormai ex colleghi del M5S e sottolinea, rivolgendosi ai Senatori grillini che il rispetto della persona è alla base della democrazia. Durante l’intervento di Letta, vibranti proteste contro Letta da parte del Senatore Scilipoti che viene zittito dal Presidente Grasso. Letta aggiunge che i numeri che sostengono il governo sono cambiati ma comunque è fiducioso circa il raggiungimento degli obiettivi di governo verso i quali si pone con le parole “chiari” e “netti”. Il presidente del Consiglio ringrazia chi ha votato prima per l’attuale maggioranza come chi, oggi ha deciso diversamente. Letta rimarca il ruolo importante dell’Italia nel contesto europeo per il quale auspica centralità ed il coinvolgimento del Parlamento per il semestre UE. Si conclude qui, la replica del presidente del Consiglio e si aprono le dichiarazioni di voto. Questo è il quanto alle 12,30.

13.32. Berlusconi, e non il capogruppo Renato Schifani, interviene  per la dichiarazione di voto del Pdl. E in meno di tre minuti, con volto terreo, e senza fare nessun riferimento alle convulsioni dei giorni precedenti, ha rinnovato la fiducia a Letta "non senza travaglio". Il suo intervento al Senato è arrivato alle 13.32. Sottolinea che ad aprile ritenne di mettere insieme un governo di centrosinistra col centrodestra per il bene del Paese. Accettando tutte le volontà del presidente incaricato Enrico Letta, accettando di avere solo 5 ministri.  “Lo abbiamo fatto con la speranza che potesse cambiare il clima del nostro Paese - ha sostenuto - andando verso una pacificazione. Una speranza che non abbiamo deposto. Abbiamo ascoltato le parole del premier sugli impegni del suo Governo e sulla giustizia. Abbiamo deciso di esprimere un voto di fiducia a questo governo”.  Pone fine al proprio intervento, torna a sedersi e scoppia a piangere.

La fiducia al Governo Letta è passata con 235 voti a favore e 70 voti contrari.

Alle 16.00 il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha aperto il suo intervento alla Camera. Sostanzialmente è un rimarcare quanto già espresso stamattina in Senato. Intanto, nelle ore precedenti, si delinea la formazione del nuovo gruppo politico costituito da transfughi del PdL e capitanati da Fabrizio Cicchitto; sono ufficialmente 12 ma si conta di arrivare complessivamente a 26 Parlamentari. A margine della conferenza dei capigruppo alla Camera, la Presidenza ha dato il disco verde per la costituzione del nuovo gruppo che interverrà sin da oggi pomeriggio nel dibattito parlamentare che seguirà l’intervento di Letta.

Poco prima delle 21,30, la Camera ha espresso il proprio voto nei confronti del governo Letta. 435 favorevoli e 162 contrari. Termina qui, questa lunga giornata politica dalla quale il Paese esce con un governo confermato ma sostenuto da una nuova maggioranza. 

Vittorio Feltri fa trapelare il suo malessere su Twitter: "Chi incendia la propria casa e poi spegne le fiamme è un incendiario, un pompiere o un pirla?".

ITALIA DA VERGOGNA.

Che Italia di merda. Anzi no, perché non si può dire. Un’Italia da vergogna, però sì. Se volete possiamo continuare ad enucleare le virtù dell’italica vergogna.

È proprio una storiaccia, scrive Nicola Porro. Beccare l’esattore che per quattro danari fa lo sconto sulle tasse da pagare, sembra un roba dell’altro secolo. Secondo la Procura di Roma è quanto facevano alcuni funzionari (ed ex colleghi) di Equitalia. Vedremo presto, si spera, se e quanto fosse diffuso il sistema. Una tangente per alleggerire il proprio carico fiscale fa ribollire il sangue. Equitalia è stata negli ultimi anni il braccio inflessibile della legge (assurda) tributaria. Inflessibile nei suoi atteggiamenti oltre che nelle sue regole. La prima reazione è di sdegno. Come per uno stupro, non si riesce a ragionare, a essere lucidi. Ad aspettare un processo. In galera i presunti delinquenti. Gli aguzzini che hanno rovinato la vita a migliaia di contribuenti in sofferenza. Nei confronti dei quali (i contribuenti, si intende) non hanno mai avuto pietà. Bene. Ora calmiamoci un po’. E ragioniamo. Il dito è l’indagine di ieri. La luna è il caso di oggi e di domani. Ci stiamo forse prendendo in giro? Qualcuno pensa veramente che il catasto sia un luogo di verginelle? Qualcuno ritiene sul serio che le amministrazioni comunali che forniscono licenze siano immacolate? Qualcuno si immagina davvero che le Asl e i relativi controlli che fanno alle imprese siano tutti puliti? La lista potrebbe diventare infinita. Ed è una lista che sarebbe comunque compilata per difetto. Non c’è giorno che la cronaca non ci regali uno scandaletto locale su funzionari o dipendenti pubblici che non svolgono con onestà il proprio lavoro e che si mettono in tasca un stipendio alternativo a quello fornito dalla mamma Stato. Il nostro non è un punto di vista rassegnato. E tanto meno un giudizio complessivo sull’amministrazione pubblica. Il nostro è un puro ragionamento economico, senza alcun intento moralistico. Questo lo lasciamo a chi legge. La cosa è semplice e ha a che fare con la burocrazia statale. Essa ha un potere immenso, a ogni suo livello. Che le deriva dalla legge e dalla possibilità di farla applicare grazie al monopolio della violenza (legale e giudiziaria) di cui lo Stato dispone. Il caso Equitalia è particolarmente odioso per il momento in cui ci troviamo. Ma la stecca sulle tasse era ben più consistente e diffusa prima della riforma tributaria. Il punto è dunque quello di guardare al principio e non al dettaglio. Troppo Stato e la troppa burocrazia che ne consegue vuol dire una cosa sola: incentivo alla corruzione. La nostra bulimia legislativa, normativa e amministrativa nasce dalla presunzione pubblicistica, per la quale i privati sono più o meno potenzialmente tutti dei mascalzoni e devono dunque essere preventivamente controllati. Ecco le norme, le regole, i controlli, le agenzie, i funzionari, le procedure, le carte. Quanto più sono numerose, quanto maggiore è la possibilità che un passaggio sia economicamente agevolato da una commissione di sveltimento/tangente. Niente moralismi: calcolo delle probabilità. Nell’assurda costruzione pubblicistica che ci ha ormai irrimediabilmente contagiati si è commesso un enorme refuso logico. E cioè: i privati sono dei furfanti e come tali debbono essere regolati. Il mercato è in fallimento e dunque deve essere sostituito dallo Stato. E mai si pensa (ecco il refuso) che altrettanti furfanti e fallimenti ci possono statisticamente essere in coloro che dovrebbero legiferare o controllare. La prima vera, grande rivoluzione di questo Paese è ridurre il peso dello Stato, non solo perché costa troppo, ma perché si presume, sbagliando, che sia migliore e più giusto del privato.

ITALIA BARONALE.

I concorsi truccati di un Paese ancora feudale.

Un sistema consolidato di scambio di favori che ha attraversato tutta la Penisola, da Nord a Sud, coinvolgendo otto atenei: Bari, Sassari, Trento, Milano Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Roma Tre, Europea di Roma. È quanto emerge da un'inchiesta condotta dalla procura di Bari, che ha indagato su possibili manipolazioni di 15 concorsi pubblici per incarichi di docenti ordinari e associati nelle università.

L’inchiesta di Bari coinvolge 38 docenti, tra cui i 5 "saggi" chiamati dal governo, ma svela ciò che tutti sanno: le università sono una lobby, scrive Vittorio Macioce su “Il Giornale”. Non servono i saggi per rispondere a questa domanda. Come si diventa professori universitari? Lo sanno tutti. Non basta fare il concorso. Quello è l'atto finale, la fatica è arrivarci con qualche possibilità di vincerlo. È una corsa con regole antiche, dove la bravura è solo una delle tante componenti in gioco. L'università è un mondo feudale. I baroni non si chiamano così per caso. Ognuno di loro ha vassalli da piazzare. Entri se sei fedele, se sei pure bravo tanto meglio. È la logica della cooptazione. Ti scelgo dall'alto, per affinità, per affidabilità, per simpatia, perché apparteniamo allo stesso partito, alla stessa lobby, allo stesso giro. I baroni si riproducono tagliando fuori i devianti, le schegge impazzite, i cani sciolti. Molti sono convinti che in fondo questo sia un buon modo per selezionare una classe dirigente. Magari hanno ragione, magari no e il prezzo che si paga è la «mummificazione». Fatto sta che sotto il concorso pubblico ufficiale ci sono trattative, accordi, arrivi pilotati, rapporti di forza, «questa volta tocca al mio», «tu vai qui e l'altro lo mandiamo lì». La stragrande maggioranza dei futuri accademici vive e accetta questa logica. È l'università. È sempre stato così. Perché cambiare? L'importante è mandare avanti la finzione dei concorsi. È la consuetudine e pazienza se è «contra legem». I concorsi in genere funzionano così e il bello è che non è un segreto. Poi ogni tanto il meccanismo si inceppa. Qualcuno per fortuna ha il coraggio di denunciare o i baroni la fanno davvero sporca. È quello che è successo con un'inchiesta che parte da Bari e tocca una costellazione di atenei: Trento, Sassari, Bicocca, Lum, Valle d'Aosta, Benevento, Roma Tre e l'Europea. Sotto accusa finiscono 38 docenti, ma la notizia è che tra questi ci sono cinque «saggi». Cinque costituzionalisti cari al Colle. Augusto Barbera, Lorenza Violini, Beniamino Caravita, Giuseppe De Vergottini, Carmela Salazar. Che fanno i saggi? Solo pochi illuminati lo hanno davvero capito. Forse qualcuno ancora se li ricorda. Sono quel gruppo di professori nominati da Enrico Letta su consiglio di Napolitano per immaginare la terza Repubblica. Sulla carta dovevano gettare le basi per cambiare la Costituzione. In principio erano venti, poi per accontentare le larghe intese sono diventati trentacinque, alla fine si sono aggiunti anche sette estensori, con il compito di mettere in italiano corrente i pensieri degli altri. Risultato: quarantadue. Il lavoro lo hanno finito. Quando servirà ancora non si sa. I cinque saggi fino a prova contraria sono innocenti. Non è il caso di metterli alla gogna. Il sistema feudale però esiste. Basta chiederlo in privato a qualsiasi barone. Ed è qui che nasce il problema politico. Questo è un Paese feudale dove chi deve cambiare le regole è un feudatario. Non è solo l'università. L'accademia è solo uno dei simboli più visibili. È la nostra visione del mondo che resta aggrappata a un eterno feudalesimo. Sono feudali le burocrazie che comandano nei ministeri, paladini di ogni controriforma. È feudale il sistema politico. Sono feudali i tecnici che di tanto in tanto si improvvisano salvatori della patria. È feudale il mondo della sanità, della magistratura, del giornalismo. È feudale la cultura degli eurocrati di Bruxelles. È feudale il verbo del Quirinale. È stato sempre così. Solo che il sistema negli anni è diventato ancora più rigido. Lo spazio per gli outsider sta scomparendo. L'ingresso delle consorterie è zeppo di cavalli di frisia e filo spinato. La crisi ha fatto il resto. Se prima era tollerata un quota di non cooptazione dall'alto, ora la fame di posti liberi ha tagliato fuori i non allineati. E sono loro che generano cambiamento. Il finale di questa storia allora è tutto qui. Quando qualcuno sceglie 42 saggi per pilotare il cambiamento non vi fidate. Nella migliore delle ipotesi sta perdendo tempo, nella peggiore il concorso è truccato. Il prossimo candidato vincente è già stato scelto. Si chiama Dc.

È una storia antica quanto i baroni. Ma i nomi e i numeri, stavolta, fanno più rumore. Hanno trafficato in cattedre universitarie, sostengono la Procura e la Finanza di Bari. In almeno sette facoltà di diritto, pilotando concorsi per associati e ordinari. Le indagini, spiega Repubblica, iniziano nel 2008 presso l’università telematica “Giustino Fortunato”, di Benevento, che grazie al rettore Aldo Loiodice divenne una succursale dell’università di Bari: “Tirando il filo che parte dalla “Giustino Fortunato”, l’indagine si concentra infatti sui concorsi di tre discipline — diritto costituzionale, ecclesiastico, pubblico comparato — accertando che i professori ordinari “eletti nell’albo speciale” e dunque commissari in pectore della Commissione unica nazionale sono spesso in realtà legati da un vincolo di “reciproca lealtà” che, di fatto, li rende garanti di vincitori già altrimenti designati dei concorsi che sono chiamati a giudicare. Non ha insomma alcuna importanza chi viene “sorteggiato” nella Commissione”. La prova, per la Finanza, sarebbero le conversazioni dei prof insospettiti, che citano Shakespeare e parlano in latino: “È il caso dell’atto terzo, scena quarta del Macbeth. «Ciao, sono l’ombra di Banco», ammonisce un professore, rivolgendosi ad un collega. Già, Banco: la metafora della cattiva coscienza”. Da una minuscola università telematica al Gotha del mondo accademico italiano, scrive Giovanni Longo su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Una intercettazione dietro l’altra: così la Procura di Bari ha individuato una rete di docenti che potrebbe avere pilotato alcuni concorsi universitari di diritto ecclesiastico, costituzionale e pubblico comparato. I finanzieri del nucleo di polizia tributaria del comando provinciale di Bari avevano iniziato a indagare sulla «Giustino Fortunato» di Benevento. Gli accertamenti si sono poi estesi: basti pensare che i pm baresi Renato Nitti e Francesca Pirrelli stanno valutando le posizioni di un ex ministro, dell'ex garante per la privacy, di cinque dei 35 saggi nominati dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. L’ipotesi è che qualcuno possa avere influenzato i concorsi. Tra i 38 docenti coinvolti nell'inchiesta che da Bari potrebbe fare tremare il mondo accademico italiano ci sono infatti Augusto Barbera (Università di Bologna), Beniamino Caravita di Toritto (Università La Sapienza Roma), Giuseppe De Vergottini (Università di Bologna), Carmela Salazar (Università di Reggio Calabria) e Lorenza Violini (Università di Milano), nominati da Napolitano per affiancare l’esecutivo sul terreno delle riforme costituzionali. La loro posizione, al pari di quella dell'ex ministro per le Politiche Comunitarie Anna Maria Bernini e di Francesco Maria Pizzetti, ex Garante della Privacy, è al vaglio della Procura di Bari che dovrà verificare se ci sono elementi per esercitare l’azione penale. Gli accertamenti non sono legati agli incarichi istituzionali dei docenti, ma riguardano la loro attività di commissari in concorsi da ricercatore e da professore associato e ordinario, banditi nel secondo semestre del 2008. Quella tessuta pazientemente nel tempo dalle fiamme gialle, coordinate dalla Procura di Bari, sarebbe stata una vera e propria «rete» che per anni avrebbe agito su tutto il territorio nazionale e che a Bari avrebbe avuto una sponda significativa. Quattro i professori baresi sui quali sono da tempo in corso accertamenti: Aldo Loiodice, all’epoca ordinario di diritto costituzionale nell’Università di Bari, Gaetano Dammacco, ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico alla facoltà di scienze politiche; Maria Luisa Lo Giacco e Roberta Santoro, ricercatrici di diritto ecclesiastico. Le ipotesi di reato a vario titolo sono associazione per delinquere, corruzione, abuso d'ufficio, falso e truffa. E’ una élite di studiosi di diritto che si conoscono da sempre, che si incontrano a seminari e convegni di studio e che, anche in quel contesto, pianificano i concorsi universitari in tutta Italia. Questa è l’ipotesi. Il quadro emerso dalle centinaia di intercettazioni e dalle decine di perquisizioni eseguite negli anni scorsi in abitazioni, studi professionali, istituzioni universitarie, da Milano a Roma, da Teramo a Bari è da tempo al vaglio della Procura. Nove gli Atenei coinvolti. Almeno una decina i concorsi universitari espletati tra il 2006 e il 2010 finiti sotto la lente d’ingrandimento delle Fiamme Gialle. A quanto pare non sarebbe emersa una vera e propria cabina di regia, quanto piuttosto una sorta di «circolo privato» in grado di decidere il destino di concorsi per professori di prima e seconda fascia in tre discipline afferenti al diritto pubblico. Gli investigatori ritengono che questi concorsi nascondano un sistema di favori incrociati. Dopo il sorteggio delle commissioni giudicatrici previsto dalla riforma Gelmini, sarebbe insomma scattato un patto della serie: «tu fai vincere il mio “protetto” nella tua commissione ed io faccio vincere il tuo nella mia». «Accordi», «scambi di favore», «sodalizi e patti di fedeltà» per «manipolare» l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche, bandite su tutto il territorio nazionale in quel quadriennio. Dall’accusa iniziale, evidenziata in uno dei decreti di perquisizione, in oltre due anni, si sarebbero aggiunti molti altri riscontri trovati dagli investigatori. E pensare che l’inchiesta era partita dagli accertamenti sull'università telematica «Giustino Fortunato », considerata dalla Finanza una sorta di «titolificio» dove si poteva diventare professori in men che non si dica. Dietro quella pagliuzza sarebbe spuntata una trave molto più grande.

Università, i baroni si salvano con la prescrizione. Grazie alla riforma voluta da Berlusconi, che garantisce l'impunità ai colletti bianchi, tre docenti dell'ateneo di Bari sono stati assolti dall'accusa di spartizione delle cattedre. Ma le intercettazioni hanno mostrato l'esistenza di una vera e propria cupola in tutta Italia, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. È stata l'inchiesta più clamorosa sulla spartizione delle cattedre, quella che aveva fatto parlare di una mafia che decideva le nomine a professore negli atenei di tutta Italia. E lo faceva nel settore più delicato: la cardiologia. Ma nove anni dopo la retata che ha scosso le fondamenta del mondo universitario, il tribunale di Bari ha assolto tre imputati chiave dall'accusa di associazione a delinquere. Erano innocenti? Il reato è stato dichiarato prescritto perché è passato troppo tempo: i fatti contestati risalgono al 2002. Una beffa, l'ennesima conferma sull'effetto delle riforme berlusconiane che hanno dilatato la durata dei processi e di fatto garantiscono l'impunità ai colletti bianchi. Il colpo di spugna arriva proprio mentre da Roma a Messina si torna a gridare allo scandalo per i concorsi pilotati negli atenei. L'istruttoria di Bari era andata oltre, radiografando quanto fosse diventato profondo il malcostume nel corpo accademico. Grazie alle intercettazioni finirono sotto indagine decine di professori di tutte le regioni. Nel suo atto di accusa il giudice Giuseppe De Benectis scrisse: «I concorsi universitari erano dunque celebrati, discussi e decisi molto prima di quanto la loro effettuazione facesse pensare, a cura di commissari che sembravano simili a pochi “associati” a una “cosca” di sapore mafioso». Stando agli investigatori, al vertice della rete che smistava cattedre e borse da di studio da Brescia a Palermo c'era Paolo Rizzon, trevigiano diventato primario nel capoluogo pugliese. Le intercettazioni lo hanno descritto come un personaggio da commedia all'italiana. È stato registrato mentre manovrava la composizione di una commissione d'esame che approvasse la nomina del figlio. Poi scopre che l'erede non riesce neppure a mettere insieme la documentazione indicata per l'esame da raccomandato («Ho guardato su Internet, non c'è niente») e si dà da fare per trovargli un testo già scritto. Nei nastri finisce una storia dai risvolti boccacceschi con scambi di amanti e persino l'irruzione della vera mafia. Quando un candidato non si piega alle trame della “Cupola dei baroni” e presenta un ricorso per vedere riconosciuti i suoi diritti, gli fanno arrivare questo avvertimento: «Il professore ha fatto avere il tuo indirizzo a due mafiosi per farti dare una sonora bastonata». Secondo gli inquirenti, non si trattava di millanterie. I rapporti con esponenti di spicco della criminalità locale sono stati documentati, persino nel «commercio di reperti archeologici». A uno di loro – che al telefono definisce «il boss dei boss» - il primario chiede di recuperare l'auto rubata nel cortile della facoltà. Salvo poi scoprire che la vettura non era stata trafugata: si era semplicemente dimenticato dove l'aveva parcheggiata. I magistrati sono convinti che tra la metà degli anni Novanta e il 2002 il professore avesse creato una macchina perfetta per decidere le nomine di cardiologia in tutta Italia: «Una vera organizzazione che vedeva Rizzon tra i capi e organizzatori, con una ripartizione di ruoli, regole interne e sanzioni per la loro eventuale inosservanza che consentiva ai baroni, attraverso il controllo dei diversi organismi associativi, di acquisire in ambito accademico il controllo esecutivo e di predeterminare la composizione delle commissioni giudicatrici e prestabilire quindi anche l´esito della procedura». Oggi la sentenza ha prosciolto per prescrizione dall'associazione per delinquere tre docenti di spicco che avevano scelto il rito abbreviato. Assoluzione nel merito invece per gli altri reati contestati. Nonostante le accuse, i tre prof sono tutti rimasti al loro posto e hanno proseguito le carriere accademiche. Uno si è persino candidato alla carica di magnifico rettore. Una tutela garantista nei loro confronti, ma anche un pessimo esempio per chiunque sogni di fare strada con i propri mezzi nel mondo dell'università senza essere costretto a emigrare. I codici etici negli atenei sono stati introdotti solo dopo gli ultimi scandali, ma in tutta la pubblica amministrazione non si ricordano interventi esemplari delle commissioni disciplinari interne: si aspetta la magistratura e la sentenza definitiva, che non arriva praticamente mai. Anche nel caso del professore Rizzon e di altri tre luminari per i quali è in corso il processo ordinario sembra impossibile che si arrivi a un verdetto. Dopo nove anni siamo ancora al primo grado di giudizio e pure per loro la prescrizione è ormai imminente. Una lezione magistrale per chi crede nel merito.

CASA ITALIA.

Case popolari solo a stranieri? Magari non è proprio così ma basta farsi un giro in certe zone per rendersi conto che la realtà sembra sempre di più penalizzare gli italiani. Il record delle case popolari. Una su due va agli stranieri. Ecco le graduatorie per avere accesso agli alloggi di edilizia residenziale. Più del 50% delle domande vengono da immigrati. E i milanesi aspettano, scrive Chiara Campo su “Il Giornale”. Ci sono Aba Hassan, Abad, Abadir. Ventisette cognomi su ventisette solo nella prima pagina (e almeno 17 idonei). Ma scorrendo il malloppo delle 1.094 pagine che in ordine alfabetico formano le graduatorie per accedere alle case popolari del Comune, almeno il 50% dei partecipanti è di provenienza straniera. Basta leggere i primi dieci fogli per avere l'impressione che, tra gli Abderrahman e gli Abebe, gli italiani siano dei «panda» in estinzione. Le graduatorie pubblicate da Palazzo Marino si riferiscono al bando aperto fino a fine giugno 2013 a chi ha bisogno di appartamenti di edilizia residenziale. Chi entra nell'elenco non ha automaticamente la casa perché la lista d'attesa è lunga, ma tra i criteri per avanzare in classifica ci sono ovviamente reddito (basso) e numero di figli (alto). Le proteste dei leghisti sono note: «Gli immigrati lavorano in nero e fanno tanti figli». Nel 2012 (sono dati del Sicet) su 1190 assegnazioni nel capoluogo lombardo 495, quasi la metà 455, sono state a favore di immigrati. A vedere gli elenchi l'impressione è che la percentuale possa alzarsi ancora, a scapito di tante famiglie milanesi che probabilmente versano tasse da più tempo e nella crisi avrebbero altrettanto bisogno di una casa a basso costo. «Sono per l'integrazione - commenta Silvia Sardone, consigliera Pdl della Zona 2 - ma questa non si può realizzare con una potenziale discriminazione per gli italiani. Probabilmente il sistema di costruzione delle graduatorie ha bisogno di essere reso più equo». Ci tiene a sottolineare: «Non sono razzista, non lo sono mai stata e non lo sarò. Non sono nemmeno perbenista né figlia di un buonismo di sinistra cieco della realtà. Ho molto amici italiani con cognomi stranieri, hanno un lavoro ed un mutuo sulla casa». Ma «nella prime pagine degli elenchi in ordine alfabetico si fa fatica a trovare un cognome italiano e complessivamente sono tantissimi i cognomi stranieri. Indipendentemente da chi ha studiato i criteri di partecipazione e assegnazione e di quando siano stati creati penso che oggi, nel 2013, debbano essere rivisti. Perché sono stanca di pagare delle tasse per servizi che spesso godono gli altri». Anche il capogruppo milanese della Lega torna a chiedere agli enti (Regione per prima) di rivedere i criteri di accesso, alzando ad esempio i 5 anni d residenza minima: «Serve una norma che difenda la nostra gente da chi, si dice, porta ricchezza, ma invece rappresenta un costo».

Laddove l’alloggio non viene assegnato, si occupa (si ruba) con il beneplacito delle Istituzioni.

Quando si parla di case occupate abusivamente o illegalmente, in genere la mente è portata a collegare tale fenomeno a quello dei centri sociali, scrive “Mole 24”. Un tema che di per sé sarebbe da approfondire, perché esistono centri sociali occupati da autonomi, altri da anarchici, altri ancora dai cosiddetti “squatter”, termine che deriva dall’inglese “to squat”, che non è solo un esercizio per rassodare i glutei ma significa anche per l’appunto “occupare abusivamente”. Ma l’occupazione abusiva delle case è in realtà un fenomeno assai nascosto e taciuto, praticamente sommerso. Un’anomalia che pochi conoscono, ancor meno denunciano o rivelano, essenzialmente perché non si sa come risolvere. Le leggi ci sono, o forse no, e se anche esistono pare proprio che le sentenze più attuali siano maggiormente orientate a tutelare gli interessi dell’occupante abusivo piuttosto che quelli del proprietario che reclama i suoi diritti da “esautorato”, sia che si parli del Comune in senso lato sia che si parli di un qualsiasi fruitore di case popolari che si ritrova il suo alloggio occupato da “ospiti” che hanno deciso di prenderne il possesso. Il fenomeno si riduce spesso ad essere una guerra tra poveri. Parliamo, per fare un esempio non così lontano dalla realtà, di un anziano pensionato costretto ad essere ricoverato in ospedale per giorni, settimane o anche mesi: ebbene, questo anziano signore, qualora fosse residente in un alloggio popolare, una volta dimesso potrebbe rischiare di tornare a casa e non riuscire più ad aprire la porta d’ingresso. Serratura cambiata, e l’amara sorpresa che nel frattempo alcuni sconosciuti hanno preso possesso dell’abitazione. Un problema risolvibile? Non così tanto. Anzi, potrebbe essere l’inizio di un lungo iter giudiziario, e se il nuovo o i nuovi occupanti, siano essi studenti cacciati di casa, extracomunitari, disoccupati o famiglie indigenti, dimostrano di essere alle prese con una situazione economica insostenibile o di non aver mai potuto accedere a bandi di assegnazione alle case popolari per vari motivi (ad esempio: non ne sono stati fatti per lunghi periodi), l’anziano in questione potrebbe rischiare di sudare le proverbiali sette camicie. Trattandosi di case popolari, la proprietà non è di nessuno ma del Comune. Questo vuol dire che quando qualcuno non è presente, fra gli altri bisognosi scatta una vera e propria corsa a chi arraffa la casa. Ci sarebbero sì le graduatorie per assegnare gli immobili, ma non mai vengono rispettate. Nel sud, affidarsi alla criminalità organizzata, pagando il dovuto, è il metodo più sicuro per assicurarsi una casa popolare. Chi pensa che questo sia un fenomeno di nicchia, si sbaglia di grosso. Le cifre infatti sono clamorose, anche se difficilmente reperibili. L’indagine più recente e affidabile da questo punto di vista è stata realizzata da Dexia Crediop per Federcasa sul Social Housing 2008. E parla di ben 40.000 case popolari occupate abusivamente in tutto lo Stivale, che se venissero assegnate a chi ne ha diritto permetterebbero a circa 100.000 persone di uscire da uno stato di emergenza.

L’onestà non paga. Ti serve una casa? Sfonda la porta e occupa, scrive Arnaldo Capezzuto su “Il Fatto Quotidiano”. L’appartamento di edilizia residenziale è abitato da una famiglia legittima assegnataria del diritto alla casa ottenuto attraverso un regolare quanto raro bando pubblico con relativo posto in graduatoria? Chi se ne fotte. Li cacci a calci in culo. E se non vogliono andare via, aspetti che escano e ti impossessi dell’abitazione. Con calma poi metti i loro mobili, vestiti e effetti personali in strada. Se malauguratamente qualcuno di loro ha la pazza idea di contattare le forze dell’ordine per sporgere denuncia, niente problema: li fai minacciare da qualche “cumpariello” inducendoli a dichiarare che quelle persone sono amici-parenti. Onde evitare però sospetti, con calma fai presentare un certificato di stato di famiglia dove i “signori occupanti” risultano dei conviventi. Il trucco è palese. Non regge l’escamotage dell’appartamento ceduto volontariamente. Certo. Gli investigatori non dormono. Questo è chiaro. Il solerte poliziotto esegue l’accertamento. I nodi alla fine vengo al pettine. La denuncia scatta immediata. La giustizia è lenta ma implacabile. Lo Stato vince. Gli occupanti abusivi in generale ammettono subito che sono abusivi. Quindi? Nei fatti c’è un organismo dello Stato – i verbali delle forze dell’ordine, le lettere di diffida degli enti pubblici gestori degli appartamenti – che certifica che a decorrere dal giorno x , dal mese x, dall’anno x, l’abitazione che era assegnata a tizio, caio e sempronio ora con la violenza e il sopruso è stato occupata da pinco pallino qualsiasi. La malapolitica trasversalmente e consociativamente per puri e bassi calcoli elettoralistici e non solo mascherati da esigenze sociali, di povertà, di coesione sociale e stronzate varie compulsando e piegando le istituzioni si attivano e varano con il classico blitz leggi, norme, regolamenti che vanno a sanare gli abusivi. Chi ha infranto la legge, chi ha prevaricato sul più debole, chi ha strizzato l’occhio al camorrista e al politiconzolo di turno, chi non mai ha presentato una regolare domanda di assegnazione, chi neppure ha i requisiti minimi per ottenere alla luce del sole un’abitazione si ritrova per "legge" un alloggio di proprietà pubblica a canone agevolatissimo. Accade in Campania e dove sennò in Africa?

Martedì 7 maggio 2013 è stato pubblicato sul Burc la nuova sanatoria per chi ha assaltato le case degli enti pubblici. La Regione Campania guidata dal governatore Stefano Caldoro ha varato all’interno della finanziaria regionale un provvedimento che regolarizza e stabilisce che può richiedere l’alloggio chi lo ha occupato prima del 31 dicembre 2010. Si badi bene che lo scorso anno era stato deciso con una legge simile che poteva ottenere la casa chi l’aveva assaltata entro il 2009. L’interrogativo sorge spontaneo: se puntualmente ogni anno varate una sanatoria per gli abusivi ma perché allora pubblicate i bandi di assegnazione con graduatoria se poi le persone oneste sono destinate ad avere sempre la peggio? Misteri regionali. C’è da precisare però che la nuova sanatoria contiene delle norme “innovative” e “rivoluzionarie” a tutela della legalità (non è una battuta!) per evitare che tra gli assegnatari in sanatoria ci siano pregiudicati e che le occupazione siano guidate dalla camorra. A questo punto c’è davvero da ridere. Le norme per entrare in vigore – però – hanno bisogno del “si” degli enti locali. Ecco il Comune di Napoli – ad esempio – ha detto “no”. Non è pragmatismo ma è guardare negli occhi il mostro. A Napoli non è solo malavita ci sono casi davvero di estrema povertà. Ma è facile adoperare, manipolare e nascondersi dietro questi ultimi per far proliferare camorra e fauna circostante. A Napoli i clan hanno sempre gestito le case di edilizia pubblica. Ad esempio a Scampia chi vive nei lotti di edilizia popolare sa bene che la continuità abitativa dipende dalle sorti del clan di riferimento. Chi perde la guerra, infatti, deve lasciare gli appartamenti ai nuovi padroni. Un altro esempio è il rione De Gasperi a Ponticelli. Qui il boss Ciro Sarno – ora fortunatamente dietro le sbarre a scontare diversi ergastoli – decideva le famiglie che potevano abitare negli appartamenti del Comune di Napoli. Una tarantella durata per decenni tanto che il padrino Ciro Sarno era soprannominato in senso dispregiativo ‘o Sindaco proprio per questa sua capacità di disporre di alloggi pubblici. Stesso discorso per le case del rione Traiano a Soccavo, le palazzine di Pianura, i parchi di Casavatore, Melito e Caivano.

Di cosa parliamo? Alle conferenze stampa ci si riempie la bocca con parole come legalità, anticamorra, lotta ai clan. Poi alla prima occasione utile invece di mostrare discontinuità, polso duro, mano ferma si deliberano norme che hanno effetti nefasti: alimentano il mercato della case pubbliche gestite dai soliti professionisti dell’occupazione abusiva borderline con i clan. Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

E gli alloggi di proprietà?

Le Iene, 1 ottobre 2013: case occupate abusivamente.

23.40. L’associazione Action organizza occupazioni di case: prima erano per lo più extracomunitari, ora sempre più spesso esponenti del ceto medio che non riesce più a pagare il mutuo e viene sfrattata. Occupano così case vuote o sfitte. O, peggio, entrano in case abitate, cambiano la serratura e addio (un incubo per molti). Una signora, però, ha rioccupato la casa da cui è stata sfrattata.

23.48. Si racconta la storia di una ragazza non ancora trentenne, fiorista, che ha occupato una casa comprata da una famiglia, che ha acceso un mutuo e che ora si trova con un immobile svalutato e un ambiente ben diverso da quello residenziale che avevano scelto per far crescere i propri figli. “Si è scatenata una guerra tra poveri” dice una signora che vive qui ‘legalmente’, che va a lavorare tutti i giorni per pagare un mutuo per una casa che non rivenderà mai allo stesso prezzo. E’ truffata anche lei.

L’occupazione abusiva degli immobili altrui e la tutela delle vittime.

In sede civile, scrive Alessio Anceschi, chi si veda abusivamente privato del proprio immobile può certamente adire l’autorità giudiziaria al fine di rientrare nella disponibilità di esso da coloro che lo hanno illegittimamente occupato. In tal senso, potrà proporre l’azione di rivendicazione (art. 948 c.c.), oppure, entro i termini previsti dalla legge, l’azione di reintegrazione (art. 1168 c.c.). Il legittimo proprietario o possessore dell’immobile potrà anche agire al fine di ottenere il risarcimento dei danni sofferti, i quali si prestano ad essere molto ingenti, sia sotto il profilo patrimoniale, che esistenziale. In tutti i casi, tuttavia, in considerazione della lunghezza del procedimento civile e soprattutto del procedimento di esecuzione, il legittimo proprietario o possessore dell’immobile si trova concretamente privato della propria abitazione (e di tutti i beni che in essa sono contenuti) e quindi costretto a vivere altrove, da parenti o amici, quando và bene, in ricoveri o per la strada quando và male.

Sotto il profilo penale sono ravvisabili molti reati. Prima di tutti, il reato di invasione di terreni od edifici (art. 633 c.p.), ma anche altri reati contro il patrimonio funzionalmente collegati all’occupazione abusiva, quali il danneggiamento (art. 635 c.p.) ed il furto (artt. 624 e 625 c.p.). Il secondo luogo, colui che occupa abusivamente un immobile altrui commette il reato di violazione di domicilio (art. 614 c.p.). Anche in questo caso, tuttavia, la tutela postuma che consegue alla sentenza non si presta a tutelare adeguatamente la vittima. Infatti, il reato di cui all’art. 633 c.p., unica tra le ipotesi citate ad integrare un reato permanente, non consente l’applicazione né di misure precautelari, né di misure cautelari. Lo stesso vale per gli altri reati sopra indicati, soprattutto quando non vi sia stata flagranza di reato. La vittima dovrà quindi attendere l’interminabile protrarsi del procedimento penale ed anche in caso di condanna, non avrà garanzie sulla reintegrazione del proprio bene immobile, posto che l’esiguità delle pene previste per i reati indicati e le mille vie d’uscita che offre il sistema penale, si presta a beffare nuovamente la povera vittima, anche laddove si sia costituita parte civile. Laddove poi l’abusivo trascini nell’immobile occupato la propria famiglia, con prole minorenne, le possibilità di vedersi restituire la propria abitazione scendono drasticamente, in virtù dei vari meccanismi presenti tanto sotto il profilo civilistico, quanto di quello penalistico.

La mancanza di tutela per la vittima è evidente in tutta la sua ingiustizia. Essa diventa ancora più oltraggiosa quando le vittime sono i soggetti deboli, soprattutto, come accade spesso, gli anziani. Che fare ? Nell’attesa che ciò si compia, ove si ritenga che il nostro “Sistema Giudiziario” sembri tutelare solo i criminali, può osservarsi che esso può tutelare anche le vittime, laddove siano costrette a convertirsi, per “necessità” di sopravvivenza e per autotutela. In effetti, occorre osservare che, il nostro ordinamento penale, che di recente ha anche ampliato la portata applicativa della scriminante della legittima difesa nelle ipotesi di violazione di domicilio (art. 52 c.p., come mod. l. 13.2.2006 n. 59), non consente che una persona ultrasettantenne possa subire una misura custodiale in carcere (artt. 275 co. 4° c.p.p. e 47 ter, l. 354/1975). Conseguentemente, solamente laddove l’anziano ultrasettantenne, spinto dall’amarezza, trovasse il coraggio di commettere omicidio nei confronti di tutti coloro che, senza scrupoli, lo abbiano indebitamente spogliato della propria abitazione, potrebbe rientrare immediatamente nel possesso della propria abitazione, con la sicurezza che, il nostro sistema giudiziario, gli garantirebbe una doverosa permanenza in essa attraverso gli arresti o la detenzione domiciliare. Contraddizioni di questa nostra Italia !!!

"Esci di casa e te la occupano… e alla Cassazione va bene così" ha titolato un quotidiano commentando una sentenza della Cassazione che avrebbe di fatto legittimato l'occupazione abusiva degli alloggi. L'articolo riportava le affermazioni di un sedicente funzionario dell'ex Istituto autonomo case popolari (Iacp) che consigliava all'assegnatario di un alloggio di mettere una porta blindata perché "Se sua mamma e suo papa vanno in ferie un paio di settimane, poi arrivano degli abusivi, quelli sfondano, mettono fuori i mobili, ci mettono i loro, e nessuno ha il potere di sgomberarli… Non ci si crede, ma è così". Ed infatti non bisogna credergli… Non è così, scrive “Sicurezza Pubblica”. Gli ipotetici abusivi di cui sopra commettono il reato di violazione di domicilio, e la polizia giudiziaria deve intervenire d'iniziativa per "impedire che venga portato a conseguenze ulteriori" (art. 55 cpp) allontanando (anche con la forza) i colpevoli dai locali occupati contro la legge. Il secondo comma dell'art. 614 cp commina (cioè minaccia) la pena della reclusione fino a tre anni a chiunque si trattenga nell'abitazione altrui o in un altro luogo di privata dimora, o nelle appartenenze di essi, contro la volontà espressa di chi ha il diritto di escluderlo, ovvero vi si trattiene clandestinamente o con inganno. La pena è da uno a cinque anni (arresto facoltativo, dunque) e si procede d'ufficio se il fatto è commesso con violenza sulle cose o alle persone, o se il colpevole è palesemente armato. Il reato è permanente. Perciò possiamo andare tranquillamente in ferie perché se qualcuno viola il nostro domicilio forzando la porta o una finestra, la polizia giudiziaria è obbligata a liberare l'alloggio ed il colpevole può essere arrestato. Quali potrebbero essere le responsabilità della polizia giudiziaria, che eventualmente omettesse o ritardasse l'intervento? Secondo l'art. 55 c.p.p. la p.g. deve (obbligo giuridico) impedire che i reati vengano portati a ulteriori conseguenze, mentre secondo l'art, 40 comma 2 del c.p.: "Non impedire un evento che si ha l'obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo". Perciò le ulteriori conseguenze dell'occupazione potrebbero essere addebitate ai responsabili del ritardo o dell'omissione.

Cosa ha veramente la Cassazione?

L'equivoco è nato dalla errata lettura della sentenza 27 giugno - 26 settembre2007, n. 35580, in cui la suprema Corte ha trattato il caso di una persona che, denunciata per aver occupato abusivamente un alloggio ex Iacp vuoto, aveva invocato l'esimente dello stato di necessità previsto dall'art. 54 cp, ma era stata condannata. La Corte non ha affatto legittimato il reato, ma si è limitata ad annullare la sentenza d'appello con rinvio ad altro giudice, ritenendo che fosse stata omessa la dovuta indagine per verificare se l'esimente stessa sussistesse o meno. Nulla di rivoluzionario dunque, ma applicazione di un principio: quando il giudice ravvisa l'art. 54 cp, il reato sussiste, ma "non è punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità di salvare sé o altri dal pericolo attuale di un danno grave alla persona". In quest'ottica, giova rammentare la sentenza 9265 del 9 marzo 2012, che ha definitivamente fatto chiarezza (qualora ce ne fosse stato bisogno). La Cassazione ha respinto il ricorso di una 43enne contro la sentenza del giudice di merito che aveva ritenuto la donna colpevole del reato di cui agli articoli 633 e 639 bis Cp per avere abusivamente occupato un immobile di proprietà dello Iacp di Palermo. La seconda sezione penale, confermando la condanna, ha escluso lo stato di necessità precisando che in base all’articolo 54 Cp per configurare questa esimente (la cui prova spetta all’imputato che la invoca), occorre che «nel momento in cui l’agente agisce contra ius - al fine di evitare un danno grave alla persona - il pericolo deve essere imminente e, quindi, individuato e circoscritto nel tempo e nello spazio. L’attualità del pericolo esclude quindi tutte quelle situazioni di pericolo non contingenti caratterizzate da una sorta di cronicità essendo datate e destinate a protrarsi nel tempo». Nell' ipotesi dell’occupazione di beni altrui, lo stato di necessità può essere invocato soltanto per un pericolo attuale e transitorio non certo per sopperire alla necessità di risolvere la propria esigenza abitativa, tanto più che gli alloggi Iacp sono proprio destinati a risolvere esigenze abitative di non abbienti, attraverso procedure pubbliche e regolamentate. In sintesi: una precaria e ipotetica condizione di salute non può legittimare, ai sensi dell’articolo 54 Cp, un’occupazione permanente di un immobile per risolvere, in realtà, in modo surrettizio, un’esigenza abitativa.

Sequestro preventivo dell'immobile occupato abusivamente.

La sussistenza di eventuali cause di giustificazione non esclude l'applicabilità della misura cautelare reale del sequestro preventivo. D'altronde la libera disponibilità dell'immobile comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato, che il sequestro preventivo mira invece a congelare. (Corte di Cassazione, sez. II Penale, sentenza n. 7722/12; depositata il 28 febbraio). Il caso. Due indagati del reato di invasione e occupazione di un edificio di proprietà dell'Istituto Autonomo Case Popolari ricorrevano per cassazione avverso l'ordinanza del Tribunale del Riesame di Lecce, che confermava il sequestro preventivo dell'immobile disposto dal GIP. A sostegno della loro tesi difensiva, gli indagati introducevano un elemento afferente il merito della responsabilità penale, sostenendo come fosse documentato lo stato di assoluta indigenza in cui versavano, tale da averli costretti ad occupare l'immobile per la necessità di evitare un danno maggiore alla loro esistenza e salute. In sostanza, invocavano lo stato di necessità che, secondo la tesi difensiva, avrebbe non solo giustificato l'occupazione, ma che avrebbe potuto determinare una revoca del provvedimento cautelare disposto…non opera per le misure cautelari reali. La Suprema Corte esamina la censura, ma la rigetta perché, nel silenzio della legge, non può applicarsi la regola - prevista dall'art. 273 comma 2 c.p.p. per le sole misure cautelari personali - che stabilisce che nessuna misura (personale) può essere disposta quando il fatto è compiuto in presenza di una causa di giustificazione, quale appunto l'invocato stato di necessità. L'ordinanza impugnata ha chiarito che i due indagati hanno abusivamente occupato un alloggio già assegnato ad altra persona, poi deceduta, e ha correttamente rilevato che è del tutto irrilevante la circostanza che nel lontano 1983 il B. sia stato assegnatario di un altro alloggio del cui possesso sarebbe stato spogliato. Se queste sono le circostanze di fatto non è ravvisabile alcuna violazione di legge, ma solo una diversa valutazione dei fatti stessi non consentita in questa sede di legittimità, per di più con riferimento a misure cautelari reali (art. 325, comma 1, c.p.p.). Per quanto concerne la sussistenza della dedotta causa di giustificazione, se è vero che, in tema di misure cautelari personali, ai sensi dall'art. 273, comma 2, cod. proc. pen., nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione, l'applicabilità di una analoga normativa con riferimento alle misure cautelari reali, in assenza di espressa previsione di legge, deve tenere conto dei limiti imposti al Tribunale in sede di riesame, nel senso che la verifica delle condizioni di legittimità della misura cautelare reale da parte del tribunale del riesame non può tradursi in anticipata decisione della questione di merito concernente la responsabilità della persona sottoposta ad indagini in ordine al reato oggetto di investigazione, ma deve limitarsi al controllo di compatibilità tra la fattispecie concreta e quella legale (per tutte: Sez. U, n. 7 del 23/02/2000, Bocedi, Rv. 215840). È evidente, pertanto, che una causa di giustificazione può rilevare nell'ambito del procedimento relativo a misure cautelari reali solo se la sua sussistenza possa affermarsi con un ragionevole grado di certezza. Anche sulla sussistenza del periculum in mora l'ordinanza impugnata, espressamente pronunciandosi sul punto, afferma che la libera disponibilità da parte degli indagati dell'immobile in questione comporterebbe un aggravamento o una protrazione delle conseguenze del reato commesso. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Condotta e dolo specifico.

L'articolo 633 cp stabilisce che "Chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o trame altrimenti profitto è punito a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa. Si procede d'ufficio se il fatto è commesso da più di cinque persone, di cui una almeno palesemente armata, o da più di dieci persone anche senz'armi". Si procede altresì d'ufficio (art. 638 bis c.p.) se si tratta di acque, terreni, fondi o edifici pubblici o destinati ad uso pubblico. Perché sussista il reato, occorre che l'agente penetri dall'esterno nell'immobile (anche senza violenza) e ne violi l'esclusività della proprietà o del possesso per una apprezzabile durata, contro la volontà del titolare del diritto o senza che la legge autorizzi tale condotta. Questo reato non consiste nel semplice fatto di invadere edifici o terreni altrui, ma richiede il dolo specifico, cioè la coscienza e volontà di invaderli al fine di occuparli o trame altrimenti profitto. Non occorre neppure l'intenzione dell'occupazione definitiva, anche se essa deve avere una durata apprezzabile. In caso di immobile già invaso, è possibile il concorso successivo di persone diverse dai primi autori dell'invasione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 maggio 1975, n. 5459). Quanto al reato di violazione di domicilio, previsto dall'art. 614 del C.P., esso è ravvisabile anche "nella condotta di abusiva introduzione (o abusiva permanenza) nei locali di una guardia medica fuori dell'orario ordinario di apertura al pubblico per l'assistenza sanitaria. Infatti, se nell'orario ordinario di servizio la guardia medica è aperta al pubblico, nell'orario notturno l'acceso è limitato a quelli che hanno necessità di assistenza medica e che quindi sono ammessi all'interno dei locali della stessa. Pertanto in questo particolare contesto l'ambiente della guardia medica costituisce un'area riservata che può assimilarsi a quella di un temporaneo privato domicilio del medico chiamato a permanere lì durante la notte per potersi attivare, ove necessario, per apprestare l'assistenza sanitaria dovuta" (Cass. pen. Sez. III, sent. 6 giugno - 30 agosto 2012, n. 33518, in Guida al diritto n. 39 del 2012, pag. 88).

Flagranza e procedibilità d'ufficio.

Il reato d'invasione di terreno o edifici ha natura permanente e cessa soltanto con l'allontanamento del soggetto dall'edificio, o con la sentenza di condanna, dato che l'offesa al patrimonio pubblico perdura sino a che continua l'invasione arbitraria dell'immobile. Dopo la pronuncia della sentenza, la protrazione del comportamento illecito da luogo a una nuova ipotesi di reato, che non necessita del requisito dell'invasione, ma si sostanzia nella prosecuzione dell'occupazione (Cass. pen., Sez. Il, sent. 22 dicembre 2003, n. 49169). Nella distinzione tra uso pubblico e uso privato, una recente pronuncia ha affermato che "l'alloggio realizzato dall'Istituto autonomo delle case popolari (lacp), conserva la sua destinazione pubblicistica anche quando ne sia avvenuta la consegna all'assegnatario, cui non abbia ancora fatto seguito il definitivo trasferimento della proprietà. Ne deriva che, in tale situazione, l'eventuale invasione ad opera di terzi dell'alloggio medesimo è perseguibile d'ufficio, ai sensi dell'art. 639 bis cp" (Cass. pen., Sez. Il, 12 novembre 2007, n. 41538). In caso di invasione arbitraria di edifici costruiti da un appaltatore per conto dell'ex lacp e non ancora consegnati all'Istituto, la persona offesa, titolare del diritto di querela è l'appaltatore. Ai fini della procedibilità d'ufficio del reato di cui all'art. 633 c.p., l'uso della disgiuntiva nell'art. 633-bis (edifici pubblici o destinati a uso pubblico) pone il carattere pubblico come di per sè sufficiente a configurare la procedibilità d'ufficio, nel senso che è sufficiente che l'edificio sia di proprietà di un ente pubblico. A tal fine, si devono considerare pubblici, secondo la nozione che il legislatore penale ha mutuato dagli articoli 822 e seguenti del Cc, i beni appartenenti a qualsiasi titolo allo stato o a un ente pubblico, quindi non solo i beni demaniali, ma anche quelli facenti parte del patrimonio disponibile o indisponibile degli enti predetti. Mentre, sempre per la procedibilità d'ufficio, sono da considerare "destinati a uso pubblico" quegli altri beni che, pur in ipo0tesi appartenenti a privati, detta destinazione abbiano concretamente ricevuto (Corte Appello di Palermo, sent. 20-22 giugno 2011,n. 2351 in Guida al diritto n. 46 del 19 novembre 2011).

L'art. 634 c.p. - Turbativa violenta del possesso di cose immobili.

Chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo 633 c.p., turba, con violenza alla persona o con minaccia, l'altrui pacifico possesso di cose immobili, è punito con la reclusione fino a due anni e con la multa da euro 103 a euro 309. Il fatto si considera compiuto con violenza o minaccia quando è commesso da più di dieci persone. La maggior parte della dottrina ritiene che l'unica distinzione possibile sia quella che fa perno sull'elemento soggettivo: mentre nell'art. 633 è previsto il dolo specifico, per l'art. 634 è sufficiente il dolo generico. Di conseguenza si dovrà applicare l'art. 634 qualora vi sia un'invasione non qualificata dal fine di occupare i terreno e gli edifici o di trarne altrimenti profitto. Viceversa sussisterà la fattispecie di cui all'art. 633 anche nel caso di invasione violenta finalizzata all'occupazione o al profitto. La turbativa di cui all'art. 634 postula un comportamento minimo più grave della semplice introduzione (art. 637) e meno grave dell'invasione (art. 633). La nozione di turbativa deve intendersi come una non pregnante compromissione dei poteri del possessore. La semplice violenza sulle cose, che non sia usata per coartare l'altrui volontà, non basta ad integrare il reato. Peraltro il comma 2 dell'art. 634, parifica alla violenza alla persona e alla minaccia, la presenza di un numero di persone (che commettono il fatto) superiore a dieci. Si discute se si tratti di un delitto istantaneo o permanente. Prevale l'opinione che ritiene trattarsi di reato istantaneo, potendo assumere connotazione permanente allorchè la perturbazione richieda l'esperimento di una condotta prolungata nel tempo, sostenuta da costante volontà del soggetto agente (Manzini).

Come agire?

Il delitto di violazione di domicilio è permanente ed ammette l'arresto facoltativo in flagranza (art. 381, lett. f-bis c.p.p.) Anche il delitto di invasione al fine di occupazione (art. 633 c.p.) è permanente: la condotta criminosa perdura per tutto il tempo dell'occupazione e deve essere interrotta dalla polizia giudiziaria, che anche di propria iniziativa deve impedire che i reati vengano portati a ulteriore conseguenze (art. 55 cpp). Non appena i titolari del diritto sull'alloggio danno notizia dell'avvenuta invasione agli organi di pg questi ultimi, se dispongono delle forze necessarie, debbono procedere allo sgombero, senza necessità di attendere il provvedimento dell'Autorità. In ambedue i casi spetta al giudice valutare poi l'esistenza di eventuali esimenti.

Inerente l'occupazione abusiva di un immobile, pare opportuno inserire una breve digressione sulle azioni a tutela dei diritti di godimento e del possesso. Il panorama si presenta alquanto vario; troviamo, infatti, le azioni concesse al solo proprietario, quelle esperibili dal titolare di un diritto di godimento su cosa altrui o dal possessore in quanto tale. Tali azioni vengono qualificate come reali, in quanto offrono tutela per il solo fatto della violazione del diritto.

L'azione di rivendicazione, rientrante fra le azioni petitorie, tende ad ottenere il riconoscimento del diritto del proprietario sul bene e presuppone la mancanza del possesso da parte dello stesso; è imprescrittibile e richiede la dimostrazione del proprio diritto risalendo ad un acquisto a titolo originario.

L'azione negatoria è concessa al proprietario al fine di veder dichiarata l'inesistenza di diritti altrui sulla cosa o la cessazione di turbative o molestie; in questo caso al proprietario si richiede soltanto la prova, anche in via presuntiva, dell'esistenza di un titolo dal quale risulti il suo acquisto.

L'azione di regolamento di confini mira all'accertamento del proprio diritto nel caso in cui siano incerti i confini dello stesso rispetto a quello confinante; in tale ipotesi la prova del confine può essere data in qualsiasi modo. Nell'azione di apposizione di termini, al contrario, ciò che si richiede al Giudice è l'individuazione, tramite indicazioni distintive, dei segni di confine tra due fondi confinanti.

L'azione confessoria è volta a far dichiarare l'esistenza del proprio diritto contro chi ne contesti l'esercizio, e a far cessare gli atti impeditivi al suo svolgimento.

A difesa del possesso incontriamo le categorie delle azioni possessorie e di enunciazione: le prime si distinguono nell'azione di reintegrazione, che mira a far recuperare il bene a chi sia stato violentemente o clandestinamente spogliato del possesso, da proporsi entro un anno dallo spoglio, e l'azione di manutenzione, proposta al fine di far cessare le molestie e le turbative all'esercizio del diritto.

L'azione di manutenzione, al contrario di quella di reintegrazione, ha una funzione conservativa, poiché mira alla cessazione della molestia per conservare integro il possesso, e una funzione preventiva, poiché può essere esperita anche verso il solo pericolo di una molestia. Diversamente dalle azioni a difesa della proprietà, che impongono la prova del diritto, il possessore ha soltanto l'onere di dimostrare il possesso (in quanto questo prescinde dall'effettiva titolarità del diritto). Le azioni di enunciazione, con le quali si tende alla eliminazione di un pericolo proveniente dal fondo vicino, si distinguono nella denunzia di nuova opera e di danno temuto; esse, infatti, vengono qualificate come azioni inibitorie, cautelari, che possono dar luogo a provvedimenti provvisori.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

Ma come sono cari  (e di sinistra) i professionisti dell'accoglienza. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Che si ripete senza soluzione, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Dietro l'orrore, la pietà, lo scandalo, il buonismo, le tragedie del mare nascondono il business che non t'aspetti. Il giro d'affari del primo soccorso e dell'accoglienza. Da una parte i milioni di euro stanziati dall'Europa e dall'Italia, dall'altra la pletora di personaggi in attesa di incassare. Onlus, patronati, cooperative, professionisti dell'emergenza, noleggiatori di aerei e traghetti, perfino i poveri operatori turistici di Lampedusa: abbandonati dai vacanzieri si rassegnano a riempire camere d'albergo, appartamenti e ristoranti con agenti, volontari, giornalisti, personale delle organizzazioni non governative, della Protezione civile, della Croce rossa. L'emergenza sbarchi comporta un giro vorticoso di denaro pubblico. Nel 2011, l'anno più drammatico, gli sbarchi provocati dalle sanguinose rivolte nordafricane sono costati all'Italia un miliardo di euro. Ogni giorno le carrette del mare da Libia e Tunisia hanno scaricato in media 1.500 persone. Il governo dovette aumentare le accise sui carburanti per coprire parte di queste spese. E a qualcuno che sborsa corrisponde sempre qualcun altro che incassa. Bisogna gestire la prima accoglienza: acqua, cibo, vestiti, coperte, farmaci. Vanno organizzati i trasferimenti sul continente ed eventualmente i rimpatri; si aggiungono spese legali, l'ordine pubblico, l'assistenza (medici, psicologi, interpreti, mediatori culturali). Ma questo è soltanto l'inizio, perché moltissimi rifugiati chiedono asilo all'Italia. E l'Italia se ne fa carico, a differenza della Spagna che ordina di cannoneggiare i barconi e di Malta che semplicemente abbandona i disperati al loro destino. Nel triennio 2011/13 le casse pubbliche (ministero dell'Interno ed enti locali) hanno stanziato quasi 50 milioni di euro per integrare 3000 persone attraverso il Sistema di protezione per i richiedenti asilo e rifugiati. A testa fanno più di 5.000 euro l'anno. L'Europa soccorre soltanto in parte. Il finanziamento più cospicuo arriva dal Fondo europeo per le frontiere esterne destinato alle forze di sicurezza di confine (capitanerie di porto, marina militare, guardia di finanza): 30 milioni annui. Altri 14,7 milioni arrivano dal Fondo per l'integrazione, non riservato all'emergenza. Dal Fondo per i rimpatri piovono 7 milioni di euro. Poi c'è il Fondo per i rifugiati, che nel 2012 ha stanziato 7 milioni in via ordinaria più altri 5 per misure di emergenza. Tutti questi denari vanno considerati come co-finanziamento: si aggiungono cioè ai soldi che l'Italia deve erogare. Il fondo più interessante è quello per i rifugiati, che è tale soltanto di nome perché i veri destinatari dei 12 milioni di euro (sono stati 10 milioni nel 2008, 4,5 nel 2009, 7,2 nel 2010 e addirittura 20 nel fatidico 2011) sono Onlus, Ong, cooperative, patronati sindacali e le varie associazioni umanitarie che si muovono nel settore dell'immigrazione. Dal 2008, infatti, l'Europa ha stabilito che quel fiume di contributi vada «non più all'attività istituzionale per l'accoglienza, ma ad azioni complementari, integrative e rafforzative di essa». Anche queste, naturalmente, co-finanziate dal governo italiano. Le organizzazioni operano alla luce del sole, sono autorizzate dal ministero dell'Interno che deve approvare progetti selezionati attraverso concorsi pubblici. I soldi finiscono in fondi spese destinati non ai disperati ma a vitto e alloggio delle truppe di volontari e professionisti. Per la felicità degli albergatori lampedusani. Gli operatori sociali spiegano ai nuovi arrivati i loro diritti. Li mettono in contatto con interpreti, avvocati, mediatori da essi retribuiti. Organizzano la permanenza, li aiutano a restare in Italia o a capire come proseguire il loro viaggio della speranza. Fanno compilare agli sbarcati, che per la legge sono clandestini, un pacco di moduli per avere assistenza legale d'ufficio. Pochissime organizzazioni, e tra queste Terre des hommes e Medici senza frontiere, si fanno bastare i denari privati. A tutte le altre i soldi italo-europei servono anche a sostenere i rispettivi apparati, come gli uffici stampa, gli avvocati e gli attivisti per i diritti umani, per i quali martellare i governi finanziatori è una vera professione. E magari usano l'emergenza immigrazione come trampolino verso la politica.

Destra, sinistra e solidarietà. Come ci segnala un articolo de Il Redattore Sociale, la presenza del Terzo Settore nelle liste dei candidati alle prossime elezioni è piuttosto significativa: presidenti e direttori di molte importanti organizzazioni si presentano nelle liste di PD, SEL, Ingroia e Monti. Questo scrive Gianni Rufini su “La Repubblica”. Gianni Rufini, esperto di aiuto umanitario, ha lavorato in missioni di assistenza in quattro continenti e insegna in numerose università italiane e straniere. Se saranno eletti, buona parte dell’associazionismo e del movimento cooperativo dovrà rinnovare i propri vertici. Molto meno forte, la presenza del mondo della solidarietà internazionale. Ci sono personalità di rilievo, come gli ottimi Laura Boldrini e Giulio Marcon, ma non abbastanza – temo – da far nascere all’interno del parlamento un nucleo significativo di deputati e senatori che possano promuovere un rinnovamento della politica italiana in questo senso. Ma speriamo bene. Tutte queste persone si candidano con partiti di sinistra o di centro, mentre la destra è completamente assente. Se è vero che la sinistra è sempre stata più attenta a questi temi, sono profondamente convinto che questioni come la cooperazione, l’aiuto umanitario o i diritti umani siano assolutamente trasversali. Possono esserci visioni diverse sulle politiche in questi campi, ma dovrebbe esserci  un’intesa di fondo per questioni che riguardano tutti i cittadini, di qualunque orientamento, in ogni regime politico. Purtroppo non è così. In altri paesi, esiste un  “conservatorismo compassionevole” che ritiene moralmente doveroso impegnarsi in questi ambiti; si trovano politiche estere di destra che vedono comunque nella cooperazione uno strumento fondamentale; ci sono politiche sociali conservatrici che promuovono il volontarismo per ridurre il peso dello Stato; ci sono visioni del capitalismo che ritengono centrali, per il suo sviluppo, i diritti umani. Nella destra italiana sembra invece prevalere una visione che definirei “cattivista”. Sembra che da noi, per essere di destra bisogna necessariamente coltivare cattivi sentimenti: l’irrisione per i poveri, l’avidità, lo sprezzo del senso civico, il calpestamento dei diritti altrui. Cosa particolarmente strana, in un paese che ha una forte cultura cattolica e una storia importante di solidarietà unitaria, per esempio nei grandi disastri. E’ difficile comprendere la mutazione che ha portato la destra italiana a questa deriva antropologica. Forse è un altro dei residuati tossici dell’ultimo ventennio. Questo è un problema per l’Italia, per due ragioni: la prima è che quando si parla di diritti, di umanità, di relazioni con il mondo, si parla dell’identità profonda di un paese, e questa dovrebbe essere in massima parte condivisa dalle forze politiche. E poi, perché le strategie in questo campo esigono tempi lunghi, per produrre risultati, tempi di decenni. E non possono scomparire e ricomparire ad ogni cambio di governo. Credo che il lavoro più importante che dovranno fare quei colleghi che hanno deciso di impegnarsi in politica sia promuovere un cambiamento culturale dentro la politica, dentro il parlamento. Perché certi principi e certi valori diventino un patrimonio condiviso, al di là delle differenze ideologiche.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

“L’efficienza delle associazioni antimafia non si misura in fase ai finanziamenti ricevuti, alle denunce presentate, alla parte politica che li sostiene, alla visibilità data dai media ed alla santificazione di toghe e divise” risponde così il dr Antonio Giangrande alle dichiarazioni di Maria Antonietta Gualtieri presidente dell’Associazione Antiracket Salento (…a Brindisi totale assenza di denunce nonostante tante associazioni antimafia…) ed alla piccata risposta del presidente Salvatore Incalza dell’associazione antiracket di Francavilla Fontana associata FAI (..cerca visibilità perché cessa il foraggiamento di Stato…). Il Dr Antonio Giangrande, presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie” da Taranto interviene nella polemica su stampa e tv sorta tra le associazioni antiracket ed antiusura brindisine e leccesi. Una polemica che serpeggia, però, in tutta Italia, laddove vi sono costituiti sodalizi antimafia di contrapposti schieramenti. «L’attività delle associazioni antiracket ed antiusura non si misura in base alla visibilità mediatica che certe tv locali politicamente schierate danno ad alcune di loro, finanziate da progetti di passati Ministri dell’Interno o da sottosegretari a loro vicini e comunque di finanziamenti ricevuti perché facenti parte del FAI o di Libera; né tantomeno in base alle denunce presentate da questi sodalizi o dalla loro costituzione in giudizio per interesse di qualcuno. Il tutto per fare numero e molte volte contro poveri cristi a vantaggio di truffatori. Sempre bene attenti a non toccare i poteri forti: tra cui le banche. La loro efficienza non si misura neanche in base al sostegno finanziario da loro ricevuto dallo Stato o da una parte politica regionale. Comunque c’è da dire che il grado di valore che si dà alle associazioni antimafia non è paragonato al fatto di quanto queste siano lo zerbino o passacarte di toghe e divise. La capacità delle associazioni è legata alla loro competenza ed al grado di assistenza e consulenza che loro sanno offrire: senza fare politica. Questo è il loro compito: informare ed assistere nella stesura degli atti. Le denunce le presentano le presunte vittime e l’applicazione della giustizia spetta alle toghe ed i contributi li elargisce lo Stato. Qualcuno non si deve allargare!». Va giù duro il presidente Antonio Giangrande. « Io penso che la vittima di qualsivoglia sopraffazione e violenza non ha bisogno di visibilità, per questo noi usiamo il web oltre che la sede fissa. In questo modo le vittime non hanno bisogno di farsi vedere, quindi si informano e le denunce le scaricano direttamente dal sito e le presentano alle forze dell’ordine. Non mancano, però, le lamentele di abbandono da parte dello Stato. E questo non bisogna tacerlo. Inoltre non siamo affiliati a nessuno e quindi non riceviamo nulla da alcuno, né ritorno di immagine, né copertura delle spese. D’altronde che volontariato è se poi si è sovvenzionati e quindi diventa un lavoro. Alla stampa dico di seguire ed aiutare tutte quelle associazioni che lavorano sul campo a rischio delle vite dei loro componenti, senza ricevere nulla. E se proprio vogliono riportare le polemiche, i giornalisti chiedessero a tutte queste associazioni, che vanno per la maggiore, chi li paga e chi votano e come mai aprono sportelli antiracket in città in cui non sono iscritte presso le locali prefetture, così come vuole la legge, tutto a svantaggio di chi è legalmente iscritto in loco: se ne scoprirebbero delle belle!» Continua Antonio Giangrande. «Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Questa è sociologia storica, di cui sono massimo cultore. Conosciuto nel mondo come autore ed editore della collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. 50 saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Ho dei canali youtube e sono anche editore di Tele Web Italia: la web tv di promozione del territorio italiano. Bastone e carota. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»

Il livore del PD, SEL, CGIL e di tutta la loro costellazione di sigle nel Lazio nei confronti dell’Associazione Caponnetto. Perché? Preferiscono forse un’antimafia del bon ton diversa dalla nostra di indagine e denuncia? O avrebbero voluto che ci etichettassimo politicamente assoggettandoci ai loro interessi e facendo un’antimafia soft, più retorica e commemorativa, di parata insomma? Questo di chiede l’Associazione antimafia “Antonino Caponnetto”. Non che ci dispiaccia. Anzi, è tutto il contrario perché più stiamo lontani da queste nomenclature politiche screditate e più guadagniamo in credibilità. Pur tuttavia certe cose vanno annotate per far comprendere ai più sprovveduti e disinformati fino a che punto arrivano la bassezza, la vuotaggine, l’insulsaggine, l’insignificanza e l’irresponsabilità della classe dirigente del PD e del suo accoliti nella provincia di Latina e nel Lazio. Sono oltre 10 anni che il PD del Lazio e della provincia di Latina fa la guerra all’Associazione Caponnetto mostrando, peraltro, in maniera sfacciata di voler privilegiare Libera e solo Libera ed il suo modo di fare antimafia. Non abbiamo mai capito le ragioni di tanta ostilità. Forse perché abbiamo sempre dichiarato la nostra assoluta indipendenza da tutto e da tutti mentre il PD voleva che noi ci fossimo etichettati politicamente ed assoggettati ai suoi interessi? O perché il PD preferisce un modello di antimafia tutto bon ton, all’acqua di rose, culturale e basta, commemorativo e parolaio e niente affatto di indagine e denuncia, nomi e cognomi, come facciamo noi dell’Associazione Caponnetto? Non lo sappiamo e, a questo punto, nemmeno ci interessa saperlo più perché abbiamo preso atto di un dato di fatto incontrovertibile e consolidato: il PD ed i suoi accoliti combattono l’Associazione Caponnetto e riconoscono come propria referente ed amica solo LIBERA. Bene così per il PD, per tutti i suoi accoliti e per Libera. Se questa è l’antimafia che vuole il PD vadano avanti così ma non osino più parlare di lotta alle mafie perché li talloneremo e gli rinfacceremo di volta in volta che la lotta alle mafie non si fa come fanno lor signori che si limitano solo a parlarne senza affrontare e risolvere i problemi veri della lotta alla criminalità mafiosa. Brutto segnale quello che viene da questo partito che dimostra palesemente di non volere l’antimafia reale, quella effettiva, la vera antimafia, ma solo quella di parata, delle commemorazioni, del racconto del passato e via di questo passo. La guerra all’Associazione Caponnetto viene da lontano, dai tempi della Giunta Marrazzo alla Regione Lazio quando la Presidente della Commissione Criminalità -la PD ex DS Luisa Laurelli – volle escludere dai vari organismi consultivi della Regione la nostra Associazione facendo, al contempo, entrarvi sigle assolutamente inconsistenti ed esistenti solo sulla carta ma etichettate PD, oltre ovviamente a Libera. Cosa che si è ripetuta puntualmente all’Amministrazione Provinciale di Roma sotto la gestione Zingaretti, altro campione dell’antimafia parolaia e non di quella reale dell’indagine e della denuncia. Non che le nostre ripetute esclusioni ci siano dispiaciute, vista l’assoluta inutilità ed inerzia di tali organismi che si sono appalesate a posteriori come delle sole sparate propagandistiche senza alcuna efficacia. Evitiamo, per non tediare coloro che ci seguono, di raccontare i dettagli, i continui tentativi di isolarci (dal convegno organizzato sempre dal PD con Piero Grasso durante l’ultima campagna elettorale, con la partecipazione della Fondazione nostra omonima, a sostegno della candidatura dell’ex Procuratore Nazionale antimafia, convegno che, pur avendo visto la nostra esclusione - e ne siamo stati lieti perché era un convegno elettorale e di partito -, i relatori si sono visti costretti ad esaltare proprio l’opera dell’Associazione Caponnetto!!!; all’ultima proprio di stamane 21 giugno con il convegno promosso a livello provinciale e sempre a Gaeta dal Sindacato Pensionati Italiani della CGIL sui problemi della legalità, un convegno che ha visto la partecipazione in massa di elementi di Libera e basta). Potremmo citare altri esempi della faziosità – e, peraltro, anche dell’ottusità politica- della classe dirigente del PD e dei suoi accoliti di SEL (vi risparmiamo di raccontarvi il comportamento inqualificabile di Zaratti uomo di punta di SEL il quale durante una seduta della Commissione criminalità della Regione Lazio della quale era Presidente dopo la Laurelli non spese una sola parola in difesa dell’Associazione Caponnetto aggredita violentemente dal suo vicepresidente, un consigliere di destra di cui non ricordiamo il nome, quasi a mostrare un malcelato piacere -, della CGIL e così via. Ma tutto ciò non ci duole affatto. Anzi, il contrario. Perché tutto questo livore nei nostri confronti da parte del PD, SEL e di tutta la loro costellazione di sigle e siglette nei nostri confronti sta a provare che agiamo bene, che colpiamo bene, senza lacci e lacciuoli e che sono sempre di più coloro che hanno paura di noi in quanto probabilmente sanno di avere qualche scheletro nell’armadio. Questo ovviamente ci ha fatto accendere una lampadina e ci induce a porci la domanda del “perché” di tale comportamento… Quando il cane ringhia rabbioso a difesa di una tana vuol dire che là dentro nasconde qualcosa di importante, la nidiata, un pezzo di carne… Ci lavoreremo… per scoprirlo. Poi, però, non si dica che siamo… cattivi o, peggio, faziosi anche noi.

 “LIBERA” di nome ma non di fatto. E’ solo un problema politico, scrive l'associazione antimafia "Casa della legalità e della cultura Onlus della sicurezza sociale". E' difficile che le cose che non funzionano vengano indicate quando riguardano quelli che sono una sorta di “santuari” della cosiddetta società civile. Eppure le distorsioni, i problemi, anche seri, ci sono. Sono fatti che, messi uno accanto all'altro, ci dicono che qualcosa non va. Rompiamo questo silenzio, ponendo alcune semplici domande e dando a queste una risposta. Non è per polemica, ma per dovere di cronaca, per elencare i fatti di una questione “politica”. Siamo convinti che solo guardando in faccia la realtà sia possibile migliorare e correggere quegli errori che troppo spesso impediscono di fare passi avanti nella lotta alle mafie ed all'illegalità. Il confronto e non la chiusura è strumento essenziale nella democrazia, e lo è ancora di più quando si parla di strutture importanti, come è Libera...

Perché criticate “LIBERA”, che universalmente è riconosciuta, da destra a sinistra, quale grande organizzazione antimafia?

«Innanzitutto bisogna premettere che la critica è costruttiva, finalizzata al confronto per risolvere i problemi. Criticare non significa distruggere e questo è ancora più indiscutibile quando, come nel nostro caso, la critica è un elencare di fatti che non si possono tacere ma che impongono, dovrebbero imporre, una riflessione e quindi una reazione. Quindi... Avete mai sentito pronunciare un nome e cognome di quella “zona grigia”, della rete di professionisti e politici collusi e contigui, dagli esponenti di Libera che tanto a slogan punta l'indice contro questa “zona grigia”? Mai, né un nome di un mafioso (se non già condannato in via definitiva), né un nome di una società di famiglie mafiose, né il nome dei politici che nei vari territori sono compromessi, vuoi per contiguità (che non è un reato) o peggio. Mai un nome delle grandi imprese e cooperative che nei propri cantieri, quali fornitori, scelgono le “offerte vantaggiose” delle società di note famiglie mafiose. Non c'è una denuncia che sia una, se non “il giorno dopo” ad un dramma o allo scattare delle manette o dei sigilli a qualche bene.»

Ma questo può essere solo un modo diverso di combattere la stessa battaglia...

«Non è un discussione la “diversità” di metodi, ma i fatti ci testimoniano che la questione non è solo un diverso modo di agire nella lotta alla mafia...La Libera che abbiamo visto da qualche anno a questa parte, diversa, radicalmente diversa, da quella delle origini, ha scelto una strada che, pur qualificandosi come “antimafia”, di antimafia concreta ha ben poco. Cerchiamo di spiegare... Libera, con la struttura che si è data, vive grazie ai contributi pubblici e privati. Tra i suoi sponsor troviamo, ad esempio, l'Unieco, colosso cooperativo emiliano, che si vanta dei finanziamenti che da a Libera. Ma l'Unieco nei propri cantieri fa lavorare società di famiglie notoriamente mafiose, per l'esattezza di 'ndranghetisti. I soldi risparmiati dalla Unieco in quei cantieri, con le famose offerte “economicamente vantaggiose”, ad esempio, di società di famiglie espressione delle cosche MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI e PIROMALLI con i GULLACE-RASO-ALBANESE, restano nelle casse di Unieco che poi finanzia Libera per la lotta alla mafia. E' chiaro il controsenso? La contraddizione è palese. Libera dovrebbe rifiutare quei fondi ed esigere da Unieco, così come dalle grandi cooperative della Lega Coop, che non abbia alcun tipo di contiguità e connivenze con società indecenti! Non lo fa, prende i soldi e fa iniziative al fianco di Unieco e compagnia nel nome dell'antimafia. Ma vi rendete conto di che impatto fortissimo avrebbe invece una scelta da parte di Libera di rispedire al mittente quei contributi con la motivazione: prima fate pulizia tra i vostri fornitori e poi ci potrete finanziare? Sarebbe un segnale concreto importantissimo! Non è questione di illeciti, ma di opportunità... di decenza.»

Può essere un caso, non si può confondere il tutto con un caso.

«Prima di tutto non è “un caso” ma un questione sistematica e non lo diciamo noi, ma una serie di fatti. Per esempio, oltre alle grandi cooperative “rosse”, c'è il caso di Unipol. Oggi sappiamo, grazie alle inchieste su Consorte e furbetti delle “scalate”, di cosa è capace quel gruppo: azioni spregiudicate, sul crinale tra lecito e illecito... così come sappiamo che, come le altre grandi banche, ha una inclinazione nel non notare operazioni sospette che si consumano nelle propri filiali. Ed anche qui Libera si presenta al fianco di Unipol nel nome della Legalità, della lotta alla corruzione ed alle mafie. Anche qui: vi immaginate se quando Unipol o la fondazione Unipolis mandano i contributi a Libera, l'associazione di don Ciotti rimandasse indietro quei contributi con un bel comunicato stampa in cui dice che finché le indecenze di Unipol non saranno eliminare loro non vogliono un centesimo dei loro fondi? Sarebbe un segnale chiaro, durissimo! E poi vi è il campo più prettamente “politico”. Andiamo anche in questo caso con esempi concreti. A Casal di Principe il sindaco e l'assessore con Libera distribuivano targhe anti-camorra, ma quell'amministrazione comunale era legata alla Camorra, ai Casalesi. Cose che si sanno in quei territori. Il sindaco e l'assessore sono stati poi arrestati perché collusi con i Casalesi... Libera li portò sul palco della sua principale manifestazione, nel marzo 2009, a Casal di Principe, per distribuire le targhe intitolate a don Peppe Diana. Ecco: Antonio Corvino e Cipriano Cristiano avevano ottenuto il loro bel “paravento”. Spostiamoci in Sicilia. Nel trapanese, la terra del latitante Matteo Messina Denaro, è stato arrestato Ciro Caravà. L'accusa: associazione mafiosa. Si presentava in tv e nelle piazze nel nome di Libera, ma era parte della rete mafiosa che fa capo al latitante di Cosa Nostra. Libera ha dichiarato che non era nemmeno tesserato... lo ha dichiarato dopo l'arresto. Prima, dell'arresto, che costui andasse per mari e per monti a promuovere Libera e la sua azione antimafia da Sindaco andava bene. Siamo già a due casi eclatanti, pesanti come macigni, in cui Libera era un “paravento”. Non sono opinioni o interpretazioni, sono fatti.»

Ma due casi su scala nazionale sono un’eccezione, non la prassi..

«Drammaticamente non sono solo due casi in tutta Italia. Questi erano due esempi. Vediamone qualche altro...Polistena, giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera. Sul palco Libera fa salire, a scandire i nomi delle vittime di mafia, Maria Grazia Laganà vedova Fortugno. In allora già indagata dalla DDA di Reggio Calabria, per truffa aggravata allo Stato in merito alle forniture della ASL di Locri... quella dove la signora era vice-direttore sanitario e responsabile del personale, quella Asl in cui assunzioni, promozioni, incarichi e appalti erano decisi dalle 'ndrine, a partire dal “casato” dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI... cosca di cui alcuni esponenti erano in contatto telefonico sia con la Laganà, sia con Fortugno... e non dimentichiamoci la grande amicizia tra gli stessi Laganà e Fortugno con i MARCIANO', riconosciuti responsabili dell'omicidio del Fortugno stesso. E' quella stessa Laganà che subito dopo l'omicidio del marito, omicidio politico-mafioso, ha promosso una lista elettorale per le elezioni provinciali con Domenico CREA, indicato da più parti come il grande beneficiario dell'omicidio Fortugno, nella sua veste di “signore della Sanità” in comunella con la 'ndrangheta. Poi si scoprì anche che il segretario della Laganà, dal telefono della signora, comunicava al sindaco di Gioia Tauro, l'avanzamento in tempo reale del lavoro della Commissione di Accesso che ha portato allo scioglimento di quell'amministrazione perché piegata ai desiderata dei PIROMALLI. La Laganà infatti era membro della Commissione Parlamentare Antimafia e quindi con accesso a informazioni riservate, secretate. Che segnale è, in Calabria, nella Piana di Gioia Tauro, far salire un soggetto del genere sul palco della cosiddetta “antimafia”? Chiaramente devastante. Ma andiamo avanti. A Bari chi è stato il grande protagonista della giornata della Memoria e dell'Impegno di Libera? Massimo D'Alema. Quel D'Alema i cui rapporti indecenti sono ormai noti, a partire da quelli, con gli uomini della sanità pugliese e quella vecchia tangente, andata in prescrizione, da uno degli uomini della sanità legati alla Sacra Corona Unita. A Napoli vi era Bassolino, che sappiamo cosa abbia rappresentato in materia di gestione dei rifiuti a Napoli e Campania. A Torino c'era Chiamparino che nuovamente è espressione di quella componente spregiudicata nella ricerca e costruzione di consenso, e tra i principali supporter della TAV, un'opera inutile, antieconomica, devastante per ambiente e salute e manna per le cosche che vogliono, come già avvenuto per altre tratte di quest'opera, entrarci con i subappalti. Quest'anno è toccato a Genova... Don Ciotti qui si schiera al fianco di Burlando e della Vincenzi, ad esempio. Li ringrazia. Li presenta come esempio di lotta alla mafia... peccato che con le amministrazioni guidate da Burlando e dalla Vincenzi, le mafie abbiano fatto (e continuano a fare, anche nonostante misure interdittive) ottimi affari a Genova ed in Liguria, proprio a partire da quelli con le società pubbliche aventi soci la Regione ed il Comune, o con le grandi cooperative “rosse”. E' più chiara ora la questione? Più che di “giornata della memoria e dell'impegno”, quella a Genova, dello scorso marzo, è stata l'ennesima giornata della memoria corta e dell'ipocrisia! Non ci pare chiedere tanto quando si dice che gli ipocriti della politica, delle Istituzioni, e gli “indecenti”, non vengano fatti salire su quei palchi. Ci sembrerebbe una normalità, un atto di rispetto per le vittime.»

Ma Libera non è una struttura indipendente?

«No! Purtroppo no. Quello che abbiamo detto lo dimostra e se servono ulteriori esempi che Libera si sia piegata a “paravento” di chi la sovvenziona e di chi politicamente le è “caro”, li porto senza esitazione e senza pericolo di smentita alcuna. Ed attenzione: è pienamente legittimo quanto fa Libera. Non vorrei che si pensasse l'opposto. Assolutamente no! E' legittimo che Libera si faccia “braccio” di un blocco di potere politico-economico, ma sarebbe intellettualmente corretto ed onesto che lo dichiarasse, senza negarlo e senza dichiararsi “indipendente”. Parliamo del Piemonte? A Torino Libera ha una forte vicinanza a SEL e già questo basterebbe a chiarire lo strano concetto che Libera ha di “indipendente”. Michele Cutro, persona degnissima, era dal 2007 il referente dell'area europea di Libera; si candida a Torino alle Primarie di centro sinistra e poi per il Consiglio Comunale con SEL, in appoggio a Fassino. Viene eletto ed entra in Comune. SEL è nella maggioranza di centrosinistra, quella stessa maggioranza determinatasi grazie anche ai consensi raccolti tra gli 'ndranghetisti, come ha messo in evidenza l'inchiesta MINOTAURO. Come può quindi Libera, un esponente di primo piano di Libera, avere una vicinanza marcata con un partito quando questi è parte integrante di quella maggioranza in cui vi sono metodi spregiudicati e indecenti di raccolta del consenso? E se poi vogliamo vi è tutto il capitolo TAV, con la posizione di Libera che fa da stampella al blocco di potere politico-economico che persegue questa opera! Scendiamo nell'alessandrino? Qui vi sono pesantissimi interessi ed affari di una delle più potenti cosche della 'ndrangheta, quella dei GULLACE-RASO-ALBANESE. Il “locale” della 'ndrangheta guidato da Bruno Francesco PRONESTI' contava tra i propri affiliati anche il Presidente della Commissione Urbanistica del Comune di Alessandria. A Novi Ligure è consigliere comunale un giovane della famiglia SOFIO, coinvolta in più inchieste legate ai MAMONE, ed operativa proprio nell'alessandrino. Lì vi è uno degli snodi dei traffici e conferimenti illeciti di sostanze tossiche che coinvolge Piemonte, Liguria e Lombardia. Vi era un bene confiscato a Cosa Nostra, a Bosco Marengo. Cosa ha proposto Libera come progetto di riutilizzo a fini sociali per farselo assegnare? Un allevamento di quaglie! Sì: allevamento di quaglie! Ma davvero non si poteva fare altro di più incisivo per una bonifica più ampia di quei territori, in quel bene confiscato? Noi crediamo di sì. Ma non basta. Dopo la presentazione in pompa magna dell'assegnazione a Libera di questo bene che cosa è successo? Che non si è proceduto a sistemare quel casolare e così oggi, dopo gli articoli su come sono brave le Istituzioni e Libera di alcuni anni fa, quel casolare deve essere demolito perché impossibile, economicamente impossibile, ristrutturarlo! Un fallimento devastante! Ma non basta ancora. Libera prima delle ultime elezioni amministrative, cosa fa ad Alessandria, nella sua visione “ecumenica”? Va dal anche dal Sindaco in carica, quello che aveva, con la sua maggioranza, messo il CARIDI, l'affiliato alla 'ndrangheta, alla Presidenza della Commissione Urbanistica, da quel Sindaco che ha contribuito in modo determinante al dissesto del Bilancio di Alessandria, e gli propone di firmare il documentino contro le mafie! Ecco, anziché indicarlo come pessimo esempio di gestione della cosa pubblica e di “sponsor” del CARIDI, loro gli porgono la mano per dichiararsi, con una firmetta antimafioso! Parliamo dell'Emilia-Romagna? Avete mai sentito Libera indicare gli affari sporchi di riciclaggio e speculazione edilizia, di smaltimenti illeciti di rifiuti o altro che non siano quelli più “visibilmente sporchi”, come droga e prostituzione? No. Anche qui mai un nome o cognome... mai una denuncia sull'atteggiamento dei colossi cooperativi emiliani come la Cmc, la Ccc, Coopsette o Unieco che più volte hanno accettato la convivenza con le società delle cosche. Mai una parola sui grandi colossi privati, come la PIZZAROTTI, la gestione dell'Aeroporto di Bologna, le grandi colate di cemento lungo la via Emilia o gli appalti per le infrastrutture dove non mancano gli incendi dolosi ai mezzi di cantiere che non rispondono alle cosche. Solo qualche parola, ma non troppe sui Casalesi a Parma, dove governava il centrodestra. Reggio Emilia è una piccola Beirut, per anni, come il resto dell'Emilia-Romagna, presentata come indenne dalla presenza mafiosa, quando invece la “colonizzazione” si è consumata dopo che politica e settori imprenditoriali hanno aperto le porte alle mafie per riceverne i servizi a “basso costo” e per avere strada spianata alle cooperative nella partita TAV in Campania o, ancor prima, a Bagheria e nel grande ed oscuro patto con i Cavalieri dell'Apocalisse di Catania. A Firenze, Libera era legatissima all'amministrazione di Leonardo Domenici, quella finita nell'occhio del ciclone per gli episodi di corruzione nelle operazioni speculative di Salvatore Ligresti... quella del voto di scambio alle elezioni primarie con cui il Cioni cercava di assicurarsi il consenso. E mentre a Milano Libera accusava l'amministrazione di centrodestra che era in un perfetto connubio con Ligresti, a Firenze tace. Anzi, va oltre: la firma “Libera contro le mafie” siglava un volantino a sostegno del progetto devastante di tramvia dell'Impregilo nel centro fiorentino! Non un volantino contro lo scempio devastante della tramvia, così come nemmeno mai una parola contro il tunnel che dovrebbe sventrare Firenze per la TAV, così come nulla di nulla sulla devastazione del Mugello. Ecco Libera che tanto sostegno ha ricevuto da quell'amministrazione fiorentina, passo dopo passo, ha sempre ricambiato. Bastano come esempi o bisogna andare avanti con questa lista della non-indipendenza di Libera? Ripetiamo: basterebbe che dichiarassero di essere “di parte”, cosa legittima... e non dichiararsi per ciò che non sono: indipendenti...Ancora: in Calabria, per citare un caso e non annoiare, basta ricordare che il referente di Libera è andato ad un'iniziativa di presentazione della “Casa dello Stocco” promossa da Francesco D'AGOSTINO, già Consigliere provinciale dei “Riformisti”... Nella Piana sanno chi è questo imprenditore, Libera non lo sa? Impossibile. Lo si conosce anche in Liguria. Ad esempio il marchio “Stocco & Stocco” era in uso al boss Fortunato BARILARO, esponente apicale del “locale” della 'ndrangheta di Ventimiglia. Perché ci è andato? Non era meglio disertare tale “evento”? A Genova, in occasione delle ultime elezioni amministrative, buona parte di Libera locale si è visibilmente schierata, apertamente, a sostegno di Marco Doria, il candidato del centrosinistra. Scelta legittima, ma... Un giornalista free-lance ha posto una domanda a Marco Doria: “Può nominare qualche famiglia dell’ndrangheta che ha interessi a Genova?” e Doria ha risposto: “No, perché non ho studiato il problema. Se lo sapessi lo direi.”. Ecco: come possono gli esponenti locali di Libera sostenere un candidato che non ha studiato il problema, in una città dove da anni ed anni, ormai, i nomi e cognomi, le imprese ed i fatti sono pubblici, ampiamente noti? Se mi si dice che lo si sosteneva perché “politicamente” è della loro parte, va bene, ma lo si dica! Se mi si dice che invece no, perché sono indipendenti, e lo sostenevano perché con lui si può combattere le mafie, allora non ci siamo, non c'è onestà intellettuale... e non solo per l'intervista. Raccontiamo due fatti, abbastanza significativi, crediamo. Tra gli assessori scelti da Doria, per la delega ai Lavori Pubblici, c'è Gianni Crivello. Questi era il presidente del Municipio Valpolcevera, lo è stato per dieci anni. Quel territorio è quello maggiormente e storicamente, più colonizzato dalle mafie, Cosa Nostra e 'Ndrangheta. Lì la presenza delle mafie è palpabile. Bene, Crivello per anni ha cercato, ed ancora cerca, di “minimizzare” la questione. Eppure sappiamo che negare e minimizzare sono due linee pericolosissime, devastanti negli effetti che producono. L'altro fatto che vi racconto è questo: tra gli sponsor di Doria vi è l'architetto Giontoni, responsabile dell'Abit-Coop Liguria, il colosso locale, nel settore edile, della Lega Coop Liguria. A parte il fatto che per una cessione alla Cooperativa “Primo Maggio” dell'Abit-Coop l'ex rimessa di Boccadasse dell'azienda per il trasporto pubblico locale (finalizzata alla realizzazione di appartamenti di lusso), l'ex sindaco Pericu ed altri sui uomini sono stati condannati pesantemente dalla Corte dei Conti per i danni alle casse pubbliche, l'Abit-Coop vede nel suo Consiglio di Amministrazione tal Raffa Fortunato. Questi per conto di Abit-Coop è stato nominato nei Cda delle aziende del gruppo Mario Valle... Raffa Fortunato è il cugino dei FOTIA, la famiglia della 'ndrangheta, riferimento nel savonese della cosca dei MORABITO-PALAMARA-BRUZZANITI. Non solo: in diversi cantieri dell'Abit-Coop sono stati incaricati di operare i FOTIA con la loro SCAVOTER (ora interdetta e per cui la DIA ha chiesto la confisca) ed i PELLEGRINO di Bordighera con la loro omonima impresa (sotto sequestro di nuovo per iniziativa della DIA). Doria è stato informato di questo. Risposte giunte? Nessuna!»

Ma da Genova non poteva “scattare” l'occasione delle svolta, dove Libera riaffermava la sua indipendenza...

«A Genova c'è stato e c'è il suggello della dipendenza piena di Libera al blocco politico-economico “rosso” ed asservita, in cambio di fondi e visibilità, agli amministratori peggiori che si possano trovare in circolazione. Altro che svolta... qui c'è stata e si conferma l'apoteosi dell'ipocrisia. Andiamo con ordine con 5 esempi di fatti:

1) Libera è nata in Liguria fondata da Legacoop, Unipol, Arci e qualche altro cespuglio. Tutto il fronte anti-cemento, impegnato da anni contro le attività di riciclaggio delle mafie nella grandi operazioni di speculazione edilizia, a partire dai porticcioli, e contro i condizionamenti delle Pubbliche Amministrazioni e degli appalti, è stato messo alla porta già ai tempi della fondazione di Libera in Liguria. Noi ed altri. Abbiamo le carte, le abbiamo pubblicate. In una di queste dicono che bisogna stare attenti a noi che abbiamo un gruppo a Ceriale... e sì quel gruppo con cui siamo riusciti a far crollare l'impero del costruttore Andrea NUCERA che dopo un'interdizione antimafia per una sua impresa ed il sequestro che avevamo sollecitato del mega cantiere di Ceriale, è finito in bancarotta ed è latitante. Bella colpa vero?

2) Libera organizzò una fiaccolata antimafia a Sanremo. Chi invitò ad aderire? Quei partiti che hanno tenuto bel saldamente al proprio interno (difendendoli) i vari esponenti con pesanti contiguità e complicità con le cosche. C'era l'Udc di Monteleone, il Pdl degli Scajola, Praticò, Minasso e Saso... il Pd dei Drocchi, Burlando, Vincenzi, Bertaina... Rc degli Zunino... l'Idv della Damonte, Cosma e compagnia, SEL dell'assessore al patrimonio di Genova che dava la casa popolare al boss di Cosa Nostra... ma su questo torniamo dopo. In prima fila, a quella fiaccolata, c'erano i sindaci “antimafia” di Ventimiglia, Gaetano SCULLINO, e quello di Bordighera, Giovanni BOSIO. Quest'ultimo lo hanno anche fatto parlare come testimonianza di impegno per la legalità. Il fatto che le Amministrazioni di BOSIO e SCULLINO fossero piegate dai condizionamenti della 'ndrangheta era un dettaglio che è sfuggito a Libera. Ah naturalmente non ci mandarono nemmeno l'invito... forse sapevano che lo avremmo rimandato al mittente.

3) Libera a Genova ha visto mettersi a disposizione della Giunta comunale della VINCENZI, dopo l'arresto del suo braccio destro e portavoce Stefano FRANCESCA, nientemeno che il Presidente Onorario di Libera, Nando Dalla Chiesa. Quello che a Milano denuncia i silenzi, le contiguità e connivenze mafiose del centrodestra ma che a Genova ha perso la vista e non vede quelle pesantissime delle amministrazioni di centrosinistra... della VINCENZI, di BURLANDO come di REPETTO e di molteplici Comuni della Provincia e delle riviere. Lui è consulente e si occupa di organizzare dei bei convegni e delle rassegne antimafia, con manifesti colorati e tanti bei volantini patinati, ma non si accorge del boss ospitato in albergo dal Comune, degli incarichi con ribassi da brivido assegnati a soggetti attenzionati o addirittura interdetti, delle somme urgenze, appalti vari e agevolazioni date ai MAMONE nonostante l'interdizione atipica antimafia... non parliamo delle varianti urbanistiche promosse dalla Vincenzi (come sul caso Lido, che poi abbiamo contribuito a bloccare) o i rapporti con le imprese del gruppo imprenditoriale dei FOGLIANI di Taurianova... ivi compresa la concessione, poi annullata dal TAR per una clinica privata ad Albaro. Queste cose a Genova Nando non le nota... pare che soffra di una grave patologia di “strabismo”, così, da un lato, da il “patentino” antimafia alle amministrazioni, come quella di cui è consulente (prima pagato e dopo la nostra denuncia pubblica, gratuitamente, senza più le decine di migliaia di euro annui), promuovendo tante belle iniziative e dall'altro tace e “copre” le indecenze.

4) Vi è poi la pantomima con 6... dico SEI... inaugurazioni dei beni confiscati di Vico della Mele. So che la questione è stata anche oggetto di discussione durante la visita della Commissione Parlamentare Antimafia a Genova lo scorso anno. Ad ogni occasione elettorale il Comune di Genova, lo stesso che ospitava in albergo il boss a cui sono stati confiscati e che noi siamo riusciti, con una serie di iniziative pubbliche, a far sì che si sgomberasse, con Dalla Chiesa, faceva una bella inaugurazione... poi il bene tornava ad essere chiuso. Un segnale devastante dopo l'altro, in un territorio dove il controllo del territorio, come si è dimostrato con le nuove inchieste e procedimenti a carico dei CACI, CANFAROTTA e ZAPPONE, era saldamente in mano alla mafia. Qui il Comune, sotto la regia di Dalla Chiesa (lo ha scritto direttamente lui in una lettera di insulti a noi ed agli abitanti della Maddalena che avevano collaborato con noi alle indagini che hanno portato alla confisca di 5 milioni di beni ai CANFAROTTA), ha elaborato un bando in cui il vincitore era già scritto. Se dici che il bene lo dai a chi vende i prodotti di Libera Terra secondo voi chi può vincerlo? E poi perché una bottega in un posto del genere dove invece occorre attività che si dirami e bonifichi i vicoli tutti intorno? Un’attività di quel tipo non è socialmente utile lì... Avevamo proposto, insieme ad altri, un progetto di rete, in cui poteva starci anche Libera, ma senza “monopolio”, e che le attività fossero scelte insieme agli abitanti perché solo così si può coinvolgere la comunità e rendere evidente una risposta collettiva alle cosche, facendo riprendere alla comunità stessa quei beni. Ed invece no... lo hanno dato alla rete di Libera.»

Sì, ma promuovere i prodotti delle terre confiscate non è importante?

«Premettiamo una cosa: molti dei ragazzi che vi operano ci mettono l'anima, così come molti di coloro che credono che Libera sia una struttura che fa antimafia. Ma la realtà dei fatti è diversa. Il quadro che ci viene presentato è utile a Libera, che ha di fatto il monopolio della gestione dei beni confiscati riassegnati, ed alle Istituzioni che così si fanno belle sventolando questo dichiarato “utilizzo” dei beni confiscati. Ma questo quadro è un falso! Prima di tutto perché i beni confiscati che vengono riassegnati sono pochissimi. Sono briciole. Abbiamo pubblicato anche uno studio su questo, sulla normativa e sulla realtà. Uno studio mai smentito! Secondo perché ad un sistema clientelare, nelle regioni meridionali, si promuove un nuovo clientelismo nel nome dell'antimafia. Mi spiego: senza i contributi pubblici quelle cooperative che lavorano sui terreni confiscati non durerebbero un anno! La gestione di quelle cooperative è poi piegata dal clientelismo. Prendiamo le cooperative siciliane. Le principali sono coordinate da Gianluca Faraone, mentre suo fratello fa politica nel PD. E' quel Davide Faraone “scoperto” da Striscia la Notizia cercare di ottenere voti alle primarie di Palermo promettendo posti di lavoro nelle cooperative come contropartita. Questo avrebbe dovuto far sobbalzare sulla sedia chiunque… Invece silenzio... Come silenzio sulla recente convocazione da parte di una Procura siciliana di don Luigi Ciotti perché in una delle cooperative di Libera Terra è stato individuato un soggetto legato a Cosa Nostra. La questione è quindi: perché Libera deve avere il “monopolio” del riutilizzo dei beni confiscati? Dove sta scritto? E poi non ci si rende conto che questa situazione non aiuta a ridare credibilità e fiducia nelle istituzioni, nella concorrenza? Inoltre, è evidente che se una struttura gestisce, da sola, una quantità immane di beni confiscati, qualche falla poi si crea. Ed allora perché non perseguire il lavoro di “rete”, con più soggetti, che concorrono nella gestione dei beni confiscati? L'idea di azione di “rete” era proprio la base della prima ed originaria Libera. Poi vi è un'altra questione. Molte realtà locali di pubbliche amministrazioni usano le assegnazioni dei beni confiscati per farsi una nuova “facciata” e conquistarsi “credibilità”. In questi casi bisognerebbe valutare prima di accettare un bene assegnato. Bisognerebbe considerare se quell'amministrazione è davvero lineare, limpida oppure se ha ombre. Nel primo caso si collabora, nel secondo si declina. Noi l'abbiamo fatto a Terrasini. Ci si voleva usare come “paravento”, abbiamo chiesto all'allora Sindaco: o di qua o di là. Lui ha scelto l'amico che faceva da codazzo al boss Girolamo D'Anna e noi, quindi, abbiamo rinunciato all'assegnazione del bene confiscato. Non ci pare difficile o complesso.»

Ma anche qui si tratta di un caso, o comunque di casi isolati... le cooperative funzionano o no?

«Quelli che si sono citati sono alcuni esempi. I casi preoccupanti sono molteplici e, purtroppo, in aumento. Parte del grano veniva (non so se avvenga ancora) macinato in un mulino dei Riina? Ci è stato raccontato così da chi per anni ha lavorato alla Commissione Parlamentare Antimafia e vive a Palermo. Non è mai stato smentito. Oppure c'è la storia di un agriturismo dove, per il centro di ippoterapia, i cavalli e gli stallieri erano presi dal maneggio della famiglia mafiosa ben nota in quei territori? Li ha ripresi anche Telejato! Anche sul fatto del funzionamento delle cooperative poi vi è molto da dire. Già ricordavo che senza sovvenzioni pubbliche crollerebbero ed altro che riscatto per i giovani di quelle terre. Sarebbe una mazzata... Ma si può vivere di assistenzialismo eterno, promuovendo progetti che nel momento in cui dovessero mancare i fondi pubblici, crollerebbero inesorabilmente? Noi crediamo di no! Lo spirito della legge Rognoni-La Torre non era quello di sostituire al clientelismo democristiano e mafioso una sorta di clientelismo dell'antimafia! Ma entriamo più nello specifico delle cooperative. Pare che nessuno sappia, in questo Paese, fare due conti. Oppure li sanno fare ma ne tacciono i risultati. Prendete la pasta prodotta ed impacchettata nelle bustine della pasta biologica “Libera Terra”. Fate il conto di quanto grano sia necessario per produrre tale quantità di pasta, non più per i numeri originari di una cerchia ristretta di vendita ma sulla grande distribuzione. Scoprirete che buona parte del grano usato per produrre quella pasta non viene affatto dalla coltivazione dei terreni confiscati in concessione a Libera Terra. In quei terreni possono sorgere minime percentuali del grano necessario. E' un dato oggettivo, lampante... sotto gli occhi di tutti. Di “Libera Terra” ci sono quindi, nella grande maggioranza dei casi, in quei pacchi di pasta, solo le confezioni. Il grano viene comprato da terzi, non nasce dalla terra confiscata! Ci è stato riferito che addirittura nei primi anni 2000 giungevano comunicazioni alla Commissione Parlamentare Antimafia, in cui si evidenziava che parte del grano usato per produrre quella pasta veniva comprato in Ucraina! Sul vino o sui pomodori il discorso è lo stesso... In quei pochi ettari di terra confiscata assegnati alle cooperative di Libera Terra non si può materialmente produrre la quantità di prodotti necessari per il mercato. Anche qui di Libera c'è solo la confezione. Tutto si regge su un’illusione che pare nessuno voglia indicare e questo è grave! In ultimo, ma fondamentale, vi è un elemento che nessuno pare voglia vedere ma che, di nuovo, è preoccupante. E' il monopolio! Di fatto la gestione delle terre confiscate avviene in un regime di monopolio da parte delle cooperative di Libera. Ogni possibilità di concorrenza è cancellata. Questo, nuovamente, è nello spirito della Legge Rognoni-La Torre? Non ci pare. Così come non era nello spirito di quel milione di firme che la “prima” Libera ha raccolto per fa sì che quella norma per l'utilizzo sociale dei beni confiscati fosse approvata. Ed attenzione questo stato di monopolio impedisce, o quanto meno impedirebbe, che, ad esempio, in bandi pubblici si possa indicare come criterio l'utilizzo dei prodotti nati dalle terre confiscate. Ci sono pronunce di sentenze che annullano bandi per questa ragione. Perché non si vuole cambiare strada? Perché anziché “monopolizzare” non si promuove una libera concorrenza che sarebbe a vantaggio non solo della “forma” ma anche della sostanza, nel senso che si spingerebbe a costruire realtà che vivono davvero sulle proprie gambe, e non quindi nicchie clientelari.»

Ma perché tanta acredine verso Libera? Degli errori si possono fare. Avete provato a parlare con don Ciotti?

«Non c'è acredine, come abbiamo già detto se si indicano i problemi, i fatti che testimoniano i problemi, è perché si vuole contribuire a risolverli! Premettiamo che siamo convinti che chi è in buona fede, ed in Libera in tanti sono in buona fede, colga che il nostro non è un “attacco” o una “guerra”, come alcuni cercano di far passare per eludere i problemi che poniamo. Chi è in buona fede sa che non diciamo falsità e non compiamo forzature, ma ci limitiamo ad indicare questioni, fatti, che è interesse di tutti, ed in primis di Libera, affrontare e risolvere. Nella vita sociale, di una comunità, così come nella vita privata di ciascuno, se si vive sulle illusioni, nei sogni, vedendo l'irreale come reale perché ci fa stare meglio, facciamo danni. Aggiungiamo danni a quelli che già ci sono. E' come il medico pietoso o che “sbaglia” diagnosi perché è “ottimista” e perché non vuole guardare al peggio e tantomeno vuol dirlo al paziente. Darà una terapia sbagliata o comunque inefficace ed il paziente si aggrava e muore. Non è acredine. E' essere onesti e dire le cose come stanno. A noi farebbe molto meglio accodarci a Libera, entrare nella sua “rete” che tutto può avere, ma per farlo dovremmo rinunciare all'indipendenza ed al rigore di guardare sempre e comunque a 360 gradi, senza mai tacere le cose che devono essere dette e denunciate. E' indiscutibile poi che gli errori li si può commettere tutti. Ci mancherebbe... ma qui non sono errori se li si nega, se si esula dall'affrontarli e risolverli. Qui si è davanti ad una scelta precisa che conduce agli errori e che vive di “errori”... e don Luigi Ciotti non è solo consapevole di tutto questo, ma è il principale fulcro di questo sistema che rappresenta la degenerazione della Libera originaria. Anche perché, se lui volesse, queste questioni le si sarebbe già risolte! Gli errori si ammettono e si correggono. Quando si nega, quando si decide di querelare chi indica le cose che non funzionano, quando si prosegue lungo la strada sbagliata, che è evidente ad un bambino, quando è conclamato dai fatti che si è persa la direzione corretta, significa che siamo davanti ad una scelta consapevole, voluta e perseguita. Questo è l'aspetto che genera rabbia e che impone di non tacere! Noi abbiamo posto alcuni problemi, abbiamo indicato alcuni fatti, reali, tangibili, riscontrabili da chiunque li voglia vedere. Per risposta abbiamo avuto due comunicati ufficiali di Libera, uno della Presidenza ed uno di Nando Dalla Chiesa, in cui non si rispondeva ad una virgola di quanto da noi sollevato, ma si dichiarava che ci avrebbero querelati! Siamo noi o loro che hanno acredine, odio e che rifiutano il confronto sui fatti? Noi viviamo una sorta di “guerra fredda” mossaci da Libera. Noi, come gli altri che non hanno accettato di accodarsi al loro monopolio dell'antimafia. Serve una svolta per ritrovare l'unità del movimento antimafia, ammesso che questa ci sia mai stata effettivamente, al di là della facciata.»

Il vertice di Libera quindi le sa queste cose? Ad esempio quelle sulla Liguria...

«Sì, le sanno. Le sanno da sempre e fanno finta di nulla. Anzi più le sanno, perché i fatti emergono inequivocabili, più isolano noi, ad esempio, che abbiamo contribuito a farli emergere, dando avvio alle azioni giudiziarie, e più fanno da “paravento”. E per coprire quanto accaduto, mistificano la realtà, arrivano a mentire. Dalla Chiesa, ad esempio, disse che assolutamente non stava operando sui beni confiscati di Vico Mele, per poi smentirsi da solo! Incontrò noi e gli abitanti della Maddalena dove gli dicemmo, ad esempio, dell'albergo a CACI... poi un anno dopo fece quello che cadeva dal pero. Davide Mattiello, altro esempio. Lo incontrai a Torino, in un bar davanti alla stazione di Porta Susa. Gli dissi tutto su quelli che volevano fondare Libera in Liguria, gli “amici” del fronte del cemento. Gli mostrai le carte dell'inchiesta della Guardia di Finanza dove emergevano i rapporti illeciti e quelli inopportuni ed indecenti tra Gino MAMONE e gli esponenti politici del centrosinistra genovese, dalla Vincenzi a Burlando, a partire dalla partita viziata da corruzione per la variante urbanistica dell'area dell'ex Oleificio Gaslini. Mi disse che avrebbe provveduto... Sapete chi è stato il “garante” della costruzione di Libera in Liguria, per allestire il grande “paravento”? Proprio Davide Mattiello... Quando in diversi gli chiesero se avesse letto il libro-inchiesta “Il Partito del Cemento” dove vi erano nomi, cognomi e connessioni di quelli che stavano promuovendo Libera in Liguria, la sua risposta è sempre stata: no, non l'ho letto e non intendo leggerlo! Non è questione di “noi” e “loro”. Se Libera non funziona è un problema per tutti! Noi per anni, quando Libera non era ancora questo, abbiamo chiesto e spinto perché si fondasse Libera in Liguria. Era salito due volte a Genova per le riunioni da noi richieste anche Alfio Foti, che in allora per il nazionale di Libera si occupava di queste cose. Inizialmente l'Arci sosteneva che non vi era “necessità” di costruire Libera in Liguria. Poi, con la seconda riunione, fecero naufragare tutto. Noi eravamo affiliati a Libera. In Liguria eravamo solo noi ed il CSI, il Centro Sportivo Italiano. Per anni è stato così... Ma l'Arci continuava a gestire il “marchio” Libera, con la Carovana, escludendo sia noi sia il CSI. A noi rimproveravano di aver indicato i rapporti tra i MAMONE con Burlando e l'amministrazione Pericu del Comune di Genova. Ma erano fatti quelli che noi indicavamo che oggi sono confermati da risultanze molteplici di inchieste, da un’interdizione atipica per i MAMONE e da una condanna proprio di Gino MAMONE e di un ex consigliere comunale della Margherita, STRIANO, per corruzione in merito ad una variante urbanistica di un’area dei MAMONE.»

Ma perché secondo voi è così pericolosa la strada imboccata da Libera?

«La questione è semplice e parte dalla solita questione italica: illusione o concretezza. Il sogno non come speranza che si cerca di perseguire con atti quotidiani concreti, ma il sogno in cui ci si racchiude per stare meglio con se stessi. L'illusione è la cosa che i preti sanno vendere meglio, lo fanno da millenni, ed in mezzo a infinite contraddizioni o misteri riescono sempre a conquistarsi “anime” per atti di fede. Don Ciotti è un prete e questo fa. Ora ad esempio parla di “scomunica” ai mafiosi... bene, ma perché, realtà per realtà, né lui, né gli altri responsabili di Libera, non osano mai pronunciare un nome e cognome! Se si vuole scomunicare qualcuno questo qualcuno è in carne ed ossa, ha un volto, ha un nome... La mafia non è un ectoplasma. Poi sappiamo tutti che la lotta alla mafia è fatta anche di segnali. Se i segnali sono equivoci è un problema. Facciamo un altro esempio concreto. “Avviso Pubblico” è una struttura nata da Libera che raccoglie gli Enti Locali e le Regioni. Una struttura in cui i Comuni, le Province e le Regioni possono aderire, previo versamento di una quota annuale. Ma non c'è verifica, non ci sono discriminanti per l'adesione. Prendiamo la Regione Liguria che recentemente ha aderito ad Avviso Pubblico. Qui si ha un presidente della Regione, Burlando, che era amico dei MAMONE, che frequentava e da cui ha preso sovvenzioni attraverso l'associazione Maestrale, che aveva tra i propri supporter alle ultime elezioni liste che avevano uomini legati alla 'ndrangheta tra le proprie fila. Abbiamo un presidente del Consiglio Regionale che nel 2005 incassò i voti della 'ndrangheta, poi un pacchetto di tessere sempre da questi per vincere il congresso, poi li ricercò ancora per le elezioni del 2010, proponendo al capo locale di Genova, GANGEMI, una bella spaghettata, e che, in ultimo, ha festeggiato la rielezione nel ristorante del boss di Cosa Nostra Gianni CALVO. Abbiamo poi un consigliere regionale, Alessio Saso, indagato per il patto politico-elettorale con la 'ndrangheta alle elezioni del 2010. Davanti a questo panorama Avviso Pubblico, crediamo, avrebbe dovuto dire: Cara Regione Liguria, prima ripulisci il tuo palazzo da questi soggetti e poi la tua domanda di adesione sarà accolta. Invece no, accolta subito, con questo bel quadretto. E così Libera che, per la manifestazione del marzo scorso, incassa dalla Regione quarantamila euro di contributo e poi si presenta con don Ciotti al fianco di Burlando e lo ringrazia per quello che fa nella lotta alla mafia.»

In che senso “grande illusione”?

«Antonino Caponnetto ha indicato la strada maestra della lotta alle mafie: rifiutare la logica del favore, indicare i mafiosi perché questi temono più l'attenzione dell'ergastolo! Paolo Borsellino ha spiegato, credo meglio di ogni altro, che la lotta alla mafia è una questione civile e culturale, perché la sola azione giudiziaria non è sufficiente per sconfiggere le mafie. E ci diceva che bisogna mettere in un angolo i politici compromessi, anche per sole semplici frequentazioni indegne, e pur se non esistono rilievi penali. Ci diceva che occorre negare il consenso alle cosche perché gli si fa venir meno la capacità di condizionamento. Giovanni Falcone invece ha reso evidente già allora che la mafia non è coppola, lupara e omicidi, ma è affari. Ci ha spiegato che tutte le attività più cruente e prettamente “criminali” (droga, estorsione, prostituzione...) servono alle organizzazioni mafiose per avere quei capitali illeciti da riciclare facendosi impresa, finanza, politica. Ci spiegava che è lì, seguendo i soldi, che si può colpire l'interesse mafioso. Ed allora perché Libera questo non lo fa? E perché cerca, in un reciproco scambio di favore con la politica, di monopolizzare la lotta alla mafia a livello sociale come se ci fossero solo loro? Libera ha il vantaggio di rafforzarsi e incassare, la politica ha un ritorno perché usa Libera come paravento per coprire le proprie indecenze. Ci si può dire: ma sono solo modi diversi di perseguire lo stesso obiettivo, cioè sconfiggere le mafie. Non ci pare così... Le iniziative “mediatiche”, il merchandising che diventa la principale attività, le illusioni di combattere le mafie con spaghettate, cene o pranzi, il parlare di una mafia ectoplasma e non della concreta e palpabile rete mafiosa, di contiguità, connivenze e complicità, fatta di soggetti ben precisi, con nomi e cognomi, non è lotta alla mafia... al massimo possiamo considerarla una “buona azione”, come il fare l'elemosina davanti alla chiesa al povero cristo di turno... Non risolve il problema, ci convive! Libera parla sempre dei morti... ci dice che bisogna ricordare i morti, vittime della mafia. Giusto e come si fa a non condividere il dovere della Memoria? Ma dei vivi? Dei vivi non si parla mai... le vittime vive delle mafie sono ben più numerose delle già tante, troppo, vittime morte ammazzate. Di queste Libera si dimentica... Non è un caso se fu proprio don Luigi Ciotti a chiedere che venisse previsto anche per i mafiosi l'istituto della “dissociazione”, cioè ti penti, ti dichiari dissociato ma non confessi nulla, non racconti nulla di ciò che conosci dell'organizzazione. E' chiaro che se mai fosse stata accolta questa proposta, di collaboratori di giustizia non ne avremmo più. Se per avere gli stessi benefici basta dissociarsi, senza rompere l'omertà e denunciare i sodali e i segreti dell'organizzazione, quale mafioso rischierebbe la propria vita e quella dei suoi familiari per collaborare? Nessuno e lo strumento essenziale dei Collaboratori svanirebbe.»

Ma l'azione di Libera arriva a molte persone, alla massa. Le vostre iniziative se pur incisive nell'azione di contrasto civile e, nel vostro caso, anche giudiziario, alle organizzazioni mafiose, le conoscono in pochi.

«Questo è un problema che non dipende da noi. Dipende da ciò che dicevamo prima: Libera è utile alla politica ed alle imprese perché gli fa da “paravento”, nascondendo le loro pratiche indecenti. E' ovvio che Libera in cambio ha qualcosa da questo: visibilità mediatica, grandi riconoscimenti, finanziamenti e strumenti per promuoversi. Noi diamo l'orticaria a 360 gradi con la nostra indipendenza. E quindi la risposta è evidente: l'isolamento! E qui Libera gioca di nuovo un ruolo servile verso il Potere, verso quel potere compromesso, si presenta come unica realtà “credibile” ed oscura chi non è gradito e non accetta di piegarsi alla loro stessa logica. Le operazioni mediatiche non servono a colpire le mafie. Pensate alla grande campagna mediatica dell'ex Ministro Maroni. Ogni giorno sfruttava gli arresti di mafiosi fatti da magistrati e forze dell'ordine per dire che stavano sconfiggendo la mafia. Hanno costruito una campagna mediatica per cui “l'arresto” sconfigge la mafia. Una falsità assoluta... tanto è vero che le mafie sono ancora ben forti e radicate sul territorio, con sempre maggiore capacità di condizionare il voto, e quindi le Amministrazioni Pubbliche, anche al Nord. Ed allora: è servita questa campagna mediatica sulla vulnerabilità dei mafiosi per scalfire il loro potere? No. Facciamo alcuni esempi...Trovate un amministratore pubblico in Italia che abbia speso quanto ha investito Totò Cuffaro in manifesti di ogni dimensione, tappezzando un'intera regione, la Sicilia, con lo slogan “la mafia fa schifo”. Non esiste. Cuffaro ha speso più di ogni altro politico italiano in un’azione mediatica su larga scala. Noi però sappiamo chi era quel Cuffaro. Un fiancheggiatore degli interessi mafiosi. Cosa ci dice questo? Semplice: le azioni mediatiche la mafia non le teme, anzi le vanno pure bene, perché le permettono una più efficace azione di mimetizzazione. Altro esempio. Francesco Campanella, uomo che agevolò la latitanza di Provenzano. Questi ebbe un'idea e la propose a Provenzano che l'accolse con grande entusiasmo. L'idea era semplice: promuovere direttamente manifestazioni antimafia. Chiaro? Ed ancora: dove facevano le riunioni gli 'ndranghetisti di Lombardia per eleggere il loro “capo”? Nel “Centro Falcone e Borsellino”! Si vuole o no capire che i mafiosi sono i primi che hanno l'interesse di “mascherarsi” e presentarsi pubblicamente come attori dell'antimafia? Devono farlo i sindaci e gli eletti che hanno stretto un patto con la mafia, così come devono farlo gli affiliati che hanno un ruolo pubblico o comunque una visibilità pubblica. Gli serve per insabbiarsi! La linea “ecumenica” di Libera lascia troppe porte aperte a queste “maschere”... E' pericoloso! E' un insulto alla buona fede dei tanti che in Libera lavorano seriamente e che da questo vedono, in determinati territori, il proprio lavoro screditato. Quelle porte devono essere sbarrate! Se una persona vive su un territorio sa chi sono i mafiosi. E se alla manifestazione antimafia tu vedi che tra i promotori ci sono i mafiosi, il segnale è devastante! Per semplificare: se tu sai che il responsabile degli edili di un grande sindacato va a braccetto con il capobastone che organizza, con la sua rete, il caporalato o le infiltrazioni nei cantieri edili con le ditte di ponteggi e le forniture, e poi vedi questo sindacalista che promuove le manifestazioni antimafia, magari con Libera... magari dicendoti “venite da me a denunciare”, è evidente che nessuno mai si rivolgerà a lui, al sindacato. Quale lavoratore in nero andrà mai a denunciare da lui? Nessuno. Ecco fatto che senza intimidazione, senza alcun gesto eclatante si sono garantiti la pax.»

Ma allora Libera...

«Libera dovrebbe tornare ad essere Libera “di fatto” oltre che di nome. Oggi non lo è. E questo è un danno per tutti. E' un problema per tutti. Noi vogliamo che Libera torni quello che era all'origine. Anche qui un esempio molto tangibile. Il presidente della Casa della Legalità è una persona a rischio, per le denunce che abbiamo fatto e l'azione di informazione mirata a colpire la mafia che si è fatta impresa, la rete di professionisti asserviti, la mafia nella politica. E', come si dice in gergo, un “obiettivo sensibile”... e lo è perché in questi anni soprattutto in Liguria, ma anche in altre realtà, come Casa della Legalità siamo stati soli ad indicare nome per nome, i mafiosi, i professionisti e le imprese della cosiddetta “zona grigia”, la rete di complicità e contiguità con la politica, le forze dell'ordine e persino nella magistratura. Abbiamo ottenuto risultati con lo scioglimento delle Amministrazioni nel Ponente Ligure, così come con le verifiche in corso su altri Comuni. Abbiamo squarciato l'omertà e spinto ad adottare provvedimenti quali interdizioni a “colossi” delle imprese mafiose. Si è contributo a far emergere i patrimoni illeciti che sono stati aggrediti con sequestri e confische... Con un lavoro difficile, senza soldi, a volte neppure per un bicchiere d'acqua. Si è piano piano conquistata la fiducia di persone che poteva parlare e li si è messi in contatto con i reparti investigativi. In alcuni casi hanno verbalizzato, in altri non vi è stato nemmeno bisogno che si esponessero in questo. Ecco questo le mafie non ce lo perdonano, così come non ce lo perdonano i politici che nel rapporto con le cosche avevano costruito un pezzo determinante del loro consenso elettorale. Se non fossimo stati soli, ma Libera avesse fatto qualcosa, oggi non sarei probabilmente identificato dalle cosche come “il problema” da eliminare. Ed invece no, sapendo la realtà ligure, perché la si conosce e la conoscono anche quelli di Libera, hanno scelto di lasciarci soli e di fare da paravento alla politica ed a quelle imprese che la porta alle mafie, in questo territorio, la spalancarono ed ancora la tengono ben aperta. Non vorremmo che si pensasse che queste cose siano questioni “astratte” o ancor peggio “personali”. Ed allora è meglio che, oltre a quanto ho già raccontato, vi faccia un altro esempio concreto. Alcune mesi fa è finalmente emerso quanto dicevamo da anni: Burlando sapeva che nella sua rete di consensi nel ponente ligure vi erano soggetti legati alla 'ndrangheta, della 'ndrangheta. Denunciamo questo con tutti i dettagli del caso. Quello che è emerso è che il “collettore” era l'ex sindaco di Camporosso, Marco Bertaina. Questi con la sua lista civica alle provinciali di Imperia ha candidato due 'ndranghetisti: MOIO e CASTELLANA. Burlando appoggiò quella lista civica che a sua volta appoggiava Burlando quale candidato alla Presidenza della Regione Liguria. E chi è BERTAINA? E' l'attuale vice-sindaco di Camporosso, dopo due anni di mandato come sindaco e diversi come assessore negli anni Novanta... ed è soprattutto quello che ha promosso un progetto di “educazione alla legalità” proprio con Libera. Dopo le rivelazioni su questo asse BERTAINA-MOIO-CASTELLANA-BURLANDO cosa fa Libera? Organizza un convegno con il Comune di Camporosso dove porta direttamente Gian Carlo Caselli! E' chiaro che il segnale, su quel territorio, a quella comunità, è devastante? Noi crediamo di sì e Libera ne ha tutte le responsabilità!»

Non siete stati alla manifestazione della “Giornata della Memoria e dell'Impegno” che vi è stata a Genova, quindi...

«No, come Casa della Legalità non ci siamo andati. Ci è dispiaciuto di non poter “abbracciare” i parenti delle vittime che hanno sfilato. Ci è dispiaciuto per quelli che in buona fede ci credono... Ma noi non ci prestiamo a fare da “paravento” in cambio di fondi, soldi o visibilità. La lotta alla mafia è una cosa seria e le vittime dovrebbero essere rispettate e non usate. No, non ci siamo andati alla “Giornata della Memoria corta e dell'ipocrisia”... Ma abbiamo una speranza: che le persone che in buona fede credono in Libera la facciano tornare Libera nei fatti. Se queste persone riusciranno a laicizzare e decolonizzare Libera sarebbe importante per tutti. Non credo ci possano riuscire... perché, come dicevo: un'illusione fa vivere meglio... la realtà è più problematica ed in questa ci si deve assumere delle responsabilità concrete, non a parole! Ma la speranza c'è, altrimenti queste cose non le direi, se fossi convinto al 100% che nulla possa cambiare. Dico di più. Per noi della Casa della Legalità, che convenienza c'è ad uno “scontro” con Libera? Nessuno. Loro sono, si potrebbe dire, un “potere forte”, per la rete che hanno e che abbiamo cercato di rendere evidente con i fatti enunciati. E se diciamo queste cose, se indichiamo, ripeto, fatti e non opinioni, è perché vorremmo che chi è in buona fede e crede in Libera, la faccia rinascere, eliminando quelle storture, tutte quelle situazioni problematiche. Le critiche che poniamo sono reali, chiediamo di riflettere su queste. Sappiamo già che qualcuno, quelli non in buona fede, per intenderci, cercheranno di rispondere ignorando tutto quanto si è detto, oppure scatenando una guerra aperta, non più sottotraccia alla Casa della Legalità. Punteranno, in estrema sintesi, ad unire il proprio fronte contro il “nemico” esterno... un'altra delle pratiche italiche che tanti danni hanno fatto. Sappiamo di questo rischio, ma dobbiamo rischiare se vogliamo che quel briciolo di speranza che dicevamo, possa avere una possibilità di concretizzarsi in un cambiamento reale. Non siamo dei pazzi suicidi. Diciamo le cose come stanno, guardando ai fatti, perché si rifletta e si affronti la realtà per quello che è e quindi perché si possa agire per “correggerla”.»

Ma siete gli unici a dire queste cose?

«Assolutamente no. Forse siamo gli unici che riescono in qualche modo a bucare la cappa di omertà che vi è su questa vicenda di Libera. Come dicevamo prima siamo davanti ad un “santuario”. Si parla tanto di “poteri forti”, ma questi non sono solo mica quelli della “politica”, ci sono anche nel “sociale”, nella cosiddetta società civile. E' difficile trovare chi è disposto a subire una reazione spietata per il solo fatto di aver indicato dei fatti che sono ritenuti “indicibili” anche se veri. Chi ha rotto con l'associazione di don Luigi Ciotti perché non ha avuto timore di vedere la realtà e di dirla, sono in molti. Partiamo da un giornalista scrittore calabrese, costretto, nell'isolamento, ad una sorta di perenne esilio dalla sua terra, Francesco Saverio Alessio. Potete poi chiedere a Umberto Santino, del Centro Siciliano di Documentazione Giuseppe Impastato, anche lui le cose le dice senza reticenze...Il problema è che nessuno domanda a chi risponde senza ipocrisie, perché se si da voce a chi guarda e parla della realtà, dei fatti, allora l'illusione in cui ci vorrebbero far vivere ed operare, svanisce.»

Ma proprio nulla va in Libera, pare impossibile...

«Sarebbe ingiusto dire che tutto non va. Diciamo che l'impostazione assunta da alcuni anni a questa parte è altamente preoccupante, come abbiamo visto dai fatti. Poi non bisogna mai generalizzare. Ci sono realtà locali che operano bene, che fanno cose importanti e lavorano seriamente. Ci sono attività di formazione che vengono promosse da Libera che rappresentano un contributo importante nella sensibilizzazione. Alcune di queste in particolare, altre invece sono una sorta di promozione di una “educazione alla legalità” slegata dal territorio, dalla concretezza, diciamo ecumeniche e non laiche. Dire che da una parta c'è il bene e dall'altra il male, senza dare esempio tangibile, riconoscibile sui territori dove si promuove quell'attività, rischia di non incidere. Ecco qui vi è una diversa visione... loro promuovono questa attività in modo meno “laico”, noi cerchiamo invece di far vedere la realtà dei fatti, partendo da dove vivono quei ragazzi che si incontrano e far scattare in loro quella capacità critica che gli permette di arrivare loro a concludere ciò che è giusto e ciò che invece è sbagliato, quale sia il bene e quale invece il male.»

Ma perché, visto che vi sta a cuore Libera, non vi confrontate con Libera?

«Anche qui la domanda è da rivolgere a loro. Noi non abbiamo mai avuto e non abbiamo problema alcuno a confrontarci su questo e su altre cose con Libera e con chiunque altro. E' proprio Libera che sfugge al confronto... che ci ignora totalmente e cerca di isolarci, di “cancellarci”. Ma anche qui ci sono degli esempi concreti. Andiamo con ordine...A Bologna un’associazione che fa parte di Libera aveva organizzato un incontro di presentazione del libro “Tra la via Emilia e il Clan”, invitando gli autori, Abbondanza ed Amorosi, ed il Procuratore Capo di Bologna. Poi dal Nazionale di Libera arriva il veto: non ci può essere Abbondanza! Viene comunicato che l'iniziativa è quindi rinviata! A Genova, nessun invito formale, nemmeno semplicemente per partecipare come pubblico, ci è stato mai mandato per le iniziative organizzate in preparazione della manifestazione del marzo scorso...Ma vi è di più. Quando il Consiglio dei Ministri approva lo scioglimento della Giunta e Consiglio Comunale di Ventimiglia (a seguito dell'istruttoria seguita alla nostra denuncia), ed il Presidente della Repubblica firma il Decreto di Scioglimento, il referente regionale di Libera, Lupi (che è di Imperia) cosa dichiara? Che è “rammaricato” per l'esito dello scioglimento! Non una parola sulle minacce ed intimidazioni che ci sono giunte e per la situazione di pericolo che ha portato la Prefettura di Genova ad adottare a tutela del presidente della Casa della Legalità le misure di protezione. Silenzio ed isolamento, come se non esistessi, come se non esistessimo...Per il 23 maggio l'Istituto degli Emiliani a Genova ci ha invitato per ricordare Falcone e per far capire che la mafia c'è ancora, che è concreta, che è qui al Nord... Lo scorso anno c'era anche Libera, quest'anno non si è presentata. Hanno pubblicato due rapporti, redatti da loro, uno sulla Liguria ed uno sull'Emilia-Romagna, in nessuno dei due casi appare neppure mezza delle risultanze di indagini che abbiamo contribuito a raggiungere. Non una citazione… fatti ed atti cancellati. Sull'Emilia-Romagna abbiamo anche pubblicato un “atlante”, il libro “Tra la via Emilia e il Clan”, dove si è messo in evidenza, atto dopo atto, che quella regione, quell'economia, non è affatto esente dalla presenza e dalle attività delle mafie. Un libro che non ha avuto neanche mezza contestazione, nessuna smentita e nessuna querela (un anomalo miracolo, si potrebbe dire). Bene, per Libera non esiste...Se non sei dei loro non esisti e non devi esistere! Poi questa ultima storia di Sarzana, evidenzia un nuovo eclatante esempio. Tempo fa ci contatta l'ANPI di Sarzana per sapere a chi potevano assegnare l'onorificenza civica "XXI luglio 1921". Ci dicono che, essendo il ventennale delle stragi del 1992, volevano assegnarla ad un soggetto che abbia operato ed operi nella lotta alle mafie. Non abbiamo dubbi e proponiamo la DIA di Genova. La proposta viene poi accolta. Il Sindaco di Sarzana contatta il presidente della Casa della Legalità, e gli comunica ufficialmente l'accoglimento della proposta, gli chiede se poteva essere presente per un intervento nella tavola rotonda del 20 luglio in cui verrà consegnata l'onorificenza. Gli risponde di sì. Il giorno seguente Abbondanza viene contattato dalla segreteria del Sindaco per avere conferma del suo intervento, dovendo procedere per la stampa degli inviti. Gli viene data conferma. L'altro ieri ci è arrivato l'invito. Non ci siamo più, l'intervento di Abbondanza è svanito. C'è Libera. Ora, premesso che la cosa importante, significativa, è il riconoscimento alla DIA che compie un lavoro straordinario ma viene “tagliata” continuamente nelle risorse a propria disposizione, spesso resta inascoltata anche da magistrati e istituzioni ciechi. Come abbiamo detto anche al Sindaco che si è scusato ed ha fatto inoltrare anche una nota di scuse ufficiali (tra l'altro nel comunicato stampa questo passaggio è svanito, chissà perché?!), è che spunta Libera, espressione e “paravento” di quel blocco politico-economico che corrisponde a quello dell'amministrazione del Comune di Sarzana, e noi spariamo dagli interventi. Il Sindaco dice che Libera è attiva nello spezzino. A parte il fatto che anche noi lo siamo da tempo, ci piacerebbe sapere dove è Libera nella lotta contro le speculazioni edilizie che hanno devastato quel territorio, contro il progetto della grande colata di cemento alla Marinella, nato tra l'avvocato Giorgio Giorgi, uomo di Burlando, Monte dei Paschi di Siena e cooperative rosse? Dove erano nel contrasto alla cricca del “faraone” delle Cinque Terre, che era “pappa e ciccia” con Legambiente, altro grande “paravento” del PD, legatissima a Libera? Il Sindaco risponde ad Abbondanza: hanno proposto la Consulta per la Legalità e l'abbiamo approvata, una struttura indipendente, con Libera, i sindacati ecc. ecc... Ma come, Sindaco, se ci sono Libera ed i Sindacati, dove è “indipendente” questa consulta? Se i Sindacati, a partire da quelli edili, iniziassero a fare il loro lavoro e denunciassero le infiltrazioni nei cantieri, il caporalato, la lotta all'illegalità ed alle mafie farebbe passi da gigante, ed invece tacciono, coprono. La stessa cosa che avviene con le aziende agricole... ricordiamo la Rosarno, dove tutti sapevano, i sindacati in primis, chi sfruttava come schiavi quegli immigrati, e non osavano denunciarne nemmeno mezzo, mai un nome, ma solo parate, fiaccolate, convegni. Noi ad un confronto siamo sempre disponibili, ma come lo possiamo avere se sfuggono come anguille ad ogni possibilità di confronto e se quando vi sarebbero occasioni di intervenire, entrambi, se non saltano le iniziative, come nel caso di Bologna, fanno saltare la nostra presenza o non si presentano loro?»

Cosa vi aspettate dopo questa pubblicazione?

«Vorremmo dire un confronto. Questo è quello che auspichiamo. Pensiamo che invece avremo da un lato un “muro di gomma”, ovvero il tentativo di tenere tutto questo nel silenzio, come se non esistesse, dall'altro lato invece subiremo un attacco feroce, spietato. Crediamo che valga la pena, proprio per quel briciolo di speranza riposto nelle tante persone in buona fede... Tacere ancora tutto questo significherebbe perdere quella speranza di cambiamento necessario, perché ripetiamo: Libera è una struttura importante e se torna alle origini ne abbiamo tutti un vantaggio! Non vogliamo una “guerra” con Libera, vogliamo dare un contributo, anche se attraverso una critica senza veli sui fatti, perché si possa migliorare. Noi non vogliamo la fine di Libera, vogliamo la sua rinascita.... e chi è in buona fede lo capisce, non può non capirlo.»

ITALIA: PAESE ZOPPO.

Roberto Gervaso: terapie per un Paese zoppo. Il nuovo libro  racconta l’ultimo secolo dell’Italia. Senza sconti a Grillo, Berlusconi, Renzi, Napolitano...La lezione è quella, come lo stesso Roberto Gervaso racconta a Stefania Vitulli di “Panorama”, appresa da Montanelli, Prezzolini, Buzzati, Longanesi. E quanto questa lezione sia ancora inedita e scomoda nell’Italia contemporanea lo dimostra il suo nuovo libro, Lo stivale zoppo. Una storia d’Italia irriverente dal fascismo a oggi. Nella lista dei nomi che ritroviamo alla fine del volume non manca nessuno: Abu Abbas, Agnelli e Alberto da Giussano aprono un elenco alfabetico che si conclude con Zaccagnini, Zeman e Zingaretti. Nel mezzo, l’ultimo secolo di storia di un Paese a cui Gervaso non risparmia ricostruzioni accurate dei fatti e verità dure da accettare.

Che cosa c’è di nuovo in questo libro?

«Le cose che ho sempre detto. Solo che ora le dico con furia. Perché, se non si fa una diagnosi spietata, l’Italia non avrà mai né terapia né prognosi.»

Filo conduttore?

«La storia di un Paese senza carattere, che sta ancora in piedi perché non sa da che parte cadere.»

Si parte dalla Conferenza di Versailles...

«Sì, perché l’Ottocento finisce nel 1919, e quell’anno getta il seme dei fascismi. Suggellò la Prima guerra mondiale, caddero quattro imperi, nacquero le grandi dittature e l’America soppiantò l’Europa nella leadership mondiale.»

E l’Italia?

«Ha vinto una guerra nelle trincee e sulla carta ma l’ha perduta in diplomazia, società, economia. Era divisa fra le squadracce nere all’olio di ricino e quelle rosse che volevano imporre i soviet. Partiti dilanianti e latitanti, i poteri forti scelsero i fasci nell’illusione di addomesticare Benito Mussolini.»

Che si affacciò al balcone...

«Tutto era a pezzi, tutto in vendita. Oggi la situazione non è certo migliore del 1922.»

Partiti dilanianti e latitanti?

«Non hanno mai litigato tanto. La sinistra è un’insalata russa senza maionese, la destra una macedonia di frutta con troppo maraschino giudiziario. Il Paese è a un bivio: il balcone o la colonia.»

Sarebbe a dire?

«O qualcuno si leva dalla folla interpretando l’incazzatura della gente, si affaccia al balcone e dichiara: «Il carnevale è finito», oppure diventiamo una colonia delle grandi potenze europee o di quelle emergenti, come la Cina. La moda italiana, tranne pochi del nostro Paese, si divide tra François Pinault e Bernard Arnault; l’alimentare è in mano ai francesi, la meccanica è dei tedeschi, gli alberghi diventano spagnoli...»

E gli italiani non se ne accorgono?

«Abbiamo un’ancestrale vocazione al servaggio. Gli italiani se ne infischiano della libertà, le hanno sempre anteposto il benessere. L’uguaglianza non esiste: è l’utopia dell’invidia.»

Ma che cosa ci deve capitare di ancora più grave?

«L’Italia ha sempre dato il meglio di sé in ginocchio, con le spalle al muro, l’acqua alla gola e gli occhi pieni di lacrime. Nell’emergenza risorgeremo.»

Come si chiama questa malattia?

«Mancanza di senso dello stato. Al massimo abbiamo il senso del campanile. L’italiano non crede in Dio ma in San Gennaro, Sant’Antonio, San Cirillo. A condizione che il miracolo non lo faccia agli altri ma a se stesso.»

La cura?

«Utopistica: che ognuno faccia il proprio dovere e magari sacrifici. Che devono cominciare dall’alto.»

E parliamo di chi sta in alto. Mario Monti?

«Un economista teorico, un apprendista politico che ha fatto un passo falso e fatale. Si fosse dimesso alla scadenza del mandato, sarebbe al Quirinale. Deve cambiare mestiere: la politica non è affar suo e temo che non lo sia nemmeno l’economia.»

Beppe Grillo?

«Un Masaniello senza competenza politica, collettore dei voti di protesta. Se si instaurasse una seria democrazia, sparirebbero i grillini, che vogliono la riforma della Costituzione senza averla letta.»

Enrico Letta?

«Un giovane vecchio democristiano, serio e competente, ma senza quel quid che fa di un politico un leader o uno statista, cosa che, fra l’altro, non ha mai preteso. Un buon governante.»

Matteo Renzi?

«Un pallone gonfiato sottovuoto spinto. Un puffo al Plasmon che recita una parte che vorrebbe incarnare ma non è la sua. Se lo si guarda bene quando parla e si muove, si vede che non c’è niente di spontaneo. Ha una virtù: il coraggio. Più teorico che pragmatico, però, perché oggi va a braccetto con Walter Veltroni. Non è un rottamatore, è un illusionista.»

Veltroni?

«Un perdente di successo, ormai attempato e fuori dai tempi. Che ha cercato di conciliare Kennedy e Che Guevara.»

Pier Luigi Bersani?

«Un paesano. Un contadino abbonato a Frate Indovino, che parla per proverbi.»

Massimo D’Alema?

«Un uomo di grandi intuizioni. Tutte sbagliate.»

Silvio Berlusconi?

«Un grande leader d’opposizione. Che sa vincere le elezioni e ama il potere. Ma non la politica.»

Giorgio Napolitano?

«Ottimo presidente della Repubblica. Che conserva una foto dei carri armati che invasero l’Ungheria nel ’56. La tiene in cassaforte e la mostra solo ai compagni.»

Cultura a sinistra, Paese a destra Una «strana» Italia divisa in due. Il vizio d'origine? Un'agenda politica, dettata da un antifascismo non sempre democratico, che trova riscontro solo nelle élite, scrive Roberto Chiarini su “Il Giornale”. Pubblichiamo qui uno stralcio della Premessa del nuovo saggio dello storico Roberto Chiarini Alle origini di una strana Repubblica. Perché la cultura politica è di sinistra e il Paese è di destra. Un libro che spiega i mali che affliggono l'Italia, risalendo alla formazione della democrazia a partire dalla caduta del fascismo. I tratti originari della nostra Repubblica hanno reso operante la democrazia ma, alla distanza, l'hanno anche anchilosata. L'antifascismo ha comportato l'operatività di una precisa sanzione costrittiva del gioco democratico, sanzione controbilanciata presto sul fronte opposto da una opposta e simmetrica, l'anticomunismo. Destra e sinistra si sono trovate in tal modo, invece che protagoniste - come altrove è «normale» - della dialettica democratica, solo comprimarie, stabilmente impedite da una pesante delegittimazione ad avanzare una candidatura in proprio per la guida del paese. Da ultimo, la configurazione di un «paese legale» connotato da una pregiudiziale antifascista e di un «paese reale» animato da un prevalente orientamento anticomunista ha comportato una palese, stridente assimetria tra una società politica orientata a sinistra in termini sia di specifico peso elettorale che di obiettivi proposti e un'opinione pubblica molto larga - una maggioranza silenziosa? - per nulla disposta a permettere svolte politiche di segno progressista. L'emersione nel 1994, grazie al passaggio a un sistema tendenzialmente bipolare, della «destra occulta» rimasta per un cinquantennio senza rappresentanza politica diretta ha risolto solo a metà il problema. È rimasta l'impossibilità per una forza politica mantenuta - e tenutasi - nel ghetto per mezzo secolo di esprimere di colpo una cultura, un disegno strategico, una classe dirigente all'altezza del ruolo di comprimaria della sinistra. Al deficit di maturità democratica ha aggiunto, peraltro, un'inclinazione a secondare posizioni vuoi etno-regionaliste (se non dichiaratamente separatiste) inconciliabili con l'ambizione di costruire una forza politica di respiro nazionale, vuoi populistico-plebiscitarie in aperta dissonanza con la destra liberale europea. Tutto ciò ha offerto il destro - e l'alibi - alla sinistra per persistere in una battaglia di demonizzazione dell'avversario, contribuendo in tal modo a rinviare una piena rigenerazione di questa «strana democrazia», normale a parole ma ancora in larga parte prigioniera di comportamenti ispirati alla delegittimazione del nemico. A pagarne le conseguenze continuano a essere non solo destra e sinistra, ma anche le istituzioni democratiche, ingessate come sono in un confronto polarizzato che ha finito con il comprometterne la capacità operativa, soprattutto sul fronte delle importanti riforme di cui il Paese ha un disperato bisogno. Il risultato è stato di erodere pesantemente la credibilità e persino la rappresentatività delle stesse forze politiche. Lo scontento e la disaffezione insorti per reazione non potevano non ridare nuova linfa a una disposizione stabilmente coltivata dall'opinione pubblica italiana, conformata a un radicato pregiudizio sfavorevole alla politica. Una disposizione che ha accompagnato come un fiume carsico l'intera vicenda politica repubblicana sin dal suo avvio, tanto da rendere «il qualunquismo (...) maggioritario nell'Italia repubblicana, sia presso il ceto intellettuale che presso l'opinione pubblica» (Sergio Luzzatto). Una sorta di controcanto, spesso soffocato, al predominio incontrastato dei partiti. S'è detto che la funzione dei partiti è cambiata nel tempo divenendo da maieutica a invalidante della democrazia, da leva per una politicizzazione della società a strumento di occupazione dello Stato e, per questa via, a stimolo dell'antipolitica così come la loro rappresentatività da amplissima si è progressivamente inaridita. Parallelamente anche le forme, i contenuti, gli stessi soggetti interpreti dell'antipolitica si sono trasformati nel corso di un sessantennio. Da Giannini a Grillo, la critica alla partitocrazia ha avuto molteplici voci (da Guareschi a Montanelli fino a Pannella) e solleticato svariati imprenditori politici a valorizzarne le potenzialità elettorali (dal Msi alla Lega, alla stessa Forza Italia, passando per le incursioni sulla scena politica di movimenti poi rivelatisi effimeri, come la Maggioranza Silenziosa dei primissimi anni settanta o i «girotondini» di pochi anni fa). Costante è stata la loro pretesa/ambizione di offrire una rappresentanza politica all'opinione pubblica inespressa e/o calpestata dai partiti, facendo leva sulla polarità ora di uomo qualunque vs upp (uomini politici professionali) ora di maggioranza silenziosa vs minoranza rumorosa, ora di Milano «capitale morale» vs Roma «capitale politica», ora di cittadini vs casta. Altro punto fermo è stato la denuncia dello strapotere e dell'invadenza dei partiti accompagnata spesso dall'irrisione demolitoria della figura del politico strutturato nei partiti, poggiante sull'assunto che la politica possa - anzi, debba - essere appannaggio di cittadini comuni. Un significativo elemento di discontinuità s'è registrato solo negli ultimi tempi. L'antipartitismo prima attingeva a un'opinione pubblica - e esprimeva istanze - marcatamente di destra, per quanto l'etichetta fosse sgradita. A partire dagli anni Novanta, viceversa, l'antipolitica mostra di attecchire anche presso il popolo di sinistra. Un'antipolitica debitamente qualificata come «positiva» e inserita in un «orizzonte virtuoso», comunque non meno accesamente ostile nei confronti della «nomenk1atura spartitoria», della «degenerazione della politica in partitocrazia», dell'«occupazione dello Stato e della cosa pubblica», dell'«arroccamento corporativo della professione politica». È l'antipolitica che ha trovato la sua consacrazione nel M5S, rendendo l'attacco al «sistema dei partiti» molto più temibile e imponendo all'agenda politica del paese l'ordine del giorno del superamento insieme dell'asimmetria storica esistente tra paese legale e paese reale e del ruolo protagonista dei partiti nella vita delle istituzioni.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

Lunedì 12 luglio 2010. Il tribunale di Milano condanna in primo grado il generale Giampaolo Ganzer a 14 anni di prigione, 65mila euro di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici per traffico internazionale di droga, scrive Mario Di Vito su “Eilmensile”. Il processo andava avanti da cinque anni e nella sua storia poteva contare sul numero record di oltre 200 udienze. La sentenza racconta di un Ganzer disposto a tutto pur di fare carriera, in una clamorosa lotta senza quartiere al narcotraffico. Una lotta che – sostiene il tribunale – passava anche per l’importazione, la raffinazione e la vendita di quintali di droga. Il fine giustifica i mezzi, si dirà. Ma, intanto, l’accusa chiese 27 anni di prigione per il “grande servitore dello Stato”, che “dirigeva e organizzava i traffici”. L’indagine su Ganzer nacque per merito del pm Armando Spataro che, nel 1994, ricevette dal generalissimo l’insolita richiesta di ritardare il sequestro di 200 chili di cocaina. Il Ros sosteneva di essere in grado di seguire il percorso dello stupefacente fino ai compratori finali. Spataro firmò l’autorizzazione, ma i i carabinieri procedettero comunque, per poi non dare più notizia dell’operazione per diversi mesi, cioè fino a quando, di nuovo Ganzer se ne uscì con la proposta di vendere il carico di cocaina sequestrata a uno spacciatore di Bari. Spataro – verosimilmente con gli occhi fuori dalle orbite – ordinò la distruzione immediata di tutta la droga. Quasi vent’anni dopo, la procura di Milano avrebbe sostenuto che i carabinieri agli ordini di Ganzer fossero al centro di un traffico enorme e “le brillanti operazioni non erano altro che delle retate di pesci piccoli messe in atto per gettare fumo negli occhi dell’opinione pubblica”. La prima vera, grande, pietra miliare dell’inchiesta è datata 1997, cioè,  quando il giudice bresciano Fabio Salamone raccolse la testimonianza di un pentito, Biagio Rotondo, detto “il rosso”, che gli raccontò di come alcuni agenti del Ros lo avvicinarono nel 1991 per proporgli di diventare una gola profonda dall’interno del mercato della droga. Rotondo si sarebbe poi suicidato in carcere a Lucca, nel 2007.  Secondo l’accusa, i “confidenti del Ros” – reclutati a decine per tutti gli anni ’90 – erano degli spacciatori utilizzati come tramite con le varie organizzazioni malavitose. L’indagine – che negli anni è stata rimpallata tra Brescia, Milano, Torino, Bologna e poi di nuovo Milano, con centinaia di testimonianze e migliaia di prove repertate– sfociò nella condanna del generalissimo e di altri membri del Reparto, che, comunque, sono riusciti tutti ad evitare le dimissioni – e il carcere – poiché si trattava “solo” di una sentenza di primo grado. Il nome di Ganzer viene messo in relazione anche con uno strano suicidio, quello del 24enne brigadiere Salvatore Incorvaia che, pochi giorni prima di morire, aveva detto al padre Giuseppe, anche lui ex militare, di essere venuto a conoscenza di una brutta storia in cui erano coinvolti “i pezzi grossi”, addirittura “un maresciallo”. Incorvaia sarebbe stato ritrovato cadavere il 16 giugno 1994, sul ciglio di una strada, con un proiettile nella tempia che veniva dalla sua pistola di ordinanza. Nessuno ebbe alcun dubbio: suicidio.  Anche se il vetro della macchina di Incorvaia era stato frantumato, e non dal suo proiettile – dicono le perizie – che correva nella direzione opposta. Altra brutta storia che vede protagonista Ganzer – questa volta salvato dalla prescrizione – riguarda un carico di armi arrivato dal Libano nel 1993: 4 bazooka, 119 kalashnikov e 2 lanciamissili che, secondo l’accusa, i Ros avrebbero dovuto vendere alla ‘ndrangheta. Zone d’ombra, misteri, fatti sepolti e mai riesumati. Tutte cose che ora non riguarderanno più il generale Giampaolo Ganzer, già proiettato verso una vecchiaia da amante dell’arte. Fuori da tutte quelle vicende assurde, ma “nei secoli fedele”.

«Traditore per smisurata ambizione». Questa una delle motivazioni per le quali i giudici dell’ottava sezione penale di Milano hanno condannato a 14 anni di carcere il generale del Ros Giampaolo Ganzer, all’interdizione dai pubblici uffici e alla sanzione di 65 mila euro, scrive “Il Malcostume”. Erano i giorni di Natale del 2010 quando arrivò questa incredibile sentenza di primo grado. Secondo il Tribunale, il comandante del Reparto operativo speciale dell’arma, fiore all’occhiello dei Carabinieri, tra il 1991 e il 1997 «non si è fatto scrupolo di accordarsi con pericolosissimi trafficanti ai quali ha dato la possibilità di vendere in Italia decine di chili di droga garantendo loro l’assoluta impunità», dunque «Ganzer ha tradito per interesse lo Stato e tutti i suoi doveri tra cui quello di rispettare e fare rispettare la legge». Tutto questo possibile perché «all’interno del raggruppamento dei Ros c’era un insieme di ufficiali e sottufficiali che, in combutta con alcuni malavitosi, aveva costituito un’associazione finalizzata al traffico di droga, al peculato, al falso, al fine di fare una rapida carriera». La pm Maria Luisa Zanetti aveva chieso 27 anni per il generale Ganzer, ma il tribunale aveva ridotto la condanna a 14 anni, in quanto la Corte presieduta da Luigi Capazzo non ha riconosciuto il reato di associazione a delinquere. Ma non ha concesso nemmeno le attenuanti generiche all’alto ufficiale, in quanto «pur di tentare di sfuggire alle gravissime responsabilità della sua condotta, Ganzer ha preferito vestire i panni di un distratto burocrate che firmava gli atti che gli venivano sottoposti, dando agli stessi solo una scorsa superficiale». Secondo i giudici, inoltre «Ganzer non ha minimamente esitato a fare ricorso a operazioni basate su un metodo assolutamente contrario alla legge ripromettendosi dalle stesse risultati di immagine straordinari per sé stesso e per il suo reparto». 17 i condannati nel processo, tra cui il narcotrafficante libanese Jean Bou Chaaya (tuttora latitante) e molti carabinieri: il colonnello Mario Obinu (ai servizi segreti) con 7 anni e 10 mesi, 13 anni e mezzo a Gilberto Lovato, 10 anni a Gianfranco Benigni e Rodolfo Arpa, 5 anni e 4 mesi a Vincenzo Rinaldi, 5 anni e 2 mesi a Michele Scalisi, 6 anni e 2 mesi ad Alberto Lazzeri Zanoni, un anno e mezzo a Carlo Fischione e Laureano Palmisano. La clamorosa condanna del generale Ganzer fu accolta tra il silenzio dell’allora ministro della Difesa Ignazio La Russa, la solidarietà dell’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e la difesa dell’ex procuratore antimafia Pierluigi Vigna, benché questa brutta vicenda che “scuote l’arma” avrebbe dovuto portare alla sospensione della carica e quindi del servizio di Ganzer, in ottemperanza all’articolo 922 del decreto legislativo 15 marzo 2010, la cosiddetta “norma di rinvio” che dice: “Al personale militare continuano ad applicarsi le ipotesi di sospensione dall’impiego previste dall’art 4 della legge 27 marzo 2001, n. 97” che attiene alle “Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche” e che all’articolo 4 dice espressamente: “In caso di condanna, anche non definitiva, per alcuno dei delitti indicati all’articolo 3 comma 1, i dipendenti sono sospesi dal servizio”. Tra i delitti considerati c’è pure il peculato, reato contemplato nella sentenza a carico di Ganzer. Eppure, da allora, il generale Ganzer è rimasto in carica nonostante “I Carabinieri valutano il trasferimento“, malgrado i numerosi appelli alla responsabilità e all’opportunità delle dimissioni giunti da più parti. Ganzer non ha mai mollato la poltrona e nessun ministro (La Russa allora, Di Paola poi) gli ha fatto rispettare la legge, a parte un’interrogazione parlamentare del deputato radicale Maurizio Turco. Ganzer ha continuato a dirigere il Ros, ad occuparsi di inchieste della portata di Finmeccanica, degli attentatori dell’ad di Ansaldo Roberto Adinolfi, senza contare le presenze ai dibattiti sulla legalità al fianco dell’ex sottosegretario del Pdl Alfredo Mantovano, suo grande difensore. Proprio in questi giorni l’accusa in un processo parallelo, ha chiesto 8 anni di condanna per Mario Conte, ex pm a Bergamo che firmava i decreti di ritardato sequestro delle partite di droga per consentire alla cricca di militari guidati da Ganzer di poterla rivendere ad alcune famiglie di malavitosi. La posizione di Conte era stata stralciata per le sue precarie condizioni di salute. Ebbene, in attesa della sentenza e senza un solo provvedimento di rimozione dall’incarico anche a protezione del buon nome del Ros, ora Ganzer lascia il comando del Reparto. Non per l’infamante condanna. Ma “per raggiunti limiti d’età” . Ganzer lascerà il posto al generale Mario Parente per andare in pensione. Da «Traditore per smisurata ambizione» a fruitore di (smisurata?) pensione. Protetto dagli uomini delle istituzioni e alla faccia di chi la legge la rispetta.

E poi ancora. Sono stati arrestati dai loro stessi colleghi, per il più odioso dei reati, quello di violenza sessuale, ancora più odioso perché compiuto su donne sotto la loro custodia, una delle quali appena maggiorenne. A finire nei guai tre agenti di polizia in servizio a Roma raggiunti da un'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dalla Procura della capitale ed eseguita dagli agenti della Questura.

Ed ancora. Erano un corpo nel corpo. Sedici agenti della Polizia Stradale di Lecce sono stati arrestati con l’accusa di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e alla concussione ambientale. I poliziotti erano 20 anni che, stando alle accuse, omettevano i controlli ai mezzi di trasporto di circa 100 ditte del Salento in cambio di denaro e merce varia. Dalle intercettazioni telefoniche è emerso che ogni agente racimolasse da questa attività extra qualcosa come 40.000 euro ogni 3 anni . Il “leader” dell’ organizzazione sarebbe l’ ispettore capo Francesco Reggio, 57 anni, leccese. Nel corso di una telefonata intercettata Reggio si sarebbe complimentato con un suo collega che, grazie alle somme intascate, sarebbe andato anticipatamente in pensione. L’ indagine è partita solo quando sulla scrivania del procuratore capo di Lecce, Cataldo Motta, è arrivata una denuncia anonima contenente i nomi degli agenti e delle ditte coinvolte. Un’ altra lettera, questa volta non anonima, arrivata successivamente in Procura è partita invece proprio dall’interno della sezione di Polizia Stradale di Lecce.

Ed Ancora. Tre agenti di polizia e cinque immigrati sono stati arrestati dalla Squadra Mobile della Questura di
Venezia nell'ambito di un'inchiesta che ha accertato il rilascio di permessi di soggiorno in mancanza di requisiti di legge, sulla base di documentazione falsificata.

Ed Ancora. Arrestati due carabinieri nel Barese, chiedevano soldi per chiudere un occhio. Facevano coppia, sono stati bloccati dai loro colleghi del comando provinciale di Bari e della squadra mobile del capoluogo. A due ragazzi fermati durante un controllo anti-prostituzione avevano chiesto denaro prospettando una denuncia per sfruttamento.

Ecc. Ecc. Ecc.

G8 Genova. Cassazione: "A Bolzaneto accantonato lo Stato di Diritto". La Suprema corte rende note le motivazioni della sentenza dello scorso 14 giugno 2013. "Contro i manifestanti portati in caserma violenze messe in atto per dare sfogo all'impulso criminale". "Inaccoglibile", secondo la Quinta sezione penale, "la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle", scrive "Il Fatto Quotidiano". Un “clima di completo accantonamento dei principi-cardine dello Stato di diritto”. La Cassazione mette nero su bianco quello che accadde nella caserma di Bolzaneto dove furono portati i manifestanti no global arrestati e percossi durante il G8 di Genova nel luglio del 2001: “Violenze senza soluzione di continuità” in condizioni di “assoluta percettibilità visiva e auditiva da parte di chiunque non fosse sordo e cieco”. Nelle 110 pagine depositate oggi dalla Suprema corte si spiega perché, lo scorso 14 giugno 2013, sono state rese definitive sette condanne e accordate quattro assoluzioni per gli abusi alla caserma contro i manifestanti fermati. La Cassazione ha così chiuso l’ultimo dei grandi processi sui fatti del luglio 2001. Nel precedente verdetto d’appello, i giudici avevano dichiarato prescritti i reati contestati a 37 dei 45 imputati originari tra poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari e medici – riconoscendoli comunque responsabili sul fronte dei risarcimenti. Risarcimenti che però la sentenza definitiva ha ridotto. I giudici puntano il dito contro chi era preposto al comando: “Non è da dubitarsi che ciascuno dei comandanti dei sottogruppi, avendo preso conoscenza di quanto accadeva, fosse soggetto all’obbligo di impedire l’ulteriore protrarsi delle consumazioni dei reati”. Oltretutto, scrive la Cassazione “non risulta dalla motivazione della sentenza che vi fossero singole celle da riguardare come oasi felici nelle quali non si imponesse ai reclusi di mantenere la posizione vessatoria, non volassero calci, pugni o schiaffi al minimo tentativo di cambiare posizione, non si adottassero le modalità di accompagnamento nel corridoio (verso il bagno o gli uffici) con le modalità vessatorie e violente riferite” dai testimoni ascoltati nel processo. I giudici di piazza Cavour denunciano come il “compimento dei gravi abusi in danno dei detenuti si fosse reso evidente per tutto il tempo, data l’imponenza delle risonanze vocali, sonore, olfattive e delle tracce visibili sul corpo e sul vestiario delle vittime”. Ecco perché, osserva la Quinta sezione penale, è “inaccoglibile la linea difensiva basata sulla pretesa inconsapevolezza di quanto si perpetrava all’interno delle celle, e anche nel corridoio durante gli spostamenti, ai danni di quei detenuti sui quali i sottogruppi avrebbero dovuto esercitare la vigilanza, anche in termini di protezione della loro incolumità”.

La Cassazione descrive inoltre i comportamenti inaccettabili di chi aveva il comando e non ha mosso un dito per fermare le violenze sui no global: “E’ fin troppo evidente che la condotta richiesta dei comandanti dei sottogruppi consisteva nel vietare al personale dipendente il compimento di atti la cui illiceità era manifesta: ciò non significa attribuire agli imputati una responsabilità oggettiva, ma soltanto dare applicazione” alla norma che regola “la posizione di garanzia da essi rivestita in virtù della supremazia gerarchica sugli agenti al loro comando”. Erano poi “ingiustificate” le vessazioni ai danni dei fermati “non necessitate dai comportamenti di costoro e riferibili piuttosto alle condizioni e alle caratteristiche delle persone arrestate, tutte appartenenti all’area dei no global”, si legge nelle motivazioni. Insomma, conclude la Suprema corte, le violenze commesse alla caserma di Bolzaneto sono state un “mero pretesto, un’occasione per dare sfogo all’impulso criminale“.

Scaroni, l'ultras reso invalido dalla polizia: "Dopo anni aspetto giustizia". Il giovane tifoso del Brescia il 24 settembre del 2005 è stato ridotto in fin di vita alla stazione di Verona dagli agenti. Nella sentenza di primo grado i giudici hanno stabilito la responsabilità delle forze dell'ordine ("hanno picchiato con il manganello al contrario"), ma nessuna possibilità di individuare le responsabilità personali. Per questo gli imputati sono stati tutti assolti, scrive David Marceddu su "Il Fatto Quotidiano". ”Sai cosa? Secondo me quel giorno alla stazione di Verona cercavano il morto”. Paolo Scaroni a otto anni esatti da quel pomeriggio di fine estate in cui la sua vita è totalmente cambiata, alcune idee le ha chiare. Sa che lui, che ne è uscito miracolosamente vivo, è uno dei pochi che può, e deve, raccontare. ”Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi, me lo dice sempre: io posso essere quella voce che altri non hanno più”, spiega a ilfattoquotidiano.it. Per il giovane tifoso del Brescia, ridotto in fin di vita a colpi di manganello da agenti di polizia il 24 settembre 2005, per tragica coincidenza proprio la sera prima dell’omicidio di “Aldro” a Ferrara, la battaglia nelle aule di giustizia continua: il pubblico ministero della procura scaligera, Beatrice Zanotti ha presentato a fine aprile il ricorso in appello contro l’assoluzione di sette poliziotti del Reparto mobile di Bologna. Per la sentenza di primo grado a pestare l’ultras dopo la partita tra Hellas e Brescia furono sicuramente dei poliziotti, ma non c’è la prova che siano stati proprio Massimo Coppola, Michele Granieri, Luca Iodice, Bartolomeo Nemolato, Ivano Pangione, Antonio Tota e Giuseppe Valente, e non invece altri appartenenti alla Celere (l’ottavo imputato, un autista, è stato scagionato per non aver commesso il fatto). Erano 300 in stazione quel pomeriggio tutti in divisa, tutti col casco, irriconoscibili. Paolo Scaroni, 36 anni, fino al ”maledetto giorno” era un fiero allevatore di tori. Ora, invalido al 100%, dalla sua casa di Castenedolo dove abita con la moglie, lotta giorno per giorno per ritrovare una vita un po’ normale. Adesso potrà forse avere un risarcimento: ora che un giudice ha detto che quello fu un ”pestaggio gratuito”, ”immotivato rispetto alle esigenze di uso legittimo della forza, di un giovane, con danni gravissimi allo stesso”, avere qualcosa indietro dallo Stato potrebbe essere più facile. Il giudice infatti dice che non ci sono prove sull’identità dei poliziotti colpevoli, ma sulla responsabilità della Polizia non ci sono dubbi. ”E finora, anche se proprio in questi giorni lo Stato ha avviato con me una sorta di trattativa, non ho avuto neanche un euro”. Per tutti questi anni Scaroni è stato omaggiato da migliaia di tifosi in tutta Italia, che ne hanno fatto un simbolo delle ingiustizie subite dal mondo ultras. Lui, che ormai raramente va allo stadio, si gode questa vicinanza, ma lamenta la lontananza delle autorità: ”Solo il questore di Brescia mi ha fatto sentire la sua solidarietà. Avevo scritto a Roberto Maroni quando era ministro dell’Interno, persino al Papa. Niente”. Paolo porta sul suo corpo i segni di quel giorno. La diagnosi dei medici non lasciava molte speranze: ”Trauma cranio cerebrale. Frattura affondamento temporale destra. Voluminoso ematoma extradurale temporo parietale destro”. Una persona spacciata: ”Il medico legale si spaventò perché nonostante fossi in fin di vita non avevo un livido nel corpo. Avevano picchiato solo in testa”. E avevano picchiato, certifica il giudice Marzio Bruno Guidorizzi, ”con una certa impugnatura” del manganello ”al contrario”.

Diritti umani, governo Usa attacca l'Italia: “Polizia violenta, carceri invivibili, Cie, femminicidio…”. Un dossier governativo analizza la situazione di 190 Paesi. Nel nostro, sotto accusa forze dell'ordine, carceri, Cie, diritti dei rom, violenza sulle donne..., scrive “FanPage”.  Secondo il Governo americano i “principali problemi risiedono nelle condizioni dei detenuti, con le carceri sovraffollate, la creazione dei Cie per i migranti, i pregiudizi e l'esclusione sociale di alcune comunità”. Senza dimenticare “l'uso eccessivo della forza da parte della polizia, un sistema giudiziario inefficiente, violenza e molestie sulle donne, lo sfruttamento sessuale dei minori, le aggressioni agli omosessuali, bisessuali e trans e la discriminazione sui luoghi di lavoro sulla base dell'orientamento sessuale”. Al sud, denunciati anche i casi di sfruttamento di lavoratori irregolari. Il prende in esame il caso di Federico Aldrovandi e quello di Marcello Valentino Gomez Cortes, entrambi uccisi a seguito di normali controlli di polizia. Ma si critica anche l'assenza del reato di tortura nel nostro ordinamento giuridico e le violenze che subiscono autori di piccoli reati da parte di  alcuni agenti.  Sotto accusa anche i rimpatri forzati degli immigrati irregolari, oppure la loro detenzione nei centri di identificazione ed espulsione: “Il 24 maggio decine di detenuti in un centro di Roma sono stati coinvolti in una rivolta contro quattro guardie, che hanno utilizzato gas lacrimogeni per impedirne la fuga. L'episodio ha seguito le proteste della settimana precedente nei Cie di Modena e Bologna. Un rapporto del Comitato dei Diritti Umani del Senato ha denunciato la promiscuità tra adulti e minori, il sovraffollamento, i lunghi periodi di detenzione e l'inadeguato accesso di avvocati e mediatori culturali”. Sotto accusa anche le frequenti discriminazioni ai danni dei cittadini romanì: “Le violenze nei confronti di rom, sinti e camminanti rimangono un problema. Durante il 2012 le popolazioni rom sono state sottoposte a discriminazioni da parte di autorità comunali, soprattutto attraverso sgomberi forzati non autorizzati”. Naturalmente il report governativo non tralascia le violenze sulle donne, il femminicidio, l'antisemitismo e il lavoro nero.

Polizia violenta, la garanzia dell'anonimato. In Europa gli agenti portano un codice personale sulla divisa. In Italia no. E, in caso di abusi, non sono identificabili, scrive di Alessandro Sarcinelli su “Lettera 43. Sarebbero bastati tre numeri e tre lettere sulla divisa e sul casco dei poliziotti in tenuta anti-sommossa. Sarebbe bastato un semplice codice alfanumerico e Lorenzo Guadagnucci, giornalista del Quotidiano Nazionale, avrebbe potuto denunciare chi a manganellate gli spaccò entrambe le braccia, la notte del 21 luglio 2001 alla scuola Diaz durante il G8. Invece non ha mai saputo chi stava dietro la furia incontrollata dei manganelli. Dopo 12 anni in Italia nulla è cambiato e i poliziotti del reparto mobile non sono ancora identificabili. Per questo in caso di abusi, la magistratura non ha la possibilità di individuarne i responsabili. In tutto questo tempo ci sono state numerose petizioni e raccolte firme. Lo scorso febbraio durante l’ultima campagna elettorale, 117 candidati poi divenuti parlamentari hanno sottoscritto la campagna Ricordati che devi rispondere proposta da Amnesty International: il primo punto riguardava proprio la trasparenza delle forze di polizia. Tuttavia non si è mai arrivati neanche a una proposta di legge in parlamento. «Nel nostro Paese c’è una bassa consapevolezza su quali siano i limiti all’uso della forza dei pubblici funzionari. Viviamo nelle tenebre», ha attaccato Guadagnucci. L’articolo 30 del nuovo ordinamento di pubblica sicurezza del 1981 recita: «Il ministro dell’Interno con proprio decreto determina le caratteristiche delle divise degli appartenenti alla polizia di Stato nonché i criteri generali concernenti l’obbligo e le modalità d’uso». Se in fondo a questa legge si aggiungesse la formula «compresi i codici alfanumerici» la questione sarebbe risolta. In oltre 30 anni nessun ministro dell’Interno ha mai preso in considerazione questa modifica. Non è andata così invece nei principali paesi europei: i codici alfanumerici sulle divise delle forze dell’ordine sono infatti attualmente in uso in Inghilterra, Germania, Svezia, Spagna, Grecia, Turchia e Slovacchia. In Francia non esistono ancora ma qualche mese fa, Manuel Valls, attuale ministro dell’Interno, ne ha annunciato l'introduzione a breve. Inoltre, nel dicembre 2012 una risoluzione del parlamento Europeo ha chiesto esplicitamente ai paesi che non hanno ancora adottato i codici di avviare una riforma. Ciononostante, la politica italiana non ha mostrato particolare interesse sull’argomento: dei tre principali partiti solo il M5s si è detto completamente favorevole all’introduzione dei codici. Mentre Pd e Pdl non hanno trovato il tempo per esprimere la loro opinione. A causa di questo disinteresse è calato il silenzio sul tema. Ma ogni volta che la cronaca riaccende il dibattito l’opinione pubblica si divide tra chi è a favore della polizia e chi è a favore dei manifestanti. Posizioni intermedie non sembrano esistere. Secondo Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, l’arroccamento su queste posizioni è frutto di un malinteso: «In Italia introdurre norme riguardanti i diritti umani delle forze di polizia equivarrebbe a stigmatizzarne il comportamento. In realtà l’introduzione dei codici servirebbe a individuare solo i comportamenti penalmente rilevanti». In qualche modo quindi sarebbe uno strumento per tutelare il corpo di polizia nel suo insieme dalle azioni illegali dei singoli. Non la pensa così Nicola Tanzi, segretario generale Sap (Sindacato autonomo di polizia): «Il manifestante violento tramite il codice sulla divisa può risalire all’identità del poliziotto mettendo in pericolo l’incolumità sua e dei suoi familiari». È bene precisare, tuttavia, che per abbinare a un codice l’identità di un agente bisognerebbe avere un infiltrato all’interno della polizia che fornisse queste informazioni. Secondo molte realtà della società civile, l’uso (e l’abuso) della forza da parte della polizia non va affrontato solo da un punto di vista legislativo ma anche culturale. Guadagnucci è convinto che uno dei problemi principali sia la poca trasparenza: «All’interno della polizia si risente ancora di cultura militare e corporativa e non si è sviluppato un forte senso democratico», un’atmosfera da «non vedo, non sento, non parlo». I vertici del Sap, però, non ci stanno, dicendosi convinti che «non ci sia nel modo più assoluto un problema di trasparenza». Il primo in Italia a proporre i codici identificativi per le forze dell’ordine fu Giuseppe Micalizio, braccio destro dell’allora capo della polizia Gianni De Gennaro. Era il 22 luglio 2001 e Micalizio era stato inviato a Genova per fare una relazione dettagliata sull’irruzione alla scuola Diaz, ma i suoi consigli rimasero rimasti inascoltati da tutti, politica compresa. All’orizzonte non si intravede nessun cambiamento e, secondo Amnesty International, per questo si è interrotto il rapporto di fiducia tra cittadinanza e forze dell’ordine, fondamentale in uno stato democratico.  Ma per Noury c’è qualcosa di ancora più grave: «Tutto ciò che ha consentito che la “macelleria messicana” della Diaz accadesse c’è ancora. Quindi potrebbe succedere ancora». A Genova o in qualsiasi altra città italiana.

Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Bene. Tante verità soggettive e tante omertà son tasselli che la mente corrompono. Io le cerco, le filtro e nei miei libri compongo il puzzle, svelando l’immagine che dimostra la verità oggettiva censurata da interessi economici ed ideologie vetuste e criminali.

Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti  e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché  non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!

Ha mai pensato, per un momento, che c’è qualcuno che da anni lavora indefessamente per farle sapere quello che non sa? E questo al di là della sua convinzione di sapere già tutto dalle sue fonti?

Provi a leggere un e-book o un book di Antonio Giangrande. Scoprirà, cosa succede veramente nella sua regione o in riferimento alla sua professione. Cose che nessuno le dirà mai.

Non troverà le cose ovvie contro la Mafia o Berlusconi o i complotti della domenica. Cose che servono solo a bacare la mente. Troverà quello che tutti sanno, o che provano sulla loro pelle, ma che nessuno ha il coraggio di raccontare.

Può anche non leggere questi libri, frutto di anni di ricerca, ma nell’ignoranza imperante che impedisce l’evoluzione non potrà dire che la colpa è degli altri e che gli altri son tutti uguali.

“Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull'animo del poveretto, quello che s'è raccontato”. Citazione di Alessandro Manzoni.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

“Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano.”

E’ chiaro e netto il pensiero di Antonio Giangrande, scrittore e cultore di sociologia storica ed autore della Collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che Siamo" edita su Amazon.it con decine di titoli.

Gli italiani non vogliono né l'indulto né l'amnistia. A mostrarlo e dimostrarlo il sondaggio Ispo per il Corriere: il 71 per cento degli intervistati ha detto no a ogni provvedimento di clemenza. Un vero e proprio plebiscito contro che unisce, trasversalmente, l'elettorato da sinistra a destra. Sempre secondo Ispo tra chi vota Pd è la maggioranza (il 67%) a essere contraria. Così come nell'elettorato del Pdl dove, nonostante ci sia di mezzo il futuro politico e non solo di Berlusconi, qualunque idea di "salvacondotto " non piace per nulla. Il 63 (% contro 35) dice no. Allineanti sulla linea intransigente anche gli elettori M5s: contrari 3 e su 4. Questi sondaggi impongono ai politicanti l'adozione di atti che nel loro interesse elettorale devono essere utili, più che giusti.

Da cosa nasce questo marcato giustizialismo italico?

Dall’ignoranza, dalla disinformazione o dall’indole cattiva e vendicativa dei falsi buonisti italici?

Prendiamo in esame tre fattori, con l’ausilio di Wikipedia, affinchè tutti possano trovare riscontro:

1. Parliamo dei giornalisti e della loro viltà a parlare addirittura delle loro disgrazie. Carcere per aver espresso la loro libertà di stampa scomoda per i potenti.  Dice Filippo Facci: «Siamo una masnada di fighetti neppure capaci di essere una corporazione, anzi peggio, siamo dei professionisti terminali e già «morti» come direbbe un qualsiasi Grillo. La Corte di Strasburgo ha sancito che il carcere per un giornalista - Maurizio Belpietro, nel caso - costituisce una sproporzione e una violazione della libertà di espressione. È una sentenza che farà giurisprudenza più di cento altri casi, più della nostra Cassazione, più degli estenuanti dibattiti parlamentari che da 25 anni non hanno mai partorito una legge decente sulla diffamazione. Il sindacato dei giornalisti si è detto soddisfatto e anche molti quotidiani cartacei (quasi tutti) hanno almeno dato la notizia, che resta essenzialmente una notizia: ora spiegatelo ai censori  del Fatto Quotidiano, a questi faziosi impregnati di malanimo che passano la vita a dare dei servi e chi non è affiliato al loro clan. Non una riga. Niente». Bene. I giornalisti, censori delle loro disgrazie, possono mai spiegare bene cosa succede prima, durante e dopo i processi? Cosa succede nelle quattro mura delle carceri, laddove per paura e per viltà tutto quello che succede dentro, rimane dentro?

2. Parliamo dei politici e della loro ipocrisia.

Sovraffollamento e mancanza di dignità. «È inaccettabile, non più tollerabile, il sovraffollamento delle carceri italiane». La presidente della Camera Laura Boldrini visita Regina Coeli, nel quartiere di Trastevere, a Roma, dove lei vive. «Dignità, dignità», urlano i detenuti della terza sezione, le cui celle ospitarono durante il fascismo Pertini e Saragat, al passaggio della presidente della Camera denunciando le condizioni «insostenibili» di sovraffollamento in cui sono costretti a vivere. «Il tema carceri è una cruciale cartina di tornasole del livello di civiltà di un Paese», dice Boldrini, che si ferma ad ascoltare storie e istanze. «Chi ha sbagliato è giusto che paghi, non chiediamo sconti - aggiunge - ma che ci sia la rieducazione del detenuto: che chi entra in carcere possa uscirne migliore. E invece con il sovraffollamento, che è come una pena aggiuntiva, si crea tensione, abbrutimento, promiscuità e si tira fuori il peggio delle persone. Questo, come ha detto il presidente della Repubblica, è inaccettabile in un Paese come l'Italia». Boldrini invoca «quanto prima» una «risposta di dignità» per superare «una condizione disumana che non fa onore al Paese di Beccaria».

Innocenti in carcere. Ma soprattutto, secondo la presidente della Camera, bisogna «ripensare il sistema della custodia cautelare, perché non è ammissibile che più del 40% dei detenuti sia in attesa di condanna definitiva, con il rischio di danni irreparabili se innocenti. E bisogna pensare a misure alternative alle pene detentive».

3. Parliamo della sudditanza alla funzione giudiziaria e della convinzione della sua infallibilità.

Il giustizialismo. Nel linguaggio politico e giornalistico italiano indica una supposta ideologia che vede la funzione giudiziaria al pari di un potere e come tale il più importante e lo sostiene, o anche la presunta volontà di alcuni giudici di influenzare la politica o abusare del proprio potere. Esso si contrappone al garantismo, che invece è un principio fondamentale del sistema giuridico: le garanzie processuali e la presunzione di non colpevolezza hanno un valore prevalente su qualsiasi altra esigenza di esercizio e pubblicità dell'azione penale anche nella sua fase pre-giudiziale; tale principio è sancito anche dalla Costituzione: « La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.»

La negazione dell’errore giudiziario e la idolatria dei magistrati.

E’ certo che gli umani siano portati all’errore. E’ certo anche che gli italiani hanno il dna di chi è propenso a sbagliare, soprattutto per dolo o colpa grave. E' palese l'esistenza di 5 milioni di errori giudiziari dal dopo guerra ad oggi. E' innegabile che il risarcimento per l'ingiusta detenzione dei detenuti innocenti è un grosso colpo all'economia disastrata dell'Italia. Nonostante l'idolatria è risaputo che i magistrati italiani non vengono da Marte.

Sin dal Corpus iuris il reato di denegata giustizia era oggetto di previsione normativa. La novella 17 colpiva quei magistrati che obbligavano i sudditi ad andare ad implorare giustizia dall'imperatore, perché gli era stata negata dai magistrati locali. La novella 134 puniva con la multa di 3 libbre d'oro il giudice di quella provincia, che, malgrado avesse ricevuto lettere rogatorie, trascurasse l'arresto di un malfattore che si fosse rifugiato nella detta provincia; la medesima pena era comminata agli ufficiali del giudice. In tempi più recenti, nonostante il plebiscitario esito della consultazione referendaria tenutasi sul tema nel 1987, la legge n. 117 del 1989 di fatto snaturò e vanificò il diritto al conseguimento del risarcimento del danno per una condotta dolosa o colposa del giudice. Essa stravolse il risultato del referendum e il principio stesso della responsabilità personale del magistrato, per affermare quello, opposto, della responsabilità dello Stato: vi si prevede che il cittadino che abbia subìto un danno ingiusto a causa di un atto doloso o gravemente colposo da parte di un magistrato non possa fargli causa, ma debba invece chiamare in giudizio lo Stato e chiedere ad esso il risarcimento del danno. Se poi il giudizio sarà positivo per il cittadino, allora sarà lo Stato a chiamare a sua volta in giudizio il magistrato, che, a quel punto, potrà rispondere in prima persona, ma solo entro il limite di un terzo di annualità di stipendio, (di fatto è un quinto, oltretutto coperto da una polizza assicurativa che equivale intorno ai cento euro annui). Quella legge ha così raggiunto il risultato di confermare un regime di irresponsabilità per i magistrati. L'inadeguatezza della legge n. 117 del 1989 è dimostrata dal fatto che, a decenni dalla sua entrata in vigore, non si registra una sola sentenza di condanna dello Stato italiano per responsabilità colposa del giudice, nonostante le numerosissime sentenze con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo ha acclarato inadempimenti dello Stato italiano. L'esigenza di rivedere la legge n. 117 del 1989 viene ora avvertita anche al fine di dare piena attuazione alla novella costituzionale approvata sul tema del giusto processo, nonché al fine di dare concreta esecuzione del principio consacrato dall'articolo 28 della Costituzione: tali norme subiscono ingiustificabili limitazioni in riferimento alla responsabilità dei giudici.

Il sistema della responsabilità civile dei magistrati in Italia deroga quindi alla "grande regola" della responsabilità aquiliana, secondo quanto è riconducibile agli altri pubblici funzionari (ai sensi dell'articolo 28 Cost. e con la possibilità di agire in regresso verso lo Stato). La peculiarità giustificata ai magistrati è quella della delimitazione al dolo ed alla colpa grave (articolo 3), e la garanzia di insindacabilità (articolo 2) che fu riconosciuta nella citata sentenza n. 18 del 1989, per la quale "l'autonomia di valutazione dei fatti e delle prove e l'imparziale interpretazione delle norme di diritto (…) non può dar luogo a responsabilità del giudice". Il rapporto tra questa peculiarità e la denegata giustizia è però assai problematico. La responsabilità civile del giudice sussiste in un giudizio procedurale, non del merito, ad esempio per la violazione di termini perentori per l'uso delle intercettazioni, custodia cautelare, notifica di atti o precetti, prescrizione dei reati. Stante questo vincolo, con la normativa attuale restano necessari comunque due procedimenti separati (coi relativi tre gradi di giudizio), uno per l'ammissibilità, perché la richiesta non deve sindacare l'autonomia del giudice, e uno vero e proprio per la richiesta di risarcimento.

Detto questo, cosa ne sa la massa di come si abilita alla funzione giudiziaria e quali siano le capacità, anche psicologiche di chi giudica? Cosa ne sa la massa di cosa significa errore giudiziario e questo riguarda prima o poi una persona (anche se stessi, non solo gli altri) e la sua dignità nella società ed in carcere, dove torture e violenze sono relegate all’oblio o al segreto del terrore? Cosa ne sa la massa se chi (i giornalisti), dovendo loro dare corretta e completa informazione, non sa tutelare nemmeno se stesso?

Ed ecco allora che l'ultimo sport dei giustizialisti è attaccare Balotelli.

Il commissario della Nazionale Prandelli ha deciso di portarlo ugualmente a Napoli, nonostante Balotelli fosse infortunato, per la sfida contro l'Armenia. Qualcuno ha scritto che ci sarebbe andato anche come testimonial anti-camorra perché prima del match l'Italia avrebbe giocato su un campo sequestrato ai clan. Senza dire questo qualcuno, però, come il campo sia stato assegnato ed a chi. Questo qualcuno si è arrogato il diritto di dare una funzione a Balotelli, senza che questo sia consultato. Lui ha letto e ha spiegato su Twitter: «Questo lo dite voi. Io vengo perché il calcio è bello e tutti devono giocarlo dove vogliono e poi c'è la partita». Questo è bastato a scatenare la reazione indignata di politici, parroci, pseudointellettuali. Tutti moralisti, perbenisti e giustizialisti. Perché, secondo loro, questa affermazione sarebbe scorretta, volgare non nella forma ma nella sostanza, perché ci si legge un sottotesto che strizza l'occhio ai clan.

Poi, naturalmente c’è chi va sopra le righe, per dovere di visibilità. Perche? Bisogna chiederlo a Rosaria Capacchione, senatrice Pd e giornalista che è stata la prima ad attaccarlo: «È un imbecille». Subito dopo al parroco don Aniello Manganiello: «Mi chiedo se Balotelli abbia ancora diritto a essere convocato nella Nazionale». Aggiungetevi una serie di insulti sui social network, le dichiarazioni dei politici locali e avrete il quadro della situazione. Napoli. In terra di Camorra spesso è difficile diversificare il camorrista da chi non lo è. C'è chi sparla e c'è chi tace; c'è chi spara e c'è chi copre. A voi sembra che meriti tutto questo (il bresciano Balotelli)? Si chiede Giuseppe De Bellis su “Il Giornale”. È tornato quello stanco ritornello dei personaggi popolari che devono essere da esempio. Dovere, lo chiamano. È un insulto all'intelligenza di chi queste frasi le dice.

C'è il legittimo sospetto che Balotelli sia soltanto uno straordinario capro espiatorio. Un bersaglio facile: lo attacchi e non sbagli, perché tanto qualche sciocchezza la fa di sicuro. Siamo alla degenerazione della critica: sparo su Balotelli perché così ho i miei trenta secondi di popolarità. È questo ciò che è accaduto. Lui sbaglia, eccome se sbaglia. In campo e fuori è già successo un sacco di volte. Questa sarà solo un'altra, devono aver pensato i professionisti dell'anticamorra: buttiamoci, perché noi siamo i giusti e lui è quello sbagliato. Coni, Federazione, Nazionale non hanno avuto nulla di meglio da dire che «Balotelli se le cerca», oppure, «poteva risparmiarsela». Avrebbero dovuto dire solo una cosa: non usate lo sport e gli sportivi per le vostre battaglie partigiane. Ci vuole coraggio per stare al proprio posto. A ciascuno il suo e l'anticamorra non spetta al centravanti della Nazionale. Lui vuole solo giocare a pallone. Lui deve solo giocare a pallone. Il resto è ipocrisia. Balotelli l'ha solo svelata una volta di più.

Cosa ne sanno gli italiani della mafia dell’antimafia, o degli innocenti in carcere. Gli italiani bevono l’acqua che gli danno ed è tutta acqua inquinata e con quella sputano giudizi sommari che sanno di sentenze.

E la colpa è solo e sempre di una informazione corrotta ed incompleta da parte di una categoria al cui interno vi sono rare mosche bianche.

Quindi, ecco perché "Gli italiani, giustizialisti? No! Disinformati ed ignoranti. Se l'amnistia e l'indulto serve a ristabilire una sorta di giustizia riparatrice per redimere anche i peccati istituzionali: ben vengano".

Tanti sono gli esempi lampanti su come disfunziona la Giustizia in Italia.

Che dire, per esempio, dei 12 mesi di carcere di Scaglia, l'innocente. L'ex fondatore di Fastweb assolto per non aver commesso il fatto. Storia di ordinaria ingiustizia, scrive Annalisa Chirico su “Panorama”. Alla fine sono stati assolti. Il pm aveva chiesto sette anni per Silvio Scaglia e per Stefano Mazzitelli, rispettivamente fondatore e presidente di Fastweb e amministratore delegato di Telecom Italia Sparkle. Entrambi accusati di una frode fiscale da circa 365 milioni di euro. Entrambi passati sotto il torchio delle manette preventive. Insieme a loro sono stati assolti gli ex funzionari di Tis Antonio Catanzariti e Massimo Comito, gli ex dirigenti di Fastweb Stefano Parisi, Mario Rossetti e Roberto Contin. Tutti innocenti per “non aver commesso il fatto” o perché “il fatto non costituisce reato”. Secondo i giudici della prima sezione penale del tribunale di Roma, i manager non sapevano quello che stava succedendo, mentre ad aver ideato e manovrato il sistema di megariciclaggio da due miliardi di euro era Gennaro Mokbel, faccendiere napoletano con un passato di attivismo nell’estrema destra. Su di lui adesso pende una condanna di primo grado a 15 anni di reclusione. “Il mondo è un posto imperfetto. Quando succedono cose di questo tipo ti senti una vittima. Poi però ti guardi attorno e scopri che non sei solo: in Italia ci sono decine di migliaia di innocenti che stanno dietro le sbarre”, è il commento a caldo di Scaglia, pochi minuti dopo la lettura del dispositivo della sentenza. La sua vicenda è solo la miniatura di una piaga ben più imponente: circa il 40 percento dei detenuti nelle galere italiane sono persone in attesa di un giudizio definitivo. Sono, letteralmente, imputati da ritenersi innocenti fino a sentenza definitiva, lo statuisce l’articolo 27 della nostra veneranda Costituzione. Oltre 12mila persone attendono un giudizio di primo grado. Tra questi c’era Scaglia, c’era Mazzitelli, la cui innocenza è stata adesso certificata da una sentenza giudiziaria. L’operazione Broker scatta il 23 febbraio 2010. Cinquantasei persone vengono arrestate nell’ambito di una inchiesta su una maxi operazione di riciclaggio e frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe i vertici di Fastweb e Telekom Sparkle. Tra le misure cautelari disposte dai magistrati romani, spicca il mandato di cattura per Scaglia, che trovandosi all’estero noleggia un aereo privato e dalle Antille atterra all’aeroporto romano di Fiumicino. I beni di Scaglia vengono posti sotto sequestro preventivo e i carabinieri traducono l’imprenditore nel carcere di Rebibbia, dove viene rinchiuso in una cella di otto metri quadrati al secondo piano, sezione G11. In regime di isolamento giudiziario non può avere contatti con nessuno, neppure col suo avvocato. Attende tre giorni per l’interrogatorio di garanzia e oltre quaranta per rispondere alle domande dei suoi accusatori, secondo i quali lui sarebbe membro di una associazione per delinquere finalizzata alla frode fiscale e a dichiarazione infedele mediante l’uso di fatture per operazioni inesistenti. Ora sono stati smentiti dai giudici. Ma dietro le sbarre Scaglia trascorre tre mesi prima di ottenere gli arresti domiciliari il 19 maggio 2010. In totale, collezionerà 363 giorni di detenzione da innocente. Ancora oggi viene da chiedersi quali fossero le esigenze cautelari nei confronti di un indagato, che non ricopriva più alcun incarico societario in Fastweb e che era montato su un aereo per farsi oltre diecimila chilometri e consegnarsi all’autorità giudiziaria italiana. Nei suoi confronti i giudici hanno rigettato il teorema dipietresco del “non poteva non sapere”. Ecco, sì, all’epoca dei fatti Scaglia era Presidente di Fastweb, ma poteva non sapere. Nel dibattimento dati, prove e testimonianze hanno dimostrato che Scaglia non sapeva, e neppure Mazzitelli sapeva. Si poteva evitare tutto questo? Che giustizia è quella che tratta i cittadini come presunti colpevoli? Arresti infondati, vite dilaniate e i riverberi economici di una vicenda che ha colpito, tra gli altri, il guru italiano della New Economy, l’uomo che il “Time” nel 2003 aveva annoverato nella lista dei quindici manager tech survivors, profeti dell’innovazione usciti indenni dalla bolla della New Economy. Ecco, della New Economy ma non della giustizia made in Italy.

Nel 2010, quando il gip di Roma ordina l’arresto di Silvio Scaglia, Stefano Parisi è amministratore delegato di Fastweb, continua Annalisa Chirico su “Panorama”. A ventiquattro ore dalla notizia dell’ordinanza di custodia cautelare, mentre Scaglia organizza il suo rientro dalle Antille con un volo privato, Parisi decide di  convocare una conferenza stampa per spiegare urbi et orbi che Fastweb non ha commesso alcun reato e che gli ipotetici fondi neri non esistono. “A distanza di tre anni e mezzo posso dire che i giudici mi hanno dato ragione”. Parisi è stato solo lambito dall’inchiesta Fastweb – Telecom Italia Sparkle. Destinatario di un avviso di garanzia, la sua posizione è stata archiviata la scorsa primavera. “Avrebbero potuto archiviare nel giro di quindici giorni, invece ci sono voluti tre anni”. Ora che il Tribunale di Roma ha assolto l’ex presidente di Fastweb Scaglia e altri dirigenti della società di telecomunicazioni, Parisi prova un misto di soddisfazione e rabbia. “Mi chiedo perché accadano vicende come questa in un Paese civile. Le vite di alcuni di noi sono state letteralmente stravolte. La giustizia dovrebbe innanzitutto proteggere cittadini e imprese, non rendersi responsabile di errori simili”. Perché di errori si tratta. Quando nel 2007 su Repubblica compare il primo articolo da cui cui filtrano informazioni riservate sulle indagini condotte dalla procura di Roma su una presunta frode fiscale internazionale che coinvolgerebbe Fastweb, l’azienda avvia immediatamente un audit interno per fare chiarezza. “A distanza di sei anni una sentenza conferma quanto noi abbiamo sostenuto e provato sin dall’inizio. Da quella analisi interna vennero fuori nel giro di un mese dati e informazioni che noi trasmettemmo subito alla procura perché sin dall’inizio ci fu chiaro che la truffa veniva ordita, con la complicità di due dirigenti infedeli (ora condannati in primo grado per corruzione, ndr), ai danni di Fastweb. Insomma noi eravamo la vittima di un raggiro che, come hanno certificato i giudici, ha sottratto circa 50 milioni di euro alla nostra società e 300 milioni a Tis”. Certo, dalle parole di Parisi trapela l’amarezza per quello che si poteva evitare e invece non si è evitato. “Purtroppo la stessa sentenza ha fatto chiarezza su un punto: c’erano dei delinquenti, che sono stati condannati, e degli innocenti perseguitati dalla giustizia”.

Scaglia dopo l'assoluzione: "Il carcere peggio di come lo raccontano". L'imprenditore assolto con formula piena dall'accusa di riciclaggio parla con Toberto Rho su “La Repubblica” dell'anno trascorso in stato di detenzione, prima a Rebibbia poi nella sua casa di Antagnod. "In cella meno spazio che per i maiali. Quel pm non voleva cercare la verità, ma ora so che in Italia la giustizia funziona". Silvio Scaglia, trecentosessantatré giorni, tre ore, trentacinque minuti, quaranta secondi. Ovvero, "la battaglia più dura che ho combattuto nella mia vita, ma sono contento di averla fatta e di non averla evitata, come avrei facilmente potuto". Il counter del sito che amici e sostenitori hanno aperto durante il periodo della sua detenzione per denunciarne pubblicamente l'assurdità, è ancora fermo su quelle cifre, che misurano il periodo che Silvio Scaglia, uno dei manager che hanno costruito il successo di Omnitel, l'imprenditore che è diventato miliardario (in euro) durante il periodo della New economy grazie all'intuizione di eBiscom-Fastweb, ha passato agli arresti. Prima a Rebibbia, tre mesi, poi altri nove rinchiuso nella sua casa di Antagnod, in cima alla Val d'Ayas, finestre affacciate sul gruppo del Monte Rosa. Le sue montagne, che però non poteva guardare: "Nei primi tempi degli arresti domiciliari non mi potevo affacciare, tantomeno uscire sul balcone, per disposizione dei giudici". Oggi che è stato assolto con formula piena dall'accusa di associazione a delinquere finalizzata a quella che la Procura definì "la più grande frode mai attuata in Italia", Scaglia ripercorre l'anno più difficile della sua esistenza. A cominciare da quella notte in cui, alle Antille per affari, rispose alla telefonata della figlia, ventenne, che chiamava dalla loro casa di Londra. "Era stata svegliata dagli agenti inglesi, avevano in mano un mandato di cattura. Per noi era un mistero, non capivamo cosa stesse accadendo. Ho compreso la gravità delle accuse solo quando ho letto l'ordine di arresto con i miei avvocati".

Ha deciso di rientrare in Italia, subito.

«Sapevo esattamente quel che mi aspettava appena scesa la scaletta dell'aereo, ma immaginavo un'esperienza breve. Poche settimane, il tempo di spiegare che di quella vicenda avevo già parlato in un interrogatorio di tre anni prima, che da anni ero uscito da Fastweb, e che l'azienda e i suoi manager non erano gli artefici, ma le vittime di quella frode».

Come fu quella notte in volo tra i Caraibi e l'Italia, ingegner Scaglia?

«Presi una pastiglia per dormire, per non pensare. L'incubo cominciò a Ciampino, era notte fonda. Si rilegga i giornali di quei giorni, per capire quale era il peso che mi sono trovato addosso, all'improvviso, quale era la tensione, la pressione su di me e sulle aziende coinvolte».

Subito in carcere?

«Prima una lunghissima procedura di identificazione e notifica dell'arresto. Poi Rebibbia, in isolamento. Una cella lunga tre metri e larga uno e mezzo, il cesso in vista, intendo in vista anche dall'esterno. Ero nel braccio dei delinquenti comuni. Il carcere è un posto orribile, sporco, affollato all'inverosimile. C'è meno spazio di quello che le leggi prevedono per gli allevamenti dei maiali».

Quale è la privazione più dura?

«Più ancora della libertà, delle umiliazioni, dello spazio che manca, è il senso di impotenza, l'impossibilità di difendersi, di spiegare. Dopo cinque giorni di isolamento, venne il giudice per l'interrogatorio cosiddetto di garanzia. Fu una farsa. Poi, per due mesi, più nulla. Finalmente l'interrogatorio con il Pm: mi sembrava di aver spiegato, di aver dimostrato con il mio ritorno dai Caraibi di non aver alcun progetto di fuga, anzi il contrario. Quanto al possibile inquinamento delle prove, si trattava di fatti avvenuti anni prima, in un'azienda da cui ero uscito da anni. Invece, tornai in carcere. Quel Pm, evidentemente, non aveva interesse a capire».

Poi gli arresti domiciliari, un po' di respiro.

«Al contrario. Fu il periodo più duro. Ero chiuso nella mia casa di Antagnod, l'unica mia abitazione italiana, perché con la mia famiglia vivo da tempo a Londra. Ero completamente solo, non potevo neppure uscire sul balcone, vedevo solo la signora che mi procurava il cibo e la mia famiglia nel fine settimana. Nove mesi così, senza potermi difendere».

Cosa le resta addosso, di quell'anno?

«Certo non la voglia di dimenticare. È stata un'esperienza troppo forte per me e per le persone che mi vogliono bene. Semmai avverto l'urgenza di dire forte che queste cose non dovrebbero più succedere».

Cosa pensa della giustizia, oggi?

«Il mio caso dimostra che la giustizia, in Italia, funziona. Io ho avuto giustizia. Ma ci sono voluti troppo tempo e troppe sofferenze: il problema è la mancanza di garanzie per chi è in attesa di giudizio. Vede, in carcere ho parlato con tantissimi detenuti: la metà di loro erano in attesa di un processo. La metà della metà risulteranno innocenti, come me».

Mai rimpianto quel viaggio di ritorno dalle Antille a Roma, pendente un ordine di arresto, neppure nei giorni più duri?

«Mai, neppure per un secondo. Lo rifarei domattina. Era l'unico modo per reclamare la mia innocenza e cancellare ogni possibile ombra. Fu proprio quella scelta a rendere superflua ogni spiegazione alle persone che mi vogliono bene. La mia famiglia, le mie figlie si sono fidate del loro padre, della sua parola, dei suoi gesti. Non c'è stato bisogno d'altro».

Che ne è del Silvio Scaglia "mister miliardo", l'imprenditore lungimirante e spregiudicato, uno dei dieci uomini più ricchi e potenti d'Italia?

«Sono sempre qui. Faccio ancora quel che so fare, cioè l'imprenditore, pochi mesi fa ho acquistato un'azienda (La Perla, ndr). Certo, la mia reputazione ha subito danni pesanti. Ancora oggi non posso andare negli Stati Uniti, se compilo il modulo Esta mi negano il visto. Ma ad altri è andata peggio: vivendo a Londra, per la mia famiglia è stato relativamente più facile mantenere il distacco dall'onda di riprovazione che si accompagna ad accuse così gravi come quelle che ho subito. E poi, ai miei coimputati è stato sequestrato tutto, hanno vissuto per anni della generosità di amici e conoscenti».

Come vive le eterne polemiche italiane sulla giustizia?

«Con fastidio. Mi sembrano agitate strumentalmente per ottenere un vantaggio politico, non per risolvere i problemi reali delle migliaia di persone che vivono sulla loro pelle quel che ho vissuto io».

Ma il caso Fastweb (a proposito così è stato conosciuto da tutti come se Telecom non ci fosse, ingiustamente, anche lei) ha dimostrato in modo lampante come si debba ragionare seriamente sul funzionamento della giustizia, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Le tesi dell'accusa (come ha denunciato un'altra vittima dell'accanimento giudiziario, il generale Mario Mori) diventa immediatamente la tesi della verità. I media non pensano, non riflettono, non investigano, copiano gli atti dell'accusa. Gli indagati diventano subito colpevoli. Chiunque conoscesse le carte della difesa, sarebbe stato in grado in un secondo di verificare l'enormità dell'accusa. Ma andiamo oltre. Anche i pm hanno un obbligo legale di ricercare la verità. Come hanno potuto aver avuto così poco buon senso (sì sì certo, non c'è un articolo del codice che lo prevede) nell'applicare misure cautelari così dure? Gli imputati sono stati tosti. Hanno resistito al carcere e non hanno accettato sconti, patteggiamenti, ammissioni. Non sono passati per la strada più facile. Hanno pagato un prezzo altissimo dal punto di vista personale. Una piccola lezione, l'ennesima, ma forse la più clamorosa: una persona, un'azienda, un processo non si giudica solo dalla carte dell'accusa. Ma continuando a fare il nostro mestiere. Il processo Fastweb per il momento è finito. Un terzo della nostra popolazione carceraria è dietro alle sbarre senza una sentenza definitiva come Scaglia e soci. Forse prima dell'amnistia ci si potrebbe occupare di questa mostruosità giuridica.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

Per tutti coloro che del giustizialismo fanno la loro missione di vita si deve rammentare la storia di Sofia Loren che non doveva finire in carcere. La Cassazione dà ragione alla Loren dopo 31 anni: "Non doveva finire in carcere". Dopo un iter giudiziario di 31 anni, la Suprema Corte dà ragione all'attrice finita in carcere nel 1982: l'attrice utilizzò correttamente il condono fiscale. Ha vinto Sofia Loren. Giunge al capolinea, dopo quasi 40 anni, una delle cause fiscali ancora aperte tra l’attrice due volte premio Oscar Sofia Loren - nata Scicolone (sorella della madre di Alessandra Mussolini, nipote di Benito), e rimasta tale all’anagrafe dei contribuenti - e l’ Agenzia delle Entrate. Dopo una così lunga attesa, per una vicenda legata alla presentazione a reddito zero del modello 740 della dichiarazione dei redditi del 1974, la Cassazione ha dato ragione alla Loren concedendole, a norma di quanto previsto dal condono del 1982, di pagare le tasse solo sul 60% dell’imponibile non dichiarato e non sul 70% di quei 920 milioni di vecchie lire sottratti alla tassazione e, invece, accertati dal fisco. Ma non è l'aspetto fiscale da tenere in considerazione, ma come sia facile finire dentro, anche per i big non protetti dal Potere. Sophia Loren aveva ragione e non doveva essere arrestata per evasione fiscale nel 1982. Ha perso la giustizia, ancora una volta. Lo ha riconosciuto, definitivamente, la Cassazione. A riconoscerlo, in maniera definitiva, dopo un iter giudiziario durato 31 anni, è stata la Corte di Cassazione. La sezione tributaria della Suprema Corte, con una sentenza depositata il 23 ottobre 2013, ha infatti accolto il ricorso dell’attrice contro una decisione della Commissione tributaria centrale di Roma risalente al 2006. L'attrice di Pozzuoli vince la causa contro il fisco per una dichiarazione dei redditi del 1974, poi sottoposta al condono 8 anni dopo. Il caso suscitò grande scalpore quando la stella del cinema si consegnò alla polizia a Fiumicino per essere arrestata. Lei finì in carcere 31 anni fa per 17 giorni con l'accusa di evasione fiscale. Il caso suscitò grande scalpore dopo che l'attrice decise di consegnarsi alla polizia all'aeroporto di Fiumicino di ritorno dalla Svizzera dove risiedeva con la famiglia. Le responsabilità della frode vennero poi attribuite al suo commercialista. Al centro del procedimento, la dichiarazione dei redditi per il 1974 che la Loren presentò, congiuntamente al marito Carlo Ponti, in cui si escludeva, per quell’anno, «l’esistenza di proventi e spese», poiché «per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi». Sofia Loren, nella dichiarazione dei redditi del 1974 presentata congiuntamente al marito, aveva escluso - ricorda il verdetto della Cassazione - «l’esistenza di proventi e spese per il detto anno e chiariva che per i film ai quali stava lavorando erano sì previsti compensi ma da erogarsi negli anni successivi al 1974, in quanto per gli stessi era stata concordata una retribuzione pari al 50% dei ricavi provenienti dalla distribuzione dei film». Il fisco non ci ha creduto ed è andato a scovare quel quasi miliardo non dichiarato, tassato per poco più della metà del suo valore. Meno propensa all’applicazione delle ganasce soft era stata la Procura della Suprema Corte, rappresentata da Tommaso Basile, che aveva chiesto il rigetto del ricorso della Loren. Nel 1980 all’attrice venne notificato un avviso di accertamento, per un reddito complessivo netto assoggettabile all’Irpef per il 1974 pari a 922 milioni di vecchie lire (l’equivalente, valutando il potere d’acquisto che avevano allora quei soldi, di oltre 5.345.000 di euro di oggi). La Loren, dunque, usufruendo del condono fiscale previsto dalla legge 516/1982, aveva presentato una dichiarazione integrativa facendo riferimento a un imponibile di 552 milioni di vecchie lire, pari al 60% del reddito accertato, ma il Fisco aveva iscritto a ruolo un imponibile maggiore, pari a 644 milioni, sostenendo che la percentuale da applicarsi fosse quella del 70%, poiché la dichiarazione sul 1974 presentata dall’attrice, doveva considerarsi omessa, perché «priva degli elementi attivi e passivi necessari alla determinazione dell’imponibile». Le Commissioni di primo e secondo grado avevano dato ragione alla Loren, mentre la Commissione tributaria centrale di Roma aveva dichiarato legittima la liquidazione del condono con l’imponibile al 70%. Nonostante gli ermellini abbiano sconfessato la pretesa dei giudici fiscali di secondo grado di Roma di sottoporre a tassazione il 70% dei 920 milioni di lire non dichiarati nel 1974 (ossia di calcolare come imponibile 644 milioni anziché 552 milioni, come sostenuto dai legali della Loren che si sono battuti per un imponibile pari al 60% della cifra evasa), nulla dovrà essere ridato all’attrice perché il fisco - in questi tanti anni - le ha usato la cortesia di non chiederle quel 10% di differenza in attesa della decisione della Cassazione. Oltre alla certificazione, ora garantita dalla Suprema Corte, di aver presentato un condono fatto bene, alla Loren rimane anche la soddisfazione di vedere addossate all’Agenzia delle Entrate le spese legali dei suoi avvocati pari a settemila euro. La Loren si è detta "felice" per il verdetto della Cassazione: "Finalmente si chiude una storia che è durata quaranta anni". E Sophia commenta: «Il miracolo della giustizia: quando non ci credi più trova un modo di ridarti speranza. È una vicenda vecchia di 30 anni fa in cui ho avuto finalmente ragione». Interviene anche l‘avvocato Giovanni Desideri che ha difeso Sophia Loren nel ricorso in Cassazione: «È una vicenda kafkiana durata quaranta anni quella vissuta dalla signora Loren, per di più per delle tasse correttamente pagate: adesso la Cassazione ha reso, finalmente, il fisco giusto. Ma l’amministrazione tributaria, senza arrivare a disturbare la Cassazione, avrebbe potuto autocorreggersi da sola prendendo atto delle dichiarazioni in autotutela presentate dalla contribuente Loren anni orsono!».

Forse si sarebbero lasciati andare a qualche parola di più se non fossero ancora calde le polemiche sul gesto dell’ombrello rivolto da Maradona al fisco: chi conosce la Loren - madrina e testimonial di tanti eventi, dalle sfilate di moda al varo di navi da crociera - sa che non ci tiene a finire in compagnia dell’ex pibe de oro nel novero di chi si ritiene «vittima» delle tasse. Si sa in Italia: sono le stesse vittime di ingiustizie che si rendono diverse dai loro disgraziati colleghi e se ne distanziano. Questo perchè in Italia ognuno guarda ai cazzi suoi. Non si pensa che si sia tutti vittime della stessa sorte e per gli effetti fare fronte comune per combatterla. Intanto è polemica sulle dichiarazioni di Diego Armando Maradona a Che tempo che fa. L'ex "pibe de oro" ha parlato dei propri problemi fiscali e ha dichiarato: "Io non sono mai stato un evasore. Io non ho mai firmato contratto, lo hanno fatto Coppola e Ferlaino che ora possono andare tranquillamente in giro mentre a me hanno sequestrato l’orologio e l’orecchino, tanti volevano transare per me con fisco per farsi pubblicità, ma io ho detto no, io non sono un evasore, voglio andare in fondo. Equitalia si fa pubblicità venendo da me, perché il loro lavoro non è Maradona. Io non mi nascondo". Poi il gesto dell'ombrello rivolto a Equitalia. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell'ombrello a Equitalia «che mi vuole togliere tutto: tié». Nessun commento da parte del conduttore Fabio Fazio. Il gesto invece non è piaciuto al viceministro dell'Economia, Stefano Fassina: "È un gesto da miserabile e credo che vada perseguito con grande determinazione, funzionari di Equitalia hanno notificato nei giorni scorsi a Diego Armando Maradona un avviso di mora da oltre 39 milioni di euro, stiamo parlando di quasi 40 milioni di euro, farebbe bene a imparare a rispettare le leggi", ha tuonato l'esponente del Pd a Mix 24 su Radio 24.

Diego Armando Maradona e il gesto dell’ombrello contro Equitalia. Ma perché il Pibe de oro ha reagito in modo così plateale e non educato durante la trasmissione di Fabio Fazio? Una possibile motivazione la dà il quotidiano di Napoli, il Mattino. Maradona sarebbe stato indispettito da quanto accaduto al suo arrivo in Italia: appena sceso dall’aereo sarebbe stato “ispezionato” da un funzionario di Equitalia per verificare se addosso avesse oggetti pignorabili come orecchini, anelli o affini. Memore di quanto accaduto nel 2010, quando gli fu sequestrato l’orecchino, Maradona si è presentato senza beni pignorabili. Ma spiega il Mattino, la visita degli ispettori, avvenuta davanti  alla figlia Dalma e alla compagna Rocio, lo ha indispettito. E quindi, al sentir nominare Equitalia, Diego ha risposto con l’ombrello. Diego Armando Maradona non ci sta. Finito nel mirino di Equitalia, che lo accusa di aver evaso il fisco per la cifra di 39 milioni di euro, l'ex calciatore argentino ha deciso di reagire. E la controffensiva non si è limitata al gesto dell'ombrello verso l'agenzia di riscossione italiana durante la trasmissione di Fabio Fazio, che già di per se aveva smosso un marasma di polemiche. Il Pibe de Oro ha infatti annunciato un'azione legale nei confronti dell'ente tributario. La ragione? Gli agenti del fisco lo avrebbero perquisito al suo arrivo a Ciampino "davanti al suo legale Angelo Pisano, alla figlia Dalma e alla compagna Rocio", mettendogli le mani addosso per cercare presunti oggetti di valore da poter sequestrare. La denuncia è per "ingiusta attività esecutiva degli organi tributari". Un'offesa, un'umiliazione che il campione non ha sopportato. Soprattutto dopo che Equitalia continua a pretendere soldi che in realtà non sono giustificati sul piano sostanziale. Infatti, la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni.

Dopo il "tiè" al Fisco. Maradona ha ragione: non è un evasore scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Diego non fece ricorso nel '94 contro la presunta frode perché era all'estero: lo avrebbero scagionato. Il Fisco lo sa, ma non rinuncia a sequestri e show. Diego Armando Maradona non ha evaso al fisco italiano i 39 milioni di euro che continuano a chiedergli. Questo è certo, perché nemmeno il fisco italiano lo sostiene: la contestazione - notificata al calciatore argentino solo 11 anni dopo i fatti - riguarda un eventuale mancato versamento al fisco dal 1985 al 1990 di 13 miliardi di lire, pari a 6,7 milioni di euro. Quella cifra nel 2013 ammonterebbe a 11,4 milioni di euro. I 28 milioni di euro in più che vengono pretesi da Equitalia sono la somma di mora, interessi di mora e sanzioni. E questo sarebbe un primo problema di equità per qualsiasi contribuente, anche per Maradona. Ma anche sui 13 miliardi di lire dell’epoca il fisco ha torto sul piano sostanziale e lo sa benissimo: per pretenderli ne fa esclusivamente una questione di forma. Il gruppo di finanzieri e di «messi» di Equitalia che notifica cartelle, avvisi di mora, e sequestra orecchini e orologi a Maradona ogni volta che questo entra in Italia, sa benissimo di avere torto sul piano sostanziale, anche se la forma consente questo show. Maradona è innocente, ma non si è difeso nei tempi e nei modi consentiti: quando lo ha fatto era troppo tardi, e la giustizia tributaria italiana non gli ha consentito di fare valere le sue ragioni (conosciute e indirettamente riconosciute da altre sentenze) perché era prescritta la possibilità di ricorrere e contestare le richieste del fisco. Quello di Maradona così è uno dei rarissimi casi in cui la prescrizione va a tutto danno dell’imputato. Il calciatore più famoso del mondo è finito nel mirino del fisco insieme alla società calcistica per cui aveva lavorato in Italia (il Napoli di Corrado Ferlaino), e a due giocatori dell’epoca: Alemao e Careca. Il fisco ha emesso le sue cartelle esattoriali, e la giustizia tributaria ha iniziato il suo processo quando Maradona era già tornato in Argentina, dove avrebbe ancora giocato quattro anni. Conseguenza naturale: le notifiche del fisco sono arrivate a chi era in Italia (Napoli calcio, Alemao e Careca), e naturalmente non a chi era in Argentina, perché né il fisco italiano né altri lo hanno comunicato laggiù. Il fisco si è lavato la coscienza appendendo le sue cartelle all’albo pretorio di Napoli. Oggi quell’albo è on line e in teoria uno che fosse curioso potrebbe anche guardarlo dall’Argentina (ma perché mai dovrebbe farlo?). Allora no: per conoscere quelle cartelle bisognava andare in comune a Napoli. Non sapendo nulla di quelle cartelle (fra cui per altro c’erano anche alcune multe prese per violazione al codice della strada), Maradona non ha potuto fare ricorso. Né conoscere il tipo di contestazione che veniva fatta. Riassunto in breve. I calciatori allora come oggi erano lavoratori dipendenti delle società per cui giocavano. Maradona, Careca e Alemao erano dipendenti del Napoli. Che pagava loro lo stipendio e fungeva da sostituto di imposta: tratteneva cioè l’Irpef dovuta per quei redditi e la versava al fisco. Tutti e tre i giocatori (e molti altri in Italia) oltre al contratto da dipendenti avevano anche una sorta di contratto ulteriore, con cui cedevano alla società calcistica i propri diritti di immagine anche per eventuali sponsorizzazioni e pubblicità. In tutti e tre i casi, come avveniva all’epoca con i calciatori di tutto il mondo e in tutto il mondo, non erano i calciatori ad incassare dal Napoli il corrispettivo di quei diritti, ma delle società estere di intermediazione (tre diverse nel caso di Maradona), che poi avrebbero dovuto dare ai giocatori gli utili di intermediazione. Secondo il fisco italiano quei diritti in realtà erano stipendio extra per Alemao, Maradona e Careca. Il Napoli quindi avrebbe dovuto versare al fisco trattenute simili a quelle operate sugli stipendi base. Non avendolo fatto il Napoli, avrebbero dovuto versare l’Irpef i singoli giocatori. Squadra di calcio, Alemao e Careca fanno ricorso (Maradona no, perché non ne sa nulla): in primo grado hanno torto. In secondo grado vedono riconosciute pienamente le loro ragioni, con una sentenza che per Careca e Alemao verrà confermata dalla Cassazione. Il Napoli calcio incassa la sentenza favorevole, ma quando la ottiene sta fallendo. Preferisce non allungare i tempi: aderisce a un condono fiscale e sana tutto il passato, pagando in misura ridotta anche l’Irpef che secondo le contestazioni non era stata versata a nome di Alemao, Careca e Maradona. In teoria il caso Maradona avrebbe dovuto considerarsi concluso con quel condono operato dal sostituto di imposta. Ma il fisco va avanti. Si deve fermare davanti a Careca e Alemao perché la sentenza tributaria di appello che verrà poi confermata prende a schiaffoni quelli che sarebbero diventati Agenzia delle Entrate ed Equitalia. La sentenza tributaria ricorda che in parallelo si era già svolto un processo penale sulla stessa materia, e che il pm aveva proposto e il Gip accolto l’archiviazione per Maradona, Alemao e Careca, escludendo «per tutti e tre i calciatori che i corrispettivi versati agli sponsor fossero in realtà ulteriori retribuzioni destinate ai calciatori». I giudici tributari poi accusano il fisco italiano di avere preso un abbaglio: avevano accusato tutti sulla base di norme che per altro sono entrate nel codice italiano con una legge di fine 1989: quindi al massimo si poteva contestare qualcosa solo per il 1990, non potendo essere retroattive le regole tributarie. Ma anche per il 1990 la contestazione non era motivata: nessuna prova che quei diritti fossero cosa diversa e si fossero trasformati in stipendi. Assolti e liberati dal fisco italiano dunque sia Alemao che Careca. Maradona no, perché non aveva fatto ricorso. Quando ha provato a farlo dopo la prima notifica del 2001, è stato respinto perché tradivo. Quindi Maradona ha ragione, ma non può avere ragione perché la sua ragione ormai è prescritta. Cose da azzeccagarbugli. Che però giustificano assai poco lo show che il fisco mette in onda ogni volta che Maradona atterra in Italia.

Maradona, l'avvocato su "La Gazzetta dello Sport": "Stufo dell'Italia: lo trattino come qualsiasi cittadino...". L'appello di Pisani, legale di Diego: "È un campione anche di pignoramenti. E il bello è che alle multinazionali del gioco con debiti di 2 miliardi e mezzo fanno lo sconto, a lui tolgono l'orologio. L'ombrello? Totò faceva la pernacchia..." L'ultima puntata del Maradona-show è un appello accorato di Angelo Pisani via etere. "Faccio un appello ai politici affinchè trattino Maradona come un qualsiasi cittadino", ha detto l'avvocato di Diego a "Radio Crc". La visita in Gazzetta, Roma-Napoli all'Olimpico e l'intervista di Fazio che ha scatenato le polemiche: Diego è andato via, l'onda lunga delle sue parole è rimasta. "In Italia chi è innocente viene perseguitato e chi invece è palesemente colpevole viene agevolato dalle leggi - spiega Pisani - Secondo Equitalia, che all'epoca dei fatti non esisteva, e quindi non secondo i giudici che hanno assolto il mio assistito, Maradona è responsabile di un'evasione di 6 milioni di euro e non 39 milioni, come appare sui giornali Quella cifra è la somma di interessi che non rappresentano evasione fiscale. Il paradosso è che le multinazionali del gioco e delle slot machine, del gioco d'azzardo, che hanno accumulato un debito enorme, pari a 2miliardi e 500milioni di euro relativi a tasse, concessioni e tributi non pagati, godranno di uno sconto. Pare che il Governo abbia inserito, nella legge sull'IMU, un provvedimento relativo allo sconto del 75% su questa somma enorme accumulata dalle multinazionali. È responsabile per un cavillo, viene perseguitato ed è l'unica persona al mondo alla quale viene sequestrato l'orologio e gli orecchini. Maradona è un campione anche nei pignoramenti ed è quasi stufo dell'Italia". Sul gesto dell'ombrello, definito "miserabile" da Fassina e mal valutato anche da Letta, Pisani ribatte: "Si lamentano del gesto di Maradona, di satira, quasi di soddisfazione per non essere vittima di un pignoramento ingiusto, per essere scampato da un agguato. Maradona non voleva offendere nessuno. Totò addirittura faceva la pernacchia che è un gesto goliardico, un gesto che fa parte dell'arte. Tra l'altro, se guardiamo le immagini, il gesto di Maradona era rivolto a se stesso".

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

Come non dare ragione al Papa. Il Papa prega per i detenuti: "Facile punire i più deboli, i pesci grossi nuotano". Il 23 ottobre 2013 prima dell'udienza generale il Pontefice ha incontrato 150 cappellani delle carceri italiane. "Anche Gesù è stato un carcerato". Poi rivela: "Chiamo spesso i reclusi di Buenos Aires". Il Papa ha voluto "far arrivare un saluto a tutti i detenuti" nelle carceri italiane, ricevendo i cappellani, prima dell'udienza generale che ha raccolto anche oggi circa 100mila persone. Gremite, oltre a piazza San Pietro, anche piazza Pio XII e le vie limitrofe, compreso il primo tratto di via Conciliazione. Il Pontefice ha parlato a braccio toccando diversi argomenti. "È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano" ha detto Bergoglio ai cappellani. "Ai detenuti - ha aggiunto - potete dire che il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore". Anche il Signore è stato "carcerato dai nostri egoismi, dai nostri sistemi, dalle tante ingiustizie. È facile punire i più deboli, mentre i pesci grossi nuotano". Parlando a braccio durante l'udienza, il Pontefice ha detto: "Recentemente avete parlato di una giustizia di riconciliazione, ma anche una giustizia di speranza, di porte aperte, di orizzonti, questa non è una utopia, si può fare, non è facile perché le nostre debolezze sono dappertutto, il diavolo è dappertutto, ma si deve tentare". Il Papa ha raccontato che spesso, soprattutto la domenica, telefona ad alcuni carcerati a Buenos Aires e che la domanda che gli viene in mente è: "Perché lui è lì e non io?". "Mi domando: perché lui è caduto e non io? Le debolezze che abbiamo sono le stesse... È un mistero che ci avvicina a loro". Poi ha detto ai cappellani di portare un messaggio da parte sua: "Ai detenuti, a nome del Papa, potete dire questo: il Signore è dentro con loro. Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, il suo amore paterno e materno arriva dappertutto". Il fondamento evangelico. Gesù stesso si riconosce nel carcerato: "ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Mt.25,35-36). Gesù non giudica e non condanna come fanno i tribunali delle nostre società civili. Egli muore tra due ladri, non tra due innocenti condannati ingiustamente, e a uno dei due dice: "Oggi sarai con me nel paradiso" (Lc 23,43). Gesù insegna a non giudicare e a non condannare: "Non giudicate, per non essere giudicati…"(Mt.7,1).

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

E poi ancora, neanche gli studenti si salvano da questo marasma. Imparare ad essere Casta sin dalle elementari. Pretendere presunti diritti e ignorare i sacrosanti doveri. Altro che proteste, gli studenti sono una Casta iniziatica a future corporazioni: magistrati, avvocati, notai, ecc. Costano molto più di quel che pagano, si laureano dopo i 27 anni, non si muovono da casa. E non azzeccano una battaglia, scrive Filippo facci su “Libero Quotidiano. Non è un Paese per studenti, questo: a meno che siano svogliati, viziati, rammolliti dalla bambagia familiare, cioè bamboccioni, iper-protetti dal familismo e da un welfare schizofrenico. Allora sì, ecco che questo diventa un Paese per studenti: purché siano quelli che sfilavano nel corteo romano, sabato, col fegato di sostenere che «gli stanno rubando il futuro», quelli che il governatore di Bankitalia Ignazio Visco ha sconsigliato dal laurearsi perché avrebbero meno probabilità di trovare lavoro, quelli che hanno scambiato la condizione studentesca per un parcheggio post-puberale, quelli, insomma, ai quali potete anche dirlo: che sono una casta. Loro rimarranno di sale, li farete imbestialire, ma lo sono e lo restano. Lo sono perché lo Stato gli chiede soltanto mille o duemila euro l’anno di tasse universitarie, mentre ne costano - allo stesso Stato - una media di settemila: soldi a carico nostro, della fiscalità generale, soldi pagati anche da chi magari i figli all’università non ce li può mandare, magari perché non può, perché non ce la fa. Una casta è proprio questo: il privilegio di una minoranza a spese di una maggioranza. Ma voi provate a dirglielo. Provate a spiegarglielo. Provate a spiegare a tanti coccolatissimi giovani, che per definizione hanno sempre ragione, che da una quarantina d’anni non hanno azzeccato una battaglia che sia una, spesso rincoglioniti dalla cultura bipolare e catastrofista dei loro cattivissimi maestri sessantottini: dediti, quest’ultimi, a condire il loro progressivo accomiatarsi con profezie di sciagura che hanno trasformato ogni futuro in un funerale sociale, ambientale, economico e tecnologico. Provate a dirglielo senza che vi saltino addosso: loro, i loro genitori e ovviamente la stampa conformista.  Provate a dirgli che l’ex ministro Elsa Fornero, quando diceva che i giovani non devono essere schizzinosi all’ingresso nel mondo del lavoro, aveva ragione e basta. Provate a dirgli che Annamaria Cancellieri, quando parlò degli italiani «mammoni», aveva ragione pure lei, o, peggio, che ce l’aveva anche l’ex viceministro Michel Martone quando disse che un 28enne non ancora laureato è spesso uno sfigato. Oh certo, un laureato italiano resta sfigato a qualsiasi età, molte volte: perché manca il lavoro, perché la scuola non forma, e poi certo, perché un sacco di giovani si chiudono nelle università anche per prolungare una sorta di anticamera della vita reale, sfuggendo ogni minimo approccio col mondo del lavoro. Sta di fatto che gli studenti lavoratori in Italia restano una minoranza: c’è poco da sproloquiare. Da noi ci si laurea in media dopo i 27 anni quando in Europa non si arriva ai 24, con un mercato che ormai è senza confini e rende i giovani italiani dei potenziali ritardatari agli appuntamenti che contano. A sostenerlo ci sono tutti i dati del mondo, e il governatore di Bankitalia l’ha detto chiaro: il livello di istruzione dei nostri giovani è ancora ben distante da quello degli altri Paesi avanzati, c’è dispersione scolastica, un laureato italiano ha meno possibilità di trovare lavoro di un diplomato, c’è una percentuale spaventosa di analfabetismo funzionale e cioè un’incapacità diffusa, in sostanza, di usare efficacemente la lettura e la scrittura e il calcolo nelle situazioni quotidiane. Ma dire questo, politicamente, non serve: ci sono animi da non frustrare - ti spiegano. Teniamoci dunque la patetica casta degli studenti, questi poveracci che siamo riusciti a rovinare con la scusa di proteggerli. Non diciamogli che sono gli studenti con meno mobilità al mondo (l’80 per cento è iscritto nella regione di residenza) e che spesso la facoltà viene scelta secondo la distanza da casa, anche perché cinque giovani su dieci, dai 25 ai 34 anni, vivono ancora coi genitori. Non diciamogli che quello sciagurato e falso egualitarismo chiamato «valore legale del titolo di studio» ha prodotto milioni di false illusioni perché un pezzo di carta non insegna un lavoro né ti aiuta davvero a trovarlo, se nel frattempo non l’hai imparato e non hai capito che una professione e un’emancipazione non sono regali, non sono diritti, non sono pezzi di carta: sono una durissima conquista.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

Ogni anno a dicembre c’è un evento che stravolge la vita di molte persone. Il Natale? No! L’esame di avvocato che si svolge presso ogni Corte di Appello ed affrontato da decine di migliaia di candidati illusi.

La domanda sorge spontanea: c’è da fidarsi delle commissioni dei concorsi pubblici o degli esami di Stato?

«Dai dati emersi da uno studio effettuato: per nulla!». Così opina Antonio Giangrande, lo scrittore, saggista e sociologo storico, che sul tema ha scritto un libro “CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. L’Italia dei concorsi e degli esami pubblici truccati” tratto dalla collana editoriale “L’ITALIA DEL TRUCCO, L’ITALIA CHE SIAMO”.

E proprio dalle tracce delle prove di esame che si inizia. Appunto. Sbagliano anche le tracce della Maturità. “Le parole sono importanti”, urlava Nanni Moretti nel film Palombella Rossa alla giornalista che, senza successo, provava a intervistarlo. E’ proprio dalla commissione dell’esame di giornalismo partiamo e dalle tracce da queste predisposte. Giusto per saggiare la sua preparazione. La commissione è quella ad avere elaborato le tracce d’esame. In particolare due magistrati (scelti dalla corte d’appello di Roma) e cinque giornalisti professionisti. Ne dà conto il sito de l’Espresso, che pubblica sia i documenti originali consegnati ai candidati, sia la versione degli stessi per come appare sul sito dell’Ordine, cioè con le correzioni (a penna) degli errori. Ossia: “Il pubblico ministero deciderà se convalidare o meno il fermo”. Uno strafalcione: compito che spetta al giudice delle indagini preliminari. Seguono altre inesattezze come il cognome del pm (che passa da Galese a Galesi) e una citazione del regista Carlo Lizzani, in cui “stacco la chiave” diventa “stacco la spina”.

Sarà per questo che Indro Montanelli decise di non affrontare l’esame e Milena Gabanelli di non riaffrontarlo? Sarà per questo che Paolo Mieli è stato bocciato? E che dire di Aldo Busi il cui compito respinto era considerato un capolavoro e ricercato a suon di moneta? È in buona compagnia la signora Gabanelli & Company. Infatti si racconta che anche Alberto Moravia fu bocciato all’esame da giornalista professionista. Poco male. Sono le eccezioni che confermano la regola. Non sono gli esami giudicate da siffatte commissioni che possono attribuire patenti di eccellenza. Se non è la meritocrazia ha fare leva in Italia, sono i mediocri allora a giudicare. Ed a un lettore poco importa sapere se chi scrive ha superato o meno l'esame di giornalismo. Peccato che per esercitare una professione bisogna abilitarsi ed anche se eccelsi non è facile che i mediocri intendano l'eccellenza. L’esperienza e il buon senso, come sempre, sono le qualità fondamentali che nessuno (pochi) può trasmettere o sa insegnare. Del resto, si dice che anche Giuseppe Verdi fu bocciato al Conservatorio e che Benedetto Croce e Gabriele D’Annunzio non si erano mai laureati.

Che dire delle Commissioni di esame di avvocato. Parliamo della sessione 2012. Potremmo parlarne per le sessioni passate, ma anche per quelle future: tanto in questa Italia le cose nefaste sono destinate a durare in eterno.

A Lecce sarebbero solo 440 su 1258 i compiti ritenuti validi. Questo il responso della Commissione di Catania, presieduta dall’Avvocato Antonio Vitale, addetta alla correzione degli elaborati. Più di cento scritti finiscono sul tavolo della Procura della Repubblica con l’accusa di plagio, per poi, magari, scoprire che è tutta una bufala. Copioni a parte, sarebbe, comunque, il 65% a non superare l’esame: troppi per definirli asini, tenuto conto che, per esperienza personale, so che alla fase di correzione non si dedicano oltre i 5 minuti, rispetto ai 15/20 minuti occorrenti. Troppo pochi per esprimere giudizi fondati. Oltretutto l’arbitrio non si motiva nemmeno rilasciando i compiti corretti immacolati.

Prescindendo dalla caccia mirata alle streghe, c’è forse di più?

Eppure c’è chi queste commissioni li sputtana. TAR Lecce: esame forense, parti estratte da un sito? Legittimo se presenti in un codice commentato. È illegittimo l’annullamento dell’elaborato dell’esame di abilitazione forense per essere alcune parti estratte da un sito, se tali parti sono presenti all’interno di un codice commentato. (Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia – Lecce – Sezione Prima, Ordinanza 19 settembre 2013, n. 465).

E’ lo stesso Tar Catania che bacchetta la Commissione d’esame di Avvocato della stessa città Esame di avvocato...Copiare non sempre fa rima con annullare - TAR CATANIA ordinanza n. 1300/2010. Esame avvocato: Qualora in sede di correzione dell'elaborato si accerta che il lavoro sia in tutto o in parte copiato da altro elaborato  o da qualche manuale, per condurre all’annullamento della prova, deve essere esatto e rigoroso. Tale principio di diritto è desumibile dall’ordinanza in rassegna n. 1300/2010 del TAR Catania che ha accolto l’istanza cautelare connessa al ricorso principale avanzata avverso la mancata ammissione del ricorrente alla prova orale dell’esame di avvocato. In particolare, per il Tar etneo “il ricorso appare fondato, in quanto la Commissione si è limitata ad affermare apoditticamente che il compito di diritto penale della ricorrente conteneva “ampi passi del tutto identici all’elaborato di penale contenuto” in altra busta recante il n. 459 senza alcuna specificazione, anche sul compito, che consenta di appurare che questa presunta “identità” vada oltre la semplice preparazione sui medesimi testi, o la consultazione dei medesimi codici”. Per il TAR siciliano, inoltre, “l’elaborato di penale del candidato contraddistinto dal n. 459 era stato corretto da una diversa sottocommissione durante la seduta del 19 marzo 2010, e tale elaborato non risulta essere stato parimenti annullato”.

E a sua volta è la stessa Commissione d’esame di Avvocato di Lecce ad essere sgamata. Esami di avvocato. Il Tar di Salerno accoglie i ricorsi dei bocciati. I ricorsi accolti sono già decine, più di trenta soltanto nella seduta di giovedì 24 ottobre 2013, presentati da aspiranti avvocati bocciati alle ultime prove scritte da un giudizio che il Tar ha ritenuto illegittimo in quanto non indica i criteri sui cui si è fondato. Il Tribunale amministrativo sta quindi accogliendo le domande cautelari, rinviando al maggio del 2014 il giudizio di merito ma indicando, per sanare il vizio, una nuova procedura da affidare a una commissione diversa da quella di Lecce che ha deciso le bocciature. Il numero dei bocciati, reso noto lo scorso giugno 2013, fu altissimo. Soltanto 366 candidati, su un totale di 1.125, passarono le forche caudine dello scritto e furono ammessi alle prove orali. Una percentuale del 32,53: quasi 17 punti in meno del 49,16 registrato alla sessione dell’anno precedente. Numeri, questi ultimi, in linea con una media che, poco più o poco meno, si è attestata negli ultimi anni sull’ammissione della metà dei partecipanti. Nel 2012, invece, la ghigliottina è caduta sul 64,09 per cento degli esaminandi. In numeri assoluti i bocciati furono 721, a cui vanno aggiunti i 38 compiti (3,38 per cento) annullati per irregolarità come il rinvenimento di svolgimenti uguali. Adesso una parte di quelle persone ha visto accogliere dal Tar i propri ricorsi. I criteri usati dai commissari per l’attribuzione del punteggio, hanno spiegato i giudici, «non si rinvengono né nei criteri generali fissati dalla Commissione centrale né nelle ulteriori determinazioni di recepimento e di specificazione della Sottocommissione locale». La valutazione, quindi, «deve ritenersi l'illegittima».

Che ne sarà di tutti coloro che quel ricorso non lo hanno presentato. Riproveranno l’esame e, forse, saranno più fortunati. Anche perché vatti a fidare dei Tar.

Ci si deve chiedere: se il sistema permette da sempre questo stato di cose con il libero arbitrio in tema di stroncature dei candidati, come mai solo il Tar di Salerno, su decine di istituzioni simili, vi ha posto rimedio?

Esami di Stato: forche caudine, giochi di prestigio o giochi di azzardo? Certo non attestazione di merito.

Sicuramente nell’affrontare l’esame di Stato di giornalismo sarei stato bocciato per aver, questo articolo, superato le 45 righe da 60 caratteri, ciascuna per un totale di 2.700 battute, compresi gli spazi. Così come previsto dalle norme.

Certamente, però, si leggerà qualcosa che proprio i giornalisti professionisti preferiscono non dire: tutte le commissioni di esame sono inaffidabili, proprio perché sono i mediocri a giudicare, in quanto in Italia sono i mediocri a vincere ed a fare carriera!

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

"Licenza di tortura". Ilaria Cucchi. La famiglia di Federico Aldrovandi, Aldo Bianzino, Riccardo Rasman. La nipote di Franco Mastrogiovanni. Parenti e amici di persone picchiate o uccise da forze dell'ordine, guardie penitenziarie, medici. La giovane fotografa Claudia Guido ha deciso di immortalare i loro volti. Per mostrare che potrebbe succedere ad ognuno di noi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Rudra Bianzino indossa una giacca blu, ha le mani in tasca, sullo sfondo le colline di Perugia. Suo padre, Aldo, è morto in carcere cinque anni fa. Era entrato in ottima salute. È uscito due giorni dopo in una bara. L'unica certezza che Rudra e i suoi fratelli hanno avuto dal processo, finora, è che il padre si sarebbe potuto salvare, se qualcuno avesse ascoltato le sue urla di dolore. Ma la guardia carceraria ch'era servizio non ha chiamato i soccorsi. Per questo l'agente è stata condannato a un anno e mezzo di reclusione: ma in carcere non ci andrà perché la pena è sospesa. Quella di Aldo Bianzino e dei suoi figli è una delle undici storie raccontate attraverso i ritratti dei parenti e dei “sopravvissuti” da Claudia Guido, giovane fotografa padovana che li ha raccolti in una mostra itinerante intitolata “ Licenza di tortura ”. Un progetto che, spiega l'autrice, è diventato anche una forma di protesta: «Per due anni ho vissuto con queste famiglie. Ho conosciuto le loro battaglie, lo sconforto, la difficoltà di arrivare non dico a una sentenza, alla punizione dei colpevoli, ma anche semplicemente al processo: che costa tanto, economicamente ed emotivamente. Con loro ho conosciuto anche la tortura quotidiana dell'abbandono e delle parole di chi accusa, deride o rilegge le loro storie senza pensare alla sofferenza che provano intere famiglie». Gli scatti della Guido sono frontali, scarni, senza forzature: «Non ho aggiunto elementi distintivi, non ho associato ai ritratti le immagini agghiaccianti delle vittime che abbiamo visto sui giornali», spiega l'autrice: «Perché quello che vorrei trasmettere è il sentimento che ho provato io stessa leggendo queste storie sui quotidiani: l'idea che quelle violenze sarebbero potute capitare a me. Quando mia madre ha visto la foto di Patrizia Moretti ha detto: “Potrei essere io”». Lucia Uva - sorella di Giuseppe. La notte tra il 13 e il 14 luglio 2008 Giuseppe Uva rimase per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Da lì fu trasferito in ospedale, dove morì. Il giudice di primo grado, Orazio Muscato, ha scritto che le cause del decesso andrebbero individuate "in una tempesta emotiva legata al contenimento, ai traumi auto e/o etero prodotti, nonché all'agitazione da intossicazione alcolica acuta". Se ha assolto i medici, il tribunale ha stabilito però che "permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali Giuseppe Uva, nei cui confronti non risulta esser stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per disturbo della quiete pubblica, è prelevato e portato in caserma, così come tutt'ora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all'interno della stazione dei carabinieri di Varese (certamente concitati, se è vero che sul posto confluirono alcune volanti di polizia) ed al cui esito Uva, che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica, verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio". Patrizia Moretti, la madre di Federico Aldrovandi , ucciso di botte da quattro poliziotti la notte del 25 settembre 2005, è stata uno dei primi contatti della ventinovenne padovana. Poi sono arrivati il padre e il fratello di Federico, insieme alle altre vittime che ora stanno girando per tutta Italia : la mostra arriverà a breve anche a Roma e a Milano. «Dopo undici casi mi son dovuta fermare: ero troppo coinvolta. Ma non escludo la possibilità di continuare: l'argomento è purtroppo sempre attuale». Nel frattempo, dall'aprile del 2011, la Guido ha portato davanti al suo obiettivo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano , morto dopo esser stato arrestato, picchiato, e lasciato senza cure il 22 ottobre del 2009; la famiglia di Riccardo Rasman, il giovane con problemi psichici immobilizzato, colpito e asfissiato da tre agenti, a casa sua, il 27 ottobre del 2006; un sopravvissuto come Paolo Scaroni , il tifoso che nel 2005 finì in coma per le manganellate della polizia e dal suo risveglio ha avviato una battaglia legale per individuare i colpevoli; o come Stefano Gugliotta, menato da uomini in divisa il 5 maggio del 2010 e salvatosi da una condanna per “resistenza a pubblico ufficiale” solo grazie ai video girati col cellulare dagli abitanti della zona. Nella mostra ci sono poi Grazia Serra, nipote di Franco Mastrogiovanni , il maestro morto il 4 agosto 2009 in un reparto psichiatrico dell'ospedale di Vallo della Lucania, dopo esser rimasto per ore legato a un letto senza cure né acqua. Si sono fatti ritrarre anche il padre, la madre e la sorella di Carlo Giuliani , il ragazzo di 23 anni ucciso da un proiettile della polizia il 20 luglio 2001 durante le contestazioni del G8 di Genova ; la figlia di Michele Ferrulli , il 51enne morto d'infarto mentre veniva arrestato il 30 giugno del 2011; Luciano Isidro Diaz , fermato la notte del 5 aprile del 2009 mentre guidava troppo forte e reso vittima di lesioni così gravi da causargli la perforazione di un timpano e il distacco della retina; e infine la sorella e il migliore amico di Giuseppe Uva , l'uomo morto in ospedale dopo esser stato trattenuto per tre ore nella caserma dei carabinieri di Varese. Ci sono i volti di tutti loro. Che interrogano, per primo, lo Stato. Perché non lasci ripetere quelle violenze.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

Il perito non capisce il dialetto: tre anni in cella da innocenti. A causa di intercettazioni mal interpretate due fratelli pugliesi vengono scambiati per mafiosi e sbattuti in carcere. Ora chiedono allo Stato un milione di risarcimento, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. In Italia puoi essere sbattuto dentro e restarci tre anni perché il consulente incaricato di analizzare le intercettazioni è di Bologna e, non capendo il dialetto delle tue parti, interpreta fischi per fiaschi. In Italia puoi esser agguantato d’improvviso insieme a tuo fratello perché «promotori di un sodalizio mafioso» che ti costerà 36 e passa mesi di cella. È possibile questo e pure altro, tanto non accadrà nulla a nessuno: tranne che a te, alla tua famiglia e al tuo lavoro. Vecchia storia, solita storia. La stessa capitata ai fratelli Antonio e Michele Ianno, di San Marco in Lamis (Foggia) che un bel mattino si sono visti ammanettare dalla Dda di Bari.  Saranno detenuti «cautelarmente» tre anni uno e tre anni e mezzo l’altro, salvo accorgersi poi che non c’entravano niente,  che quel clan non l’avevano mai costituito e che il duplice omicidio in concorso di cui erano accusati non lo avevano compiuto. E neppure un altro tentato omicidio, il porto d’armi illegale, niente di niente. Insomma, si trattava di un gigantesco abbaglio giudiziario. Nel giugno del 2004 il gip del tribunale di Bari firma la richiesta di custodia cautelare del pm della Dda per Antonio e Michele Ianno, poco meno che 40enni all’epoca, di professione «mastri di cantiere», cioè piccoli imprenditori edili formatisi a botte di secchi di calce sulle spalle. Sono considerati promotori di una compagine malavitosa facente capo alle famiglie Martino-Di Claudio, operante nel contesto della così detta mafia garganica. Associazione mafiosa (il “mitico” art. 416 bis), concorso in tentato omicidio e in duplice omicidio, porto illegale di armi, il tutto con l’aggravante di voler favorire i clan. Una gragnuola di accuse da svenire solo a leggerne i capi d’imputazione, un fulmine che incendia la vita dei due. E non solo. La difesa, rappresentata dal prof. avv. Giuseppe Della Monica, prova a spiegare che stavano prendendo un granchio ma quando le cose prendono una certa piega raddrizzarle è impresa titanica. Sarà così tutto un crescendo di ricorsi e controricorsi, un supplizio di “calamandreiana” memoria. In queste storie, in genere o c’è un «pentito» che si ricorda di te oppure, intercettando a strascico in una certa area sensibile, si rischia di scambiare lucciole per lanterne. Se di sbagliato poi c’è anche la relazione di un consulente del pm che - chissà perché scovato a Bologna - fraintende il dialetto pugliese ecco che la faccenda si complica, fino a farsi kafkiana grazie a un’altra ordinanza che colpirà i fratelli, per giunta per gli stessi reati più un’estorsione che prima non c’era: un modo come un altro per mandare a farsi benedire il ne bis in idem. Negli atti si legge un po’ di tutto oltre al sangue versato: appalti del comune di San Marco in Lamis di esclusivo appannaggio degli Ianno mentre invece l’ente attesterà che non era vero esibendo l’elenco delle opere pubbliche; oppure il pericolo di fuga a giustificazione dell’arresto: per la Dda i due s’erano dati alla macchia per evitare lo Stub (il guanto di paraffina) ma la difesa riuscirà a provare che non era così perché un vigile urbano li aveva identificati su un cantiere per le proteste di un vicino disturbato dai rumori proprio il giorno del reato contestato. Siamo nel 2006, due anni sono già trascorsi intanto. La seconda ordinanza viene annullata totalmente in udienza preliminare e il giudice ordina la scarcerazione «se non detenuto per altro motivo». L’altro motivo, però, c’era ed era la prima ordinanza, i cui effetti erano ancora in itinere dinanzi alla Corte d’Assise di Foggia. Per farla breve, i giudici alla fine si accorgeranno dell’errore della procura e scarcereranno prima Michele e poi Antonio, a distanza di sei mesi uno dall’altro. Inutile dire delle conseguenze dirette ed indirette patite. Risultato? Lo stato prepari un bell’assegno circolare da un milione di euro: tanto hanno chiesto nel 2010 - quando tutto è passato in giudicato - cioè il massimo previsto dalla legge (500mila euro cadauno) per tanta gratuita tragedia. Ovviamente ancora aspettano.

Ed ancora. Correva l’anno 2006. Il 29 settembre, per l’esattezza, scrive di Walter Vecellio su “Libero Quotidiano”. Il luogo: Ruvo del Monte, comune, informano i manuali di geografia, in provincia di Potenza, «situato a 638 metri sul livello del mare, nella zona Nord Occidentale della Basilicata, ai confini con l’Irpinia». A Ruvo del Monte vivono circa milleduecento persone; è da credere si conoscano tutti. E più di tutti, i locali carabinieri, che con il locale sacerdote, evidentemente sono a conoscenza di tutto quello che accade, si fa, si dice. Dovrebbero, si suppone, anche conoscere due fratelli gemelli, Domenico e Sebastiano. Dovrebbero conoscerli bene, perché in paese non deve certo essere sfuggito il fatto che patiscono gravi ritardi mentali. Quando il 29 settembre del 2006 i carabinieri, frugando nella casa dei due fratelli trovano una rivoltella, hanno evidentemente fatto il loro dovere, sequestrandola. Ed è quello che prescrive la legge, quando viene redatto un rapporto che riassume l’accusa in un paio di righe: «Detenzione illegale di arma». I carabinieri si suppone conoscano le armi; se sostengono che si tratta di una pistola fabbricata prima del 1890, si suppone sappiano quello che dicono. E cosa si fa, in casi del genere? Si istruisce un processo; un processo per detenzione di arma illegale che si conclude nel 2012. La sentenza: «Non luogo a procedere».  E come mai, nel 2006 la detenzione illegale di arma sei anni dopo diventa «non luogo a procedere»? Come mai, nei fatti e in concreto, il giudice di Melfi assolve pienamente i due fratelli? Perché la pistola non è una pistola; perché non si può detenere illegalmente un’arma che non è un’arma. Perché la pistola che si diceva «fabbricata prima del 1890» in realtà è una pistola giocattolo. I due fratelli l’avevano detto con tutto il fiato che avevano in gola: «Non è un’arma, è un giocattolo». Niente da fare. «Detenzione di arma illegale». Bastava guardarla, quell’«arma illegale»: «Si vedeva subito che era finta, con quella foggia bizzarra che ricalca quelle strette alla cintura dei conquistadores spagnoli del ‘500». Per i carabinieri era «un’arma illegale». I carabinieri come mai erano entrati a casa dei due fratelli? Cercavano oggetti sacri rubati al cimitero del paese. Qui si può immaginare la scena: chi può introdursi in un cimitero per rubare? Degli spostati. E in paese, tutti lo sanno, i due fratelli con la testa non ci sono del tutto. Allora andiamo da loro. Si bussa alla porta, loro aprono. «Si può?». «Prego, accomodatevi». Ecco. E lì, in bella vista «l’arma illegale». Subito in caserma, per l’interrogatorio di rito. Poi l’avviso di garanzia. Passano i giorni, le settimane e i mesi, e arriva l’imputazione: articolo 687 del codice di procedura penale, che punisce appunto la detenzione illegale di armi: dai tre ai dodici mesi, 371 euro di ammenda. Si chiudono le indagini preliminari, c’è il rinvio a giudizio. Finalmente qualcuno pensa di rivolgersi a un perito. Naturalmente è l’avvocato dei due fratelli, non ci pensano né i carabinieri né il Pubblico Ministero. Racconta l’avvocato: «All’apertura della busta contenente la presunta arma idonea a offendere, presenti io, il giudice e il perito tutto si è risolto in una risata. Non c’è stato nemmeno bisogno di una analisi approfondita: una colata unica, un simulacro da bancarella».

Ed Ancora. "Aspettavo questo momento da 36 anni". Giuseppe Gulotta, accusato ingiustamente di essere l'autore del duplice omicidio dei carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta, avvenuto nella casermetta di Alcamo Marina il 27 gennaio 1976, lascia da uomo libero il tribunale di Reggio Calabria dove dopo esattamente 36 anni dal giorno del suo arresto (21 gli anni trascorsi in cella) è stato dichiarato innocente. Un nuovo macroscopico caso di malagiustizia, scrive “Libero Quotidiano”. Alla lettura della sentenza, al termine del processo di revisione che si è svolto a Reggio Calabria, Gulotta è scoppiato in lacrime, insieme alla sua famiglia. Accanto a lui c'erano gli avvocati Baldassarre Lauria e Pardo Cellini che lo hanno assistito durante l'iter giudiziario. "Spero - ha dichiarato l'uomo parlando con i giornalisti - che anche per le famiglie dei due carabinieri venga fatta giustizia. Non ce l’ho  con i carabinieri - ha precisato - solo alcuni di loro hanno sbagliato in quel momento". Giuseppe Gulotta, nonostante la complessa vicenda giudiziaria che lo ha portato a subire nove processi più il procedimento  di revisione, non ha smesso di credere nella giustizia. "Bisogna credere sempre alla giustizia. Oggi è stata fatta una giustizia giusta", ha però aggiunto. Un ultimo pensiero va all’ex brigadiere Renato Olino, che con le sue dichiarazioni ha permesso la riapertura del processo: "Dovrei ringraziarlo perché mi ha permesso di dimostrare la  mia innocenza però non riesco a non pensare che anche lui ha fatto parte di quel sistema". Il 26 gennaio 1976 furono trucidati i carabinieri Salvatore Falcetta e Carmine Apuzzo. Ad accusare Gulotta della strage fu Giuseppe Vesco, considerato il capo della banda, suicidatosi nelle carceri di San Giuliano a Trapani, nell'ottobre del 1976 (era stato arrestato a febbraio). Gulotta, in carcere per 21 anni, dal 2007 godeva del regime di semilibertà nel carcere di San Gimignano (Siena). Venne arrestato il 12 febbraio 1976 dai militari dell'Arma dopo la presunta confessione di Vesco. Nel 2008 la procura di Trapani ha iscritto nel registro degli indagati con l'accusa di sequestro di persona e lesioni aggravate alcuni carabinieri, oggi in pensione, che nel 1976 presero parte agli interrogatori degli accusati della strage di Alcamo Marina: il reato contestato agli agenti è quello di tortura nei confronti degli interrogati.

Dall’altra parte ci troviamo al paradosso. Il killer ha confessato 30 delitti e ha fatto luce su altri 50. Pentitosi di essere diventato un collaboratore di giustizia ha ricominciato dedicandosi allo spaccio di droga. Per questo era stato riammanettato e condannato a 20 anni di galera, scrive Peppe Rinaldi su “Libero Quotidiano”. C’è un signore che ha confessato trenta omicidi e ha fatto luce, con dichiarazioni ad hoc, su altri cinquanta. Era un «pentito» di camorra che, pentitosi del pentimento, ricominciò alla grande sbarcando in Emilia Romagna per dedicarsi alla spaccio internazionale di droga. Ovviamente, in associazione (a delinquere) con altri. Lo stesso signore, riammanettato e condannato a 20 anni nel secondo grado del nuovo giudizio, invece che starsene in gattabuia circola liberamente per le strade di Afragola, popoloso centro dell’hinterland napoletano celebre per essere anche la città d’origine di Antonio Bassolino. Si chiama Mauro Marra, è tecnicamente un libero cittadino perché i suoi giudici naturali non hanno trovato il tempo di rifargli il processo come aveva loro intimato la Corte di Cassazione: sono scaduti i così detti «termini di fase», non c’è più nulla da fare, se riuscite a fargli nuovamente il processo che spetta a ogni cittadino italiano indipendentemente dal reato commesso (si chiama civiltà giuridica) bene, altrimenti Marra deve starsene a casa, come per ora già sta facendo. È una storia incredibile ma vera, neanche tanto originale se si considera lo stato comatoso del servizio giustizia nel Paese. Ne ha scritto ieri il più antico quotidiano italiano, il Roma. Quando parli di Mauro Marra non ti appare il ragazzotto di Scampia, imbottito di cocaina scadente e pronto a sparare anche per 200 euro. No, parli di uno che non solo ha ucciso trenta avversari del clan nemico, non solo era nei programmi strategici per fare altrettanto con ulteriori 50 persone (cosa che si verificò) ma addirittura di uno dalla cieca fede in Raffaele Cutolo (l’ultimo, vero, padrino) e braccio destro di Pasquale Scotti, latitante da 28 anni che difficilmente qualcuno, ormai, prenderà. Sempre che sia vivo. Marra, poi, è ancora molto altro: è il super killer della Nco (Nuova camorra organizzata) che sbugiardò gli accusatori di Enzo Tortora aprendo uno squarcio su una delle punte massime del disonore del sistema giudiziario. «Hanno accusato un innocente» disse in aula il 25 settembre 1985, riferendosi alle «visioni» dei vari Barra, Melluso, Auriemma, Catapano, Pandico e Dignitoso. Anche grazie a quella presa di posizione per l’ex presentatore televisivo fu possibile risalire la china ed ottenere -diciamo- giustizia. Scansata la matematica sfilza di ergastoli grazie alla legge sul pentitismo, dopo una ventina d’anni riprese a delinquere e finì incarcerato nel 2006 mentre era in una località protetta del Nord. Il 26 marzo 2009 la I sezione penale lo condanna a 18 anni; in secondo grado la IV Corte d’Appello di Napoli gli aumenta la pena a venti. Siamo nel dicembre 2011. Il 21 novembre scorso la Cassazione ribalta tutto rinviando gli atti a Napoli per una nuova sentenza: i tre anni entro cui i magistrati avrebbero dovuto rendere definitiva la pena (i termini di fase) sono trascorsi vanamente e, pertanto, Marra deve essere scarcerato. Ovviamente il lavoro minuzioso di ricostruzione degli avvocati (Antonio Abet e Giuseppe Perfetto) è stato determinante. Da una settimana il pluriomicida è libero. Aspetta che la sentenza diventi definitiva. Non è scritto però da nessuna parte che i giudici di II grado lo condannino, così come è altrettanto probabile che ricorra, eventualmente, ancora in Cassazione. E il tempo passa. Ma sarà senz’altro colpa dei cancellieri che mancano, degli stenografi che non si trovano o della carta per fotocopie che scarseggia.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

Storicamente, il populismo, ha rappresentato una delle più sofisticate manifestazioni politiche di disprezzo per il popolo. La premessa serve a fare gli elogi al discorso tenuto in Senato dalla capogruppo del M5S, Paola Taverna. Un discorso compatto, preciso, ricco di passione e ritmo, costruito impeccabilmente. “In dieci minuti quello che il Pd non ha detto per venti anni“, è stato scritto sulla rete. Lo ripropongo nello stenografico di Palazzo Madama (i puntini di sospensione segnalano le infinite, e stizzite, interruzioni da parte di Forza Italia).

«Signor Presidente, onorevoli colleghi, si chiude, oggi, impietosamente, una «storia italiana», segnata dal fallimento politico, dall’imbarbarimento morale, etico e civile della Nazione e da una pesantissima storia criminale. Storie che si intrecciano, maledettamente, ai danni di un Paese sfinito e che riconducono ad un preciso soggetto, con un preciso nome e cognome: Silvio Berlusconi. La sua lunga e folgorante carriera l’abbiamo già ricordata in passato: un percorso umano e politico costellato di contatti e rapporti mai veramente chiariti, che passano per società occulte, P2, corruzione in atti giudiziari, corruzione semplice, concussione, falsa testimonianza, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, corruzione di senatori, induzione alla prostituzione, sfruttamento della prostituzione e prostituzione minorile. Insomma un delinquente abituale, recidivo e dedito al crimine, anche organizzato, visti i suoi sodali. Ideatore, organizzatore e utilizzatore finale dei reati da lui commessi. Senatore Berlusconi, anzi signor Berlusconi, mi dispiace che lei non sia in Aula. Forse alcuni hanno dimenticato che la sua discesa in campo ha avuto soprattutto, per non dire esclusivamente, ragioni imprenditoriali: la situazione della Fininvest nei primi anni Novanta, con più di 5.000 miliardi di lire di debiti, parlava fin troppo chiaro; il rischio di bancarotta era dietro l’angolo. Alcuni suoi dirigenti vedevano come unica via d’uscita il deposito dei libri contabili in tribunale. La cura Forza Italia è stata fantastica per le sue finanze, perché – ricordiamolo – non è entrato in politica per il bene di questo Paese, come declamava da dietro una scrivania su tutte le sue televisioni. Le elezioni politiche del 1994 hanno segnato l’inizio di una carriera parlamentare illegittima, sulla base della violazione di una legge vigente sin dal 1957, la n. 361, secondo la quale Silvio Berlusconi era ed è palesemente ineleggibile. Quella legge non è mai stata applicata, benché fosse chiarissima, grazie alla complicità del centrosinistra di dalemiana e violantiana memoria. Per non parlare dell’eterna promessa, mai mantenuta, di risolvere il conflitto di interessi. E tutto ciò è avvenuto non per ragioni giuridiche – come ora qualcuno, mentendo, vorrebbe farci credere – ma per onorare patti scellerati, firmati sottobanco per dividersi le spoglie di un Paese. Forse qualcuno si indignerà, urlando che queste sono semplici illazioni. Lasciamo che sia la storia a rispondere! Camera dei deputati, 28 febbraio 2002, Resoconto stenografico della seduta n. 106 della XIV legislatura. Cito le parole dell’onorevole Luciano Violante, al tempo capogruppo dei Ds, oggi Pd, mentre si rivolge ad un collega dell’apparentemente opposto schieramento: «(…) l’onorevole Berlusconi (…) sa per certo che gli è stata data la garanzia piena – e non adesso, nel 1994, quando ci fu il cambio di Governo – che non sarebbero state toccate le televisioni.. Lo sa lui e lo sa l’onorevole Letta», zio. «Voi ci avete accusato di regime nonostante non avessimo fatto il conflitto di interessi, avessimo dichiarato eleggibile Berlusconi nonostante le concessioni (…). Durante i Governi di centrosinistra il fatturato di Mediaset è aumentato di 25 volte». Questa è storia! Come storia è la discesa in campo del senatore, fatta di promesse mai mantenute: dal taglio delle tasse al milione di posti di lavoro. Ma non era l’imprenditore illuminato che avrebbe salvato l’Italia, anzi l’azienda Italia? Quello che doveva pensare alla cosa pubblica? Dal discorso del senatore Berlusconi del 1994 cito: «La vecchia classe politica è stata travolta dai fatti e superata dai tempi. (…) L’autoaffondamento dei vecchi governanti, schiacciati dal debito pubblico e dal finanziamento illegale dei partiti, lascia il Paese impreparato e incerto nel momento difficile del rinnovamento e del passaggio ad una nuova Repubblica». Incredibile, ma vero: sono proprio sue parole. Potrà però sorgerci legittimamente il dubbio che si sia preso gioco di noi per vent’anni, e ancora adesso? Due mesi fa abbiamo visto diversi Ministri, in suo nome, presentare le dimissioni dando inizio al siparietto della prima crisi di un Governo nato precario, per non parlare della legge di stabilità che giaceva ormai da settimane nella 5a Commissione. Ma lo vogliamo dire agli italiani che la legge, che dovrebbe assicurare i conti ma soprattutto garantire la ripartenza economica del nostro Paese e la sua stabilità, è stata svilita e degradata a semplice espediente dilatorio per farle guadagnare qualche altro giorno in carica? Oppure vogliamo ricordare i due bei regali che riceverà a spese di tutti noi contribuenti? Assegno di solidarietà pari a circa 180.000 euro; assegno vitalizio di 8.000 euro mensili. C’è bisogno poi di ricordare perché ancora oggi qualcuno, nonostante l’evidenza dei fatti, nonostante una sentenza passata in giudicato, voglia un voto, uno stramaledetto voto per applicare una legge? Ha senso ribadire lo sfacelo di venti anni di indottrinamento fondato sull’apparire, sul dire e il non fare, sull’avere e non sull’essere? Anche nell’ultimo atto della sua storia parlamentare comunque il senatore riuscirà a segnare un record. L’illegittimità e l’indegnità della sua carica senatoriale sono addirittura triple: incandidabilità sopravvenuta, ineleggibilità e interdizione da pubblici uffici per indegnità morale. In sostanza, un vero e proprio capolavoro! Questo Senato poi sentirà un’enorme mancanza dell’operato parlamentare del signor Berlusconi. Ho sentito oggi riprendere i senatori a vita. Dall’inizio della legislatura i dati dimostrano la sua dedizione al lavoro in questa istituzione; dimostrano la passione con cui ha interpretato il proprio mandato nell’interesse del Paese: disegni di legge presentati zero; emendamenti presentati zero; ordini del giorno zero; interrogazioni zero; interpellanze zero; mozioni zero; risoluzioni zero (Applausi dal Gruppo M5S); interventi in Aula uno, per dare la fiducia a questo Governo (eppure oggi è all’opposizione); presenze in Aula 0,01 per cento! Quindi, di cosa stiamo discutendo? Della decadenza dalla carica di senatore di un personaggio che il suo mandato non lo ha mai neppure lontanamente svolto, di un signore che però ha puntualmente portato a Palazzo Grazioli e ad Arcore ben 16.000 euro al mese per non fare assolutamente nulla, se non godere dell’immunità parlamentare. In questi venti anni il signor Berlusconi è stato quattro volte Presidente del Consiglio dei ministri, Presidente del Consiglio dell’Unione europea, due volte Ministro dell’economia e delle finanze, una volta Ministro dello sviluppo economico, Ministro degli affari esteri, Ministro della salute ma, soprattutto, è stato il Presidente del Consiglio che ha mantenuto per più tempo la carica di Governo e che ha disposto della più ampia maggioranza parlamentare della storia. Un immenso potere svilito e addomesticato esclusivamente ai propri fini, cioè architettare reati e incrementare il suo personale patrimonio economico.… Quante cose avrebbe potuto fare per questo nostro Paese, se solo avesse anteposto il bene comune ai suoi interessi personali, le riforme strutturali alle leggi ad personam! E, invece, dopo tutto questo tempo ci troviamo con la disoccupazione al 40 per cento, pensionati a 400 euro mensili, nessun diritto alla salute, nessun diritto all’istruzione… un territorio devastato dalle Alpi alla Sicilia, le nostre città sommerse dalle piogge… e le nostre campagne avvelenate… Era il 1997 quando Schiavone veniva a denunciare dove erano stati sversati quintali di rifiuti tossici: lo stesso anno in cui questo Stato decise di segretare tali informazioni. Tutto ciò con l’IVA al 22 per cento e un carico fiscale che si conferma il più alto d’Europa, pari al 65,8 per cento dei profitti commerciali… e gli imprenditori… che si suicidano per disperazione, spesso nemmeno per debiti, ma per i crediti non pagati dalla pubblica amministrazione, cioè dallo Stato stesso! Di tutto questo il senatore Berlusconi non sembra preoccuparsi. La decadenza di un intero Paese sembra non interessargli minimamente, conta solo la sua. Giusto…Ha il terrore di espiare la propria pena ai servizi sociali, di svolgere mansioni che ritiene non alla sua altezza… Beh, sappia che quelli sono lavori che centinaia di migliaia di italiani perbene svolgono con dignità e onestà… Gli auguriamo che questa possa essere invece un’occasione per uscire dal suo mondo dorato, così forse potrà rendersi conto del disastro e del baratro in cui i cittadini normali si trovano a causa del sistema da lui generato e alimentato…Questo però non deve essere un discorso di rabbia. Questo vuole essere un discorso di speranza…Concludo, Presidente. La nostra presenza in quest’Aula oggi rappresenta un solo e semplice concetto: noi non vogliamo chiamarci politici, ma restituire il potere ai cittadini… Questa non è una vendetta. Qui non c’è nessuna ingiustizia o persecuzione. Qui ci sono solo cittadini italiani che vogliono riprendersi il proprio presente, altrimenti non avranno più un futuro.» 

La decadenza di Berlusconi. Cronaca, frasi, retroscena di una giornata entrata nella storia della politica, scrive  Paola Sacchi su “Panorama”. Aldo Cazzullo editorialista e commentatore del "Corriere della sera" inarca il sopracciglio e un po' sorride quando, in uno dei corridoi di Palazzo Madama, il verace senatore dalemiano Ugo Sposetti  confessa: "La decadenza di Silvio Berlusconi è come la caduta del muro di Berlino, ma i miei ora devono stare attenti: quel muro in Italia venne addosso tutto a chi lo aveva preso a picconate, la Dc e il Psi....".  Il senatore Pd, Stefano Esposito, anche lui di rito dalemiano a Panorama.it ammette chiaramente: "Sì, Berlusconi è decaduto, ma è uscito solo dalla vita parlamentare, non dalla politica. L'uomo è ancora vivo e vegeto e guai se il Pd lo dà per morto, commetterebbe lo stesso errore fatto con la sottovalutazione di Beppe Grillo". Se queste sono le grida d'allarme che vengono dalla sinistra (tendenza riformista), figuriamoci quelle che vengono da Forza Italia. "Sarà per loro un boomerang", dice secco il senatore Fi Altero Matteoli. E il vicepresidente del Senato (Fi) Maurizio Gasparri è caustico  sulla conduzione dei lavori in aula da parte del presidente Pietro Grasso: "Lui è l'ultima rotella di un ingranaggio molto più vasto che voleva  cacciare Berlusconi dal Parlamento a tutti i costi". Gasparri ricorre al Manzoni: "E' il piccolo untorello .... non sarà lui che spianta Milano". Quasi in contemporanea, con l'annuncio della sua decadenza da senatore, Silvio Berlusconi in Via del Plebiscito arringa la folla e annuncia dopo la "giornata di lutto per la democrazia", già il "primo appuntamento elettorale: l'8 dicembre riunione dei club di Fi di tutt'Italia", lo stesso giorno delle   primarie del Pd. Rompe di fatto la tregua con Angelino Alfano. La folla urla: "Traditori" E il Cav: "Parole ruvide ma efficaci". Alfano in serata dirà: "Giornata nera per la democrazia". Ma "noi andremo avanti con il governo, in un rapporto di collaborazione-conflittualità", spiega a Panorama.it l'ex governatore lombardo e ora pezzo da novanta di Ndc, Roberto Formigoni.  Che annuncia una formula di craxiana memoria e cioè "la collaborazione-competizione" del Psi con la Dc, in questo caso nelle parti del Pd. Sono le 17,40 quando Grasso  annuncia con tono routinario, quasi  fosse una pratica burocratica, la "non convalida dell'elezione a senatore di Silvio Berlusconi in Molise".  Grasso ad un certo punto nel rush sembra ricorrere anche una celebre frase di Nanni Moretti. "E continuiamo così, continuiamo cosi...". Moretti concludeva "a farci del male". Ma quel "continuiamo così" non riguardava la mancata conoscenza della torta sacher. Era "la violazione del regolamento del Senato". Denunciato da Forza Italia con una valanga di ordini del giorno, ben nove, presentati da  Fi (Elisabetta Alberti Casellati, ne ha presentati la maggioranza e a seguire Francesco Nitto Palma, Anna Maria Bernini e lo stato maggiore dei senatori azzurri. Si è invano chiesto il rispetto del regolamento del Senato tornando al voto segreto. Così come è previsto nelle votazioni che riguardano una singola persona. Grasso ha risposto picche anche a Pier Ferdinando Casini e al socialista Enrico Buemi, che hanno tentato di far passare la proposta di buon senso di aspettare almeno la decisione della Cassazione sulla richiesta di interdizione per Berlusconi da parte della Corte d'Appello di Milano. Niente da fare. Alla fine è stato Sandro Bondi ad avvertire tutti "gli amici di Fi" e i garantisti in generale a fermarsi: "Basta, inutile andare avanti, questa è una decisione già scritta. Lasciateli fare, lasciateli di fronte alle loro responsabilità". Poi stilettata ad Alfano: "E ora il Nuovo centrodestra che governi insieme con questi signori". E'  l'inizio di un'opposizione durissima. E con numeri per la maggioranza meno robusti di quanto Enrico Letta abbia vantato. Sulla stabiliità c'è stato uno scarto di 36 voti. 171 sono stati quelli della maggioranza, 135 quelli dell'opposizione. Ma questo perché in realtà una decina di forzisti non si sarebbero presentati. Roberto Calderoli, vicepresidente del Senato, che di  numeri si intende, a Panorama.it conferma: "Almeno sei non c'erano e ho visto anche qualche senatore a vita, mai visto di giorno, figuriamoci  a quell'ora di notte". Era presente ieri per la prima volta Renzo Piano, incorrendo negli strali di Gasparri. Il leader dei lealisti di Fi Raffaele Fitto avverte: "E' incredibile che Letta faccia finta di nulla".

Decadenza Berlusconi. Le reazioni della stampa estera. Dalla Spagna al Brasile, passando per Francia, Usa, Germania, Gran Bretagna, Turchia e Qatar. Le prime pagine dei media mondiali aprono sul Cavaliere e in molti credono che non sia finita qui, scrive Anna Mazzone su “Panorama”. La decadenza di Silvio Berlusconi e la sua uscita dai palazzi ufficiali della politica è un vero e proprio caso internazionale. Praticamente tutti i media del pianeta pubblicano la notizia o corposi dossier sul Cavaliere sulle loro pagine online. Mancano all'appello solo i russi e gli asiatici, ma solo per questione di fuso orario. In Germania la Frankfurter Allgemeine  titola subito dopo la grande coalizione tedesca su "Berlusconi espulso dal Senato". Sottolineando che con la decisione di un ramo del Parlamento italiano l'ex premier perde la sua carica politica più importante. "Fino a poco tempo fa - scrive la FAZ - Berlusconi e il suo partito avevano tentato di tutto per scongiurare l'espulsione dal Senato. I sostenitori di Berlusconi hanno dimostrato a Roma denunciando un golpe e la fine della democrazia". Lo stesso Berlusconi ha nuovamente gridato la sua innocenza davanti ai suoi seguaci, definendo quello di oggi "Un giorno amaro e un giorno di lutto per la democrazia". Die Welt mette prima Berlusconi di Angela Merkel nella priorità delle notizie e sottolinea che "L'ex premier italiano non reagisce in modo morbido all'espulsione dal Senato e annuncia un'opposizione serrata", e cita un duro attacco di Berlusconi alla sinistra italiana: "Oggi sono contenti perché hanno messo i loro avversari davanti al plotone di esecuzione. Sono euforici, perché aspettavano questo momento da 20 anni". Il quotidiano tedesco conclude con la frase del Cavaliere sulla scia delle parole dell'inno di Mameli: "Le parole ci Mameli le prendiamo come un dovere, siamo pronti a morire ..". Per Die Welt l'espulsione di Berlusconi dal Parlamento è un momento storico, che segna la fine della Seconda Repubblica italiana. Lo Spiegel non regala a Berlusconi la sua apertura online, ma mette la sua decadenza comunque in prima pagina. Nel sottolineare che l'ex premier non ha alcuna intenzione di arrendersi, il giornale tedesco pubblica un video che mostra i sostenitori di berlusconi assiepati fuori palazzo Grazioli a poche ore dal voto del Senato, in cui molti giovano dichiarano alle telecamere tedesche che "Loro devono decadere e non Silvio". Lo Spiegel poi affianca Berlusconi a Beppe Grillo, che guida il M5S pur stando fuori dal Parlamento, ma - comunque - scrive il quotidiano teutonico "Per il Cavaliere, in politica dal 1994, restare sulla cresta dell'onda da oggi in poi sarà molto difficile". E passiamo alla Gran Bretagna. Al momento in cui scriviamo la rivista finanziaria The Economist - che già aveva dedicato in passato copertine al vetriolo contro Berlusconi - non ha ancora pubblicato il suo commento sull'avvenuta decadenza. L'ultimo articolo dedicato alle cose della politica italiana risale al 21 novembre scorso a parla di "Una opportunità d'oro" per la politica italiana, dopo la decisione di un gruppo di ex fedelissimi di Berlusconi di passare dall'altra parte. "La divisione del partito di Berlusconi potrebbe rilanciare la coalizione di governo", scommette The Economist. Il Guardian apre la sua edizione online con la decadenza del Cavaliere e pubblica un ricco dossier sull'ex premier italiano, a cominciare da una dettagliata timeline dal titolo Ups and downs of Berlusconi's career - Alti e bassi della carriera di Berlusconi. Il quotidiano britannico, sempre molto duro nei confronti dell'ex presidente del Consiglio, sottolinea che "Con il loro leader sbattuto fuori dal Senato adesso i parlamentari di Forza Italia si cimenteranno in un'opposizione serrata e metteranno in pericolo le riforme istituzionali che il governo di Letta afferma di voler portare a termine". Immancabile la prima pagina del Financial Times  che pubblica una foto scattata a Roma con un sostenitore di Berlusconi che agita un manifesto con il Cavlaiere sotto il simbolo delle Brigate Rosse e la scritta: "Prigioniero politico". Mentre il quotidiano conservatore di Londra, The Telegraph scrive nella sua apertura online: "Silvio Berlusconi, l'uomo che ha dato un nuovo significato alla parola 'faccia tosta', con aria di sfida ha promesso di rimanere al centro della politica italiana di ieri, nonostante sia stato ignominiosamente spogliato del suo seggio in parlamento a seguito di una condanna per massiccia frode fiscale". La versione in inglese di Al Jazeera , l'emittente del Qatar, mette Berlusconi nelle sue notizie di apertura, sottolineando che "L'ex primo ministro italiano è stato cacciato dal Senato in seguito alla sua condanna per frode fiscale". Ma - aggiunge Al Jazeera - "In molti credono che il 77enne possa risorgere ancora". Andiamo ora dall'altra parte dell'oceano. Berlusconi campeggia sulle homepage delle principali testate statunitensi. Sul Wall Street Journal la sua decadenza è la notizia di apertura. Il quotidiano della City americana titola sul "Voto per espellere il politico miliardario condannato per frode fiscale". La testata finanziaria sottolinea che la decadenza di Berlusconi "Ha segnato il culmine di quasi quattro mesi di furore politico che ha avuto inizio in agosto con la condanna per frode fiscale dell'uomo che ha dominato la vita politica italiana per due decenni". In più il WSJ pubblica la storia di Berlusconi e una sua gallery di foto. Il New York Times dà a Berlusconi la sua prestigiosa colonna di sinistra in homepage. L'articolo è firmato da Jim Yardley, che scrive che "L'ex primo ministro, un tempo molto potente, è stato allontanato dal Senato". Yardley prosegue dicendo che "Dopo aver speso mesi fabbricando ad arte ritardi procedurali o congiurando melodrammi politici con il fine di salvarsi, Silvio Berlusconi oggi ha dovuto accettare l'inevitabile: essere espulso dal Senato, un'espulsione tragica ed umiliante, mentre altri potenziali problemi si profilano al suo orizzonte". Il Washington Post  preferisce invece aprire sulla politica interna americana e poi passare solo in seconda battuta al caso della decadenza del Cavaliere. E sulla "resistenza" di Berlusconi il giornale di Washington è possibilista: "Anche se Berlusconi non avrà più un seggio in Parlamento - scrive il giornalista - in molti si aspettano che resti comunque influente nella politica italiana". Grancassa decadenza sul quotidiano spagnolo El Pais, che dedica un'apertura a 8 colonne a Berlusconi e un corposo dossier che ricorda - passo dopo passo - tutta la storia del Cavaliere, dalla sua discesa in campo all'espulsione dal Senato. Corredano il dossier due gallery di immagini. L'incipit dell'articolo principale del quotidiano progressista spagnolo ha toni molto ironici: "Dicono che (Berlusconi) non dorma da molti giorni, che alterna momenti di depressione profonda con altri di un'euforia spropositata che lo porta a esclamare: "Giuro che tornerò a Palazzo Chigi [la sede del Governo]. Il sempre teatrale Silvio Berlusconi sta perdendo la bussola. E, a pensarci bene, questa non è una sorpresa". Meno ironico e più ottimista per le sorti del Cavaliere il quotidiano El Mundo , di area conservatrice. In un editoriale a firma di Miguel Cabanillas che commenta la notizia sulla decadenza pubblicata in apertura dell'edizione online, si definisce Berlusconi "Un'araba fenice con molti epitaffi politici sulle spalle". Un politico sempre pronto a sorprendere e a rinascere. "Come un'araba fenice che rinasce dalle sue cenerei quando tutti lo danno per politicamente morto, il magnate italiano - scrive Cabanillas - non rinuncia al pedigree della sua vita che, nelle ultime due decadi, lo ha trasformato in uno dei leader più popolari nel mondo, idolatrato da una parte e odiato dall'altra". Infine, El Pais riporta le parole dell'ex premier italiano che oggi ha dichiarato: "La battaglia non è ancora finita". Fuoco di fila contro Berlusconi sui quotidiani francesi. Le Monde titola in apertura: "L'Italia senza Berlusconi" e pubblica un corposo dossier che include "I suoi 20 anni di processi" e un articolo sui "Fedelissimi che lo hanno abbandonato passando all'opposizione". Liberation pubblica la notizia tra le prime ma non in apertura e sottolinea il j'accuse di Berlusconi che si dice "vittima di una persecuzione" politica e giudiziaria. Per Le Figaro  (quotidiano conservatore) "Questo è l'ultimo atto di una discesa agli Inferi cominciata a novembre de 2011", quando Silvio Berlusconi fu "Attaccato dai mercati, umiliato al G20 di Cannes e congedato dal presidente Giorgio Napolitano che lo ha rimpiazzato al governo con l'economista Mario Monti. Apertura anche per O Globo , primo quotidiano brasiliano, che senza mezzi termini titola: "Il Senato italiano fa fuori Berlusconi" e poi pubblica un dossier che inizia con un articolo di commento che recita: "Berlusconi, la fine è arrivata", con fotografie di manifestanti anti-Cavaliere fuori dal Senato in attesa dell'esito della votazione. O Globo cita anche un twit di Beppe Grillo, che festeggia "cinguettando" la decadenza scrivendo: "Berlusconi è stato licenziato dal Senato. Uno di loro è fuori. Ora dobbiamo mandare a casa anche tutti gli altri". Infine, prima pagina per Berlusconi anche sui principali media turchi. Hurriyet scrive che "La decisione del Senato potrebbe essere uno spartiacque nella carriera del leader che ha dominato la politica italiana per due decenni". Il quotidiano di Ankara così commenta: "Il voto, che arriva dopo mesi di scontri politici, apre una fase incerta nella politica italiana, con il 77enne miliardario che si prepara a usare tutte le sue enormi risorse per attaccare la coalizione di Governo guidata dal premier Enrico Letta".

Urss, Kissinger, massoneria Ecco i misteri di Napolitano. Da dirigente Pci intrattenne rapporti riservati con Unione sovietica e Usa, dove andò durante il sequestro Moro. E da allora la "fratellanza" mondiale lo tratta con riguardo scrive Paolo Bracalini  su “Il Giornale”. «Il presidente Napolitano è stato sempre garante dei poteri forti a livello nazionale e degli equilibri internazionali sull'asse inclinato dal peso degli Stati Uniti» scrivono i giornalisti di inchiesta Ferruccio Pinotti (del Corriere della sera) e Stefano Santachiara (Il Fatto) in "I panni sporchi della sinistra" (ed. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano Chiarelettere). Il primo ritratto, di 60 pagine, è dedicato proprio al presidente della Repubblica («I segreti di Napolitano»), «l'ex ministro degli esteri del Pci» come lo definì Bettino Craxi interrogato dal pm Di Pietro nel processo Enimont. I rapporti con Mosca, quelli controversi con Berlusconi (il mensile della corrente migliorista del Pci, Il Moderno, finanziato da Fininvest, ma anche dai costruttori Ligresti e Gavio), e le relazioni oltreoceano, con Washington. Una storia complessa, dalla diffidenza iniziale del Dipartimento di Stato Usa e dell'intelligence americana («nel 1975 a Napolitano gli fu negato il visto, come avveniva per tutti i dirigenti comunisti»), alle aperture dell'ambasciata Usa a Roma, al «misterioso viaggio» di Napolitano negli Stati uniti nel '78, nei giorni del sequestro Moro, l'altro viaggio insieme a Occhetto nel 1989, fino «all'incontro festoso, molti anni dopo, nel 2001, a Cernobbio, con Henry Kissinger, ex braccio destro di Nixon, che lo saluta calorosamente: My favourite communist, il mio comunista preferito. Ma Napolitano lo corregge ridendo: Il mio ex comunista preferito!». Il credito di Napolitano presso il mondo anglosassone si dipana nel libro-inchiesta anche su un fronte diverso, che Pinotti segue da anni, la massoneria, e che si intreccia con la storia più recente, in particolare con le dimissioni forzate di Berlusconi nel 2011, a colpi di spread e pressioni delle diplomazie internazionali. Su questo terreno gli autori fanno parlare diverse fonti, tra cui una, di cui non rivela il nome ma l'identikit: «Avvocato di altissimo livello, cassazionista, consulente delle più alte cariche istituzionali, massone con solidissimi agganci internazionali in Israele e negli Stati Uniti, figlio di un dirigente del Pci, massone, e lui stesso molto vicino al Pd». Il quale racconta: «Già il padre di Giorgio Napolitano è stato un importante massone, una delle figure più in vista della massoneria partenopea» (proprio nei giorni successivi all'uscita del libro sarebbe spuntata, dagli archivi di un'associazione massonica di primo piano, la tessera numerata del padre di Napolitano). Tutta la storia familiare di Napolitano è riconducibile all'esperienza massonica partenopea, che ha radici antiche e si inquadra nell'alveo di quella francese...». Avvocato liberale, poeta e saggista, Giovanni Napolitano avrebbe trasmesso al figlio Giorgio (legatissimo al padre) non solo l'amore per i codici «ma anche quello per la fratellanza» si legge. E poi: «Per quanto riguarda l'attuale presidente, negli ambienti massonici si sussurra da tempo di simpatie della massoneria internazionale nei confronti dell'unico dirigente comunista che a metà anni Settanta, all'epoca della Guerra fredda, sia stato invitato negli Stati Uniti a tenere un ciclo di lectures presso prestigiosi atenei. Napolitano sarebbe stato iniziato, in tempi lontani, direttamente alla «fratellanza» anglosassone (inglese o statunitense)». Da lì il passo ad accreditare la tesi, molto battuta in ambienti complottisti, di un assist guidato a Mario Monti, è breve, e viene illustrata da un'altra fonte, l'ex Gran maestro Giuliano Di Bernardo («criteri massonici nella scelta di Mario Monti») e da uno 007 italiano. L'asse di Berlusconi con Putin - specie sul dossier energia - poco gradito in certi ambienti, entra in questo quadro (fantapolitica?). Con un giallo finale nelle pagine del libro, raccontato dalla autorevole fonte (senza nome): Putin avrebbe dato a Berlusconi delle carte su Napolitano. Se queste carte esistono, riguardano più i rapporti americani di Napolitano che quelli con i russi». Materiale per una avvincente spy story su Berlusconi, Napolitano, Monti, Putin, la Cia, il Bilderberg...

Il Cav fu costretto da Napolitano a dimettersi perché voleva che l'Italia uscisse dall'euro, scrive Magdi Cristiano Allam  su “Il Giornale”. Alla luce delle recenti rivelazioni, si conferma che il 12 novembre 2011 Berlusconi fu costretto da Napolitano a dimettersi da presidente del Consiglio, pur in assenza di un voto di sfiducia del Parlamento, perché in seno ai vertici dell'Ue aveva ventilato la possibilità che l'Italia esca dall'euro. Di fatto fu un colpo di Stato ordinato dai poteri forti in seno all'Unione europea e alla Bce, innanzitutto la Germania di Angela Merkel, manovrando l'impennata dello spread (il differenziale tra Btp-Bund) che sfiorò i 600 punti alimentando un clima di terrorismo finanziario, politico e mediatico, con la connivenza dei poteri finanziari speculativi che determinarono il crollo delle azioni Mediaset in Borsa, realizzato con un comportamento autocratico di Napolitano che in quattro giorni ottenne le dimissioni di Berlusconi, nominò Mario Monti senatore a vita e lo impose a capo di un governo tecnocratico a cui lo stesso Berlusconi fu costretto a dare fiducia. Questo complotto contro il governo legittimo di uno Stato sovrano va ben oltre l'ambito personale. Lorenzo Bini Smaghi, membro del Comitato esecutivo della Bce dal giugno 2005 al 10 novembre 2011, a pagina 40 del suo recente libro Morire d'austerità rivela: «Non è un caso che le dimissioni del primo ministro greco Papandreou siano avvenute pochi giorni dopo il suo annuncio di tenere un referendum sull'euro e che quelle di Berlusconi siano anch'esse avvenute dopo che l'ipotesi di uscita dall'euro era stata ventilata in colloqui privati con i governi degli altri Paesi dell'euro». Hans-Werner Sinn, presidente dell'Istat tedesco, durante il convegno economico Fuehrungstreffen Wirtschaft 2013 organizzato a Berlino dal quotidiano Sueddeutsche Zeitung, ha rivelato negli scorsi giorni: «Sappiamo che nell'autunno 2011 Berlusconi ha avviato trattative per far uscire l'Italia dall'euro». Lo stesso Berlusconi, intervenendo sabato scorso a un raduno della Giovane Italia, ha rivelato: «Oggi operiamo con una moneta straniera, che è l'euro»; «Siamo nelle stesse condizioni dell'Argentina che emetteva titoli in dollari»; «Il Giappone ha un debito pubblico del 243% rispetto al Pil ma ha sovranità monetaria»; «Le mie posizioni nell'Ue hanno infastidito la Germania»; «La Germania ordinò alle sue banche di vendere i titoli italiani per far salire lo spread, provocando l'effetto gregge»; «Nel giugno 2011 Monti e Passera preparavano già il programma del governo tecnico»; «Nel 2011 ci fu una volontà precisa di far fuori il nostro governo»; «Al Quirinale mi dissero che per il bene del Paese avrei dovuto cedere la guida del governo ai tecnici». Nessuno si illude che la magistratura, ideologicamente schierata a favore della sinistra, interverrà per sanzionare Napolitano (che è il presidente del Csm) o per salvaguardare la sovranità nazionale dell'Italia dalla dittatura dell'Eurocrazia e della finanza globalizzata. Dobbiamo prendere atto che siamo in guerra. Abbiamo perso del tutto la sovranità monetaria, all'80% la sovranità legislativa e ci stanno spogliando della sovranità nazionale. Berlusconi, a 77 anni, limitato sul piano dell'agibilità politica, può oggi dare un senso alto alla sua missione politica contribuendo con tutto il suo carisma e le sue risorse al riscatto della nostra sovranità monetaria, legislativa, giudiziaria e nazionale dalla schiavitù dell'euro, dalla sudditanza di questa Ue alla Germania, ai banchieri e ai burocrati, dalla partitocrazia consociativa che ha ucciso la democrazia sostanziale e lo Stato di diritto, perpetuando uno Stato onerosissimo che impone il più alto livello di tassazione al mondo che finisce per condannare a morte le imprese. Ma bisogna rompere ogni indugio schierandosi con imprenditori, famiglie, sindaci e forze dell'ordine, promuovendo subito la rete di tutti coloro che condividono la missione di salvare gli italiani e far rinascere l'Italia libera, sovrana e federalista. Zapatero rivela: il Cav obiettivo di un attacco dei leader europei.

In un libro l'ex premier spagnolo svela i retroscena del G20 di Cannes nel 2011 e il pressing sull'Italia per accettare i diktat Fmi: "Si parlava già di Monti", scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Vorremmo dire «clamoroso», ma non è così perché sapevamo da tempo, e lo abbiamo più volte scritto, che non solo in Italia ma anche dall'estero arrivavano pesanti pressioni per far fuori Silvio Berlusconi. L'ultima prova, che conferma la volontà di rovesciare un governo democraticamente eletto, la rivela l'ex premier spagnolo Luis Zapatero, che nel libro El dilema (Il dilemma), presentato a Madrid, porta alla luce inediti retroscena sulla crisi che minacciò di spaccare l'Eurozona. Il 3 e 4 novembre 2011 sono i giorni ad altissima tensione del vertice del G-20 a Cannes, sulla Costa Azzurra. Tutti gli occhi sono puntati su Italia e Spagna che, dopo la Grecia, sono diventate l'anello debole per la tenuta dell'euro. Il presidente americano Barack Obama e la cancelliera tedesca Angela Merkel mettono alle corde Berlusconi e Zapatero, cercando di imporre all'Italia e alla Spagna gli aiuti del Fondo monetario internazionale. I due premier resistono, consapevoli che il salvataggio da parte del Fmi avrebbe significato accettare condizioni capestro e cedere di fatto la sovranità a Bruxelles, com'era già accaduto con Grecia, Portogallo e Cipro. Ma la Germania con gli altri Paesi nordici, impauriti dagli attacchi speculativi dei mercati, considerano il vertice di Cannes decisivo e vogliono risultati a qualsiasi costo. Le pressioni sono altissime. Zapatero descrive la cena del 3 novembre, con il tavolo «piccolo e rettangolare per favorire la vicinanza e un clima di fiducia». Ma l'atmosfera è esplosiva. «Nei corridoi si parlava di Mario Monti», rivela il premier spagnolo. Già, Monti. Che solo una settimana dopo sarà nominato senatore a vita da Napolitano e che il 12 novembre diventerà premier al posto di Berlusconi. Il piano era già congegnato, con il Quirinale pronto a soggiacere ai desiderata dei mercati e di Berlino. La Merkel domanda a Zapatero se sia disponibile «a chiedere una linea di credito preventiva di 50 miliardi di euro al Fondo monetario internazionale, mentre altri 85 sarebbero andati all'Italia. La mia risposta fu diretta e chiara: no», scrive l'ex premier spagnolo. Allora i leader presenti concentrano le pressioni sul governo italiano perché chieda il salvataggio, sperando di arginare così la crisi dell'euro. «C'era un ambiente estremamente critico verso il governo italiano», ricorda Zapatero, descrivendo la folle corsa dello spread e l'impossibilità da parte del nostro Paese di finanziare il debito con tassi che sfiorano il 6,5 per cento. Insomma, i leader del G-20 sono terrorizzati dai mercati e temono che il contagio possa estendersi a Paesi europei come la Francia se non prendono il toro per le corna. Il toro in questo caso è l'Italia. «Momenti di tensione, seri rimproveri, invocazioni storiche, perfino invettive sul ruolo degli alleati dopo la seconda guerra mondiale...», caratterizzano il vertice. «Davanti a questo attacco - racconta l'ex leader socialista spagnolo - ricordo la strenua difesa, un catenaccio in piena regola» di Berlusconi e del ministro dell'Economia Giulio Tremonti. «Entrambi allontanano il pallone dall'area, con gli argomenti più tecnici Tremonti o con le invocazioni più domestiche di Berlusconi», che sottolinea la capacità di risparmio degli italiani. «Mi è rimasta impressa una frase che Tremonti ripeteva: conosco modi migliori di suicidio». Alla fine si raggiunge un compromesso, con Berlusconi che accetta la supervisione del Fmi ma non il salvataggio. Ma tutto ciò costerà caro al Cavaliere. «È un fatto - sostiene Zapatero - che da lì a poco ebbe effetti importantissimi sull'esecutivo italiano, con le dimissioni di Berlusconi, dopo l'approvazione della Finanziaria con le misure di austerità richieste dall'Unione europea, e il successivo incarico al nuovo governo tecnico guidato da Mario Monti».

Un governo, ora sappiamo con certezza, eletto da leader stranieri nei corridoi di Cannes e non dalla volontà popolare degli italiani. Verrà un giorno in cui l’Italia troverà il coraggio e l’onestà di rileggere (alcuni, se la coscienza li soccorrerà, lo faranno non senza vergogna) la storia di questi giorni, prima ancora di dedicarsi all’analisi del cosiddetto ventennio di Silvio Berlusconi. Perché è da qui, dai giorni tristi e terribili dell’umiliazione del Diritto, che bisognerà partire per spiegare come sia stato possibile arrivare al sabbah giacobino contro il Cavaliere al Senato in barba a regole, buon senso e dignità, scrive Giorgio Mulè, direttore di “Panorama”, nel suo editoriale. Era cominciato tutto dopo la sentenza di condanna del 2 agosto emessa (prima anomalia) da una sezione feriale della Cassazione, presieduta da un magistrato chiacchierone (seconda anomalia) che non avrebbe dovuto giudicare l’ex premier. Una sentenza in palese contraddizione con i verdetti di due sezioni «titolari» della Suprema corte (terza anomalia) che avevano valutato le stesse identiche prove nella vicenda della compravendita dei diritti televisivi giungendo alla conclusione opposta, e cioè che l’ex premier era innocente. Ma innocente nel profondo, senza ombra di dubbio e senza nemmeno una formula dubitativa che, come un sigaro, non si nega mai a nessuno. Una classe politica prigioniera della sua mediocrità e ossessionata dalla presenza di Berlusconi non poteva far altro che cogliere l’occasione. A cominciare da Beppe Grillo e dai suoi accoliti, arrivati in Parlamento con l’ambizioso programma fondato sull’eliminazione del Cav. Così, dal 2 agosto, è iniziata una corsa orgiastica e forsennata per liberarsi dell’odiato Caimano. In prima fila, a battere il tamburo per la caccia grossa, ci sono stati sempre loro, gli avanguardisti della Repubblica con i cugini del Fatto quotidiano, la falange editoriale che tiene al guinzaglio la mejo sinistra e che ha sempre vissuto con il complesso di disfarsi del male assoluto incarnato nell’uomo di Arcore. Il tutto portato avanti con la solita tecnica becera delle inchieste da buco della serratura grazie all’ausilio di compiacenti magistrati (quarta anomalia), della lettura distorta degli atti, del moralismo ipocrita un tanto al chilo e a senso unico. Una sentina maleodorante spacciata per giornalismo nobile dove si sorvola se a finire accusato di gravissimi reati c’è Carlo De Benedetti. Chi poteva fermare questa ordalia non l’ha fatto. Avrebbe potuto e dovuto farlo Giorgio Napolitano, in virtù dell’alto ed esclusivo ruolo che gli assegna la Costituzione. Avrebbe dovuto usare la tanto sbandierata moral suasion (quinta anomalia) per ricondurre alla ragione i sanculotti del suo ex partito e provare nell’ardua impresa di riuscirci con gli attuali maggiorenti; a cominciare da Matteo Renzi che scimmiotta Fonzie, si indigna per una battuta in un cartone animato dei Simpson e non si rende conto di essere la copia spiccicata (per la profondità delle riflessioni…) del simpatico Kermit, il leader indiscusso dei pupazzi del Muppet show. E invece dal Colle sono venute fuori interpretazioni pelose delle procedure e più o meno pubblici risentimenti per le sacrosante lamentele espresse da un Berlusconi profondamente deluso. Bisogna prendere atto chiaramente che Napolitano poteva concedere la grazia al Cavaliere e non solo per la pena principale ma anche per quella accessoria, cioè l’interdizione dai pubblici uffici, eventualità da lui espressamente negata nella lunga nota del 13 agosto. Non è vero che per la concessione del beneficio fosse necessario aver accettato la sentenza o aver iniziato a espiare la pena (sesta anomalia). È una balla. Il 5 aprile di quest’anno, il Quirinale comunicava: «Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ai sensi dell’articolo 87, comma 11, della Costituzione, ha oggi concesso la grazia al colonnello Joseph L. Romano III, in relazione alla condanna alla pena della reclusione (7 anni, ndr) e alle pene accessorie (interdizione perpetua dai pubblici uffici, ndr) inflitta con sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 dicembre 2010, divenuta irrevocabile il 19 settembre 2012. La decisione è stata assunta dopo aver acquisito la documentazione relativa alla domanda avanzata dal difensore avvocato Cesare Graziano Bulgheroni, le osservazioni contrarie del procuratore generale di Milano e il parere non ostativo del ministro della Giustizia». Per la cronaca: il colonnello era fra gli imputati del rapimento e delle  successive  torture  dell’imam  Abu  Omar,  non  si  è  presentato  mai    al  processo,  non  ha  mai  confessato  alcunché,  non  si  è  mai  pentito  del  gesto,  non  ha  chiesto  scusa  a  nessuno,  non  ha  mai  scontato  un giorno  di  carcere  e  per  la  giustizia  italiana  era  un  latitante  al  pari del  superboss  Matteo  Messina  Denaro.  La  grazia  giunse  dal  Colle dopo  appena  7  mesi  dalla  pronuncia  definitiva  della  Cassazione e  con  il  parere  contrario  dei  magistrati. C’è  ancora  qualche  anima  bella  o  dannata  disposta  a  sostenere  la  tesi  che  il  presidente  della  Repubblica  non  poteva  adottare  lo stesso  metodo  nei  confronti  di  Silvio  Berlusconi?  Chiamiamo  le cose  con  il  loro  nome:  è  mancato  il  coraggio  per  concedere  la grazia.  Il  provvedimento  avrebbe  aperto  una  fase  nuova  nella storia  di  questo  Paese,  sarebbe  stato  l’atto  di  non  ritorno  verso la  pacificazione  dopo  vent’anni  di  guerra  combattuta  nel  nome dell’eliminazione  per  via  giudiziaria  del  Cavaliere  il  quale,  statene certi,  avrebbe  abbandonato  la  politica  attiva.  Il  capo  dello  Stato ha  avuto  l’opportunità  di  consegnarsi  alla  storia  e  non  l’ha  fatto.  E solo  quando  giungerà  quel  famoso  giorno  in  cui  gli  avvenimenti  di oggi  potranno  essere  riletti  senza  veli  e  senza  partigianerie  capiremo se  al  suo  mancato  gesto  dovremo  aggiungere  i  caratteri  poco commendevoli  del  cinismo,  della  pavidità  o  del  calcolo  politico. Nel  quadro  tenebroso  dell’oggi  trova  un  posto  nitido  Enrico Letta,  il  presidente  del  Consiglio  che  ha  conferito  a  questo  Paese una  stabilità  degna  di  un  cimitero,  come  ha  giustamente  notato il  Wall  Street  Journal.  Incapace  di  avviare  le  riforme  oramai  improcrastinabili per  l’Italia,  Letta  non  è  stato  neppure  capace  di imporre  il  più  impercettibile  distinguo  sulla  giustizia  (settima anomalia)  ed  è  rimasto  avvinghiato  al  doroteismo  stucchevole di  una  linea  che  voleva  tenere  distinte  la  vicenda  di  Berlusconi e  le  sorti  dell’esecutivo  quando  anche  un  bambino  ne  coglieva l’intimo  intreccio.  Ma  i  bambini,  si  sa,  hanno  la  vista  lunga.  E  ora tutti  sanno,  anche  quelli  dell’asilo,  che  l’unico  orizzonte  di  Letta non  è  quello  di  varare  le  riforme,  giustizia  compresa,  ma  quello di  mantenere  il  potere. E  infatti  eccoci  all’ottava  anomalia,  Angelino  Alfano:  ha mollato  il  Pdl  per  fondare  il  Nuovo  centrodestra,  che  al  momento si  distingue  solo  per  la  fedeltà  interessata  al  governo.  Sarebbe toccato  proprio  ad  Angelino  costringere  Napolitano  e  Letta  a guardare  la  realtà,  a  spalancare  gli  occhi  sullo  scempio  del  diritto che  si  stava  consumando,  a  denunciare  con  argomenti  solidi  e  di verità  l’inganno  di  una  procedura  interpretata  in  maniera  torbida e  manigolda.  Come  quella  della  retroattività  della  legge  Severino sulla  decadenza  (nona  anomalia),  che  una  pletora  di  giuristi  e politici  di  buon  senso  non  affini  ma  certamente  lontani  dal  mondo berlusconiano  voleva  affidare  al  vaglio  della  Corte  costituzionale per  un’interpretazione  autentica. Anche  per  questo  motivo  il luogotenente  del  Cav  avrebbe  dovuto  elevare  il  caso  B  a  caso internazionale,  avrebbe  dovuto  sfidare  in  campo  aperto  i  satrapi dell’informazione  truccata.  E  invece  ha  preferito  chinarsi  sulla propria  poltroncina,  talmente  affascinato,  e  impaurito  di  perderla, da  consumare  lo  strappo  di  ogni  linea  politica  e  di  ogni  rapporto umano  con  il  proprio  leader. Napolitano,  Letta,  Alfano:  in  questo  triangolo  delle  Bermude, che  si  autoalimenta  nel  nome  dello  status  quo  e  di  un  governo fatto  solo  di  tasse  e  bugie,  c’è  finito  Silvio  Berlusconi.  E  la  conclusione della  storia  è  stata  ovvia:  l’hanno  inghiottito,  macinato  ed espulso  senza  tanti  complimenti.  Neppure  il  colpo  di  reni  finale hanno  sfruttato  i  tre  del  triangolo  mortale,  quello  offerto  dalle nuove  prove  squadernate  dall’ex  premier  per  chiedere  la  revisione del  processo.  Un  percorso  perfettamente  legalitario,  quello del  Cav,  condotto  all’interno  del  perimetro  disegnato  dal  Codice di  procedura  penale  e  che  avrebbe  dovuto  fermare  la  mannaia dell’espulsione  dal  Senato.  Per  mille  motivi,  ma  soprattutto  per una  possibile  e  atroce  beffa:  se  la  Corte  d’appello  darà  ragione al  Cavaliere  e  lo  proscioglierà,  lui  si  troverà  già  fuori  da  Palazzo Madama.  E  nessuno  potrà  dirgli:  «Prego,  ci  scusi,  si  accomodi  e riprenda  il  suo  posto».  Con  il  corollario  non  secondario  che,  senza lo  scudo  da  senatore,  i  picadores  in  toga  potranno  infilzare  il  Cav e  compiere  l’ultimo  sfregio:  l’arresto  (decima  anomalia). In  questa  cornice  assai  triste  tocca  togliersi  il  cappello  di  fronte al  coraggio  di  Francesco  Boccia,  deputato  del  Pd  di  prima  fila (almeno  fino  al  9  dicembre,  quando  Matteo  «Kermit»  si  presenterà sul  palco  della  segreteria  del  partito)  che  martedì  26  novembre, dopo  aver  visto  gli  elementi  esposti  da  Berlusconi,  ha  dichiarato: «Se  fosse  così  mi  aspetto  una  revisione  del  processo  come  per qualsiasi  altro  cittadino».  E  ancora:  «In  un  Paese  normale  si  sarebbe aspettata  la  delibera  della  Corte  costituzionale  sull’interpretazione della  legge  Severino».  Un  Paese  normale  questo?  È  una  battutona, ditelo  a  Matteo  «Kermit»,  che  magari  se  la  rivende.  Dovrà  fare  in  fretta, però.  Perché  adesso  inizia  un’altra  faida,  che  lo  metterà  contro Letta  e  Napolitano.  I  tre  non  possono  convivere:  i  loro  interessi  non sono  convergenti,  i  loro  orizzonti  non  corrispondono.  Per  questo, già  prima  dell’8  dicembre,  ne  vedremo  delle  belle.  Sarà  il  seguito della  politica  da  avanspettacolo  che  ci  hanno  rifilato  negli  ultimi mesi.  Successe  più  o  meno  la  stessa  cosa  ai  tempi  di  monsieur  de Robespierre  e  dei  giacobini.  Fatto  fuori  il  re,  si  illusero  di  avere  la Francia  in  pugno.  Manco  per  niente.  Iniziarono  a  scannarsi  l’un l’altro.  Fin  quando  un  giorno  accompagnarono  Robespierre,  l’Incorruttibile, al  patibolo.  Gli  gridavano  dietro:  «Morte  al  tiranno». Avete  capito  la  storia?

Dopo gli Anni di piombo e le decine di magistrati uccisi dalle Brigate rosse e dall'eversione di destra e di sinistra la corrente di Md più vicina al Partito comunista scala le gerarchie della magistratura e impone il suo diktat, come racconta al Giornale un ex giudice di Md: «Serve una giurisprudenza alternativa per legittimare la lotta di classe e una nuova pace sociale». Ma serviva una legittimazione incrociata. Non dallo Stato né dal popolo, ma da quel Pci diventato Pds in crisi d'identità dopo il crollo del Muro di Berlino. Tangentopoli nacque grazie a un matrimonio d'interessi e un nemico comune: Bettino Craxi.

Quell'abbraccio tra Pci e Md che fece scattare Mani pulite. Magistratura democratica pianificò l'alleanza col Pds sul giustizialismo per ridare smalto alle toghe e offrire agli eredi del Pci il ruolo di moralizzatore contro la corruzione in Italia, scrive Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. «La piattaforma politico-programmatica elaborata per la nuova Magistratura democratica poteva convincere ed attirare buona parte dei giovani magistrati, cresciuti politicamente e culturalmente nel crogiolo sessantottino. Ma bisognava fornire a Md una base giuridica teorica che potesse essere accettata dal mondo accademico e da una parte consistente della magistratura. Ancora una volta fu la genialità di Luigi Ferrajoli a trovare una risposta: «La giurisprudenza alternativa (...) è diretta ad aprire e legittimare (...) nuovi e più ampi spazi alle lotte delle masse in vista di nuovi e alternativi assetti di potere (...). Una formula che configura il giudice come mediatore dei conflitti in funzione di una pace sociale sempre meglio adeguata alle necessità della società capitalistica in trasformazione». In qualunque democrazia matura la prospettiva tracciata da Ferrajoli non avrebbe suscitato altro che una normale discussione accademica tra addetti ai lavori: ma la verità dirompente era tutta italiana. Celato da slogan pseudorivoluzionari, il dibattito nel corpo giudiziario ad opera di Md negli anni '70 e '80 presentava questo tema fondamentale: a chi spetta assicurare ai cittadini nuovi fondamentali diritti privati e sociali? Al potere politico (e di quale colore) attraverso l'emanazione di norme (almeno all'apparenza) generali ed astratte, o all'ordine giudiziario con la propria giurisprudenza «alternativa»? Un dubbio devastante cominciò a infiltrarsi tra i magistrati di Md. Se la magistratura (o almeno la sua parte «democratica») era una componente organica del movimento di classe e delle lotte proletarie, allora da dove proveniva la legittimazione dei giudici a «fare giustizia»? Dallo Stato (come era quasi sempre accaduto), che li aveva assunti previo concorso e li pagava non certo perché sovvertissero l'ordine sociale? Dal popolo sovrano? Da un partito? Quelli furono anni tragici per l'Italia. Tutte le migliori energie della magistratura furono indirizzate a combattere i movimenti eversivi che avevano scelto la lotta armata e la sfida violenta allo Stato borghese: i giudici «democratici» pagarono un prezzo elevato, l'ala sinistra della corrente di Md rimase isolata mentre l'ala filo-Pci di Md mantenne un basso profilo. Dell'onore postumo legato al pesante prezzo di sangue pagato dai giudici per mano brigatista beneficiarono indistintamente tutte le correnti dell'ordine giudiziario, compresa Md e la magistratura utilizzò questo vernissage per rifarsi un look socialmente accettabile. Solo la frazione di estrema sinistra di Md ne fu tagliata fuori, e questo determinò - alla lunga - la sua estinzione. Alcuni furono - per così dire - «epurati»; a molti altri fu garantito un cursus honorum di tutto rispetto, che fu pagato per molti anni a venire (Europarlamento, Parlamento nazionale, cariche prestigiose per chi si dimetteva, carriere brillanti e fulminee per altri). Quelli che non si rassegnarono furono di fatto costretti al silenzio e poi «suicidati» come Michele Coiro, già procuratore della Repubblica di Roma, colpito il 22 giugno 1997 da infarto mortale, dopo essere stato allontanato dal suo ruolo (promoveatur ut amoveatur) dal Csm. L'ala filo Pci/Pds di Md, vittoriosa all'interno della corrente, non era né poteva diventare un partito, in quanto parte della burocrazia statale. Cercava comunque alleati per almeno due ragioni: difendere e rivalutare un patrimonio di elaborazione teorica passato quasi indenne attraverso il terrorismo di estrema sinistra e la lotta armata e garantire all'intera «ultracasta» dei magistrati gli stessi privilegi (economici e di status) acquisiti nel passato, pericolosamente messi in discussione fin dai primi anni '90. Questo secondo aspetto avrebbe di sicuro assicurato alla «nuova» Md l'egemonia (se non numerica certo culturale) sull'intera magistratura associata: l'intesa andava dunque trovata sul terreno politico, rivitalizzando le parole d'ordine dell'autonomia e indipendenza della magistratura, rivendicando il controllo di legalità su una certa politica e proclamando l'inscindibilità tra le funzioni di giudice e pubblico ministero. Non ci volle molto ad individuare i partiti «nemici» e quelli potenzialmente interessati ad un'alleanza di reciproca utilità. Alla fine degli anni '80 il Pci sprofondò in una gravissima crisi di identità per gli eventi che avevano colpito il regime comunista dell'Urss. Non sarebbe stato sufficiente un cambiamento di look: era indispensabile un'alleanza di interessi fondata sul giustizialismo, che esercitava grande fascino tra i cittadini, in quanto forniva loro l'illusione di una sorta di Nemesi storica contro le classi dirigenti nazionali, che avevano dato pessima prova di sé sotto tutti i punti di vista. La rivincita dei buoni contro i cattivi, finalmente, per di più in forme perfettamente legali e sotto l'egida dei «duri e puri» magistrati, che si limitavano a svolgere il proprio lavoro «in nome del popolo». Pochi compresero che sotto l'adempimento di un mero dovere professionale poteva nascondersi un nuovo Torquemada. Il Pci/Pds uscì quasi indenne dagli attacchi «dimostrativi» (tali alla fine si rivelarono) della magistratura che furono inseriti nell'enorme calderone noto come Mani Pulite: d'altronde il «vero» nemico era già perfettamente inquadrato nel mirino: Bettino Craxi. Chi scrive non è ovviamente in grado di dire come, quando e ad opera di chi la trattativa si sviluppò: ma essa è nei fatti, ed è dimostrata dal perfetto incastrarsi (perfino temporale) dei due interessi convergenti. Naturalmente esistono alleanze che si costituiscono tacitamente, secondo il principio che «il nemico del mio nemico è mio amico», e non c'è bisogno di clausole sottoscritte per consacrarle. Quando il pool graziò il Pds e i giudici diventarono casta. Mani pulite con la regia di Md sfiorò il partito per dimostrare che avrebbe potuto colpire tutti Il Parlamento si arrese, rinunciando all'immunità. E così consegnò il Paese ai magistrati - continua Sergio d'Angelo su “Il Giornale”. - Per rendersi credibile alla magistratura, il tacito accordo tra Md e Pds avrebbe dovuto coinvolgere magistrati della più varia estrazione e provenienza politica e culturale. Nel 1989 era entrato in vigore il nuovo codice di procedura penale che apriva la strada ad un'attività dell'accusa priva di qualunque freno, nonostante l'introduzione del Gip (giudice delle indagini preliminari), in funzione di garanzia dei diritti della difesa. C'è un significativo documento - intitolato I mestieri del giudice - redatto dalla sezione milanese di Md a conclusione di un convegno tenutosi a Renate il 12 marzo 1988, in casa del pm Gherardo Colombo. In quel testo l'allora pm di Milano Riccardo Targetti tracciò una netta distinzione tra «pm dinamico» e «pm statico», schierandosi naturalmente a favore della prima tipologia, come il nuovo codice gli consentiva di fare. Che cosa legava tra loro i componenti del pool Mani pulite? Nulla. Che Gerardo D'Ambrosio (chiamato affettuosamente dai colleghi zio Jerry) fosse «vicino» al Pci lo si sapeva (lui stesso non ne faceva mistero), ma non si dichiarò mai militante attivo di Md. Gherardo Colombo era noto per aver guidato la perquisizione della villa di Licio Gelli da cui saltò fuori l'elenco degli iscritti alla P2: politicamente militava nella sinistra di Md, anche se su posizioni moderate. Piercamillo Davigo era notoriamente un esponente di Magistratura indipendente, la corrente più a destra. Francesco Greco era legato ai gruppuscoli dell'estrema sinistra romana (lui stesso ne narrava le vicende per così dire «domestiche»), ma nel pool tenne sempre una posizione piuttosto defilata. Infine, Di Pietro, una meteora che cominciò ad acquistare notorietà per il cosiddetto «processo patenti» (che fece piazza pulita della corruzione nella Motorizzazione civile di Milano) e l'informatizzazione accelerata dei suoi metodi di indagine, per la quale si avvalse dell'aiuto di due carabinieri esperti di informatica. Il 28 febbraio 1993, a un anno dall'arresto di Mario Chiesa, cominciano a manifestarsi le prime avvisaglie di un possibile coinvolgimento del Pds nell'inchiesta Mani pulite con il conto svizzero di Primo Greganti alias «compagno G» militante del partito, che sembra frutto di una grossa tangente. Il 6 marzo fu varato il decreto-legge Conso che depenalizzava il finanziamento illecito ai partiti. Il procuratore Francesco Saverio Borrelli va in tv a leggere un comunicato: la divisione dei poteri nel nostro Paese non c'era più. Il presidente Oscar Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare il decreto, affossandolo. Alla fine di settembre il cerchio sembra stringersi sempre di più intorno al Pds, per tangenti su Malpensa 2000 e metropolitana milanese: tra smentite del procuratore di Milano Borrelli e timori di avvisi di garanzia per Occhetto e D'Alema, la Quercia è nel panico. Il 5 ottobre Il Manifesto titola I giudici scagionano il Pds: l'incipit dell'articolo - a firma Renata Fontanelli - è il seguente: «. La posizione di Marcello Stefanini, segretario amministrativo della Quercia e parlamentare, verrà stralciata e Primo Greganti (il «compagno G») verrà ritenuto un volgare millantatore. Il gip Italo Ghitti (meglio noto tra gli avvocati come «il nano malefico») impone alla Procura di Milano di indagare per altri quattro mesi poi il 26 ottobre come titola il Manifesto a pagina 4 titola D'Ambrosio si ritira dal pool per impedire speculazioni sui suoi rapporti «amicali» con il Pds. Quali indicazioni si possono trarre da questa vicenda? Il pool dimostrò che la magistratura sarebbe stata in grado di colpire tutti i partiti, Pds compreso; la Quercia era ormai un partito senza ideologia e il suo elettorato si stava fortemente assottigliando (era al 16%): c'era dunque la necessità di trovare un pensiero politico di ricambio, che poteva venire solo dall'esterno; nessuna forza politica avrebbe mai potuto modificare l'assetto istituzionale nonché l'ordinamento giudiziario senza il consenso della magistratura; alla magistratura fu fatto quindi comprendere che l'unico modo di conservare i propri privilegi sarebbe stato quello di allearsi con un partito in cerca di ideologia. Il Psi con Bettino Craxi, Claudio Martelli e Giuliano Amato avevano minacciato o promesso un drastico ridimensionamento dei poteri e privilegi dell'ordine giudiziario. Ma la reazione delle toghe fu tanto forte da indurre un Parlamento letteralmente sotto assedio e atterrito a rinunciare ad uno dei cardini fondamentali voluto dai costituenti a garanzia della divisione dei poteri: l'immunità parlamentare. A questo punto il pallino passò al Pds, che non tardò a giocarselo. Senza una vera riforma il Paese resterà ostaggio del potere giudiziario. I giudici sono scesi in guerra per non rinunciare ai privilegi, guidati dalla nuova "giustizia di classe" che Md è riuscita a imporre alle toghe. È arrivato il momento di tirare le somme su quanto è accaduto tra magistratura e politica negli ultimi venti anni. Magistratura democratica avrebbe dovuto rappresentare una componente del «movimento di classe» antagonista allo sviluppo capitalistico della società. L'ala filo-Pci della corrente fu decisamente contraria a questa scelta così netta, e per molti anni praticò una sorta di «entrismo» (né aderire né sabotare). La scelta di classe operata dalla sinistra di Md presentava rischi pesantissimi di isolamento all'interno della magistratura e tra le forze politiche egemoni nella sinistra, che la lotta armata delle brigate rosse evidenziò immediatamente nel corso degli anni '80 («né con lo Stato né con le Br? I brigatisti compagni che sbagliano?»). Alla fine degli Anni di piombo, in pratica l'ala «rivoluzionaria» della magistratura non esisteva già più, e quella filo-Pci ebbe campo libero. Il crollo dell'Urss gettò il partito egemone della sinistra nello sconcerto: il Pci non aveva più un'ideologia, né il cambiamento di sigla (Pds) poteva rivitalizzarlo. Al contrario, l'ala di Md filo Pci/Pds aveva costruito una immagine ed una ideologia di sé stessa - pagata anche col sangue di suoi aderenti di spicco - che poteva essere spesa su qualunque piazza, ma le mancava un alleato sotto la forma partito. L'interesse di entrambi era comunque troppo forte perché l'alleanza sfumasse, anche se non mancarono resistenze e ricatti reciproci: così, il Pci/Pds fu duramente minacciato (ed anche in piccola parte colpito) durante la stagione di Mani Pulite. Alla fine, intorno al 1994, l'alleanza andò in porto, e un partito senza ideologia accolse e fece propria (probabilmente senza salti di gioia) un'ideologia senza partito. Due ostacoli, tuttavia, si frapponevano tra questa alleanza e la conquista del potere: uno era il cosiddetto Caf (Craxi, Andreotti, Forlani); l'altro era interno alla magistratura, formato da tutti quei giudici che da sponde opposte si opponevano a questa operazione. Il primo ostacolo fu eliminato attraverso Mani pulite, al secondo si applicarono vari metodi; dal promoveatur ut amoveatur, ai procedimenti disciplinari, alla elevazione al soglio parlamentare eccetera. Così la magistratura più restia fu lusingata con l'obiettivo di mantenere i privilegi e la fetta di potere (anche economico) cui era stata abituata, al punto di farle accettare impunemente l'accordo che era sotto gli occhi di tutti. Il compito di questa Md era pressochè esaurito, in quanto il nemico principale (il Caf ma soprattutto Bettino Craxi) era stato abbattuto. Quando un nuovo nemico si presentò all'orizzonte, i cani da guardia dell'accordo (ora la magistratura nel suo complesso) non ci misero molto a tirar fuori zanne ed artigli, con l'appoggio del loro referente politico. Fantasie, opinioni personali, dirà qualcuno. Può darsi, ma certo occorre riflettere su tre punti cruciali dell'inchiesta Mani pulite, che sono - come tanti altri elementi - caduti nel dimenticatoio della Storia. Come abbiamo detto in precedenza, tra i membri del pool non c'era assolutamente nessuna identità culturale o «politica», e non può non destare perplessità la circostanza che essi furono messi insieme per compiere un'operazione così complessa e delicata: fu davvero per garantire il pluralismo e l'equidistanza fra i soggetti coinvolti o, come abbiamo sostenuto, per raccogliere e compattare tutte le diverse anime della magistratura? Quando esattamente fu costituito il pool? Al riguardo non abbiamo nessuna certezza, ma di sicuro esso esisteva già il 17 febbraio 1992, data dell'arresto di Mario Chiesa: chi, nei palazzi di giustizia milanesi e non solo, aveva la sfera di cristallo? L'allora console statunitense a Milano Peter Semler dichiarò di aver ricevuto da Antonio Di Pietro - nel novembre '91 - indiscrezioni sulle indagini in corso, il quale gli avrebbe anticipato l'arresto di Mario Chiesa (avvenuto nel febbraio '92) e l'attacco a Craxi e al Caf. In realtà, la magistratura nell'arco di oltre vent'anni e fino ai giorni nostri ha difeso sé stessa e il proprio status di supercasta: non già per motivi ideologico-politici bensì per autotutela da un nemico che appariva pericolosissimo. La casta, in altri termini, ha fatto e sempre farà quadrato a propria difesa, a prescindere dall'essere «toghe rosse» o di qualunque altro colore. L'accanimento contro Silvio Berlusconi riguarda - più che la sua persona - il ruolo da lui svolto ed il pericolo che ha rappresentato e potrebbe ancora rappresentare per la burocrazia giudiziaria e per gli eredi del Pci/Pds. Si può senz'altro convenire che i giudici Nicoletta Gandus (processo Mills), Oscar Magi (processo Unipol, per rivelazione di segreto istruttorio), Luigi de Ruggero (condanna in sede civile al risarcimento del danno per il lodo Mondadori in favore di De Benedetti) abbiano militato nella (ex) frazione di sinistra di Md, come pure il procuratore Edmondo Bruti Liberati (noto come simpatizzante del Pci/Pds): si può supporre che a quella corrente appartenga pure la presidente Alessandra Galli (processo di appello Mediaset). Nel novero dei giudici di sinistra si potrebbe anche ricomprendere la pm Boccassini: ma gli altri? Chi potrebbe attribuire in quota Md il giudice Raimondo Mesiano (primo processo con risarcimento del danno a favore di De Benedetti), il presidente Edoardo D'Avossa (I° grado del processo Mediaset), la presidente Giulia Turri (processo Ruby), il pm Fabio De Pasquale, il pm Antonio Sangermano, il presidente di cassazione Antonio Esposito e tutti gli altri che si sono occupati e si stanno occupando del «delinquente» Berlusconi? La verità è che la magistratura italiana da tempo è esplosa in una miriade di monadi fuori da qualunque controllo gerarchico e territoriale, essendo venuto meno (grazie anche al codice di procedura penale del 1989) perfino l'ultimo baluardo che le impediva di tracimare; quello della competenza territoriale, travolto dalla disposizione relativa alle cosiddette «indagini collegate» (ogni pm può indagare su tutto in tutto il Paese, salvo poi alla fine trasmettere gli atti alla Procura territorialmente competente). Ciascun pm è padrone assoluto in casa propria, e nessuno - nemmeno un capo dell'ufficio men che autorevole - può fermarlo. E la situazione non fa altro che peggiorare, come è sotto gli occhi di tutti coloro che sono interessati a vedere. La magistratura italiana - unica nel panorama dei Paesi occidentali democratici - è preda di un numero indeterminato di «giovani» (e meno giovani, ma anche meno sprovveduti) magistrati pronti a qualunque evenienza e autoreferenziali. Focalizzare l'attenzione solo su Magistratura democratica significa non cogliere appieno i pericoli che le istituzioni nazionali stanno correndo e correranno negli anni a venire, con o senza la preda Berlusconi.

L'ala «ex» comunista del Pd - dal canto suo - non può più abbandonare l'ideologia giustizialista, che ormai resta l'unica via che potrebbe portare quella forma-partito al potere. Una democrazia occidentale matura non può fare a meno di riflettere su questi temi, cercando una via di uscita dall'impasse politico-istituzionale in cui questo Paese si è infilato per la propria drammatica incoscienza, immaturità ed incapacità di governo: con buona pace di una ormai inesistente classe politica.» Sergio D'Angelo Ex giudice di Magistratura democratica.

A riguardo sentiamo il cronista che fa tremare i pm. "Sinistra ricattata dalle procure". Dopo 35 anni a seguire i processi nelle aule dei tribunali Frank Cimini è andato in pensione ma dal suo blog continua a svelare le verità scomode di Milano: "Magistrati senza controllo", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. «Antonio Di Pietro è meno intelligente di me»: nel 1992, quando i cronisti di tutta Italia scodinzolavano dietro il pm milanese, Frank Cimini fu l'unico cronista giudiziario a uscire dal coro. Sono passati vent'anni, e Cimini sta per andare in pensione. Confermi quel giudizio? «Confermo integralmente». Sul motivo dell'ubriacatura collettiva dei mass media a favore del pm, Cimini ha idee precise: «C'era un problema reale, la gente non ne poteva più dei politici che rubavano, e la magistratura ha colto l'occasione per prendere il potere. Di Pietro si è trovato lì, la sua corporazione lo ha usato. Mani pulite era un fatto politico, lui era il classico arrampicatore sociale che voleva fare carriera. Infatti appena potuto si è candidato: non in un partito qualunque, ma nelle fila dell'unico partito miracolato dalle indagini». Uomo indubbiamente di sinistra, e anche di ultrasinistra («ma faccio l'intervista al Giornale perché sennò nessuno mi sta a sentire») Cimini (ex Manifesto, ex Mattino, ex Agcom, ex Tmnews) resterà nel palazzo di giustizia milanese come redattore del suo blog, giustiziami.it. E continuerà, dietro l'usbergo dell'enorme barba e dell'indipendenza, a dire cose per cui chiunque altro verrebbe arrestato. Sulla sudditanza degli editori verso il pool di Mani Pulite ha idee precise: «Gli editori in Italia non sono editori puri ma imprenditori che hanno un'altra attività, e come tali erano sotto scacco del pool: c'è stato un rapporto di do ut des. Per questo i giornali di tutti gli imprenditori hanno appoggiato Mani pulite in cambio di farla franca. Infatti poi l'unico su cui si è indagato in modo approfondito, cioè Berlusconi, è stato indagato in quanto era sceso in politica, sennò sarebbe stato miracolato anche lui. C'è stato un approfondimento di indagine, uso un eufemismo, che non ha pari in alcun paese occidentale. Ma lui dovrebbe fare mea culpa perché anche le sue tv hanno appoggiato la Procura». Da allora, dice Cimini, nulla è cambiato: nessuno controlla i magistrati. «Il problema è che la politica è ancora debole, così la magistratura fa quello che vuole. Il centrosinistra mantiene lo status quo perché spera di usare i pm contro i suoi avversari politici ma soprattutto perché gran parte del ceto politico del centrosinistra è ricattato dalle procure. Basta vedere come escono le cose, Vendola, la Lorenzetti, e come certe notizie spariscono all'improvviso». Nello strapotere della magistratura quanto conta l'ideologia e quanto la sete di potere? «L'ideologia non c'entra più niente, quella delle toghe rosse è una cavolata che Berlusconi dice perché il suo elettorato così capisce. Ma le toghe rosse non ci sono più, da quando è iniziata Mani pulite il progetto politico che era di Borrelli e non certo di Di Pietro o del povero Occhetto è stata la conquista del potere assoluto da parte della magistratura che ha ottenuto lo stravolgimento dello Stato di diritto con la legge sui pentiti. Un vulnus da cui la giustizia non si è più ripresa e che ha esteso i suoi effetti dai processi di mafia a quelli politici. Oggi c'è in galera uno come Guarischi che avrà le sue colpe, ma lo tengono dentro solo perché vogliono che faccia il nome di Formigoni». Conoscitore profondo del palazzaccio milanese, capace di battute irriferibili, Cimini riesce a farsi perdonare dai giudici anche i suoi giudizi su Caselli («un professionista dell'emergenza») e soprattutto la diagnosi impietosa di quanto avviene quotidianamente nelle aule: «Hanno usato il codice come carta igienica, hanno fatto cose da pazzi e continuano a farle». Chi passa le notizie ai giornali? «Nelle indagini preliminari c'è uno strapotere della Procura che dà le notizie scientemente per rafforzare politicamente l'accusa». E i cronisti si lasciano usare? «Se stessimo a chiederci perché ci passano le notizie, i giornali uscirebbero in bianco».

"La politica ha delegato alla magistratura tre grandi questioni politiche, il terrorismo, la mafia, la corruzione, e alcuni magistrati sono diventati di conseguenza depositari di responsabilità tipicamente politiche". A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera e esponente del Partito democratico. Secondo il giurista, inoltre, "la legge Severino testimonia il grado di debolezza" della politica perché non è "possibile che occorra una legge per obbligare i partiti a non  candidare chi ha compiuto certi reati". "È in atto un processo di spoliticizzazione della democrazia che oscilla tra tecnocrazia e demagogia", ha aggiunto, "Ne conseguono ondate moralistiche a gettone tipiche di un Paese, l’Italia, che ha nello scontro interno permanente la propria cifra caratterizzante". Colpa anche di Silvio Berlusconi, che "ha reso ancora più conflittuale la politica italiana", ma anche della sinistra che "lo ha scioccamente inseguito sul suo terreno accontentandosi della modesta identità antiberlusconiana". "Ma neanche la Resistenza fu antimussoliniana, si era antifascisti e tanto bastava", aggiunge. Quanto alle sue parole sulla legge Severino e la decadenza del Cavaliere, Violante aggiunge: "Ho solo detto che anche Berlusconi aveva diritto a difendersi. Quando ho potuto spiegarmi alle assemblee di partito ho ricevuto applausi, ma oggi vale solo lo slogan, il cabaret. Difficile andare oltre i 140 caratteri di Twitter". E sulle toghe aggiunge: "Pentiti e intercettazioni hanno sostituito la capacità investigativa. Con conseguenze enormi. Occorrerebbe indicare le priorità da perseguire a livello penale, rivedendo l’obbligatorietà dell’azione che è un’ipocrisia costituzionale resa necessaria dal fatto che i pubblici ministeri sono, e a mio avviso devono restare, indipendenti dal governo".

Io quelli di Forza Italia li rispetto, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Conoscendoli, singolarmente, li rispetto molto meno: ma nell'insieme potrebbero anche sembrare appunto dei lealisti, dei coerenti, delle schiene dritte, gente che ha finalmente trovato una linea del Piave intesa come Berlusconi, come capo, come leader, come rappresentante di milioni di italiani che non si può cancellare solo per via giudiziaria: almeno non così. Non con sentenze infarcite di «convincimenti» e prove che non lo sono. Dunque rispetto quelli di Forza Italia - anche se in buona parte restano dei cavalier-serventi - perché tentano di fare quello che nella Prima Repubblica non fu fatto per Bettino Craxi e per altri leader, consegnati mani e piedi alla magistratura assieme al primato della politica. Solo che, dettaglio, Forza Italia ha perso: ha perso quella di oggi e ha perso quella del 1994. E non ha perso ieri, o un mese fa, cioè con Napolitano, la Consulta, la legge Severino, la Consulta, la Cassazione: ha colpevolmente perso in vent'anni di fallimento politico sulla giustizia. Dall’altra c’è qualcuno che ha vinto, anche se elencarne la formazione ora è complicato: si rischia di passare dal pretenzioso racconto di un’ormai stagliata «jurecrazia» - fatta di corti che regolano un ordine giuridico globale - all'ultimo straccione di pm o cronista militante. Resta il dato essenziale: vent’anni fa la giustizia faceva schifo e oggi fa identicamente schifo, schiacciata com'è sul potere che la esercita; e fa identicamente schifo, per colpe anche sue, la giustizia ad personam legiferata da Berlusconi, che in vent'anni ha solo preso tempo - molto - e alla fine non s'è salvato. Elencare tutte le forzature palesi o presunte per abbatterlo, magari distinguendole dalle azioni penali più che legittime, è un lavoro da pazzi o da memorialistica difensiva: solo la somma delle assoluzioni - mischiate ad amnistie e prescrizioni - brucerebbe una pagina. Basti l'incipit, cioè il celebre mandato di comparizione che fu appositamente spedito a Berlusconi il 21 novembre 1994 per essere appreso a un convegno Onu con 140 delegazioni governative e 650 giornalisti: diede la spallata decisiva a un governo a discapito di un proscioglimento che giungerà molti anni dopo. L’elenco potrebbe proseguire sino a oggi - intralciato anche da tutte le leggi ad personam che Berlusconi fece per salvarsi - e infatti è solo oggi che Berlusconi cade, anzi decade. Ciò che è cambiato, negli ultimi anni, è la determinazione di una parte della magistratura - unita e univoca come la corrente di sinistra che ne occupa i posti chiave - a discapito di apparenze che non ha neanche più cercato di salvare. I processi per frode legati ai diritti televisivi non erano più semplici di altri, anzi, il contrario: come già raccontato, Berlusconi per le stesse accuse era già stato prosciolto a Roma e pure a Milano. Ciò che è cambiato, appunto, è la determinazione dei collegi giudicanti a fronte di quadri probatori tuttavia paragonabili ai precedenti: ma hanno cambiato marcia. Si poteva intuirlo dai tempi atipici che si stavano progressivamente dando già al primo grado del processo Mills, che filò per ben 47 udienze in meno di due anni e fece lavorare i giudici sino al tardo pomeriggio e nei weekend; le motivazioni della sentenza furono notificate entro 15 giorni (e non entro i consueti 90) così da permettere che il ricorso in Cassazione fosse più che mai spedito. Ma è il processo successivo, quello che ora ha fatto fuori Berlusconi, ad aver segnato un record: tre gradi di giudizio in un solo anno (alla faccia della Corte Europea che ci condanna per la lunghezza dei procedimenti) con dettagli anche emblematici, tipo la solerte attivazione di una sezione feriale della Cassazione che è stata descritta come se di norma esaminasse tutti i processi indifferibili del Paese: semplicemente falso, la discrezionalità regna sovrana come su tutto il resto. Il paradosso sta qui: nel formidabile e inaspettato rispetto di regole teoriche - quelle che in dieci mesi giudicano un cittadino nei tre gradi - al punto da trasformare Berlusconi in eccezione assoluta. Poi, a proposito di discrezionalità, ci sono le sentenze: e qui si entra nel fantastico mondo dell'insondabile o di un dibattito infinito: quello su che cosa sia effettivamente una «prova» e che differenza ci sia rispetto a convincimenti e mere somme di indizi. Il tutto sopraffatti dal dogma che le sentenze si accettano e basta: anche se è dura, talvolta. Quando uscirono le 208 pagine della condanna definitiva in Cassazione, in ogni caso, i primi commenti dei vertici piddini furono di pochi minuti dopo: un caso di lettura analogica. E, senza scomodare espressioni come «teorema» o «prova logica» o peggio «non poteva non sapere», le motivazioni della sentenza per frode fiscale appalesavano una gigantesca e motivata opinione: le «prove logiche» e i «non poteva non sapere» purtroppo abbondavano e abbondano. «È da ritenersi provato» era la frase più ricorrente, mentre tesi contrarie denotavano una «assoluta inverosimiglianza». Su tutto imperava l’attribuzione di una responsabilità oggettiva: «La qualità di Berlusconi di azionista di maggioranza gli consentiva pacificamente qualsiasi possibilità di intervento», «era assolutamente ovvio che la gestione dei diritti fosse di interesse della proprietà», «la consapevolezza poteva essere ascrivibile solo a chi aveva uno sguardo d’insieme, complessivo, sul complesso sistema». Il capolavoro resta quello a pagina 184 della sentenza, che riguardava la riduzione delle liste testimoniali chieste dalla difesa: «Va detto per inciso», è messo nero su bianco, «che effettivamente il pm non ha fornito alcuna prova diretta circa eventuali interventi dell’imputato Berlusconi in merito alle modalità di appostare gli ammortamenti dei bilanci. Ne conseguiva l'assoluta inutilità di una prova negativa di fatti che la pubblica accusa non aveva provato in modo diretto». In lingua italiana: l’accusa non ha neppure cercato di provare che Berlusconi fosse direttamente responsabile, dunque era inutile ammettere testimoni che provassero il contrario, cioè una sua estraneità. Ma le sentenze si devono accettare e basta. Quando Berlusconi azzardò un videomessaggio di reazione, in settembre, Guglielmo Epifani lo definì «sconcertante», mentre Antonio Di Pietro fece un esposto per vilipendio alla magistratura e Rosy Bindi parlò di «eversione». Il resto - la galoppata per far decadere Berlusconi in Senato - è cronaca recente, anzi, di ieri, Il precedente di Cesare Previti - che al termine del processo Imi-Sir fu dichiarato «interdetto a vita dai pubblici uffici» - è pure noto: la Camera ne votò la decadenza ben 14 mesi dopo la sentenza della Cassazione. Allora come oggi, il centrosinistra era dell’opinione che si dovesse semplicemente prendere atto del dettato della magistratura, mentre il centrodestra pretendeva invece che si entrasse nel merito e non ci si limitasse a un ruolo notarile. Poi c’è il mancato ricorso alla Corte Costituzionale per stabilire se gli effetti della Legge Severino possano essere retroattivi: la Consulta è stata investita di infinite incombenza da una ventina d’anni a questa parte - comprese le leggi elettorali e i vari «lodi» regolarmente bocciati – ma per la Legge Severino il Partito democratico ha ritenuto che la Corte non dovesse dire la sua. Il 30 ottobre scorso, infine, la Giunta per il regolamento del Senato ha stabilito che per casi di «non convalida dell’elezione» il voto dovesse essere palese, volontà ripetuta ieri dal presidente del Senato: nessun voto segreto o di coscienza, dunque. Poi - ma è un altro articolo, anzi, vent'anni di articoli - ci sono le mazzate che il centrodestra si è tirato da solo. La Legge Severino, come detto. Il condono tombale offerto a Berlusconi dal «suo» ministro Tremonti nel 2002 -  che l'avrebbe messo in regola con qualsivoglia frode fiscale – ma che al Cavaliere non interessò. Il demagogico inasprimento delle pene per la prostituzione minorile promosso dal «suo» ministro Carfagna nel 2008. Però, dicevamo, non ci sono solo gli autogol: c’è il semplice non-fatto o non-riuscito degli ultimi vent’anni. Perché nei fatti c’era, e c’è, la stessa magistratura. Non c’è la separazione delle carriere, lo sdoppiamento del Csm, le modifiche dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, la responsabilità civile dei giudici, i limiti alle intercettazioni. Ci sono state, invece, le leggi sulle rogatorie, la Cirami, i vari lodi Maccanico-Schifani-Alfano, l’illegittimo impedimento: pannicelli caldi inutili o, per un po’, utili praticamente solo a lui. Per un po’. Solo per un po’. Fino al 27 novembre 2013.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

"Noi avevamo la nostra idea. Dovevamo formare, per la fine del millennio, i nostri giovani come degli infiltrati dentro lo Stato: quindi dovevano diventare magistrati, poliziotti, carabinieri e perché no, anche ministri e presidenti del Consiglio. Per avere i nostri referenti nelle istituzioni".

"I mafiosi non sono solo i Riina o i Provenzano. I soggetti collusi con la mafia sono ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, siedono anche in Parlamento". Così il presidente del Tribunale di Palermo, Leonardo Guarnotta, al convegno “La mafia non è solo un problema meridionale”, organizzato a Palermo il 29 novembre 2013 dall'associazione Espressione Libre. "In mancanza di sanzioni, ma soprattutto in assenza di una autoregolamentazione deontologica, la responsabilità politica rimarrà impunita, nulla più che un pio desiderio, con la conseguenza che si è arrivati a candidare e fare eleggere a Palermo, politici sotto processo per concorso esterno in associazione per delinquere di tipo mafioso, come Marcello Dell'Utri e Calogero Lo Giudice" ha detto ancora Guarnotta al convegno. Il riferimento a Dell'Utri e Lo Giudice arriva nella parte della relazione di Leonardo Guarnotta, quando parla di lotta alla mafia perché "è indispensabile l'impegno della società civile perché la partita, cioè la lotta alla mafia, che non possiamo assolutamente permetterci di perdere, si gioca nella quotidianità", ha detto il presidente del Tribunale di Palermo. Guarnotta poi ha voluto rimarcare che questa lotta si gioca "nelle scelte, individuali e collettive, non escluse le scelte elettorali, cioè le scelte che vengono fatte dai segretari di partito nel selezionare i candidati, da inserire nelle liste e quelle che operano gli elettori nell'esercizio del diritto-dovere di designare i loro rappresentanti al Parlamento e nelle istituzioni".

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

L’Italia dei figli di qualcuno e dei figli di nessuno, scrive Luigi Sanlorenzo su “Sicilia Informazioni”. Quel termometro, ancora per poco infrangibile, dell’indignazione degli italiani ha raggiunto in queste ore un nuovo picco alla notizia dell’intervento del Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri in favore della scarcerazione per motivi umanitari di Giulia Ligresti. Già ora montano polemiche roventi, immaginabili paragoni con vicende simili, richieste di dimissioni e promesse di giustificazioni che occuperanno i giornali e le televisioni in interminabili dietrologie, pindariche rievocazioni, ardite ipotesi. Ma non c’è da preoccuparsi, perché prima o poi, una cortina fumogena sarà sapientemente fatta posare sui fatti. Proprio per tale ragione, questo articolo ha la pretesa di soffermarsi su una diversa e più pressante preoccupazione degli italiani circa il diverso destino dei figli di nessuno e dei figli di qualcuno. E’ noto come il decantato benessere italiano, i cosiddetti anni del boom che interessarono gli anni ’50 e ’60, si fondò su due principali eventi sociali: la politica industriale sorretta dagli ingenti fondi del Piano Marshall nel centro nord del Paese e l’accesso ai ruoli della Pubblica Amministrazione – ed alle migliaia di enti collegati – di intere coorti di giovani del Mezzogiorno mediante centinaia di concorsi che rappresentarono in un Sud maggiormente scolarizzato, una risposta occupazionale e un inedito e rapido ascensore sociale. Grazie alla possibilità per milioni di diplomati e decine di migliaia di laureati di accedere ad un posto stabile e sicuro, anche se non sempre disponibile nella regione di nascita, la società italiana nel complesso passò nel volgere di un decennio dai bisogni ai desideri, alimentando consumi alti e medio alti e inaugurando stili di vita molto vicini a quelli dei Paesi europei più avanzati, se non, in molti casi, degli Stati Uniti del tempo. Per la prima volta nella storia, il figlio di un contadino poteva diventare qualcuno, rompendo così l’atavico destino riservato a chi lo aveva preceduto. Per la prima volta il neo dottore, diventato funzionario ministeriale, impiegato di una banca pubblica, medico della mutua o semplicemente, assolto l’obbligo scolastico, usciere alla Provincia o portantino in un ospedale, poteva a propria volta sognare un futuro ancora migliore per i figli che, numerosi, – i baby boomers – sarebbero venuti al mondo. Certo, dopo i primi anni, i concorsi divennero sempre più politicizzati e all’insegna della raccomandazione ma il “borghese piccolo piccolo” che alberga in tutti noi sapeva che far studiare un figlio avrebbe comunque portato prima o poi, alle soglie del fatidico concorso, varcate le quali altri sogni potevano diventare realtà: una famiglia, un sorriso assicurato da parte di una banca lieta di offrire un mutuo per la casa, l’autovettura di dimensioni crescenti in proporzione alla carriera, l’assistenza sanitaria, le ferie al mare o all’estero, magari, presto, la seconda casa per le vacanze. Con il crollo rovinoso di quel mondo, che pur in modo imperfetto e non sempre trasparente, sembrava voler realizzare i migliori auspici della Costituzione Repubblicana, i giovani italiani si sono trovati come coloro cui un uragano scoperchia la casa. Cresciuti ed educati nella prima parte della propria vita in famiglia e a scuola con la certezza delle opportunità garantite ai propri genitori, scelta una facoltà universitaria più con l’occhio al “concorso” che alla propria reale vocazione, si sono trovati davanti il vuoto. Mentre essi precipitavano nel baratro del precariato infinito del corpo e dell’anima, risuonavano da ogni possibile mezzo di comunicazione le ipocrisie di una classe dirigente farisaica e compromessa. Era giusto infatti che i ministri dei nuovi governi mettessero in guardia i giovani dall’illusione del posto fisso e li spronassero a mettersi in gioco. La doppiezza di tale morale emerge oggi quando si scopre, sempre più spesso, che proprio i figli di quei ministri avevano tutti già un posto fisso, grazie sicuramente all’influenza di mamma e papà. Mario Monti ha un figlio, Giovanni Monti, ora 39enne. Ripercorriamo la sua carriera: a 20 anni è già associato per gli investimenti bancari per la Goldman Sachs, banca d’affari in cui il padre ha ricoperto il ruolo di International Advisor. A 25 anni diventa consulente di direzione da Bain & company e ci rimane fino al 2001. Dal 2004 al 2009, ha lavorato a Citigroup e in Morgan & Stanley occupandosi in particolare di transazioni economico-finanziarie sui mercati di Europa, Medio Oriente e Africa, alle dipendenze dirette degli uffici centrali di New York. La figlia di Elsa Fornero – l’indimenticabile, sensibile fino alle lacrime, Ministro del Lavoro che dopo aver chiamato i giovani “choosy”, ovvero con poco spirito di adattamento e dopo aver consigliato a tutti di “tornare a lavorare la terra” tacciò gli italiani di essere “scansafatiche” – Silvia Deaglio, ha soli 24 anni quando ottiene un incarico presso un prestigioso college di Boston e 30 quando inizia ad insegnare medicina. Diventa associata all’università di Torino, l’università dove mamma e papà hanno la cattedra, a soli 37 anni. Il figlio di Annamaria Cancellieri per la quale gli italiani devono liberarsi dell’idea del posto fisso vicino ai genitori, Piergiorgio Peluso, appena laureato, inizia una carriera sfolgorante: dall’Arthur Andersen a Mediobanca, fino a Aeroporti di Roma, Credit Suisse, Unicredit e Fondiaria Sai, dove è direttore generale guadagnando circa 500mila euro all’anno. Il resto sarà cronaca dei prossimi giorni. Certamente i citati sono tutti giovani preparati e in gamba ma probabilmente ambiti da multinazionali anche per altre ragioni. Essi comunque non saranno stati certo delle menti così eccezionali rispetto a migliaia di altri coetanei preparati e volenterosi che ormai alle soglie dei 40 anni non avranno mai una famiglia propria, una casa o una pensione. In una democrazia i figli di “nessuno” come chi scrive, possono salire la scala sociale soltanto se messi alla prova del merito comparativo e dei meccanismi dei concorsi da reinventare modernamente nel nostro disperato Paese. Diverso è infatti il destino dei figli di qualcuno che, nella vita, “qualcuno” diventano comunque, spesso ben oltre le proprie reali capacità. Con qualche eccezione di chi, per sensibilità personale o scelta esistenziale, decide di rifiutare i privilegi a di rischiare una vita normale e di cui essere il vero, spesso drammatico, protagonista. La mattina del 15 novembre 2000 il corpo senza vita di Edoardo Agnelli, 46 anni, venne trovato da un pastore cuneese, Luigi Asteggiano, presso la base del trentacinquesimo pilone del viadotto autostradale Generale “Franco Romano” della Torino-Savona, nei pressi di Fossano. La sua Croma scura, con il motore ancora acceso e il bagagliaio socchiuso, era parcheggiata a lato della carreggiata del viadotto che sovrasta il fiume Stura di Demonte. La magistratura concluse presto le indagini formulando l’ipotesi del suicidio. Nelle rare interviste concesse alla stampa, il figlio del più noto Avvocato della storia italiana, aveva affermato di voler prendere le distanze dai valori del capitalismo e di volersi dedicare a studi di teologia. Edoardo Agnelli non nascondeva di simpatizzare per il marxismo-leninismo in chiave mistica e verso l’Iran sciita; secondo voci non confermate negli ultimi anni aveva cambiato persino nome, assumendo un nome islamico. Era comparso in pochissime occasioni pubbliche e in qualche manifestazione religiosa o antinuclearista. I tentativi di inserirlo in attività collaterali del grande gruppo aziendale di famiglia, tra cui anche una breve esperienza nel Consiglio d’Amministrazione della Juventus nel 1986, non avevano dato buon esito. Edoardo era diverso. La fine di Edoardo Agnelli, contrapposta all’aridità e all’egoismo di una borghesia che si auto perpetua non attraverso i meriti ma grazie alla fitta trama di relazioni ed alleanze che vanno ben oltre gli schieramenti ufficiali nella vita politica o delle cordate imprenditoriali, mi ha sempre ricordato la figura di Hanno Buddenbrook, la saga della cui famiglia fu il testo pretesto della mia tesi di laurea, nel lontano 1980. Hanno Buddenbrook è l’ultimo discendente dei Buddenbrook, fiorente famiglia della borghesia mercantile tedesca, di cui il romanzo racconta attraverso tre generazioni la progressiva decadenza che segna la decomposizione di un certo tipo di società. Hanno ne incarna l’epilogo, attraverso la sua inettitudine, che tanto più poeticamente risalta in quanto diviene icona di un’intera epoca che tramonta, schiacciata dal peso dei suoi riti, dei suoi mascheramenti, dei suoi valori opprimenti. Nei giorni scorsi Rachid Khadiri Abdelmoula, il 27enne marocchino torinese, dopo una vita passata a vendere accendini e fazzoletti tra Palazzo Nuovo e la Mole di giorno e a studiare di notte, si è laureato in ingegneria al Politecnico. Il “marocchino” (così definisce se stesso, scherzando su provenienza e senso dato in Italia al termine) più famoso d’Italia è tornato oggi a far parlare di sè per una scelta decisamente controcorrente. Rachid sta infatti resistendo in questi giorni alle lusinghe della televisione commerciale rispondendo con insistiti “no, grazie” alle reiterate proposte che arrivano da Endemol per partecipare all’edizione 2014 del Grande Fratello. Tra lo stupore di tutti ha dichiarato: “I miei valori sono altrove. Non mi riconosco neanche un po’ in una trasmissione che non trovo seria ed educativa. Cosa ci andrei a fare? A recitare? Il successo è un mondo di nicchia, lo stringono in pochissimi. Gli altri si illudono, poi rimangono spiazzati quando la fama svanisce. Ai sogni bisogna obbedire. Il mio è di fare l’ingegnere con la cravatta. Come mi vedo tra dieci anni? Spero di aver svoltato. Non in uno studio televisivo, ma in uno di progettisti.” Nel Capitolo 38 dedicato alle cause della decadenza di Roma , l’illuminista Edward Gibbon, autore de The History of the Decline and Fall of the Roman Empire (1776) ha scritto: “ essa fu conseguenza naturale della sua grandezza. La prosperità portò a maturazione il principio della decadenza…Invece di chiederci perché fu distrutto, dovremmo sorprenderci che abbia retto tanto a lungo”. Un monito estremamente contemporaneo che dovrebbe bastare ad una società come la nostra che ha smarrito da tempo anche il ricordo delle energie vitali da cui nacque e che sembra ogni giorno di più di intravedere nelle storie esemplari dei tanti figli di immigrati che, forse, rifaranno l’Italia.

E che dire ancora. Non ci sono anormali, ma normali diversi, scrive Michele Marzano su “La Repubblica”. Pochi giorni fa, il Tribunale dei Minori di Roma ha autorizzato una coppia ad adottare un bambino straniero, a patto però che il bimbo fosse "perfettamente sano". La decisione è stata subito contestata non solo dall'Aibi (l'associazione Amici dei bambini) - che intende presentare un esposto alla Procura generale della Cassazione - ma anche dal Presidente del Tribunale dei minori, Melita Cavallo, che spera che una cosa del genere "non si ripeta più". Ma al di là di queste contestazioni più che opportune, che cosa rivela l'utilizzo di questo tipo di espressioni? Chi di noi può definirsi "perfettamente sano"? All'epoca del mito della perfezione, sembra scontato ed evidente poter giudicare le persone e valutarle in base ad una serie di criteri reputati oggettivi. Come se l'intelligenza, la salute e la bellezza potessero essere veramente calcolate e misurate. Come se il valore di una persona dipendesse dalla sua capacità o meno di corrispondere a determinati criteri. E se tutto ciò fosse solo il retaggio di un determinismo biologico e genetico ormai desueto? Se il valore di una persona fosse altrove, non solo perché la perfezione non esiste, ma anche perché, molto spesso, sono proprio coloro che sembrano "oggettivamente sani" che poi si rivelano "soggettivamente malati"? Come spiegava bene Georges Canguilhem negli anni Sessanta, la salute non è un'entità fissa. Anzi, varia a seconda dei contesti e delle persone, e solo chi soffre può veramente valutare il proprio stato di salute. Ecco perché non esiste alcuna definizione oggettiva della normalità e dell'anormalità. Tanto più che le persone sono tutte differenti l'una dall'altra e che, inevitabilmente, ognuno presenta "un'anomalia" rispetto agli altri. "L'anormale non è ciò che non è normale", scrive in proposito Canguilhem, "ma è piuttosto un normale differente". Peccato che, nonostante tutto, la differenza continui ancora oggi ad essere identificata con l'inferiorità, e che persista un'insopportabile intolleranza nei confronti delle fragilità umane, al punto da illudersi che la felicità dipenda dal proprio essere "perfettamente sani". La fragilità, in sé, non è un problema. Anzi, è proprio nel momento in cui ci fermiamo un istante e cerchiamo di entrare in contatto con noi stessi, che ci rendiamo poi conto che questa nostra fragilità può diventare un punto di forza. Perché ci aiuta a crescere e a cambiare. Perché ci rivela qualcosa di noi che per tanto tempo, a torto, abbiamo fatto di tutto per ignorare. Soprattutto quando capiamo che l'essere umano non è una semplice somma di competenze più o meno sviluppate, e che i successi, come ricorda sempre Georges Canguilhem, sono spesso dei "fallimenti ritardati". Speriamo che lo capiscano anche i giudici quando autorizzano o meno una coppia ad adottare. Non solo perché l'essere "perfettamente sano" è un'espressione priva di senso, ma anche perché l'amore dei genitori non può certo dipendere dallo stato di salute dei propri figli.

E poi c’è l’anormalità fatta normalità con un commento di Susanna Tamaro. «La notizia dei tre miliardi sottratti allo Stato da parte di 5.000 dipendenti pubblici, che si aggiunge a quella dei finti poveri, dei falsi ciechi o dei turlupinatori di pensioni che ogni giorno vengono «scoperti» dalla Guardia di Finanza, non può che turbare - dove «turbare» è un eufemismo - le tante persone oneste di questo Paese, sempre più perseguitate da un Fisco che li ritiene gli unici «privilegiati» interlocutori. Non è populismo affermare che molti dei nostri problemi economici sarebbero in parte risolvibili con una bella e definitiva pulizia degli sprechi e degli assurdi privilegi che l’apparato statale permette e concede a tutti coloro che sono riusciti a infilarsi sotto le sue ali mafiosamente protettive. Com’è possibile, infatti, ci chiediamo noi contribuenti, che per dieci, venti, trent’anni una persona percepisca una pensione di invalidità come cieco pur essendo perfettamente vedente, mentre una nostra qualsiasi minima mancanza, che sia una multa o un mancato pagamento di un contributo, viene immediatamente sanzionata e punita con severità? Quanti ciechi ci vogliono per non vedere un finto cieco? Come ci interroghiamo anche - e purtroppo sappiamo già la risposta - su quanti di questi 5.073 dipendenti dello Stato che hanno rubato, truffato, corrotto avranno come conseguenza la perdita del loro posto di lavoro. Non sono un’esperta di amministrazione statale, ma temo che la risposta sia «nessuno». Questi uomini e donne che hanno tradito il patto di fiducia etico su cui si regge la società, hanno anche danneggiato i loro colleghi che lavorano con serietà e dedizione. Quali conseguenze avrà questo tradimento? Forse soltanto una multa o il trascinarsi in un processo che durerà anni e che finirà in una bolla di sapone. Il messaggio che ci viene costantemente dato dallo Stato è che in fondo le nostre azioni non sono influenti, che il comportarsi bene o male non cambia nulla, se si ha un posto garantito. Il messaggio che quindi passa alle generazioni future è quello che il merito e l’etica in Italia non hanno alcun peso, cosa che peraltro viene confermata in ogni ambito della nostra società, dall’università alla pubblica amministrazione. A volte, quando guardo i politici immersi nelle loro costanti e sterili polemiche televisive, mi domando: si rendono veramente conto dello stato di esasperazione della parte sana del nostro Paese? Credo proprio di no. Se si rendessero conto, infatti, agirebbero di conseguenza, senza timore dell’impopolarità, sfrondando, pulendo, liberandoci da tutto ciò che è inutile, offensivo e dannoso. È la mancanza di questa semplice azione a spingere sempre più italiani verso l’indifferenza, il cinismo, il disinteresse o tra le braccia dei movimenti che afferrano le viscere e le torcono, perché è lì che, alla fine, si annida la disperazione degli onesti. È su questo che riflettevo, andando in bicicletta per le colline umbre, desolata dallo spettacolo che ormai accompagna ogni mia escursione. Avevo appena superato la carcassa di un televisore abbandonato in mezzo ai rovi; doveva essere un lancio recente, dato che la settimana scorsa non c’era, come non c’era neppure il water di porcellana rovesciato in un fosso, sulla via del ritorno. Anche lui una new entry nel mio paesaggio ciclistico. Chi, come i nostri politici, viaggia sempre in automobile forse non sa che quasi la totalità dei bordi delle nostre strade e autostrade è costellato di rifiuti e spazzatura. Ogni metro quadrato è invaso da bottiglie di acqua minerale, lattine, scatole di sigarette, pannolini, preservativi, batterie di automobili, plastiche: tutto viene allegramente scaraventato fuori dai finestrini. Se poi si abbandonano le strade asfaltate e si imboccano quelle bianche, il panorama diventa ancora più orrendamente variegato: frigoriferi, lavatrici, pneumatici di tutte le dimensioni, reti da letto sfondate, materassi, divani, poltrone, computer, bidet, carcasse di biciclette o di motorino e spesso anche automobili senza targa, per non parlare delle lastre di amianto, residui di pollai e di stalle, maldestramente nascosti sotto pochi centimetri di terra. E tutto questo non accade soltanto nella terra dei fuochi, ma anche nella verde e felice Umbria. Bisogna aver il coraggio di dirlo apertamente: il nostro Paese - il meraviglioso giardino d’Europa - è una discarica a cielo aperto, di cui la «Terra dei fuochi» non è che la punta di un iceberg. Questo disprezzo per il luogo in cui viviamo, oltre a provocare un enorme danno all’ambiente e al turismo, è uno specchio fedele dell’assenza di senso civico che permea ormai tutto il Paese e di cui la classe politica è stata, fino ad ora, la garante. Dopo di me il diluvio, potrebbe assurgere a nostro motto nazionale. Il fatto che esistano, in ogni comune, delle isole ecologiche in cui smaltire ciò che non serve più cambia solo in parte le cose, perché questi luoghi hanno orari e leggi da rispettare, e perché mai dovrei rispettare un orario e una legge, se posso non farlo? Per anni, camminando in montagna, mi sono arrabbiata vedendo tutto quello che veniva abbandonato lungo i sentieri. Poi ho capito che quello sporco riguardava anche me, che arrabbiarsi e non fare niente mi rendeva complice del degrado. Così ho cominciato a raccogliere bottigliette di plastica, rifiuti e lattine come fossero fiori, riportandoli a valle con me. È questo che tutti noi dovremmo fare. Ciò che è fuori è sempre lo specchio di ciò che è dentro. L’immondizia che devasta il nostro Paese non è che la manifestazione del degrado etico che pervade ogni ambito della nostra società. Così, pedalando desolata, pensavo: come sarebbe se ogni comune, ogni quartiere di città, mettesse a disposizione di noi cittadini dei mezzi per permetterci di raccogliere in prima persona i rifiuti abbandonati criminalmente per strada o nei boschi. E poi sarebbe anche bello che tutta questa spazzatura, invece di venir immediatamente smaltita e dimenticata, lasciando spazio all’arrivo di nuova, venisse portata nelle piazze principali dei paesi e dei quartieri e affidata alle mani esperte di ragazzi diplomati alle varie Accademie di belle arti, per venir trasformata, grazie alla loro creatività, in temporanei monumenti alla nostra inciviltà. Così, durante la passeggiata domenicale, prendendo un caffè o conversando con gli amici, tutti noi potremmo ammirare per un anno gli oggetti che abbiamo abbandonato: guarda, la mia vecchia lavatrice, il mio bidet, il televisore della nonna! Sarebbe istruttivo che poi tutti questi precari monumenti al nostro degrado venissero fotografati e raccolti in un delizioso libretto dal titolo: «Ciò che eravamo, ciò che non vogliamo più essere». Susanna Tamaro».

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

La Terra dei Cachi (di Belisari, Conforti, Civaschi, Fasani) è la canzone cantata da Elio e le Storie Tese al Festival di Sanremo 1996, classificatasi al secondo posto nella classifica finale e vincitrice del premio della critica. Prima nelle classifiche temporanee fino all'ultima serata, il secondo posto nell'ultima provocò molte polemiche su presunte irregolarità del voto, confermate dalle indagini dei carabinieri che confermarono che La terra dei cachi era stata la canzone più votata. Il testo racconta la vita e le abitudini dell'Italia travolta da scandali su scandali (il pizzo, episodi criminali mai puniti, la malasanità) e piena di comportamenti che caratterizzano il cittadino italiano nel mondo, come la passione per il calcio, la pizza e gli spaghetti.

Parcheggi abusivi, applausi abusivi,

Villette abusive, abusi sessuali abusivi;

Tanta voglia di ricominciare abusiva.

Appalti truccati, trapianti truccati,

Motorini truccati che scippano donne truccate;

Il visagista delle dive è truccatissimo.

Papaveri e papi, la donna cannolo,

Una lacrima sul visto: Italia sì, Italia no.

Italia sì, Italia no, Italia bum, la strage impunita.

Puoi dir di sì, puoi dir di no, ma questa è la vita.

Prepariamoci un caffè, non rechiamoci al caffè:

C'è un commando che ci aspetta per assassinarci un pò.

Commando sì, commando no, commando omicida.

Commando pam, commando prapapapam,

Ma se c'è la partita

Il commando non ci sta e allo stadio se ne va,

Sventolando il bandierone non più il sangue scorrerà.

Infetto sì? Infetto no? Quintali di plasma.

Primario sì, primario dai, primario fantasma.

Io fantasma non sarò, e al tuo plasma dico no;

Se dimentichi le pinze fischiettando ti dirò:

"Fi fi fi fi fi fi fi fi, ti devo una pinza.

Fi fi fi fi fi fi fi fi, ce l'ho nella panza".

Viva il crogiuolo di pinze, viva il crogiuolo di panze. Eh

Quanti problemi irrisolti, ma un cuore grande così.

Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo dù spaghi.

Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

Un totale di due pizze e l'Italia è questa qua.

Fufafifi, fufafifi, Italia evviva.

Squerellerellesh, cataraparupai,

Italia perfetta, perepepè nainananai.

Una pizza in compagnia, una pizza da solo;

In totale molto pizzo ma l'Italia non ci sta.

Italia sì, Italia no, scurcurrillu currillo.

Italia sì: uè.

Italia no, spereffere fellecche.

Uè, uè, uè, uè,uè.

Perchè la terra dei cachi è la terra dei cachi.

«Una società sciapa e infelice in cerca di connettività».Così il Censis definisce la situazione sociale italiana nel suo 47mo illustrato a Roma dal direttore generale Giuseppe Roma e dal presidente Giuseppe De Rita. Una società, quella italiana, che sembra sempre ad un passo dal crollo ma che non crolla. «Negli anni della crisi - si legge nel rapporto del Censis - abbiamo avuto il dominio di un solo processo, che ha impegnato ogni soggetto economico e sociale: la sopravvivenza. C’è stata la reazione di adattamento continuato (spesso il puro galleggiamento) delle imprese e delle famiglie. Abbiamo fatto tesoro di ciò che restava nella cultura collettiva dei valori acquisiti nello sviluppo passato (lo «scheletro contadino», l’imprenditorialità artigiana, l’internazionalizzazione su base mercantile), abbiamo fatto conto sulla capacità collettiva di riorientare i propri comportamenti (misura, sobrietà, autocontrollo), abbiamo sviluppato la propensione a riposizionare gli interessi (nelle strategie aziendali come in quelle familiari). Siamo anche una «società sciapa e infelice» secondo il Censis «senza fermento e dove circola troppa accidia, furbizia generalizzata, disabitudine al lavoro, immoralismo diffuso, crescente evasione fiscale, disinteresse per le tematiche di governo del sistema, passiva accettazione della impressiva comunicazione di massa». Di conseguenza siamo anche «infelici, perché viviamo un grande, inatteso ampliamento delle diseguaglianze sociali». A giudizio dei ricercatori del Censis si sarebbe «rotto il “grande lago della cetomedizzazione”, storico perno della agiatezza e della coesione sociale. Troppa gente non cresce, ma declina nella scala sociale. Da ciò nasce uno scontento rancoroso, che non viene da motivi identitari, ma dalla crisi delle precedenti collocazioni sociali di individui e ceti». Ciò avrebbe determinato una vera e propria fuga all’estero. Nell’ultimo decennio il numero di italiani che hanno trasferito la propria residenza all’estero è più che raddoppiato, passando dai circa 50mila del 2002 ai 106mila del 2012. Ma è stato soprattutto nell’ultimo anno che l’aumento dei trasferimenti è stato particolarmente rilevante: (+28,8% tra il 2011 e il 2012). Una reazione al grave disagio sociale, all’ instabilità lavorativa e sottoccupazione che interessa il 25,9% dei lavoratori: una platea di 3,5 milioni di persone ha contratti a termine, occasionali, sono collaboratori o finte partite Iva. Ci sono poi 4,4 milioni di italiani che non riescono a trovare un’occupazione «pure desiderandola». Per il Censis «2,7 milioni sono quelli che cercano attivamente un lavoro ma non riescono a trovarlo, un universo che dallo scoppio della crisi è quasi raddoppiato (+82% tra il 2007 e il 2012)». Ci sono poi 1,6 milioni di italiani che, «pur disponibili a lavorare, hanno rinunciato a cercare attivamente un impiego perché convinti di non trovarlo». Cresce sempre più il disinteresse per la politica: il 56% degli italiani (contro il 42% della media europea) non ha attuato nessun tipo di coinvolgimento civico negli ultimi due anni, neppure quelli di minore impegno, come la firma di una petizione. Più di un quarto dei cittadini manifesta una lontananza pressoché totale dalla dimensione politica, non informandosi mai al riguardo. Al contrario, si registrano nuove energie difensive in tanta parte del territorio nazionale contro la chiusura di ospedali, tribunali, uffici postali o presidi di sicurezza. Tuttavia il Censis vede anche dei segnali positivi e di tenuta sociale. «Si registra una sempre più attiva responsabilità imprenditoriale femminile (nell’agroalimentare, nel turismo, nel terziario di relazione), l’iniziativa degli stranieri, la presa in carico di impulsi imprenditoriali da parte del territorio, la dinamicità delle centinaia di migliaia di italiani che studiano e/o lavorano all’estero (sono più di un milione le famiglie che hanno almeno un proprio componente in tale condizione) e che possono contribuire al formarsi di una Italia attiva nella grande platea della globalizzazione». Nuove energie si sprigionano inoltre in due ambiti che permetterebbero anche l’apertura di nuovi spazi imprenditoriali e di nuove occasioni di lavoro. «Il primo -si legge nel rapporto- è il processo di radicale revisione del welfare. Il secondo è quello della economia digitale: dalle reti infrastrutturali di nuova generazione al commercio elettronico, dalla elaborazione intelligente di grandi masse di dati, dallo sviluppo degli strumenti digitali ai servizi innovativi di comunicazione, alla crescita massiccia di giovani “artigiani digitali”». Il nuovo motore dello sviluppo, secondo il Censis, potrebbe essere la connettività (non banalmente la connessione tecnica) fra i soggetti coinvolti in questi processi». Se infatti «restiamo una società caratterizzata da individualismo, egoismo particolaristico, resistenza a mettere insieme esistenze e obiettivi, gusto per la contrapposizione emotiva, scarsa immedesimazione nell’interesse collettivo e nelle istituzioni» avremmo anche raggiunto il punto più basso dal quale non potrà che derivare un progressivo superamento di questa «crisi antropologica». Per fare connettività, secondo il Censis, non si può contare sulle istituzioni «perché autoreferenziali, avvitate su se stesse, condizionate dagli interessi delle categorie, avulse dalle dinamiche che dovrebbero regolare, pericolosamente politicizzate, con il conseguente declino della terzietà necessaria per gestire la dimensione intermedia fra potere e popolo». Neanche la politica può sviluppare questa connettività perché «più propensa all’enfasi della mobilitazione che al paziente lavoro di discernimento e mediazione necessario per fare connettività, scivolando di conseguenza verso l’antagonismo, la personalizzazione del potere, la vocazione maggioritaria, la strumentalizzazione delle istituzioni, la prigionia decisionale in logiche semplificate e rigide». Se dunque, conclude il Censis, «istituzioni e politica non sembrano in grado di valorizzarla, la spinta alla connettività sarà in orizzontale, nei vari sottosistemi della vita collettiva. A riprova del fatto che questa società, se lasciata al suo respiro più spontaneo, produce frutti più positivi di quanto si pensi».

Quella che emerge è una nazione senza scrupoli, che lucra su ogni fonte di guadagno fregandosene delle leggi, della salute della gente e del territorio. Scorie tossiche nelle campagne, rigassificatori a un chilometro dai templi di Agrigento, la decadenza dei Sassi di Matera beneficiari di finanziamenti per la tutela di milioni di euro. L’annientamento di due giudici e dei loro tecnici, avviato e pianificato con precisione maniacale da politici e colleghi, e approvato senza batter ciglio da un Consiglio Superiore della Magistratura che anziché proteggerli dagli attacchi, li consegna agli sciacalli per voce di Letizia Vacca (non me ne voglia il bovino): “due cattivi magistrati”. Il “non sapevo” oggi non è più tollerato, perché se un giorno De Magistris sarà punito dal Csm nonostante la Procura di Salerno dice che contro di lui è in atto un complotto, se la Forleo perderà la funzione di Gip per aver fatto scoprire all’Italia gli alpinisti della sinistra, questo avverrà di fronte ad una nazione cosciente, che forse allora reagirà. Ignorantia legis non excusat.

La certezza della pena non esiste più. Ci troviamo in una situazione di «indulto quotidiano», in cui tutti parlano ma nessuno fa. Il capo della Polizia non usa mezzi termini per definire lo stato della certezza della pena in Italia. «Viviamo una situazione di indulto quotidiano - dice alle commissioni Affari Costituzionali e Giustizia del Senato - di cui tutti parlano. Ma su cui non si è fatto nulla negli ultimi anni». La pena, aggiunge, «oggi è quando di più incerto esiste in Italia»; un qualcosa che rende «assolutamente inutile» la risposta dello Stato e «vanifica» gli sforzi di polizia e magistratura. «Non gioco a fare il giurista - prosegue il capo della Polizia - nè voglio entrare nelle prerogative del Parlamento, ma quella che abbiamo oggi è una situazione vergognosa. La criminalità diffusa in Italia ha un segmento di fascia delinquenziale ben identificato che si chiama immigrazione clandestina» ha aggiunto il capo della polizia. «Il 30 per cento degli autori di reato di criminalità diffusa sono immigrati clandestini, ma questa media nazionale del 30 per cento va disaggregata». Così, ha proseguito il capo della polizia, si scopre, che se al Sud i reati commessi da clandestini incidono relativamente poco («i reati compiuti da irregolari si attesta intorno al 30 per cento»), al Nord e in particolare nel Nord est «si toccano picchi del 60-70 per cento». La maggior parte degli immigrati clandestini entra in Italia non attraverso gli sbarchi ma con un visto turistico. «Solo il 10 per cento dei clandestini entra nel nostro Paese attraverso gli sbarchi a Lampedusa- dice il capo della polizia- mentre il 65-70 per cento arriva regolarmente e poi si intrattiene irregolarmente». E conclude: «Il 70 per cento di quei crimini commessi nel Nord est da irregolari è compiuta proprio da chi arriva con visto turistico e poi rimane clandestinamente sul nostro territorio». Per contrastare la clandestinità, riflette Manganelli, «occorre quindi non solo il contrasto all'ingresso, ma il controllo della permanenza sul territorio dei clandestini». Ma le randellate sono riservate anche alla polizia. "La polizia ha una cultura deviata delle indagini perché pensa che identificare una persona che partecipa a una manifestazione consenta, poi, di attribuirle tutti i reati commessi nell’ambito della stessa manifestazione". A sottolinearlo il sostituto procuratore generale della Cassazione Alfredo Montagna nella sua requisitoria del 27 novembre 2008 innanzi alla prima sezione penale della Cassazione nell’ambito dell’udienza per gli scontri avvenuti a Milano, l’11 marzo 2006 a corso Buenos Aires, durante una manifestazione antifascista non autorizzata promossa dalla sinistra radicale dei centri sociali e degli autonomi per protestare contro un raduno della formazione di estrema destra "Forza Nuova". Lo ha detto in contrarietà ai suoi colleghi dei gradi di giudizio precedenti.

"Quello affermato per la Diaz deve valere anche per i cittadini" "La Giustizia deve essere amministrata - ha proseguito Montagna - con equità e non con due pesi e due misure: quel che è stato affermato per i poliziotti della Diaz, nel processo di Genova, deve valere anche per il cittadino qualunque e non solo per i colletti bianchi. Se è vero, come è vero nel nostro ordinamento che è personale il principio della responsabilità penale, questo deve valere per tutti mentre ho l’impressione che nel nostro Paese oggi, si stia allargando la tendenza ad una minor tutela dei soggetti più deboli, come possono essere i ragazzi un pò scapestrati". Montagna ha aggiunto che "non può passare, alla pubblica opinione, un messaggio sbagliato per cui sui fatti della Diaz i giudici decidono in maniera differente rispetto a quando si trovano a giudicare episodi come quelli di corso Buenos Aires". Invece i giudici hanno deciso in modo differente: per i poliziotti e i loro dirigenti assoluzione quasi generale; per i ragazzi condanne confermate per tutti.

Ma le stoccate vengono portate su tutto il sistema. "Profili di patologie emergono nel settore dei lavori pubblici e delle pubbliche forniture, nonché  nella materia sanitaria, fornendo un quadro di corruzione ampiamente diffuso". Lo ha sottolineato il procuratore generale della Corte dei Conti, nella Relazione all'apertura dell'anno giudiziario della magistratura contabile. Il Pg ha aggiunto che "in particolare l'accertamento del pagamento di tangenti è correlato ad artifici ed irregolarità connesse a fattispecie della più diversa natura, quali la dolosa alterazione di procedure contrattuali, i trattamenti preferenziali nel settore degli appalti d'opera, la collusione con le ditte fornitrici, la illecita aggiudicazione, la irregolare esecuzione o l'intenzionale alterazione della regolare esecuzione degli appalti di opere, forniture e servizi". Comportamenti illeciti di cui e' conseguenza "il pagamento di prezzi di gran lunga superiori a quelli di mercato o addirittura il pagamento di corrispettivi per prestazioni mai rese".

L’Italia non crede più nelle istituzioni che dovrebbero guidarla. Il potere "esercita il comando senza obiettivi e senza principi, perde ogni rapporto con la realtà del Paese", diventa autoreferenziale e alla fine forma "una società separata", con una sua lingua, le sue gazzette, i suoi clan, i suoi privilegi. Questa "società separata ha le finestre aperte solo su se stessa", denuncia il Rapporto Italia dell'Eurispes. In realtà, sottolinea l'Istituto di studi economici e sociali, la politica non c'è più: è estinta, grazie alla tenacia dei poliburocrati, i burocrati dei due poli, ora quasi tutti in "overdose", sopraffatti dai loro stessi abusi.

È una fotografia impietosa quella scattata dal Censis nel suo Rapporto sulla situazione sociale del Paese. L’Italia, secondo l’istituto di ricerca socioeconomica presieduto da Giuseppe De Rita, è un Paese apatico, senza speranza verso il futuro, nel quale sono sempre più evidenti, sia a livello di massa sia a livello individuale, «comportamenti e atteggiamenti spaesati, indifferenti, cinici, prigionieri delle influenze mediatiche». Gli italiani si percepiscono, scrive il Censis, come «condannati al presente senza profondità di memoria e di futuro», vittime di fittizi «desideri mai desiderati» come l’ultimo cellulare alla moda e in preda spesso a «narcisismo autolesionistico», come è testimoniato dal fenomeno del «balconing». Quella italiana sarebbe, in sostanza, una società «pericolosamente segnata dal vuoto». 

"Una mucillagine sociale che inclina continuamente verso il peggio".

Così il Censis descrive la realtà italiana, costituita da una maggioranza che resta "nella vulnerabilità, lasciata a se stessa", "più rassegnata che incarognita", in un'inerzia diffusa "senza chiamata al futuro".

La realtà diventa ogni giorno "poltiglia di massa - spiega il Rapporto sulla situazione sociale del paese - indifferente a fini e obiettivi di futuro, ripiegata su se stessa"; la società è fatta di "coriandoli" che stanno accanto per pura inerzia.

Una minoranza industriale, dinamica e vitale, continua nello sviluppo, attraverso un'offerta di fascia altissima del mercato, produzioni di alto brand, strategie di nicchia, investimenti all'estero; cresce così la voglia di successo degli imprenditori e il loro orgoglio rispetto al mondo di finanza e politica.

Ma "siamo dentro una dinamica evolutiva di pochi e non in uno sviluppo di popolo": "la minoranza industriale va per proprio conto, il governo distribuisce 'tesoretti'", ma lo sviluppo non filtra perché non diventa processo sociale e la società sembra adagiata in un'inerzia diffusa.

Lo sviluppo di una minoranza non ha saputo rilanciare i consumi e la maggioranza si orienta per acquisizioni low cost e su beni durevoli, senza un clima di fiducia.

L'italiano medio dovunque giri lo sguardo sembra pensare di fare esperienza del peggio: nella politica, nella violenza intrafamiliare, nella micro-criminalità e nella criminalità organizzata, nella dipendenza da droga e alcool, nella debole integrazione degli immigrati, nella disfunzione delle burocrazie, nella bassa qualità dei programmi tv.

La minoranza industriale, dinamica e vitale, non ce la fa a trainare tutti, visto che é concentrata sulla conquista di mercati ricchi e lontani, con prodotti a prezzo così alto che non possono scatenare effetto imitativo.

La pur indubbia ripresa - fa notare il Censis - rischia di essere malata se non si immette fiducia nel futuro.

La classe politica, scossa dalla ventata di antipolitica, non può fare da collettore di energie.

Solo delle minoranze "possono trovare la base solida da cui partire" e "sprigionare le energie necessarie per uscire dallo stallo odierno"; si tratta delle minoranze che fanno ricerca e innovazione, giovani che studiano all'estero, professionisti che esplorano nuovi mercati; chi ha scelto di vivere in realtà locali ad alta qualità della vita; minoranze che vivono l'immigrazione come integrazione, che credono in un'esperienza religiosa e sono attente alla persona, che hanno scelto di appartenere a gruppi, movimenti, associazioni, sindacati.

Le diverse minoranze dovranno gestire da sole una sfida faticosa, immaginando spazi nuovi di impegni individuali e collettivi: una sfida assolutamente necessaria - per il Censis - per allontanare l'inclinazione al peggio che "fa rasentare l'ignominia intellettuale e un'insanabile noia".

Il presidente del Censis, De Rita: “Italia rassegnata e furba senza senso del peccato. Lo Stato ha perso autorità morale e sta saltando.”

Nella reazione dell’opinione pubblica ai ripetuti scandali, c’è una sorta di rassegnazione al peggio, un atteggiamento diverso rispetto all’era Tangentopoli, eppure questo approccio non stupisce il presidente del Censis Giuseppe De Rita: «Sì, in giro c’è una rassegnazione vera, ma anche furba. Chiunque di noi può ascoltare grandi dichiarazioni indignate: “Qui sono tutti mascalzoni!”. La gente ragiona così: sento tutti parlare male di tutti e anche io faccio lo stesso. Dopodiché però non scatta la molla: e io che faccio? Non scatta per l’assenza di codici ai quali ubbidire. Non scatta perché non c’è più un vincolo collettivo. Tutto può essere fatto se io stesso ritengo giusto che sia fatto».

La profondità e l’autorevolezza della sua lettura della società e del costume italiano già da tempo hanno fatto di Giuseppe De Rita un’autorità morale, una dei pochissimi intellettuali italiani che è impossibile incasellare.

«Siamo passati dal grande delitto ai piccoli delitti. Dall’Enimont al piccolo appalto. Ma questa è la metafora del Paese. A furia di frammentare, anche i reati sono diventati più piccoli e ciascuno se li assolve come vuole. E’ entrato in crisi il senso del peccato, ma lo Stato che dovrebbe regolare i comportamenti sconvenienti, non ha più l’autorità morale per dire: quel reato è veramente grave. E allora salta lo Stato. Come sta accadendo adesso.  Se sei un piccolo ladruncolo, cosa c’è di meglio che prendersela col grande ladro? Se fai illegalmente il secondo lavoro da impiegato pubblico, poter dire che quelli lì erano ladri e si sono mangiati tutto, non è un alibi, ma è una messa in canto della propria debolezza. Le formichine italiane hanno fatto il Paese, ma hanno preso tutto quello che era possibile dal corpaccione pubblico. Noi che predicavamo le privatizzazioni “alte”, non abbiamo capito che il modo italico di privatizzare era tradurre in interesse privato qualsiasi cosa. Un fenomeno di massa: ognuno si è preso il suo pezzetto di risorsa pubblica.  La classe dirigente della Seconda Repubblica non è stata soltanto la “serie B” della Prima, ma le sono mancati riferimenti di autorità morale. Una classe dirigente si forma sotto una qualche autorità etica. De Gasperi si era formato nell’Austria-Ungheria, il resto della classe dirigente democristiana, diciamoci la verità, si è formata in parrocchia. La classe dirigente comunista si era formata in galera o nella singolare moralità del partito. Questa realtà di illegalità diffusa ha inizio con don Lorenzo Milani. Con don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma della comunità e dello Stato è meno importante della mia coscienza. E’ da lì che inizia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La prima: la libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, non dovevi abortire, dovevi fare il militare, dovevi obbedire allo Stato e poi sei diventato libero di fare tutto questo. Seconda strada: la soggettività economica, ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. E’ il boom delle imprese. La terza strada, la più ambigua: la libertà di essere se stessi e quindi di poter giudicare tutto in base ad un criterio personale. Il marito è mio e lo cambio se voglio, il figlio è mio e lo abortisco se voglio. L’azienda è mia e la gestisco io. Io stesso, certe volte parlando con i miei figli, dico: il peccato è mio, me lo “gestisco” io».

Il Csm, è la convinzione del capo dello Stato nella cerimonia al Quirinale di commiato dai componenti del Csm uscenti e di saluto a quelli entranti, deve «contrastare decisamente oscure collusioni di potere ed egualmente esposizioni e strumentalizzazioni mediatiche, a fini politici di parte o a scopo di "autopromozione personale"». Il 31 luglio 2010 l'inquilino del Quirinale cita «fenomeni di corruzione di trame inquinanti che turbano e allarmano, apparendo essi tra l’altro legati all’operare di "squallide consorterie"».

Per il Colle è importante «alzare la guardia nei confronti di deviazioni che finiscono per colpire fatalmente quel bene prezioso che è costituito dalla credibilità morale e dall'imparzialità e dalla terzietà del magistrato». «Già nella risoluzione adottata dal Csm il 20 gennaio 2010 - ricorda Napolitano nel discorso di saluto dei nuovi componenti del Csm - si è mostrata consapevolezza della percezione da parte dell'opinione pubblica che, alcune scelte consiliari siano in qualche misura condizionate da logiche diverse, che possono talvolta affermarsi in "pratiche spartitorie", rispondenti ad "interessi lobbistici, logiche trasversali, rapporti amicali o simpatie e collegamenti politici"».

Nel documento base della ‘Settimana sociale’, di Agosto 2010, la Cei definisce l’Italia “un Paese senza classe dirigente”.Nel documento è possibile leggere: “L’Italia è un paese senza classe dirigente, senza persone che per ruolo politico, imprenditoriale, di cultura, sappiano offrire alla nazione una visione e degli obiettivi condivisi e condivisibili”.

L’Italia è un Paese «sfilacciato», addirittura ridotto «a coriandoli», che ha paura del futuro. È dirompente la radiografia che il presidente dei vescovi italiani, ha fatto aprendo i lavori del Consiglio permanente della Cei.

“La verità è che ‘il Paese da marciapiede’ i segni del disagio li offre (e in abbondanza) da tempo, ma la politica li toglie dai titoli di testa, sviando l’attenzione con le immagini del ‘Presidente spazzino’, l’inutile ‘gioco dei soldatini’ nelle città, i finti problemi di sicurezza, la lotta al fannullone”. Questo scrive Famiglia Cristiana. Ciò svia l’attenzione dai problemi economici del Paese, e con il rischio “di provocare una guerra fra poveri, se questa battaglia non la si riconduce ai giusti termini, con serietà e senza le ‘buffonate’, che servono solo a riempire pagine di giornali”.

Il Vaticano non recepisce più automaticamente, come fonte del proprio diritto, le leggi italiane. Tre i motivi principali di questa drastica scelta: il loro numero esorbitante, l'illogicità e l'amoralità di alcune norme. Lo riferisce l'Osservatore Romano all’atto di presentazione della nuova legge della Santa Sede sulle fonti del diritto firmata da Benedetto XVI, vigente dal primo gennaio 2009 e in sostituzione della legge del 7 giugno 1929.

E che dire della malattia dei politici. Poltronismo, poltronite. La malattia è presto definita: raccogliere sotto lo stesso corpo più incarichi possibili. La prima poltrona dà potere e visibilità. La seconda fiducia e tranquillità. Se casco lì, rimango in piedi qui. O viceversa.

La Prima Repubblica aveva molti difetti ma alcune virtù nascoste. Tra queste separare in modo indiscutibile la guida degli enti locali con l'impegno da parlamentare. Il divieto, contenuto in una legge del 1957 e limitato ai centri con più di ventimila abitanti e alle province, tutte, trovava fondamento nell'idea di offrire parità di condizioni ai candidati. Un deputato che fosse in corsa per fare il sindaco aveva più possibilità di captare voti. Dunque avrebbe violato la par condicio. Per anni norma osservata, e disciplina dei sensi unici assoluta. Con Tangentopoli il mercato della politica si è però ristretto. Molti presentabili sono divenuti impresentabili. Molti politici in carriera si sono ritrovati in panchina. Molti altri colleghi addirittura oltre le tribune, fuori dal gioco, alcuni dietro le sbarre.

Col favore delle tenebre, nel silenzio assoluto e nella distrazione collettiva, il 2 giugno del 2002 la Giunta per le elezioni, organo politico a cui sono affidati poteri giurisdizionali, cambia i sensi, inverte i passaggi. Chi fa il sindaco di una città che abbia più di ventimila abitanti o il presidente della Provincia non può candidarsi a deputato o senatore. Ma chi è parlamentare può. Senso inverso possibile. La cosa è piaciuta ai più: fare il sindaco-deputato è molto meglio che fare soltanto il sindaco. E se è vero che le indennità non sono cumulabili è certo che le prerogative invece lo sono. Esempio su tutte: l'immunità.

E quindi è iniziata la processione. Prima quello, poi quell'altro. Dopo di te io. E allora io. Un deputato è sindaco a Viterbo, un senatore è sindaco a Catania; una deputata è presidente della Provincia di Asti, un senatore presiede quella di Avellino. Un deputato è sindaco a Brescia, un collega è presidente a Napoli. E via così...

I più hanno trasmesso ai nuovi uffici la stessa foto di rappresentanza data agli uffici parlamentari. Quando serve siamo qui. Col tesserino. Quando non serve siamo lì. Con la fascia tricolore. E' un bel segno in questi tempi di crisi: più poltrone per tutti.

Da una ricerca emergono i difetti del “belpaese”. Italiani maleducati, arroganti e corrotti, con scarso rispetto per l'ambiente e le diversità. I più viziosi? Senza ombra di dubbio, i politici seguiti, a ruota, da sindacalisti, imprenditori e banchieri.

Inizia con in esclusiva dell'indagine, curata dal sociologo Enrico Finzi, che il 'Messaggero di “Sant’Antonio” ha commissionato ad Astra Ricerche, istituto di ricerca demoscopica di cui Finzi è presidente.

Uno zoom sui nuovi vizi dal quale emerge una radiografia 'in presa diretta' sull'Italia.

''Nell'anteprima dell'indagine pubblicata in questo numero della Rivista, si possono trovare le prime istantanee - afferma il direttore della rivista, padre Ugo Sartorio - ossia quali sono i nuovi vizi più diffusi, le cause e, soprattutto, l'identikit degli italiani più 'viziosi'''.

In testa alla classifica dei vizi ci sono i politici, secondo il 78% degli interpellati; seguono i sindacalisti al secondo posto, 40% circa, e poi i giovani, i giornalisti e gli immigrati, attorno al 35%. Tra i nuovi vizi più diffusi l'arroganza e la maleducazione, la corruzione, la disonestà, il consumismo, ma anche l'indifferenza e l'irresponsabilità.

Al primo posto, per quanto riguarda i vizi nella società, troviamo la maleducazione: ben nove su dieci abitanti del Belpaese puntano il dito contro questo vizio.

Al terzo posto, col 77% delle indicazioni, incontriamo il menefreghismo. In stretta connessione, con un valore di poco inferiore (74%), quel tipo di degenerazione etica che si traduce nella disonestà e anche nella corruzione.

Insomma, la più aspra preoccupazione della gente riguarda in generale l'imbarbarimento della vita e delle relazioni interpersonali, fondato sul trionfo dell''io isolato dagli altri' e sul venir meno dell'etica personale e collettiva.

Di diversa natura, ''ma in fondo non così dissimile'', è il quinto macro-difetto, lamentato dal 71% dei 18-79enni: ''lo scarso rispetto per la natura e per l'ambiente''.

Il 49% del campione indica come vizio più grave ''il carrierismo e la competizione senza regole e senza freni, essi stessi determinati dall'egoismo o dal considerare gli altri solo un mezzo per raggiungere i propri obiettivi. Al penultimo posto in questa triste classifica - rileva il presidente di Astra ricerche - ecco il dilagare tra gli italiani dell'immaturità e spesso dell'infantilismo.

Infine il 42% denuncia la crescita nella nostra società dell'intolleranza (a volte religiosa, a volte politica, spesso culturale, spessissimo sportiva): quell'incapacità di accettare e anzi di valorizzare la pluralità delle opinioni e dei comportamenti che rende democratica e civile, oltre che moralmente solida, qualunque civiltà.

Una fotografia, quella voluta dal 'Messaggero di sant'Antonio', che aiuta a rilevare attraverso un'ottica il più possibile imparziale i tratti di un Paese dai mille volti.

Un occhio agli italiani anche da parte straniera, e il risultato per noi non è proprio dei migliori.

Impietosa analisi del Belpaese dove regna "una dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

"L'Italia è oggi una terra inondata da corruzione, decadenza economica, noia politica, dilagante impunità e uno standard di vita in declino".

E' l'impietosa analisi che fa del nostro Paese il Los Angeles Times in occasione delle elezioni politiche del 2008 per la scelta del "62esimo governo in 63 anni". Elezioni nelle quali gli elettori potranno scegliere fra "rei condannati" o "ballerine della tv". Il titolo dell'articolo di Tracy Wilkinson è: "In Italia il crimine paga e vi può far eleggere".

Il Los Angeles Times descrive l'Italia - un tempo "leggendaria icona di cultura" - come un Paese dove la gestione di un'impresa "è un'esperienza torbida e frustrante, a meno di non essere la Mafia, oggi il più grande business in Italia".

Un Paese dove "il sistema giudiziario raramente funziona", e "i parlamentari sono i più pagati d'Europa ma, secondo l'opinione di molti, i meno efficaci, una elite che si autoperpetua" e sembra "voler trascinare giù il Paese con sé".

Un' Italia ormai in ginocchio, con una classe politica "iper-pagata" preda dell' "immobilismo" e del "trasformismo" che sta inesorabilmente perdendo "legittimità"' tra i cittadini stanchi e disillusi. E' un quadro nero della Penisola, il Paese "peggio governato d'Europa", quello che il professor Martin Rhodes traccia nella pagina dei commenti del Financial Times.

I giornali lo dicono chiaramente: non siamo più emblema di stile, ma quintessenza della maleducazione. "Dimenticatevelo il Bel Paese. Musica rap strombazza da una radio portatile e un pallone rotola sul vostro asciugamano mentre una mamma italiana urla a suo figlio insabbiato. Questa è la vita da spiaggia, almeno alla maniera italiana" sentenzia il Sydney Morning Herald. Ma non solo: "un turista visto una sola volta viene considerato non una persona, bensì un’incombenza" (The Guardian), "nelle code ai musei ti ritrovi spinto addirittura da suore" si sostiene su travelpod.com. E ancora, "ci sono preservativi usati ovunque ad inquinare i parchi protetti" (italy.net), mentre in città "la colonna sonora simbolica dell'Italia è il ronzio del motore a due marce degli scooter che sfrecciano ignorando le regole tra il traffico impenetrabile" (New York Times).

Immagine italiana all'estero: sempre più opaca. È il quadro che emerge da una ricerca sulla stampa estera dell’Osservatorio Giornalistico Internazionale Nathan il Saggio (www.nathanilsaggio.com), reso noto dall’Agenzia KlausDavi, che ha monitorato le principali testate straniere (dal New York Times a Le Monde, dall’Herald Tribune al Der Spiegel) e i più importanti portali di informazioni turistiche sul tema "l’Italia vista dagli altri". Ne scaturisce un’analisi critica e a volte dura da parte della stampa estera che denota l’opacizzazione dell’immagine dello stile italiano all’estero.

"Che fine ha fatto la dolce vita?", il titolo di un articolo del Guardian, pare essere emblematico di questo cambiamento di percezione nei confronti del paese del sole. Da simpatici burloni, pronti ad accogliere con il sorriso gli ospiti e pieni del celeberrimo fascino Italian Style riconosciuto in tutto il mondo, gli italiani di oggi riempiono le colonne della stampa estera per maleducazione ed eccessi di arroganza e furbizia. Per strada sono sempre pronti a fischiare le ragazze, concentrati solo sul proprio aspetto fisico e gettano immondizia ovunque (The Sidney Morning Herald). Nella classifica compare la città di Viareggio, "invasa d’estate dalla solita calca italiana stravaccata sotto gli ombrelloni e sempre impegnata a far squillare i cellulari" (Times) e "meta di chi vuol esibire il proprio status" (Frankfurter Allgemeine Zeitung). Segue Rimini con le sue spiagge sovrappopolate e addirittura da evitare, secondo Liberation. Alberghi non accoglienti e infestati da ragni (Focus), valgono a Bibione la terza posizione in questa ’classificà. Chiudono Varigotti, perla della costa ligure che però è invasa da parcheggiatori e bagni abusivi (Abc), e Amalfi, dove strombazzate e insulti in auto sono la normalità (The Globe and Mail).

Questo per quanto riguarda l'Italia degli adulti. E i nostri figli ??

Cresce fra le ragazzine il fenomeno della microprostituzione: sesso a scuola e sul web per arrotondare la “paghetta”.

Ricordate, appena qualche anno fa, quando si parlava di immagini spinte che gli adolescenti facevano girare con i telefonini? Allora quel fenomeno, che era ai suoi albori, venne inquadrato in una specie di patologia “esibizionistica” imitativa fra teenagers. Capitarono anche casi di video “hard” di ragazzine, destinati all’auto-contemplazione all’interno della coppia o al ristretto giro delle amicizie più intime, diffusi, invece, sempre tramite i cellulari, ad intere scolaresche ed intercettati anche dagli allibiti genitori. Alcuni di questi episodi divennero casi di cronaca anche in Emilia, a Bologna e Modena, con povere ragazze messe in piazza in quel modo, e genitori costretti a rivolgersi ai carabinieri.

Si parlò poi di “bullismo elettronico”, quando, oltre alle scene di sesso precoce, vennero fatte circolare dai cellulari anche immagini girate a scuola di pestaggi (anche ai danni di minorati) o di “scherzi pesanti” a professori (ricordate il caso di Lecce della professoressa in perizoma, palpeggiata dagli alunni?). Ci si interrogò allora sul bisogno dei giovani di “apparire” a tutti i costi, di “visibilità” anche negativa, per esistere….

Ebbene a distanza di pochi anni, il fenomeno ha cambiato definizione e modalità: non più “esibizionismo”, non più “bullismo”, non più violenza gratuita, non più gratuita ostentazione… nel senso che le ragazzine continua a riprendersi o a farsi riprendere in situazioni “osè”, ma adesso pretendono di essere pagate. Il fenomeno si sta cioè convertendo in “microprostituzione” a scuola o tramite web. Una forma di prostituzione per così dire “under”, estemporanea, praticata per lo più fra coetanei (per questo la si chiama “micro”), ma è certo alta la possibilità che queste stesse ragazze possano diventare anche “prede” di adulti senza scrupoli, ed ovviamente più danarosi dei loro compagni di classe.

Il fenomeno è osservato ed in preoccupante espansione. Per molte ragazze sta diventando “normale” concedere prestazioni sessuali, o ritrarsi in pose erotiche tramite la webcam o gli stessi cellulari, in cambio di soldi per arrotondare la paghetta dei genitori. Paghetta che magari la crisi può aver un po’ ristretto.

E che dire delle leggi?

Guida pratica comune del Parlamento Europeo, del Consiglio e della Commissione destinata a coloro che partecipano alla redazione dei testi legislativi delle istituzioni europee.

La redazione degli atti deve essere:

chiara, facilmente comprensibile, priva di equivoci;

semplice, concisa, esente da elementi superflui;

precisa, priva di indeterminatezze.

Tale regola ispirata al buon senso è espressione di principi generali del diritto come i seguenti:

l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, nel senso che la legge deve essere accessibile e comprensibile a tutti;

la certezza del diritto, in quanto l’applicazione della legge deve essere prevedibile.

Invece in Italia così non è. L'aspirante dannunziano Roberto Calderoli ha fatto un miracolo: denunciata la presenza di 29.100 leggi inutili, ne ha bruciate in un bel falò 375.000, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Fatti i conti, lavorando 12 ore al giorno dal momento in cui si è insediato, più di una al minuto: lettura del testo compresa. Wow! Resta il mistero dell’ingombro di quelle appena fatte. Stando al «Comitato per la legislazione» della Camera, i soli decreti del governo attuale hanno sfondato la media di 2 milioni di caratteri l’uno: 56 decreti, 112 milioni di caratteri. Per capirci: l’equivalente di 124,4 tomi di 500 pagine l’uno. Dicono le rappresentanze di base dei vigili del fuoco che quella del ministro è stata «una sceneggiata degna del Ventennio». E c’è chi sottolinea che i roghi di carta, in passato, hanno sempre contraddistinto i tempi foschi. Per non dire delle perplessità sui numeri: se la relazione della commissione parlamentare presieduta da Alessandro Pajno e più volte citata da Calderoli aveva accertato «circa 21.000 atti legislativi, di cui circa 7.000 anteriori al 31 dicembre 1969», come ha fatto lo stesso Calderoli a contarne adesso 375.000? Al di là le polemiche, tuttavia, resta il tema: fra i faldoni bruciati ieri nel cortile di una caserma dei pompieri (lui avrebbe voluto fare lo show a Palazzo Chigi ma Gianni Letta, poco marinettiano, si sarebbe opposto...) c’erano soltanto antichi reperti burocratici quali l’enfiteusi o anche qualcosa di più recente? Prendiamo l’articolo 7 delle norme sul fondo perequativo a favore delle Regioni: «La differenza tra il fabbisogno finanziario necessario alla copertura delle spese di cui all’articolo 6, comma 1, lettera a), numero 1, calcolate con le modalità di cui alla lettera b) del medesimo comma 1 dell’articolo 6 e il gettito regionale dei tributi ad esse dedicati, determinato con l’esclusione delle variazioni di gettito prodotte dall’esercizio dell’autonomia tributaria nonché dall’emersione della base imponibile...». Il ministro Calderoli concorderà: un delirio. Il guaio è che non si tratta di una legge fatta ai tempi in cui Ferdinando Petruccelli della Gattina scriveva «I moribondi del Palazzo Carignano». È una legge del governo attuale, presa mesi fa ad esempio di demenza burocratese da un grande giornalista non certo catalogabile fra le «penne rosse»: Mario Cervi. Direttore emerito del Giornale berlusconiano. Eppure c’è di peggio. Nel lodevolissimo sforzo di rendere più facile la lettura e quindi il rispetto delle leggi, il governo approvò il 18 giugno 2009 una legge che aveva un articolo 3 titolato «Chiarezza dei testi normativi». Vi si scriveva che «a) ogni norma che sia diretta a sostituire, modificare o abrogare norme vigenti ovvero a stabilire deroghe indichi espressamente le norme sostituite, modificate, abrogate o derogate; b) ogni rinvio ad altre norme contenuto in disposizioni legislative, nonché in regolamenti, decreti o circolari emanati dalla pubblica amministrazione, contestualmente indichi, in forma integrale o in forma sintetica e di chiara comprensione, il testo...». Insomma: basta con gli orrori da azzeccagarbugli. Eppure, ecco il comma dell’articolo 1 dell’ultimo decreto milleproroghe del governo in carica: «5-ter. È ulteriormente prorogato al 31 ottobre 2010 il termine di cui al primo periodo del comma 8-quinquies dell’articolo 6 del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, come da ultimo prorogato al 31 dicembre 2009 dall’articolo 47-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31». Cioè? Boh...È questo il punto: che senso c’è a incendiare un po' di scatoloni di detriti burocratici che parlano di «concessioni per tranvia a trazione meccanica» o di «acquisto di carbone per la Regia Marina» se poi gli spazi svuotati da quelle regole in disuso vengono riempiti da nuove norme ancora più confuse, deliranti, incomprensibili? La risposta è in un prezioso libretto curato dal preside della facoltà di lettere e filosofia di Padova Michele Cortellazzo. Si intitola: Le istruzioni per le operazioni degli uffici elettorali di sezione tradotte in italiano. Sottotitolo: Omaggio al ministero dell’Interno. Non fosse una cosa seria, potrebbe essere scambiata per satira: se le regole elettorali fossero comprensibili, perché mai dovrebbero essere «tradotte in italiano»? Anche negli armadi impolverati delle legislazioni straniere esistono mucchi di leggi in disuso. Un sito internet intitolato «gogna del legislatore scemo» ne ha steso un elenco irresistibile. In certi Stati del Far West americano è proibito «pescare restando a cavallo». Nell’Illinois chi abbia mangiato aglio può essere incriminato se va a teatro prima che siano trascorse quattro ore. A Little Rock dopo le 13 della domenica non si può portare a spasso mucche nella Main Street. Ogni tanto, senza farla tanto lunga, i legislatori svuotano i magazzini. Magari cercando di non fare gli errori sui quali, nello sforzo di fare in fretta, era incorsa la "ramazza" di Calderoli, la quale, come via via hanno segnalato i giornali consentendo di rimediare alle figuracce, aveva spazzato via per sbaglio anche il trasferimento della capitale da Firenze a Roma, l’istituzione della Corte dei Conti o le norme che consentono a un cittadino di non essere imputato per oltraggio a pubblico ufficiale se reagisce ad atti arbitrari o illegali. Ciò che più conta, però, è fare le leggi nuove con chiarezza. Se no, ogni volta si ricomincia da capo. Qui no, non ci siamo. E a dirlo non sono i «criticoni comunisti» ma il Comitato parlamentare per la legislazione presieduto dal berlusconiano Antonino Lo Presti. Comitato che due mesi fa spiegò che i decreti del governo Prodi, già gonfi di parole, numeri e codicilli, contenevano mediamente 1 milione e 128 mila caratteri. Quelli del governo Berlusconi, a forza di voler tener dentro tutto, hanno superato i 2 milioni. E sarebbe questa, la semplificazione? Ci siamo liberati delle ottocentesche norme sulla «riproduzione tramite fotografia di cose immobili» per tenerci oggi astrusità come i rimandi «all’articolo 1, comma 255, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, può essere prevista l’applicazione dell’articolo 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, e dell’articolo 1, comma 853...»? Ma dai...

Non basta sono gli stessi legislatori ad essere illegittimi, quindi abusivi. Incostituzionalità della Legge elettorale n. 270/2005. Dal Palazzo della Consulta, 4 dicembre 2013. La Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme della legge n. 270/2005 che prevedono l’assegnazione di un premio di maggioranza – sia per la Camera dei Deputati che per il Senato della Repubblica – alla lista o alla coalizione di liste che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e che non abbiano conseguito, almeno, alla Camera, 340 seggi e, al Senato, il 55% dei seggi assegnati a ciascuna Regione. La Corte ha altresì dichiarato l’illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono la presentazione di liste elettorali “bloccate”, nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza. Le motivazioni saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Resta fermo che il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali.

Il Porcellum è illegittimo, dice la Corte costituzionale. Bocciato il premio di maggioranza, bocciate le liste bloccate. La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale delle norme sul premio di maggioranza, per Camera e Senato, attribuito alla lista o alla coalizione che abbiano ottenuto il maggior numero di voti e non abbiano avuto almeno 340 seggi a Montecitorio e il 55 per cento dei seggi assegnati a ogni regione, a Palazzo Madama. Contrarie alla Carta anche le norme sulle liste «bloccate»,perché non consentono all’elettore di dare una preferenza. Accoglie in toto il ricorso contro la legge elettorale del 2005, l’Alta Corte. Ma nella lunga camera di consiglio è battaglia. Perché dopo il voto unanime sull’ammissibilità del ricorso e poi sull’eliminazione del premio di maggioranza, sulla terza questione ci si spacca 7 a 8. Sembra che i giudici più vicini alla sinistra, dal presidente Gaetano Silvestri a Sabino Cassese e Giuliano Amato (di nomina presidenziale), allo stesso Sergio Mattarella (scelto dal parlamento e padre del sistema precedente), volessero che l’Alta Corte affermasse che abolite le liste bloccate ci fosse la «reviviscenza» del vecchio sistema. Ma la manovra non sarebbe riuscita perché si sarebbero opposti lo stesso relatore Giuseppe Tesauro, il vicepresidente Sergio Mattarella, i giudici Paolo Maria Napolitano, Giuseppe Frigo e altri scelti da Cassazione e Consiglio di Stato.

GLI EFFETTI GIURIDICI INCONTESTABILI: SONO DA CONSIDERARSI INESISTENTI, QUINDI NON LEGITTIMATI A LEGIFERARE, A DECRETARE ED A NOMINARE CHI E’ STATO ELETTO CON UNA LEGGE INCOSTITUZIONALE, QUINDI INESISTENTE. INESISTENTI SONO, ANCHE, GLI ATTI DA QUESTI PRODOTTI: NORME GIURIDICHE O NOMINE ISTITUZIONALI.

L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrogazione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'articolo 15 delle Preleggi delinea tre distinti casi di abrogazione: Art. 15 Abrogazione delle leggi. "Le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore, o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore." Nel caso in cui la norma è abrogata, in tutto o in parte, mediante una legge posteriore con esplicito riferimento alla norma precedente si parla di "abrogazione espressa". Quando l'abrogazione deriva dall'incompatibilità delle precedenti norme con quelle emanate successivamente si parla di "abrogazione tacita". Infine, quando una nuova legge disciplina un'intera materia già regolamentata, conferendogli una nuova sistematicità logico-giuridica, le precedenti norme sono abrogate. In quest'ultimo caso si parla di "abrogazione implicita".

Abrogazione per incostituzionalità. Una norma giuridica può essere abrogata anche mediante sentenza di incostituzionalità pronunciata dalla Corte Costituzionale. Articolo 136 – Costituzione. "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge [cfr. art. 134], la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione. La decisione della Corte è pubblicata e comunicata alle Camere ed ai Consigli regionali interessati, affinché, ove lo ritengano necessario, provvedano nelle forme costituzionali."

Abrogazione per referendum. Infine, un altro fenomeno estintivo di una norma giuridica previsto dal nostro ordinamento giuridico è dato dal referendum abrogativo. Articolo 75 – Costituzione. "E` indetto referendum popolare [cfr. art. 87 c. 6] per deliberare l'abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente valore di legge [cfr. artt. 76, 77], quando lo richiedono cinquecentomila elettori o cinque Consigli regionali. Non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio [cfr. art. 81], di amnistia e di indulto [cfr. art. 79], di autorizzazione a ratificare trattati internazionali [cfr. art. 80]. Hanno diritto di partecipare al referendum tutti i cittadini chiamati ad eleggere la Camera dei deputati. La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. La legge determina le modalità di attuazione del referendum."

Abrogazione per desuetudine. Nell'ordinamento giuridico italiano non è valida l'abrogazione per desuetudine. L'abrogazione di una norma giuridica, ossia la sua perdita di efficacia, può avvenire mediante l'emanazione di una norma successiva di pari grado o di grado superiore. Fanno eccezione le leggi temporanee nelle quali l'abrograzione è indicata con il termine della durata indicata dal Legislatore.

L'abrogazione è l'istituto mediante il quale il legislatore determina la cessazione ex nunc (non retroattiva) dell'efficacia di una norma giuridica. Si distingue dalla deroga (posta in essere da una norma speciale o eccezionale) in quanto una norma "derogata" resta in vigore per la generalità dei casi, mentre una norma abrogata cessa di produrre effetti giuridici. Si distingue dall'annullamento, che priva retroattivamente di efficacia una norma. Tutte le norme giuridiche si sviluppano necessariamente su due piani, quello temporale e quello spaziale. In questo scritto sarà la dimensione temporale ad essere presa in considerazione. Questo implica che si muovano i primi passi da una norma ulteriore rispetto a quelle citate in precedenza.

L'articolo 11 delle Preleggi disciplina il principio di irretroattività della legge: "la legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo". Il significato di tale regola è che una norma non può essere applicata a situazioni di fatto o a rapporti giuridici sorti e conclusisi anteriormente alla sua entrata in vigore. Il principio di irretroattività, previsto dall'articolo 11 delle Preleggi, è ripreso dall'articolo 25 della Costituzione il quale lo codifica, meglio lo costituzionalizza, limitatamente all'ambito penale, disponendo, per assicurare un'esigenza di certezza ai comportamenti dei consociati, che "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso". La previsione costituzionale del principio di irretroattività delle leggi, anziché definire, almeno in ambito penale, le problematiche sottese alla efficacia delle norme nel tempo apre delle problematiche ulteriori soprattutto quando viene letto in combinato con l'articolo 2 del codice penale. L'articolo 2 del codice penale statuisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato. Nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali. Se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

Quanto detto analiticamente vale per gli att. Per quanto riguarda le persone elette con norme abrogate perché ritenute incostituzionali?

Nel diritto la nullità è una delle massime sanzioni in quanto opera di diritto (ipso iure) cioè non è richiesto l'intervento del giudice: l'atto nullo è inefficace di diritto. Nel codice civile si ha un atto nullo quando manca di uno degli elementi essenziali o risulta in contrasto con norme imperative. Anche la nullità degli atti amministrativi è riconducibile a questa disciplina avendo però, ovviamente, elementi essenziali diversi e norme imperative differenti da rispettare. La conseguenza della nullità è la stessa: l’atto è come mai esistito. Le cause di nullità, quindi, sono:

- Casi previsti dalla legge, nel diritto amministrativo non basta il semplice contrasto con una norma ma occorre che tale norma preveda come conseguenza della sua inosservanza la nullità dell’atto. Ecco perché si parla più propriamente di casi previsti dalla legge.

- Inottemperanza alle sentenze, può essere considerato un sottoinsieme della categoria dei casi previsti dalla legge, in quanto una legge prevede che nel caso che un atto non si conformi ad un precedente giudicato sia nullo.

- Mancanza degli elementi essenziali, si cerca di applicare l’art. 1325 c.c. per individuare gli elementi degli atti amministrativi.

Partendo dal suddetto articolo la giurisprudenza ha individuato gli elementi essenziali degli atti amministrativi in:

- soggetto, è nullo l’atto il cui autore non sia identificabile;

- oggetto, è nullo l’atto avente un oggetto inesistente, indeterminato o indeterminabile, o inidoneo (espropriare un bene demaniale);

- forma, vige il principio di libertà della forma ma in alcuni casi si ritiene che sia essenziale una certa forma, perché richiesta da una disposizione espressa o dalla prassi. In tali casi il difetto di forma causa nullità dell’atto;

- contenuto, è nullo l’atto con contenuto indeterminato, indeterminabile, inidoneo o illecito (autorizzare ad uccidere, autorizzare un’attività non definita, ecc…);

- causa, si discute se sia elemento essenziale e quindi causa di nullità, o consista nell’interesse pubblico specifico che l’atto deve perseguire e in tal caso la sua violazione comporta illegittimità per eccesso di potere.

- Difetto assoluto di attribuzione (incompetenza assoluta), può essere considerato un sottoinsieme in quanto corrisponde alla mancanza di un elemento essenziale: il soggetto.

Si ha incompetenza assoluta quando l’atto emanato era di competenza non-amministrativa oppure di altra amministrazione (Regione che interviene in materie statali è incompetenza assoluta). La c.d. carenza di potere, che non è prevista espressamente tra le cause di nullità, se ha quando l’amministrazione adotta un atto senza che sussistessero i presupposti legali che la autorizzassero ad emanarlo. Le conseguenze della nullità prevedono che l’atto sia privo di efficacia giuridica in maniera retroattiva, cioè le eventuali attività già svolte risultano prive di giustificazione.
Non è necessario che l’atto nullo sia eliminato, è sufficiente la sentenza dichiarativa del giudice competente.
La nullità è assoluta (può essere chiesta da chiunque, anche d’ufficio) ed è imprescrittibile.

Spiego meglio. Gli atti sono invalidi quando risultano difformi da ciò che la legge stabilisce. Possono essere: inesistenti (o nulli), o annullabili.

1. Inesistenza. È la mancanza di un elemento essenziale che comporta la totale nullità dell'atto. I principali casi sono:

a) inesistenza del soggetto; quando l'atto non può essere considerato espressione del pubblico potere poiché emanato da un soggetto non appartenente alla pubblica amministrazione;

b) incompetenza assoluta per territorio; quando l'atto è stato emanato da un organo della pubblica amministrazione ma al di fuori della sua sfera di competenza territoriale;

c) incompetenza assoluta per materia; è inesistente quello emanato da un organo della pubblica amministrazione in una materia che la legge attribuisce a un altro potere pubblico;

d) inesistenza dell'oggetto; è inesistente quando manca il destinatario o quando l'oggetto è indeterminato, indeterminabile o inidoneo: ad es., l'atto di matrimonio tra due persone dello stesso sesso;

e) inesistenza per mancanza di forma essenziale; si verifica quando la legge prevede che l'atto sia espresso in un certo modo (solitamente per iscritto) ed esso è emanato in modo diverso.

2. Annullabilità. L'atto amministrativo è annullabile quando, pur presentando tutti gli elementi essenziali previsti dall'ordinamento, è stato formato in modo diverso da quanto stabilito dalle norme sulla sua emanazione, ed è pertanto illegittimo; l'illegittimità deve riguardare uno dei suoi elementi essenziali. Mentre non esiste un testo normativo che indichi le cause di inesistenza dell'atto amministrativo, la legge rd 1024 26/6/1924 26 prevede espressamente i vizi di illegittimità che rendono l'atto annullabile: l'incompetenza relativa, l'eccesso di potere e la violazione di legge.

a) Incompetenza relativa. Mentre l'incompetenza assoluta si riscontra solo tra organi di diverse amministrazioni, e produce l'inesistenza dell'atto, quella relativa si verifica tra organi dello stesso settore di amministrazione e costituisce uno dei tre vizi di legittimità dell'atto che lo rendono annullabile. Essa si verifica nei seguenti casi:

- quando un organo gerarchicamente inferiore emana un atto di competenza di quello superiore;

- quando un organo esercita la potestà di un altro organo dello stesso settore di amministrazione;

- quando un organo emana un atto riservato all'ambito territoriale di un altro organo del medesimo ramo di amministrazione.

b) Eccesso di potere. Si riscontra nei casi in cui la pubblica amministrazione utilizza il potere di cui è dotata per conseguire uno scopo diverso da quello stabilito dalla legge, o quando il provvedimento appare illogico, irragionevole o privo di consequenzialità tra premesse e conclusioni. L'eccesso di potere è configurabile soltanto per gli atti discrezionali e mai per quelli vincolati.

c) Violazione di legge. Comprende tutte le cause di illegittimità non previste nei due punti precedenti: si verificano casi di violazione di legge quando, ad es., non sono rispettate le regole sul procedimento amministrativo, quando manca la forma prevista dalla legge, quando mancano i presupposti per l'emanazione dell'atto. L'atto illegittimo, fino a quando non viene annullato, è efficace e può essere eseguito. L'annullamento che ha efficacia retroattiva non si verifica di diritto ma dev'essere fatto valere dagli interessati ed essere pronunciato o con un provvedimento della pubblica amministrazione o con una sentenza del giudice amministrativo; in seguito a essi l'atto si considera come mai emanato e gli effetti eventualmente prodotti vengono annullati; anziché annullato può essere suscettibile di convalida o di sanatoria.

La inesistenza? L’ ultima parola, come sempre, alla giurisprudenza, scrive Sergio De Felice. Ancora una volta il diritto amministrativo mima e mutua le categorie giuridiche del provvedimento (in particolare, le sue invalidità) dal diritto civile e dal diritto romano, le madri di tutti i diritti. Si conferma l’assunto di quel grande autore secondo il quale il civile è il diritto, il penale è il fatto, l’amministrativo è il nulla, se non altro, perché esso deve rivolgersi alle altre branche del diritto per disciplinare le categorie patologiche (come dimostra il tentativo di costruzione negoziale del provvedimento).

E’ noto che la disciplina delle invalidità (in particolare della annullabilità, che richiede l’intervento del giudice) deriva dalla sovrapposizione, in diritto romano, dello jus civile e del diritto pretorio, e dalla integrazione, quindi, del diritto processuale con quello sostanziale. Quanto ai confini tra l’atto nullo e l’atto inesistente, ferma restando la chiara distinzione in teoria generale, tanto che l’una appartiene al mondo del giuridicamente rilevante, l’altra no, nella pratica, occorrerà vedere in quale categoria verranno comprese le fattispecie prima liquidate sotto la generale e onnicomprensiva “nullità-inesistenza” dell’atto amministrativo. Sotto tale aspetto, mentre non desteranno problemi pratici, i cosiddetti casi di scuola (atto emesso ioci o docendi causa, la violenza fisica), maggiori problemi, al limite tra nullità e inesistenza, creeranno altre fattispecie, come il caso dell’usurpatore di pubbliche funzioni (art. 347 c.p.), i casi più gravi di funzionario di fatto, i casi di imperfezione materiale (per non completamento della fattispecie), il difetto di sottoscrizione di un atto. Ancora una volta, sarà la giurisprudenza amministrativa a chiarire se residuano ipotesi di inesistenza, quali sono i requisiti essenziali dell’atto ai sensi dell’art. 21 septies e così via. Allo stesso modo, la giurisprudenza dovrà affrontare i nodi tra il rimedio della azione dichiarativa di nullità, il rapporto con la disapplicazione o inapplicazione, che considera l’atto tamquam non esset e non lo applica (e che perciò dovrebbe riguardare solo gli atti imperativi), ne prescinde, ma non lo espunge definitivamente dal sistema - mentre la nullità dichiara che l’atto è di diritto difforme dall’ordinamento. La giustizia amministrativa conferma ancora una volta, ed è chiamata a confermare, il suo ruolo di creatrice del diritto amministrativo. Essa è senz’altro giurisdizione (lo conferma la sentenza n.204/2004 della Corte Costituzionale); essa è amministrazione (judgér l’administration est administrer) quando compara interessi (nella fase cautelare) o quando entra in punto di contatto, annullando l’atto, o quando sostituisce un segmento di attività, nella giurisdizione di merito. Soprattutto, nella specie, la giurisprudenza si conferma il legislatore di fatto del diritto amministrativo, avendo, il legislatore nazionale ripreso dagli orientamenti consolidati in via giurisprudenziale le varie definizioni di invalidità, di nullità, conseguimento dello scopo, i casi di esecutorietà e così via. Resta la osservazione finale che sarà la giurisprudenza a completare (vel adiuvandi, vel supplendi, vel corrigendi) l’opera del legislatore del 2005. Venuta meno la fiducia nel mito della completezza della legge, è chiaro che il legislatore non è né completo, né perfetto (né, d’altronde, deve esserlo). Osservava la dottrina commercialistica a seguito della invenzione della categoria della inesistenza delle delibere assembleari (nata proprio per contrastare la rigida regola, voluta dal legislatore, della generale annullabilità a pena di decadenza, e la tassatività delle nullità delle delibere agli artt. 2377-2379 c.c.), che il legislatore non è onnipotente, ma è il giudice che adegua la norma al fatto, che trova il punto di equilibrio del sistema, unendo “ li mezzi alle regole e la teoria alla pratica”. La storia, e anche il futuro, della invalidità del provvedimento, ma in realtà tutto il diritto amministrativo, poggeranno ancora una volta, emulando una espressione della dottrina francese, sulle ginocchia del Consiglio di Stato.

Legge Elettorale: ITALIA allo sbando ! Il popolo non riconosce più l’autorità dello Stato ! Non sono  un esperto di diritto Costituzionale ma, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale che ha stabilito l’illegittimità del Porcellum, immagino che qualsiasi semplice cittadino come il sottoscritto, si ponga numerosi interrogativi ai quali, almeno apparentemente, non risulta  agevole trovare risposta, scrive Paolo Cardenà. Certo che,  in prima istanza, una sentenza di questo genere stimolerebbe il dubbio se questa possa avere effetto retroattivo o meno. Perché, nel primo caso, si determinerebbero effetti sconvolgenti di difficile immaginazione. Ciò deriverebbe dal  fatto che, a rigor di logica, essendo incostituzionale una legge elettorale, sarebbero illegittimi anche tutti gli effetti prodotti in virtù di una norma incostituzionale. Quindi, già da otto anni, i parlamentari eletti con questa legge avrebbero occupato una posizione in maniera illegittima, poiché in contrasto con lo spirito costituzionale e quindi con quanto affermato dalla Consulta. Ne deriverebbe che sarebbero illegittimi anche tutti gli atti normativi (e non solo) prodotti in questo periodo. Di conseguenza tutte le leggi varate e tutti gli atti compiuti dal Parlamento sarebbero affetti dal vizio di illegittimità.

Pensate: secondo questa logica sarebbe illegittima anche la semplice fiducia votata ai vari governi che si sono succeduti in questo periodo, che sarebbero essi stessi illegittimi, quindi naturalmente non abilitati a  formare o porre in essere alcuna azione di governo: decreti compresi. Sarebbero illegittime leggi, modifiche costituzionali (Fiscal Compact compreso), nomine dei vari organi dello Stato di competenza del Parlamento, o la nomina stessa del Capo dello Stato e quant’altro prodotto da organi che, in tutto questo tempo, hanno operato per effetto di attribuzioni derivanti da atti parlamentari formati da un parlamento  illegittimo,  quindi  fuori dal perimetro costituzionale. Pensate ancora agli effetti economici e sociali prodotti in tutto questo periodo. Tutto sarebbe affetto dal vizio di legittimità. Quanto affermato trova fondamento giuridico nel  fatto che  si suole  farsi discendere detta efficacia retroattiva dal fatto che la norma caducata è viziata da nullità e quindi non può produrre ab origine alcun effetto giuridico. Tuttavia autorevoli commentatori e costituzionalisti  avvertono come un’applicazione  così radicale e generalizzata di tale principio possa determinare gravi inconvenienti. Potrebbero invero prodursi effetti profondamente sconvolgenti sul piano sociale, ovvero oneri economici insopportabili, rispetto a situazioni da molto tempo cristallizzate. In fattispecie del genere si afferma che  la pronuncia costituzionale, nel suo concreto risultato, non aderirebbe affatto alla propria funzione, in quanto darebbe luogo ad un grave turbamento della convivenza. Facendo una semplice ricerca in rete, ci si accorgerebbe che quanto appena affermato trova sostegno in numerose sentenze della Cassazione, della Corte Costituzionale, del Consiglio di Stato e dei Tribunali di merito che sono stati chiamati dirimere la  problematica relativa a rapporti costituitisi in base ad una norma dichiarata successivamente incostituzionale.

Ve ne riporto alcune:

“Mentre l’efficacia retroattiva della dichiarazione di illegittimità costituzionale è giustificata dalla stessa eliminazione della norma che non può più regolare alcun rapporto giuridico salvo che si siano determinate situazioni giuridiche ormai esaurite, in ipotesi di successione di legge – dal momento che la norma anteriore è pienamente valida ed efficace fino al momento in cui non è sostituita – la nuova legge non può che regolare i rapporti futuri e non anche quelli pregressi, per i quali vale il principio che la disciplina applicabile è quella vigente al momento in cui si p realizzata la situazione giuridica o il fatto generatore del diritto. (Cass. civile, sez. 28 maggio 1979, n. 311 in giustizia civile mass 1979 fasc. 5)”.

“L’efficacia retroattiva della sentenza dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di norma di legge non si estende ai rapporti esauriti, ossia a quei rapporti che, sorti precedentemente alla pronuncia della Corte Costituzionale, abbiano dato luogo a situazioni giuridiche ormai consolidate ed intangibili in virtù del passaggio in giudicato di decisioni giudiziali, della definitività di provvedimenti amministrativi non più impugnabili, del completo esaurimento degli effetti di atti negoziali, del decorso dei termini di prescrizione o decadenza, ovvero del compimento di altri atti o fatti rilevanti sul piano sostanziale o processuale. (Trib. Roma 14 febbraio 1995)”.

“Le pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale hanno effetto retroattivo, inficiando fin dall’origine la validità e l’efficacia della norma dichiarata contraria alla Costituzione, salvo il limite delle situazioni giuridiche “consolidate” per effetto di eventi che l’ordinamento giuridico riconosce idonei a produrre tale effetto, quali le sentenze passate in giudica, l’atto amministrativo non più impugnabile, la prescrizione e la decadenza. (Cass. civ. sez. III 28 luglio 1997 n. 7057).”

“La retroattività delle sentenze interpretative additive, pronunciate dalla Corte costituzionale, trova il suo naturale limite nella intangibilità delle situazioni e dei rapporti giuridici ormai esauriti in epoca precedente alla decisione della Corte ( Fattispecie nella quale il provvedimento di esclusione dai corsi speciali I.S.E.F. è stato impugnato in sede giurisdizionale e in quella sede è stato riconosciuto legittimo con sentenza passata in giudicato, con conseguente intangibilità del relativo rapporto) (Con. giust. amm. Sicilia 24 settembre 1993, n. 319).”

“Sebbene la legge non penale possa avere efficacia retroattiva, tale retroattività, specialmente nel settore della c.d. interpretazione legislativa autentica, incontra limiti nelle singole disposizioni costituzionali e nei fondamentali principi dell’ordinamento, tra i quali va annoverata l’intangibilità del giudicato, nella specie giudicato amministrativo, in quanto il suo contenuto precettivo costituisce un modo di essere non più mutabile della realtà giuridica; pertanto, l’amministrazione non può più esimersi ancorché sia intervenuta una nuova legge (nella specie, la l. 23 dicembre 1992 n. 498 art. 13) dall’ottemperare al giudicato, dovendosi anzi ritenere, onde il legislatore, adottando la norma d’interpretazione autentica, abbia comunque inteso escludere dalla sua applicazione le situazioni coperte dal giudicato. (Consiglio di Stato a. plen., 21 febbraio 1994, n. 4).”

“Il principio secondo il quale l’efficacia retroattiva delle pronunce della Corte Costituzionale recanti dichiarazione de illegittimità costituzionale incontra il limite della irrevocabilità degli effetti prodotti dalla norma invalidata nell’ambito dei rapporti esauriti, è applicabile alle sentenze così dette additive. (Consiglio di Stato sez. VI, 20 novembre 1995).

Quindi, tutto il ragionamento proposto, di fatto, a quanto sembra, risolve  la questione degli effetti retroattivi della pronuncia della Corte Costituzionale. Ma se da una parte risulta risolta la questione della retroattività della pronuncia, non altrettanto può dirsi riguardo al da farsi, stante un quadro reso ancor più complesso dalla fragile condizione dell’Italia e dalla necessità di approvare la Legge di Stabilità al vaglio delle aule parlamentari. Infatti, sia la citata giurisprudenza che la stessa dottrina, sembrerebbero convergere sul fatto che siffatta pronuncia della Corte, dovrebbe produrre effetti sui rapporti futuri, quindi, a parer di chi scrive, su tutti gli atti e i fatti che dovrebbe compiere il parlamento in carica, dalla data di effetto della pronuncia della Corte. Tuttavia, secondo quanto si legge nella stampa nazionale sembrerebbe che la consulta abbia lasciato qualche margine di manovra al Parlamento. Secondo quanto riportato da Il Messaggero,  l’efficacia delle novità decise dalla Corte si avrà dal momento in cui le motivazioni della sentenza saranno pubblicate e questo avverrà nelle prossime settimane. Un’indicazione offerta esplicitamente dalla Corte, il che indica che la Consulta ha in qualche modo voluto mettere in mora il Parlamento, affinchè si affretti a legiferare o a sanare i punti illegittimi dell’attuale legge. Resta fermo che le Camere possono approvare una nuova legge elettorale “secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali” sottolinea la Consulta. La corte ha respinto tutti e due i punti sottoposti al giudizio di costituzionalità: premio di maggioranza e preferenze. In ogni caso “L’efficacia della sentenza della Corte Costituzionale sulla legge elettorale decorrerà dal momento in cui le motivazioni saranno pubblicate». Le motivazioni della sentenza, informa una nota di Palazzo della Consulta, saranno rese note con la pubblicazione della sentenza, che avrà luogo nelle prossime settimane e dalla quale dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici. Da ciò, a parere di chi scrive, se ne deriverebbe che il Parlamento, dalla data di deposito delle motivazioni, decadrebbe dalla possibilità di legiferare in ogni materia, salvo la riforma della legge elettorale che superi la carenza di legittimità del Porcellum. Ma per un quadro di riflessione più ampio e concreto, bisognerà comunque attendere il deposito delle motivazioni. Il Parlamento è (dovrebbe essere) il tempio più elevato della democrazia popolare. Ancorché la giurisprudenza sani l’illegittimità degli atti consolidati, rimane comunque il fatto che questo Parlamento  risulta illegittimo da un punto di vista sostanziale e morale rispetto ai principi di democrazia sanciti dalla Costituzione, e naturalmente appartenenti ad uno stato di diritto. Napolitano, anch’esso eletto in maniera illegittima, dopo gli strappi alla democrazia perpetrati in questi anni,  dovrebbe rimuovere tutti gli elementi che compromettono l’esercizio libero della democrazia e quindi, dal momento di efficacia della sentenza, limitare l’azione del Parlamento alla sola riforma della legge elettorale da concludersi in tempi strettissimi. Dopodiché, sciogliere le camere e portare a nuove elezioni ristabilendo la democrazia di questo Paese. In mancanza di questo, il rischio è proprio quello che la popolazione non riconosca più l’autorità dello Stato, con tutte le imprevedibili e nefaste  conseguenze che ne deriverebbero, che troverebbero terreno fertile in animi esasperati da anni di crisi e in questa classe politica.

Il Parlamento abusivo rischia l'arresto. Dopo la bocciatura del Porcellum, associazioni e sindacati pronti a bloccare le prossime leggi. Pioggia di ricorsi in arrivo, scrive Antonio Signorini  su “Il Giornale”.  Illegittimo il sistema elettorale che ha portato quasi mille parlamentari a Roma. Illegittime le leggi che hanno approvato o che, più verosimilmente, approveranno in seguito. Il sospetto è al momento quasi solo un argomento da accademia, materia per i giuristi. Ma il tema c'è e su questo ragionamento stanno rizzando le antenne, avvocati, associazioni, sindacati e, più in generale, tutti quelli che hanno qualche conto aperto con la legge di Stabilità o con altri provvedimenti approvati o all'esame del Parlamento. Per tutti questi soggetti, la decisione della Corte costituzionale che ha dichiarato illegittimo il sistema elettorale, può diventare un argomento da spendere in tribunale. Ad accennarlo per prima è stato il presidente emerito della Corte costituzionale Pietro Alberto Capotosti. «In teoria - ha detto in un'intervista a Qn - dovremmo annullare le elezioni due volte del presidente della Repubblica, la fiducia data ai vari governi dal 2005, e tutte le leggi che ha fatto un Parlamento illegittimo. Sennonché il passato si salva applicando i principi sulle situazioni giuridiche esaurite».
Il futuro no, quindi. E se la questione venisse posta, spiega un avvocato, non sarebbe respinta. Tra i provvedimenti che il Parlamento eletto con la legge incostituzionale dovrà approvare c'è appunto la «finanziaria» del governo Letta. I consumatori già affilano le armi. Il presidente di Adusbef Elio Lannutti individua i temi sui quali dal suo punto di vista varrebbe la pena giocare la carta della illegittimità. «Staremo a vedere, ma nella legge ci sono dei provvedimenti che vanno a favore delle banche come la rivalutazione delle quote Bankitalia. Una truffa. Poi ci sono 19,4 miliardi di euro per le banche e la questione della Cassa depositi e prestiti, ormai diventata peggio dell'Iri».
«Se il Parlamento non fosse abilitato a fare le leggi ci troveremmo di fronte a una situazione allucinante», aggiunge Rosario Trefiletti, presidente di Federconsumatori. «Io ho sostenuto la nascita del governo delle larghe intese, ma se la prospettiva è che ogni legge votata dalle Camere finisca al Tar, a questo punto sarebbe meglio andare a elezioni».
Tutto dipende da cosa scriverà la Consulta nelle motivazioni. Ed è possibile che alla fine i giudici costituzionali cerchino di salvare gli atti prodotti durante la legislatura. «La Corte - spiega il presidente del Codacons Carlo Rienzi - regola l'efficacia delle sentenze e dirà che l'efficacia vale dalla prossima legislatura». Il nodo è politico, spiega Rienzi. La legge elettorale è illegittima, i parlamentari dovrebbero approvarne una nuova. «Ma siccome nessuno vuole farlo, alla fine si realizzerà quello che volevano Letta e Alfano». Cioè che arrivare a fine legislatura con questo Parlamento e questa legge. Se succederà una cosa è certa: gli avvocati dello Stato avranno molto lavoro. Perché la sentenza è piombata in un momento che ad alcuni sarà sembrato politicamente perfetto (per fare durare il governo e il mandato parlamentare), ma pessimo per la politica economica. In piena sessione di bilancio, con diversi capitoli della legge sui quali sono stati annunciati ricorsi. Ad esempio sul capitolo pubblico impiego con gli insegnanti delle sigle autonome (dalla Gilda allo Snals-Confsal all'Anief) sul piede di guerra per il blocco degli stipendi. Poi le mancate rivalutazioni delle pensioni. Per non parlare del capitolo casa. Tutti temi sui quali sarà chiamato a pronunciarsi un Parlamento - secondo la Consulta - eletto con una legge illegittima.

Avete presente le nane bianche? La morte delle stelle che lascia nel cielo un lucore che a noi sembra una stella viva ed è invece la traccia di un astro “imploso” secoli fa? Bene, l’Italia è quest’illusione ottica, questo effetto visivo che è solo una truffa, scrive Marco Ventura su “Panorama”. È questa l’impressione che ho, l’associazione d’idee con la decisione della Corte Costituzionale sulla incostituzionalità del Porcellum. La legge elettorale con la quale siamo andati a votare nelle politiche degli ultimi otto-nove anni era fasulla, illegittima, contraria alla Costituzione. Bisognerebbe riavvolgere la pellicola a rifare tutto da capo. Barrare con un rigo le liste di eletti, la composizione dei Parlamenti, e poi le fiducie date ai governi. Uno, due, tre, quattro esecutivi. E tutto ciò che consegue dalla ripartizione dei seggi a Montecitorio e a Palazzo Madama. Comprese le nomine pubbliche e la composizione della Consulta che ha sancito l’illegittimità del Porcellum. Tutto per l’ennesima sentenza tardiva, per i tempi di una giustizia che non riesce a restaurare la legittimità perché non può modificare a ritroso gli effetti delle situazioni che riconosce, fuori tempo massimo, contro la legge. Contro la Carta fondamentale. È un po’ come le decisioni della Sacra Rota. Matrimonio nullo. È stato uno sbaglio.

Ma il problema non riguarda soltanto il Porcellum. È di pochi giorni fa la notizia che il procuratore del Lazio della Corte dei Conti, Raffaele De Dominicis, ha sollevato questione di legittimità davanti alla Consulta sul finanziamento pubblico dei partiti. “Tutte le disposizioni a partire dal 1997 e via via riprodotte nel 1999, nel 2002, nel 2006 e per ultimo nel 2012” hanno, scrive, “ripristinato i privilegi abrogati col referendum del 1993” grazie ad “artifici semantici, come il rimborso al posto del contributo; gli sgravi fiscali al posto di autentici donativi; così alimentando la sfiducia del cittadino e l’ondata disgregante dell’anti-politica”. Se la Consulta (tra quanti mesi o anni?) darà ragione alla Corte dei Conti, i partiti dovranno restituire quello che hanno continuato a intascare in tutti questi anni? Voi ci credete che succederà? Io no. E che dire delle eccezioni di costituzionalità che neppure arrivano alla Consulta, ma che si trascinano in un silenzio assordante finché qualcuno, sull’onda di qualche rivoluzione cultural-politica, solleverà il problema? Mi riferisco alla responsabilità civile dei magistrati, per la quale siamo stati condannati dall’Europa. E che è uno scandalo per un Paese che pretende di appartenere al novero delle culture giuridiche civili e liberali.  Nel Paese nel quale il cavillo è elevato al rango di Discrimine Massimo, nella patria dei legulei e degli avvocati, nel paradiso della casta giudiziaria, il cittadino è senza difese, privo di tutele, schiavo dei tempi della giustizia che dalla piccola aula di tribunale fino alle sale affrescate della Consulta dispensa sentenze intempestive e controverse, contaminate dai tempi della politica. Col risultato che nella patria delle toghe che esercitano un potere superiore anche a quello del popolo e dei suoi rappresentanti, non c’è pace né giustizia, e le regole in vigore oggi domani potrebbero rivelarsi una truffa tra dieci anni. Sempre ai nostri danni. Chi mai ci risarcirà del Porcellum? Chi mai ci risarcirà della lentezza della giustizia e dell’irresponsabilità dei magistrati? Chi mai ci risarcirà dei soldi pubblici destinati a chi non ne aveva diritto?

Filippo Facci: La Casta? Siete solo dei pezzenti. Siete dei pezzenti, avete lasciato tutto in mano ai giudici e siete ancora lì a fare calcoli, a preventivare poltrone. I giudici arrestano o no, sequestrano conti, fermano cantieri, giudicano se stessi e cioè altri giudici, non pagano per i propri errori, decidono se questo articolo sia diffamatorio, se una conversazione debba finire sui giornali, se una cura sia regolare o no, se un bambino possa vedere il padre, se un Englaro possa terminare la figlia, se uno Welby possa terminare se stesso, i giudici fanno cose buone e colmano il ritardo culturale e legislativo che voi avete creato in vent’anni, ma i giudici fanno anche un sacco di porcate, e sono in grado di svuotare e piegare ogni leggina che voi gli offriate su un piatto d’argento. Ma siete voi pezzenti che glielo avete lasciato fare. Siete voi che avete lasciato sguarniti gli spazi dei quali loro - o l’Europa - non hanno potuto non occuparsi. E non è che captare il ritardo culturale e legislativo fosse impresa da rabdomanti: della necessità di cambiare il Porcellum lo sapevano tutti, anche i cani, il Porcellum lo odiano tutti, da anni, e voi esistereste solo per questo, per cambiarlo, siete in Parlamento espressamente per questo, e proprio per questo sareste stati eletti: se non fosse che non siete neanche degli eletti. Ma lo abbiamo già detto, che cosa siete. E, ormai, c’è una sola cosa che rende ingiustificata l’antipolitica: che non c’è più la politica. Ci siete voi.

Parlamento dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, anch’essa illegittima perché nominata dal Parlamento e dal Capo dello Stato, anch’esso nominato dal Parlamento Gli effetti sono che la sentenza di incostituzionalità del Parlamento è anch’essa illegittima, perché nominata proprio da un Organo abusivo.

Magari fosse incostituzionale solo il Parlamento, qui siamo tutti incostituzionali, compreso il Capo dello Stato (perchè eletto da un Parlamento illegittimo), e per lo stesso motivo tutte le leggi votate da organismi legislativi illegittimi, e la stessa Corte Costituzionale a rotazione. Paradossalmente, se la corte costituzionale è illegittima, la stessa sentenza di i incostituzionalità è illegittima: paradossale ma assolutamente vero. Mi pare uno dei paradossi filosofici, siamo senza organi istituzionali legittimi e quindi indirettamente nelle mani di chiunque abbia potere effettivo, visto che il potere formale non c'è più.

Elementare…….Watson! Il modo di dire più tipico attribuito ad Holmes è la frase "Elementare, Watson!" ("Elementary, my dear Watson!"), quando egli spiega, con una certa sufficienza, all'amico medico la soluzione di un caso.

Il governo dei giudici? Si chiede Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dal Porcellum all'Ilva, da Stamina alle province e altro ancora. Ormai la magistratura ha preso il posto del Parlamento. Quando fu coniata, l'espressione descriveva l'atteggiamento delle toghe conservatrici della Corte Suprema degli Stati Uniti che per lungo tempo si opposero alle riforme di Roosvelt e del Congresso, ergendosi a impropria opposizione politica.  A distanza di decenni, in Italia, la magistratura ha fatto passi da gigante e si è seduta direttamente sui banchi del governo. Parliamo in senso figurato, per carità, epperò l'immagine rispecchia fedelmente la fotografia degli ultimi anni della vita politica italiana. Complice, per non dire colpevole, un Parlamento inetto, incapace di legiferare di suo pugno (chi ricorda a quando risale l'ultima legge propugnata dal Transatlantico?) e svuotato da ogni funzione di rappresentanza, la magistratura – ora contabile ora amministrativa ora ordinaria – ha spesso dettato l'agenda politica, interpretato norme non scritte o financo imposto decisioni non suffragate da legittimità popolare e rappresentativa. L'ultima decisione della Consulta in materia di legge elettorale – arrivata peraltro dopo otto anni di vacatio decisionis – è solo la punta dell'iceberg. Basti citare il caso dell'Ilva di Taranto, dove i giudici hanno pure ammesso di aver preso il posto delle istituzioni. Emblematiche le dichiarazioni dell'Anm: “La vicenda dell’Ilva è un chiaro esempio del fallimento di altri poteri dello Stato, delle altre autorità che dovevano prevenire questa situazione. Non è che la magistratura si diverta a fare supplenza: è costretta a intervenire di fronte a certe ipotesi di reato con gli strumenti propri del codice". E che dire del taglio alle superpensioni? Bocciato dalla Corte Costituzionale, che ha salvato la casta dei pensionati ricchi, di quelli cioè che incassano pensioni da 90mila euro lordi l'anno (e tra questi ci sono anche i magistrati, guarda caso). Nessun taglio: si sarebbe trattato di un provvedimento discriminatorio perché toccava i redditi dei soli pensionati e non di tutti i lavoratori. Amen. Lo stesso dicasi per la Legge 40, approvata dal Legislatore e dalla volontà popolare. Stessa fine per spesometro e redditometro, cassati e corretti dalla Corte dei Conti, la stessa che si è opposta all'abolizione delle province (motivando la decisione con “basse possibilità di risparmio per gli enti e paventando il rischio di confusione amministrativa nel periodo transitorio”). Ha suscitato critiche anche la decisione sul metodo Stamina presa dal Tar del Lazio, accusato di essersi sostituito ai medici e al governo e di non aver preso in considerazione i pareri del comitato scientifico e di alcuni premi Nobel. Poi c'è la magistratura ordinaria che a volte è passata alle cronache per le diverse interpretazioni date a una legge. Solo per fare un esempio: a Genova un giudice ha pensato bene di non applicare la legge Bossi-Fini nei confronti di un immigrato. Motivazione? Contrasta – a suo dire - con una norma europea. E ancora: dall'affidamento di minori a coppie omosessuali, alle tematiche sul lavoro, passando per i temi etici e altro ancora, la magistratura è sempre lì, pronta a colmare il vuoto o il ritardo della politica, o ancora di più pronta a sostituirsi ad essa. Con buona pace della sovranità popolare.

«Abusivi».  Li chiama proprio così, l’avvocato Gianluigi Pellegrino intervistato da Tommaso Montesano su “Libero Quotidiano”, i 148 deputati eletti a Montecitorio grazie al premio di maggioranza del Porcellum, dichiarato incostituzionale. Un premio contro cui lui, prima ancora della pronuncia della Corte costituzionale, già a marzo 2013 aveva presentato ricorso alla Giunta delle elezioni della Camera. Non ci sarebbe niente di particolare se Gianluigi Pellegrino, figlio del noto avvocato e politico leccese, Giovanni Pellegrino, più volte in Parlamento, non fosse che è il legale di fiducia del Partito Democratico. Gianluigi Pellegrino, come il padre,  amministrativista di fama nazionale, è attivissimo nel campo del centrosinistra per aver condotto nelle aule giudiziarie battaglie sulla legge elettorale, sui quesiti referendari, perché si andasse a elezioni anticipate per il consiglio regionale. Fu lui, per esempio, a investire il Tar del Lazio per spingere l’ex presidente della Regione Lazio a rassegnare finalmente le dimissioni (gesto al quale era legata la tempistica per l’indizione del voto del 2013). E’ certo, però, che la famiglia Pellegrino non ha remore a lavorare con i fascisti. La prova è lì, sul cornicione all’ingresso: anno XII dell’Era Fascista. Era il 1934 e Benito Mussolini era in città a inaugurare questo sanatorio, lavori diretti dall’ingegnere Oronzo Pellegrino, padre del senatore Giovanni. Si parla a Lecce dell’ex ospedale Galateo. È questo l’ospedale che venne utilizzato per la cura della tubercolosi prima, per quella del cancro al polmone poi.

Adesso il giurista incalza: «La mancata convalida delle 148 elezioni è doverosa. Ho presentato in tal senso una memoria in Giunta».

Non sarebbe meglio attendere il deposito delle motivazioni della sentenza da parte della Corte?

«Ci sono già alcuni punti fermi che sono più che sufficienti».

Quali, avvocato?

«La Corte ha emesso una sentenza in parte additiva, cambiando il contenuto delle norme laddove ha previsto l’incostituzionalità del voto ai listoni bloccati senza la possibilità di esprimere almeno una preferenza. Una disposizione solo per il futuro».

E l’altra parte della sentenza, quella sul premio di maggioranza?

«Una pronuncia di tipo classico. Con la quale la Corte ha ritenuto illegittimi i commi da due a cinque dell’articolo 82 del testo unico sull’elezione della Camera così come modificato dal Porcellum. Quei commi sono stati cassati».

E questo che incidenza ha sul Parlamento attuale?

«Nel momento in cui la Giunta delle elezioni affronterà la convalida degli eletti, la procedura dovrà essere compiuta senza applicare i commi che sono stati eliminati dalla Corte».

Ma cosa succede se a Montecitorio, fiutato il pericolo, procedono alle convalide prima che la sentenza produca i suoi effetti?

«Sarebbe un atto indecoroso ed eversivo dinanzi al quale mi aspetterei l’intervento del presidente della Repubblica. E comunque non ci sarebbe il tempo. Devono ancora essere convalidate le elezioni di tutti i deputati. L’articolo 17 del regolamento della Camera stabilisce che alla convalida degli eletti provveda in via definitiva, alla fine di tutti i conteggi e dopo la proposta della Giunta, l’Aula».

Perché la convalida a tempo di record sarebbe un atto eversivo?

«Già a marzo ho impugnato l’elezione dei deputati promossi grazie al premio. E ora il premio è ufficialmente incostituzionale. Rigettare il ricorso ora è impossibile se non con un atto eversivo».

Come deve avvenire l’espulsione degli abusivi?

«Con lo stesso iter adottato per Silvio Berlusconi. La Giunta delle elezioni deve proporre all’Aula della Camera, e la Camera votare, la mancata convalida dei 148 deputati».

Al loro posto chi dovrebbe subentrare?

«Quei seggi andrebbero ripartiti in base ai voti ottenuti. La gran parte andrebbe a Forza Italia, poi, a cascata, al M5S, Scelta civica e così via. Una piccola parte andrebbe anche al Pd».

Un terremoto che avrebbe effetti sui numeri della maggioranza che sostiene il governo.

«Non è importante e non si tratta di una motivazione giuridica. Il rischio è un altro».

Che pericoli vede all’orizzonte?

«Si scatenerà una pressione sulla Corte costituzionale perché i giudici, in sede di stesura delle motivazioni della sentenza, dicano qualche parola in più a favore della salvezza dei deputati sub judice».

Quanto è alto il rischio che ci sia una valanga di ricorsi da parte dei possibili subentranti qualora il Parlamento non procedesse sulla strada delle mancate convalide?

«Premesso che sarebbe un imbroglio, so già che molti di loro si stanno muovendo. E potranno anche chiedere i danni puntando ad ottenere, oltre alla proclamazione, le rispettive indennità per i cinque anni di legislatura. Un ulteriore danno per le casse dello Stato».

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

L’opinione di un saggista, Antonio Giangrande, che sul tema qualcosa ne sa.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

A proposito degli avvocati, si può dissertare o credere sulla irregolarità degli esami forensi, ma tutti gli avvocati sanno, ed omertosamente tacciono, in che modo, loro, si sono abilitati e ciò nonostante pongono barricate agli aspiranti della professione. Compiti uguali, con contenuto dettato dai commissari d’esame o passato tra i candidati. Compiti mai o mal corretti. Qual è la misura del merito e la differenza tra idonei e non idonei? Tra iella e buona sorte?

Detto questo, quanto si risparmierebbe per le casse dello Stato a far cessare la farsa degli annuali esami di avvocato?

Gli emolumenti per migliaia di Commissari d’esame diversificati per gli esami scritti ed orali. Gli oneri per gli impiegati dello Stato. Le spese della transumanza dei compiti. Le spese di vitto, alloggio e trasferte per i candidati. Spese astronomiche per codici spesso inutili. Problemi psicologici non indifferenti per i candidati. Non sarebbe meglio, almeno una volta far decidere chi non ha interesse in conflitto e si estinguesse questa inutile prova che serve solo a far pavoneggiare chi non ha merito? I bravi, se sono bravi, si vedono sul campo. L’avvocato è tale solo se ha lo studio pieno di gente. Chi ha studiato tanti anni, che faccia un periodo di tirocinio con cause limitate, e poi sia valutato dal mercato, anziché farsi giudicare dai primi di questo mondo.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

Di seguito un comunicato dei Giuristi Democratici che entra nel merito delle modifiche che il governo Letta ha imposto col voto di fiducia sulla legge di stabilità. “Non se ne è parlato molto, ma  nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un'ulteriore drastica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l'anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente. Dal punto di vista dell'avvocatura, ovviamente, questa ulteriore riduzione dei compensi (che vengono materialmente erogati, lo ricordiamo per i profani, dopo qualche anno dalla conclusione dei procedimenti) rende la remunerazione di questa attività difensiva inferiore ad ogni limite dignitoso. Se lo Stato per difendere un poveraccio ti paga meno di un quarto di una parcella media quanti saranno i professionisti seri ad accettare la mancetta posticipata di alcuni anni dal lavoro svolto ? Altro che dignità della professione forense, altro che diritto alla difesa, altro che importanza del ruolo professionale... Aumentano poi i costi di notifica e, last but not least, viene chiarito che, in caso di ricorsi con i quali vengono impugnati più atti, il contributo unificato va conteggiato in relazione ad ogni singolo atto impugnato, anche in grado d'appello. Si tratta, tipicamente, dei ricorsi in materia amministrativa, in cui è ordinario impugnare l'atto principale unitamente ai presupposti. Quando si pensa che il contributo unificato, in queste materie, è normalmente di 600 euro, ben si comprende che la giustizia amministrativa diventa veramente un lusso per pochi. Come Giuristi Democratici riteniamo intollerabile questo continuo attacco alla giustizia sostanziale operata sempre verso il basso, a scapito dei soggetti più deboli che incappano nel sistema giustizia o che al sistema giustizia non possono accedere. Pensiamo cosa significa l'applicazione di questi tagli in danno delle migliaia di detenuti prodotto delle leggi criminogene di cui la legislazione ha fatto autentico abuso in questi anni, in materia di stupefacenti, in materia di ingresso e soggiorno degli stranieri, in materia  di recidiva. Pensiamo cosa significano questi aumenti per le centinaia di comitati di cittadini che si muovono contro grandi e piccole opere devastanti nei territori. Non possiamo quindi che esprimere una profonda e ragionata avversità alle misure economiche che il governo vuol mettere in campo nel settore giustizia e chiedere la cassazione senza rinvio di queste disposizioni, che rappresentano un vero e proprio attentato al diritto di giustizia dei cittadini meno abbienti.”

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

I deputati del Movimento 5 Stelle hanno usato espressioni altrettanto forti contro lo strapotere delle lobby in Parlamento. Scandaloso - hanno ribadito ancora in aula durante il voto per la legge di Stabilità del Governo Letta - che il Partito democratico si faccia comandare a bacchetta non dal segretario o dal premier bensì da abili lobbisti che hanno facile accesso alle stanze che contano. Nel ruolo del censore c'è questa volta Girgis Giorgio Sorial, il giovane deputato grillino che nel corso del dibattito in Aula ha usato più volte toni e parole tutt'altro che diplomatiche all'indirizzo del partito del premier. «Questo governo - ha aggiunto - è fallimentare e fallito perché permette agli squali di mettere mano ai conti dello Stato. Mentre lavoravamo in commissione c'erano in giro lobbisti di ogni genere. Mercanteggiavano e barattavano la sicurezza degli incarichi con la garanzia che i propri privilegi e interessi non sarebbero stati toccati». Sorial ha quindi ricordato il nome del relatore Maino Marchi (Pd), non casuale, a suo giudizio, «per una legge che deve essere chiamata marchetta». Sorial si è spinto oltre e ha rivelato il nome del presunto lobbista che avrebbe avuto l'impudenza di vantarsi al telefono, proprio nell'anticamera della commissione Bilancio, di aver «fatto bloccare l'emendamento che prevedeva il taglio delle pensioni d'oro». In Aula la protesta dei grillini non ha risparmiato nemmeno la faccia di Luigi Tivelli, ex funzionario della Camera e, secondo i parlamentari del Movimento 5 Stelle, lobbista di area Pd. Mentre Sorial stigmatizzava il dilagare dell'attività lobbista dentro le istituzioni, i suoi colleghi mostravano volantini con sopra la faccia dell'«indagato». Raggiunto al telefono dalle agenzie di stampa il diretto interessato ha smentito la sua «funzione», giustificando la sua presenza alla Camera per ricerche documentali per un libro. «Quelle parole al telefono? Con i miei amici siamo soliti usare ironia e iperboli, figure retoriche che i grillini non conoscono».

Proprio come uno stipendio. Con regolarità. Mensilmente, racconta Pier Francesco Borgia su “Il Giornale. Ad alcuni senatori e deputati arriverebbero ogni mese finanziamenti da parte di alcune multinazionali che farebbero attività di lobby sfruttando soprattutto l'ingordigia dei nostri rappresentanti politici. Questo almeno il senso dell'accusa lanciata dalla puntata delle Iene andata in onda su Italia Uno il 19 maggio 2013. Nel servizio si vede un assistente parlamentare ripreso di spalle che con la voce alterata racconta il sistema utilizzato da alcune multinazionali per far passare emendamenti «favorevoli». Il meccanismo, racconta la gola profonda, è semplice. «Ci sono multinazionali che hanno a libro paga alcuni senatori». Come funziona il meccanismo? «Semplice - spiega il portaborse - un emissario della società viene da noi a Palazzo Madama e ci consegna i soldi per i parlamentari per cui lavoriamo». Le cifre? Si tratterebbe di operazioni che prevedono addirittura una sorta di tariffario: «Per quel che mi riguarda - spiega l'intervistato - conosco due multinazionali, una del settore dei tabacchi e un'altra nel settore dei videogiochi e delle slot machine ed entrambe elargiscono dai mille ai duemila euro ogni mese». La tariffa, inoltre, cambia «a seconda dell'importanza del senatore e quindi, se è molto influente, sale fino a 5mila euro». Lo scopo è facile da intuire. Questi parlamentari si devono impegnare a far passare emendamenti favorevoli su leggi che interessano le stesse aziende. Per fare un esempio preciso, l'anonimo portaborse cita le sale Bingo per le quali «si sono formati due gruppi, partecipati sia da uomini del centro sinistra che da uomini del centro destra. I due gruppi fanno capo ad ex ministri del centro sinistra». Inutile precisare che questo tipo di attività di lobby non è corretta e, anzi, viola non solo codici morali ma anche le leggi scritte, nonché i patti con gli elettori. Immediata la reazione di Pietro Grasso, presidente dell'aula del Senato. «Dal servizio delle Iene - si legge in una nota di Palazzo Madama - emerge la denuncia di un comportamento che, se provato, sarebbe gravissimo. Purtroppo la natura di denuncia, anonima nella fonte e nei destinatari, rende difficile procedere all'accertamento della verità. Spero quindi che gli autori del servizio e il cittadino informato di fatti così gravi provvedano senza indugio a fare una regolare denuncia alla Procura, in modo da poter accertare natura e gravità dei fatti contestati». Il servizio delle Iene non si limita a questa grave denuncia. La trasmissione mostra, poi, il diffuso malcostume, da parte dei parlamentari, di rimborsare in nero i loro assistenti. Molti «portaborse» prenderebbero, a quanto riferiscono Le iene, 800 euro in nero al mese pur disponendo del regolare tesserino per entrare a Palazzo Madama. La confessione di questo sfruttamento e questo malcostume arriva ovviamente in forma anonima: «Il 70% dei colleghi si trova nelle mie stesse condizioni», racconta la gola profonda spiegando di lavorare in nero da circa dieci anni e di essere stato assistente «sia di un senatore di destra che di un senatore di sinistra». Tutta colpa dell'autodichìa, dice il questore del Senato ed esponente grillina Laura Bottici: «All'interno di Palazzo Madama, dove si approvano le leggi, non hanno validità le leggi stesse ma solo i regolamenti interni. È questo il vero problema». È vero che modificare i regolamenti parlamentari è altrettanto complicato che redigere nuove leggi. Tuttavia non è su questo aspetto che si focalizza l'attenzione del presidente del Senato. «Giorni fa ho evidenziato - ricorda Grasso - l'esigenza di una legge che disciplini, in maniera chiara e trasparente, l'attività lobbistica che al momento, seppur sempre presente, si muove in maniera nascosta».

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

In una sequela di corpi nudi, da quale particolare tra loro riconosceresti un indigente? Dai denti, naturalmente! Guardalo in bocca quando ride e quando parla e vedrai una dentatura incompleta, cariata e sporca.

In fatto di salute dentale gli italiani non si rivolgono alla ASL. I dentisti della ASL ci sono, eppure è solo l'8% degli italiani ad avvalersi dei dentisti pubblici. Nel 92% dei casi gli italiani scelgono un dentista privato. Più che altro ad influenzare la scelta per accedere a questa prestazione medica è perché alla stessa non è riconosciuta l’esenzione del Ticket. Ci si mette anche la macchinosità burocratica distribuita in più tempi: ricetta medica; prenotazione, pagamento ticket e finalmente la visita medica lontana nel tempo e spesso a decine di km di distanza, che si protrae in più fasi con rinnovo perpetuo di ricetta, prenotazione e pagamento ticket. La maggiore disponibilità del privato sotto casa a fissare appuntamenti in tempi brevi, poi, è la carta vincente ed alla fine dei conti, anche, la più conveniente. Ciononostante la cura dei denti ci impone di aprire un mutuo alla nostra Banca di fiducia.

Il diritto alla salute dei denti, in questo stato di cose, in Italia, è un privilegio negato agli svantaggiati sociali ed economici.

LA VULNERABILITA’ SOCIALE. Può essere definita come quella condizione di svantaggio sociale ed economico, correlata di norma a condizioni di marginalità e/o esclusione sociale, che impedisce di fatto l’accesso alle cure odontoiatriche oltre che per una scarsa sensibilità ai problemi di prevenzione e cura dei propri denti, anche e soprattutto per gli elevati costi da sostenere presso le strutture odontoiatriche private. L’elevato costo delle cure presso i privati, unica alternativa oggi per la grande maggioranza della popolazione, è motivo di ridotto accesso alle cure stesse anche per le famiglie a reddito medio - basso; ciò, di fatto, limita l’accesso alle cure odontoiatriche di ampie fasce di popolazione o impone elevati sacrifici economici qualora siano indispensabili determinati interventi.

Pertanto, tra le condizioni di vulnerabilità sociale si possono individuare tre distinte situazioni nelle quali l’accesso alle cure è ostacolato o impedito:

a) situazioni di esclusione sociale (indigenza);

b) situazioni di povertà:

c) situazioni di reddito medio – basso.

Perché il Servizio Sanitario Nazionale e di rimando quello regionale e locale non garantisce il paritetico accesso alle cure dentali? Perché a coloro che beneficiano dell’esenzione al pagamento del Ticket, questo non è applicato alla prestazione odontoiatrica pubblica?

Andare dal dentista gratis è forse il sogno di tutti, visti i conti che ci troviamo periodicamente a pagare e che non di rado sono la ragione per cui si rimandano le visite odontoiatriche, a tutto discapito della salute dentale. Come avrete capito, insomma, non è così semplice avere le cure dentistiche gratis e spesso, per averle, si devono avere degli svantaggi molto forti, al cui confronto la parcella del dentista, anche la più cara, non è nulla. E' però importante sapere e far sapere che, chi vive condizioni di disagio economico o ha malattie gravi, può godere, ma solo in rare Regioni, di cure dentistiche gratuite a totale carico del Sistema Sanitario Nazionale. Diciamo subito che non tutti possono avere questo diritto: le spese odontoiatriche non sono assimilabili a quelle di altre prestazioni mediche offerte nelle ASL, negli ospedali e nelle cliniche convenzionate di tutta Italia. Inoltre, qualora si rendano necessarie protesi dentarie o apparecchi ortodontici, questi sono a carico del paziente: vi sono però alcune condizioni particolari che permettono, a seconda dei regolamenti regionali, di ottenere protesi dentali gratuite e apparecchi a costo zero o quasi. Le regioni amministrano la sanità, e dunque anche le cure dentistiche, con larghe autonomie che a loro volta portano a differenze anche sostanziali da un luogo all'altro. Bisogna, quando si nasce, scegliersi il posto!

Alla fine del racconto, la morale che se ne trae è una. E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?

«Siamo un paese di gente che, presi uno ad uno, si definisce onesta. Per ogni male che attanaglia questa Italia, non si riesce mai a trovare il responsabile. Tanto, la colpa è sempre degli altri!». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Quando ho trattato il tema dell’odontoiatria, parlando di un servizio non usufruibile per tutti, non ho affrontato l’argomento sulla selezione degli odontoiatri. Non ho detto, per esempio, che saranno processati a partire dal prossimo 6 marzo 2014 i 26 imputati rinviati a giudizio dal gup del Tribunale di Bari Michele Parisi nell'ambito del procedimento per i presunti test di ingresso truccati per l'ammissione alle facoltà di odontoiatria e protesi dentaria delle Università di Bari, Napoli, Foggia e Verona, negli anni 2008-2009. Ho scritto solo un articolo asettico dal titolo eclatante.»

Questo articolo è stato pubblicato da decine di testate di informazione. E la reazione dei dentisti non si è fatta attendere, anche con toni minacciosi. Oggetto degli strali polemici è stato, oltre che Antonio Giangrande, il direttore di “Oggi”.

«I Dentisti non sono mafiosi bensì gli unici che si prendono cura dei cittadini». ANDI protesta con Oggi per una delirante lettera pubblicata. Così viene definito l’articolo. Il 14 gennaio 2014 sul sito del settimanale Oggi, nella rubrica “C’è posta per noi”, è stata pubblicata una missiva del dott. Antonio Giangrande presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie dal titolo “La lobby dei dentisti e la mafia odontoiatrica”. Nella nota Giangrande analizza il bisogno di salute orale e le difficoltà del servizio pubblico di dare le risposte necessarie chiedendosi se tutto questo non è frutto del lavoro della lobby dei dentisti talmente potente da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl e le decisioni del Parlamento. ANDI, per tutelare l’immagine dei dentisti liberi professionisti italiani, sta valutando se intraprendere azioni legali nei confronti dell’autore della lettera e del giornale. Intanto ha chiesto di pubblicare la nota che riportiamo sotto. La Redazione di Oggi ha scritto il 24.1.2014 alle 16:59, Il precedente titolo della lettera del Dottor Giangrande era fuorviante e di questo ci scusiamo con gli interessati. Qui di seguito l’intervento dell’Associazione Nazionale Dentisti italiani, a nome del Presidente Dott. Gianfranco Prada, in risposta allo stesso Dottor Giangrande. «A nome dei 23 mila dentisti italiani Associati ad ANDI (Associazione Nazionale Dentisti Italiani) che mi onoro di presiedere vorrei rispondere alla domanda che il dott. Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro tutte le Mafie ha posto sul suo giornale il 14 gennaio. “E’ possibile che la lobby dei dentisti sia così forte da influenzare le prestazioni sanitarie delle Asl italiane e gli indirizzi legislativi del Parlamento? In tempo di crisi ci si deve aspettare un popolo di sgangati senza denti, obbligati al broncio ed impediti al sorriso da una ignobile dentatura?”  La risposta è no. No, dott. Giangrande non c’è una lobby di dentisti così forte da influenzare le scelte della sanità pubblica. La causa di quanto lei scrive si chiama spending review o se vogliamo utilizzare un termine italiano dovremmo dire tagli: oltre 30 miliardi negli ultimi due anni quelli per la sanità. Poi io aggiungerei anche disinteresse della politica verso la salute orale che non ha portato, mai, il nostro SSN ad interessarsi del problema. Vede dott. Giangrande lei ha ragione quando sostiene che un sorriso in salute è una discriminante sociale, ma non da oggi, da sempre. Ma questo non per ragioni economiche, bensì culturali. Chi fa prevenzione non si ammala e non ha bisogno di cure. Mantenere sotto controllo la propria salute orale costa all’anno quanto una signora spende alla settimana dalla propria parrucchiera. Ed ha anche ragione quando “scopre” che le cure odontoiatriche sono costose, ma non care come dice lei. Fare una buona odontoiatria costa e costa sia al dentista privato che alla struttura pubblica, che infatti non riesce ad attivare un servizio che riesca a soddisfare le richieste dei cittadini. Inoltre, oggi, lo stato del SSN quasi al collasso, non consente investimenti nell’odontoiatria: chiudono i pronto soccorso o vengono negati prestazioni salva vita. Ma le carenze del pubblico nell’assistenza odontoiatrica non è neppure di finanziamenti, è di come questi soldi vengono investiti. Qualche anno fa il Ministero della Salute ha effettuato un censimento per capire le attrezzature ed il personale impiegato da Ospedali ed Asl nell’assistenza odontoiatrica e da questo è emerso che i dentisti impiegati utilizzano gli ambulatori pubblici in media per sole 3 ore al giorno. Ma non pensi sia per negligenza degli operatori, molto spesso è la stessa Asl che non può permettersi di attivare il servizio per più tempo. Non ha i soldi. Però poi succede anche che utilizzi le strutture pubbliche per dare assistenza odontoiatrica a pagamento e quindi per rimpinguare i propri bilanci. Come mai non ci indigna per questo? Il problema non è di carenza di attrezzature (mediamente quelle ci sono) sono i costi per le cure. Una visita odontoiatria è molto più costosa di una visita di qualsiasi altra branca della medicina. Pensi quando il suo dermatologo o cardiologo la visita e poi allo studio del suo dentista in termini di strumenti, attrezzature e materiali utilizzati. Anche con i pazienti che pagano il ticket l’Asl non riesce a coprire neppure una piccola parte dei costi sostenuti per effettuare la cure. Da tempo chiediamo ai vari Ministri che negli anni hanno trascurato l’assistenza odontoiatrica di dirottare quegli investimenti in un progetto di prevenzione odontoiatrica verso la fasce sociali deboli e i ragazzi. Una seria campagna di prevenzione permetterebbe di abbattere drasticamente le malattie del cavo orale, carie e malattia parodontale, diminuendo drasticamente la necessità di interventi costosi futuri come quelli protesici. Invece nelle nostre Asl e negli ospedali non si previene e non si cura neppure, perché costa troppo curare, così si estraggono solo denti… creando degli “sdentati” che avranno bisogno di protesi. Dispositivo che il nostro SSN non può erogare. Ma molto spesso lo fa a pagamento. Pensi, dott. Giangrande, siamo talmente lobbie che l’unico progetto di prevenzione pubblica gratuito attivo su tutto il territorio nazionale è reso possibile da 35 anni dai dentisti privati aderenti all’ANDI. Stesso discorso per l’unico progetto di prevenzione del tumore del cavo orale, 6 mila morti all’anno per mancata prevenzione. Per aiutare gli italiani a tutelare la propria salute orale nell’immediato basterebbe aumentare le detrazioni fiscali della fattura del dentista (oggi è possibile detrarre solo il 19%) ma questo il Ministero dell’Economia dice che non è possibile. Però da anni si permette ai cittadini di detrarre oltre il 50% di quanto spendono per ristrutturare casa o per comprare la cucina. Come vede, caro dott. Giangrande, il problema della salute orale è molto serio così come molto serio il problema della mafia. Ma proprio perché sono problemi seri, per occuparsene con competenza bisogna sforzarsi di analizzare il problema con serietà e non fare le proprie considerazioni utilizzando banali lunghi comuni. In questo modo insulta solo i dentisti italiani che sono seri professionisti e non truffatori o peggio ancora mafiosi. Fortunatamente questo i nostri pazienti lo sanno, ecco perché il 90% sceglie il dentista privato e non altre strutture come quelle pubbliche o i low cost. Perché si fida di noi, perché siamo seri professionisti che lavorano per mantenerli sani. Aspettiamo le sue scuse. Il Presidente Nazionale ANDI, Dott. Gianfranco Prada».

Antonio Giangrande, come sua consuetudine, fa rispondere i fatti per zittire polemiche strumentali e senza fondamento, oltre che fuorvianti il problema della iniquità sociale imperante.

Palermo. Morire, nel 2014, perché non si vuole - o non si può - ricorrere alle cure di un dentista. Da un ospedale all'altro: muore per un ascesso. Quando il dolore è diventato insopportabile ha deciso di rivolgersi ai medici, ma la situazione è precipitata, scrive Valentina Raffa su “Il Giornale”, martedì 11/02/2014. Una storia alla Dickens, con la differenza però che oggi non siamo più nell'800 e romanzi sociali come «Oliver Twist», «David Copperfield» e «Tempi difficili» dovrebbero apparire decisamente anacronistici. Eppure... Eppure succede che ai nostri giorni si possa ancora morire per un mal di denti. Un dolore a un molare che la protagonista di questa drammatica vicenda aveva cercato di sopportare. Difficile rivolgersi a un dentista, perché curare un ascesso avrebbe richiesto una certa spesa. E Gaetana, 18enne di Palermo, non poteva permettersela. Lei si sarebbe dovuta recare immediatamente in Pronto soccorso. Quando lo ha fatto, ossia quando il dolore era divenuto lancinante al punto da farle perdere i sensi, per lei non c'era più nulla da fare. È stata accompagnata dalla famiglia all'ospedale Buccheri La Ferla, di Palermo, dove avrebbe risposto bene alla terapia antibiotica, ma purtroppo il nosocomio (a differenza del Policlinico) non dispone di un reparto specializzato. Quando quindi la situazione si è aggravata, la donna è stata portata all'ospedale Civico. Ricoverata in 2^ Rianimazione, i medici hanno tentato il possibile per salvarle la vita. A quel punto, però, l'infezione aveva invaso il collo e raggiunto i polmoni. L'ascesso al molare era divenuto fascite polmonare. L'agonia è durata giorni. La vita di Gaetana era appesa a un filo. Poi è sopraggiunto il decesso. Le cause della morte sono chiare, per cui non è stata disposta l'autopsia. Nel 2014 si muore ancora così. E pensare che esiste la «mutua». Ma Gaetana forse non lo sapeva. Sarebbe bastato recarsi in ospedale con l'impegnativa del medico di base. è una storia di degrado, non di malasanità: ci sono 4 ospedali a Palermo con servizio odontoiatrico. Ma nella periferia tristemente famosa dello Zen questa non è un'ovvietà.

Morire di povertà. Gaetana Priola, 18 anni, non aveva i soldi per andare dal dentista scrive “Libero Quotidiano”. La giovane si è spenta all'ospedale civico di Palermo, dove era ricoverata dai primi giorni di febbraio 2014. A ucciderla, un infezione polmonare causata da un ascesso dentale mai curato. All'inizio del mese, la giovane era svenuta in casa senza più dare segni di vita. I medici le avevano diagnosticato uno choc settico polmonare, condizione che si verifica in seguito a un improvviso abbassamento della pressione sanguigna. Inizialmente, Gaetana era stata trasportata al Bucchieri La Ferla e, in seguito, era stata trasferita nel reparto di rianimazione del Civico. Le sue condizioni sono apparse da subito come gravi. I medici hanno provato a rianimarla ma, dopo una settimana di cure disperate, ne hanno dovuto registrare il decesso. Disperazione e dolore nel quartiere Zen della città, dove la vittima risiedeva insieme alla famiglia.

All'inizio era un semplice mal di denti, scrive “Il Corriere della Sera”. Sembrava un dolore da sopportare senza drammatizzare troppo. Eppure in seguito si è trasformato in un ascesso poi degenerato in infezione. Una patologia trascurata, forse anche per motivi economici, che ha provocato la morte di una ragazza di 18 anni, Gaetana Priolo. La giovane, che abitava a Palermo nel quartiere Brancaccio, non si era curata; qualcuno dice che non aveva i soldi per pagare il dentista. Un comportamento che le è stato fatale: è spirata nell'ospedale Civico per uno «shock settico polmonare». Le condizioni economiche della famiglia della ragazza sono disagiate ma decorose. Gaetana era la seconda di quattro figli di una coppia separata: il padre, barista, era andato via un paio di anni fa. Nella casa di via Azolino Hazon erano rimasti la moglie, la sorella maggiore di Gaetana, il fratello e una bambina di quasi cinque anni. Per sopravvivere e mantenere la famiglia la madre lavorava come donna delle pulizie. «È stata sempre presente, attenta, una donna con gli attributi», dice Mariangela D'Aleo, responsabile delle attività del Centro Padre Nostro, la struttura creato da don Pino Puglisi, il parroco uccisa dalla mafia nel '93, per aiutare le famiglie del quartiere in difficoltà. L'inizio del calvario per Gaetana comincia il 19 gennaio scorso: il dolore è insopportabile tanto da far perdere i sensi alla diciottenne. La ragazza in prima battuta viene trasportata al Buccheri La Ferla e visitata al pronto soccorso per sospetto ascesso dentario. «Dopo due ore circa, in seguito alla terapia, essendo diminuito il dolore, - afferma una nota della direzione del nosocomio - è stata dimessa per essere inviata per competenza presso l'Odontoiatria del Policlinico di Palermo». Dove però Gaetana non è mai andata. Si è invece fatta ricoverare il 30 gennaio al Civico dove le sue condizioni sono apparse subito gravi: in seconda rianimazione le viene diagnosticata una fascite, un'infezione grave che partendo dalla bocca si è già diffusa fino ai polmoni - dicono all'ospedale -. I medici fanno di tutto per salvarla, ma le condizioni critiche si aggravano ulteriormente fino al decesso avvenuto la settimana scorsa. Al momento non c'è nessuna denuncia della famiglia e nessuna inchiesta è stata aperta. «È un caso rarissimo - spiega una dentista - ma certo non si può escludere che possa accadere». Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. «L'11% degli italiani rinuncia alle cure perchè non ha le possibilità economiche, e nel caso delle visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% - denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi - In Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi un medico privato, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d'attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure».

“È un caso rarissimo – spiega una dentista – ma certo non si può escludere che possa accadere”, scrive “Canicattiweb”. Soprattutto quando si trascura la cura dei denti. Ed è questo un fenomeno in crescita. Il Codacons si è schierato subito al fianco dei familiari e dei cittadini indigenti. “Il caso della 18enne morta a Palermo a causa di un ascesso non curato per mancanza di soldi, è uno degli effetti della crisi economica che ha colpito la Sicilia in modo più drammatico rispetto al resto d’Italia”. “L’11% degli italiani rinuncia alle cure mediche perché non ha le possibilità economiche per curarsi, e nel caso delle le visite odontoiatriche la percentuale sale al 23% – denuncia il segretario nazionale Codacons, Francesco Tanasi – Ed in Sicilia la situazione è addirittura peggiore. Chi non può permettersi cure private, si rivolge alla sanità pubblica, settore dove però le liste d’attesa sono spesso lunghissime, al punto da spingere un numero crescente di utenti a rinunciare alle cure. Tale stato di cose genera emergenze e situazioni estreme come la morte della ragazza di Palermo. E’ intollerabile che nel 2014 in Italia si possa morire per mancanza di soldi – prosegue Tanasi – Il settore della sanità pubblica deve essere potenziato per garantire a tutti le prestazioni mediche, mentre negli ultimi anni abbiamo assistito a tagli lineari nella sanità che hanno prodotto solo un peggioramento del servizio e un allungamento delle liste d’attesa”.

Bene, cari dentisti, gli avvocati adottano il gratuito patrocinio, ma non mi sembra che voi adottiate il “Pro Bono Publico” nei confronti degli indigenti. Pro bono publico (spesso abbreviata in pro bono) è una frase derivata dal latino che significa "per il bene di tutti". Questa locuzione è spesso usata per descrivere un fardello professionale di cui ci si fa carico volontariamente e senza la retribuzione di alcuna somma, come un servizio pubblico. È comune nella professione legale, in cui - a differenza del concetto di volontariato - rappresenta la concessione gratuita di servizi o di specifiche competenze professionali al servizio di coloro che non sono in grado di affrontarne il costo.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

Il 3 febbraio 2014 Cecile Malmstrom, commissario europeo per gli affari interni, presenta il primo rapporto sulla corruzione nell’Unione, stimata in 120 miliardi di euro, scrive Emilio Casalini su “Il Corriere della Sera” . Nel capitolo dedicato all’Italia si ricorda che la nostra Corte dei Conti ha valutato la corruzione italiana in 60 miliardi di euro. La maggior parte dei giornali, tg, agenzie di stampa ribatte a caratteri cubitali la notizia per cui metà della corruzione europea è in Italia. I due dati però non sono omogenei né sovrapponibili. Il nostro in particolare lo troviamo nel discorso per l’inaugurazione dell’anno giudiziario 2012, dove a pagina 100 si legge che "Se l’entità monetizzata della corruzione annuale in Italia è stata correttamente stimata in 60 miliardi di euro dal Saet "... sarebbe un’esagerazione. Quindi nemmeno la Corte dei Conti ha mai fatto calcoli di prima mano, ma si riferisce, ritenendolo peraltro esagerato, al rapporto di un altro organismo, il Saet, ossia il Servizio Anticorruzione e Trasparenza. Quest'ultimo però, a pagina 10 nel suo rapporto del 2009, ha scritto esattamente l’opposto, ossia che “le stime che si fanno sulla corruzione, 50-60 miliardi l’anno, senza un modello scientifico, diventano opinioni da prendere come tali, ma che complice la superficialità dei commentatori e dei media, aumenta la confusione e anestetizza qualsiasi slancio di indignazione e contrasto”. Solo opinioni dunque. Il Servizio Anticorruzione negli anni successivi continua a spiegare che si tratta di cifre inventate e cita (a pagina 130) perfino il Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, il quale “ha confermato l’infondatezza della fantasiosa stima di 60 miliardi di euro quale costo della corruzione ogni anno in Italia". Quella cifra sembra essere troppo alta perfino per noi! Ma da dove è nata allora questa cifra che da molti anni tutti ripetono come un mantra? Forse da un semplice calcolo, magari citato in un convegno. Nel 2004 la Banca Mondiale aveva pubblicato un rapporto in cui teorizzava che la corruzione del mondo fosse stimabile in mille miliardi di dollari. Considerato il Pil globale dell’epoca, la corruzione corrispondeva quindi ad oltre il 3% del Pil mondiale. Applicando la stessa percentuale al PIL italiano, ecco saltare fuori la cifra tonda di 60 miliardi. Una cifra inventata ma citata ormai anche dalle istituzioni comunitarie. Ma la cosa più grave, come dice il primo rapporto della Saet, è che un elemento che non si misura, non si gestisce, e quindi non si combatte, non si contrasta.

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

Quello che la gente non capisce……e quello che non si osa dire.

Colloquio con il dr Antonio Giangrande, scrittore e sociologo storico, noto per i suoi saggi d’inchiesta letti in tutto il mondo e per i suoi articoli pubblicati in tutta Italia, ma ignorato dai media generalisti foraggiati dallo Stato.

«Da anni racconto ai posteri ed agli stranieri quello che in Italia non si osa dire. In tema di Giustizia la gente si spella le mani ad osannare quelli che certa politica e certa informazione ha santificato: ossia, i magistrati. Dico questo senza alcun pregiudizio e, anzi, con il rispetto che devo ad amici e magistrati che stimo ed ai quali questa percezione, che non credo sia mio esclusivo patrimonio, non rende il giusto merito. Bene. Io, nei miei testi e nei miei video, parlo di chi, invece da innocente non ha voce. Racconto le loro storie, affinchè in un’altra vita venga reso a loro quella giustizia che in questa realtà gli è negata. Un indennizzo o un risarcimento per quello che gli è stato tolto e mai più gli può essere reso. La dignità ed ogni diritto. Specialmente se poi le pene sono scontate nei canili umani. Cosa orrenda se io aborro questa crudeltà e perciò, addirittura, non ho il mio cane legato alle catene. Ogni città ha le sue storie di ingiustizie da raccontare che nessuno racconta. La mia missione è farle conoscere, pur essendo irriconoscenti le vittime. Parlo di loro, vittime d’ingiustizia, ma parlo anche delle vittime del reato. Parlo soprattutto dell’ambiente sociale ed istituzionale che tali vicende trattano. Vita morte e miracoli di chi ha il potere o l’indole di sbagliare e che, con i media omertosi, invece rimane nell’ombra o luccica di luce riflessa ed immeritata. Sul delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana, il mio paese, ho raccontato quello che in modo privilegiato ho potuto vedere, ma non è stato raccontato. Ma non solo di quel delitto mi sono occupato. Nel libro su Perugia mi sono occupato del delitto di Meredith Kercher. Per esempio.

FIRENZE. 30 gennaio 2014. Ore 22.00 circa.  Come volevasi dimostrare. Ogni volta che un delitto si basa su indizi aleatori che si sottopongono a contrastanti interpretazioni, i magistrati condannano, pur sussistendo gravi dubbi che lasciano sgomenti l'opinione pubblica. Condannano non al di là del ragionevole dubbio e lo fanno per non recare sgarbo ai colleghi dell'accusa. I sensitivi hanno delle sensazioni e li palesano, spesso non creduti. I pubblici ministeri, in assenza di prove, anch’essi hanno delle sensazioni. Solo che loro vengono creduti dai loro colleghi. Sia mai che venga lesa l’aurea di infallibilità di chi, con un concorso all’italiana, da un giorno all’altro diventa un dio in terra. Osannato dagli italici coglioni, che pur invischiati nelle reti dell’ingiustizia, nulla fanno per ribellarsi.

«Grazie a quei giudici coscienziosi e privi di animosità politica che spero sempre di trovare - ha detto Silvio Berlusconi riferendosi ai suoi guai giudiziari - gli italiani potranno comprendere appieno la vera e propria barbarie giudiziaria in cui l’Italia è precipitata. Una degenerazione dei principali capisaldi del diritto - ha, infine, concluso - che ha riservato a me e alle persone che mi stimano e mi vogliono bene un’umiliazione e, soprattutto, un dolore difficilmente immaginabili da parte di chi non vive l’incubo di accuse tanto ingiuste quanto infondate».

Se lo dice lui che è stato Presidente del Consiglio della Repubblica Italiana?

Silvio Berlusconi: «Venti anni di guerra contro di me. In Italia giustizia ingiusta per tutti».

Raffaele Sollecito: «Io sono innocente. Come mi sento? Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto. E’ così...».

Sabrina Misseri: «Io non c'entro niente, sono innocente».

Alberto Stasi: «Io sono innocente».

Queste sono solo alcune delle migliaia di testimonianze riportate nei miei saggi. Gente innocente condannata. Gente innocente rinchiusa in carcere. Gente innocente rinchiusa in carcere addirittura in attesa di un giudizio che arriverà con i tempi italici e rilasciato da magistrati che intanto si godono le loro ferie trimestrali.

Questo può bastare a dimostrare la mia cognizione di causa?

Quale altro ruolo istituzionale prevede l’impunità di fatto per ogni atto compiuto nell’esercizio del proprio magistero? Quale altro organo dello Stato è il giudice di se stesso?

Di questa sorte meschina capitata ai più sfortunati, la maggioranza dei beoti italici se ne rallegra. Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui".

Ecco perché Antonio Giangrande è orgoglioso di essere diverso.

In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?

Noi siamo animali. Siamo diversi dalle altre specie solo perché siamo viziosi e ciò ci aguzza l’ingegno.

Al di là delle questioni soggettive è il sistema giustizia ed i suoi operatori (Ministri, magistrati, avvocati e personale amministrativo) che minano la credibilità di un servizio fondamentale di uno Stato di Diritto.

Noi, miseri umani, prima di parlare o sparlare dei nostri simili, facciamo come dice il nostro amico Raffaele Sollecito: “Vorrei che gli altri si mettessero al mio posto”. Quindi, facciamolo! Solo allora si vedrà che la prospettiva di giudizio cambia e di conseguenza si possono cambiare le cose. Sempre che facciamo in tempo, prima che noi stessi possiamo diventare oggetto di giudizio. Ricordiamoci che quello che capita agli altri può capitare a noi, perché gli altri, spesso, siamo proprio noi. Oggi facciamo ancora in tempo. Basta solo non essere ignavi!»

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

«Siamo un paese di truffatori, o, magari, qualcuno ha interesse a farci passare come tali». Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

Evasione fiscale, buco di 52 miliardi nel 2013. In base alle indagini delle Fiamme Gialle, l'evasione fiscale italiana del 2013 è pari a 51,9 miliardi di euro, scrive Angelo Scarano su “Il Giornale”. Le evasioni fiscali in Italia sono all'ordine del giorno: niente scontrino, niente fatture, insomma, niente di niente. È così, oggi lo Stato italiano ha scoperto che nelle sue casse c'è un buco di 51,9 miliardi di euro non versati: colpa delle società italiane, che per non incappare nel Fisco hanno attuato i tanto famosi "trasferimenti di comodo", spostando le proprie residenze o le basi delle società nei cosiddetti paradisi fiscali - Cayman, Svizzera, Andorre -. Quanto agli oltre ottomila evasori totali scoperti, hanno occultato redditi al fisco per 16,1 miliardi, mentre i ricavi non contabilizzati e i costi non deducibili riferibili ad altri fenomeni evasivi - dalle frodi carosello ai reati tributari fino alla piccola evasione - ammontano a 20,7 miliardi, una cifra più che consistente. Il totale dell'IVA evasa dagli italiani sarebbe di circa 5 miliardi: un dato che non sorprende, se si considera che secondo una recente ricerca della Guardia di finanza su 400.000 controlli effettuati, il 32% delle attività almeno un paio di volte hanno emesso uno scontrino falso, o non lo hanno emesso proprio. Per frodi e reati fiscali, lo scorso anno sono state denunciate 12.726 persone, con 202 arresti. Nei confronti dei responsabili delle frodi fiscali, i finanzieri hanno avviato procedure di sequestro di beni mobili, immobili, valuta e conti correnti per 4,6 miliardi di euro. Oltretutto, in Italia sono presenti 14.220 lavoratori completamente in nero, scoperti nel 2013, e 13.385 irregolari, impiegati da 5.338 datori di lavoro. Con una media di una su tre società che non emette scontrini, non sorprende come l'evasione sia arrivata a cifre stellari, e come tendenzialmente è destinata ad aumentare col tempo.

I datori di lavoro versano i contributi (altrimenti è un reato). Lo stato il primo evasore fiscale: INPDAP non versa i contributi come fanno le aziende ordinariamente. Lo Stato è il primo evasore contributivo. Secondo stime attendibili (ma non ufficiali) il datore di lavoro di oltre 3 milioni di persone avrebbe mancato di versare circa 30 miliardi di contributi. Risultato? Un buco enorme nell'Inpdap che poi è stato scaricato sull'Inps con un'operazione di fusione alquanto discutibile. Non ha versato all'INPDAP i contributi previdenziali dei suoi dipendenti...

Cresce il buco nei conti dell'INPS. Nel 2015 lo Stato dovrà sborsare 100 miliardi per ripianare l'ammanco dell'istituto. Prendendoli da pensionati e contribuenti. Inps, Mastrapasqua al governo: "Allarme conti". Ma Saccomanni lo smentisce, scrive Il Fatto Quotidiano. Il presidente dell'istituto scrive ai ministri Saccomanni e Giovanni: "Valutare un intervento dello Stato per coprire i deficit dell'ex Inpdap, altrimenti le passività aumenteranno". L'ultimo bilancio segnava un rosso di quasi 10 miliardi. E a "La Gabbia" su La7 aveva detto: "Possiamo sopportare solo 3 anni di disavanzo". Angeletti: "Avvertimento tardivo" e Bonanni chiede di fare chiarezza.

Lo stato italiano non ha versato per anni i contributi pensionistici ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni e quindi li ha fatti confluire nell’Inps, ponendoli a carico di coloro che la sventura pose a lavorare nel comparto produttivo. Forse che i pensionati italiani non saranno solidali con i poveri dipendenti delle pubbliche amministrazioni?

Cerchiamo di raccontare la questione del presunto buco dell’Inps come se fossimo dei privati e non mamma Stato, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. La cosa in fondo è semplice. Un paio di anni fa il governo Monti ha deciso di fondere nella grande Inps, la più piccola Inpdap. È il fondo previdenziale che si occupa dei 2,8 milioni di pensionati pubblici. E ovviamente dei prossimi dipendenti statali che andranno in quiescenza. Il motivo formale era nobile: ridurre di 100 milioni il costo di queste burocrazie. In fondo, Inps e Inpdap facevano e fanno lo stesso mestiere: incassano i contributi sociali da lavoratori e datori di lavoro e pagano le pensioni. Si è rivelato, dobbiamo presumere senza malizia, come un modo di annacquare un gigantesco buco di bilancio. Se fossimo dei privati sarebbe una bancarotta, più o meno fraudolenta. E vi spieghiamo perché. L’Inpdap è nato nel 1994. Prima lo Stato italiano la faceva semplice e male. Non pagava i contributi per i propri dipendenti pubblici, ritenendola una partita di giro. Perché accantonare risorse per le future pensioni pubbliche, si saranno detti i furbetti della Prima repubblica? Paghiamo il dovuto, cioè apriamo la cassa, solo quando la pensione sarà maturata. Se volete si tratta di una variazione ancora peggiore rispetto allo schema Ponzi (dal grande truffatore italo americano) del metodo retributivo. Quando nel 1994 si crea l’ente previdenziale si pone dunque il problema. Come facciamo? Semplice, da oggi in poi la Pubblica amministrazione è costretta a pagare anno per anno i suoi contributi, così come tutti i datori privati lo fanno ogni mese con l’Inps, al suo fondo di riferimento: l’Inpdap, appunto. Il sistema diventa così corretto e identico a quello di un’azienda privata: il costo del personale pubblico, in questo modo, diventa fedele alla realtà e pari (anche in termini di cassa) a stipendio netto, più tasse e contributi sociali. Ma restava un problema. Cosa fare con i contributi che si sarebbero dovuti versare nel passato? La genialata se la inventa il governo Prodi nel 2006 insieme al ministro del lavoro Damiano. All’Inpdap (semplifichiamo per farci capire) lo Stato avrebbe dovuto dare più di 8 miliardi di euro di contributi non versati, ma maturati dai dipendenti pubblici. Una bella botta. E anche all’epoca avevamo bisogno di fare i fighetti con l’Europa. Per farla breve, lo Stato non ha trasferito gli 8 miliardi all’Inpdap, ma ha fatto come lo struzzo: ha anticipato volta per volta ciò che serviva per pagare i conti. Di modo che alla fine dell’anno i saldi con l’Europa quadrassero. I nodi vengono al pettine quando Monti decide di fondere l’Inps con l’Inpdap. Antonio Mastrapasqua, che è il super boss delle pensioni private, sa fare bene i suoi conti. E appena si accorge che gli hanno mollato il pacco inizia a tremare. Un imprenditore privato che omettesse di versare i contributi per i propri dipendenti, pur assumendosi l’impegno di pagare la pensione quando maturasse, verrebbe trasferito in un secondo a Regina Coeli o a San Vittore. In più, il medesimo imprenditore privato non dovendo versare ogni anno i contributi all’Inps, potrebbe fare il fenomeno con le banche o la Borsa, dicendo di avere molta più cassa di quanto avrebbe se dovesse andare a versare ogni mese il dovuto. Un mega falso in bilancio da 8 miliardi, questo è ciò che plasticamente è emerso fondendo l’Inpdap nell’Inps. Mastrapasqua resta un servitore dello Stato e, secondo il cuoco, non lo ammetterebbe neanche a sua nonna, ma la fusione dei due enti ha in buona parte compromesso molti degli sforzi fatti per mettere ordine nel suo carrozzone (che tale in buona parte purtroppo resta). Si è dovuto sobbarcare un’azienda fallita e non può prendersela più di tanto con il suo principale creditore: che si chiama Stato Italiano. La morale è sempre quella. Mentre i privati chiudono, falliscono, si disperano per pagare tasse e contributi sociali, lo Stato centrale se ne fotte. Come diceva il marchese del Grillo: «Io so io e voi nun siete un cazzo.»

C'è soltanto una categoria professionale che invece sta versando molti più contributi di quanto riceve in termini di assegni pensionistici, scrive Andrea Telara su “Panorama”. Si tratta degli iscritti alla Gestione Separata, cioè quel particolare fondo dell'Inps in cui confluiscono i versamenti previdenziali dei lavoratori precari (come i collaboratori a progetto) e dei liberi professionisti con la partita iva, non iscritti agli Ordini. Nel 2013, il bilancio della Gestione Separata sarà in attivo per oltre 8 miliardi di euro. Va detto che questo risultato ha una ragion d'essere ben precisa: tra i precari italiani e tra le partite iva senza Ordine, ci sono infatti molti giovani ancora in attività, mentre i pensionati di questa categoria sono pochissimi (il rapporto è di 1 a 6). Non si può tuttavia negare che, se non ci fossero i contributi della Gestione Separata, il bilancio dell'Inps sarebbe in una situazione ancor peggiore di quella odierna. In altre parole, oggi ci sono in Italia quasi 2 milioni di lavoratori precari e di partite iva che tengono in piedi i conti dell'intero sistema previdenziale e che pagano una montagna di soldi per mantenere le pensioni di altre categorie, compresi gli assegni d'oro incassati da qualche ex-dirigente d'azienda. tema dei «contributi pensionistici silenti», che vengono versati dai lavoratori precari, parasubordinati e libero professionisti privi di un ordine di categoria, alla gestione separata dell’Inps. Contributi che però non si trasformano in trattamenti previdenziali, poiché quei cittadini non riescono a maturare i requisiti minimi per la pensione: e che restano nelle casse dell’ente pubblico per pagare quelle degli altri. È un assetto che penalizza proprio i giovani e i precari, che con maggiore difficoltà raggiungono i 35 anni di anzianità, visto che nel mercato legale del lavoro si entra sempre più tardi e in modo intermittente. Anche quando si matura il minimo di contribuzione richiesto, la pensione non supera i 400-500 euro. Ad aggravare la condizione di questa fascia di popolazione è anche l’elevata aliquota dei versamenti, quasi il 27 per cento della retribuzione: una quota che per la verità fu stabilita nel 2006 dal governo di Romano Prodi su pressione dei sindacati. Peraltro il problema non tocca esclusivamente i lavoratori trentenni, sottoposti al regime contributivo, ma anche i più anziani, soggetti a quello retributivo, che richiede almeno vent’anni di attività per maturare la pensione.

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

Vengo anch'io. No, tu no (1967 - Fo, Jannacci)

Inserita nell'album omonimo (che contiene una schidionata di brani indimenticabili: si va da "Giovanni, telegrafista" a "Pedro, Pedreiro", da "Ho visto un re" a "Hai pensato mai", quest'ultima versione in lingua della stupenda "Gastu mai pensà" di Lino Toffolo), "Vengo anch'io. No, tu no" (1967) porta Enzo Jannacci in cima alle classifiche di vendite, con esiti commerciali mai più ripetuti nel corso della sua lunga carriera. Assai accattivante nell'arrangiamento, attraversato da elementi circensi, la canzone divenne una sorta di inno di tutti gli esclusi d'Italia dai grandi rivolgimenti in atto - siamo, ricordiamolo, nel '68 - perchè snobbati dall'intellighenzia dell'epoca. Grazie a versi beffardi e surreali, scritti da Jannacci in sostituzione di quelli originariamente vergati perlopiù da Dario Fo e maggiormente ancorati al reale, il brano s'imprime nella memoria collettiva, diviene una sorta di tormentone nazionale, contribuisce in larga misura a far conoscere ad un pubblico più vasto la figura di un artista inclassificabile quanto geniale.

Si potrebbe andare tutti quanti allo zoo comunale

Vengo anch'io? No tu no

Per vedere come stanno le bestie feroci

e gridare "Aiuto aiuto e` scappato il leone"

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti ora che è primavera

Vengo anch'io? No tu no

Con la bella sottobraccio a parlare d'amore

e scoprire che va sempre a finire che piove

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe poi sperare tutti in un mondo migliore

Vengo anch'io? No tu no

Dove ognuno sia già pronto a tagliarti una mano

un bel mondo sol con l'odio ma senza l'amore

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

Si potrebbe andare tutti quanti al tuo funerale

Vengo anch'io? No tu no

per vedere se la gente poi piange davvero

e scoprire che è per tutti una cosa normale

e vedere di nascosto l'effetto che fa

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Vengo anch'io? No tu no

Ma perché? Perché no

No, no e 354 volte no. La sindrome Nimby (Not in my back yard, "non nel mio cortile") va ben oltre il significato originario. Non solo contestazioni di comitati che non vogliono nei dintorni di casa infrastrutture o insediamenti industriali: 354, appunto, bloccati solo nel 2012 (fonte Nimby Forum). Ormai siamo in piena emergenza Nimto – Not in my term of office, "non nel mio mandato" – e cioè quel fenomeno che svela l’inazione dei decisori pubblici. Nel Paese dei mille feudi è facile rinviare decisioni e scansare responsabilità. La protesta è un’arte, e gli italiani ne sono indiscussi maestri. Ecco quindi pareri "non vincolanti" di regioni, province e comuni diventare veri e propri niet, scrive Alessandro Beulcke su “Panorama”. Ministeri e governo, in un devastante regime di subalternità perenne, piegano il capo ai masanielli locali. Tempi decisionali lunghi, scelte rimandate e burocrazie infinite. Risultato: le multinazionali si tengono alla larga, le grandi imprese italiane ci pensano due volte prima di aprire uno stabilimento. Ammonterebbe così a 40 miliardi di euro il "costo del non fare" secondo le stime di Agici-Bocconi. E di questi tempi, non permettere l’iniezione di capitali e lavoro nel Paese è una vera follia.

NO TAV, NO dal Molin, NO al nucleare, NO all’ingresso dei privati nella gestione dell’acqua: negli ultimi tempi l’Italia è diventata una Repubblica fondata sul NO? A quanto pare la paura del cambiamento attanaglia una certa parte dell’opinione pubblica, che costituisce al contempo bacino elettorale nonché cassa di risonanza mediatica per politici o aspiranti tali (ogni riferimento è puramente casuale). Ciò che colpisce è la pervicacia con la quale, di volta in volta, una parte o l’altra del nostro Paese si barrica dietro steccati culturali, rifiutando tutto ciò che al di fuori dei nostri confini è prassi comune. Le battaglie tra forze dell’ordine e manifestanti NO TAV non si sono verificate né in Francia né nel resto d’Europa, nonostante il progetto preveda l’attraversamento del continente da Lisbona fino a Kiev: è possibile che solo in Val di Susa si pensi che i benefici dell’alta velocità non siano tali da compensare l’inevitabile impatto ambientale ed  i costi da sostenere? E’ plausibile che sia una convinzione tutta italica quella che vede i treni ad alta velocità dedicati al traffico commerciale non rappresentare il futuro ma, anzi, che questi siano andando incontro a un rapido processo di obsolescenza? Certo, dire sempre NO e lasciare tutto immutato rappresenta una garanzia di sicurezza,soprattutto per chi continua a beneficiare di rendite di posizione politica, ma l’Italia ha bisogno di cambiamenti decisi per diventare finalmente protagonista dell’Europa del futuro. NO?

Il Paese dei "No" a prescindere. Quando rispettare le regole è (quasi) inutile. In Italia non basta rispettare le regole per riuscire ad investire nelle grandi infrastrutture. Perché le regole non sono una garanzia in un Paese dove ogni decisione è messa in discussione dai mal di pancia fragili e umorali della piazza. E di chi la strumentalizza, scrive l’imprenditore Massimiliano Boi. Il fenomeno, ben noto, si chiama “Nimby”, iniziali dell’inglese Not In My Backyard (non nel mio cortile), ossia la protesta contro opere di interesse pubblico che si teme possano avere effetti negativi sul territorio in cui vengono costruite. I veti locali e l’immobilismo decisionale ostacolano progetti strategici e sono il primo nemico per lo sviluppo dell’Italia. Le contestazioni promosse dai cittadini sono “cavalcate” (con perfetta par condicio) dalle opposizioni e dagli stessi amministratori locali, impegnati a contenere ogni eventuale perdita di consenso e ad allontanare nel tempo qualsiasi decisione degna di tale nome. Dimenticandosi che prendere le decisioni è il motivo per il quale, in definitiva, sono stati eletti. L’Osservatorio del Nimby Forum (nimbyforum.it) ha verificato che dopo i movimenti dei cittadini (40,7%) i maggiori contestatori sono gli amministratori pubblici in carica (31,4%) che sopravanzano di oltre 15 punti i rappresentanti delle opposizioni. Il sito nimbyforum.it, progetto di ricerca sul fenomeno delle contestazioni territoriali ambientali gestito dall'associazione no profit Aris, rileva alla settima edizione del progetto che in Italia ci sono 331 le infrastrutture e impianti oggetto di contestazioni (e quindi bloccati). La fotografia che emerge è quella di un paese vecchio, conservatore, refrattario ad ogni cambiamento. Che non attrae investimenti perché è ideologicamente contrario al rischio d’impresa. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, è la tendenza allo stallo. Quella che i sociologi definiscono “la tirannia dello status quo”, cioè dello stato di fatto, quasi sempre insoddisfacente e non preferito da nessuno. A forza di "no" a prescindere, veti politici e pesanti overdosi di burocrazia siamo riusciti (senza grandi sforzi) a far scappare anche le imprese straniere. La statistica è piuttosto deprimente: gli investimenti internazionali nella penisola valgono 337 miliardi, la metà di quelli fatti in Spagna e solo l’1,4% del pil, un terzo in meno di Francia e Germania. Un caso per tutti, raccontato da Ernesto Galli Della Loggia. L’ex magistrato Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, città assurta come zimbello mondiale della mala gestione dei rifiuti, si è insediato come politico “nuovo”, “diverso”, “portatore della rivoluzione”. Poi, dicendo “no” ai termovalorizzatori per puntare solo sulla raccolta differenziata, al molo 44 Area Est del porto partenopeo, ha benedetto l’imbarco di 3 mila tonn di immondizia cittadina sulla nave olandese “Nordstern” che, al prezzo di 112 euro per tonn, porterà i rifiuti napoletani nel termovalorizzatore di Rotterdam. Dove saranno bruciati e trasformati in energia termica ed elettrica, a vantaggio delle sagge collettività locali che il termovalorizzatore hanno voluto. Ma senza andare lontano De Magistris avrebbe potuto pensare al termovalorizzatore di Brescia, dove pare che gli abitanti non abbiano l’anello al naso. Scrive Galli Della Loggia: “Troppo spesso questo è anche il modo in cui, da tempo, una certa ideologia verde cavalca demagogicamente paure e utopie, senza offrire alcuna alternativa reale, ma facendosi bella nel proporre soluzioni che non sono tali”.

«C’è un disegno, che lacera, scoraggia e divide e quindi è demoniaco, al quale non dobbiamo cedere nonostante esempi e condotte disoneste, che approfittano del denaro, del potere, della fiducia della gente, perfino della debolezza e delle paure. E’ quello di dipingere il nostro Paese come una palude fangosa dove tutto è insidia, sospetto, raggiro e corruzione. - Aprendo i lavori del parlamentino dei vescovi italiani del 27-30 gennaio 2014 , il presidente della Cei, Angelo Bagnasco, rassicura sulla tenuta morale del paese e chiede a tutti – di reagire ad una visione esasperata e interessata che vorrebbe accrescere lo smarrimento generale e spingerci a non fidarci più di nessuno. L’Italia non è così - afferma il cardinale - nulla – scandisce – deve rubarci la speranza nelle nostre forze se le mettiamo insieme con sincerità. Come Pastori – rileva il porporato – non possiamo esimerci dal dire una parola sul contesto sociale che viviamo, consapevoli di dover dare voce a tanti che non hanno voce e volto, ma che sono il tessuto connettivo del Paese con il loro lavoro, la dedizione, l’onestà.»

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

Letta, Renzi e tutti i governi "non eletti". La "staffetta" non è certo una novità della politica italiana, tra ribaltoni e svolte di ogni tipo (che durano meno di un anno), scrive Sabino Labia su “Panorama”. E sono tre. Stiamo parlando del terzo governo, in tre anni o poco più, non eletto dal popolo ma creato, senza arte ne parte, nella segreteria di un partito con l’avallo autorevole del Quirinale. Già, perché con la nascita del governo Renzi (il sessantesimo della storia Repubblicana) che, a suo dire, mai sarebbe andato a Palazzo Chigi senza passare dalle urne, ma passando solo dalla sede del Pd, sembra di aver fatto l’ennesimo tuffo nel passato. E pensare che ci eravamo convinti che questo tipo di operazione appartenesse a una di quelle mitiche alchimie politiche che tanto deliziavano i partiti della Prima Repubblica, quando i governi non nascevano dalle consultazioni elettorali, ma nella segreteria della DC. E, invece, la Seconda Repubblica e, con ogni probabilità visti i presupposti, anche la Terza Repubblica si avvarrà della facoltà di stabilire l’inquilino di Palazzo Chigi sulla fiducia non dei cittadini ma dei nominati e, per non farci mancare nulla, anche dei non nominati visto che Renzi è soltanto il sindaco di Firenze. In fondo siamo passati da Piazza del Gesù a via del Nazareno. Elencare tutte quelle volte che, dal 1948 a oggi, si è stabilita la fine di un esecutivo, non basterebbe un libro. Per citarne solo alcuni:

- Governo Letta (2013) composto da un'ammucchiata di centro destra e centro sinistra, nato dopo lo sciagurato tentativo di Bersani di coinvolgere l’universo mondo.

- Governo Monti (2011), nato dopo il Friedman-gate dello spread che inseguiva Berlusconi.

- Governo D’Alema (1998), nato dopo il boicottaggio/sabotaggio al primo governo Prodi.

- Governo Dini (1995), nato dopo il ribaltone della Lega, alleata di Berlusconi.

- Governo Ciampi (1993), dopo il sacco dei conti correnti del governo D’Amato.

- Governo De Mita (1988), nato come la vera e unica staffetta, quella con il governo Craxi.

- Governi Rumor/Colombo (1970), Tra l’agosto del 1969 e l’agosto 1970 si ebbe il record di crisi e governi, ben quattro. Ma quelli erano anni veramente difficili.

- Governo Tambroni (1960), nato dopo la decisione presa all’interno della segreteria della Dc di far cadere il governo Segni.

E, proprio in questa occasione, il 25 febbraio 1960 il presidente del Senato, Cesare Merzagora, pronunciò a Palazzo Madama un durissimo discorso contro il Parlamento attaccando i partiti che sostenevano la maggioranza che, nel chiuso delle segreterie, avevano stabilito di far cadere il secondo Governo presieduto da Antonio Segni sostituendolo con un esecutivo guidato da Tambroni. Per di più, Segni, aveva deciso di dimettersi senza fare alcun passaggio dalle Camere. “Se i partiti politici, all’interno dei loro organi statutari, dovessero prendere le decisioni più gravi sottraendole ai rappresentanti del popolo, tanto varrebbe - lo dico, naturalmente, per assurdo – trasformare il Parlamento in un ristretto comitato esecutivo. Risparmieremmo tempo e denaro…". Se poi vogliamo aggiungere un po’ di statistica abbinata alla scaramanzia, che come si sa in Italia non guasta mai, ebbene tutti questi governi non hanno mai avuto una durata superiore a un anno. Prepariamoci ad aggiornare il pallottoliere.

Il Colpo di Stato continua: Renzi sarà il 27mo premier non eletto dal Popolo, scrive Giovanni De Mizio su “Ibtimes”. Mentre continua la sfilata di volti noti e meno noti della politica italiana nel palazzo del Quirinale per le consultazioni del presidente della (ancora per poco) Repubblica Giorgio "Primo" Napolitano e mentre Matteo Renzi, primo ministro in pectore, si riscalda a bordo campo facendo stretching in Piazza della Signoria a Firenze prima di recarsi (a piedi) a Roma, la politica al di fuori del Palazzo continua a rimarcare che il futuro ex-sindaco di Firenze sarà il terzo premier di seguito a non essere stato eletto dal popolo, e come tale privo di legittimazione democratica. Si tratta di un argomento, tuttavia, errato: Renzi non sarà il terzo, bensì il ventisettesimo premier scelto senza mandato popolare a legittimarlo. È un colpo di stato, senza dubbio alcuno, e, a giudicare dalla storia d'Italia del dopoguerra, si tratta di un colpo di stato che parte da lontano, con il chiaro intento di rovesciare la Repubblica per restaurare la Monarchia così come era prima dello Statuto Albertino, possibilmente completando lo svuotamento del Parlamento in atto già da diversi anni. Ne è la prova, fra le altre cose, la volontà di Renzi di mutare il Senato in una camera a parziale nomina regia, pardon, presidenziale. Il colpo di stato attualmente in atto nasce probabilmente a metà degli anni Cinquanta quando, nel corso della Seconda legislatura, si successero ben sei presidenti del Consiglio: De Gasperi, Pella, Fanfani, Scelba, Segni e Zoli. Curiosità: le elezioni si tennero in base alla legge elettorale "truffa" del 1953, che la Corte Costituzionale avrebbe potuto censurare (oppure no), se solo fosse stata istituita (sarebbe "nata" solo nel 1956). Tralasciando De Gasperi (che fallì nell'ottenere la fiducia a causa delle forze monarchiche, carbonare e amatriciane), il primo premier della seconda legislatura, Giuseppe Pella, è dichiaratamente un presidente tecnico, come lo è stato Mario Monti (entrambi, tra l'altro, sono stati ministri degli Esteri e del Bilancio ad interim, a confermare che il complotto, come la Storia, si ripete), e la sua squadra di governo era formata da numerosi ministri altrettanto tecnici. Siamo nel 1953 e Pella ha più o meno la stessa età che avrebbe avuto Monti anni più tardi: dubitiamo sia una coincidenza. Nel gennaio 1954 è Amintore Fanfani ad essere incaricato di formare un governo: anche Fanfani non aveva vinto le elezioni, neppure le primarie del proprio partito, visto che sarebbe stato eletto segretario della DC solo nel giugno successivo (peraltro da un congresso, e non attraverso regolari, libere e democratiche elezioni). Il tentativo delle forze reazionarie, comunque, non va a buon fine, poiché Fanfani non riesce a ottenere la fiducia. Un brutto presagio per il governo Renzi? Lo sapremo nei prossimi giorni. Ciò che avvenne dopo è ancora più disarmante: Mario Scelba riuscì poi a formare un governo, ma fu sostituito da Mario Segni quando fu eletto presidente della Repubblica Giovanni Gronchi, grazie ai voti, guarda caso, dei monarchici. La Storia si ripeterà, abbastanza simile, anche in seguito, con il governo Tambroni. Ma gli esempi sono tanti anche nella storia successiva: le staffette e la nomina di presidenti del Consiglio che non hanno vinto le elezioni sono state a lungo una regola della Repubblica italiana, a testimonianza del fatto che si tratta di un tentativo ultradecennale di spogliare il popolo dei suoi diritti; basti pensare al fatto che in Italia vi sono stati 62 governi in 18 legislature (una media di 3,44 governi a legislatura), presieduti da 26 presidenti del consiglio (2,39 governi per premier). Solo due presidenti del Consiglio sono rimasti in carica (in più governi) dalle elezioni fino alla scadenza naturale della legislatura: De Gasperi e Berlusconi. Ciò dimostra non certo che il ricambio degli inquilini di palazzo Chigi è fisiologico data la natura del sistema politico italiano nonché il dettato costituzionale (sempre formalmente rispettato), bensì che il complotto per il ripristino della Monarchia in Italia ha più forza di quanto si pensi. Da dove nasce l'equivoco? Nasce dal fatto che, secondo la Costituzione, il presidente del Consiglio è nominato dal presidente della Repubblica e deve avere la fiducia delle Camere. Il popolo elegge il Parlamento ed è questi che decide se una persona può essere o meno il presidente del Consiglio, e può anche togliergli la fiducia per darla a un'altra persona, sempre nominata dal Capo dello Stato. I Padri Costituenti hanno insomma tolto al popolo il diritto di eleggere il proprio presidente del Consiglio sin dalla nascita della Repubblica: a ben guardare, insomma, la Repubblica italiana ha avuto ventisei presidenti del Consiglio (su ventisei) non eletti dal popolo, e Renzi, pertanto, si avvia ad essere non il terzo, bensì il ventisettesimo perpetuatore di questa ignobile tradizione che ormai da oltre sessant'anni infanga l'articolo 1 della Costituzione, secondo la quale, al secondo comma, la sovranità appartiene al Popolo, che viene sottratta ad ogni legislatura. Il complotto, insomma, continua. Nota per chi non se ne fosse accorto. Il presente articolo ha un chiaro intento satirico: l'articolo 1 della Costituzione prevede che la sovranità popolare sia esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione stessa. La carta fondamentale prevede che il presidente del Consiglio non abbia legittimazione popolare (non è eletto dal popolo), poiché l'Italia è una Repubblica parlamentare, ovvero il popolo è sovrano attraverso il Parlamento e non attraverso altri organi, men che meno monocratici. Asserire una presunta incostituzionalità (o peggio) delle nomine di Monti, Letta e (eventualmente) Renzi significa ignorare la storia d'Italia, la sua Costituzione e spingere (ulteriormente) verso un pericoloso presidenzialismo populista privo di un adeguato sistema di pesi e contrappesi che eviti derive ancora peggiori di quelle che l'Italia sta sperimentando da una trentina di anni, ovvero più o meno da quando il declino del Belpaese ha impiantato i propri semi nella penisola. Con questo non vogliamo dire che il presidenzialismo sia un male, ma solo che è necessario modificare l'equilibrio costituzionale per evitare gravi storture e menomazioni della democrazia italiana (come avvenute, per altre ragioni, negli ultimi decenni di quasi-presidenzialismo de facto). In sintesi. Un presidente del Consiglio (nella pienezza dei propri poteri) è tale se, e solo fin quando, ha la fiducia di una maggioranza parlamentare: solo per rifarsi alla storia recente, Berlusconi è caduto nel novembre 2011 perché ad ottobre, benché non sfiduciato, non aveva più una maggioranza in Parlamento, tanto che il rendiconto dello Stato fu approvato solo grazie all'assenza delle opposizioni; stesso discorso per Monti, che ha perso la fiducia dopo l'uscita dalla maggioranza del PDL, e per Letta, che ha perso l'appoggio del suo stesso partito, il PD. Queste situazioni sono state una costante nella storia italiana, se si considera che la prima crisi di governo scoppiata in Parlamento risale al primo governo Prodi: in tutti gli altri casi (tranne il Prodi II) la crisi si è sempre consumata fuori dal Parlamento. Allo stesso modo è stata rispettata la Costituzione nella formazione dei governi che si sono via via succeduti negli anni. La staffetta può non piacere, ma ciò che sta accadendo in queste ore è la regola, non l'eccezione, e che soprattutto si sta rispettando il dettato democratico espresso dalla Costituzione che tanti difensori all'amatriciana della Carta stessa continuano a dimenticare (così come non viola la Costituzione il non presentarsi alle consultazioni del Capo dello Stato). E provoca un senso di vergogna essere costretti a ripetere l'ovvio per via di una diffusa ignoranza delle regole costituzionali anche da chi dovrebbe conoscerle a memoria viste le poltrone su cui sono seduti. L'ignoranza è forza, pare.

Sono giorni che su Internet e nel Paese reale, il popolo protesta perché Renzi andrà a Palazzo Chigi senza elezioni, scrive Fabio Brinchi Giusti su “L’Inkiesta”. “Ma il premier non dovremmo eleggerli noi?” Si domanda la gente mormorando rabbiosa contro la democrazia scippata. A volte non sono solo le persone comuni, a volte si uniscono al coro anche coloro che dovrebbero aiutarli a capire come giornalisti e politici. “No ai premier nominati” “Il popolo deve scegliere” e magari per gettare benzina sul fuoco, si urla anche al golpe. Il guaio che è spesso le voci che urlano contro i governi non-eletti sono le stesse che poi urlano “Giù le mani dalla Costituzione” e “La Costituzione non si tocca”. Ma per difenderla la Costituzione prima andrebbe perlomeno letta. E capirla. Perché è la Costituzione ad aver dato all’Italia un sistema dove il Presidente del Consiglio non viene eletto dal popolo. Il popolo elegge il Parlamento e vota i partiti. Dopo le elezioni i partiti eletti vanno dal Presidente della Repubblica e il Presidente della Repubblica sulla base delle indicazioni ricevute nomina il Presidente del Consiglio. Se quest’ultimo perde il consenso della maggioranza dei parlamentari cade e il gioco di cui sopra si ripete. I partiti vanno dal Capo dello Stato e il Capo dello Stato cerca un nuovo nome (oppure lo stesso se quest’ultimo è in grado di riunire di nuovo una maggioranza). Se non si trova un nome si va ad elezioni anticipate. In tutto questo sistema il popolo non ha voce in capitolo. O meglio lo ha indirettamente tramite i suoi rappresentanti, ma non attraverso votazioni! È così dal 1948, anzi è così da sempre perché a livello nazionale il nostro Paese non ha mai conosciuto l’elezione diretta del capo del Governo. A partire dagli anni ’90 una serie di riforme ha introdotto l’elezione diretta dei sindaci o poi dei leader degli enti locali e il passaggio alla legge elettorale maggioritaria (il cosiddetto Mattarellum poi abolito nel 2005) ha favorito questa tendenza anche a livello nazionale dove le coalizioni di centrodestra e centrosinistra si sono sempre presentate agli elettori guidate da un leader-candidato che in caso di vittoria è poi andato a Palazzo Chigi. Ma non essendo cambiata la Costituzione, di fatto, la scelta del Presidente del Consiglio è rimasto un potere nelle mani del Parlamento e del Presidente della Repubblica. E gli elettori sulla scheda elettorale hanno continuato a sbarrare il simbolo di un partito e non il nome di una persona. I governi in Italia si formano così e dunque è perfettamente costituzionale e legittimo la nascita di un governo non votato dagli elettori. Lo è anche se si regge su una maggioranza completamente modificata da cambi di casacca e voltagabbana vari. Se non vi piace questo sistema, pensateci la prossima volta che urlate: “La Costituzione non si cambia!”.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

«Non è possibile che nel 2014 gli indigenti muoiano per i denti o sono detenuti pur innocenti. Se i comunisti da 70 anni non lo hanno ancora fatto, propongo io la panacea di questi mali.»

Così afferma il dr Antonio Giangrande, noto saggista di fama mondiale e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno. Associazione fuori dal coro e fuori dai circuiti foraggiati dai finanziamenti pubblici.

«Al fine di rendere effettivo l’accesso ai servizi sanitari e legali a tutti gli indigenti, senza troppi oneri per le categorie professionali interessate, presento ai parlamentari, degni di questo incarico, questa mia proposta di legge:

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI

PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO

“Per tutelare i diritti dei non abbienti si obbliga, a mo' di PRO BONO PUBLICO, gli esercenti un servizio di pubblica necessità, ai sensi dell'art.359 c.p., a destinare il 20 % della loro attività o volume di affari al servizio gratuito a favore degli indigenti.

E' indigente chi percepisce un reddito netto mensile non maggiore di 1.000 euro, rivalutato annualmente in base all’inflazione.

L'onere ricade sulla collettività, quindi, ai fini fiscali e contributivi, ogni attività pro bono publico, contabilizzata con il minimo della tariffa professionale, è dedotta dal reddito complessivo. 

Le attività professionali svolte in favore degli indigenti sono esentati da ogni tributo o tassa o contributo.

Sono abrogate le disposizioni di legge o di regolamenti incompatibili con la presente legge.”

NON VI REGGO PIU’.

Il testo più esplicito e diretto di Rino dà il titolo all'album uscito nel 1978.

"Nuntereggaepiù" è un brillante catalogo dei personaggi che invadono radio, televisioni e giornali. Clamorosa la coincidenza con quello che succederà nel 1981, quando la magistratura scopre la lista degli affiliati alla P2 di Licio Gelli, loggia massonica in cui compaiono alcuni nomi citati nella filastrocca di Rino.

A dispetto del titolo, nel brano non c'è un briciolo di reggae. Il titolo gioca sull'assonanza fra il genere musicale giamaicano e la coniugazione romanesca del verbo reggere. Come già era accaduto in "Mio fratello è figlio unico", il finale è dissonante rispetto al tema trattato, con l'introduzione di una frase d'amore:

" E allora amore mio ti amo

Che bella sei

Vali per sei

Ci giurerei. "

È uno sfottò come un altro per dire: "Vabbè, visto che vi ho detto tutte 'ste cose, visto che tanto la canzone non fa testo politico, la canzone non è un comizio, il cantautore non è Berlinguer né Pannella, allora a questo punto hanno ragione quelli che fanno solo canzoni d'amore..".  Possiamo immaginare che, oggi, sarebbero entrati di diritto nella filastrocca Umberto Bossi o Antonio Di Pietro per la politica, Fabio Fazio e Maria De Filippi o il Grande Fratello per la tivvù, calciatori super pagati come Totti, Vieri e Del Piero e chissà quante altre invadenti presenze del nostro quotidiano destinate a ronzarci intorno per altri vent'anni. Quando incide la versione spagnola, che in ottobre scala le classifiche spagnole, "Corta el rollo ya" ("Dacci un taglio”), inserisce personaggi di spicco dell'attualità iberica, come il politico Santiago Carrillo, il calciatore Pirri (che più avanti sarà vittima di un rapimento), la soubrette Susana Estrada e altri.
Qui sta la grandezza di Rino Gaetano, se leggete oggi il testo di "Nun te reggae più" vi accorgerete che i personaggi citati sono quasi tutti ancora sulla breccia e, se scomparsi o ritirati dalla vita pubblica, hanno lasciato un segno indelebile nel loro campo, si pensi a Gianni Brera o all'avvocato Agnelli, o a Enzo Bearzot che, un anno dopo la dipartita del cantautore calabrese, regalerà con la sua nazionale (Causio, Tardelli, Antognoni) il terzo mondiale di calcio dopo quarantaquattro anni.

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè (nun te reggae più)

Abbasso e Alè con le canzoni

senza patria o soluzioni

La castità (Nun te reggae più)

La verginità (Nun te reggae più)

La sposa in bianco, il maschio forte,

i ministri puliti, i buffoni di corte

..Ladri di polli

Super-pensioni (Nun te reggae più)

Ladri di stato e stupratori

il grasso ventre dei commendatori,

diete politicizzate,

Evasori legalizzati, (Nun te reggae più)

Auto blu, sangue blu,

cieli blu, amori blu,

Rock & blues (Nun te reggae più!)

Eja-eja alalà, (Nun te reggae più)

DC-PSI (Nun te reggae più)

DC-PCI (Nun te reggae più)

PCI-PSI, PLI-PRI

DC-PCI, DC DC DC DC

Cazzaniga, (nun te reggae più)

avvocato Agnelli,

Umberto Agnelli,

Susanna Agnelli, Monti Pirelli,

dribbla Causio che passa a Tardelli

Musiello, Antognoni, Zaccarelli.. (nun te reggae più)

..Gianni Brera,

Bearzot, (nun te reggae più)

Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio

Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno,

Villaggio, Raffà e Guccini..

Onorevole eccellenza

Cavaliere senatore

nobildonna, eminenza

monsignore, vossia

cheri, mon amour!.. (Nun te reggae più!)

Immunità parlamentare (Nun te reggae più!)

abbasso e alè!

Il numero cinque sta in panchina

si e' alzato male stamattina

– mi sia consentito dire: (nun te reggae più!)

Il nostro è un partito serio.. (certo!)

disponibile al confronto (..d'accordo)

nella misura in cui

alternativo
alieno a ogni compromess..

Ahi lo stress

Freud e il sess

è tutto un cess

si sarà la ress

Se quest'estate andremo al mare

soli soldi e tanto amore

e vivremo nel terrore

che ci rubino l'argenteria

è più prosa che poesia...

Dove sei tu? Non m'ami più?

Dove sei tu? Io voglio, tu

Soltanto tu, dove sei tu? (Nun te reggae più!)

Uè paisà (..Nun te reggae più)

il bricolage,

il '15-18, il prosciutto cotto,

il '48, il '68, le P38

sulla spiaggia di Capo Cotta

(Cardin Cartier Gucci)

Portobello, illusioni,

lotteria, trecento milioni,

mentre il popolo si gratta,

a dama c'è chi fa la patta

a sette e mezzo c'ho la matta..

mentre vedo tanta gente

che non ha l'acqua corrente

e nun c'ha niente

ma chi me sente? ma chi me sente?

E allora amore mio ti amo

che bella sei

vali per sei

ci giurerei

ma è meglio lei

che bella sei

che bella lei

vale per sei

ci giurerei

sei meglio tu

nun te reg più

che bella si

che bella no

nun te reg più!

NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ, NUN TE REGGAE PIÙ...

LA LIBERTA' Giorgio Gaber (1972)

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Vorrei essere libero come un uomo.

Come un uomo appena nato che ha di fronte solamente la natura

e cammina dentro un bosco con la gioia di inseguire un’avventura,

sempre libero e vitale, fa l’amore come fosse un animale,

incosciente come un uomo compiaciuto della propria libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come un uomo che ha bisogno di spaziare con la propria fantasia

e che trova questo spazio solamente nella sua democrazia,

che ha il diritto di votare e che passa la sua vita a delegare

e nel farsi comandare ha trovato la sua nuova libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche avere un’opinione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

Vorrei essere libero, libero come un uomo.

Come l’uomo più evoluto che si innalza con la propria intelligenza

e che sfida la natura con la forza incontrastata della scienza,

con addosso l’entusiasmo di spaziare senza limiti nel cosmo

e convinto che la forza del pensiero sia la sola libertà.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche un gesto o un’invenzione,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

La libertà non è star sopra un albero,

non è neanche il volo di un moscone,

la libertà non è uno spazio libero,

libertà è partecipazione.

“LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE” – Dal testo di Gaber alla realtà che ci circonda. Così cantava il mitico Gaber in una delle sue canzoni “La libertà non è star sopra un albero, non è neanche il volo di un moscone, la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione.” Come rispondereste alla domanda “chi è colui che può definirsi libero?”, certamente molti diranno subito “colui che può fare ciò che vuole, esprimere le proprie opinioni, manifestare la propria fede e  via discorrendo” … invece non proprio. Non proprio perché questa sarebbe anarchia o per lo meno la rasenterebbe; per capire meglio il significato di tale termine, allora, prendiamo in esame la frase di Gaber libertà è partecipazione: partecipare, filologicamente inteso significa “essere parte di …” e quindi essere inseriti in un dato contesto. Libertà non è dunque dove non esistono limitazioni ma bensì dove queste vigono in maniera armoniosa e, naturalmente, non oppressiva. Posso capire che la cosa strida a molti ma se analizzata in maniera posata si potrà evincere come una società senza regole sia l’antitesi di sé stessa. Dove sta la libertà, allora? Innanzitutto comincerei parlando di rispetto: rispetto per l’altro, per le sue idee, per la sua persona: se non ci rispettiamo vicendevolmente non otterremo mai un vivere civile e quindi alcuna speranza di libertà. La libertà è un diritto innegabile. Chi ha il diritto di stabilire quali libertà assegnare a chi? Pensiamo agli schiavi di ieri e , purtroppo, anche di oggi: perché negare loro le libertà? Per la pigrizia di chi gliele nega, chiaramente; su questo si basa il rapporto padrone-schiavo (anche quello hegeliano del servo-padrone), sulla forza ed il terrore, terrore non dell’asservito ma del servito. Dall’Antichità al Medioevo, dal Rinascimento ad oggi gli uomini hanno sempre tentato di esercitare la propria egemonia sugli altri, secondo diritti divini, di nobiltà di natali, tramite l’ostentazione della propria condizione economica e via discorrendo, falciando così in pieno il diritto alla libertà di alcuni. “Libertà è partecipazione”, tale frase continua a ronzarmi in testa e mi sprona ad esortare: rispettiamoci per essere liberi… a tali parole mi sovviene la seconda strofa del nostro inno nazionale (di cui pochi, ahime, conoscono l’esistenza, poiché molti ritengono che il nostro inno sia costituito d’una sola strofa):

Noi fummo da secoli

calpesti, derisi,

perché non siam popolo,

perché siam divisi.

Raccolgaci un’unica bandiera, una speme:

di fonderci insieme

già l’ora suonò.”

e quindi l’invito della terza strofa: “Uniamoci, amiamoci

Dignità, rispetto dell’altro, partecipazione, lievi seppur necessarie limitazioni: questi sono gli ingredienti per un’ottima ricetta di libertà, non certo paroloni da politicanti come “lotta alla criminalità”, “lotta all’evasione fiscale”, “lotta alle cricche”, giusto per citare le più quotate in questi ultimi tempi. La libertà necessita di semplicità, non certo di pompose cerimonie: essa è bella come una ragazza a quindici-sedici anni (o per lo meno, rifacendomi allo Zibaldone leopardiano), tutta acqua e sapone e sempre con un sorriso gentile pronto per tutti. Forse è anche per questo che gli uomini raffigurano la Libertà come una giovane donna…!

IO SE FOSSI DIO di Giorgio Gaber – 1980

Io se fossi Dio

E io potrei anche esserlo

Se no non vedo chi.

Io se fossi Dio non mi farei fregare dai modi furbetti della gente

Non sarei mica un dilettante

Sarei sempre presente

Sarei davvero in ogni luogo a spiare

O meglio ancora a criticare, appunto

Cosa fa la gente.

Per esempio il cosiddetto uomo comune

Com'è noioso

Non commette mai peccati grossi

Non è mai intensamente peccaminoso.

Del resto poverino è troppo misero e meschino

E pur sapendo che Dio è il computer più perfetto

Lui pensa che l'errore piccolino

Non lo veda o non lo conti affatto.

Per questo io se fossi Dio

Preferirei il secolo passato

Se fossi Dio rimpiangerei il furore antico

Dove si amava, e poi si odiava

E si ammazzava il nemico.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Non sarei mica stato a risparmiare

Avrei fatto un uomo migliore.

Si, vabbè, lo ammetto

non mi è venuto tanto bene

ed è per questo, per predicare il giusto

che io ogni tanto mando giù qualcuno

ma poi alla gente piace interpretare

e fa ancora più casino.

Io se fossi Dio

Non avrei fatto gli errori di mio figlio

E specialmente sull'amore

Mi sarei spiegato un po' meglio.

Infatti voi uomini mortali per le cose banali

Per le cazzate tipo compassione e finti aiuti

Ci avete proprio una bontà

Da vecchi un po' rincoglioniti.

Ma come siete buoni voi che il mondo lo abbracciate

E tutti che ostentate la vostra carità.

Per le foreste, per i delfini e i cani

Per le piantine e per i canarini

Un uomo oggi ha tanto amore di riserva

Che neanche se lo sogna

Che vien da dire

Ma poi coi suoi simili come fa ad essere così carogna.

Io se fossi Dio

Direi che la mia rabbia più bestiale

Che mi fa male e che mi porta alla pazzia

È il vostro finto impegno

È la vostra ipocrisia.

Ce l'ho che per salvare la faccia

Per darsi un tono da cittadini giusti e umani

Fanno passaggi pedonali e poi servizi strani

E tante altre attenzioni

Per handicappati sordomuti e nani.

E in queste grandi città

Che scoppiano nel caos e nella merda

Fa molto effetto un pezzettino d'erba

E tanto spazio per tutti i figli degli dèi minori.

Cari assessori, cari furbastri subdoli altruisti

Che usate gli infelici con gran prosopopea

Ma io so che dentro il vostro cuore li vorreste buttare

Dalla rupe Tarpea.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio maledirei per primi i giornalisti e specialmente tutti

Che certamente non sono brave persone

E dove cogli, cogli sempre bene.

Signori giornalisti, avete troppa sete

E non sapete approfittare della libertà che avete

Avete ancora la libertà di pensare, ma quello non lo fate

E in cambio pretendete

La libertà di scrivere

E di fotografare.

Immagini geniali e interessanti

Di presidenti solidali e di mamme piangenti

E in questo mondo pieno di sgomento

Come siete coraggiosi, voi che vi buttate senza tremare un momento:

Cannibali, necrofili, deamicisiani, astuti

E si direbbe proprio compiaciuti

Voi vi buttate sul disastro umano

Col gusto della lacrima

In primo piano.

Si, vabbè, lo ammetto

La scomparsa totale della stampa sarebbe forse una follia

Ma io se fossi Dio di fronte a tanta deficienza

Non avrei certo la superstizione

Della democrazia.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Naturalmente io chiuderei la bocca a tanta gente.

Nel regno dei cieli non vorrei ministri

Né gente di partito tra le palle

Perché la politica è schifosa e fa male alla pelle.

E tutti quelli che fanno questo gioco

Che poi è un gioco di forze ributtante e contagioso

Come la febbre e il tifo

E tutti quelli che fanno questo gioco

C' hanno certe facce

Che a vederle fanno schifo.

Io se fossi Dio dall'alto del mio trono

Direi che la politica è un mestiere osceno

E vorrei dire, mi pare a Platone

Che il politico è sempre meno filosofo

E sempre più coglione.

È un uomo a tutto tondo

Che senza mai guardarci dentro scivola sul mondo

Che scivola sulle parole

E poi se le rigira come lui vuole.

Signori dei partiti

O altri gregari imparentati

Non ho nessuna voglia di parlarvi

Con toni risentiti.

Ormai le indignazioni son cose da tromboni

Da guitti un po' stonati.

Quello che dite e fate

Quello che veramente siete

Non merita commenti, non se ne può parlare

Non riesce più nemmeno a farmi incazzare.

Sarebbe come fare inutili duelli con gli imbecilli

Sarebbe come scendere ai vostri livelli

Un gioco così basso, così atroce

Per cui il silenzio sarebbe la risposta più efficace.

Ma io sono un Dio emotivo, un Dio imperfetto

E mi dispiace ma non son proprio capace

Di tacere del tutto.

Ci son delle cose

Così tremende, luride e schifose

Che non è affatto strano

Che anche un Dio

Si lasci prendere la mano.

Io se fossi Dio preferirei essere truffato

E derubato, e poi deriso e poi sodomizzato

Preferirei la più tragica disgrazia

Piuttosto che cadere nelle mani della giustizia.

Signori magistrati

Un tempo così schivi e riservati

Ed ora con la smania di essere popolari

Come cantanti come calciatori.

Vi vedo così audaci che siete anche capaci

Di metter persino la mamma in galera

Per la vostra carriera.

Io se fossi Dio

Direi che è anche abbastanza normale

Che la giustizia si amministri male

Ma non si tratta solo

Di corruzioni vecchie e nuove

È proprio un elefante che non si muove

Che giustamente nasce

Sotto un segno zodiacale un po' pesante

E la bilancia non l'ha neanche come ascendente.

Io se fossi Dio

Direi che la giustizia è una macchina infernale

È la follia, la perversione più totale

A meno che non si tratti di poveri ma brutti

Allora si che la giustizia è proprio uguale per tutti.

Io se fossi Dio

Io direi come si fa a non essere incazzati

Che in ospedale si fa morir la gente

Accatastata tra gli sputi.

E intanto nel palazzo comunale

C'è una bella mostra sui costumi dei sanniti

In modo tale che in questa messa in scena

Tutto si addolcisca, tutto si confonda

In modo tale che se io fossi Dio direi che il sociale

È una schifosa facciata immonda.

Ma io non sono ancora nel regno dei cieli

Sono troppo invischiato nei vostri sfaceli.

Io se fossi Dio

Vedrei dall'alto come una macchia nera

Una specie di paura che forse è peggio della guerra

Sono i soprusi, le estorsioni i rapimenti

È la camorra.

È l'impero degli invisibili avvoltoi

Dei pescecani che non si sazian mai

Sempre presenti, sempre più potenti, sempre più schifosi

È l'impero dei mafiosi.

Io se fossi Dio

Io griderei che in questo momento

Son proprio loro il nostro sgomento.

Uomini seri e rispettati

Cos'ì normali e al tempo stesso spudorati

Così sicuri dentro i loro imperi

Una carezza ai figli, una carezza al cane

Che se non guardi bene ti sembrano persone

Persone buone che quotidianamente

Ammazzano la gente con una tal freddezza

Che Hitler al confronto mi fa tenerezza.

Io se fossi Dio

Urlerei che questi terribili bubboni

Ormai son dentro le nostre istituzioni

E anzi, il marciume che ho citato

È maturato tra i consiglieri, i magistrati, i ministeri

Alla Camera e allo Senato.

Io se fossi Dio

Direi che siamo complici oppure deficienti

Che questi delinquenti, queste ignobili carogne

Non nascondono neanche le loro vergogne

E sono tutti i giorni sui nostri teleschermi

E mostrano sorridenti le maschere di cera

E sembrano tutti contro la sporca macchia nera.

Non ce n'è neanche uno che non ci sia invischiato

Perché la macchia nera

È lo Stato.

E allora io se fossi Dio

Direi che ci son tutte le premesse

Per anticipare il giorno dell'Apocalisse.

Con una deliziosa indifferenza

E la mia solita distanza

Vorrei vedere il mondo e tutta la sua gente

Sprofondare lentamente nel niente.

Forse io come Dio, come Creatore

Queste cose non le dovrei nemmeno dire

Io come Padreterno non mi dovrei occupare

Né di violenza né di orrori né di guerra

Né di tutta l'idiozia di questa Terra

E cose simili.

Peccato che anche Dio

Ha il proprio inferno

Che è questo amore eterno

Per gli uomini.

IL CONFORMISTA di Giorgio Gaber – 1996

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che è da tempo che non sono neanche più fascista

sono sensibile e altruista

orientalista ed in passato sono stato un po' sessantottista

da un po’ di tempo ambientalista

qualche anno fa nell'euforia mi son sentito come un po' tutti socialista.

Io sono un uomo nuovo

per carità lo dico in senso letterale

sono progressista  al tempo stesso liberista

antirazzista e sono molto buono

sono animalista

non sono più assistenzialista

ultimamente sono un po' controcorrente son federalista.

Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

forse da buon opportunista si adegua senza farci caso

e vive nel suo paradiso.

Il conformista è un uomo a tutto tondo che si muove senza consistenza,

il conformista s'allena a scivolare dentro il mare della maggioranza

è un animale assai comune che vive di parole da conversazione

di notte sogna e vengon fuori i sogni di altri sognatori

il giorno esplode la sua festa che è stare in pace con il mondo

e farsi largo galleggiando

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo e con le donne c'ho un rapporto straordinario

sono femminista

son disponibile e ottimista

europeista

non alzo mai la voce

sono pacifista

ero marxista-leninista e dopo un po' non so perché mi son trovato cattocomunista.

Il conformista non ha capito bene che rimbalza meglio di un pallone

il conformista aerostato evoluto che è gonfiato dall'informazione

è il risultato di una specie che vola sempre a bassa quota in superficie

poi sfiora il mondo con un dito e si sente realizzato

vive e questo già gli basta e devo dire che oramai

somiglia molto a tutti noi

il conformista

il conformista.

Io sono un uomo nuovo

talmente nuovo che si vede a prima vista

sono il nuovo conformista.

Una canzone molto ironica quella di Giorgio Gaber, un’analisi su chi sia veramente il conformista e proprio per questo proviamo prima di tutto a capire noi cosa sia il conformismo, perchè senza di quello non possiamo comprendere cosa ci voglia dire Gaber con questa canzone.

Il termine conformismo indica una tendenza a conformarsi ad opinioni, usi, comportamenti e regole di un determinato gruppo sociale. Attenzione però qui stiamo parlando di gruppo sociale qualunque e non per forza quello “dominante” (come in genere molti pensano) che sarebbe anche piuttosto difficile da identificare visto che la nostra società è molto grande, complessa ed esistono infinite sfumature. Questo vuol dire che se apparteniamo ad un gruppo sociale che accettiamo in modo assoluto allora siamo conformisti rispetto a quel gruppo. Il prete per esempio è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di preti che a loro volta fanno riferimento al Papa. Chi per esempio appartiene ad una famiglia malavitosa e fa il bullo a scuola insieme ad altri bulli suoi amici che disturbano, rubano ecc. è un conformista rispetto al suo gruppo sociale di delinquenti. Molti giovani pensano ingenuamente che conformismo vuol dire solo mettersi giacca, cravatta e comportarsi bene, mentre anticonformismo vuol dire mettersi maglietta, jeans e comportarsi male, ma non è così.

Con questa canzone Gaber prende in giro il conformista, facendone notare tutte le sue possibili caratteristiche che lo contraddistinguono e allo stesso tempo ne fa emergere tutta una serie di contraddizioni: guardiamo per esempio alla prima strofa in cui il conformista nel giro di pochi anni passa prima ad essere “fascista“, per poi diventare “orientalista“, ricordandosi però di essere stato un “sessantottista” e da tempo anche “ambientalista” e pure “socialista“! Da subito quindi una forte critica implicita all’uomo conformista, che alla fine continuando a cambiare idea, risulta essere tutto tranne che conformista. Questa successione di cambio di idee improvvise, seguendo la massa a seconda di cosa sia più comodo e non secondo ciò in cui si creda veramente, porta Gaber a dare lui stesso la definizione del conformista moderno:

“Il conformista è uno che di solito sta sempre dalla parte giusta,

 il conformista ha tutte le risposte belle chiare dentro la sua testa

è un concentrato di opinioni che tiene sotto il braccio due o tre quotidiani

e quando ha voglia di pensare pensa per sentito dire

 forse da buon opportunista si adegua senza farci caso e vive nel suo paradiso”

La critica dunque è forte, un uomo che non è quasi più in grado di pensare con la sua testa, ma si adegua alle circostanze creandosi un mondo tutto suo in cui vivere senza problemi e senza lotte. Ma come è abituato a fare, Gaber lancia una frecciatina a tutti noi, perchè guardandoci in faccia, probabilmente i primi ad essere conformisti siamo proprio noi:“e devo dire che oramai somiglia molto a tutti noi, il conformista“.

LA DEMOCRAZIA di Giorgio Gaber – 1997

Dopo anni di riflessione sulle molteplici possibilità che ha uno stato di organizzarsi ho capito che la democrazia... è il sistema più democratico che ci sia. Dunque c’è la dittatura, la democrazia e... basta. Solo due. Credevo di più. La dittatura chi l’ha vista sa cos’è, gli altri si devono accontentare di aver visto solo la democrazia. lo, da quando mi ricordo, sono sempre stato democratico, non per scelta, per nascita. Come uno che appena nasce è cattolico, apostolico, romano. Cattolico pazienza, apostolico non so cosa sia, ma anche romano... Va be’, del resto come si fa oggi a non essere democratici? Sul vocabolario c’è scritto che la parola "democrazia" deriva dal greco e significa "potere al popolo". L’espressione è poetica e suggestiva. Sì, ma in che senso potere alta popolo? Come si fa? Questo sul vocabolario non c’è scritto. Però si sa che dal ‘45, dopo il famoso ventennio, il popolo italiano ha acquistato finalmente il diritto di voto. È nata così la “Democrazia rappresentativa” nella quale tu deleghi un partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi sia e che tu deleghi a rappresentarti per cinque anni. E che se io incontri ti dice: “Lei non sa chi sono io!” Questo è il potere del popolo. Ma non è solo questo. Ci sono delle forme ancora più partecipative. Per esempio il referendum è addirittura una pratica di “Democrazia diretta”... non tanto pratica, attraverso la quale tutti possono esprimere il loro parere su tutto. Solo che se mia nonna deve decidere sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio ha qualche difficoltà. Anche perché è di Venezia. Per fortuna deve dire un “Sì” se vuoi dire no e un “No” se vuoi dire sì. In ogni caso ha il 50% di probabilità di azzeccarla. Comunque il referendum ha più che altro un valore folkloristico, perché dopo aver discusso a lungo sul significato politico dei risultati tutto resta come prima. Un altro grande vantaggio che la democrazia offre a mia nonna, cioè al popolo, è la libertà di stampa. Nei regimi totalitari, per esempio durante il fascismo, si chiamava propaganda e tu non potevi mai sapere la verità. Da noi si chiama “informazione”, che per maggior chiarezza ha anche il pregio di esser pluralista. Sappiamo tutto. Sappiamo tutto, ma anche il contrario di tutto. Pensa che bello. Sappiamo che l’Italia va benissimo, ma che va anche malissimo. Sappiamo che l’inflazione è al 3, o al 4, o al 6, o anche al 10%. Che abbondanza! Sappiamo che i disoccupati sono il 12% e che aumentano o diminuiscono a piacere, a seconda di chi lo dice. Sappiamo dati, numeri, statistiche. Alla fine se io voglio sapere quanti italiani ci sono in Italia, che faccio? Vado sulla Variante di Valico Barberino-Roncobilaccio e li conto: Zzzz! Chi va al sud. Zzzz! Chi va al nord! Altro che Istat! Comunque è innegabile che fra un regime totalitario e uno democratico c’è una differenza abissale. Per esempio, durante il fascismo non ti potevi permettere di essere antifascista. In democrazia invece si può far tutto, tranne che essere antidemocratici. Durante il fascismo c’era un partito solo al potere. O quello o niente. In democrazia invece i partiti al potere sono numerosi e in crescita. Alle ultime elezioni, fra partiti, liste autonome, liste di area, gruppi misti, eccetera, ce ne sono stati duecentoquarantotto. Più libertà di cosi si muore! Del resto una delle caratteristiche della democrazia è che si basa esclusivamente sui numeri… come il gioco del Lotto, anche se è meno casuale, ma più redditizio. Più largo è il consenso del popolo, più la democrazia, o chi per lei, ci guadagna. Quello del popolo è sempre stato un problema, per chi governa. Se ti dà il suo consenso vuoi dire che ha capito, che è cosciente, consapevole, e anche intelligente. Se no è scemo. Comunque l’importante è coinvolgere più gente possibile. Intendiamoci, la democrazia non è nemica della qualità. È la qualità che è nemica della democrazia. Mettiamo come paradosso che un politico sia un uomo di qualità. Mettiamo anche che si voglia mantenere a livelli alti. Quanti lo potranno apprezzare? Pochi, pochi ma buoni. No, in democrazia ci vogliono i numeri, e che numeri. Bisogna allargare il consenso, scendere alla portata di tutti. Bisogna adeguarsi. E un’adeguatina oggi, un’adeguatina domani... e l’uomo di qualità a poco a poco ci prende gusto... e “tac”, un’altra abbassatina... poi ce n’è un altro che si abbassa di più, e allora anche lui... “tac”... “tac”... ogni giorno si abbassa di cinque centimetri. E così, quando saremo tutti scemi allo stesso modo, la democrazia sarà perfetta.

DESTRA-SINISTRA di Giorgio Gaber – 2001

Destra-Sinistra è un singolo di Giorgio Gaber, pubblicato nel 2001, tratto dall'album La mia generazione ha perso.

La canzone vuol mettere ironicamente in risalto le presunte differenze tra destra e sinistra politiche, delle quali è una bonaria critica. Tutta la canzone verte infatti su luoghi comuni anziché sulle differenze di tipo idealistico, ed è lo stesso Gaber a specificare che, attualmente, le differenze fra le due parti sono ormai minime, e che chi si definisce di una fazione rispetto ad un'altra lo fa per mera «ideologia», e per «passione ed ossessione» di una diversità che «al momento dove è andata non si sa». In altre parole, la differenza fra chi si definisce di una parte piuttosto che dall'altra è solamente ostentata, ed è nulla per quanto riguarda il lato pratico.

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Fare il bagno nella vasca è di destra

far la doccia invece è di sinistra

un pacchetto di Marlboro è di destra

di contrabbando è di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una bella minestrina è di destra

il minestrone è sempre di sinistra

tutti i films che fanno oggi son di destra

se annoiano son di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Le scarpette da ginnastica o da tennis

hanno ancora un gusto un po' di destra

ma portarle tutte sporche e un po' slacciate

è da scemi più che di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I blue-jeans che sono un segno di sinistra

con la giacca vanno verso destra

il concerto nello stadio è di sinistra

i prezzi sono un po' di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

I collant son quasi sempre di sinistra

il reggicalze è più che mai di destra

la pisciata in compagnia è di sinistra

il cesso è sempre in fondo a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La piscina bella azzurra e trasparente

è evidente che sia un po' di destra

mentre i fiumi, tutti i laghi e anche il mare

sono di merda più che sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è la passione, l'ossessione

della tua diversità

che al momento dove è andata non si sa

dove non si sa, dove non si sa.

Io direi che il culatello è di destra

la mortadella è di sinistra

se la cioccolata svizzera è di destra

la Nutella è ancora di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il pensiero liberale è di destra

ora è buono anche per la sinistra

non si sa se la fortuna sia di destra

la sfiga è sempre di sinistra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Il saluto vigoroso a pugno chiuso

è un antico gesto di sinistra

quello un po' degli anni '20, un po' romano

è da stronzi oltre che di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

L'ideologia, l'ideologia

malgrado tutto credo ancora che ci sia

è il continuare ad affermare

un pensiero e il suo perché

con la scusa di un contrasto che non c'è

se c'è chissà dov'è, se c'é chissà dov'é.

Tutto il vecchio moralismo è di sinistra

la mancanza di morale è a destra

anche il Papa ultimamente

è un po' a sinistra

è il demonio che ora è andato a destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

La risposta delle masse è di sinistra

con un lieve cedimento a destra

son sicuro che il bastardo è di sinistra

il figlio di puttana è di destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Una donna emancipata è di sinistra

riservata è già un po' più di destra

ma un figone resta sempre un'attrazione

che va bene per sinistra e destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Tutti noi ce la prendiamo con la storia

ma io dico che la colpa è nostra

è evidente che la gente è poco seria

quando parla di sinistra o destra.

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Ma cos'è la destra cos'è la sinistra...

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Destra-sinistra

Basta!

IO NON MI SENTO ITALIANO di Giorgio Gaber – 2003

La canzone "Io non mi sento italiano" è tratta dall'omonimo album uscito postumo di Giorgio Gaber, nel gennaio 2003, titolo che all'apparenza è di forte impatto evocativo che sa di delusione, di rabbia, di denuncia. Ma poi, per ribilanciare l'affermazione, basta leggere la frase nel seguito, “Io non mi sento italiano, ma per fortuna o purtroppo lo sono”, c'è un grande concetto all'interno, quello di appartenenza, a cui Gaber è legato, che lascia trasparire la sua dolcezza, nonostante il sentimento di sdegno di cui si fa portavoce. Stupisce, e non poco, a distanza di anni, la modernità del testo, l'attualità delle situazioni, che già allora Giorgio Gaber raccontava come quotidianità di quel paese, in quel periodo storico. Album registrato poco prima della sua scomparsa, fu scritto con Sandro Luporini, pittore di Viareggio, suo compagno di scrittura in tutte le sue produzioni più importanti musicali e teatrali. Giorgio Gaber, è il suo nome d'arte, si chiama in effetti Giorgio Gaberscik e nasce a Milano il 25 gennaio 1939 (scompare a Montemagno di Camaiore il 1º gennaio 2003), da padre di origine istriane-goriziano slovene e madre veneziania. Inizia a suonare la chitarra da bambino a 8-9 anni per curare un brutto infortunio ad un braccio. Diventa un ottimo chitarrista e, con le serate, da grande, si pagherà gli studi universitari. E' il 1970 l'anno della svolta artistica di Giorgio Gaber. Gaber è celebre ma si sente “ingabbiato”, costretto a recitare un ruolo nella parte di cantante e di presentatore televisivo. Rinuncia così alla grandissima notorietà, si spoglia del ruolo di affabulatore e porta "la canzone a teatro" (creando il genere del teatro canzone). Gaber si presenta al pubblico così com'è, ricomincia da capo. Per questo crea un personaggio che non recita più un ruolo, il «Signor G», recita se stesso. Quindi un signore come tutti, “una persona piena di contraddizioni e di dolori”.

TESTO - Io non mi sento italiano - parlato:

Io G. G. sono nato e vivo a Milano.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

non è per colpa mia

ma questa nostra Patria

non so che cosa sia.

Può darsi che mi sbagli

che sia una bella idea

ma temo che diventi

una brutta poesia.

Mi scusi Presidente

non sento un gran bisogno

dell'inno nazionale

di cui un po' mi vergogno.

In quanto ai calciatori

non voglio giudicare

i nostri non lo sanno

o hanno più pudore.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

se arrivo all'impudenza

di dire che non sento

alcuna appartenenza.

E tranne Garibaldi

e altri eroi gloriosi

non vedo alcun motivo

per essere orgogliosi.

Mi scusi Presidente

ma ho in mente il fanatismo

delle camicie nere

al tempo del fascismo.

Da cui un bel giorno nacque

questa democrazia

che a farle i complimenti

ci vuole fantasia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

pieno di poesia

ha tante pretese

ma nel nostro mondo occidentale

è la periferia.

Mi scusi Presidente

ma questo nostro Stato

che voi rappresentate

mi sembra un po' sfasciato.

E' anche troppo chiaro

agli occhi della gente

che tutto è calcolato

e non funziona niente.

Sarà che gli italiani

per lunga tradizione

son troppo appassionati

di ogni discussione.

Persino in parlamento

c'è un'aria incandescente

si scannano su tutto

e poi non cambia niente.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Mi scusi Presidente

dovete convenire

che i limiti che abbiamo

ce li dobbiamo dire.

Ma a parte il disfattismo

noi siamo quel che siamo

e abbiamo anche un passato

che non dimentichiamo.

Mi scusi Presidente

ma forse noi italiani

per gli altri siamo solo

spaghetti e mandolini.

Allora qui mi incazzo

son fiero e me ne vanto

gli sbatto sulla faccia

cos'è il Rinascimento.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Questo bel Paese

forse è poco saggio

ha le idee confuse

ma se fossi nato in altri luoghi

poteva andarmi peggio.

Mi scusi Presidente

ormai ne ho dette tante

c'è un'altra osservazione

che credo sia importante.

Rispetto agli stranieri

noi ci crediamo meno

ma forse abbiam capito

che il mondo è un teatrino.

Mi scusi Presidente

lo so che non gioite

se il grido "Italia, Italia"

c'è solo alle partite.

Ma un po' per non morire

o forse un po' per celia

abbiam fatto l'Europa

facciamo anche l'Italia.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo lo sono.

Io non mi sento italiano

ma per fortuna o purtroppo

per fortuna o purtroppo

per fortuna

per fortuna lo sono.

Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili. Citazioni di Bertolt Brecht.

Povera Italia. Povera Calabria, scrive Luciano regolo, direttore de “L’Ora della Calabria”. Non sono renziano, ma neppure lettiano o berlusconiano o alfaniano o grillino. Anzi vi confesso che non voto da un bel po', specialmente da quando, dirigendo un settimanale nazionale popolare a vasta tiratura, ebbi modo di toccare con mano quali e quanti mali attraversino trasversalmente i nostri partiti e come difficilmente i vari leader del nostro scenario politico si tirino indietro dal lobbysmo che domina in Italia. Tuttavia trovo questa staffetta Letta-Renzi ancora più inquietante. Per mesi abbiamo sentito dire a destra e manca che Letta doveva restare in sella per emergenze basilari nella vita del nostro Paese, dalla crisi economica alla riforma elettorale. Ora invece si cambia registro. Ma non si va a nuove elezioni, la volontà popolare, in tutto questo, viene sempre più messa da parte. La scusa è che senza nuove regole per le elezioni si rischierebbe di avere nuovamente una maggioranza troppo risicata per garantire la stabilità governativa. Ma se non si è avuto fino ad ora quel certo senso di responsabilità necessario per mettere da parte gli interessi e i protagonismi personali per arrivare a questo (minimo) obiettivo perché mai le cose dovrebbero cambiare con Renzi premier? Non sarebbe stato più equo e più democratico chiedere agli elettori di andare alle urne, magari esercitando il proprio diritto di voto riflettendo un po' di più, visto quello che stiamo tuttora vivendo? Napolitano avrà pure le sue buone ragioni, anche se a volte riesce difficile condividerle. Però, lo spazio non se l'è preso da solo, gli è dato da tutta una situazione, da tutto un cecchinaggio diffuso e mirato al proprio tornaconto personale. Il sospetto è che il "cancro" della voglia sconfinata di poltrone oramai dilaghi e la faccia da padrona fino ad annientare anche il minimo rispetto per tutte quelle famiglie italiane che stanno versando in condizioni di gravissime difficoltà. La gente si toglie la vita per i debiti (di qualche giorno fa la drammatica scelta dell'editore Zanardi), la gente è disperata. Ma il palazzo continua imperterrito nelle sue logiche. E il male si riverbera dal centro alla periferia, con le stesse modalità. La Calabria ne è un esempio eclatante. Guerre intestine nella destra, guerre intestine a sinistra (difficile che queste sospirate primarie del Pd siano la panacea per vecchie e croniche conflittualità). Intanto i rifiuti ci sommergono, intanto la 'ndrangheta erode sempre più spazi della società civile, intanto la disoccupazione lievita, al pari della malasanità. Povera Italia, povera Calabria.

E poi c’è lei, la fonte di tutti i mali.

Magistratura, la casta e le degenerazioni, scrive Andrea Signini su “Rinascita”. “IMAGISTRATI SONO INCAPACI E CORROTTI, NE CONOSCO MOLTISSIMI”. Il Presidente Francesco Cossiga (Sassari, 26 Luglio 1928 – Roma, 17 Agosto 2010), appartenente ad una famiglia di altissimi magistrati e lui stesso capo del Consiglio Superiore della Magistratura, intervistato dal giornalista Vittorio Pezzuto, disse: “La maggior parte dei magistrati attuali sono totalmente ignoranti a cominciare dall’amico Di Pietro che un giorno mi disse testualmente: “Cosa vuoi, appena mi sarò sbrigato questi processi, mi leggerò il nuovo codice di procedura penale”. Nel corso della medesima intervista Cossiga sottolineava le scadenti qualità dei membri della magistratura, li definiva “incapaci a fare le indagini”. Da Presidente della Repubblica inviò i carabinieri a Palazzo dei Marescialli. Accadde nel 91, il 14 novembre, quando il presidente-picconatore ritirò la convocazione di una riunione del plenum nella quale erano state inserite cinque pratiche sui rapporti tra capi degli uffici e loro sostituti sull’assegnazione degli incarichi. Cossiga riteneva che la questione non fosse di competenza del plenum e avvertì che se la riunione avesse avuto luogo avrebbe preso «misure esecutive per prevenire la consumazione di gravi illegalità». I consiglieri del Csm si opposero con un documento e si riunirono. In piazza Indipendenza, alla sede del Csm, affluirono i blindati dei carabinieri e due colonnelli dell’Arma vennero inviati a seguire la seduta. Ma il caso fu risolto subito, perché il vicepresidente, Giovanni Galloni, non permise la discussione. Invitato a dare una spiegazione sull’incredibile ed ingiustificato avanzamento di carriera toccato ai due magistrati (Lucio di Pietro e Felice di Persia) noti per aver condannato ed arrestato Enzo Tortora e centinaia di persone innocenti nell’ambito dello stesso processo (tutti rilasciati dopo mesi di carcere per imperdonabili errori macroscopici), Cossiga rispose: “Come mi è stato spiegato, la magistratura deve difendere i suoi, soprattutto se colpevoli”. La sicurezza di quanto affermava il Presidente Cossiga gli proveniva da una confessione fattagli da un membro interno di cui non rivelò mai il nome ma risulta evidente che si tratti di un personaggio di calibro elevatissimo, “Un giovane membro del Consiglio Superiore della Magistratura, appartenente alla corrente di magistratura democratica, figlio di un amico mio, il quale mi è ha detto: “Noi dobbiamo difendere soprattutto quei magistrati che fanno errori e sono colpevoli perché sennò questa diga che noi magistrati abbiamo eretto per renderci irresponsabili ed incriticabili crolla”! invitato a dare delle spiegazioni sul come mai il nostro sistema (comunemente riconosciuto come il migliore al Mondo) fosse così profondamente percorso da fatali fratture, Cossiga tuonò: “La colpa di tutto questo è della DC! Lì c’è stato chi, per ingraziarsi la magistratura, ha varato la famosa “Breganzola” che prevede l’avanzamento di qualifica dei magistrati senza demerito. Ci pronunciammo contro quella Legge in quattro: uno era l’Avvocato Riccio, il deputato che poi fu sequestrato ed ucciso in Sardegna; Giuseppe Gargani, io ed un altro. Fummo convocati alla DC e ci fu detto che saremmo stati sospesi dal gruppo perché bisognava fare tutto quello che dicevano di fare i magistrati altrimenti avrebbero messo tutti in galera”. Questo breve preambolo ci deve servire come metro per misurare, con occhio nuovo, quanto più da vicino possibile, l’attuale situazione italiana. Dal 1992 (mani pulite), ad oggi, di acqua sotto ai ponti ne è passata assai. E tutta questa acqua, per rimanere nel solco dell’allegoria, ha finito con l’erodere i margini di garanzia della classe politica (vedi perdita delle immunità dei membri del Parlamento – 1993) espandendo quelli dei membri della magistratura. Membri i quali, poco alla volta, hanno preferito fare il “salto della scimmia” passando da un ramo all’altro (dal ramo giudiziario a quello legislativo e/o esecutivo) e ce li siamo ritrovati in politica come missili (di Pietro, de Magistris, Grasso, Ingroia, Finocchiaro…). Pertanto, quella che da decenni a questa parte viene rivenduta al popolo italiano come una “stagione di battaglia contro la corruzione politica”, in realtà nascondeva e tutt’ora nasconde ben altro. Il potere legislativo (facente capo al Parlamento), quanto il potere esecutivo (facente capo al governo), si sono ritrovati in uno stato di progressiva sofferenza indotta dalla crescente ed inarrestabile affermazione del potere giudiziario (facente capo alla magistratura). Che le cose stiano così, è fuor di dubbio! E “La cosa brutta è che i giornalisti si prestino alle manovre politiche dei magistrati” [Cossiga Ibid.]. Ecco spiegato come mai ci si ostini a ritenere “mani pulite” una battaglia alla corruzione e non già una battaglia tra i tre poteri dello Stato. Ma, scusate tanto, e il POPOLO?!? No, dico, siamo o non siamo noi italiani ed italiane – e non altri popoli diversi dal nostro – a pagare sulla nostra pelle lo scotto generato dalle conseguenze di queste “scalate al potere”? Non siamo forse noi quelli/e che stanno finendo dritti in bocca alla rovina totale, alla disperazione ed al suicidio di massa? COSA CI STANNO FACENDO DI MALE E’ PRESTO DETTO. Innanzi tutto, il riflesso peggiore che ci tocca subìre è dato dal fatto che, dal precedente (prima di “mani pulite”) clima culturale in cui eravamo usi vivere sentendoci protetti dalla magistratura (vedi garanzia di presunzione d’ innocenza), ci siamo ritrovati catapultati in un clima orrido in cui è “la presunzione di colpevolezza” a dettare il ritmo. E, di conseguenza, tutto il discorso è andato a gambe all’aria e le nostre libertà, nonché le nostre sovranità sono andate in fumo. E poi, chi di voi può affermare di non aver mai sentito ripetere sino alla nausea frasi del tipo “Lo deve stabilire la magistratura”, oppure “Lo ha stabilito una sentenza” od anche “Lo ha detto in giudice”; e allora? Forse queste persone (che restano sempre impiegati statali al servizio dello Stato e di chi vi abita) discendono dallo Spirito Santo? Sono o non sono esseri umani? E se lo sono allora posso commettere degli sbagli, sì o no? E se sbaglia un magistrato le conseguenze sono letali, sì o no? E allora per quale ragione da 22 anni a questa parte si sta facendo di tutto per collocarli nell’olimpo della saggezza? Perché è possibile sputtanare un esponente del ramo legislativo o di quello esecutivo e GUAI se si fa altrettanto con uno del ramo giudiziario? L’ex magistrato ed ex politico Antonio Di Pietro (definito da Cossiga “Il famoso cretino… che ha nascosto cento milioni in una scatola delle scarpe” e “Ladro” che si è laureato “Probabilmente con tutti 18 e si è preso pure l’esaurimento nervoso per prepararsi la Laurea” quando era a capo dell’IDV ci ha assillato per anni, farcendo all’inverosimile i suoi discorsi con frasi come quelle succitate. E come lui, ma dall’altro lato della barricata, Silvio Berlusconi ha infarcito i suoi discorsi contro la magistratura corrotta e bla bla bla. Ci hanno fatto un vero e proprio lavaggio del cervello, arrivando a dividere la popolazione in due: una parte garantista ed una giustizialista. Il vecchio e amatissimo strumento del “dividi et impera” inventato dai nostri avi latini per esercitare il potere sulla massa ignorante. Ma se due terzi della medesima torta sono marci e putrescenti (il potere legislativo e quello esecutivo), possibile che il rimanente terzo (potere giudiziario) sia l’unico commestibile? Certo che non lo è, è ovvio! La corruzione, in magistratura è a livelli raccapriccianti, “E’ prassi dividere il compenso con il magistrato. Tre su quattro sono corrotti” confessa Chiara Schettini (nomen omen) impiegata statale con la qualifica di giudice presso il Tribunale dei Fallimenti di Roma, anzi ex, visto che le hanno messo le manette ai polsi e poi sbattuta in galera con gravissime accuse di corruzione e peculato. Ricostruiamo quello che la stampa di regime non osa nemmeno sfiorare. “SONO PIU’ MAFIOSA DEI MAFIOSI” DICE SPAVALDAMENTE IL GIUDICE DI ROMA. La gente normale, quella che lavora per guadagnare e consegnare il bottino allo Stato vampiro, lo sa molto bene: se si può, meglio non fare causa! Si perde tempo, si perdono soldi e non si sa se ti andrà bene. E, stando a quanto sta emergendo da una prodigiosa inchiesta di cui prima o poi anche la stampa di regime sarà costretta a parlare, l’impressione poggia su basi solidissime. E sarebbe bene prendere le distanze da certa gente… più pericolosa dei delinquenti veri. In una elaborazione di un articolo de Il Fatto Quotidiano del 31 Dicembre 2013 apparsa l’1 Gennaio 2014 sul sito malagiustiziainitalia.it, si parla di “Perizie affidate a consulenti dall’ampio potere discrezionale e dai compensi stratosferici, mazzette spartite anche con i giudici. Un crocevia affaristico in cui è coinvolto il vertice dell’ufficio [quello di Roma]”, in riferimento alla vicenda che ha visto coinvolta Chiara Schettini di cui abbiamo appena accennato. La stessa Schettini, chiama in causa (è il caso di dire) anche la magistratura umbra, passivamente prona ai desiderata di quella romana: insabbiare gli esposti, far finta di nulla ed attendere che trascorrano i tempi era l’ordine da eseguire. Sotto interrogatorio, la Schettini ha confessato al giudice (onesto e che ringraziamo a nome di tutti i lettori e le lettrici di signoraggio.it): “Si entrava in camera di consiglio e si diceva questo si fa fallire e questo no”. Chi si esprime così non è un temibile boss della mala ma è sempre lei, il veramente temibile giudice Schettini, lei sì appartenente al ramo pulito del potere, proprio quello!!! Nella sua crassa arroganza venata di ottusa prosaicità, ella ricorreva sovente ad uscite agghiaccianti, sfornando un gergo truce da gangster matricolato. Intercettata telefonicamente mentre parlava col curatore fallimentare Federico Di Lauro (anche lui in galera) minacciava di farla pagare al suo ex compagno: “Guarda, gli ho detto, sono più mafiosa dei mafiosi, ci metto niente a telefonare ai calabresi che prendono il treno, te danno una corcata de botte e se ne vanno” (da Il Fatto, 8 Luglio 2013, R. Di Giovacchino). Non finisce qui. Sempre questo giudice donna, in un’altra intercettazione che ha lasciato di stucco gli inquirenti che l’hanno più e più volte riascoltato il nastro, parlando con un ignoto interlocutore, minacciava il “povero” Di Lauro in questi termini: “Io a Di Lauro l’avrei investito con la macchina… Lui lavorava con la banda della Magliana”. Ciliegina sulla torta: parlando al telefono con un perito del Tribunale, riferendosi all’insistenza di un Avvocato che non aveva intenzione di piegarsi supinamente al comportamento della Schettini, commentava: “Il suo amico Massimo [l’Avvocato insistente Ndr.] ha chiesto la riapertura di due procedimenti. Una rottura senza limiti. Gli dica di non insistere perché non domani, né dopo domani ma fra 10 anni io lo ammazzo”. Alla faccia della magistratura a cui tocca attenersi! Alla faccia delle parole del magistrato “che c’azzecckkhhA” Di Pietro colui il quale, dopo il salto della scimmia ci ha assillato ripetendo come un disco scassato che dobbiamo “affidarci alla magistratura”! come no! Si accomodi lei Di Pietro, prima di noi (senza balbettare come le accadde quando se la vide bruttina a Milano).  Nell’articolo della Di Giovacchino leggiamo inoltre: “L’amico Massimo è in realtà l’avvocato Vita. Mai ricevuto minacce? “Non da Grisolia, però mi hanno telefonato persone con accento calabrese, consigli…”. Messaggi? “Mi dicevano lasci perdere la vecchietta…” La “vecchietta” è Diana Ottini, un tipo tosto, La giudice le consegnò 500 mila euro stipulando una promessa di vendita posticipata di 10 anni, affinché acquistasse la sua casa dal Comune. Ma venuto il momento lei la casa se l’è tenuta e il Tribunale le ha dato ragione. Non è andata altrettanto bene a Francesca Chiumento, altra cliente dell’avvocato Vita, che da anni si batte per riconquistare il “suo” attico in via Germanico: 170 metri quadri, terrazza su tre livelli, che il padre aveva acquistato dagli eredi di Aldo Fabrizi. La casa finì all’asta, nei salotti romani si parla ancora della polizia arrivata con le camionette. Anche quell’asta porta la firma della Schettini: la famiglia Chiumento era pronta a pagare, a spuntarla fu un medico del Bambin Gesù che offrì 50 mila euro di meno. L’appartamento di via Germanico alla fine fu rivenduto per 1 milione e 800 mila euro a una coppia importante. Lei figlia di un costruttore, che ha tirato su villaggi turistici tra Terracina e Sperlonga, lui avvocato della banca che aveva offerto il mutuo ai legittimi proprietari” [Il Fatto Ibid.]. E pensare che questa sguaiata stipendiata statale ha campato una vita sulle spalle di noi contribuenti ed ha potuto nascondere le sue malefatte per anni dietro la protezione del ruolo affidatole dallo Stato e di persone della sua medesima risma. Tutti suoi colleghi e colleghe. Allucinante. Semplicemente allucinante. Solamente dopo essersi impaurita a causa dei giorni trascorsi in prigione, ha confessato che il suo ex compagno “Trafficava anche con il direttore di una filiale di Unicredit su 900 mila euro gliene dava 200 mila” come stecca [malagiustizia. Ibid.]. L’organizzazione funzionava a gonfie vele, il timore di essere scoperti non li sfiorava nemmeno: ‘Non ti preoccupare [la rincuorava il compagno, quello della stecca all’Unicredit] sarà rimesso tutto perfettamente”. Suscita la ripugnanza leggere la storia di questa squallida persona la quale, nel frattempo, con lo stipendio da funzionario statale è riuscita ad accumulare un patrimonio di quasi 5 milioni di euro (quasi 10 miliardi di Lire) oltre ad attici a Parigi e Miami, ville a Fregene, un rifugio a Madonna di Campiglio… A proposito: il figlio della carcerata si è rivelato meno sveglio della mamma ma comunque fatto della medesima pasta! Infatti, mentre alla madre venivano serrati i polsi con le manette, lui riceveva l’sms in cui la madre stessa gli ordinava di fare “quello che sa” (Il Fatto, ibid.). Si avete proprio capito bene. Il figlio diciottenne, evidentemente al corrente delle attività della madre (e del padre) ed istruito a dovere su come agire in caso di necessità, si è prontamente attivato rendendosi complice della vicenda facendo sparire la valigetta col contante, frutto di una delle corruzioni cui la madre era avvezza. Solo che le sue limitate capacità hanno consentito, a chi ha effettuato la perquisizione, di ritrovare tutto all’istante. Ed il Consiglio Superiore della Magistratura dormiva in questi anni? Certo che no! Provvedeva, come fa spessissimo, a trasferirla presso la procura di l’Aquila per ragioni di incompatibilità ambientale. Non sarebbe male saperne di più su questa scelta curiosa. Che questa sia una vicenda riguardante un pugno di magistrati e non tutti i componenti della magistratura è lapalissiano, scontato ed evidente. E CI MANCHEREBBE ALTRO! Ma sappiate che il punto della questione non è arrivare a pronunciare frasi vuote quanto idiote del genere “Sono tutti uguali. Tra cani non si mordono…” qui c’è solo da fare una cosa: il POPOLO deve riconoscere il proprio ruolo di SOVRANO! E poi, non resta che risalire alla fonte del problema e, per farlo, NOI uomini e donne della cosiddetta “società civile” abbiamo il dovere di emanciparci. Se c’intendessimo (mi ci metto dentro anch’io – sebbene non sia un tifoso) di finanza e Stato come di calcio e cucina, con l’aiuto dei nostri veri angeli custodi seri (ed in magistratura ce ne sono eccome), il nostro futuro sarebbe radioso. Ripartire da un punto fermo è cogente. Tale punto risiede nella battaglia “persa contro la magistratura che è stata perduta quando abbiamo abrogato l’immunità parlamentare, che esistono in tutto il Mondo, ovvero quando Mastella, da me avvertito, si è abbassato il pantalone ed ha scritto sotto dittatura di quell’associazione sovversiva e di stampo che è l’Associazione Nazionale Magistrati” – F. Cossiga, Di Pietro… Ibid.

Non dimentichiamoci che di magistrati parliamo e delle loro ambizioni.

Il giudice "pagato" con prostitute di lusso. Quell'ambizione: «Dovevo fare il mafioso». Il profilo di un magistrato finito nell'occhio del ciclone per i suoi rapporti molto stretti con il boss Lampada, già condannato a quattro anni di carcere e sospeso dal servizio, scrive “Il Quotidiano Web”. Il giudice Giancarlo Giusti, arrestato e posto ai domiciliari il 14 febbraio 2014 dalla squadra mobile di Reggio Calabria, era stato condannato dal gup di Milano a 4 anni di reclusione il 27 settembre 2012 ed il giorno successivo aveva tentato il suicidio nel carcere milanese di Opera in cui era detenuto. Soccorso dalla polizia penitenziaria, era stato poi ricoverato in ospedale in prognosi riservata. Successivamente aveva ottenuto gli arresti domiciliari. Giusti, dal 2001 giudice delle esecuzioni immobiliari a Reggio Calabria e poi dal 2010 gip a Palmi, era stato arrestato per corruzione aggravata dalle finalità mafiose il 28 marzo 2012 nell’ambito di una inchiesta della Dda di Milano sulla presunta cosca dei Valle-Lampada e, in particolare, in un filone relativo alla cosiddetta "zona grigia". La Dda di Milano gli ha contestato di essere sostanzialmente a “libro paga” della 'ndrangheta. In particolare, i Lampada, sempre secondo l’accusa, non solo gli avrebbero offerto ''affari”, ma avrebbero anche appagato quella che il gip di Milano, nell’ordinanza di custodia cautelare, aveva definito una vera e propria “ossessione per il sesso”, facendogli trovare prostitute in alberghi di lusso milanesi. Per il giudice di Palmi il clan organizzava viaggi nel nord Italia e incontri con alcune escort. Una ventina di fine settimana di piacere al Nord, in cui gli venivano messe a disposizione prostitute con le quali avrebbe intrattenuto rapporti in un hotel della zona del quartiere San Siro. L’inchiesta che scoperchia qualche figura della “zona grigia” che protegge, favorisce, aiuta o in qualche modo è amica della ‘ndrangheta tra Milano e Reggio Calabria allinea numerosi episodi, e ovviamente si avvale di alcune intercettazioni telefoniche e ambientali. Eccone una che riguarda proprio Giancarlo Giusti, invitato a Milano, all’hotel Brun. La toga non paga mai. Per lui il conto è saldato da un boss del calibro di Giulio Lampada, per una spesa totale di 27mila euro. Senza parlare di quanto costavano le ragazze, tutte identificate. C’era la ceca Jana, quarantenne, le russe Zhanna 36 anni, ballerina al Rayto de Oro, a La Tour, al Venus, e altri night di Milano e del nord, ed Elena, 41 anni, la kazaca Olga, 34 anni, e la slovena Denisa, 27 anni. Giusti, per telefono, si lascia andare: «... Dovevo fare il mafioso, non il giudice...» Giusti e Lampada sono ovviamente in ottimi rapporti, il magistrato gli dice che arriva a Milano «la settimana che entra o la prossima... Dipende dal cugino del tuo caro amico medico!... di Giglio!! no?!», e Giglio sta per Vincenzo, il collega magistrato, presidente del tribunale per le misure di prevenzione del tribunale di Reggio Calabria, come conferma lo stesso Lampada. Parlando del “medico”, che si chiama pure lui Vincenzo Giglio.  Ecco uno stralcio delle intercettazioni:

LAMPADA (riferendosi al magistrato Vincenzo Giglio): «...Del nostro Presidente, dobbiamo dire!!... Il Presidente delle misure di prevenzione di tutta Reggio Calabria! Sai che dobbiamo fare?.....».

GIUSTI: «... che facciamo, che facciamo??».

LAMPADA: «lo convochiamo qualche giorno su a Milano e lo invitiamo... come la vedi tu?».

GIUSTI: «... minchia!! guarda!! dobbiamo parlarne col medico!!!...(ride)...».

LAMPADA: «Non dirgli nulla che ti ho detto che è un mese che non ci sentiamo!».

GIUSTI: «... Tu ancora non hai capito chi sono io... sono una tomba, peggio di.. ma io dovevo fare il mafioso, non il Giudice... però l’idea di portarci il Presidente a Milano non è male, sai?!... Lo vorrei vedere di fronte ad una steccona!!».

Con tutto quello che succede in questa Italia allo scatafascio, ti ritrovi a sentire certe cose.

"Le Iene" raccontano una storia singolare: una coppia che si è vista "scippare" i suoi tre figli poiché la loro casa sarebbe stata troppo disordinata e sporca, scrive Fabio Giuffrida. Ecco nel dettaglio cosa è successo... Una storia toccante e assai particolare è stata raccontata da “Le Iene”: una coppia che ha messo al mondo tre figli, due neonati e un ragazzo, se li è visti strappare da un giorno all’altro, senza un motivo preciso a detta loro. La polizia si sarebbe presentata nel loro grande appartamento e avrebbe riscontrato che le condizioni della casa non fossero affatto idonee per i figli: la casa sarebbe stata tenuta male, troppo sporca e disordinata. I due genitori si sono giustificati dicendo che è del tutto normale che, con tre figli, una casa – soprattutto se così grande – possa non essere del tutto “perfetta”. Però strappare tre figli, due dei quali molto piccoli, alla proprio famiglia, senza dare la possibilità ai genitori di dire la propria, senza interpellare nemmeno nonni o altri parenti che avrebbero potuto prenderli in affido, è sicuramente un fatto singolare. Dalle immagini mostrare dalla iena, la casa non era poi così disordinata. Interpellate le due assistenti sociali, hanno preferito non rilasciare dichiarazioni preferendo lasciar parlare il responsabile il quale, pur negando le richieste della iena, ha promesso che si attiverà per trovare altre soluzioni.

Le Iene e i figli tolti ai genitori per una casa sporca, scrive “Giornalettismo”. La trasmissione di Italiauno racconta la strana storia. Ad una nota coppia di genitori dopo una visita in casa vengono sottratti i tre figli a causa delle cattive condizioni igieniche dell’abitazione. È la storia raccontata in un servizio mandato in onda nella puntata del 5 marzo 2014 de Le Iene, firmato da Matteo Viviani.  Il calvario comincia i primi giorni di febbraio 2014, quando alla porta della casa di Andrea Barlocco, ex pr dei vip, e Sabrina Saccomanni, ex corteggiatrice di Uomini e Donne, in un complesso residenziale alle porte di Milano, si presentano assistenti sociali accompagnati  da Carabinieri e Polizia locale, i quali dopo aver effettuato un controllo decidono di portar via tre bambini, di 6 mesi, 21 mesi e quasi 13 anni, e la baby sitter che li stava accudendo. Da allora – è la stessa coppia a raccontarlo alle telecamere di Mediaset – viene stravolta la vita dei due genitori, che passano il loro tempo a piangere, impossibilitati a vedere i loro bambini e oltretutto costretti, quando incontrano i piccoli in caserma, a sorridere per non compromettere con un verbale negativo il percorso stabilito dai servizi sociali. Ma, ovviamente, anche sorpresi dalla motivazione della sottrazione dei figli. «L’abitazione è in condizioni igieniche allarmanti (si rimanda alla relazione dei Carabinieri)», hanno messo nero su bianco i servizi sociali nella relazione che racconta del disordine trovato in casa. Alla troupe delle Iene Andrea risponde punto su punto ai rilievi del rapporto, in cui si parla dei panni puzzolenti ancora da lavare, del tappeto di vestiti sporchi gettati alla rinfusa sul pavimento della stanza dei ragazzi, o anche degli escrementi di un cane in una vasca da bagno (che il padrone di casa dice essere esclusivamente riservato all’animale). «Questa situazione a mio avviso non poteva essere così grave da poter provocare un allontanamento dei tre bambini», ha spiegato l’avvocato di Andrea e Sabrina, Sonia Gaiola. «Non c’è alcuna fotografia che possa dimostrare tutto quello che hanno rilevato i Carabinieri», ha aggiunto l’assistente del legale. «In questo caso specifico si stanno adottando delle procedure che non favoriscono il benessere psico fisico dei bambini», ha poi continuato la dottoressa Gaiola. «Avrebbero dovuto verificare se ci fossero state segnalazioni da parte della scuola o della scuola di calcio», dice. Ma nè l’allenatore Franz nè il prete che conosceva la famiglia dicono alle telecamere delle Iene di aver visto il ragazzino più grande vestito o curato in cattivo modo. «Siamo rimasti colpiti». «Nessuno si aspettava questa cosa», rivelano alle Iene chi conosceva la famiglia. Già, la famiglia. A quanto pare gli assistenti sociali, racconta il servizio, non hanno chiesto ai parenti (ai nonni, ad esempio) se disposti ad accudire i figli. Nè segnalazioni o informazioni sono giunte al pediatra che curava i bambini più piccoli. Un particolare, quest’ultimo, che potrebbe seriamente avere il suo peso nella crescita e nella formazione dei bambini. Anche i neonati riescono a percepire la mancanza dei genitori e della casa, spiega una psicoanalista alle Iene. «Sono tra il disperato e l’incazzato», dice il papà Andrea. «Quello che ha portato all’allontanamento è un po’ il dubbio sulle competenze genitoriali», rispondono le assistenti sociali ad un incontro con l’avvocato della coppia. Un dubbio aperto – spiegano – «sulla base della possibilità di presenza di una trascuratezza importante rispetto a questi tre bambini». «Quel livello di incuria della casa fa presupporre dei livelli di trascuratezza proprio rispetto alle capacità genitoriali». «Una casa in disordine è un po’ sintomo di trascuratezza e la trascuratezza è pari al maltrattamento…». Il caso ha ovviamente scatenato molte reazioni su Twitter, dove gli utenti, hanno preso di mira soprattutto gli assistenti sociali.

A chi ha visto il servizio si è raggelato il sangue. Se è successo a questi signori con una bella casa di 300 metri quadri. Disordinata quanto basta con tre figli piccoli e due cani: ma non sporca. Dicevo se è successo a loro, che oltretutto hanno le conoscenze giuste per far intervenire "Le Iene", chissà cosa succede ai poveri cristi e nessuno ne parla. A fronte di questo c'è ancora la pantomima dei giustizialisti contro i garantisti: è l'apoteosi dell'ignoranza. Gente che non capisce e non sa un cazzo di quello che succede intorno a loro e ciononostante stanno sempre li a sproloquiare.

Camorra e Pd, tante sorprese nell'inchiesta. Molte anomalie nei seggi di Secondigliano sui voti per Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri alle primarie, scrive Panorama. Paghi uno, prendi due. A Secondigliano, nel 2011, il clan Lo Russo aveva messo i saldi: per 50 euro, vendeva voti per l’abbinata primarie-amministrative. Pacchetto "deluxe", tutto compreso. L’inchiesta della Dda sulle consultazioni di partito per la scelta del candidato sindaco pd sta per essere chiusa: dalle 30 utenze sotto controllo è venuto fuori di tutto. "Prepariamoci ché a Napoli succederà il casino" si lascia scappare un faccendiere al cellulare intercettato mentre discute di incarichi e poltrone. Le anomalie nei seggi ad alto rischio riguardano due partecipanti in particolare: Andrea Cozzolino e Umberto Ranieri. Il primo è un europarlamentare, il secondo invece è stato sottosegretario agli Esteri ed è l’uomo politico campano più vicino al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Non sono indagati né accusati di alcunché, i due. Ma i carabinieri hanno lavorato soprattutto sui loro risultati elettorali e sui loro "portatori d’acqua". Intanto, da poche settimane anche la Procura antimafia di Salerno ha aperto un fascicolo sulle consultazioni "democrat". C’è da scoprire perché, nell’appartamento di un imprenditore edile sospettato di amicizie coi boss dell’agro nocerino-sarnese, siano state trovate durante una perquisizione decine e decine di tessere in bianco, firmate dal segretario Pier Luigi Bersani per la campagna 2012, ma non appartenenti al "pacchetto" numerato che la direzione nazionale aveva consegnato alla federazione provinciale. Da mesi, accuse e dossier avvelenano l’aria nel Pd: il voto per le preselezioni del novembre scorso (97 per cento a Salerno città per Matteo Renzi) è stato annullato dalla commissione di garanzia, e pure la tornata elettorale di due domeniche fa per la segreteria regionale che ha visto trionfare la renziana Assunta Tartaglione (fermatasi all’89 per cento nel capoluogo) finirà entro breve in direzione nazionale. Il deputato lettiano Guglielmo Vaccaro, tra i primi a denunciare brogli e movimenti sospetti attorno alle urne, è già stato convocato dal pm Vincenzo Montemurro. E siamo solo all’inizio.

Intervista esclusiva all'altro Saviano: "La lotta alla mafia non ha colore". Roberto Maroni? "Contro la mafia è uno dei migliori ministri dell’Interno". Il centrosinistra? "In Campania mi ritiene un nemico". A sorpresa, lo scrittore anticamorra spiega: "La mia non è una lotta di parte", scrive di Pietrangelo Buttafuoco su “Panorama”. Perfino la bomba. Una stupida bomba anarchica, fortunatamente non esplosa, all’Università Bocconi . E un clima che volge al peggio. Con un premier sporcato dal sangue , un matto in mezzo e l’Italia che ancora una volta si divide: i "cattivi " al potere e i "buoni" nella malinconia narcisista. Panorama incontra un Roberto Saviano sinceramente scosso di averle tutte le ragioni per raddrizzare le gambe ai cani, ma di non poterlo fare.  per tutto quello che accade in questo finale d’anno intinto nell’odio. La responsabilità della parola è forte: la sua lo è per la diffusione che ha raggiunto. E questa conversazione con l’autore di Gomorra fa seguito a un’intervista di Panorama a Roberto Maroni , il ministro dell’Interno che ha fatto quartiere a Caserta, giusto per imporre la presenza dello Stato in quella che fino a ieri era terra di nessuno. O ancora oggi? La parola a Saviano.

Maroni ha fatto la sua recensione a Gomorra nel modo più lusinghiero: scatenando il fuoco contro la camorra. Cos’altro resta da fare per far sì che il suo libro diventi inattuale?

«Maroni ha il merito di avere iniziato un’azione indubbiamente più forte di quanto sia stato fatto in precedenza. E sul fronte antimafia è uno dei migliori ministri degli Interni di sempre. Mi riferisco in primo luogo al Casertano, finora quasi ignorato dall’intervento statale centrale. Dico però che è solo l’inizio, perché nel Casertano c’è ancora molto da fare. I due latitanti più importanti sono ancora liberi, Michele Zagaria e Antonio Iovine; aziende legate alle organizzazioni continuano a fare affari; il ciclo del cemento e dei rifiuti è ancora nelle loro mani. Basta parlare con i responsabili della Direzione distrettuale antimafia di Napoli, e non solo. Il lavoro di Maroni è stato ed è fondamentale, però non pensiamo neanche lontanamente che si sia sconfitta la camorra. È un inizio, insomma, ma non basta. Il problema è un altro. Questo governo agisce, e spesso con successo, soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti. Potere mostrare i camorristi e i mafiosi arrestati diviene prova dell’efficacia della lotta alla mafia. Ma questo governo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica.»

Ma i sequestri non ci sono?

«Sì, certo, i sequestri di beni ci sono, però i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. E poi i sequestri spesso vengono sbandierati due tre volte nella cronaca, quando invece sono parti di una stessa operazione.»

Cioè che cosa accade?

«Prima i beni vengono congelati, poi viene fatta la richiesta di sequestro, e alla fine il sequestro viene effettuato. Questi tre passaggi generano tre notizie, facendo spesso sembrare che le azioni contro l’impero economico sono state tre anziché una. Inoltre la parte maggiore dei beni in Campania e in Calabria non è realmente riutilizzata. Su questo so che Maroni sta lavorando. E spero nella sua efficienza, perché per ogni bene non assegnato, e ce ne sono decine e decine, il simbolo mafioso si va affermando: come dire "ecco che cosa fa lo Stato, ci porta via e lascia tutto in rovina". Le organizzazioni vogliono questo, infatti distruggono spesso i beni.»

Magari il ministro Maroni un suo consiglio potrebbe accettarlo, no?

«Allora: un po’ di idee da condividere con Maroni le avrei. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo rimettere all’asta i beni dei mafiosi. Perché li acquisterebbero loro, di nuovo, o quantomeno tornerebbero in loro proprietà. Lo scudo fiscale, per esempio, fa rientrare capitali con origine illecita o sospetta in Italia e per le mafie è un favore. Questa è la valutazione di moltissimi investigatori antimafia, non solo la mia. Bisognava fare altro, intervenire altrove sul piano legislativo.»

Per esempio?

«Bisogna cominciare a mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata; togliere ai mafiosi il rito abbreviato, inserito con la menzogna di velocizzare i processi. Non è così, basta seguire la prassi giudiziaria e capirlo. Mi spiego meglio. Nei procedimenti contro la mafia, il rito abbreviato complica tutto. Se su 100 imputati 50 lo scelgono e gli altri no, quando si va in udienza per questi ultimi bisogna riesaminare la posizione degli altri già giudicati e risentire tutti i testimoni. Non vi sarebbe alcun risparmio di tempo. Ci vogliono pene adeguate e nessun beneficio di legge per i reati di mafia.»

La destra, lei dice, ha tradito i valori antimafia. Ma come si spiega che proprio questo governo, presieduto dal "presunto mafioso" Silvio Berlusconi, abbia fatto più di ogni altro esecutivo contro la criminalità organizzata?

«Ho sempre fatto riferimento alla tradizione che fu della destra antimafia. Paolo Borsellino si riconosceva in questa tradizione. E spero e credo che questa tradizione importante sia ancora viva nella base dei militanti, soprattutto nel Sud Italia. Attenti, però: non è soltanto guardando ai numeri o a determinate scelte che si possono stabilire il merito e l’impegno complessivo di un governo. I governi spesso sono costretti ad agire contro le mafie quando queste divengono troppo pericolose per la vita del Paese. Ricordo che Giovanni Falcone fu chiamato da Claudio Martelli a costruire quella che poi sarebbe stata la superprocura antimafia, e questo avveniva durante un governo Andreotti. In un momento in cui ci furono, solo per fare qualche esempio, prima l’uccisione di Libero Grassi e poi, nel marzo 1992, quella di Salvo Lima. E poi c’è un’altra cosa molto semplice da dire, sempre a partire da questo esempio. Ricordo la lezione di Aldo Moro quando disse: "Lo Stato non è un monolite che va verso un’unica direzione". Questo vale pure per i governi: valeva allora per il ministro della Giustizia Martelli, vale oggi per il ministro dell’Interno Maroni. Dopodiché non tutti gli arresti e i sequestri sono veramente importanti. Molti di questi arrestati venivano ricercati da anni, persino da decenni. Il contrasto antimafia vive anche, e spesso principalmente, di forza propria. Ovvero della continuità del lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura, che copre intere legislature. Ovvio che poi qualsiasi governo in carica si fregi del successo ottenuto. Ma quel risultato è il frutto di sforzi che giungono da ben più lontano, indipendenti dalla politica.»

Questo dunque non è un governo che mette i mafiosi in trappola?

«Intendo dire che non è questo un governo con la priorità antimafia, tutt’altro. Nonostante gli sforzi di Maroni. I problemi stanno altrove, in altri disegni legislativi di cui non è così immediato vedere il nesso con la criminalità organizzata. Ma che portano con sé rischi enormi.»

Quali rischi?

«Per esempio quello che riguarda la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diverrebbe talmente difficile poterle fare, e ancor più poterle proseguire per un tempo adeguato a ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, ossia rallentata. In più si rischia di privare gli inquirenti dell’unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno. Se i magistrati si trovano davanti a grandi limitazioni nell’uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppo contro chi possiede nel proprio armamentario ogni dispositivo tecnologico e sofisticato di cui è in grado di usufruire.»

Giusto, ma poi le intercettazioni servono solo a far uscire sui giornali gli sms di Anna Falchi con Stefano Ricucci, stiamo freschi...

«Comunque, andiamo avanti. L’altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così, fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici, va a finire che spesso un boss si fa 5 anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul "processo breve" cambia, ma solo in peggio.»

Quindi che cosa bisognerebbe fare, a suo avviso?

«Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena dev’essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo Stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento.»

Una domanda sottovoce: Berlusconi è colluso con la criminalità?

«Rispondo a voce normalissima. Ci sono state inchieste e processi che hanno fatto il loro corso. E spero che potrà essere così ancora adesso. Esistono il diritto, le procedure, mille norme precise che consentono di arrivare a una verità attendibile oppure a stabilire che gli elementi non sono sufficienti per potersi pronunciare. E chiunque voglia farsi un’idea seria e autonoma non deve che fare lo sforzo di andarsi a studiare le carte processuali: tutte. Di una parte e dell’altra.»

Torniamo a bomba: perché quando è un governo di centrosinistra a condurre la guerra alla mafia gli si riconoscono tutti i meriti, mentre quando lo fa un governo di destra si fanno tanti distinguo, del tipo: è merito della polizia e della magistratura?

«Non sono certo io a operare questo genere di distinguo. Il centrosinistra ha responsabilità enormi nella collusione con le organizzazioni criminali. Le due regioni con più comuni sciolti per mafia sono Campania e Calabria. E chi le ha amministrate negli ultimi 12 anni? Il centrosinistra. Ma io questa cosa l’ho detta e ridetta, l’ho fatta presente in vari articoli e interventi. E per questo mi sono meritato la fama di essere uno che, per interesse personale, infanga la sua terra. Quanto mi ha attaccato il centrosinistra campano, che ancora oggi mi considera un nemico! Solo pochi, pochissimi mi sono stati vicini.»

Ma una vittoria sulla camorra, ottenuta dalla destra come dalla sinistra, oggi è più a portata di mano oppure no?

«Prima di parlare di vittoria la invito ad andare a vedere con i suoi occhi. Provi ad andare sulla Napoli-Caserta e veda quante colonne di fumo s’innalzano. Decine e decine di roghi ogni giorno, gestiti dai clan testimoniati nel sito internet laterradeifuochi.it . Maroni è l’unico che potrebbe fare qualcosa.»

Lei intende dire che ci sono camorristi conclamati in libertà?

«Spesso capita che lo stesso mafioso in dieci anni venga arrestato anche cinque, sei volte di seguito, e sempre per reati gravissimi. È stata una delle conseguenze della possibilità di patteggiamento in appello, che per fortuna l’attuale governo ha abrogato con il cosiddetto pacchetto sicurezza.»

Con quale risultato?

«In pratica, prima succedeva che, trovando un accordo fra avvocato e pubblico ministero, per il mafioso diventava assai più conveniente andare in carcere e uscirne abbastanza presto, piuttosto che scontare una pena lunga: quella che spesso portava il detenuto a collaborare, una condizione preliminare per poter smontare il meccanismo dei clan. Sulla base dei riscontri oggettivi che le dichiarazioni consentono di trovare, e non (come si crede o si vuole far credere) sulla base delle singole dichiarazioni. Comunque il divieto del patteggiamento in appello per i reati di mafia è stato un passo avanti. Purtroppo però sono stati fatti contemporaneamente altri passi legislativi che rendono assai più debole la lotta alla mafia: dei passi indietro.»

Ma perché nei giornali c’era sempre tanto pudore nel raccontare un eroe come Paolo Borsellino, fino al punto di edulcorarne l’adesione al Msi per farla diventare una generica "simpatia monarchica"? Lei sa che Beppe Alfano, un giornalista siciliano ammazzato dalla mafia , era un militante di destra? Perché si perpetua questa idea infame che solo la sinistra sia vergine e pura, mentre la destra affareggia con i mafiosi?

«È un errore far diventare la battaglia antimafia una battaglia di parte. Bisogna uscire dal luogo comune. Credo lei sappia benissimo che io ho sempre detto, ribadito, sottolineato l’impegno di tanti uomini della destra nella lotta alla mafia. Non solo uomini come Borsellino, ma anche militanti comuni. La lotta alla mafia non è stata e non dev’essere né apparire mai appannaggio di una sola parte politica. Anche perché le mafie non guardano a destra o sinistra, ma soltanto al proprio interesse e all’avvicinabilità dei rappresentanti politici, a qualsiasi livello essi si trovino. La politica collusa non ha colore. In ogni caso, in questo momento moltissimi politici di centrodestra sono coinvolti in inchieste per concorso in associazione mafiosa.»

Lei parla del famoso e contestato "accrocco " tra i due articoli del Codice penale: il 110 e il 416 bis ...

«Sì. E qui vale la stessa cosa che per la sinistra: se la politica vuole dimostrare di fare sul serio, nella sua volontà di lotta alla mafia, deve fare lavorare la giustizia con serenità. Ma questo non è tutto, secondo me. Dovrebbe, a prescindere dagli iter giudiziari, assumersi anche il problema di chi sceglie come proprio rappresentante. Perché proprio questo rientra nei compiti di una politica che decide di agire e di farsi carico attivamente dei problemi del Paese. O, come ho detto tante volte: dovrebbero essere anche gli elettori, i cittadini, a esigere che i candidati della parte che scelgono diano piene garanzie di trasparenza in questo senso.»

Perché lei, che non è di sinistra né di destra, passa come un "sincero democratico ", al punto di fare da testimonial per una somarata quale la "difesa della Costituzione"? Lei non è un impiegato della fureria conformista: perché non le lascia fare a Fabio Fazio , queste sparate?

«Di Fabio Fazio dico soltanto che gli sono amico e quindi con lui farei volentieri ciò che lei definisce "sparate". Non mi sono mai scelto gli amici per conformismo. Come scrittore, mi sono formato su molti autori riconosciuti della cultura tradizionale e conservatrice, Ernst Jünger, Ezra Pound, Louis Ferdinand Celine, Carl Schmitt... E non mi sogno di rinnegarlo, anzi. Leggo spesso persino Julius Evola, che mi avrebbe considerato un inferiore.»

Questa è bella. E perché avrebbe dovuto considerarla inferiore?

«Non dica così, altrimenti certi casalesi del politicamente corretto chissà cosa credono. Il barone parlava di "ceto dello spirito" e lei è pure un bello guaglione...Come scrittore è lì che mi sono formato, ma questo non significa che oggi mi senta in contraddizione se difendo la Costituzione. Non credo che la Costituzione italiana oggi sia di sinistra o di destra. Mi sembra semplicemente una base per garantire una convivenza equa a tutti i cittadini, per conservare lo stato di diritto che è una condizione indispensabile anche per la lotta alle mafie. E credo pure che il suo richiamo all’unità di questo Paese sia qualcosa d’importante. Personalmente, terrei che continuasse a esistere un paese di nome Italia, e penso che ci terrebbe pure Gabriele D’Annunzio. Non dimentichiamoci che non sono certo le organizzazioni criminali, italiane o straniere, a subire in negativo eventuali riassetti federalistici. So che a lei la parola democrazia fa venire l’orticaria, ma per ora è anche il meglio che abbiamo prodotto.»

A ogni modo: non rischia di essere confuso con un firmaiolo d’appelli? Forse ai tempi di Luigi Calabresi le avrebbero chiesto di firmare il famoso appello...

«No, non sono un firmaiolo. Credo che l’appello di cui mi sono fatto promotore fosse un chiaro invito a ripensare a un certo progetto. Era un invito indirizzato a Berlusconi, non lanciato contro il presidente del Consiglio. Mi spiace doverlo ribadire un’altra volta. Non ho mai inteso la mia lotta come una lotta di parte. Non avrei mai scritto quell’appello, se non fossi convinto che il suo contenuto rappresenta un interesse comune che va al di là degli schieramenti politici.»

Però, visto il clima...

«Ecco: proprio visto il clima, non posso che correre il rischio di essere confuso con i firmaioli d’appello. Non temo di schierarmi su una determinata questione, se è questo ciò che in un dato momento la coerenza con le mie idee esige. Ma, proprio per rispondere alla sua domanda provocatoria: io oggi non firmerei nulla che possa essere visto come una delegittimazione dei poteri dello Stato. Per esigere un chiarimento di chi invece potrebbe averne abusato, esistono altri modi, secondo me migliori e più adeguati, a partire dalla stessa informazione, quando è libera e seria.»

A proposito, perché in tv lei va solo dai tipi come Fazio o dai soliti "compagnucci "? E mai, proprio mai, da chi canta fuori dal coro? Quelli che cantano fuori dal coro perché sa bene che ci sono. Ricorda "Otto e mezzo"?

«Con Che tempo che fa si è instaurato un rapporto di ottima collaborazione, che mi ha consentito di fare una puntata difficile come l’ultimo speciale, dove parlando di libri abbiamo battuto X Factor per numero di spettatori. E questo è merito della loro libertà e capacità di credere in progetti che in televisione sono considerati impossibili e perdenti, e che loro rendono possibili e vincenti. Fazio è stato il primo ad avermi permesso in tv, in prima serata, di parlare dei regimi totalitari comunisti: mi dica chi altro l’ha fatto, al di fuori dei documentari. Prova di reale libertà sia da quelli che lei chiama conformismi, sia dai dettami di una televisione interessata solo all’audience facile. In tv sono andato da Enrico Mentana , e fu una delle puntate in assoluto più viste in Mediaset...»

Altro che. E i ragazzi di Casa Pound, il centro sociale di destra, fecero la ola per la sua chiusa dedicata al poeta.

«... e sono stato anche da Daria Bignardi, che mi invitò prima di tutti. Cerco di non fare troppe uscite perché temo di stancare. Però conto di andare in molte trasmissioni che mi piacciono, e dove invece non sono ancora stato. Ma anche in alcuni tg non ci metterei piede: non perché hanno direttori con certe idee politiche, no; solo perché ottundono, coprono, non lasciano spazio al racconto della realtà, fanno il lavoro di ufficio stampa governativo. Perché fanno pessimo giornalismo, in breve. Non perché non condivida le loro idee. Tutt’altro. La qualità prima di tutto.»

Però i conformisti di sinistra non le perdonerebbero una "cantata stonata". Sono peggio di certi casalesi, loro: sono vendicativi. Pensi se solo lei dicesse: è vero, questo è il governo che più di tutti ha fatto contro la criminalità organizzata. Che cosa accadrebbe?

«Lo direi, se fosse vero, e non avrei alcun problema. Ho già raccontato in maniera articolata come la penso. E ho pure ricordato quanto poco rispetto ho ottenuto per quello che lei chiama conformismo di sinistra, continuando a denunciare il malgoverno e la collusione in Campania e pure in Calabria. Devo forse ricordare ancora l’ostilità con la quale sto pagando queste mie ripetute prese di posizione? Devo ricordare che in Campania sono per questo odiato da quasi tutti?»

Una delle sciabolate più efficaci di Saviano fu quella di abituare tutti noi del Sud a uno scandalo: e cioè che non è vero che chi resta sia uno sfigato. Il Sole 24 Ore sta per pubblicare l’elenco delle città italiane e le nostre due saranno messe in coda, mentre Catania torna la Milano del Sud. Per le mostre di Lucio Fontana e di Alberto Burri (quello della copertina di "La Bellezza e l’Inferno", il suo ultimo libro), per esempio. Ricorda che cosa ha detto Maroni a Panorama ? Che un imprenditore suo compaesano gli ha detto: "Finalmente posso ricominciare a lavorare a casa mia".

«Magari è così a Catania, ma a Caserta proprio no. Caserta resta uno dei luoghi più corrotti d’Italia. È difficilissimo anche soltanto essere assunti senza una protezione, fosse pure per fare il cameriere per un weekend. Il Sud vive una situazione difficilissima, e le spinte del Nord a volersi occupare solo di se stesso, per non parlare di quelle più chiaramente razziste, non sono certo d’aiuto. Se passa l’idea che tutto ciò che è buono e produttivo sta a Nord, e che basta allontanare la parte malata perché la parte sana sia salva, è finita. Ed è finita, purtroppo, non solo la lotta per recuperare il Meridione, ma perché il Nord è terra d’investimenti e d’infiltrazioni enormi, che ormai c’entrano pochissimo con le residenze forzate o cose del genere.»

Lei ritiene davvero che oggi la rete affaristico - mafiosa sia così estesa?

«È ridicolo pensare che organizzazioni presenti in tutto il mondo non continuino a occupare massicciamente Milano o l’Emilia-Romagna. Anzi, ogni frazionamento va solo a favore della criminalità globalizzata. A Sud c’è un potenziale enorme. Liberiamolo.»

Chissà, forse solo i ricchi potranno salvare il Sud. Perché alla fine il crimine "non conviene".

«Lo dice sempre Andrea Vecchio, il costruttore siciliano che non paga il pizzo al prezzo di vedersi saltare sempre i cantieri. Lei che cosa ne pensa? Purtroppo il crimine paga ancora. Paga persino a chi, semplicemente, si appoggia alla forza delle organizzazioni criminali. Paga agli imprenditori "puliti" che si avvantaggiano della loro liquidità, della loro capacità di ottenere monopoli, di abbassare i costi, di fornire i servizi "chiavi in mano ". Non possiamo contare sulle scelte virtuose di chi dispone dei mezzi economici per potersele permettere. Dobbiamo agire in modo che davvero divenga più conveniente fare impresa lontano da ogni collusione. Essere antimafioso deve portare un profitto. Soltanto così sconfiggeremo le alleanze trasversali con i clan. Quindi no, non saranno i ricchi a salvare il Sud; ma la Confindustria può fare più di un esercito di volontari, missionari e associazioni. Questo è certo.»

Giustizialisti vs garantisti. Da Beccaria a Travaglio, da Mussolini a Sciascia, passando per le accorate denunce di Lombroso, gli abbagli di Giolitti, il legalismo rivoluzionario di Berlinguer. Viaggio nella confusa storia d’Italia. Dove due partiti trasversali si affrontano da 150 anni. Senza esclusione di colpi, scrive Francesco Sidoti su “Left”.

Un confronto ha caratterizzato la storia italiana: giustizialisti contro garantisti. È più di due sinistre. Infatti, ci sono giustizialisti sia a destra sia a sinistra e lo stesso vale per i garantisti. Antonio Di Pietro e Marco Travaglio sono ascoltati a destra e a sinistra; i radicali vanno dappertutto a ricordare Enzo Tortora; su l’Unità è possibile leggere articoli molto diversi di Ingroia e Macaluso. Dopo la chiusura del Riformista, Massimo Bordin ha terminato la sua rubrica su quel giornale e senza cambiare una virgola, ha cominciato a pubblicarla sul Foglio del garantista berlusconiano Giuliano Ferrara. Moderati ed estremisti, buonisti e forcaioli ci sono dovunque, ma in Italia c’è un problema specifico. Perché ci sono più crimini o perché c’è più insofferenza verso il crimine? Di sicuro, in Italia esiste la più illustre meditazione sul delitto. È italiano Cesare Beccaria, padre fondatore del diritto penale ed è italiano Cesare Lombroso, padre fondatore della criminologia. Non si tratta soltanto del passato: Giovanni Falcone è ricordato negli Stati Uniti come l’italiano che ha permesso la più grande vittoria contro le mafie, Pizza Connection. Dopo, per gli americani ci sono state solo mezze vittorie, tanto è vero che ad alcuni la guerra della droga pare ormai perduta. La Corte penale internazionale è stata istituita a Roma 14 anni or sono. Nello scetticismo generale, fu italiana l’iniziativa per la risoluzione che coagulò i due terzi dei 192 Paesi aderenti all’Onu, sollecitando «una moratoria in vista dell’abolizione della pena di morte». Insomma, sono innumerevoli gli esempi di questa suprema attenzione italiana per il delitto. Mani pulite fu un fenomeno globale, ma in Italia ha raggiunto livelli altrove impensabili e impossibili, perché in nessun’altra parte c’è un ordine giudiziario così indipendente dal potere politico. Questa è una specificità italiana, prescritta in una Costituzione super democratica: rende perseguibili e visibili i crimini dei potenti.

Un vocabolario fatto in casa. Garantismo e giustizialismo sono idee nate a casa nostra, spesso usate per insultare elegantemente l’avversario, e infatti si tratta di vocaboli esclusivamente italiani. Non c’è la voce garantismo in wikipedia e in proposito ci sono pochi link addirittura su google; è concetto quasi sconosciuto nel mondo anglofono e da noi spesso accompagnato dall’aggettivo peloso, sinonimo di soccorso spirituale che camuffa un interesse personale. Per alcuni i garantisti sarebbero una perversione del nostro passato migliore (la presunzione di innocenza a tutti i costi), come i giustizialisti sarebbero una perversione della nostra storia migliore (la richiesta di una giustizia a tutti i costi). Dicono i garantisti di destra: eliminiamo questa magistratura anomala e d’incanto ci saranno meno crimini. Si presentano come garantisti, ma ad alcuni sembrano populisti e peronisti; figli di una creatura mitologica: il peronismo garantista. Solennemente, il garantismo di destra declama Ulpiano e Beccaria, ma può apparire prosaicamente ammanigliato (e qualche volta ammanettato) a un’armata di indagati e pregiudicati, con i relativi avvocati. Tanto che si parla di un partito degli avvocati, ovviamente contrapposto al partito dei magistrati, gli uni e gli altri garantisti o giustizialisti per dovere professionale e spirito di servizio. I giustizialisti a destra si sono sempre accomodati volentieri. Nella storia della destra transalpina, il motto “Abbasso i ladri” fu la bandiera dell’Action française. Il parlamento italiano è stato definito aula sorda e grigia da Mussolini e ha visto il pendaglio della forca agitato dai leghisti: una triviale retorica giustizialista è ricorrente nella destra che gioca all’attacco. Se gioca in difesa, invece, la stessa destra diventa squisitamente garantista. Più complicata la situazione a sinistra: c’è il garantismo nobile di Macaluso, il garantismo illuminista di Sciascia, il garantismo libertario dei radicali, e così via. Ma non c’è soltanto garantismo. Spesso ci sono state le parole forti. Gramsci scrive sul Grido del Popolo nel 1918: «Per noi chiamare uno porco se è un porco, non è volgarità, è proprietà di linguaggio». Era un momento esasperato della storia mondiale; ma oggi non viviamo in un altro momento esasperato? Il linguaggio di Grillo e Di Pietro non riflette un’insofferenza che c’è sempre stata dentro la sinistra?

Il doppio Lombroso. Sulla legalità il confine ideologico è sempre sottile, spesso condannato a diventare evanescente con gli amici, invalicabile con i nemici, scavalcato acrobaticamente e ripetutamente da questo e da quello, in un modo o nell’altro. Trasformismo, camaleontismo, nomadismo impazzavano già prima della globalizzazione. Si può nascere a destra, morire a sinistra, per poi essere restituito al mittente dagli eredi o dai posteri. È quel che è accaduto a Cesare Lombroso. Nel corso della vita, dopo essere stato una roboante speranza di destra, Lombroso diventa socialista, scrive sulle pagine dell’Avanti! e siede a Torino come consigliere comunale tra i banchi socialisti. Chiede le otto ore di lavoro, la trasformazione dei contratti agrari, una tassazione progressiva, una forte imposta di successione. La sua famiglia confluisce nell’antifascismo militante. Pubblica articoli di fuoco contro il militarismo e il colonialismo, sdegnosamente sferza i parlamentari «corrotti e venali». Scrive Lombroso nella sua seconda vita di sinistra: «Gli avvocati fan passare nel proprio terreno l’oro che i criminali rubano agli onesti… quando gli uomini della legge hanno coi loro cavilli favorita l’impunità del delitto, il linciaggio, che è pure un delitto, è l’unico mezzo con cui la civiltà si può difendere veramente dal delitto organizzato e protetto dalle istituzioni ultra liberali». Lombroso, dunque, passò sì da destra a sinistra, ma tenendosi sempre abbastanza lontano da una mentalità garantista. Questo secondo Lombroso si alienò le simpatie dei conservatori. Prediligevano invece il primo Lombroso, che aveva scritto molto in termini di razzismo, eugenetica, maschilismo e biologismo. Nel 1862, giovanissimo ufficiale dell’esercito sabaudo, Lombroso aveva scoperto nell’Aspromonte un universo selvaggio e desolato: «Terre primitive, imo dell’igiene e della medicina». Dall’osservazione dei briganti calabresi tirò fuori la teoria del delinquente nato. Quando, nel 1898, rivisita gli studi giovanili sui malviventi calabresi, mette in primario rilievo i fattori sociali e istituzionali. È ancora giustizialista, ma non nei confronti degli anarchici, dei briganti, dei meridionali. Nel 1898, Lombroso ricordava che il suo primo scritto sulla Calabria era stato pubblicato nel 1862, quando «mi trovai all’improvviso faccia a faccia con un mondo nuovo» e sottolineava «le lacune degli anni e della esperienza», che avevano influenzato quelle note sue di allora, «involontariamente ingiuste». A forza di botta e risposta, tra giornali e circoli di Milano e Torino, il secondo Lombroso capisce quel che molti meridionali (da Napoleone Colajanni a Francesco Saverio Nitti) e molti settentrionali (da Filippo Turati ad Anna Kuliscioff) gli avevano spiegato: non si nasce criminali, si diventa criminali.

Dirigenti confusi. Non si nasce neanche classe dirigente. Si diventa classe dirigente. Ma per merito? Einaudi e Croce sono esempi tra i più illustri della nostra classe dirigente, ma non brillano per aver capito tutto e subito in tema di legalità. Non maturarono, come il movimento operaio, dentro e contro la questione criminale, dentro la sofferenza e il disordine, la rivolta e la controrivoluzione. Pur essendo grandi signori e grandi intellettuali, spalancarono un occhio assai benevolo per il Mussolini iper giustizialista della Marcia su Roma. Croce derise sempre le «alcinesche seduzioni della Dea giustizia», dunque non ebbe incertezze a omaggiare il fascismo anche dopo l’uccisione di Matteotti; Einaudi disse  nel 1922 che «il programma del fascismo è nettamente quello liberale della tradizione classica». Come Croce ed Einaudi, anche Giolitti soffrì i suoi peccatucci: già eminente «ministro della malavita», nella versione (giustizialista?) di Gaetano Salvemini, fece più di una bassa trattativa con i fascisti, tranne capire poi troppo tardi cosa gli era scappato di mano. Insomma, sulla legalità sono stati molti gli sbagli della classe dirigente. Con un’inclinazione a ripetere che si riscontra poi anche nella Democrazia cristiana, negli anni delle stragi, delle deviazioni, delle bombe, dei piduisti, delle mafie. E poi ancora oggi, nell’altalenante comportamento del governo Monti sul ddl anticorruzione. A differenza delle distrazioni e delle incertezze della classe dirigente, la destra fascista, la destra democristiana, la destra sociale, la destra laurina, la destra populista, invece, hanno sempre saputo manipolare la questione criminale nelle ricorrenti vittorie sugli italiani di sinistra. Non ci sono state distrazioni, ma scelte precise: qualunque alleanza piuttosto che i comunisti! Tra le scelte spregiudicate della destra e le scelte equivoche della classe dirigente, insomma, il sentiero della legalità per il movimento operaio in Italia è stato spesso in  mezzo al baratro.

Tra legalità e rivoluzione. Il movimento operaio si sviluppa sin dalle origini sul terreno della legalità. Anche Marx apparteneva, come molti altri socialisti utopisti e rivoluzionari (da Bakunin a Blanqui)  al ginepraio insurrezionalista del 1848, ma gradualmente si sgancia da quel mondo: diventarono preminenti la riduzione della giornata di lavoro e il miglioramento nelle fabbriche. Gradualmente furono realizzati i sei punti del cartismo: suffragio universale maschile, voto segreto, elezioni parlamentari periodiche, retribuzione dei membri del parlamento, uguali distretti elettorali, abolizione della qualifica di possidente per diventare membri del parlamento. In Inghilterra e poi nel continente, i sindacati si trasformarono in un’imponente realtà organizzativa, con scuole, biblioteche, giornali, un articolato sistema mutualistico contro i rischi di disoccupazione, di malattia, di invalidità. Mario Tronti ha recentemente sottolineato che la statualità deve oggi essere al centro della riflessione del movimento operaio: le repliche della storia ci hanno insegnato che lo Stato si cambia e non si abbatte. A tentare di abbatterlo, ci pensa la reazione. Lo stesso discorso si può fare per la legalità: si cambia e non si abbatte. Non sono stati l’Enrico Berlinguer della questione morale o il Luciano Violante della commissione antimafia a scoprire il tema della legalità: nella sua ultima opera (la più cara alla cultura togliattiana), Federico Engels aveva sottolineato i vantaggi della democrazia e aveva sottolineato la disperazione dei reazionari di fine Ottocento davanti ai risultati elettorali; gridavano: la legalité nous tue, la legalità ci uccide. La bandiera della legalità ha costituito un riferimento fondativo per la tradizione di sinistra, in maniera diversa ma parallela rispetto al classico law and order della tradizione conservatrice. La legalità democratica non ha molto a che fare con il giustizialismo e neanche con il garantismo, peloso o sbarbato che sia.

Lo schiaffo del Pd ad Alfano: i nostri indagati non si toccano. Il ministro Boschi interviene sui sottosegretari nel mirino dei pm: "No a dimissioni per un avviso di garanzia". Ma con Gentile (Ncd) la posizione è stata ben diversa, scrive Laura Cesaretti  su “Il Giornale”. «Il governo non chiede dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia». Il ministro Maria Elena Boschi va dritta al punto, nel rispondere nell'aula di Montecitorio alle interrogazioni dei grillini sulla nomina a sottosegretario di Francesca Barracciu. E articola il ragionamento, con una fiera difesa dei principi del garantismo e dell'autonomia della politica: «Abbiamo giurato sulla Costituzione, che contempla il principio fondamentale della presunzione di innocenza - ricorda - l'avviso di garanzia è un atto dovuto a tutela dell'indagato e non una anticipazione della condanna. Il procedimento si trova nella sua fase preliminare e lo stesso sottosegretario ne ha chiesto una accelerazione. All'esito il governo valuterà». Tutto bene, anzi benissimo. Salvo che di lì a poco il governo Renzi si becca - come era facile prevedere - l'accusa di «doppia morale» (titolo di apertura dell'Huffington Post di Lucia Annunziata, che ricorda l'intransigenza renziana, ai tempi del governo Letta, sui casi della Cancellieri o di Alfano) e «doppiopesismo» (Rosy Bindi), mentre la costituzionalista Lorenza Carlassare (quella che si dimise per protesta dal comitato dei saggi per la riforma costituzionale quando scoprì che doveva occuparsi di riforma costituzionale) se la prende addirittura con Napolitano, che a suo dire avrebbe dovuto fermare col proprio corpo le nomine di sottosegretari indagati: «Sarebbe stato forse opportuno - spiega - che il capo dello Stato, superando ogni legittima preoccupazione per i delicati equilibri politici, avesse mosso obiezione prima di apporre la sua firma». Nessuna polemica, invece, dal Ncd, che solo due giorni fa ha dovuto far dimettere (su pressione di Renzi, del Pd e dell'intera opinione pubblica) il suo ras calabrese, Tonino Gentile: non indagato, ma coinvolto in una brutta storia di giornali bloccati per non far uscire notizie fastidiose sulla sua ampia famiglia, ben ramificata nel potere locale. «Rispettiamo la scelta del Pd», si limita a dire Angelino Alfano, dando la colpa del caso Gentile al Giornale, «garantista a convenienza». L'interrogazione cui ha risposto la Boschi chiamava in causa solo la Barracciu, indagata insieme agli altri consiglieri per i rimborsi della Regione Sardegna. Ragione per la quale, a dicembre, il neosegretario Pd Matteo Renzi le chiese di non candidarsi a governatore, pur avendo vinto le primarie. Ma di sottosegretari Pd muniti di avviso di garanzia ce ne sono altri due, De Filippo e De Caro (sempre storie di rimborsi regionali) più un rinviato a giudizio, Filippo Bubbico: accusato, da presidente della Basilicata, di aver commissionato ad un professionista esterno anziché alla burocrazia regionale un progetto di riorganizzazione degli uffici. «E lo rifarei, una decisione legittima e doverosa», rivendica lui. La linea garantista del governo sui sottosegretari (che d'altronde non sono renziani ma di altre correnti) è apprezzata nel Pd. «La magistratura - sostiene Gianni Cuperlo - non può fare da scudo alla politica, che invece deve recuperare la sua autonomia». L'unica che contesta apertamente le posizioni della Boschi è Rosy Bindi, secondo la quale nel Pd bisogna «avviare una riflessione», perché «sono stati usati due pesi e due misure: per alcuni reati c'è chi non è stato candidato, e chi invece siede al governo». E Pippo Civati punzecchia il premier: «Sarà Renzi a spiegare che differenza c'è tra Gentile e i sottosegretari Pd. Posizioni e accuse non sono identiche, non c'è dubbio, ma sarà il premier a dover spiegare e a metterci la faccia».

Sottosegretari, Boschi: non chiederemo dimissioni indagati. Dopo le dimissioni di Antonio Gentile, non indagato, il ministro per i rapporti col Parlamento risponde a un'interrogazione del M5s sulla nomina alla Cultura dell'esponente Pd sarda, sotto inchiesta per peculato in relazione al periodo in cui fu consigliera regionale. "Rispettare presunzione di innocenza". Replica M5s: "Ha sperperato 33mila euro in buoni benzina", scrive “La Repubblica”. "Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari solo sulla base di un avviso di garanzia, ma per opportunità politica". Così Maria Elena Boschi, ministro delle Riforme e dei rapporti col Parlamento, rispondendo alla Camera a un'interrogazione del M5s sulla nomina di Francesca Barracciu a sottosegretario alla Cultura. Boschi precisa che Barracciu "a oggi è iscritta nell'elenco degli indagati". "L'avviso di garanzia - prosegue il ministro - è un atto dovuto a tutela degli indagati per esercitare i diritti di difesa, non è un'anticipazione di condanna". Ricordando come il procedimento che riguarda la Barracciu sia alla fase preliminare e che lo stesso sottosegretario ha chiesto "un'accelerazione", Boschi afferma che "all'esito del procedimento il governo valuterà se chiedere le dimissioni del sottosegretario". Intanto, il sottosegretario Barracciu, prosegue Boschi, "potrà dare un contributo al governo di questo Paese" e l'esecutivo "non ha intenzione chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari sulla base di un avviso di garanzia", perché ciò rispetta "il principio fondamentale della presunzione di innocenza". Per Antonio Gentile, il senatore del Nuovo Centrodestra dimissionario da sottosegretario alle Infrastrutture, la presunzione di innocenza non sarebbe stato necessario evocarla. Gentile è stato travolto da un ciclone mediatico, quello scatenato dalle rotative bloccate di un giornale calabrese in procinto di pubblicare un articolo su un'indagine che coinvolge il figlio del senatore. Ma lui, Antonio Gentile, non era neanche indagato. Se la logica è tutelare la presunzione di innocenza, il governo avrebbe dovuto difendere a maggior ragione quella sua scelta, come invece non è avvenuto, se non con l'eccezione dei compagni di partito del senatore Ncd. Anche se tecnicamente è stato lui a dare le dimissioni, mentre Boschi nel suo intervento fa riferimento al "chiederle". Ma si difende Barracciu, un'esponente Pd, nominata sottosegretario quando sul suo capo già pendeva l'avviso di garanzia. Mentre la "opportunità politica" richiamata da Boschi avrebbe, forse, suggerito di evitare quella nomina. Interpellato sulla vicenda dai giornalisti alla presentazione della nuova sede di Ncd, il leader e ministro dell'Interno Angelino Alfano commenta: "Rispettiamo la scelta del Partito democratico". L'interrogazione del M5s, primo firmatario il deputato Nicola Bianchi, segue la contestazione della scelta dell'europarlamentare sarda, indagata per peculato per il periodo in cui è stata consigliera regionale, vicenda che a fine 2013 l'aveva costretta a ritirarsi dalla corsa elettorale per il governo della Sardegna nonostante avesse vinto le primarie del centrosinistra sardo. Durante la replica, il deputato Bianchi ha ribadito che il Movimento 5 Stelle "chiede a gran voce il ritiro della nomina di Barracciu" che "ha sperperato soldi pubblici per 33 mila euro in rimborsi benzina". Il M5s sollecita il governo ad adottare iniziative per "salvaguardare le istituzioni da nomine governative dettate dal conflitto di ruoli, dall'incompetenza e dall'inopportunità".

Chi è Francesca Barracciu, scrive Stefano Iannaccone su “Il Journal”. E' il sottosegretario alla Cultura e ha scatenato furiose polemiche. Cosa ha fatto la candidata (ritirata) alle elezioni in Sardegna per provocare questo putiferio? Il suo nome era rimbalzato sui giornali nazionali per le elezioni in Sardegna: Francesca Barracciu, ex consigliere regionale del Pd ed attuale europarlamentare (è subentrata a Rosario Crocetta), era infatti la candidata del centrosinistra per le Regionali nell’isola. Ora è tornato in auge: è stata nominata sottosegretario alla Cultura del governo Renzi, nonostante risulti indagata per peculato. Barracciu è nata a Sorgono (provincia di Nuoro) nel 1966. La sua ascesa politica è iniziata di recente, precisamente con la vittoria alle primarie datata 29 settembre. Nella consultazione vinse con il 44,3% dei voti battendo il sindaco di Sassari, Gianfranco Ganau, anche lui esponente del Partito democratico, fermatosi al 32,6% dei consensi. Gli altri candidati furono nettamente più staccati. Dopo il trionfo è però arrivato un avviso di garanzia per l’ipotesi di reato di peculato. Barracciu è stata coinvolta nell’inchiesta sui fondi ai gruppi che ha travolto una buona parte del consiglio regionale. I pm contestano spese per 33mila euro che non sarebbero giustificabili. Lei ha sempre sostenuto che i soldi sono stati utilizzati per gli spostamenti e quindi per l’acquisto della benzina. Il ritiro della candidatura è stato ufficializzato a fine dicembre, dopo le pressioni della nuova segreteria di Matteo Renzi e in particolare dei leader locali, Renato Soru e Antonello Cabras. Al suo posto è stato candidato Pigliaru, risultato poi vincitore (un po’ a sorpresa peraltro) alle Regionali. Il nome di Barracciu, appena è stato inserito nella squadra dei sottosegretari, ha scatenato subito polemiche. Ma oggi, la ministra Boschi, ha spiegato che la linea di Palazzo Chigi è quella garantista. Quindi niente dimissioni almeno sino alla condanna, anche se Gentile ha dovuto lasciare per lo scandalo riguardante la presunta “censura” di una notizia.

Pd, Bindi: "Gli indagati? L'anno scorso non li candidavamo, oggi sono al governo". "Il Pd deve fare una riflessione, c'è stata quantomeno una grande superficialità. E' singolare che lo scorso anno per lo stesso tipo di reati alcune persone non furono candidate e oggi persone con le stesse accuse sul capo siano al governo". Così il deputato democratico e presidente della Commissione Antimafia critica le nomine a sottosegretari di quattro esponenti del Partito Democratico sotto indagine (Barracciu, Bubbico, Dal Basso De Caro e De Filippo).

Travaglio, Sallusti, Repubblica: Tutti quelli che sfottono i garantisti di sinistra, scrive “Libero Quotidiano”. Nessuno tocchi gli indagati. Maria Elena Boschi è stata chiara: "La Barracciu e gli altri indagati restano al loro posto". Insomma per il ministro delle Riforme l'unico a dover pagare è Antonio Gentile defenestrato in 48 ore da palazzo Chigi per una presunta telefonata al direttore de "L'Ora della Calabria". Gentile non era nemmeno indagato. Ma si sa il garantismo del Nazareno è a targhe alterne. E così dopo la difesa d'ufficio della Boschi ecco che sui quotidiani arriva il fuoco incrociato sul Pd e sul ministro delle Riforme colpevole di aver difeso l'indifendibile.

Bordate dal Fatto - Il Fatto Quotidiano punta il dito contro il Nazareno: "Gli indagati del Pd non si toccano. In un'aula vuota e sorda la Boschi rosa e renziana dal colore della camicia completa la mutazione genetica del Pd. Salvarne una per salvarne tre. La questione morale è morta e sepolta. Con tanto di timbro parlamentare nasce nasce la questione della doppia morale della sinistra". Ma a rincarare la dose è pure Peter Gomez che nel suo editoriale impallina la doppia morale democratica: "Per la Barracciu e per gli indagati secondo la Boschi vale il principio di innocenza e le loro eventuali dimissioni saranno valutate solo al termine dell'inchiesta penale. Diventa insomma chiaro che per l'esecutivo promuovere sottosegretari, ministri e viceministri indagati o imputati non è stato uno sbaglio ma una scelta".

Il garantismo di Sallusti - Toni duri anche da Alessandro Sallusti che su Il Giornale attacca a testa bassa la Boschi e il Pd che difende gli indagati ma ne riconosce il profilo garantista: "C'è aria fresca nelle parole di Maria Elena Boschi, ministra iper renziana. Aria nuova per una sinistra che stava soffocando nel tanfo di vent'anni di antiberlusconismo cieco e stupido. 'Il governo - dice la Boschi - non chiederà le dimissioni di sottosegretari o ministri solo perché raggiunti da un avviso di garanzia', riferendosi al caso dei quattro esponenti di governo finiti in guai giudiziari. Finalmente qualcuno, anche nel Pd, ci prova a togliere alla magistratura le chiavi (purtroppo non tutte) della casa della politica. Benvenuta ministra, benvenuta sinistra nelle file dei garantisti. È anni che ci sgoliamo, insultati dai predecessori di Renzi e dai loro trombettieri, per sostenere che non tutto ciò che luccica nelle procure è oro colato. Che uno è innocente fino a sentenza contraria (capita pure oltre) anche se avversario politico, antipatico o filibustiere", afferma Sallusti. Infine arrivano colpi bassi anche dalla stampa amica del Pd.

Fuoco amico da Repubblica - Su Repubblica Liana Milella parla di "due pesi e due misure": "Il governo si dà ai sofismi per tenere nell'esecutivo i sottosegretari inquisiti. Gentile, il più impresentabile, è stato dimissionato ed era un esponente dell'Ncd, il partito di Alfano. Quelli del Pd invece restano con i diktat affidati alla Boschi. Una sorta di improvviso doppiopesismo". Insomma il coro è unanime: Barracciu&Co. devono fare le valigie.

Benvenuti fra i garantisti, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. C'è aria fresca nelle parole di Maria Elena Boschi, ministra iper renziana. Aria nuova per una sinistra che stava soffocando nel tanfo di vent'anni di antiberlusconismo cieco e stupido. «Il governo - dice la Boschi - non chiederà le dimissioni di sottosegretari o ministri solo perché raggiunti da un avviso di garanzia», riferendosi al caso dei quattro esponenti di governo finiti in guai giudiziari. Finalmente qualcuno, anche nel Pd, ci prova a togliere alla magistratura le chiavi (purtroppo non tutte) della casa della politica. Benvenuta ministra, benvenuta sinistra nelle file dei garantisti. È anni che ci sgoliamo, insultati dai predecessori di Renzi e dai loro trombettieri, per sostenere che non tutto ciò che luccica nelle procure è oro colato. Che uno è innocente fino a sentenza contraria (capita pure oltre) anche se avversario politico, antipatico o filibustiere. Lo ribadiamo anche al ministro degli Interni che avendoci preso in antipatia sostiene che noi siamo garantisti solo con Berlusconi, prova ne è che abbiamo chiesto (e ottenuto) le dimissioni del suo povero sottosegretario Gentile, neppure raggiunto da un avviso di garanzia per il noto caso del giornale di Calabria bloccato in rotativa per impedire l'uscita di una notizia scomoda. Più passa il tempo più mi convinco che ad Alfano non solo manca il quid, ma anche un po' di quoziente. Che c'entra il garantismo con il caso Gentile? Alfano non conosce la differenza tra casi giudiziari e casi umani, tra reati e porcate, tra innocenza e dignità. La vicenda che ha coinvolto l'ex sottosegretario non nasce da una sospetta inchiesta giudiziaria. Si è sentito l'urlo di un direttore censurato con l'inganno e la violenza. È storia squallida a prescindere dai codici. Ministro Alfano, lei dovrebbe capire al volo che non si bloccano, neppure per interposta persona, le uscite dei giornali, neppure di quelli nemici, neppure se fetenti. Ma non lo capirà, tempo perso. Il vizietto di voler controllare con sotterfugi i giornali lei l'ha nel sangue. Ne so qualcosa. Pazienza. In fondo anche Renzi si sta avviando sulla strada del regime. Ieri i bimbi di una scuola di Siracusa lo hanno accolto leggendo letterine e recitando poesie su quanto lui premier sia bello e bravo. Non si vedevano cose del genere dal tempo di Mussolini in pieno regime fascista. Neanche Berlusconi ha mai osato tanto. Valli a capire questi siciliani, compaesani di Alfano. O no? Sulla vicenda delle dimissioni del Senatore Gentile, Alfano ricorda che la Procura di Cosenza ha precisato che non risulta alcuna indagine in corso sull'ex sottosegretario: è stata la "Cassazione dei direttori dei giornali" ad alimentare il "caso". Il leader di Ncd non risparmia critiche al Giornale di Sallusti, "garantista con i suoi e giustizialista per gli altri". E sui rapporti con Silvio Berlusconi - un Berlusconi "irriconoscibile" come il Cav. alla fine della campagna elettorale in Sardegna - Alfano commenta: "sopporto con spirito cristiano la persecuzione a cui vengo sottoposto dal Giornale", di cui il Cav. è ben informato. "Noi del Nuovo Centrodestra ad un determinato momento ci siamo trovati davanti a una domanda: stare con l'Italia o con Forza Italia". Prima viene il Paese.

La controsettimana - Sallusti e la sua "comica" macchina del fango, scrive Gabriele Giaccari  su “Officina 17”. Ogni mattina, durante la mia rituale corsetta, mi ritrovo ad ascoltare la rassegna stampa su Radio3. È piacevole farsi accompagnare da un/una giornalista che dà voce alle varie testate giornalistiche sottolineandone le varie scelte editoriali e soffermandosi su quelli che sono gli articoli più interessanti. Certo il piacere è direttamente proporzionale alla qualità degli articoli su cui ci si sofferma. Sicuramente c’è chi mi accuserà di voler parlare delle stesse cose (voglio fare una mera supposizione sulla fisionomia del mio “accusatore”: con due nomi, altissimo, con gli occhiali, Forzista, presidente di una associazione culturale -nel cui nome c’è una parola ed un numero- che pubblica un blog), ma purtroppo la mia intelligenza -seppur modesta - non può accettare che passino inosservati certi messaggi subdoli alquanto riprovevoli. Ieri, ovvero il 3 Marzo 2014, il direttore de “Il Giornale”, tal Sallusti, diceva la sua in merito al caso Gentile, ovvero il sottosegretario scomodo (per usare un eufemismo visti i suoi agganci poco tersi) proposto da Alfano e nominato da Renzi. Da novella Suor Maria Goretti, il summenzionato Direttore si strappava le vesti nel vedere che gli scranni del potere politico italiano venivano occupati da soggetti di così bassa lega, con un passato nebbioso e soprattutto , “Udite! Udite!”, con un procedimento penale pendente! Ora, siate sinceri: questa non è, forse, una delle migliori scenette comiche della storia della comicità mondiale? Il fatto che il direttore di un quotidiano, il cui presidente ed il rispettivo fratello hanno innumerevoli procedimenti penali pendenti di vario genere - perché non si vogliono far mancare nulla - sommate a qualche condanna passata in giudicato, faccia il puritano ed il giustizialista nei confronti di un tizio sol perché non solo è membro del Governo Renzi ma è anche in quota Alfano, ormai acerrimo nemico in quanto traditore, sia da annoverare tra le tante cose inqualificabili di questa nostra triste realtà. Se ritenete che il buon Sallusti abbia voluto redimersi e pertanto impegnare la via della giustizia e della lotta ai politici impelagati in vicende indegne per la carica da questi ricoperta, allora rispondete alla mia domanda: se il buon Gentile di cui sopra, prima della scissione degli alfaniani era tesserato con Forza Italia ed era un fedelissimo del Cav. tanto da proporre all’Italia intera di avanzare la candidatura di Silvio B. a premio Nobel per la pace, come mai il direttorissimo del “Il Giornale” in quell’epoca, ovvero pochi mesi fa, non aveva scritto lo stesso editoriale rimarcando la inopportunità di avere tra le proprie fila un politico come Gentile? È vero che questi è stato iscritto nel registro degli indagati nello scorso mese di Febbraio – ed infatti lo stesso Sallusti dice che la sua non è una questione attinente a procedimenti penali-, ma il suo passato è tutt’altro che roseo e lasciava già ben intravedere coni d’ombra che celavano rapporti pochi chiari. Purtroppo si continua ad assistere ad un uso scriteriato della carta stampata. Non è più quel mezzo di informazione terzo ed imparziale che dovrebbe informare i lettori sulle vicende che interessano la Nazione tutta. Ormai è diventato uno strumento di guerra, una “macchina del fango” con la quale bersagliare qualcuno sol perché ha tradito qualcuno vicino a chi scrive. Una doppia morale insomma: se tu sei dei nostri, la giustizia è comunista e tu sei innocente anche dopo la condanna in quanto martire perseguitato; non appena oltrepassi il Rubicone e diventi un traditore/comunista/Fini, sei colpevole di tutti i peggiori reati anche se non sei sotto processo. Chiaro, no? Per onestà intellettuale voglio precisare che se questi quotidiani fossero interamente finanziati da soldi privati, giustificherei il fatto che, nelle rispettive colonne, i giornalisti scrivano quello che il grande boss impone loro per la sacra legge del “io ti pago e tu scrivi quello che voglio io”. Ahimè, vorrei ricordare che, è vero che “Il Giornale” è la testata giornalistica della famiglia Berlusconi, ma è altrettanto vero che riceve fiumi di finanziamenti pubblici senza i quali, quasi sicuramente, avrebbe già cessato di esistere. La soluzione sarebbe quella di eliminare questa scomoda pratica dei finanziamenti pubblici ai quotidiani di modo che non siamo più noi a pagare certi articoli inqualificabili. E a chi dice che senza finanziamenti i giornali finirebbero nelle lobby dei potenti rispondo:

1) Le lobby hanno già in mano la totalità delle testate giornalistiche.

2) L’unico esperimento di quotidiano indipendente da qualsiasi forma di finanziamento pubblico è “Il fatto quotidiano” che è l’unico vero giornale libero che dà notizie e non opinioni.

Sallusti, menzogne e la casta dei giornalisti.

Lettera al direttore di:Pierangelo Giovanetti su “L’Adige”. Caro direttore, non capisco tutto questo scalpore suscitato dalla condanna di Sallusti. Se si vuole dar retta alle indiscrezioni apparse sulla stampa egli è stato condannato dalla Corte di Cassazione per aver permesso che si scrivesse il falso (e non un'opinione come qualcuno cerca di far credere!) riguardo l'operato di un magistrato (in articolo anonimo) sul quotidiano di cui era direttore responsabile.  Se si depenalizzasse, come ora si chiede a gran voce, il reato di diffamazione questo darebbe in mano a chi fosse provvisto di grandi mezzi finanziari (e quindi in grado di far fronte ad un'eventuale causa civile) una licenza a diffamare, con la conseguenza che ancor più di quel che accade ora i ricchi potrebbero diffondere notizie false sul conto degli avversari (politici e non) senza che i poveri possano trovare un'adeguata difesa. Se a Sallusti piace l'idea di fare la vittima, ed in modo arrogante non vuole percorrere le strade che potrebbero evitargli la galera, credo sia giusto accontentarlo e fargli scontare la pena a cui è stato condannato senza alcun favoritismo. Stefano Mattei  - Trento.

La risposta del Direttore. Il carcere per il reato di diffamazione è effettivamente una misura sproporzionata rispetto all'eventuale fatto commesso. Detto questo, Alessandro Sallusti, direttore de «Il Giornale», non è stato condannato per aver espresso un'opinione, ma: 1) per aver pubblicato sul suo giornale una menzogna, cioè una cosa falsa; 2) per aver incitato a punire con la morte i protagonisti della vicenda e, in particolare, il magistrato che ha applicato solo ed esclusivamente il dettato che la legge stabilisce, perché altro non avrebbe potuto fare; 3) per non aver voluto risolvere la questione con la persona che ha diffamato con una semplice lettera di scuse; 4) per aver scientemente e deliberatamente rifiutato successivamente di risarcire economicamente la vittima della diffamazione, che aveva annunciato di devolvere in beneficenza il ricavato; 5) per aver con editoriali successivi ribadito di aver ragione quando ora anche l'autore del falso, la fonte dei servizi segreti Betulla, ha dichiarato - coprendosi con grande coraggio dietro l'immunità di parlamentare - che la notizia era falsa, ed è stata scritta in maniera falsa per altri scopi; 6) per aver a proprio carico una lunga e reiterata recidiva in fatto di diffamazione; 7) per aver in tutte le maniere cercato di passare per vittima, sapendo che la legge in ultima istanza prevede il carcere, e quindi coscientemente volendo arrivare allo scontro per farne una battaglia politica. La libertà di opinione, pertanto, in questo caso non c'entra nulla: è solo fumo negli occhi per nascondere i fatti. E la corale indignazione della stampa italiana e delle più autorevoli e prestigiose firme giornalistiche su tutti i maggiori quotidiani, da destra a sinistra, senza alcuna autocritica, ha dimostrato platealmente come i giornalisti italiani si ritengano una «casta», e come tale agiscono, in completa propria autodifesa «a prescindere», come direbbe Totò. Fa sorridere infine, sul piano politico, vedere alfieri del garantismo in difesa dei giornalisti, in nome della libertà di stampa, quei deputati e quei senatori che fino a qualche mese fa sostenevano a spada tratta il carcere per chi pubblicasse notizie vere, ma oggetto di intercettazioni. Il garantismo vale, evidentemente, a senso unico: se riguarda un giornalista schierato platealmente a proprio favore va difesa la libertà di stampa, se riguarda altri va bene la prigione. E tra quelli che sostenevano la galera per i giornalisti che pubblicavano i nomi degli indagati nelle inchieste, in prima fila c'era «Il Giornale» di Alessandro Sallusti, evidentemente anche lui a favore della libertà di stampa a corrente alternata». Cioè quando fa comodo a sé.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

Italiani del Cazzo, sì. Italiani che, anzichè prender a forconate i potenti impuniti, responsabili della deriva italica, per codardia le loro ire le rivolgono a meridionali ed extracomunitari. D’altro canto, per onestà intellettuale, bisogna dire che i meridionali questi strali razzisti se li tirano, perchè nulla fanno per cambiare le loro sorti di popolo occupato ed oppresso dalle forze politiche ed economiche nordiche.

Radio Padania. Radio Vergogna. Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania“, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.

Questa è la mia proposta di riforma costituzionale senza intenti discriminatori.

PRINCIPI COSTITUZIONALI

L'ITALIA E' UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA E FEDERALE FONDATA SULLA LIBERTA'. I CITTADINI SONO TUTTI UGUALI E SOLIDALI.

I RAPPORTI TRA CITTADINI E TRA CITTADINI E STATO SONO REGOLATI DA UN NUMERO RAGIONEVOLE DI LEGGI, CHIARE E COERCITIVE.

LE PENE SONO MIRATE AL RISARCIMENTO ED ALLA RIEDUCAZIONE, DA SCONTARE CON LA CONFISCA DEI BENI E CON LAVORI SOCIALMENTE UTILI.

E' LIBERA OGNI ATTIVITA' ECONOMICA, PROFESSIONALE, SOCIALE, CULTURALE E RELIGIOSA. IL SISTEMA SCOLASTICO O UNIVERSITARIO  ASSICURA L'ADEGUATA COMPETENZA. LE SCUOLE O LE UNIVERSITA' SONO RAPPRESENTATE DA UN PRESIDE O UN RETTORE ELETTI DAGLI STUDENTI O DAI GENITORI DEI MINORI. IL PRESIDE O IL RETTORE NOMINA I SUOI COLLABORATORI, RISPONDENDO DELLE LORO AZIONI PRESSO LA COMMISSIONE DI GARANZIA.

LO STATO ASSICURA AI CITTADINI OGNI MEZZO PER UNA VITA DIGNITOSA.

IL LAVORO SUBORDINATO PUBBLICO E PRIVATO E' REMUNERATO SECONDO EFFICIENZA E COMPETENZA. LE COMMISSIONI DISCIPLINARI SONO COMPOSTE DA 2 RAPPRESENTANTI DEI LAVORATORI E PRESIEDUTE DA UN DIRIGENTE PUBBLICO O AZIENDALE.

LO STATO CHIEDE AI CITTADINI IL PAGAMENTO DI UN UNICO TRIBUTO, SECONDO IL SUO FABBISOGNO, SULLA BASE DELLA CONTABILITA' CENTRALIZZATA DESUNTA DAI DATI INCROCIATI FORNITI TELEMATICAMENTE DAI CONTRIBUENTI, CON DEDUZIONI PROPORZIONALI E DETRAZIONI TOTALI. AGLI EVASORI SONO CONFISCATI TUTTI I BENI. LO STATO ASSICURA A REGIONI E COMUNI IL SOSTENTAMENTO E LO SVILUPPO.

E' LIBERA LA PAROLA, CON DIRITTO DI CRITICA, DI CRONACA, D'INFORMARE E DI ESSERE INFORMARTI.

L'ITALIA E' DIVISA IN 30 REGIONI, COMPRENDENTI I COMUNI CHE IVI SI IDENTIFICANO.

IL POTERE E' DEI CITTADINI. IL CITTADINO HA IL POTERE DI AUTOTUTELARE I SUOI DIRITTI.

I SENATORI E I DEPUTATI, IL CAPO DEL GOVERNO, I MAGISTRATI, I DIFENSORI CIVICI SONO ELETTI DAI CITTADINI CON VINCOLO DI MANDATO. ESSI RAPPRESENTANO, AMMINISTRANO, GIUDICANO E DIFENDONO SECONDO IMPARZIALITA', LEGALITA' ED EFFICIENZA IN NOME, PER CONTO E NELL'INTERESSE DEI CITTADINI. ESSI SONO RESPONSABILI DELLE LORO AZIONI E GIUDICATI DA UNA COMMISSIONE DI GARANZIA CENTRALE E REGIONALE.

GLI AMMINISTRATORI PUBBLICI NOMINANO I LORO COLLABORATORI, RISPONDENDONE DEL LORO OPERATO.

LA COMMISSIONE DI GARANZIA, ELETTA DAI CITTADINI, E' COMPOSTA DA UN SENATORE, UN DEPUTATO, UN MAGISTRATO, UN RETTORE, UN DIFENSORE CIVICO CON INCARICO DI PRESIDENTE. LA COMMISSIONE CENTRALE GIUDICA IN SECONDO GRADO E IN MODO ESCLUSIVO I MEMBRI DEL GOVERNO. ESSA GIUDICA, ANCHE, SUI CONTRASTI TRA LEGGI E TRA FUNZIONI.

IL DIFENSORE CIVICO DIFENDE I CITTADINI DA ABUSI OD OMISSIONI AMMINISTRATIVE, GIUDIZIARIE, SANITARIE O DI ALTRE MATERIE DI INTERESSE PUBBLICO. IL DIFENSORE CIVICO E' ELETTO IN OCCASIONE DELLE ELEZIONI DEL PARLAMENTO, DEL CONSIGLIO REGIONALE E DEL CONSIGLIO COMUNALE.

I 150 SENATORI SONO ELETTI PROPORZIONALMENTE, CON LISTE REGIONALI, TRA I MAGISTRATI, GLI AVVOCATI, I PROFESSORI UNIVERSITARI, I MEDICI, I GIORNALISTI.

I 300 DEPUTATI SONO ELETTI, CON LISTE REGIONALI, TRA I RESTANTI RAPPRESENTANTI LA SOCIETA' CIVILE.

IL PARLAMENTO VOTA E PROMULGA LE LEGGI PROPOSITIVE E ABROGATIVE PROPOSTE DAL GOVERNO, DA UNO O PIÙ PARLAMENTARI, DA UNA REGIONE, DA UN COMITATO DI CITTADINI. IL GOVERNO, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANA I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE FEDERALE. LE REGIONI, ENTRO 30 GIORNI DALLA LEGGE, EMANANO I REGOLAMENTI ATTUATIVI DI CARATTERE REGIONALE.

LA PRESENTE COSTITUZIONE SI MODIFICA CON I 2/3 DEL VOTO DELL’ASSEMBLEA PLENARIA, COMPOSTA DAI MEMBRI DEL PARLAMENTO, DEL GOVERNO E DAI PRESIDENTI DELLE GIUNTE E DEI CONSIGLI REGIONALI. ESSA E' CONVOCATA E PRESIEDUTA DAL PRESIDENTE DEL SENATO.

Invece c'è chi vuole solamente i meridionali: föra,o foeura, di ball.

L'Indipendentismo padano, da Wikipedia, l'enciclopedia libera. La bandiera della Padania proposta dalla Lega Nord, con al centro il Sole delle Alpi. L'indipendentismo padano o secessionismo padano è un'ideologia politica nata negli anni novanta del XX secolo e promossa storicamente dal partito politico Lega Nord, che cita testualmente nel proprio statuto l'indipendenza della Padania. L'ideologia è stata sostenuta o è sostenuta anche da altri partiti, come la Lega Padana, alternativa alla Lega Nord, da essi considerata filo-romana, e da figure, afferenti nella loro storia politica alla Lega Nord, come lo scrittore Gilberto Oneto, il politologo Gianfranco Miglio e Giancarlo Pagliarini. La Padania per alcuni geografi economici di inizio Novecento, corrispondeva al territorio italiano sito a nord degli Appennini. Gli indipendentisti padani di fine Novecento affermano che un territorio comprensivo di gran parte dell'Italia settentrionale (la Lega Padana teorizza una Padania formata da quattro nazioni: Subalpina, Lombarda, Serenissima e Cispadana) o centro-settentrionale (la Lega Nord estende più a sud tale confine), di estensione territoriale differentemente definita dai partiti stessi, e da essi stessi ribattezzato "Padania" (toponimo sinonimo di val padana, la valle del fiume Po, in latino Padus), sarebbe abitato da popoli distinti per lingua, usi, costumi e storia, chiamati nazioni della Padania e riconducibili, nelle loro differenze, a un unico popolo padano e che sarebbero stati resi partecipi contro la loro volontà del Risorgimento e, conseguentemente, dello Stato italiano; pertanto propugnano la secessione di queste nazioni dalla Repubblica Italiana e la creazione di una repubblica federale della Padania rispettosa delle peculiarità di ciascuna di esse. A fronte di alcuni geografi che ad inizio XX secolo solevano dividere il Regno d'Italia in Padania ed Appenninia, sino agli anni ottanta il termine Padania era principalmente usato con significato geografico per la pianura Padana, ma anche con accezione poetica, come dimostra l'opera dello scrittore Gianni Brera e nell'ambito di studi linguistici ed etnolinguistici nonché socio-economici. Il termine acquisisce, a cavallo tra gli anni ottanta e novanta, un significato politico - ovverosia comincia a essere utilizzato per indicare la Padania come, a seconda delle posizioni, reale o pretesa entità politica -, grazie al suo utilizzo costante da parte degli esponenti e dei simpatizzanti del partito politico Lega Nord, nato il 22 novembre 1989 dall'unione di vari partiti autonomisti dell'Italia settentrionale originatesi nel decennio precedente, tra i quali la Lega Lombarda, fondata il 10 marzo 1982 da Umberto Bossi, che diviene guida del nuovo movimento politico. Grazie al successo politico del partito e ai mezzi di comunicazione di massa, tale accezione politica del termine è entrata da allora a far parte della lingua corrente e del dibattito politico. La Lega propose inizialmente un'unione federativa della macro-regione Padania, dotata di autonomia, con le restanti parti dello Stato italiano, come forma di riconoscimento e tutela delle peculiarità etnico-linguistiche delle nazioni della Padania. Fallito il progetto e raggiunto un successo elettorale considerevole promosse il concetto di secessione della Padania dall'Italia, proclamata il 15 settembre 1996 a Venezia. La secessione è stata, successivamente al Congresso di Varese, messa parzialmente da parte a favore della Devoluzione, ovverosia del trasferimento di parte significativa delle competenze legislative e amministrative dallo Stato centrale alle regioni, e del federalismo fiscale. Una prima riforma della costituzione verso una maggiore autonomia delle regioni è stata approvata nel 2001. Una seconda riforma sempre in questo senso del 2005 è stata invece bocciata con il referendum costituzionale del 2006.

« Noi, popoli della Padania, solennemente proclamiamo: la Padania è una Repubblica federale indipendente e sovrana. Noi offriamo, gli uni agli altri, a scambievole pegno, le nostre vite, le nostre fortune e il nostro sacro onore.» (Umberto Bossi, dichiarazione d'indipendenza della Padania, 15 settembre 1996)

Il 15 settembre 1996 a Venezia, nel corso di una manifestazione della Lega Nord, Umberto Bossi ha proclamato, al culmine della politica secessionista del partito, l'indizione di un referendum per l'indipendenza della Padania e ha battezzato il nuovo soggetto istituzionale con il nome di Repubblica Federale della Padania. Il 25 maggio 1997 si è svolto il "Referendum per l'Indipendenza della Padania". Oltre al SI/NO per il referendum, si è votato anche per il Presidente del "Governo Provvisorio della Repubblica Federale della Padania" e per sei disegni di legge di iniziativa popolare da presentare al Parlamento italiano. La Lega Nord ha predisposto i seggi elettorali in tutti i Comuni della supposta Padania. La Repubblica Federale della Padania non è stata mai riconosciuta formalmente da alcuno stato sovrano, né dalle altre forze politiche italiane. L'unico supporto in tal senso è venuto dal partito svizzero della Lega dei Ticinesi. In seguito alla dichiarazione d'indipendenza furono avviate delle inchieste giudiziarie a Venezia, Verona, Torino, Mantova e Pordenone per attentato all'unità dello stato, poi archiviate, e si ebbero scontri tra forze dell'ordine e militanti leghisti in Via Bellerio a Milano, sede della Lega Nord. Per quanto la dichiarazione di secessione non abbia comportato la reale separazione della Padania dall'Italia, la Lega Nord ha da allora promosso e continua a promuovere attivamente la concezione della Padania come entità politica attraverso la creazione e il mantenimento di strutture e organi rappresentativi delle Nazioni della Padania nonché attraverso la promozione di iniziative sportive e sociali di carattere indipendentista o quantomeno autonomista: ha costituito un Governo padano con un proprio parlamento, ha designato Milano capitale della Padania, il Va, pensiero di Giuseppe Verdi suo inno ufficiale, il Sole delle Alpi verde in campo bianco sua bandiera ufficiale, il verde come colore nazionale, ha creato le lire padane e i francobolli padani, una propria Guardia Nazionale, un proprio ente sportivo riconosciuto nel CONI sport Padania e, come organi di stampa ufficiali, il quotidiano La Padania, il settimanale Il Sole delle Alpi, l'emittente radiofonica Radio Padania Libera e l'emittente televisiva TelePadania. Vi fu anche la formazione spontanea, tra i militanti leghisti, delle cosiddette camicie verdi. La Lega Nord ha anche creato una Nazionale di calcio della Padania, non riconosciuta né a livello italiano, né a livello internazionale. Questa selezione Padana ha vinto per 3 volte consecutive il mondiale per le nazioni non riconosciute, la VIVA World Cup, battendo la selezione del Samiland (2008), quella del Kurdistan (2009) e quella della Lapponia (2010). Inoltre il partito padano sponsorizza il concorso di bellezza Miss Padania, aperto a tutte le giovani donne residenti in una regione della Padania da almeno 10 anni consecutivi e di età compresa tra i 17 e i 28 anni. Tra i requisiti necessari per partecipare al concorso vi è anche l'obbligo di non rilasciare dichiarazioni non in linea con gli ideali dei movimenti che promuovono la Padania. Nel 2009 la Lega Nord, in particolare tramite Umberto Bossi, promosse la realizzazione del film storico Barbarossa, coprodotto dalla Rai. Il film, incentrato sulle vicende della Lega Lombarda nel XII secolo, non ebbe buon riscontro né di critica né di pubblico. Il 2011 ha visto la prima edizione dell'evento ciclistico Giro di Padania. Il 26 ottobre 1997 la Lega Nord organizzò le prime elezioni per i 210 seggi del Parlamento Padano. Circa 4 milioni di Italiani residenti nelle regioni settentrionali, 6 secondo il Partito, si recarono ai seggi e scelsero tra diversi partiti padani. Il Parlamento della Padania, creato nel 1996 e oggi denominato Parlamento del Nord, ha sede nella Villa Bonin Maestrallo di Vicenza, che ha sostituito l'originale sede a Bagnolo San Vito in Provincia di Mantova. Si affianca al Governo della Padania, con sede a Venezia, che, storicamente, è stato guidato prima da Giancarlo Pagliarini (1996-97), da Roberto Maroni (1997-98), da Manuela Dal Lago (1998-99) ed è attualmente guidato da Mario Borghezio (dal 1999). Nell'esecutivo presieduto da Pagliarini, Fabrizio Comencini era Ministro degli esteri, subito dimessosi fu sostituito da Enrico Cavaliere, Giovanni Fabris della Giustizia, Alberto Brambilla del Bilancio e Giovanni Robusti, capo dei Cobas del latte, dell'Agricoltura. Nel governo presieduto da Maroni, il cui vice era Vito Gnutti, è stato introdotto un Ministero dell'Immigrazione, presieduto da Farouk Ramadan. L'esecutivo guidato da Manuela Dal Lago comprendeva Giancarlo Pagliarini come vice presidente e Ministro dell'Economia, Giovanni Fabris alla Giustizia, Alessandra Guerra agli Esteri, Flavio Rodeghiero alla Cultura e all'Istruzione, Giovanni Robusti all'Agricoltura, Roberto Castelli ai Trasporti, Francesco Formenti all'Ambiente, Sonia Viale agli Affari Sociali e della Famiglia, Alfredo Pollini, presidente della Guardia Nazionale Padana, alla Protezione Civile, Francesco Tirelli, del CONI sport Padania, allo Sport e Roberto Faustinelli, presidente di Eridiana Records, allo Spettacolo. Secondo l'art. 2 dello Statuto 2012, la Lega Nord considera il Movimento come una Confederazione delle Sezioni delle seguenti Nazioni: La Lega afferma dunque che il progetto della Padania comprende tutte le otto regioni dell'Italia settentrionale più le regioni dell'Italia centrale Toscana, Umbria e Marche, mentre al 2011 la sua attività si è estesa anche in Abruzzo e Sardegna. Il territorio rivendicato dalla Lega Nord come costituente la Padania comprende 160.908 km² di Italia, ossia il 53,39% del territorio dell'Italia (di 301.340 km²) e il 56,15% della sua popolazione (vedere tabella sottostante). Le rivendicazioni politiche padane ricomprendono quindi un territorio maggiore di quello riconducibile al significato geografico del termine Padania, che è geograficamente riferito alla sola Pianura Padana. La linea apertamente secessionista fatta propria dalla Lega Nord portò, tra il 1996 e il 2000, a un isolamento del movimento nel panorama politico italiano, col risultato che, nelle zone dove il radicamento leghista era minore, i suoi candidati alle elezioni amministrative erano nettamente svantaggiati rispetto a quelli di centrodestra e di centrosinistra, generalmente appoggiati da più liste. Per cercare di rimediare a questa situazione, nel settembre del 1998 Bossi lanciò il cosiddetto Blocco padano, una coalizione formata dalla Lega Nord con diverse liste in rappresentanza di varie categorie sociali e produttive del territorio. Già alle elezioni amministrative dell'aprile 1997 altre liste che si richiamavano apertamente all'indipendentismo avevano affiancato la Lega Nord: Agricoltura padana; Lavoratori padani; Padania pensione sicura; Non chiudiamo per tasse! - Artigianato, commercio, industria. Il risultato di queste liste fu complessivamente molto modesto, e nella maggior parte dei casi esse non riuscirono a portare i candidati leghisti al ballottaggio. Le ultime tre liste ottennero complessivamente l'1,1% al comune di Milano e lo 0,8% al comune di Torino. L'Agricoltura padana ebbe l'1,9% alla provincia di Pavia e i Lavoratori padani lo 0,9% alla provincia di Mantova. Un risultato di un certo rilievo fu però ottenuto dai Lavoratori padani nell'autunno dello stesso anno al comune di Alessandria, dove con il 4,4% contribuirono alla rielezione del sindaco uscente Francesca Calvo ed ebbero diritto a tre consiglieri. Nel 1998 il Blocco padano, di cui il coordinatore doveva essere il parlamentare europeo ed ex sindaco di Milano Marco Formentini, fu annunciato come costituito fondamentalmente da cinque partiti, oltre alla Lega: Terra (evoluzione di Agricoltura padana, con a capo Giovanni Robusti, portavoce dei Cobas del latte); Lavoratori padani; Pensionati padani (evoluzione di Padania pensione sicura, con a capo Roberto Bernardelli); Imprenditori padani (evoluzione di Non chiudiamo per tasse!); Cattolici padani (già presentatosi alle elezioni per il Parlamento della Padania del 1997, con a capo Giuseppe Leoni). A questi si unirono a seconda dei casi anche liste civiche di portata locale, che talvolta ebbero maggior fortuna: a Udine Sergio Cecotti raggiunse il ballottaggio e fu poi eletto sindaco grazie all'apporto di due liste civiche, senza che i partiti "regolari" del Blocco padano fossero presenti. La coalizione nel suo complesso risentì del calo di consensi generalizzato subito dalla Lega Nord, tanto che dopo il 1999 non fu più ripresentata se non in maniera sporadica, anche perché la Lega Nord, entrando a pieno titolo nella Casa delle Libertà, trovò alleati di maggiore consistenza elettorale.

Lega secessionista: ora vuole il Veneto indipendente, scrive "Globalist". L'1 e il 2 marzo 2014 i gazebo per la raccolta firme. Dopo oltre vent'anni di lotta per la Padania, ancora in Italia, ora il Carroccio riparte dal Nord Est. Che la voglia di secessione della Lega non si sia mai placata, è cosa nota. A volte viene messa da parte, per lasciare spazio ad altre battaglie come quella contro l'euro o contro lo ius soli, ma comunque è sempre lì, appesa alla mente del segretario Matteo Salvini e dei suoi compagni. E così ogni tanto torna a galla, come in questi giorni. E se tutto il Nord non si può staccare, almeno ci si può provare con una sua parte. Come il Veneto, ad esempio. "La Lega corre, la Lega c'è. La voglia d'indipendenza è tanta, sia da Roma, sia da Bruxelles" ha detto Salvini, intervendo a Verona con i vertici regionali del Carroccio per presentare la raccolta firme per il referendum per l'indipendenza del Veneto, che si terrà sabato e domenica in tutta la regione. "L'indipendenza da Bruxelles - ha aggiunto - è necessaria perchè fuori dall'euro riparte la speranza, riparte il lavoro, ripartono gli stipendi. L'indipendenza da Roma perchè sostanzialmente l'Italia ormai è un Paese fallito". Ogni anno, è la considerazione del segretario, "il Veneto regala 21 miliardi allo stato italiano ricevendo in cambio servizi da poco o niente". Dopo oltre 20 anni di tentativi secessionisti, dunque, la Lega riparte dal Nord-Est. Perché magari, potrebbe essere il pensiero, l'indipendenza si può ottenere a piccoli passi visto che la Padania, nonostante il loro impegno, continua a restare in Italia. "I veneti sono uniti da una lingua e da una cultura e hanno diritto alla propria autodeterminazione - ha detto la senatrice leghista, Emanuela Munerato -. Solo compatti e votando sì a questo referendum potremo fare scuola e aprire la strada anche alle altre regioni decretando l'inizio della fine del centralismo romano che sta uccidendo la nostra cultura e la nostra economia".

Non solo legisti.....

Grillo chiama gli italiani alla secessione. Sul suo blog il comico contro «l'arlecchinata» dei mille popoli, scrive Barbara Ciolli “Lettera 43”. Altro che Lega Nord, anche Beppe Grillo, leader del Movimento 5 Stelle, archiviate le espulsioni dal partito, grida alla secessione. Peggio ancora, al big bang, all'«effetto domino di un castello di carta», alla diaspora dei mille «popoli, lingue e tradizioni che non hanno più alcuna ragione di stare insieme» e «non possono essere gestiti da Roma». «Un'arlecchinata» bella e buona, a detta del comico ligure che ha postato sul suo blog l'ennesima e forse maggiore provocazione: «E se domani l'Italia si dividesse, alla fine di questa storia, iniziata nel 1861, funestata dalla partecipazione a due guerre mondiali e a guerre coloniali di ogni tipo, dalla Libia all'Etiopia» scrive il Beppe, suo malgrado, nazionale, parafrasando ironicamente - e populisticamente - la canzone di Mina? Sotto, il testo apparso l'8 marzo 2014 in Rete: «Italia, incubo dove la democrazia è scomparsa. Non può essere gestita da Roma». «Quella iniziata nel 1861 è una storia brutale, la cui memoria non ci porta a gonfiare il petto, ma ad abbassare la testa. Percorsa da atti terroristici inauditi per una democrazia assistiti premurosamente dai servizi deviati (?) dello Stato. Quale Stato? La parola "Stato" di fronte alla quale ci si alzava in piedi e si salutava la bandiera è diventata un ignobile raccoglitore di interessi privati gestito dalle maitresse dei partiti. E se domani, quello che ci ostiniamo a chiamare Italia e che neppure più alle partite della Nazionale ci unisce in un sogno, in una speranza, in una qualunque maledetta cosa che ci spinga a condividere questo territorio che si allunga nel Mediterraneo, ci apparisse per quello che è diventata, un'arlecchinata di popoli, di lingue, di tradizioni che non ha più alcuna ragione di stare insieme? La Bosnia è appena al di là del mare Adriatico. Gli echi della sua guerra civile non si sono ancora spenti. E se domani i Veneti, i Friulani, i Triestini, i Siciliani, i Sardi, i Lombardi non sentissero più alcuna necessità di rimanere all'interno di un incubo dove la democrazia è scomparsa, un signore di novant'anni decide le sorti della Nazione e un imbarazzante venditore pentole si atteggia a presidente del Consiglio, massacrata di tasse, di burocrazia che ti spinge a fuggire all'estero o a suicidarti, senza sovranità monetaria, territoriale, fiscale, con le imprese che muoiono come mosche. E se domani, invece di emigrare all'estero come hanno fatto i giovani laureati e diplomati a centinaia di migliaia in questi anni o di "delocalizzare" le imprese a migliaia, qualcuno si stancasse e dicesse "Basta!" con questa Italia, al Sud come al Nord? Ci sarebbe un effetto domino. Il castello di carte costruito su infinite leggi e istituzioni chiamato Italia scomparirebbe. È ormai chiaro che l'Italia non può essere gestita da Roma da partiti autoreferenziali e inconcludenti. Le regioni attuali sono solo fumo negli occhi, poltronifici, uso e abuso di soldi pubblici che sfuggono al controllo del cittadino. Una pura rappresentazione senza significato. Per far funzionare l'Italia è necessario decentralizzare poteri e funzioni a livello di macroregioni, recuperando l'identità di Stati millenari, come la Repubblica di Venezia o il Regno delle due Sicilie. E se domani fosse troppo tardi? Se ci fosse un referendum per l'annessione della Lombardia alla Svizzera, dell'autonomia della Sardegna o del congiungimento della Valle d'Aosta e dell'Alto Adige alla Francia e all'Austria? Ci sarebbe un plebiscito per andarsene. E se domani...» Si attendono reazioni.

ADDIO AL SUD.

"Addio al sud" di Angelo Mellone, scrive Paolo Tripaldi su “Il Corriere Romano”. Verrà un giorno in cui tutti i meridionali d'Italia, sparsi un po' ovunque, faranno rientro in patria per sconfiggere definitivamente tutti i mali che hanno affossato per anni il Sud. "Addio al Sud", poema dello scrittore tarantino Angelo Mellone, non è una resa bensì una voglia di rinascita, una chiamata alle armi contro il Sud malato e incapace di riscatto. Un poema che parla al cuore e allo stomaco di ogni meridionale e che cerca di farla finita con ogni stereotipo, con il piangersi addosso e con il  pensare che le colpe siano sempre degli altri. "Il punto di vista di questa voce narrante - scrive Andrea Di Consoli nella prefazione di Addio al Sud - è il punto di vista di chi è scampato a un naufragio, cioè di chi, senza sapere bene da cosa, si è salvato da un male ineffabile". Mellone ci ricorda però che anche se lontani il Sud continua a chiamare: "Tu, chiunque sarai, i vestiti e i profumi e l'accento che saprai sfoggiare, sempre da lì vieni. Da lì. Lì dove la salsedine non dà tregua e l'umido fa sudare d'inverno e sconfigge qualsiasi acconciatura  e il sole, quando c'è, e si fa tramonto, ti uccide di bellezza". Lo sapeva bene Leonida di Taranto, poeta del III secolo a.c., che aveva scelto l'esilio dalla propria patria per non essere schiavo dei romani e che aveva scritto in un suo celebre epitaffio: "riposo molto lontano dalla terra d'Italia e di Taranto mia Patria e ciò m'è più amaro della morte". L'Addio al Sud di Angelo Mellone è un addio ai mali del meridione: alla criminalità, all'assistenzialismo, alla industrializzazione  selvaggia che ha inquinato i territori, al nuovo fenomeno del turismo predatorio. E' un invito anche ad abbandonare il 'pensiero meridiano'  del sociologo Franco Cassano. "Smettiamola con la follia del pensiero meridiano - scrive Mellone - questa scemenza dell'attesa, dell'andare lento, della modernità differente, della sobrietà della decrescita", tutte scusanti "al difetto meridionale dell'amor fati". Mellone passa in rassegna tutti gli episodi che negli ultimi anni hanno affossato ancora di più il Sud: il fenomeno del caporalato, i fatti di Villa Literno, gli omicidi di camorra. Il racconto ci consegna immagini di una sottocultura del sud che partendo dall'omicidio di Avetrana giunge fino ai fenomeni populisti di Luigi de Magistris e Nichi Vendola. "Voglio tornare a Sud a fare la guerra - scrive Angelo Mellone - senza quartiere, senza paese, senza tregua, senza compromessi, con le micce del carbonaro di patria folle, con le ruspe spianando strade a un esercito che si tiene per mano, con la sola divisa dipinta dell'amore infedele che testardamente continui ad amare”. Addio al Sud, che nel sottotitolo e’ chiamato “un comizio furioso del disamore”, è in realtà un atto d’amore per una terra che è sempre nel centro del cuore.

Perché è impossibile dire addio al Sud. Il Meridione ha ancora la forza per rialzarsi, scrive Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”. Di Sud, in Italia, si parla tanto e si ragiona poco. E così le domande che si ponevano i grandi meridionalisti - i Cuoco, i Salvemini, i Fortunato - da decenni restano senza risposta: perché il Meridione italiano, terra di assoluta bellezza e di immense potenzialità, continua a galleggiare nel sottosviluppo e non impedire che i suoi figli migliori, quelli che Piercamillo Falasca ha definito «Terroni 2.0», facciano la valigia per emigrare (anche con un pizzico di risentimento)? A questa domanda prova a rispondere un poema civile scritto da Angelo Mellone, Addio al Sud, definito nel sottotitolo «un comizio furioso del disamore» (Irradiazioni, pp. 80, 8, prefazione di Andrea Di Consoli), una sorta di orazione civile tecno-pop congegnata come reading teatrale. Mellone ribalta due cliché dominanti. Il primo è quello del brigantaggio: qui l'autore trova il coraggio, da meridionale, di ammettere - in quanto «fottuto nazionalista» - che avrebbe scelto di arruolarsi con l'esercito italiano per combattere i Carmine Crocco e i Ninco Nanco, per «piantare tricolori su antiche maledizioni». Il secondo oggetto polemico di Addio al Sud è il nuovo meridionalismo, ovvero quel «pensiero meridiano» - sostenuto, ad esempio, dal sociologo Franco Cassano - che vorrebbe un Sud lento, sobrio, canicolare, che cammina a piedi e ammicca al mito della decrescita o all'idea del Meridione italiano come avanguardia di un'improbabile «alternativa allo sviluppo». Al contrario, il Sud di Mellone anela alla velocità, alla modernità, sia pure a una modernità intrisa di miti antichi e di antichi caratteri comunitari. Scrive Di Consoli nella prefazione: «Questo poema è, in definitiva, una dolorosa "possibilità di prendere congedo", ma è anche una possibilità della rifondazione di un patto "oscuro", ancestrale, e che dunque può essere tramandato nei tempi come accade in tutte le comunità che hanno conosciuto la diaspora, o il suo fantasma». Mellone infatti non sigla una lettera di abbandono dall'identità meridionale, ma rilancia la sfida immaginando che il Sud migliore - emigrato ovunque negli ultimi anni - a un certo punto decida di tornare a casa. In quel momento, dice l'autore, il Sud potrà finalmente essere salutato:

«Finita la guerra prenderò congedo

e solo allora dirò a mia figlia

e solo allora dirò a mio figlio:

tu questo sei.

Anche tu porti cenere, ulivo e salsedine.

Adesso anche tu vieni da Sud».

Quasi un congedo militare, anche se "i fuoriusciti" e i figli saranno chiamati, allorquando terminerà la fatica di Sisifo dell'eterno rientro - che è quasi un giorno d'attesa biblica - a una guerra civile contro il male del Sud: il fatalismo, il degrado, l'incuria del territorio, la dissoluzione del legame sociale, l'accettazione di un modello predatorio di turismo che rischia di distruggere nel breve periodo le bellezze meridionali. Difficile da argomentare, ma questo testo è un "addio" ed è anche un foglio di chiamate alle armi, e in questa contraddizione c'è tutta la modernità della posizione ineffettuale, e dunque estetizzante, di Mellone, che alla maniera di Pasolini si considera, rispetto al Sud, «con lui e contro di lui». Il suo è un appassionato "addio" al Mezzogiorno del rancore, della malavita, dell'inciviltà, della subcultura televisiva. È però anche un disperato e struggente ricordo di una giovinezza meridionale, al cui centro c'è Taranto, della quale Mellone ricorda le icone (il calciatore Erasmo Jacovone), le tragedie (l'Ilva, la mattanza criminale degli anni '80), gli aspetti più "privati" (la prematura morte del padre, la vendita della casa di famiglia). La narrazione scorre per icone, fotogrammi, eventi: dal delitto di Avetrana al matrimonio di Sofia Coppola, dai nuovi populismi (Vendola, de Magistris) alla camorra, dal caso Claps alla piaga del caporalato, Mellone attraversa e scandaglia con straordinaria velocità, e con alternarsi di registro basso e alto, l'immaginario contemporaneo collettivo del Meridione. Scrive per esempio su Sarah Scazzi: «Prendete tutta questa pornografia dell'incubo d'amore simboleggiata dallo scarto incolmabile tra il viso di Sarah Scazzi e il piercing, ripeto: il piercing, della cugina culona Sabrina Misseri di anni venti e due che forse a Taranto e nemmeno a Lecce sarà mai andata ma a Uomini e donne ha conosciuto il piercing che al padre dovrà essere parso roba da bestie all'aratro e non da esseri umani oggi le borgate di Pasolini sono i paesi del Sud in entroterra come Avetrana, tuguri dischiusi al mondo solo grazie all'antenna parabolica». Pugliese trapiantato a Roma, giornalista, scrittore, ora dirigente Rai, Angelo Mellone fa parte di quella generazione nata nei primi anni ’70 che da un giorno all’altro si sono ritrovati senza luoghi del dibattere e del confronto. Caduti i muri e le cortine, con essi sono crollati anche le sezioni e i partiti, luoghi simbolo del confronto e della sfida dialettica. E per chi aveva qualcosa da dire o da scrivere la strada è improvvisamente diventata ripida e scoscesa. Ma impegno e determinazione premiano sempre e se i luoghi non esistono, chi vuol farcela se li crea. La notorietà raggiunta nella capitale non gli ha fatto dimenticare le origini pugliesi, tarantine per la precisione. Una città che negli ultimi anni è balzata agli onori delle cronache prima per un tremendo dissesto di bilancio, poi per una sconsiderata gestione degli impianti industriali presenti sul territorio. E per dimostrare l’amore a l’attaccamento alla sua terra, Mellone ha ideato e messo in scena due monologhi poetici che andranno a far parte di una trilogia dedicata a Taranto: “Addio al Sud” e “Acciaiomare”. Quest’ultimo in particolare è una lunga requisitoria, (J’accuse!, direbbe Zola) nei confronti di un lembo di terra che oltre ad avergli offerto la vita lo ha costretto troppo presto a fare i conti con la morte. Ma quello scritto e cantato per la città di Taranto rimanendo pur sempre un eroico canto d’amore. «Acciaiomare. Il canto dell’industria che muore» (Marsilio Editore), tributo di amore e rabbia verso la propria terra martoriata. Un racconto impetuoso e rutilante, dedicato ai 500 caduti del siderurgico di Taranto, che diventa anche l’occasione per un reading teatrale che, mescolando parole, musica, immagini e rumori industriali, alza il sipario sull’industria morente del Sud che ha nell’ILVA il suo occhio del ciclone. Con lui sul palco, Raffaella Zappalà, Dj set Andrea Borgnino e Video di Marco Zampetti. Dopo il successo di «Addio al Sud. Un comizio furioso del disamore», Angelo Mellone scrive il secondo capitolo di una trilogia sulla sua terra, sempre nella forma di monologo poetico, di comizio civile e lirico. «AcciaioMare» è, in particolare, un canto funebre e peana d’amore, ma anche requisitoria e arringa al tempo stesso, invettiva ed engagez-vous, per un Sud e per una città (Taranto) al centro di uno dei più grandi casi economico-industriali al mondo. Mellone, in un caleidoscopio di immagini e ricordi, di luoghi e persone, di visioni ed emozioni, «scioglie all’urna un cantico» che ha la rabbia di una rivendicazione e l’amore di un figlio, il respiro della planata e la precisione del colpo secco. Perché "acciaio" a Taranto vuol dire tante, troppe cose, per chi ci vive e per chi da lì proviene. Lo scrittore (anche giornalista e dirigente di Radio Rai) concluderà la sua trilogia nel 2014, ma questo suo secondo lavoro è senz’altro quello più «doloroso»: con queste pagine Mellone si augura, infatti, di risvegliare «un minimo di coscienza» sul dramma del declino industriale italiano, nell’illusione di trasformare il Belpaese in una nazione di terziario avanzato, dimenticando così la Fabbrica e gli operai. Ma ora quei 500 e più eroi e martiri dell’acciaio (tra i quali c’è anche il papà di Mellone) hanno grazie a questo libro il loro "canto corale" e un sentito risarcimento alla loro memoria. Pagine toccanti dedicate soprattutto a suo padre, che Mellone accende di passione e rabbia, laddove racconta «di quando acciaio chiamava mare e su questa costa di Sparta nasceva l’industria della navi d’Impero e dei toraci siderurgici. Voglio raccontarti una storia d’amore. D’amore che muore». Così, che lo scorso mese d’agosto 2013 Mellone prese subito le difese «di un orgoglio siderurgico impacchettato in fretta e furia» per far posto «all’ondata ambientalqualunquista». E trasfromò le sue vacanze in un’indagine del suo passato. C’era una volta un ragazzino che quando a pranzo c’erano fave e cicoria restava digiuno. Sua madre voleva a tutti costi che le mangiasse, altrimenti pancia vuota. Oggi quel ragazzino mangerebbe tutti i giorni a pranzo e a cena il piatto principe della cucina pugliese. Che cosa è cambiato? Del piatto nulla, solo che allora gli era imposto oggi è una libera scelta.

Il vero Sud lo riscopri solo dal finestrino del treno. "Meridione a rotaia". Angelo Mellone conclude la sua trilogia lirica sul Meridione italiano, giungendo anche all’ultima fermata di un viaggio che è un canto appassionato e dolente, ma al tempo stesso un grido di rabbia, per la sua terra. Un ritorno nella propria terra, che è stata abbandonata anni prima con rabbia. Un ritorno a Meridione, compiuto con il mezzo che più associamo al viaggio: il treno. Sui treni sono partiti i primi emigrati meridionali, sulle carrozze di treni locali scassati, regionali in perenne ritardo, Intercity improbabili, l’Autore fa macchina indietro e, da Roma, arriva a Taranto. In mezzo a partenza e arrivo si alternano situazioni grottesche, aneddoti, ricordi, memorie dolorose, persino una pagina dedicata ai fanti meridionali mandati al massacro nella Prima guerra mondiale. Tutte queste pagine, che Mellone ci regala con lo stile consueto delle sue “orazioni civile”, accostano il tema tradizionale del ritorno a quello, nuovo per l’autore, di una riflessione sull’amore, che viaggia a ritroso attraverso due figure femminili e una singolare disquisizione sui tacchi... E dunque, se l’amore è contesto, radici, terra, e «Meridione tiene sempre i piedi per terra», per trovare amore autentico a Sud bisogna tornare. E questo fa, Meridione a rotaia, nelle scorribande tra paesini, locomotori diesel, vagoni stipati di varia umanità, stazioni metropolitane e stazioncine di montagna. Offrendo, alla fine, un affresco di meridionalità divertente, surreale, commuovente. Un tempo si tornava in rotaia per restare, oggi per ripartire. Ma il lento viaggio verso casa porta alle radici e invita a trovare la propria strada, scrive Giuseppe De Bellis su "Il Giornale". I treni che vanno a Sud sono diversi. D'aspetto, d'odore, d'umore. Non hanno niente di professionale. Non hanno cravatte e collane di perle. Il professionista che dal Nord sale su un treno verso casa, la vecchia casa del padre, è come Clark Kent che toglie l'abito di Superman. Via il vestito da lavoro nobile, su quello dell'essere umano così com'è. Perché è un viaggio nell'anima, quello che si sta per fare. È incredibile quanto il ritorno a Sud sia ancora nel 2014 legato al treno. Controintuitivo e persino antistorico. Da Milano a Bari ci vogliono più di otto ore, contro un'ora e un quarto d'aereo. Da Roma a Reggio Calabria, sei ore di treno contro le... Eppure chi è del Sud sa che in una conversazione con un altro meridionale arriverà a questo punto. - «Sai che “vado giù?”? Solo sabato e domenica». - «Come, ti fai tutto quel viaggio in treno per stare solo due giorni?». Il viaggio in treno è dato per scontato, perché ancestralmente è ormai sinonimo di trasferimento Nord-Sud. Puoi «salire» come vuoi, ma sembra che tu debba sempre «scendere» in treno. Perché è ricordo, memoria, passato che torna, è emigrazione e immigrazione. Noi terroni siamo legati alla ferrovia anche al di là della nostra volontà. Angelo Mellone lo sa perché appartiene alla categoria: professionista meridionale che per obbligo, passione e capacità è stato costretto a lasciare casa e andare verso Nord. Ha portato la testa e il corpo a Roma, ha mantenuto l'anima a Taranto. È uno degli intellettuali sudisti che meglio ha raccontato in questi ultimi anni la nuova questione meridionale, espressione tanto abusata quanto inevitabile. Lo fa anche ora, con il suo Meridione a rotaia (Marsilio, pagg. 92, euro 10), che chiude quella che lui stesso ha definito «trilogia delle radici». Il treno è il mezzo per tornare e tornando raccontare che cos'è il Sud e soprattutto com'è il rapporto tra quelle radici e chi le ha dovute lasciare superficialmente e poi scopre di avercele comunque attaccate al corpo e allo spirito: «Noi meridionali siamo fatti così. Amiamo la terra che abbiamo abbandonato quando la lasciamo, e la odiamo se ci costringe a restare o ci rende impossibile partire. In questo ha ragione Mario Desiati: la letteratura presuppone sempre una partenza. Un momento di straniamento, un distacco, una mancanza. Nel mio caso un'irrequietezza che è tutto il mio riassunto di meridionale atipico, innamorato di una terra ma distante, antropologicamente, dall'“andare lento” meridionalista. Preferisco viaggiare, consumare suole e bruciare le radici che poi voglio conservare. In questo sentimento pendolare sta il senso di Meridione a rotaia. Che è, a suo modo, un ritorno. Un viaggio a ritroso trasognato, surreale, infelice, virile, spavaldo, intimista, appresso alla memoria, dove si incontrano donne, amici, nemici, loschi figuri, personaggi improbabili, odori, panorami, sfondi e valigie di ricordi». Mellone parte da una casa posticcia di Roma per tornare a Taranto, dove è nato, cresciuto, l'Ilva gli ha tolto il padre, dandogli un dolore che nessuno potrà mai placare, ma nonostante il quale non ha ceduto all'idea che quello stabilimento fosse solo morte e non anche vita per tanta gente. È lì che torna a bordo di questo treno che è reale e onirico allo stesso tempo. Sceglie la formula del poema per rendere magico e però duro questo viaggio. Cita luoghi, paesaggi, facce, pensieri che sono familiari a ciascun meridionale che quel viaggio l'ha fatto davvero o anche con la fantasia. Perché è un dovere tornare, anche quando non si ha voglia. Perché è inevitabile farlo. Un viaggio che non è come gli altri, perché non porta a scoprire nulla che non si sappia già, ma è un modo per trovare la strada. La propria: «Meridione restituisce sempre/ ciò che avevi smarrito...». «Ritorno a Sud allora/ è condizione necessaria/ polvere a polvere, sasso a sasso/ tratturo a tratturo, chianca a chianca/ complanare a complanare, binario a binario specialmente/ al momento in cui il corpo sudato/ in discesa puzza/ e l'alito impasta/ la lingua assetata/ per riacciuffare i brandelli di tutto quello/ che ho abbandonato». È un libro malinconico, come dice Mellone, è l'ammissione della sconfitta di chi ha combattuto se stesso pensando di poter essere meridionale senza fare ritorno al Sud. Ecco, dal Sud non si può scappare, anche quando si emigra: te lo porti dentro esattamente come i settentrionali si portano dentro il Nord. Ciò che contraddistingue le nuove generazioni di fuggiaschi da una terra che non può dare non perché non abbia, ma perché è schiava dei propri vizi, è un orgoglio differente: prima si tornava per rimanere, per dire «ce l'ho fatta, ho combattuto lontano, ho vinto, adesso torno dalla mia amata». Era lo stesso spirito di un soldato mandato al fronte con l'unico obiettivo di riabbracciare una ragazza diventata donna o bambini diventati adolescenti. Ora si torna per ripartire, per tenersi agganciati, emigrati con l'elastico che ti riporta indietro fisicamente o idealmente. La sconfitta di Mellone è in un certo senso una vittoria. Perché ammettere di non riuscire a sganciarsi dalle proprie radici è una forza spacciata per debolezza solo per un gioco di forze che fa leva sulla maledizione della nostalgia. Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te. «Amore fatto di terra», dice Mellone. «Amore per la terra».

Ciononostante i nordisti, anzichè essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

“Ingrati. La sindrome rancorosa del beneficiato”. Libro di Maria Rita Parsi, Mondadori 2011. Cos'è la "sindrome rancorosa del beneficato"? Una forma di ingratitudine? Ben di più. L'eccellenza dell'ingratitudine. Comune, per altro, ai più. Senza che i molti ingrati "beneficati" abbiano la capacità, la forza, la decisionalità interiore, il coraggio e, perfino, l'onestà intellettuale ed etica di prenderne atto. La "sindrome rancorosa del beneficato" è, allora, quel sordo, ingiustificato rancore (il più delle volte covato inconsapevolmente; altre volte, invece, cosciente) che coglie come una autentica malattia chi ha ricevuto un beneficio, poiché tale condizione lo pone in evidente "debito di riconoscenza" nei confronti del suo benefattore. Un beneficio che egli "dovrebbe" spontaneamente riconoscere ma che non riesce, fino in fondo, ad accettare di aver ricevuto. Al punto di arrivare, perfino, a dimenticarlo o a negarlo o a sminuirlo o, addirittura, a trasformarlo in un peso dal quale liberarsi e a trasformare il benefattore stesso in una persona da dimenticare se non, addirittura, da penalizzare e calunniare. Questo nuovo libro di Maria Rita Parsi parla dell'ingratitudine, quella mancanza di riconoscenza che ognuno di noi ha incontrato almeno una volta nella vita. Attraverso una serie di storie esemplari, l'analisi delle tipologie di benefattori e beneficati, il decalogo del buon benefattore e del beneficato riconoscente e un identikit interattivo, l'autrice insegna a riconoscere l'ingratitudine e a difendersene, arginare i danni e usarla addirittura per rafforzarsi.

La culla dell'ingratitudine. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano, scrive Francesco Alberoni su “Il Giornale”. Quand’è che proviamo riconoscenza per qualcuno? A prima vista diremmo che la proviamo verso tutti coloro che ci hanno aiutato, ma non è così. Quelli che si amano non la provano. Pensate a due innamorati. Ciascuno fa tutto quello che può per l’amato ma nessuno sente un debito di riconoscenza. Chi si ama non tiene una contabilità del dare e dell’avere: i conti sono sempre pari. Solo quando l’amore finisce riappare la contabilità e ciascuno scopre di aver dato più di quanto non abbia ricevuto. Però anche fra innamorati ci sono dei momenti in cui il tuo amato ti dona qualcosa di straordinario, qualcosa che non ti saresti mai aspettato ed allora ti viene voglia di dirgli un «grazie» che è anche riconoscenza. Insomma la riconoscenza nasce dall’inatteso, da un «di più». Perciò la proviamo spesso verso persone con cui non abbiamo nessun rapporto ma che ci fanno del bene spontaneamente. Per esempio a chi si getta in acqua per salvarci rischiando la vita, a chi ci soccorre in un incidente, a chi ci cura quando siamo ammalati. Ma anche a chi ci aiuta a scoprire e a mettere a frutto i nostri talenti nel campo della scienza, dell’arte, della professione per cui, quando siamo arrivati, gli siamo debitori. La riconoscenza è perciò nello stesso tempo un grazie e il riconoscimento dell'eccellenza morale della persona che ci ha aiutato. Quando proviamo questo sentimento, di solito pensiamo che durerà tutta la vita, invece spesso ce ne dimentichiamo. E se quella persona ci ha fatto veramente del bene allora la nostra è ingratitudine. Ma la chiamerei una ingratitudine leggera, perdonabile. Perché purtroppo c’è anche una ingratitudine cattiva, malvagia. Vi sono delle persone che, dopo essere state veramente beneficiate, anziché essere riconoscenti, provano del rancore, dell’odio verso i loro benefattori. Ci sono allievi che diventano i più feroci critici dei loro maestri e dirigenti che, arrivati al potere diffamano proprio chi li ha promossi. Da dove nasce questa ingratitudine cattiva? Dal desiderio sfrenato di eccellere. Costoro pretendono che il loro successo sia esclusivamente merito della propria bravura e si vergognano ad ammettere di essere stati aiutati. Così negano l’evidenza, aggrediscono il loro benefattore. E quanti sono! State attenti: quando sentite qualcuno diffamare qualcun altro, spesso si tratta di invidia o di ingratitudine malvagia. Guardatevi da questo tipo di persone.

QUALCHE PROVERBIO AFORISMO

Amico beneficato, nemico dichiarato.

Avuta la grazia, gabbato lo santo.

Bene per male è carità, male per bene è crudeltà.

Chi non dà a Cristo, dà al fisco.

Chi rende male per bene, non vedrà mai partire da casa sua la sciagura.

Comun servizio ingratitudine rende.

Dispicca l’impiccato, impiccherà poi te.

Fate del bene al villano, dirà che gli fate del male.

Il cane che ho nutrito è quel che mi morde.

Il cuor cattivo rende ingratitudine per beneficio.

Il mondo ricompensa come il caprone che dà cornate al suo padrone.

L’ingratitudine converte in ghiaccio il caldo sangue.

L’ingratitudine è la mano sinistra dell’egoismo.

L’ingratitudine è un’amara radice da cui crescono amari frutti.

L’ingratitudine nuoce anche a chi non è reo.

L’ingratitudine taglia i nervi al beneficio.

Maledetto il ventre che del pan che mangia non si ricorda niente.

Non c’è cosa più triste sulla terra dell’uomo ingrato.

Non far mai bene, non avrai mai male.

Nutri il corvo e ti caverà gli occhi.

Nutri la serpe in seno, ti renderà veleno.

Quando è finito il raccolto dei datteri, ciascuno trova da ridire alla palma.

Render nuovi benefici all’ingratitudine è la virtù di Dio e dei veri uomini grandi.

Tu scherzi col tuo gatto e l’accarezzi, ma so ben io qual fine avran quei vezzi

Val più un piacere da farsi che cento di quelli fatti.

In amore, chi più riceve, ne è seccato: egli prova la noia e l’ingratitudine di tutti i ricchi.

Philippe Gerfaut

L’ingratitudine è sempre una forma di debolezza. Non ho mai visto che uomini eccellenti fossero ingrati.

Johann Wolfgang Goethe, Massime e riflessioni, 1833 (postumo)

Spesso l’ingratitudine è del tutto sproporzionata al beneficio ricevuto.

Karl Kraus, Di notte, 1918

Ci sono assai meno ingrati di quanto si creda, perché ci sono assai meno generosi di quanto si pensi.

Charles de Saint-Evremond, Sugli ingrati, XVII sec.

Il cuore dell’uomo ingrato somiglia alle botti delle Danaidi; per quanto bene tu vi possa versare dentro, rimane sempre vuoto.

Luciano di Samosata, Scritti, II sec.

Un solo ingrato nuoce a tutti gli infelici.

Publilio Siro, Sentenze, I sec. a.c.

Quando di un uomo hai detto che è un ingrato, hai detto tutto il peggio che puoi dire di lui.

Fenomenologia rancorosa dell'ingratitudine. La rabbia dell'ignorare il beneficio ricevuto. Le relazioni d'aiuto contraddistinguono i diversi momenti del ciclo vitale di una persona e ne favoriscono l'autonomia e l'indipendenza. Esiste tuttavia la possibilità che nella sottile dinamica di dipendenza/indipendenza, caratterizzante questo tipo di rapporto, alla gratitudine per un beneficio ricevuto si sostituisca un sentimento d'ingratitudine, di rancore e di rabbia verso il "benefattore". Questo lavoro di Andrea Brundo prende in esame i fenomeni connessi alle relazioni d'aiuto e i processi collegati alla costruzione della personalità nel corso dell'età evolutiva (a partire dall'iniziale rapporto diadico madre-figlio). In base a questa ipotesi, chi prova rancore non ha avuto la possibilità di sperimentare, aggregare ed elaborare contenuti affettivi significativi nelle prime fasi della vita. Ignora, quindi, l'esistenza di autentiche relazioni d'affetto. È incapace di viverle, proprio per la mancanza di informazioni e per la carenza dei relativi schemi cognitivi. Il "rancoroso", pur potendo ammettere l'aiuto ricevuto, non è in grado di essere riconoscente perché ignora i contenuti affettivi che sono dietro la relazione di aiuto. Non potendoli riconoscere in se stesso non li può trovare neanche negli altri. L'incapacità di provare gratitudine è sostenuta da una generale difficoltà a condividere sentimenti e contenuti psichici. Nelle relazioni che instaura, la condivisione non è mediata dalla sfera affettiva, ma dalle prevalenti esigenze dell'io. Chi manca delle informazioni atte a soddisfare le proprie necessità può ricorrere all'aiuto dell'altro che le possiede. Ciò comporta, sul piano relazionale, il riconoscimento dell’autorevolezza e del relativo "potere" di chi dispone le conoscenze. Nel momento in cui si deve predisporre ad accettare le informazioni, il beneficiato, con prevalente modalità narcisistica va incontro ad una serie di difficoltà legate a:

non sapere;

essere in una posizione subordinata di "potere";

fidarsi e considerare giusta l'informazione ricevuta;

disporsi a ridefinire i propri schemi cognitivi e stili comportamentali;

vivere il disagio provocato dal contenuto affettivo associato all'informazione-aiuto.

Nel caso in cui le informazioni risultino troppo complesse rispetto alla rappresentazione della realtà del soggetto, lo sforzo per elaborarle e integrarle nei propri schemi mentali è eccessivo. A questo punto tale soggetto preferisce ricorrere a una modalità più semplice, quale è quella antagonista, e si mette contro la persona che lo sta aiutandolo. E ancora. Quando il divario tra l'immagine di sé (in termini di sistema di credenze, schemi cognitivi, stili comportamentali, ecc.) e le implicazioni di mutamento insite nelle informazioni-aiuto si rivela insostenibile, il beneficiato non può accettare di cambiare e il peso di questa difficoltà viene proiettato sul beneficiante. L'informazione donata e non elaborata rimane a livello dell'io, ristagna e diventa un qualcosa di stantio, di "rancido", di inespresso che risulta insopportabile. Un qualcosa che alimenta un incessante rimuginio, sostenuto anche dalla vergogna e dal senso di colpa. Nasce l'esigenza di eliminare il fastidio e il senso di oppressione, esigenza che conduce all'odio verso la causa (il beneficiante) di tanto "dolore". Si instaura così un circolo vizioso nel pensiero a cui solo gli sfoghi rabbiosi possono dare un minimo, seppur temporaneo, sollievo. Gli eccessi di rabbia costituiscono l'unica soluzione per tentare una comunicazione (impossibile) attraverso la naturale via dell'affettività. Pertanto, il rancore trova un’auto giustificazione in quanto permette di manifestare al mondo e alla persona beneficante contenuti mentali che non trovano altre modalità espressive.

Altra storica menzogna è stata sbugiardata da "Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?"

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

D'altronde siamo abituati alle stronzate dette da chi in mala fede parla e le dice a chi, per ignoranza, non può contro ribattere. Cominciamo a dire: da quale pulpito viene la predica. Vediamo in Inghilterra cosa succede. I sudditi inglesi snobbano gli italiani. Ci chiamano mafiosi, ma perché a loro celano la verità. Noi apprendiamo la notizia dal tg2 delle 13.00 del 2 gennaio 2012.  Il loro lavoro è dar la caccia ai criminali, ma alcuni ladri non sembrano temerle: le forze di polizia del Regno sono state oggetto di furti per centinaia di migliaia di sterline, addirittura con volanti, manette, cani ed uniformi tutte sparite sotto il naso degli agenti. Dalla lista, emersa in seguito ad una richiesta secondo la legge sulla libertà d'informazione, emerge che la forza di polizia più colpita è stata quella di Manchester, dove il valore totale degli oggetti rubati arriva a quasi 87.000 sterline. Qui i ladri sono riusciti a fuggire con una volante da 10.000 sterline e con una vettura privata da 30.000. 

E poi. Cosa sarebbe oggi la Germania se avesse sempre onorato con puntualità il proprio debito pubblico? Si chiede su “Il Giornale” Antonio Salvi, Preside della Facoltà di Economia dell’Università Lum "Jean Monnet". Forse non a tutti è noto, ma il Paese della cancelliera Merkel è stato protagonista di uno dei più grandi, secondo alcuni il più grande, default del secolo scorso, nonostante non passi mese senza che Berlino stigmatizzi il comportamento vizioso di alcuni Stati in materia di conti pubblici. E invece, anche la Germania, la grande e potente Germania, ha qualche peccatuccio che preferisce tenere nascosto.

Polentoni (mangia polenta o come dicono loro po' lentoni, ossia lenti di comprendonio) e terroni (cafoni ignoranti) sono pregiudizi da campagna elettorale inventati ed alimentati da chi, barbaro, dovrebbe mettersi la maschera in faccia e nascondersi e tacere per il ladrocinio perpetrato anche a danno delle stesse loro popolazioni.

Ma si sa parlar male dell'altro, copre le proprie colpe.

Terroni a chi? Tre libri sul pregiudizio antimeridionale. Come è nata e come si è sviluppata la diffidenza verso il Sud. Tre libri ne ricostruiscono le origini e provano a ipotizzarne gli scenari.

"Negli ormai centocinquant'anni di unità italiana il Mezzogiorno non ha mai mancato di creare problemi". D'accordo, la frase è netta e controversa. Sulla questione meridionale, nell'ultimo secolo e mezzo, si sono sprecati fiumi di inchiostro, tonnellate di pagine, migliaia di convegni. In gran parte dedicati all'indagine sociologica, al pregiudizio politico o alla rivendicazione identitaria. Ciò che colpisce allora di "La palla al piede" di Antonino De Francesco (Feltrinelli) è lo sguardo realistico e l'approccio empirico. De Francesco è ordinario di Storia moderna all'Università degli studi di Milano, ma definire il suo ultimo lavoro essenzialmente storico è quantomeno limitativo. In poco meno di duecento pagine, l'autore traccia l'identikit di un pregiudizio, quello antimeridionale appunto, nei suoi aspetti sociali, storici e politici. Lo fa rincorrendo a una considerevole pubblicistica per niente autoreferenziale, che non si ostina nel solito recinto storiografico. Il risultato si avvicina a una controstoria dell'identità italiana e, al tempo stesso, a un'anamnesi dei vizi e dei tic dell'Italia Unita. Ma per raccontare una storia ci si può ovviamente mettere sulle tracce di una tradizione e cercare, attraverso le sue strette maglie, di ricostruire una vicenda che ha il respiro più profondo di una semplice schermaglia localistica. E' quello che accade nel "Libro napoletano dei morti" di Francesco Palmieri (Mondadori). Racconta la Napoli eclettica e umbratile che dall’Unità d'Italia arriva fino alla Prima guerra mondiale. Per narrarla, si fa scudo della voce del poeta napoletano Ferdinando Russo ricostruendo con una certa perizia filologica e una sottile verve narrativa le luci e le smagliature di un'epopea in grado di condizionare la realtà dei giorni nostri. Ha il respiro del pamphlet provocatorio e spiazzante invece l'ultimo libro di Pino Aprile, "Mai più terroni" (Piemme), terzo volume di una trilogia di successo (Terroni e Giù al Sud i titoli degli altri due volumi). Aprile si domanda se oggi abbia ancora senso dividere la realtà sulla base di un fantomatico pregiudizio etnico e geografico che ha la pretesa di tagliare Nord e Sud. E si risponde che no, che in tempi di iperconnessioni reali (e virtuali), quelli stereotipo è irrimediabilmente finito. "Il Sud - scrive - è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta". Nelle nuove realtà virtuali, vecchie direzioni e punti cardinali non esistono più, relegati come sono a un armamentario che sa di vecchio e obsoleto.

Il sud? Una palla al piede? “La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale” è il libro di Antonino De Francesco. Declinata in negativo, è tornata a essere un argomento ricorrente nei discorsi sulla crisi della società italiana. Sprechi di risorse pubbliche, incapacità o corruzione delle classi dirigenti locali, attitudini piagnone delle collettività, forme diffuse di criminalità sono stati spesso evocati per suggerire di cambiare registro nei riguardi del Mezzogiorno. I molti stereotipi e luoghi comuni sono di vecchia data e risalgono agli stessi anni dell'unità, ma quel che conta è la loro radice propriamente politica. Fu infatti la delusione per le difficoltà incontrate nel Mezzogiorno all'indomani dell'unificazione a cancellare presto l'immagine di un Sud autentico vulcano di patriottismo che nel primo Ottocento aveva dominato il movimento risorgimentale. Da allora lo sconforto per una realtà molto diversa da quella immaginata avrebbe finito per fissare e irrobustire un pregiudizio antimeridionale dalle tinte sempre più livide ogni qual volta le vicende dello stato italiano andarono incontro a traumatici momenti di snodo. Il libro rilegge la contrapposizione tra Nord e Sud dal tardo Settecento sino ai giorni nostri. Si capisce così in che modo il pregiudizio antimeridionale abbia costituito una categoria politica alla quale far ricorso non appena l'innalzamento del livello dello scontro politico lo rendesse opportuno. Per il movimento risorgimentale il Mezzogiorno rappresentò sino al 1848 una terra dal forte potenziale rivoluzionario. Successivamente, la tragedia di Pisacane a Sapri e le modalità stesse del crollo delle Due Sicilie trasformarono quel mito in un incubo: le regioni meridionali parvero, agli occhi della nuova Italia, una terra indistintamente arretrata. Nacque così un'Africa in casa, la pesante palla al piede che frenava il resto del paese nel proprio slancio modernizzatore. Nelle accuse si rifletteva una delusione tutta politica, perché il Sud, anziché un vulcano di patriottismo, si era rivelato una polveriera reazionaria. Si recuperarono le immagini del meridionale opportunista e superstizioso, nullafacente e violento, nonché l'idea di una bassa Italia popolata di lazzaroni e briganti (poi divenuti camorristi e mafiosi), comunque arretrata, nei confronti della quale una pur nobile minoranza nulla aveva mai potuto. Lo stereotipo si diffuse rapidamente, anche tramite opere letterarie, giornalistiche, teatrali e cinematografiche, e servì a legittimare vuoi la proposta di una paternalistica presa in carico di una società incapace di governarsi da sé, vuoi la pretesa di liberarsi del fardello di un mondo reputato improduttivo e parassitario. Il libro ripercorre la storia largamente inesplorata della natura politica di un pregiudizio che ha condizionato centocinquant'anni di vita unitaria e che ancora surriscalda il dibattito in Italia. I meridionali sono allegri e di buon cuore ma anche «oziosi, molli e sfibrati dalla corruzione». Sono simpatici e affettuosi, è un altro giudizio sempre sulla gente del Sud, ma pure «cinici, superstiziosi, pronti a rispondere con la protesta di piazza a chi intende disciplinarli». A separare il barone di Montesquieu e Giorgio Bocca, (sono dette da loro queste opinioni sul Mezzogiorno), vi sono circa 250 anni. Eppure nemmeno i secoli contano e fanno la differenza quando si tratta di sputar sentenze sul meridione. Così scrive Mirella Serri su “La Stampa”.  Già, proprio così. Credevamo di esser lontani anni luce dall’antimeridionalismo (il suo viaggio nell’Inferno del Sud, Bocca lo dedica alla memoria di Falcone e di Borsellino), pensavamo di essere comprensivi e attenti alle diversità? Macché, utilizziamo gli stessi stereotipi di tantissimi lustri fa: è questa la provocazione lanciata dallo storico Antonino De Francesco in un lungo excursus in cui esamina tutte le dolenti note su "La palla al piede. Una storia del pregiudizio antimeridionale". La nascita dei pregiudizi sul Sud si verifica, per il professore, nel secolo dei Lumi, quando numerosi viaggiatori europei esplorarono i nostri siti più incontaminati e selvaggi. E diedero vita a una serie di luoghi comuni sul carattere dei meridionali che si radicarono dopo l’Unità d’Italia e che hanno continuato a crescere e a progredire fino ai nostri giorni. E non basta. A farsi portavoce e imbonitori di questa antropologia negativa sono stati spesso artisti, scrittori, registi, giornalisti, ovvero quell’intellighentia anche del Sud che l’antimeridionalismo l’avrebbe dovuto combattere accanitamente.

Uno dei primi a intuire questa responsabilità degli intellettuali fu il siciliano Luigi Capuana. Faceva notare a Verga che loro stessi, i maestri veristi, avevano contribuito alla raffigurazione del siculo sanguinario con coltello e lupara facile. E che sulle loro tracce stava prendendo piede il racconto di un Mezzogiorno di fuoco con lande desolate, sparatorie, sgozzamenti, rapine, potenti privi di scrupoli e plebi ignare di ordine e legalità. Ad avvalorare questa narrazione che investiva la parte inferiore dello Stivale dettero il loro apporto anche molti altri autori, da Matilde Serao, che si accaniva sui concittadini partenopei schiavi dell’attrazione fatale per il gioco del lotto, a Salvatore di Giacomo, che dava gran rilievo all’operato della camorra in Assunta Spina. Non fu esente dall’antimeridionalismo nemmeno il grande Eduardo De Filippo che in Napoli milionaria mise in luce il sottomondo della città, fatto di mercato nero, sotterfugio, irregolarità. Anche il cinema neorealista versò il suo obolo antisudista con film come Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, testimonial dei cruenti e insondabili rapporti familiari e sociali dei meridionali. Pietro Germi, ne In nome della legge, e Francesco Rosi, ne Le mani sulla città, vollero denunciare i mali del Sud ma paradossalmente finirono per evidenziare i meriti degli uomini d’onore come agenzia interinale o società onorata nel distribuire ai più indigenti lavori e mezzi di sussistenza, illegali ovviamente. A rendere la Sicilia luogo peculiare del trasformismo politico che contaminerà tutto lo Stivale ci penserà infine il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. In generale prevale il ritratto di un Sud antimoderno e clientelare, palla al piede del Nord. Milano, per contrasto, si fregerà dell’etichetta di «capitale morale», condivisa tanto dal meridionalista Salvemini quanto da Camilla Cederna, non proprio simpatizzante del Sud. Quest’ultima, per attaccare il presidente della Repubblica Giovanni Leone, reo di aver fatto lo scaramantico gesto delle corna in pubblico, faceva riferimento alla sua napoletanità, sinonimo di «maleducazione, smania di spaghetti, volgarità». «L’antimeridionalismo con cui ancora oggi la società italiana si confronta non è così diverso da quello del passato», commenta De Francesco. Non c’è dubbio.

Benvenuti al Sud, che di questi antichi ma persistenti pregiudizi ha lanciato la parodia, si è posizionato al quinto posto nella classifica dei maggiori incassi in Italia di tutti i tempi. Come un vigile che si materializza nell’ora di punta o un poliziotto che sopraggiunge nel vivo della rissa. Dopo le polemiche sugli afrori dei napoletani, dopo le dispute sul bidet dei Borbone e sulle fogne dei Savoia, mai libro è arrivato più puntuale. Edito da Feltrinelli, «La palla al piede» di Antonino De Francesco è, infatti, come recita il sottotitolo, «una storia del pregiudizio antimeridionale». E come tale non solo capita a proposito, ma riesce anche a dare ordine a una materia per molti versi infinita e dunque inafferrabile. Cos’è del resto l’antimeridionalismo? «È — spiega l’autore a Marco Demarco su “Il Corriere della Sera”  — un giudizio tanto sommario quanto inconcludente, che nulla toglie e molto (purtroppo) aggiunge ai problemi dell’Italia unita, perché favorisce il declino nelle deprecazioni e permette alle rappresentazioni, presto stereotipate, di prendere il sopravvento». Non solo. «Ed è — aggiunge De Francesco — anche un discorso eversivo, perché corre sempre a rimettere in discussione il valore stesso dell’unità italiana». Fin qui la quarta di copertina, ma poi, all’interno, pagina dopo pagina, ecco i testi, le tesi, i personaggi che hanno affollato la scena dello scontro tra meridionalisti e antimeridionali: da Boccaccio a Matilde Serao, da Montesquieu a Prezzolini, passando per Cuoco e Colletta, per Lauro e Compagna, per Mastriani e Totò. Fino a Indro Montanelli, che commentando il milazzismo picchia duro sui siciliani e scrive che «se in Italia si compilasse una geografia dell’abbraccio ci si accorgerebbe che più si procede verso le regioni in cui esso rigogliosamente fiorisce, e più frequente si fa l’uso del coltello e della pistola, della lettera anonima e dell’assegno a vuoto»; o a Camilla Cederna, che addirittura mette in forse la religiosità del presidente Leone: «Tutt’al più — scrive in piena campagna per le dimissioni — il suo è un cristianesimo di folclore...». Materiali preziosi, alcuni noti e altri no, ma tutti riletti all’interno di uno schema molto chiaro. Che è il seguente: negli anni di fuoco a ridosso dell’unità d’Italia, l’antimeridionalismo nasce molto prima del meridionalismo, non ha lasciato testimonianze meritevoli di interesse sotto il profilo culturale, ma, «ha svolto un preciso ruolo normativo nell’immaginario sociale del mondo». Ha creato, cioè, categorie mentali, visioni e schemi interpretativi che hanno condizionato politiche e strategie, alleanze e scelte di campo. In questo senso, l’antimeridionalismo si è rivelato per quello che davvero è: niente altro che uno strumento della lotta politica. L’antimeridionalismo appare e scompare, va e viene, morde e fugge, ma sempre secondo le convenienze del momento storico, del contesto. Così a Masaniello può accadere una volta di assurgere a simbolo del riscatto meridionale e di essere messo sullo stesso asse rivoluzionario che porta fino al ’99, quando del Sud serve l’immagine tutta tesa al riscatto liberatorio; un’altra di precipitare a testimonianza del velleitarismo plebeo, di un ribellismo pari a quello dei briganti, quando del Sud bisogna dare invece l’idea di un mostro da abbattere. Sulla stessa altalena possono salirci anche interi territori, come la Sicilia. Quella pre-garibaldina immaginata dalle camicie rosse è tutto un ribollire di passioni civili e di ansie anti borboniche; quella post-garibaldina descritta dai militari piemontesi è violenta, barbara, incivile. È andata così anche con il Cilento di Pisacane: prima dello sbarco, era la terra promessa del sogno risorgimentale; dopo, la culla del tradimento e del popolo imbelle. Perfino la considerazione della camorra cambia secondo il calcolo politico. Nel 1860 la stampa piemontese, prova ne è «Mondo illustrato», arriva perfino a elogiarla, ritenendola capace di dare organizzazione ai lazzaroni favorevoli al cambio di regime. Ma poi la scena si ribalta. Con Silvio Spaventa comincia l’epurazione del personale sospetto inserito negli apparati statali e la «Gazzetta del Popolo» prontamente plaude. Come strumento della battaglia politica, l’antimeridionalismo non viene usato solo nello scontro tra Cavour e Garibaldi, ma diventa una costante. Liberali e democratici lo usano per giustificare le rispettive sconfitte. E come alibi usano sempre il popolo, che di colpo diventa incolto, superstizioso, asociale, ingovernabile. Ai socialisti succede di peggio. Negli anni del positivismo, arrivano, sulle orme di Lombroso, a cristallizzare il razzismo antimeridionale. Niceforo parla di due razze, la peggiore, la maledetta, è naturalmente quella meridionale; mentre Turati, in polemica con Crispi, vede un Nord tutto proiettato nella modernità e un Sud che è «Medio Evo» e «putrefatta barbarie». Prende forma così quel dualismo culturale che vede ovunque due popoli, uno moderno e l’altro arretrato, dove è chiaro che il secondo, come già ai tempi di Cuoco, giustifica il primo. Ma questo dualismo finisce per mettere in trappola anche la produzione culturale. I veristi, ad esempio, raccontano con passione la vita degli ultimi, della minorità sociale. Ma come vengono lette a Milano queste storie? Chi fa le dovute differenze? Il dubbio prende ad esempio Luigi Capuana quando decide di polemizzare con Franchetti e Sonnino per come hanno descritto la Sicilia. Capuana addebita addirittura a se stesso, a Federico De Roberto e soprattutto all’amico Giovanni Verga, la grave responsabilità di aver favorito, con i loro racconti e con i loro romanzi, la ripresa dei luoghi comuni sull’isola. Credevamo di produrre schiette opere d’arte — scrive avvilito a Verga — «e non abbiamo mai sospettato che la nostra sincera produzione, fraintesa o male interpretata, potesse venire adoperata a ribadire pregiudizi, a fortificare opinioni storte, a provare insomma il contrario di quel che era nostra sola intenzione rappresentare alla fantasia dei lettori». E in effetti, commenta De Francesco, l’opera di Verga, nel corso degli anni Settanta, aveva liquidato l’immagine di una Sicilia esotica e mediterranea a tutto vantaggio della costruzione di potenti quadri di miseria e di atavismo. Il libro si chiude con il caso Bocca, forse il più emblematico degli ultimi anni. Inviato nel Sud sia negli anni Novanta, sia nel 2006. Racconta sempre la stessa Napoli, persa tra clientele, degrado e violenza criminale, ma la prima volta piace alla sinistra; la seconda, invece, la stessa sinistra lo condanna senza appello. La ragione? Prima Bassolino era all’opposizione, poi era diventato sindaco e governatore.

Ed a proposito di Napoli. “Il libro napoletano dei morti” di Francesco Palmieri. Bella assai è Napoli. E non nel senso sciuè sciuè. E’ bella perché sta archiviando una menzogna: quella di essere costretta allo stereotipo e infatti non ha più immondizia per le strade. Non ha più quella patina di pittoresco tanto è vero che il lungomare Caracciolo, chiuso al traffico, è come un ventaglio squadernato innanzi a Partenope. C’è tutto un brulicare di vita nel senso proprio della qualità della vita. Ovunque ci sono vigili urbani, tante sono le vigilesse in bici, sono sempre più pochi quelli che vanno senza casco e quelli che li indossano, i caschi, anche integrali, non hanno l’aria di chi sta per fare una rapina. E’ diventata bella d’improvviso Napoli. Sono uno spasso gli ambulanti abusivi che se ne scappano per ogni dove inseguiti dalla forza pubblica e se qualcuno crede che il merito sia di De Magistris, il sindaco, si sbaglia. Se Napoli è tornata capitale – anche a dispetto di quella persecuzione toponomastica che è la parola “Roma”, messa dappertutto per marchiare a fuoco la sconfitta dell’amato Regno – il motivo è uno solo: Francesco Palmieri ha scritto “Il Libro napoletano dei Morti” e le anime di don Ferdinando Russo e quelle dei difensori di Gaeta hanno preso il sopravvento sui luoghi comuni. Dall'Unità d'Italia alla Prima guerra mondiale, Napoli vive il suo periodo più splendido e più buio. Un'epopea di circa sessant'anni non ancora raccontata e che ne ha segnato il volto attuale. Le vicende avventurose dei capitani stranieri, arrivati per difendere la causa persa dei Borbone, s'intrecciano con quelle di camorristi celebri e dei loro oscuri rapporti con il nuovo Stato italiano. L'ex capitale si avvia verso il Novecento tra contraddizioni storiche e sociali risolte nel sangue o in un paradossale risveglio culturale. Ma, quando calerà il sipario sul drammatico processo Cuocolo, un clamoroso assassinio in Galleria rivelerà che la camorra non è stata sconfitta. E il "prequel" della futura Gomorra. Narratore dell'intera vicenda è il poeta Ferdinando Russo. Celebre un tempo e amato dalle donne, da giornalista ha coraggiosamente denunciato la malavita ma è stato attratto dai codici antichi di coraggio della guapparia. Russo cerca il fil rouge che collega i racconti dei cantastorie napoletani alla tragica fine dei capitani borbonici: questo nesso lo ritrova nell'ineffabile enigma della Sirena Partenope, la Nera, l'anima stessa di Napoli, che si rivela nel coltello dei camorristi o irretisce incarnata in quelle sciantose di cui fu vittima egli stesso, prima con un grande amore perso poi sposando un'altra che invece non amò.

“Il libro napoletano dei morti” è un viaggio alle radici di Gomorra, scrive Luca Negri su “L’Occidentale”. Esiste un antico Libro egiziano dei morti, anche uno tibetano. In poche parole, si tratta di affascinanti manuali di sopravvivenza per l’anima nei regni dell’oltretomba. La versione italica, universalmente nota per l’altissimo valore poetico, è la Commedia di Dante. Commedia appunto perché il finale è lieto: l’anima non si perde negli inferi, fra demoni, ma ascende a Dio, come pressappoco succede nelle versioni egizia e tibetana. Ora il lettore italiano ha a disposizione anche “Il libro napoletano dei morti” (Mondadori, nella collana Strade Blu), che non è un manuale per cittadini partenopei ed italiani prossimi alla fine. O forse sì, lo è. Soprattutto se consideriamo la città sotto il Vesuvio come paradigmatica dei nodi irrisolti della nostra esausta storia patria. Comunque, è un romanzo, un grande romanzo, il migliore uscito quest’anno, a nostro giudizio. Per lo stile felicissimo che combina momenti lirici, squarci storici, immagini cinematografiche. E poi riesce a toccare temi universali, partendo da un luogo e da un tempo ben precisi: Napoli negli anni che corrono dalla conquista garibaldina all’avvento del fascismo.

L’autore si chiama Francesco Palmieri, è un maestro di Kung Fu napoletano che nella vita fa il giornalista e si occupa di economia e Cina. Uno che conosce bene misteri d’oriente, vicende e canzoni della sua città e come va la vita. Per raccontare il suo libro dei morti, Palmieri è entrato nell’esistenza e nella lingua di Ferdinando Russo, poeta, giornalista, romanziere e paroliere di canzoni (la più nota è “Scetate”) nato ovviamente a Napoli nel 1866 e morto nel 1927. Russo era amico di d’Annunzio, firma di punta del quotidiano il Mattino, partenopeo verace che detestava la napoletanità di maniera delle commedie di Eduardo Scarpetta e nelle cantate di Funiculì funicolà. Per lui, come per l’amico-nemico Libero Bovio (autore di “Reginella”), le canzoni con il mandolino rappresentavano il Romanticismo esploso a Napoli con cinquant’anni di ritardo sul resto d’Europa, non roba da cartolina. Russo era una persona seria ed onorata, un guappo, cultore di Giordano Bruno e conoscitore di molti camorristi ma sempre spregiatore della camorra. E con i suoi occhi e le sue parole vere e immaginarie, in versi e prosa, Palmieri ci racconta proprio la degenerazione della camorra: dalla confraternita fondata e regolata nel 1842 nella Chiesa di Santa Caterina a Formello, figlia di “semi spagnoli e nere favole mediterranee” alle spietate bande di “malavitosi senza norma e senza morale”. Al guappo armato solo di scudiscio e coltello, talvolta della sola minacciosa presenza, si sostituiscono “facce patibolari” bramose di soldi e potere, vigliacche al punto da imbracciare solo armi da fuoco, che male modellano le mani di chi le usa. Russo, fin da bambino, si ispirava al teatrino dei Pupi, si sentiva un paladino, un Rinaldo sempre in lotta contro il male: il traditore Gano di Magonza. E vide gli antichi paladini reincarnati negli stranieri che combatterono per la causa persa dei Borbone contro i Piemontesi invasori. Non solo per il piacere di “tirare una sassata sulla faccia di liberali biondi”, ma per difendere “più che un principe, un principio”. Franceschiello diventava un novello Carlo Magno, sconfitto, però da un’imponente macchina bellica che nemmeno schifava il fomentare odi e delazioni e l’ammazzare cristiani appena sospettati di simpatia per l’insorgenza, per i “briganti”. A proposito, Palmieri e Russo ci ricordano che lo Stato risorgimentale si servì proprio della camorra per garantire l’ordine nel regno conquistato ed assicurarsi il successo nel plebiscito del 1860. Il processo di corruzione dell’”Onorata Società” ben s’accompagnò a quello del neonato Regno d’Italia; anzi, i rapporti si fecero sempre più stretti, i fili più inestricabili, al di là di tutte le repressioni di facciata e della professione retorica di antimafia. Sconfitti zuavi e lealisti, non rimarrà che cercare la “presenza dei paladini nelle notti scugnizze”, fra i guappi non ancora degenerati in spietati assassini ed avidi imprenditori senza scrupoli e freni. Ma è sempre più difficile, la cavalleria scompare, i proiettili uccidono anche gli innocenti. La camorra, circondata da una nazione irrisolta e corrotta, svela il suo volto, la sua dipendenza dal “perenne problema demoniaco” legato alla doppia natura della Sirena Partenope che come vuole la tradizione giace sotto Napoli; creatura bellissima e mostruosa “che fu madre di quei pezzenti tarantati, di cantanti e sciantose, di camorristi” e poeti come Russo. Siamo allora sull’orlo del baratro, sotto il vulcano, a Gomorra, come epicentro delle tensioni italiche. E allora serve più che mai “una mano capace di trasformare qualsiasi cosa in Durlindana”, in spada da paladino. Con la consapevolezza evangelica che fare il crociato, “crociarsi”, significa saper portare la propria croce. Ed aiutare i propri simili in questo “strabiliante Purgatorio umano che ci avvampa tra merda e sentimenti”.

"Mai più terroni. La fine della questione meridionale" di Pino Aprile. Come abbattere i pregiudizi che rendono il meridione diverso? Come mettere fine a una questione costruita ad arte sulla pelle di una parte d'Italia? La risposta sta anche negli strumenti di comunicazione odierni, capaci di abbattere i confini, veri o fittizi, rompere l'isolamento, superare le carenze infrastrutturali. E se per non essere più "meridionali" bastasse un clic? Con la sua solita vis polemica, Pino Aprile ci apre un mondo per mostrare quanto questo sia vero, potente e dilagante. "Ops... stanno finendo i terroni. Ma come, già? E così, da un momento all'altro?" Così Pino Aprile inizia, nel modo provocatorio che gli è congeniale, questo suo pamphlet, che affronta l'annosa e scontata Questione meridionale da un'angolatura completamente diversa. In un mondo che sta cambiando a incredibile velocità, ha ancora senso definire la realtà in base a criteri geografici, come quelli di Nord e Sud, che nell'interpretazione dei più portano con sé una connotazione meritocratica ormai superata? E possibile utilizzare ancora definizioni di questo tipo quando internet, la Rete, sta tracciando una mappa che non tiene più conto dei vecchi confini, anzi se ne è liberata per ridisegnare uno spazio davvero globale, senza Sud e senza Nord, di cui fa parte la nuova generazione, tutta, figli dei "terroni" compresi? No, dice Aprile, tutto questo è irrimediabilmente finito, passato, travolto dal vento delle nuove tecnologie che, spinto da molte volontà, sta creando un futuro comune, un futuro che unisce, invece di dividere. Forse i padri non se ne sono ancora accorti, ma i figli sì, lo sanno, così come sanno che quella che hanno imboccato è una strada di non ritorno. "Il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta." Ma nello spazio virtuale, lo spazio dei giovani di tutti i paesi, le direzioni non esistono più. Boom di vendite, dice Antonino Cangemi su “Sicilia Informazioni”. E’ quasi una regola: ogni libro di Pino Aprile scatena un boom di vendite e un mare di polemiche.

Così è accaduto con “Terroni” e con “Giù al Sud”. Nel primo il giornalista  raccontava, all’anniversario del secolo e mezzo dell’Unità d’Italia, stragi, violenze, saccheggi, sottaciuti dalla storiografia ufficiale, commessi dal Settentrione contro il Meridione per accentuarne la subalternità, provocando le ire dei “nordisti” e le perplessità della maggior parte degli storici accademici. Nel secondo il meridionalista Aprile ribadiva le denunce contro i soprusi subiti dal Sud Italia, ma nello stesso tempo individuava nel Meridione le risorse migliori per “salvare l’Italia”. Nelle librerie “Mai più terroni”, un pamphlet edito da Piemme che già dal sottotitolo, “La fine della questione meridionale”, preannuncia dibattiti accesi.

Molti si chiederanno: come mai Pino Aprile paladino delle ragioni dei “terroni”, che non ha esitato a denunciare, in modo eclatante, i torti subiti dalla gente del Sud per opera di governi filosettentrionali, adesso cambia registro sino a sostenere che la questione meridionale non esiste più? Che cosa è successo nel giro di pochi anni? Lo si scopre leggendo l’agile saggio. Che sostiene una teoria piuttosto originale. E, secondo alcuni, azzardata. Nell’era industriale la distanza tra Nord e Sud si accentuava perché rilevava la posizione geografica dei luoghi dove si produceva ricchezza. Poiché le fabbriche, o la stragrande maggioranza di esse, si trovavano nel Settentrione, i meridionali erano costretti a spostarsi per lavorare e, con l’emigrazione, a vivere in un rapporto di sudditanza. Tutto è ora cambiato con l’avvento di internet. Nella stagione che si è da ultimo avviata, definita da Aprile l’era del Web, la geografia dei territori non assume più rilievo. La rete ha annullato le distanze geografiche, e non importano più dove sono collocate le imprese, la condizione delle sovrastrutture, se le autostrade o le ferrovie funzionano nel Nord e sono dissestate nel Meridione, tanto non occorre percorrerle grazie alla magia telematica. Almeno per i giovani, che a colpi di clic possono cambiare la realtà, dare sfogo al proprio estro creativo, inventare nuove fonti di ricchezza. Non a caso, sostiene l’autore, oggi l’omologazione del web ha fatto sì che tanta ricchezza sia concentrata in Paesi del Sud del mondo, quali ad esempio la Cina e l’India. D’altra parte, secondo Aprile “il Sud è un luogo che non esiste da solo, ma soltanto se riferito a un altro che lo sovrasta”. Non vi sarà perciò più Sud e non vi saranno più “terroni” per effetto della rete che permette di viaggiare restando seduti e di superare ogni barriera geografica. Niente più sopraffazioni e prevaricazioni. Alla fine la spunta, nella competizione democratica del web, chi è più creativo. Ipse dixit Aprile. E’ proprio cosi, o le sue analisi peccano di superficialità? La discussione è aperta. Da "Terroni" a "Mai più terroni", spiega Lino Patruno su “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Dal sottotitolo del primo libro («Tutto quello che è stato fatto perché gli italiani del Sud diventassero meridionali») al sottotitolo di questo («La fine della questione meridionale»). È l’itinerario di Pino Aprile: dalla denuncia di 150 anni ai danni del Sud, alla profezia che fra poco il Sud non sarà più Sud e che gli italiani del Sud non saranno più figli di una patria minore. Ci si chiede cosa sia successo in due soli anni. E come il giornalista-scrittore pugliese dai libri tanto vendutissimi quanto contestatissimi possa passare dalla rabbia per le verità nascoste sulla conquista del Sud, alla convinzione che nonostante tutto il Sud è entrato nella nuova era della parità di condizioni di partenza. Esagerazione ora o prima?La risposta è nelle stesse parole di Aprile: «Per condannare i meridionali a uno stato di minorità civile ed economica, sono state necessarie prima le armi e i massacri, poi è bastato isolarli. Ma il web è viaggiare senza percorrere spazi: scompare, così, lo svantaggio di ferrovie mai fatte e treni soppressi, di autostrade e aeroporti mancanti. Il Sud è, da un momento all’altro, alla pari. E può prendere il largo, su quella pista, perché per la prima volta, dopo 150 anni, è nelle stesse condizioni dei concorrenti». Dire web è dire Internet. Che annulla le distanze: tu puoi stare in un qualsiasi posto del mondo e lavorare per qualsiasi altro posto del mondo. E con Internet vale il tuo talento davanti al computer e basta, anche se stai, chessò, a Matera, unica città italiana senza il treno delle Ferrovie dello Stato. In questo senso Internet annulla anche le differenze di opportunità fra i territori. Con un computer un cittadino in Bangladesh ha le stesse possibilità di lavoro di un cittadino degli Stati Uniti. Così Internet può cancellare anche l’attuale svantaggio del Sud, la sua perifericità geografica: che lo Stato in 150 anni ha accentuato invece di ridurla.

Come? Creando un divario nelle infrastrutture fra Centro Nord e Sud che supera 1140 per cento. E non solo infrastrutture materiali (dalle autostrade agli aeroporti, appunto), ma anche immateriali (ricerca, formazione, sicurezza) e sociali (scuole, ospedali, assistenza). Ecco perché il terrone per la prima volta in 150 anni potrà cessare di emigrare. Facendo da casa ciò che finora può fare soltanto andando via. E dimostrandosi, se lo è, bravo quanto un privilegiato italiano del Centro Nord che finora ha avuto più possibilità di lui perché la produzione di oggetti e il lavoro crescono dove ci sono più mezzi a disposizione: a cominciare dalle infrastrutture. Il «capitale sociale», beni pubblici alla base di qualsiasi sviluppo. Aprile ci ha abituato allo sguardo lungo. Dopo quello all’indietro sulle bugie storiche verso il Sud, ecco ora quello immaginifico su un futuro possibile a favore del Sud. Col superamento di un ritardo tanto tenace e mortificante quanto mai affrontato con leggi e mezzi necessari. E col sospetto che si fingesse di cambiare qualcosa per lasciare tutto come prima. In poche parole: la ricchezza di una parte del Paese basata sulla minore ricchezza dell’altra. Con Internet oggi si fanno la metà dei lavori del mondo. E se finora il vantaggio del Nord era sfornare merci, ora il vantaggio del Sud è poter sfornare idee. E di idee i giovani terroni scoppiano: ecco la grande occasione comunicata con la perentorietà della rivelazione. Ovvio che non tutto spunti per magia: anche i computer sono meno al Sud, e non c’è in Italia quella banda larga che li faccia funzionare da computer e non da catorci. Ma la forza evocativa, la visione di Aprile è contagiosa e irresistibile anche quando suona più controversa e forse (stavolta) troppo ottimistica. Ma col pessimismo non si fa nulla. E poi leggiamo questa sua sorta di libro-testamento: ci sono racconti su ciò che fanno i giovani sudisti proiettati nel domani tecnologico da convincere che il futuro d’Italia è proprio qui. Cose entusiasmanti che nessuno avrebbe potuto immaginare (soprattutto in Puglia), meno che mai chi non guarda, sentenzia. Come nessuno avrebbe potuto immaginare, conclude Aprile, che ciò che non è riuscito ai padri, può riuscire ai figli. Cosicché presto sarà solo un ricordo che per un secolo e mezzo fummo terroni. “Giù al Sud. Perché i terroni salveranno l’Italia” di Pino Aprile è il racconto di un’Italia ancora spaccata in due, di rancori non sopiti, di ferite non rimarginate, dove i ricordi di un passato di sudditanza e soprusi non sono stati cancellati. Ma è anche la storia di nuove generazioni, colte ed intraprendenti, che fanno ribaltare atavici pregiudizi. Già autore di "Terroni", l’autore conosce bene la Storia e si è documentato con serietà e rigore prima di stendere denunce e dare aggiornamenti sulle nuove risorse. In questo viaggio giù al sud si incontrano realtà inattese, che stimolano e inorgogliscono. Il libro può essere letto per capitoli separati, ognuno spunto di riflessione. Lucida ed interessante l’analisi della nuova generazione di trentenni meridionali, colti, scaltri e fantasiosi, affamati di storia, di ricostruzione dell’identità meridionale, avvertita come risorsa economica e personale. Esenti da quel senso di inferiorità che spesso ha frenato e ancora frena i loro padri, si sentono e sono cittadini del mondo, un mondo in cui si muovono sicuri. Forte è l’interesse per l’antropologia in Calabria: è una necessità di sapere di sé, è un “bisogno di passato”, di recupero di un terreno perduto.

Come l’Odisseo omerico, il cui futuro è nella sua radice: ha già fatto il viaggio e ora torna a casa, per essere completo. Hanno desiderio e capacità di riscatto, usano i problemi come risorse, hanno idee, e le portano avanti con creatività e fiducia. Sono interessati alla riscoperta di nomi e bellezze, di luoghi e di cose, dalla toponomastica all’agricoltura, alla produzione di olii, vini, pani; forte l’orgoglio e il senso di appartenenza, per una terra “ritrovata”, per la forza fisica e morale delle sue donne, per la musica che si miscela alla poesia di antichi testi grecanici, che i giovani studiano e tramandano. In questo viaggio si incontra la Murgia, “giardino di ulivi, ricamo di vigne, regione di orgoglio” grazie alla tenacia dei suoi abitanti, che dalla sterile roccia hanno fatto emergere terra grassa e feconda. E poi la Puglia, dove “un deserto si è fatto un orto” a prezzo di un lavoro disumano. Benessere e convivenza anche a Riace, altra tappa di questo percorso, dove nel convivere e condividere di Calabresi ed extra-comunitari integrati, o di passaggio, si evidenzia un forte senso di ospitalità e umanità, e così a Sovereto, luogo di accoglienza per stranieri e tossicodipendenti, luogo di rinascita fisica e morale. Esaltanti le tante storie di giovani coraggiosi, ricchi di ingegno ed iniziative, che restano nella loro terra, rendendola migliore. Di contro, altri emigrati sembrano voler prendere le distanze dai luoghi natii, rinnegando le proprie origini, disprezzando ciò che si è perso e sopravalutando ciò che si è acquisito, in una sorta di “amputazione della memoria”.

La minorità del Calabrese è atavica, è un senso di inferiorità non scalfito dal tempo. Le privazioni subite, l’espoliazione delle antiche ricchezze, hanno costruito ed alimentato la minorità meridionale.

Ma bisogna reagire, esorta l’autore, cercando la solidarietà e l’appoggio di tutti al Nord, perché tutti sappiano, perché si raggiunga un equilibrio perduto. I testi di Pino Aprile sono il tentativo di un riscatto storico, quello di un’Italia che 160 anni fa aveva una propria identità di stato e che dopo l’Unità l’ha persa, col dominio del Nord sul Sud; sono un’esortazione, soprattutto per i giovani, al recupero di questa identità. Questo testo è una guida, ricca, aggiornata, colta, che va al di là ed oltre i luoghi e la Storia, è un compendio di storie personali e familiari, che si intersecano col territorio, sino a trasformarlo, ad arricchirlo, a renderlo appetibile. Le pagine più belle sono quelle descrittive, in cui i luoghi fisici si trasformano in luoghi dell’anima; Vieste e il suo faraglione, la cui sommità uno stilita rubava ad un gabbiano; Aliano, in Lucania, nella valle dell’Agri, “fra due marce muraglie di terra lebbrosa, tagliata dal fiume e dai suoi affluenti, disciolta dalla pioggia, butterata dal sole, che asciuga e svuota gli alveoli di creta.” … e la loro struggente bellezza si fonde nella malinconia dell’abbandono, mentre l’animo si perde nel sublime di fronte ai calanchi “orridi, belli e paurosi”. La presenza di elementi naturali, come il mare, il vento e l’energia che da essi si crea, conferisce forza e pathos ai movimenti dell’uomo sulla terra, rendendo le vicende umane grandiose. Lo sguardo dell’autore ha il privilegio della lontananza, che consente una visione d’insieme, quindi più completa e reale. Le sue parole trasudano orgoglio di appartenenza, ampiezza di orizzonti, fisici e mentali. Sono arrivato alla fine del libro, ma non sono riuscito a trovare una risposta alla domanda che mi ero fatta leggendo il sottotitolo del libro: perché i terroni dovrebbero salvare l'Italia? Così commenta Rocco Biondi. Non vedo un motivo plausibile che dovrebbe spingere i meridionali, che per 150 anni sono stati annientati dalla cultura e dall'economia nordista, ad avere un qualsiasi interesse ad impegnarsi in un qualche modo per risollevare le sorti dell'Italia cosiddetta unita. Questa convinzione mi proviene dall'attenta lettura fatta a suo tempo di "Terroni" ed ora di "Giù al Sud". I due libri di Pino Aprile sono accomunati dal riuscito tentativo di indicare possibili strade di "guerriglia culturale" per far uscire i meridionali dalla minorità cui sono stati condannati dagli artefici della malefica unità. La strada maestra è stata ed è la ricerca della "propria storia denigrata e taciuta". E questa fame di storia è avvertita come risorsa economica e personale. Si cercano i documenti, si scrive l'altra storia, quella della stragrande maggioranza degli abitanti del Sud che dopo il 1860 si sono opposti alla invasione piemontese. Si scoprono i nostri padri briganti, che hanno lottato e sono morti per la loro terra, le loro famiglie, la loro patria. Si dà vita a progetti artistici che hanno come protagonista il proprio passato, del quale non ci si vergogna più. Per andare avanti bisogna ripartire da quel che eravamo e da quel che sapevamo. I nostri antenati subirono e si auto-imposero la cancellazione forzosa della verità storica. Bisogna riscoprirla questa verità se vogliamo diventare quello che meritiamo di essere. Nel Sud i guai arrivarono con l'Unità. Le tasse divennero feroci per «tenere in piedi la bilancia dei pagamenti del nuovo Stato e concorsero a finanziare l'espansione delle infrastrutture nel Nord».A danno del Sud, dove le infrastrutture esistenti vennero smantellate. Messina, perno commerciale dell'intera area dello Stretto, perse il privilegio di porto franco, con scomparsa di molte migliaia di posti di lavoro. La Calabria, che oggi appare vuota e arretrata, era partecipe di fermenti e traffici della parte più avanzata d'Europa. In Calabria si producevano bergamotto, seta, gelsomino, lavanda, agrumi, olio, liquirizia, zucchero di canna. Per favorire l'industria del Nord si provocò il crollo dell'agricoltura specializzata del Sud, chiudendo i suoi mercati che esportavano oltralpe. Scrive Pino Aprile: «L'Italia non è solo elmi cornuti a Pontida, pernacchie padane e bunga bunga».L'Italia è anche la somma di tantissime singolarità positive esistenti nel Sud. E il suo libro è la narrazione, quasi resoconto, degli incontri avuti con queste realtà nei suoi viaggi durati tre anni dopo l'uscita di "Terroni". Pino Aprile si chiede ancora: «Perché la classe dirigente del Sud non risolve il problema del Sud, visto che il Nord non ha interesse a farlo?». E risponde: perché la classe dirigente nazionale è quasi tutta settentrionale, perché il Parlamento è a trazione nordica, perché le banche sono tutte settentrionali o centrosettentrionali, perché l'editoria nazionale è quasi esclusivamente del Nord, perché la grande industria è tutta al Nord e solo il 7,5 per cento della piccola e media industria è meridionale. E allora che fare? «Finché resterà la condizione subordinata del Sud al Nord - scrive Pino Aprile -, la classe dirigente del Sud avrà ruoli generalmente subordinati. Quindi non "risolverà", perché dovrebbe distruggere la fonte da cui viene il suo potere delegato. Si può fare; ma si chiama rivoluzione o qualcosa che le somiglia. E può essere un grande, pacifico momento di acquisizione di consapevolezza, maturità. Succede, volendo».E non ci si può limitare alla denuncia, bisogna lasciarsi coinvolgere direttamente e personalmente, per governare questi fenomeni.

Negli Stati Uniti d'America i persecutori hanno saputo pacificarsi con le loro vittime indiane, riconoscendo il loro sacrificio ed onorandole. In Italia questo non è ancora avvenuto, gli invasori piemontesi non hanno ancora riconosciuto le motivazioni della rivolta contadina e dei briganti. Noi meridionali dobbiamo pretendere questo riconoscimento. Noi meridionali l'unità l'abbiamo subita, non vi è stata un'adesione consapevole. Nei fatti essa unità è consistita nel progressivo ampliamento del Piemonte, con l'applicazione forzata delle sue leggi, strutture, tasse e burocrazia. Il Sud, ridotto a colonia, doveva smettere di produrre merci, per consumare quelle del Nord: da concorrente, a cliente. Non è vero che la mafia esiste solo al Sud. Milano è la principale base operativa per 'ndrangheta e mafia siciliana, dove si trasforma il potere criminale in potere economico, finanziario, politico. Stiamo per uscire dalla minorità, dopo un sonno di un secolo e mezzo, il Sud sembra aprire gli occhi. Lo sconfitto smette di vergognarsi di aver perso e recupera il rispetto per la propria storia. L'interesse primario dei meridionali non deve essere quello di salvare l'Italia, ma quello di valorizzare se stessi. Solo indirettamente e conseguentemente, forse, potrà avvenire il salvataggio dell'Italia intera.

SE NASCI IN ITALIA…

Quando si nasce nel posto sbagliato e si continua a far finta di niente.

Steve Jobs è cresciuto a Mountain View, nella contea di Santa Clara, in California. Qui,  con il suo amico Steve Wozniak, fonda la Apple Computer, il primo aprile del 1976. Per finanziarsi, Jobs vende il suo pulmino Volkswagen, e Wozniak la propria calcolatrice. La prima sede della nuova società fu il garage dei genitori: qui lavorarono al loro primo computer, l’Apple I. Ne vendono qualcuno, sulla carta, solo sulla base dell’idea, ai membri dell’Homebrew Computer Club. Con l’impegno d’acquisto, ottengono credito dai fornitori e assemblano i computer, che consegnano in tempo. Successivamente portano l’idea ad un industriale, Mike Markkula, che versa, senza garanzie, nelle casse della società la somma di 250.000 dollari, ottenendo in cambio un terzo di Apple. Con quei soldi Jobs e Wozniak lanciano il prodotto. Le vendite toccano il milione di dollari. Quattro anni dopo, la Apple si quota in Borsa.

Io sono Antonio Giangrande, noto autore di saggi pubblicati su Amazon, che raccontano questa Italia alla rovescia. A tal fine tra le tante opere da me scritte vi è “Italiopolitania. Italiopoli degli italioti”. Di questo, sicuramente, non gliene fregherà niente a nessuno. Fatto sta che io non faccio la cronaca, ma di essa faccio storia, perché la quotidianità la faccio raccontare ai testimoni del loro tempo. Certo che anche di questo non gliene può fregar di meno a tutti. Ma una storiella raccontata da Antonio Menna che spiega perché, tu italiano, devi darti alla fuga dall’Italia, bisogna proprio leggerla. Mettiamo che Steve Jobs sia nato in Italia. Si chiama Stefano Lavori. Non va all’università, è uno smanettone. Ha un amico che si chiama Stefano Vozzini. Sono due appassionati di tecnologia, qualcuno li chiama ricchioni perchè stanno sempre insieme. I due hanno una idea. Un computer innovativo. Ma non hanno i soldi per comprare i pezzi e assemblarlo. Si mettono nel garage e pensano a come fare. Stefano Lavori dice: proviamo a venderli senza averli ancora prodotti. Con quegli ordini compriamo i pezzi. Mettono un annuncio, attaccano i volantini, cercano acquirenti. Nessuno si fa vivo. Bussano alle imprese: “volete sperimentare un nuovo computer?”. Qualcuno è interessato: “portamelo, ti pago a novanta giorni”. “Veramente non ce l’abbiamo ancora, avremmo bisogno di un vostro ordine scritto”. Gli fanno un ordine su carta non intestata. Non si può mai sapere. Con quell’ordine, i due vanno a comprare i pezzi, voglio darli come garanzia per avere credito. I negozianti li buttano fuori. “Senza soldi non si cantano messe”. Che fare? Vendiamoci il motorino. Con quei soldi riescono ad assemblare il primo computer, fanno una sola consegna, guadagnano qualcosa. Ne fanno un altro. La cosa sembra andare. Ma per decollare ci vuole un capitale maggiore. “Chiediamo un prestito”. Vanno in banca. “Mandatemi i vostri genitori, non facciamo credito a chi non ha niente”, gli dice il direttore della filiale. I due tornano nel garage. Come fare? Mentre ci pensano bussano alla porta. Sono i vigili urbani. “Ci hanno detto che qui state facendo un’attività commerciale. Possiamo vedere i documenti?”. “Che documenti? Stiamo solo sperimentando”. “Ci risulta che avete venduto dei computer”. I vigili sono stati chiamati da un negozio che sta di fronte. I ragazzi non hanno documenti, il garage non è a norma, non c’è impianto elettrico salvavita, non ci sono bagni, l’attività non ha partita Iva. Il verbale è salato. Ma se tirano fuori qualche soldo di mazzetta, si appara tutto. Gli danno il primo guadagno e apparano. Ma il giorno dopo arriva la Finanza. Devono apparare pure la Finanza. E poi l’ispettorato del Lavoro. E l’ufficio Igiene. Il gruzzolo iniziale è volato via. Se ne sono andati i primi guadagni. Intanto l’idea sta lì. I primi acquirenti chiamano entusiasti, il computer va alla grande. Bisogna farne altri, a qualunque costo. Ma dove prendere i soldi? Ci sono i fondi europei, gli incentivi all’autoimpresa. C’è un commercialista che sa fare benissimo queste pratiche. “State a posto, avete una idea bellissima. Sicuro possiamo avere un finanziamento a fondo perduto almeno di 100mila euro”. I due ragazzi pensano che è fatta. “Ma i soldi vi arrivano a rendicontazione, dovete prima sostenere le spese. Attrezzate il laboratorio, partire con le attività, e poi avrete i rimborsi. E comunque solo per fare la domanda dobbiamo aprire la partita Iva, registrare lo statuto dal notaio, aprire le posizioni previdenziali, aprire una pratica dal fiscalista, i libri contabili da vidimare, un conto corrente bancario, che a voi non aprono, lo dovete intestare a un vostro genitore. Mettetelo in società con voi. Poi qualcosa per la pratica, il mio onorario. E poi ci vuole qualcosa di soldi per oliare il meccanismo alla regione. C’è un amico a cui dobbiamo fare un regalo sennò il finanziamento ve lo scordate”. “Ma noi questi soldi non ce li abbiamo”. “Nemmeno qualcosa per la pratica? E dove vi avviate?”. I due ragazzi decidono di chiedere aiuto ai genitori. Vendono l’altro motorino, una collezione di fumetti. Mettono insieme qualcosa. Fanno i documenti, hanno partita iva, posizione Inps, libri contabili, conto corrente bancario. Sono una società. Hanno costi fissi. Il commercialista da pagare. La sede sociale è nel garage, non è a norma, se arrivano di nuovo i vigili, o la finanza, o l’Inps, o l’ispettorato del lavoro, o l’ufficio tecnico del Comune, o i vigili sanitari, sono altri soldi. Evitano di mettere l’insegna fuori della porta per non dare nell’occhio. All’interno del garage lavorano duro: assemblano i computer con pezzi di fortuna, un po’ comprati usati un po’ a credito. Fanno dieci computer nuovi, riescono a venderli. La cosa sembra poter andare. Ma un giorno bussano al garage. E’ la camorra. Sappiamo che state guadagnando, dovete fare un regalo ai ragazzi che stanno in galera. “Come sarebbe?”. “Pagate, è meglio per voi”. Se pagano, finiscono i soldi e chiudono. Se non pagano, gli fanno saltare in aria il garage. Se vanno alla polizia e li denunciano, se ne devono solo andare perchè hanno finito di campare. Se non li denunciano e scoprono la cosa, vanno in galera pure loro. Pagano. Ma non hanno più i soldi per continuare le attività. Il finanziamento dalla Regione non arriva, i libri contabili costano, bisogna versare l’Iva, pagare le tasse su quello che hanno venduto, il commercialista preme, i pezzi sono finiti, assemblare computer in questo modo diventa impossibile, il padre di Stefano Lavori lo prende da parte e gli dice “guagliò, libera questo garage, ci fittiamo i posti auto, che è meglio”. I due ragazzi si guardano e decidono di chiudere il loro sogno nel cassetto. Diventano garagisti. La Apple in Italia non sarebbe nata, perchè saremo pure affamati e folli, ma se nasci nel posto sbagliato rimani con la fame e la pazzia, e niente più.

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

In Italia, spesso, ottenere giustizia è una chimera. In campo penale, per esempio, vige un istituto non  previsto da alcuna norma, ma, di fatto, è una vera consuetudine. In contrapposizione al Giudizio Perenne c’è l’Insabbiamento.

Rispetto al concorso esterno all’associazione mafiosa, un reato penale di stampo togato e non parlamentare, da affibbiare alla bisogna, si contrappone una norma non scritta in procedura penale: l’insabbiamento dei reati sconvenienti.

A chi è privo di alcuna conoscenza di diritto, oltre che fattuale, spieghiamo bene come si forma l’insabbiamento e quanti gradi di giudizio ci sono in un sistema che a livello scolastico lo si divide con i fantomatici tre gradi di giudizio.

Partiamo col dire che l’insabbiamento è applicato su un fatto storico corrispondente ad un accadimento che il codice penale considera reato.

Per il sistema non è importante la punizione del reato. E’ essenziale salvaguardare, non tanto la vittima, ma lo stesso soggetto amico, autore del reato.

A fatto avvenuto la vittima incorre in svariate circostanze che qui si elencano e che danno modo a più individui di intervenire sull’esito finale della decisione iniziale.

La vittima, che ha un interesse proprio leso, ha una crisi di coscienza, consapevole che la sua querela-denuncia può recare nocumento al responsabile, o a se stessa: per ritorsione o per l’inefficienza del sistema, con le sue lungaggini ed anomalie. Ciò le impedisce di proseguire. Se si tratta di reato perseguibile d’ufficio, quindi attinente l’interesse pubblico, quasi sempre il pubblico ufficiale omette di presentare denuncia o referto, commettendo egli stesso un reato.

Quando la denuncia o la querela la si vuol presentare, scatta il disincentivo della polizia giudiziaria.

Ti mandano da un avvocato, che si deve pagare, o ti chiedono di ritornare in un secondo tempo. Se poi chiedi l’intervento urgente delle forze dell’ordine con il numero verde, ti diranno che non è loro competenza, ovvero che non ci sono macchine, ovvero di attendere in linea, ovvero di aspettare che qualcuno arriverà………

Quando in caserma si redige l’atto, con motu proprio o tramite avvocato, scatta il consiglio del redigente di cercare di trovare un accordo e poi eventualmente tornare per la conferma.

Quando l’atto introduttivo al procedimento penale viene sottoscritto, spesso l’atto stanzia in caserma per giorni o mesi, se addirittura non viene smarrito o dimenticato…

Quando e se l’atto viene inviato alla procura presso il Tribunale, è un fascicolo come tanti altri depositato su un tavolo in attesa di essere valutato. Se e quando….. Se il contenuto è prolisso, non viene letto. Esso, molte volte, contiene il nome di un magistrato del foro. Non di rado il nome dello stesso Pubblico Ministero competente sul fascicolo. Il fascicolo è accompagnato, spesso, da una informativa sul denunciante, noto agli uffici per aver presentato una o più denunce. In questo caso, anche se fondate le denunce, le sole presentazioni dipingono l’autore come mitomane o pazzo.

Dopo mesi rimasto a macerare insieme a centinaia di suoi simili, del fascicolo si chiede l’archiviazione al Giudice per le Indagini Preliminari. Questo senza aver svolto indagini. Se invece vi è il faro mediatico, allora scatta la delega delle indagini e la comunicazione di garanzia alle varie vittime sacrificali. Per giustificare la loro esistenza, gli operatori, di qualcuno, comunque, ne chiedono il rinvio a giudizio, quantunque senza prove a carico.

Tutti i fascicoli presenti sul tavolo del Giudice per l’Udienza Preliminare contengono le richieste del Pubblico Ministero: archiviazione o rinvio a giudizio. Sono tutte accolte, a prescindere. Quelle di archiviazione, poi, sono tutte accolte, senza conseguire calunnia per il denunciante, anche quelle contro i magistrati del foro. Se poi quelle contro i magistrati vengono inviate ai fori competenti a decidere, hanno anche loro la stessa sorte: archiviati!!!

Il primo grado si apre con il tentativo di conciliazione con oneri per l’imputato e l’ammissione di responsabilità, anche quando la denuncia è infondata, altrimenti la condanna è già scritta da parte del giudice, collega del PM, salvo che non ci sia un intervento divino,  (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. La difesa è inadeguata o priva di potere. Ci si tenta con la ricusazione, (escluso per il pm e solo se il giudice ti ha denunciato e non viceversa), o con la rimessione per legittimo sospetto che il giudice sia inadeguato, ma in questo caso la norma è stata sempre disapplicata dalle toghe della Cassazione.

Il secondo grado si apre con la condanna già scritta, salvo che non ci sia un intervento divino, (o fortemente terrestre sul giudice), o salvo che non interviene la prescrizione per sanare l’insanabile. Le prove essenziali negate in primo grado, sono rinegate.

In terzo grado vi è la Corte di Cassazione, competente solo sull’applicazione della legge. Spesso le sue sezioni emettono giudizi antitetici. A mettere ordine ci sono le Sezioni Unite. Non di rado le Sezioni Unite emettono giudizi antitetici tra loro. Per dire, la certezza del diritto….

Durante il processo se hai notato anomalie e se hai avuto il coraggio di denunciare gli abusi dei magistrati, ti sei scontrato con una dura realtà. I loro colleghi inquirenti hanno archiviato. Il CSM invece ti ha risposto con una frase standard: “Il CSM ha deliberato l’archiviazione non essendovi provvedimenti di competenza del Consiglio da adottare, trattandosi di censure ad attività giurisdizionale”.

Quando il processo si crede che sia chiuso, allora scatta l’istanza al Presidente della Repubblica per la Grazia, ovvero l’istanza di revisione perchè vi è stato un errore giudiziario. Petizioni quasi sempre negate.

Alla fine di tutto ciò, nulla è definitivo. Ci si rivolge alla Corte Europea dei diritti dell’Uomo, che spesso rigetta. Alcune volte condanna l’Italia per denegata giustizia, ma solo se sei una persona con una difesa capace. Sai, nella Corte ci sono italiani.

Per i miscredenti vi è un dato, rilevato dal foro di Milano tratto da un articolo di Stefania Prandi del “Il Fatto Quotidiano”. “Per le donne che subiscono violenza spesso non c’è giustizia e la responsabilità è anche della magistratura”. A lanciare l’accusa sono avvocate e operatrici della Casa di accoglienza delle donne maltrattate di Milano che puntano il dito contro la Procura della Repubblica di Milano, “colpevole” di non prendere sul serio le denunce delle donne maltrattate. Secondo i dati su 1.545 denunce per maltrattamento in famiglia (articolo 572 del Codice penale) presentate da donne nel 2012 a Milano, dal Pubblico ministero sono arrivate 1.032 richieste di archiviazione; di queste 842 sono state accolte dal Giudice per le indagini preliminari. Il che significa che più della metà delle denunce sono cadute nel vuoto. Una tendenza che si conferma costante nel tempo: nel 2011 su 1.470 denunce per maltrattamento ci sono state 1.070 richieste di archiviazione e 958 archiviazioni. Nel 2010 su 1.407 denunce, 542 sono state archiviate.

«La tendenza è di archiviare, spesso de plano, cioè senza svolgere alcun atto di indagine, considerando le denunce manifestazioni di conflittualità familiare – spiega Francesca Garisto, avvocata Cadmi – Una definizione, questa, usata troppe volte in modo acritico, che occulta il fenomeno della violenza familiare e porta alla sottovalutazione della credibilità di chi denuncia i maltrattamenti subiti. Un atteggiamento grave da parte di una procura e di un tribunale importanti come quelli di Milano». Entrando nel merito della “leggerezza” con cui vengono affrontati i casi di violenza, Garisto ricorda un episodio accaduto di recente: «Dopo una denuncia di violenza anche fisica subita da una donna da parte del marito, il pubblico ministero ha richiesto l’archiviazione de plano qualificandola come espressione di conflittualità familiare e giustificando la violenza fisica come possibile legittima difesa dell’uomo durante un litigio».

Scarsa anche la presa in considerazione delle denunce per il reato di stalking (articolo 612 bis del codice penale). Su 945 denunce fatte nel 2012, per 512 è stata richiesta l’archiviazione e 536 sono state archiviate. Per il reato di stalking quel che impressiona è che le richieste di archiviazione e le archiviazioni sono aumentate, in proporzione, negli anni. In passato, infatti, la situazione era migliore: 360 richieste di archiviazione e 324 archiviazioni su 867 denunce nel 2011, 235 richieste di archiviazione e 202 archiviazioni su 783 denunce nel 2010. Come stupirsi, dunque, che ci sia poca fiducia nella giustizia da parte delle donne? Manuela Ulivi, presidente Cadmi ricorda che soltanto il 30 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia. Una percentuale bassa dovuta anche al fatto che molte, in attesa di separazione, non riescono ad andarsene di casa ma sono costrette a rimanere a vivere con il compagno o il marito che le maltrattata. Una scelta forzata dettata spesso dalla presenza dei figli: su 220 situazioni di violenza seguite dal Cadmi nel 2012, il 72 per cento (159) ha registrato la presenza di minori, per un totale di 259 bambini.

Non ci dobbiamo stupire poi se la gente è ammazzata per strada od in casa. Chiediamoci quale fine ha fatto la denuncia presentata dalla vittima. Chiediamoci se chi ha insabbiato non debba essere considerato concorrente nel reato.

Quando la giustizia è male amministrata, la gente non denuncia e quindi meno sono i processi, finanche ingiusti. Nonostante ciò vi è la prescrizione che per i più, spesso innocenti, è una manna dal cielo. In queste circostanze vien da dire: cosa hanno da fare i magistrati tanto da non aver tempo per i processi e comunque perché paghiamo le tasse, se non per mantenerli?

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

Giustizia da matti. L'ultima follia delle toghe: un'indagine sul morso di Suarez, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Una giornata come un’altra, quella di ieri 8 luglio 2014: assolvono i vertici di una delle prime aziende italiane (Mediaset) dopo aver però condannato il fondatore, condannano intanto il pluri-governatore dell’Emilia Romagna che perciò si dimette, aprono un’inchiesta surreale sul morso di Suarez a Chiellini - non l’inchiesta della Fifa: un'altra inchiesta tutta italiana - e per finire la magistratura apre, di passaggio, anche un’indagine sul concorso per magistratura. Questo senza contare le polemiche per gli sms inviati da un sottosegretario alla giustizia (un magistrato) i quali invitavano a votare un candidato per le elezioni del Csm, e senza contare, appunto, le elezioni del Csm, e senza contare, ancora, le dure parole del procuratore generale milanese Manlio Minale in polemica con l’archiviazione dell’esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati per presunte irregolarità nelle assegnazioni - prendete respiro - dopodiché Bruti Liberati ha provveduto a nuove assegnazioni che hanno portato a un nuovo esposto del procuratore aggiunto Robledo: tutto chiaro, no? Una giornata come un’altra, quella di ieri: e non dite che la magistratura sia un potere ormai incontrollabile e irresponsabile, perché potrebbero punirvi e togliervi i benefici di legge, non dite che la magistratura occupi ormai tutta la scena e, ormai priva di contrappesi, si stia cannibalizzando e al tempo stesso respinga qualsiasi riforma che possa farla riassomigliare a qualcosa di normale: non fate i berlusconiani, non fate i renziani travestiti. Da che cosa dovremmo incominciare? Quanto dovrebbe essere lungo, questo articolo, se davvero volessimo approfondire i vari addendi della giornata di ieri? Anche perché è la somma che lascia storditi. La Procura di Roma ha aperto un’indagine sul morso di Suarez durante Uruguay-Italia: l’ipotesi è violenza privata. Che dire? Come commentare? Cioè: davvero in questo preciso momento c’è un pubblico dipendente - ciò che è un magistrato - che sta occupandosi di questa sciocchezza per via di una denuncia del Codacons? E che gliene frega, al Codacons, del morso degli uruguaiani? Ma soprattutto: che ce ne frega, a noi, in un Paese che affoga nelle cause arretrate e dove gli imprenditori rinunciano ai contenziosi perché durerebbero 15 anni?

Poi c’è l’indagine della magistratura sul concorso per magistratura: e qui, invece, che cosa dovremmo pensare? Già è assurdo che basti un pubblico concorso, subito dopo gli studi universitari, per trascorrere tutta la vita da magistrato e percorrere automaticamente tutte le tappe di una lunga carriera: ma - domanda - è solo una battuta chiedersi che razza di magistrati possano uscire da un concorso truccato? Il concorso è quello del 25 e 26 e 27 giugno scorsi: un candidato ha denunciato una serie di irregolarità, il solito impiccione di un Codacons ha chiesto l’accesso ai verbali della commissione, c’è stata un’interrogazione parlamentare bipartisan, su un banco hanno trovato tre codici vidimati e timbrati dalla commissione nonostante il regolamento ne vietasse l’utilizzo: non male. Una candidata è stata scoperta mentre scriveva un tema prima ancora che la traccia venisse dettata: e questa ragazza, se passerà il concorso, finirà sino alla Cassazione. Stiamo facendo i brillanti e gli spiritosi? Rischiamo di scivolare, dite, nel qualunquismo anticasta? Ovunque rischiamo di scivolare, in verità, ci siamo già scivolati: è da almeno vent’anni che questo Paese è subordinato all’azione sempre più discrezionale delle magistrature: procure e tribunali avanzano in territori che appartenevano alla politica e l’imprigionano come i laccetti che imbrigliavano Gulliver. Quando non ci sarà più nessun mediocre politico con cui prendercela, forse, sarà a tutti più chiaro.

Strage Borsellino, errori o depistaggi? Ecco la storia “Dalla parte sbagliata”. In libreria nei primi giorni di luglio 2014 il volume di Rosalba De Gregorio, legale di sette imputati ingiustamente condannati nel primo processo su via D'Amelio, e Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico. La redazione de “Il Fatto Quotidiano” ne anticipa un brano. “Chi si nasconde dietro quel tanto vituperato «terzo livello» che ha legato mafia e pezzi delle Istituzioni attraverso il «papello», ha verosimilmente lo stesso profilo di chi ha ucciso il giudice Borsellino e di chi per 22 anni ci ha dato in pasto una storia da due lire, alla quale abbiamo voluto credere per sedare la diffusa ansia di giustizia che ha scosso il Paese nell’immediato dopo strage”, scrivono l’avvocato Rosalba Di Gregorio e la giornalista Dina Lauricella nel libro “Dalla parte sbagliata”, edito da Castelvecchi, con prefazione del magistrato Domenico Gozzo.Tre processi, 15 anni di indagini, 11 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e un nuovo processo, il “borsellino quater” che sta rimettendo tutto in discussione. Che cosa sappiamo oggi della strage di via d’Amelio e della morte di Paolo Borsellino? Davvero poco se consideriamo che la procura di Caltanissetta ha chiesto la revisione del vecchio processo. Un nuovo pentito, Gaspare Spatuzza, ha rimescolato le carte e oggi in aula, chi stava sul banco degli imputati, siede fra le parti civili. È il caso “dell’avvocato di mafia” Rosalba Di Gregorio, che da oltre vent’anni grida al vento le anomalie di un processo che si è basato sulle affermazioni di uno dei pentiti più anomali che i nostri tribunali abbiano mai visto, Vincenzo Scarantino. Per tutti e tre i gradi di giudizio ha inutilmente difeso 7 degli imputati condannati all’ergastolo (oggi tornati in libertà grazie alle dichiarazioni di Spatuzza), e nel libro racconta, con l’impeto e la passione che le è propria, in una sorta di diario di bordo, questi lunghi anni di processi e sentenze. Dina Lauricella, inviata di Servizio Pubblico, riavvolge il nastro di questa oscura storia del nostro Paese provando a riguardarla da una nuova prospettiva. I due punti di osservazione speciale sono quelli dell’ex pentito Vincenzo Scarantino e dell’avvocato Di Gregorio, legale di numerosi boss di Cosa Nostra, tra cui Bernardo Provenzano, Michele Greco e Vittorio Mangano. “Un racconto che parte dal basso, sicuramente di parte, dalla parte sbagliata, per costringerci all’esercizio di tornare indietro nel tempo, per sbarazzarci della confusione accumulata negli anni e, atti alla mano, rimettere al posto giusto le poche pedine certe”. Le stesse sulle quali, a 22 anni di distanza, è tornata ad indagare la procura di Caltanissetta. Seri e rodati cronisti, formati nell’aula bunker di Palermo durante il maxi processo, arrivati per primi sulle macerie e sui corpi dilaniati di via d’Amelio, hanno una fitta al cuore al pensiero che nei successivi 15 anni di vicende giudiziarie hanno visto, sentito e raccontato una storia che è crollata all’improvviso mostrandosi in tutta la sua fragilità. È stato l’ex procuratore generale di Caltanissetta Roberto Scarpinato a chiedere che i processi «Borsellino» e «Borsellino bis» venissero revisionati a seguito delle rivelazioni del nuovo collaboratore, Gaspare Spatuzza. È per questo che tre anni fa, undici imputati, di cui sette condannati all’ergastolo, sono tornati in libertà. Clamoroso errore giudiziario o vile depistaggio che sia, la storia è da riscrivere e chi ha penna non dovrebbe risparmiare inchiostro. Ne serve molto per raccontare fedelmente i punti salienti dei tre processi che dal 1996 al 2008 hanno indagato sull’omicidio Borsellino. Sarebbe una semplificazione giornalistica dire che dobbiamo buttare all’aria tutti questi anni per colpa di Scarantino o di chi ha creduto in lui. Le sentenze del Borsellino ter, infatti, sopravvivono al terremoto Spatuzza, ma non è un caso: in questo processo Scarantino non ha alcun ruolo. Carcere a vita per l’allora latitante Bernardo Provenzano e per altri 10 imputati di grosso calibro, nessuno dei quali tirato in ballo da Scarantino. Questo troncone scaturisce infatti dalle dichiarazioni di mafiosi doc come Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi, Giovan Battista Ferrante o Calogero Ganci. Il processo che la Procura di Catania dovrà revisionare, quando Caltanissetta stabilirà se Scarantino è o meno un calunniatore, come emerso dalle dichiarazioni di Spatuzza, è il Borsellino bis. È qui che Enzino fa da pilastro. Faticherà a distinguere i nomi dei mafiosi che coinvolge, non li riconoscerà in foto, talvolta si contraddirà, ma a fronte di un’informativa del Sisde che metteva in luce la sua parentela con il boss Salvatore Profeta, ha goduto di una fiducia che si è rivelata a dir poco esagerata.

Mostri a prescindere. Misteri e depistaggi. Finti pentiti e inchieste sballate. La strage palermitana di via Mariano D’Amelio, dove il 19 luglio 1992 morirono Paolo Borsellino e 5 agenti di scorta, non è soltanto uno dei peggiori drammi italiani: è anche uno dei più velenosi ingorghi giudiziari di questo Paese, scrive Rosalba Di Gregorio su “Panorama”. Tre processi, decine d’imputati, 7 persone ingiustamente condannate all’ergastolo e tenute in carcere 18 anni per le false verità (incassate senza riscontri dai magistrati) del pentito Vincenzo Scarantino. Poi una nuova inchiesta, partita nel giugno 2008, ha iniziato a ribaltare tutto grazie alle rivelazioni (stavolta riscontrate) di Gaspare Spatuzza. Nel marzo 2013, a Caltanissetta, è iniziato un nuovo procedimento, con nuovi imputati: il "Borsellino quarter". Da oltre 21 anni Rosalba Di Gregorio, avvocato di Bernardo Provenzano e altri boss di Cosa nostra, contesta nei tribunali le anomalie di una giustizia che si è mostrata inaffidabile come alcuni dei suoi peggiori collaboratori. Con Dina Lauricella, giornalista di Servizio pubblico, la penalista cerca adesso di riannodare i fili di una delle vicende più sconcertanti della nostra giustizia e lo fa in un libro difficile e duro, ma spietatamente onesto: Dalla parte sbagliata (Castelvecchi editore, 190 pagine, 16,50 euro). Per capire la portata del disastro d’illegalità di cui si occupa il libro, bastano poche righe della prefazione scritta da Domenico Gozzo, procuratore aggiunto a Caltanissetta: "Non ha funzionato la polizia. Non ha funzionato la magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm (...). Solo un avvocato di mafia ha gridato le sue urla nel vuoto". Urla che non sono bastate a evitare mostruosi errori giudiziari, per i quali nessun magistrato pagherà, e sofferenze indicibili per le vittime di tanta malagiustizia. Panorama pubblica ampi stralci del diario di una visita dell’avvocato Di Gregorio a un cliente sottoposto al "regime duro" del 41 bis nel carcere di Pianosa, appena un mese dopo via D’Amelio. Piombino, agosto 1992. Sotto il sole, all’imbarco, fa caldissimo anche se sono le 8 del mattino. Consegno i documenti e aspetto, ci sono altri due o tre colleghi e dobbiamo imbarcarci per Pianosa. Passano due ore di attesa e io cerco di capire perché mi sento ansiosa: in fondo, al carcere, ci vado da tanti anni. Alcuni colleghi mi hanno detto di vestirmi con abiti che possono essere buttati via, perché a Pianosa c’è troppa sporcizia, e ho indossato zoccoletti di legno, pantaloni di cotone e una maglia: tutto rigorosamente senza parti metalliche e sufficientemente brutto. Aspettiamo ancora, sotto il sole, e non si capisce perché. Tutte le autorizzazioni per i colloqui sono in regola e, infastidita dall’attesa, vado al posto di polizia per capire. "È per colpa sua se ancora non si parte". Non avevano previsto avvocati donne! Stanno convocando il personale femminile che si occupa dei colloqui dei detenuti con i parenti. Si parte. Il panorama è unico e spettacolare. Siamo arrivati a Pianosa e ci accolgono poliziotti e grossi cani che si lanciano ad annusarci appena scesi da una traballante passerella di legno. Meno male che non soffro di vertigini e non ho paura dei cani! Benvenuti a Pianosa. Sbarcati sull’isola, ci informano che è vietato avvicinarsi al mare, che non potremo acquistare né acqua, né altro: dovremo stare digiuni e assetati fino alle 17 sotto il sole, perché non c’è "sala avvocati", né luogo riparato ove attendere, né è consentito andare allo "spaccio delle guardie". (...) La perquisizione per me non è una novità, penso per rassicurarmi. E sbaglio. Nella stanzetta lurida, spoglia, vengo controllata col metal detector. Non suona perché non ho nulla di metallico addosso e allora sto per andarmene. Mi intimano di fermarmi, bisogna perquisire. Ma che significa? La perquisizione manuale non ha senso visto che non ho oggetti metallici. Chiedo a una delle due donne addette alla perquisizione perché ha indossato i guanti di lattice. Le due si guardano e una bisbiglia: "No, forse a lei no, perché fa l’avvocato". Ma che vuol dire? Ho imparato subito e ho sperimentato anche in successive visite, che a Pianosa nessuno sorride, tutti sembrano incazzati, gli avvocati sono i difensori dei mostri e quindi sembra che l’ordine sia di trattarli male: loro sono lo Stato e noi i fiancheggiatori dell’antistato. Questa etichetta, nei processi per le stragi del ’92, ce la sentiremo addosso, ma in modo diverso, forse più subdolo, certamente più sfumato: a Pianosa, invece, è proprio disprezzo. (...) Finalmente esco da quella stanzetta, sudata, anche innervosita, e passo nell’altra stanza a riprendermi il fascicolo di carte processuali, le sigarette e la penna per prendere appunti. O, almeno, pensavo di riprendere queste cose, ma la mia penna è "pericolosa" e mi danno una bic trasparente. Le mie sigarette resteranno lì, perché, per perquisire il pacchetto, sono state tutte tirate fuori e sparse sul bancone sporchissimo. Le mie carte processuali vengono lette, giusto per la sacralità del diritto di difesa. Sono di nuovo con i miei colleghi e sono nervosissima. Ci fanno salire su una jeep, con due del Gom, il Gruppo operativo mobile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che, seduti davanti a noi, ci puntano i mitra in faccia, lungo tutto il percorso che va dal punto di approdo alla "Agrippa". Terra battuta, campetti coltivati dai detenuti: gli altri detenuti di Pianosa, non quelli del 41 bis. (...) Entriamo nella "sala colloqui", se così può definirsi quella stanza stretta, divisa in due, per tutta la sua lunghezza, da un muro di cemento ad altezza di tavolino, sormontato dal famoso "vetro del 41 bis". Come sedile c’è un blocco di cemento, alle nostre spalle c’è il "blindato" che viene chiuso rumorosamente. I rumori di Pianosa sono particolari: non senti parlare nessuno, la consegna pare sia il silenzio, senti solo rumori metallici, forti, sinistri, nel silenzio dell’isola. Non parlano nemmeno i 5 detenuti che ci portano dall’altro lato del vetro. I "boss" – fra loro c’erano anche incensurati, ma questo si scoprirà con 19 anni di ritardo – hanno lo sguardo terrorizzato, si limitano ad abbassare la testa, entrano già con la testa bassa e alle loro spalle viene rumorosamente chiuso il "blindato". Provo a chiedere, per educazione, come stiano, ma nessuno risponde. Io sono uscita da lì senza aver sentito la voce di nessuno di loro. Ma che succede? Perché, anziché guardare me o ascoltarmi, questi guardano, verso l’alto, alle mie spalle? Mi giro di scatto e vedo che lo sportellino del blindato dietro di me, quello che era stato chiuso al mio ingresso, è stato aperto e una guardia del Gom li osserva. No, forse è più giusto dire che li terrorizza con lo sguardo. (...) Torno sulla jeep e sono sconvolta. Per pochi minuti di non-colloquio, sono stata trattata come un delinquente. (...) Ho parlato con giornalisti, con colleghi, con magistrati, al mio ritorno da Pianosa e mi sono sentita dire che, in fondo, non ero obbligata ad andarci e che la mafia aveva fatto le stragi. Inutile ribattere che alcuni di quelli che erano a Pianosa erano presunti innocenti, persone in attesa di giudizio: in tempo di guerra le garanzie costituzionali vengono sospese. (...) "In ogni caso" mi ha detto un avvocato civilista illuminato "se hanno arrestato loro, vuol dire che, come minimo, si sono messi nelle condizioni di essere sospettati". E già... Un vantaggio estetico, però, c’è stato sicuramente. Alla mia seconda visita a Pianosa ho trovato i miei assistiti in forma fisica migliore: tutti magri, asciutti, quasi ossuti, direi. Il cibo razionato e immangiabile ha la sua influenza sulla dieta. (...) Nel ’94 sono stati arrestati, grazie a Vincenzo Scarantino, anche i futuri condannati (oggi scarcerati) del processo Borsellino bis: tra questi, Gaetano Murana, Cosimo Vernengo, Giuseppe Urso e Antonino Gambino erano incensurati e furono accusati da Scarantino di concorso nella strage di via D’Amelio. Di questi solo Nino Gambino sarà assolto dalla grave accusa d’aver partecipato al massacro del 19 luglio ’92. Gli altri, assolti in primo grado dopo la ritrattazione di Scarantino, saranno condannati e poi riarrestati a seguito dell’ulteriore ritrattazione della ritrattazione del "pentito a corrente alternata". Oggi, dopo Gaspare Spatuzza, sono scarcerati. Tutti, comunque, erano stati amorevolmente accolti nelle carceri di Pianosa e Asinara. Uno di questi, a Pianosa, ha subìto una lesione alla retina, per lo "schiaffo" di una guardia del Gom. A un altro sono state fratturate le costole. (...) Racconta, oggi, Tanino Murana: "Appena entrato a Pianosa dopo l’interrogatorio del gip, mi hanno portato alla “discoteca". La discoteca è il nome che i detenuti hanno dato alle celle dell’isolamento, perché li si balla per le percosse e per la paura. "Eppure" dice Tanino "so che dal ’92 al ’94, che è quando arrivai io, si stava peggio. Alcuni detenuti mi hanno detto, poi, quando li ho incontrati in altre carceri, che all’inizio il trattamento era peggiore". E perché non glielo hanno raccontato subito, mentre eravate a Pianosa? "Lì non si poteva parlare: si doveva stare in silenzio nelle celle a tre, o quattro posti. Le guardie del Gom non ci volevano sentire neppure bisbigliare. Ma questo vale da quando ci portavano in sezione. Alla discoteca si stava in cella singola". Era l’isolamento. L’accoglienza al supercarcere prevedeva, per iniziare, che il detenuto si spogliasse completamente e, nudo, iniziasse a fare le flessioni sulle gambe... tante, fino a non avere più fiato e, nel frattempo, veniva preso a botte dalle guardie, cinque, sei, otto... "Non lo so quanti erano... a un certo punto non capivi più nulla e trascinandoti di peso, ti portavano, nudo e stremato, fino alla cella, in discoteca, scaraventandoti dentro la stanzetta spoglia e sporca". Qui iniziava la seconda parte del trattamento: perquisizioni, flessioni, acqua e brodaglia razionati, botte, di giorno e di notte, per non farti dormire. "Appena ti addormentavi entravano le guardie, alcune pure incappucciate, spesso ubriache e davano pugni, calci, schiaffi... Dopo un po’ di tempo ho chiesto che mi uccidessero, non ce la facevo più". (...) Ma cosa vi davano da mangiare? "Una pagnotta al giorno, due tetrapak di acqua e poi se riuscivi a mangiarlo, il piatto del giorno". Cosa sarebbe? "Una brodaglia in cui, accanto a qualche pezzetto, o filo di pasta, galleggiava roba di qualunque genere". E cioè? "Io una volta ho trovato pure un preservativo". Ecco perché erano tutti magri e asciutti. Ecco perché, quando Scarantino, nel corso del processo Borsellino, il 15 settembre ’98, ha raccontato il suo trattamento a Pianosa, i detenuti sono rimasti impassibili e noi avvocati avevamo voglia di vomitare. All’epoca, non volendo prestare fede a Scarantino, neppure in ritrattazione, ho cercato di documentarmi. Ho trovato una sentenza del pretore di Livorno10, a carico di due guardie del Gom, processate a seguito della denuncia di un ex ospite di Pianosa, per fatti accaduti in quell’isola "dal luglio ’92 all’08/01/94". (...)

La sentenza (...) riporta il racconto del denunciante, giunto a Pianosa il 20 luglio ’92. "Manganellate, strattoni, pedate, sputi e schiaffi", sia all’entrata, sia all’uscita per andare all’aria. E se "all’aria" non ci andavi, il "trattamento" ti veniva fatto in cella. Il tragitto lungo il corridoio era scivoloso (cera, o detersivo, secondo altre fonti), così si cadeva a terra, diventando bersaglio del "cordone " di 10 o 20 uomini del Gom, che si schieravano nel corridoio, a dare libero sfogo al comportamento "animalesco". Racconta il denunciante – ma non è solo lui, oggi, a riferirlo – che nello shampoo si trovava l’olio, nell’olio si trovava lo shampoo e la pasta era a volte "condita" con i detersivi. Nessuno all’epoca denunciava nulla, perché avevano tutti paura di essere uccisi. Preferivano sopportare le angherie, le botte, gli scherzi, "l’inutile crudeltà" come dice la sentenza. (...) A cosa serviva tanta violenza? Scarantino, che narra d’averla subita tutta quella violenza, sostiene d’essersi determinato a fare il "falso" pentito, perché non era capace più di resistere e non solo alle costrizioni fisiche. Oggi, e nel tempo, ascoltando i racconti di ex detenuti di Pianosa, ti accorgi che il ricordo più vivo sembra quello delle torture psicologiche: le percosse hanno certamente segnato quei corpi, ma te le narrano in modo quasi distaccato. Le hanno subite e, sembra, ormai quasi metabolizzate.

Presentazione su “La Valle dei Templi di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta,  “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio”. Un boato, sei morti, tanti misteri. Il 19 luglio del 1992 un’autobomba esplodeva in via D’Amelio uccidendo Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. A ventidue anni di distanza, nonostante le inchieste, i processi, le condanne e le successive assoluzioni, oggi ne sappiamo tanto quanto prima, tranne che per il fatto di aver preso coscienza che molto di più, rispetto la strage mafiosa, si cela dietro quell’evento criminale che ha visto falsi pentiti autori di depistaggi che ci hanno portati sempre più lontani dalla verità. Fallimenti dell’apparato investigativo e giudiziario, carenze e incongruenze che emergono sempre più chiare dalle carte processuali, che ci obbligano a fare i conti con una realtà che vorremmo inconsciamente ignorare e che ci mettono dinanzi ad una domanda alla quale non abbiamo una risposta da dare: furono soltanto madornali errori giudiziari o qualcosa di diverso e molto più grave si cela dietro le tante anomalie che hanno caratterizzato l’intera vicenda? “Dalla parte sbagliata – La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di via D’Amelio” è il libro della giornalista palermitana Dina Lauricella e dell’avvocato Rosalba Di Gregorio che racconta questi venti anni di indagini e processi, partendo dalle dichiarazioni del pentito Vincenzo Scarantino, ambigua figura le cui dichiarazioni sono spesso state smentite, per arrivare ad una certa antimafia parolaia e spesso fine a sé stessa alla quale forse poco importa che venga una volta per tutte fatta chiarezza sull’attentato che il 19 luglio del 1992 provocò la morte del Giudice Paolo Borsellino e di altri cinque innocenti caduti nell’adempimento del loro dovere. Non avrei mai pensato di dover scrivere dell’ “Avvocato del diavolo” – come ignominiosamente viene definita Rosalba Di Gregorio – difensore di fiducia di imputati dai cognomi “pesanti” quali Bontate,Pullarà, Vernengo, Marino Mannoia, Mangano, per finire con Provenzano, se non fosse stato per questo libro e per la coltre di silenzio con cui è stata artatamente coperta ogni sua presentazione. Ho conosciuto personalmente l’Avvocato Rosalba Di Gregorio e l’ho conosciuta in quelle aule giudiziarie laddove era in corso un processo per strage contro i vertici di Cosa Nostra. Lei “dalla parte sbagliata”, difensore di fiducia del boss o ex tale, io per scriverne “dalla parte giusta”, accanto ai familiari di vittime innocenti di mafia. In quell’aula non c’erano gli antimafiosi di professione, né, purtroppo, i tanti giornalisti che oggi artatamente ignorano la Di Gregorio. È facile fare antimafia così. Facile come porre il marchio di mafiosità a chi per ragioni professionali si trova a difendere “la parte sbagliata”, il “mostro”. Senza entrare nel merito del diritto, del codice deontologico della professione e su quel sacrosanto diritto alla difesa che è consentito ad ogni imputato, dell’Avvocato Di Gregorio ho avuto modo di apprezzare la professionalità, le doti umane e il contegno mantenuto durante le udienze che – a differenza di tanti difensori di cosiddette “persone per bene” che ho avuto modo di incontrare in questi anni – non l’hanno mai spinta ad andare oltre quella che era la difesa del proprio assistito avendo rispetto per l’altrui dolore e per il lavoro e la professionalità del rappresentante legale della controparte. Se questo libro dovesse servire anche a mettere un solo tassello al posto giusto per cercare di ricostruire quello che realmente accadde nel ‘92, sarebbe molto più di quanto tanti di coloro che si professano antimafiosi  hanno dato come contributo ad una Verità che forse in molti vorrebbero venisse taciuta per sempre. Se si è alla ricerca della Verità, perchè ignorare o censurare chi può dare un contributo? Perchè non conoscere o voler non fare conoscere le opinioni di chi per ragioni professionali ha seguito le vicende osservandole da un’ottica diversa ma non per questo meno valida o totalmente non rispondente a verità? Del resto – piaccia o meno -, ad oggi, la ricostruzione più verosimile di quei tragici eventi sembra essere proprio quella che emerge dal libro la cui esistenza si vorrebbe fosse ignorata. La prossima manifestazione in cui si parlerà del libro si terrà a Trieste il 12 luglio, organizzata da Libera, che da due anni è riuscita a coinvolgere i parenti di Walter Cosina, morto anche Lui nella strage del 19/7/92. Questi parenti dimenticati, di Vittime trattate come se fossero di serie” b”, hanno tanta fame anche Loro di Verità.

Questa la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi: “Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata. E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto. Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale? La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino? Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione? Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato il Csm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia. Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione? E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli. Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità. In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: ilmovimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

Rosalba Di Gregorio. Si laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo nel 1979. Nel periodo di praticantato fa esperienza politica nel Partito radicale. L’esperienza più impegnativa dell’inizio della professione sarà il primo maxiprocesso di Palermo, dove, assieme all’avv. Marasà, difenderà una decina di imputati, tra i quali Vittorio Mangano. Dall’esperienza del maxiprocesso e dall’«incontro» in aula con i primi pentiti nascerà il libro L’altra faccia dei pentiti (La Bottega di Hefesto, 1990).

Dina Lauricella. Palermitana «doc», vive a Roma da 14 anni. Ha scritto per diversi quotidiani e settimanali. Nel 2007 entra a far parte della squadra di inviati di Annozero. Per Michele Santoro firma diversi speciali, tra cui La Mafia che cambia, nella quale parla in tv per la prima volta Angelo Provenzano, il figlio del super boss. Stato criminale, la puntata di Servizio Pubblico con ospite Vincenzo Scarantino, trae spunto da questo libro.

Bombe, omicidi e stragi in Sicilia: ecco tutte le accuse a “faccia da mostro”. Pentiti lo additano, quattro procure lo indagano: Giovanni Aiello, ex poliziotto col volto sfregiato, sarebbe in realtà un sicario per delitti ordinati da pezzi deviati dello Stato, oltre che dai padrini. Dall'eversione nera degli anni '70 all'uccisione di Falcone e Borsellino: la storia scritta da Attilio Bolzoni e Salvo Palazzolo su “La Repubblica”. Ci sono almeno quattro uomini e una donna che l'accusano di avere ucciso poliziotti come Ninni Cassarà e magistrati come Falcone e Borsellino, di avere fornito telecomandi per le stragi, di avere messo in giro per l'Italia bombe "su treni e dentro caserme". Qualcuno dice che a Palermo ha assassinato pure un bambino. Su di lui ormai indagano tutti, l'Antimafia e l'Antiterrorismo. Sospettano che sia un sicario per delitti su commissione, ordinati da Cosa Nostra e anche dallo Stato. Lo chiamano "faccia da mostro" e ha addosso il fiato di un imponente apparato investigativo che vuole scoprire chi è e che cosa ha fatto, da chi ha preso ordini, se è stato trascinato in un colossale depistaggio o se è davvero un killer dei servizi segreti specializzato in "lavori sporchi". Al suo fianco appare di tanto in tanto anche una misteriosa donna "militarmente addestrata ". Nessuno l'ha mai identificata. Forse nessuno l'ha mai nemmeno cercata con convinzione. Vi raccontiamo per la prima volta tutta la storia di Giovanni Aiello, 67 anni, ufficialmente in servizio al ministero degli Interni fino al 1977 e oggi plurindagato dai magistrati di Caltanissetta e Palermo, Catania e Reggio Calabria. Vi riportiamo tutte le testimonianze che l'hanno imprigionato in una trama che parte dal tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino all'esplosione di via Mariano D'Amelio, in mezzo ci sono segni che portano al delitto del commissario Cassarà e del suo amico Roberto Antiochia, all'esecuzione del poliziotto Nino Agostino e di sua moglie Ida, ai suoi rapporti con la mafia catanese e quella calabrese, con terroristi della destra eversiva come Pierluigi Concutelli. E con l' intelligence . Anche se, ufficialmente, "faccia da mostro" non è mai stato nei ranghi degli 007. Negli atti del nuovo processo contro gli assassini di Capaci — quello che coinvolge i fedelissimi dei Graviano — che sono stati appena depositati, c'è la ricostruzione della vita e della carriera di un ex poliziotto dal passato oscuro. La sua scheda biografica intanto: "Giovanni Pantaleone Aiello, nato a Montauro, provincia di Catanzaro, il 3 febbraio del 1946, arruolato in polizia il 28 dicembre 1964, congedato il 12 maggio 1977, residente presso la caserma Lungaro di Palermo fino al 28 settembre 1981, sposato e separato con l'ex giudice di pace.., la figlia insegna in un'università della California". Reddito dichiarato: 22 mila euro l'anno (ma in una recente perquisizione gli hanno sequestrato titoli per un miliardo e 195 milioni di vecchie lire), ufficialmente pescatore. Sparisce per lunghi periodi e nessuno sa dove va, racconta a tutti che la cicatrice sulla guancia destra è "un ricordo di uno scontro a fuoco in Sardegna durante un sequestro di persona", ma nel suo foglio matricolare è scritto che "è stata causata da un colpo partito accidentalmente dal suo fucile il 25 luglio 1967 a Nuoro". Il suo dossier al ministero dell'Interno, allora: qualche encomio semplice per avere salvato due bagnanti, un paio di punzioni, per molti anni una valutazione professionale "inferiore alla media", un certificato sanitario che lo giudicano "non idoneo al servizio per turbe nevrotiche post traumatiche ". Dopo il congedo è diventato un fantasma fino a quando, il 10 agosto del 2009, è stato iscritto nel registro degli indagati "in riferimento all'attentato dell'Addaura e alle stragi di Capaci e di via D'Amelio". Il 23 novembre del 2012 tutte le accuse contro di lui sono state archiviate. Ma dopo qualche mese "faccia da mostro" è scivolato un'altra volta nel gorgo. È sotto inchiesta per una mezza dozzina di delitti eccellenti in Sicilia e per alcuni massacri, compresi attentati ai treni e postazioni militari. Le investigazioni — cominciate dalla procura nazionale antimafia di Pietro Grasso — ogni tanto prendono un'accelerazione e ogni tanto incomprensibilmente rallentano. Forse troppe prudenze, paura di toccare fili ad alta tensione. Ma ecco chi sono tutti gli accusatori di Giovanni Aiello e che cosa hanno detto di lui. Il primo è Vito Lo Forte, picciotto palermitano del clan Galatolo. La sintesi del suo interrogatorio: "Ho saputo che ci ha fatto avere il telecomando per l'Addaura, ho saputo che era coinvolto nell'omicidio di Nino Agostino e che era un terrorista di destra amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D'Amelio". Poi Lo Forte parla del clan Galatolo che progettava intercettazioni sui telefoni del consolato americano di Palermo, ricorda "un uomo con il bastone" amico di Aiello che è un pezzo grosso dei servizi, che ogni tanto a "faccia da mostro" regalavano un po' di cocaina. Dice alla fine: "Era un sanguinario, non aveva paura di uccidere". E racconta che Aiello, il 6 agosto 1985, partecipò anche all'omicidio di Ninni Cassarà e dell'agente Roberto Antiochia: "Me lo riferì Gaetano Vegna della famiglia dell'Arenella. Dopo, alcuni uomini d'onore erano andati a brindare al ristorante di piazza Tonnara. Insieme a loro c'era anche Aiello, che aveva pure sparato al momento dell'omicidio, da un piano basso dell'edificio". Il secondo accusatore si chiama Francesco Marullo, consulente finanziario che frequentava Lo Forte e il sottobosco mafioso dell'Acquasanta. Dichiara: "Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli... Un fanatico di estrema destra... dicevano che quello con la cicatrice fosse uomo di Contrada (il funzionario del Sisde condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, ndr) ". Il terzo che punta il dito contro Giovanni Aiello è Consolato Villani, 'ndranghetista di rango della cosca di Antonino Lo Giudice, boss di Reggio Calabria: "Una volta lo vidi... Mi colpì per la particolare bruttezza, aveva una sorta di malformazione alla mandibola... Con lui c'era una donna, aveva capelli lunghi ed era vestita con una certa eleganza". E poi: "Lo Giudice mi ha parlato di un uomo e una donna che facevano parte dei servizi deviati, vicini al clan catanese dei Laudani, gente pericolosa. In particolare, mi diceva che la donna era militarmente addestrata, anche più pericolosa dell'uomo ". E ancora: "Lo Giudice aggiunse pure che questi soggetti facevano parte del gruppo di fuoco riservato dei Laudani, e che avevano commesso anche degli omicidi eclatanti, tra cui quello di un bambino e di un poliziotto e che erano implicati nella strage di Capaci". Il quarto accusatore, Giuseppe Di Giacomo, ex esponente del clan catanese dei Laudani, di "faccia da mostro" ne ha sentito parlare ma non l'ha mai visto: "Il mio capo Gaetano Laudani aveva amicizie particolari… In particolare con un tale che lui indicava con l'appellativo di “ vaddia” (guardia, in catanese, ndr). Laudani intendeva coltivare il rapporto con “ vaddia” in quanto appartenente alle istituzioni ". Per ultima è arrivata la figlia ribelle di un boss della Cupola, Angela Galatolo. Qualche settimana fa ha riconosciuto Aiello dietro uno specchio: "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino". Tutte farneticazioni di pentiti che vogliono inguaiare un ex agente di polizia? E perché mai un pugno di collaboratori di giustizia si sarebbero messi d'accordo per incastrarlo? Fra tanti segreti c'è anche quello di un bambino ucciso a Palermo. Ogni indizio porta a Claudio Domino, 10 anni, assassinato il 7 ottobre del 1986 con un solo colpo di pistola in mezzo agli occhi. Fece sapere il mafioso Luigi Ilardo al colonnello dei carabinieri Michele Riccio: "Quell'uomo dei servizi di sicurezza con il viso sfigurato era presente quando fecero fuori il piccolo Domino". Poi uccisero anche il mafioso: qualcuno aveva saputo che voleva pentirsi. La figlia ribelle di un boss della Cupola ha incastrato l'uomo misterioso che chiamano "faccia da mostro". L'ha indicato come "un sicario" al servizio delle cosche più potenti di Palermo. È un ex poliziotto, forse anche un agente dei servizi segreti. Ed è sospettato di avere fatto stragi e delitti eccellenti in Sicilia. "Ne sono sicura, è lui", ha confermato Giovanna Galatolo dietro un vetro blindato. Così le indagini sulla trattativa Stato-mafia, sulle uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino - ma anche quelle sul fallito attentato all'Addaura e probabilmente sugli omicidi di tanti altri funzionari dello Stato avvenuti a Palermo - dopo più di vent'anni di depistaggi stanno decisamente virando verso un angolo oscuro degli apparati di sicurezza italiani e puntano su Giovanni Aiello. Ufficialmente è solo un ex graduato della sezione antirapine della squadra mobile palermitana, per i magistrati è un personaggio chiave "faccia da mostro" - il volto sfigurato da una fucilata, la pelle butterata - quello che ormai si ritrova al centro di tutti gli intrighi e di tutte le investigazioni sulle bombe del 1992. "È lui l'uomo che veniva utilizzato come sicario per affari che dovevano restare molto riservati, me lo hanno detto i miei zii Raffaele e Pino", ha confessato Giovanna Galatolo, l'ultima pentita di Cosa Nostra, figlia di Vincenzo, mafioso del cerchio magico di Totò Riina, uno dei padrini più influenti di Palermo fra gli anni 80 e 90, padrone del territorio da dove partirono gli squadroni della morte per uccidere il consigliere Rocco Chinnici e il segretario regionale del partito comunista Pio La Torre, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il commissario Ninni Cassarà. "È lui", ha ripetuto la donna indicando l'ex poliziotto dentro una caserma della Dia. Un confronto "all'americana", segretissimo, appena qualche giorno fa. Da una parte lei, dall'altra Giovanni Aiello su una piattaforma di legno in mezzo a tre attori che si sono camuffati per somigliargli. "È lui, non ci sono dubbi. Si incontrava sempre in vicolo Pipitone (il quartiere generale dei Galatolo, ndr) con mio padre, con mio cugino Angelo e con Francesco e Nino Madonia", ha raccontato la donna davanti ai pubblici ministeri dell'inchiesta-bis sulla trattativa Stato-mafia Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. Un riconoscimento e poi qualche altro ricordo: "Tutti i miei parenti lo chiamavano "lo sfregiato", sapevo che viaggiava sempre fra Palermo e Milano... ". La figlia del capomafia - che otto mesi fa ha deciso di collaborare con la giustizia rinnegando tutta la sua famiglia - aveva con certezza identificato Giovanni Aiello come amico di Cosa Nostra anche in una fotografia vista in una stanza della procura di Caltanissetta, quella che indaga sulle uccisioni di Falcone e Borsellino. Dopo tante voci, dopo tanti sospetti, adesso c'è qualcuno che inchioda lo 007 dal passato impenetrabile, scivolato in un gorgo di inchieste con le ammissioni di qualche altro pentito e di alcuni testimoni. Sembra finito in una morsa, da almeno un anno Giovanni Aiello è indagato dai magistrati di quattro procure italiane - quella di Palermo e quella di Caltanissetta, quella di Catania e quella di Reggio Calabria - che tentano di ricostruire chi c'è, oltre ai boss di Cosa Nostra, dietro i massacri dell'estate siciliana del 1992. E anche dietro molti altri delitti importanti degli anni Ottanta. Ora, con le nuove rivelazioni di Giovanna Galatolo, la posizione dell'ex poliziotto è diventata sempre più complicata. Questa donna è la depositaria di tutti i segreti del suo clan, per ordine del padre faceva la serva ai mafiosi, cucinava, stirava, spesso lavava anche gli abiti sporchi di sangue, sentiva tutto quello che dicevano, vedeva entrare e uscire dalla sua casa i boss. E anche Giovanni Aiello. Giovanna Galatolo parla pure del fallito attentato dell'Addaura, 56 candelotti di dinamite che il 21 giugno del 1989 dovevano far saltare in aria Giovanni Falcone sugli scogli davanti alla sua villa. Erano appostati lì gli uomini della sua famiglia, i Galatolo. C'era anche Giovanni Aiello? E "faccia da mostro" è coinvolto nell'uccisione di Nino Agostino, il poliziotto assassinato neanche due mesi dopo il fallito attentato dell'Addaura - il 5 agosto - insieme alla moglie Ida? Il padre di Nino Agostino ha sempre raccontato che "un uomo con la faccia da cavallo" aveva cercato suo figlio pochi giorni prima del delitto. Era ancora Giovanni Aiello? La sua presenza è stata segnalata sui luoghi di tanti altri omicidi palermitani. Tutti addebitati ai Galatolo e ai Madonia. Lui, l'ex agente della sezione antirapine (quando il capo della Mobile era quel Bruno Contrada condannato per i suoi legami con la Cupola) ha sempre respinto naturalmente ogni accusa, affermando anche di non avere più messo piede in Sicilia dal 1976, anno nel quale si è congedato dalla polizia. Una dichiarazione che si è trasformata in un passo falso. Qualche mese fa la sua casa di Montauro in provincia di Catanzaro - dove Giovanni Aiello è ufficialmente residente - è stata perquisita e gli hanno trovato biglietti recenti del traghetto che da Villa San Giovanni porta a Messina, appunti in codice, lettere, titoli per 600 milioni di vecchie lire, articoli di quotidiani che riportavano notizie su boss come Bernardo Provenzano e su indagini del pool antimafia palermitano, assegni. Dopo quella perquisizione, gli hanno notificato a casa un ordine di comparizione per il confronto con la Galatolo, ha accettato presentandosi con il suo avvocato. Il riconoscimento di Giovanni Aiello segue di molti anni le confidenze di un mafioso al colonnello dei carabinieri Michele Riccio. Il confidente si chiamava Luigi Ilardo e disse: "Noi sapevamo che c'era un agente a Palermo che faceva cose strane e si trovava sempre in posti strani. Aveva la faccia da mostro". Era il 1996. Poco dopo quelle rivelazioni Luigi Ilardo - tradito da qualcuno che era a conoscenza del suo rapporto con il colonnello dei carabinieri - fu ucciso. Anche lui parlava di Giovanni Aiello? Le confessioni della Galatolo stanno aprendo una ferita dentro la Cosa Nostra palermitana. Non solo misteri di Stato e connivenze ma anche un terremoto all'interno di quel che rimane delle famiglie storiche della mafia siciliana. "Come donna e come persona non posso essere costretta a stare con uomini indegni, voglio essere libera e non appartenere più a quel mondo, per questo ho deciso di dire tutto quello che so", così è cominciata la "liberazione" di Giovanna Galatolo che una mattina dell'autunno del 2013 si è presentata al piantone della questura di Palermo con una borsa in mano. Ha chiesto subito di incontrare un magistrato: "Ho 48 anni e la mia vita è solo mia, non me la possono organizzare loro". Del suo passato, la donna ha portato con sé solo la figlia. L'uomo del mistero che chiamano "faccia da mostro" l'abbiamo trovato in un paese della Calabria in riva al mare. È sospettato di avere fatto omicidi e stragi in Sicilia, come killer di Stato. È un ex poliziotto di Palermo, ha il volto sfregiato da una fucilata. Vive da eremita in un capanno, passa le giornate a pescare. Quando c'è mare buono prende il largo sulla sua barca, "Il Bucaniere". Ogni tanto scompare, dopo qualche mese torna. Nessuno sa mai dove va. Sul suo conto sono girate per anni le voci più infami e incontrollate, accusato da pentiti e testimoni "di essere sempre sul luogo di delitti eccellenti" come ufficiale di collegamento tra cosche e servizi segreti. È davvero lui il sicario a disposizione di mafia e apparati che avrebbe ucciso su alto mandato? È davvero lui il personaggio chiave di tanti segreti siciliani? L'uomo del mistero nega tutto e per la prima volta parla: "Sono qui, libero, mi addossano cose tanto enormi che non mi sono nemmeno preoccupato di nominare un avvocato per difendermi". Ha 67 anni, si chiama Giovanni Aiello e l'abbiamo incontrato ieri mattina. Abita a Montauro, in provincia di Catanzaro. Da questo piccolo comune ai piedi delle Serre - il punto più stretto d'Italia dove solo trentacinque chilometri dividono il Tirreno dallo Jonio - sono ripartite le investigazioni sulle stragi del 1992. L'ex poliziotto trascinato nel gorgo di Palermo l'abbiamo incontrato ieri mattina, davanti al suo casotto di legno e pietra sulla spiaggia di contrada Calalunga. Sotto il canneto la sua vecchia Land Rover, in un cortile le reti e le nasse. "La mia vita è tutta qui, anche mio padre e mio nonno facevano i pescatori", ricorda mentre comincia a raccontare chi è e come è scivolato nella trama. È alto, muscoloso, capelli lunghi e stopposi che una volta erano biondi, grandi mani, una voce roca. Dice subito: "Se avessi fatto tutto quello di cui mi accusano, lo so che ancora i miei movimenti e i miei telefoni sono sotto controllo, dovrei avere agganci con qualcuno al ministero degli Interni, ma io al ministero ci sono andato una sola volta quando dovevo chiedere la pensione d'invalidità per questa". E si tocca la lunga cicatrice sul lato destro della sua faccia, il segno di un colpo di fucile. Tira vento, si chiude il giubbotto rosso e spiega che quello sfregio è diventata la sua colpa. Inizia dal principio, dal 1963: "In quell'anno mi sono arruolato in polizia, nel 1966 i sequestratori della banda di Graziano Mesina mi hanno ridotto così durante un conflitto a fuoco in Sardegna, trasferito a Cosenza, poi a Palermo". Commissariato Duomo, all'anti-rapine della squadra mobile, sezione catturandi. Giovanni Aiello fa qualche nome: "All'investigativa c'era Vittorio Vasquez, anche Vincenzo Speranza, un altro funzionario. Comandava Bruno Contrada (l'ex capo della Mobile che poi è diventato il numero 3 dei servizi segreti ed è stato condannato per mafia, ndr) e poi c'era quello che è morto". Di quello "che è morto", Boris Giuliano, ucciso il 21 luglio del 1979, l'ex poliziotto non pronuncia mai il nome. Giura di non avere più messo piede a Palermo dal 1976, quando ha lasciato la polizia di Stato. Dice ancora: "Tutti quegli omicidi e quelle stragi sono venuti dopo, mai più stato a Palermo neanche a trovare mio fratello". Poliziotto anche lui, congedato nel 1986 dopo che una bomba carta gli aveva fatto saltare una mano. Giovanni Aiello passeggia sul lungomare di Montauro e spiega quale è la sua esistenza. Mare, solitudine. Pochissimi amici, sempre gli stessi. Sarino e Vito. L'ex poliziotto torna alla Sicilia e ai suoi orrori: "So soltanto che mi hanno messo sott'indagine perché me l'hanno detto amici che sono stati ascoltati dai procuratori, anche mio cognato e la mia ex moglie. E poi tutti frastornati a chiedermi: ma che hai fatto, che c'entri tu con quelle storie? A me non è mai arrivata una carta giudiziaria, nessuno mi ha interrogato una sola volta". Ha mai conosciuto Luigi Ilardo, il mafioso confidente che accusa un "uomo dello Stato con il viso deturpato" di avere partecipato a delitti eccellenti? "Ilardo? Non so chi sia". Mai conosciuto Vito Lo Forte, il pentito dell'Acquasanta che parla della presenza di "faccia da mostro" all'attentato all'Addaura del giugno 1989 contro il giudice Falcone? "Mai visto". Mai conosciuto il poliziotto Nino Agostino, assassinato nell'agosto di quello stesso 1989? "No". E suo padre Vincenzo, che dice di avere visto "un poliziotto con i capelli biondi e il volto sfigurato" che cercava il figlio qualche giorno prima che l'uccidessero? "Non so di cosa state parlando". L'uomo del mistero si tira su la maglia e fa vedere un'altra cicatrice. Una coltellata al fianco destro. "Un altro regalo che mi hanno fatto a Palermo". E ancora: "Tutti parlano di me come faccia da mostro, ma non credo di essere così brutto". Continua a raccontare, del giorno che passò la visita per entrare in Polizia: "Pensavo di essere stato scartato, invece una mattina mi portarono in una caserma fuori Roma e mi accorsi che io, con il mio metro e 83 di altezza, ero il più basso". Estate 1964. "Molto tempo dopo ho saputo che tutti noi, 320 giovanissimi poliziotti ben piantati, eravamo stati selezionati come forza di supporto - non so dove - per il golpe del generale Giovanni De Lorenzo". La famosa estate del "rumore di sciabole" contro il primo governo di centrosinistra, il "Piano Solo". Il primo intrigo dove è finito Giovanni Aiello. Forse non l'ultimo. Forse. Di certo è che su di lui oggi indagano, su impulso della direzione nazionale antimafia, quattro procure italiane. Quelle di Palermo e Caltanissetta per le bombe e la trattativa, quelle di Reggio Calabria e Catania per i suoi presunti contatti con ambienti mafiosi. I dubbi su "faccia da mostro" sono ancora tanti. Non finiscono mai.

Quando di un’inchiesta si appropriano i mass media, vincono le illazioni, i sospetti, i teoremi su una colpevolezza che viene data per certa quando ancora nessun giudice si è pronunciato. Il libro diventa un circostanziato atto d’accusa contro il circuito infernale che da troppi anni lega parte della magistratura a pezzi dell’informazione. Il dr Antonio Giangrande, cittadino avetranese, autore di decine di saggi, tra cui i libri su Sara Scazzi, denuncia in tutta Italia: ora basta questa barbarie !!!

Maurizio Tortorella, vicedirettore di “Panorama”, discute con tempi.it del rapporto fra procure e redazioni: «Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco». Carcerazione preventiva e giustizia politicizzata. Due argomenti che nella serata di venerdì, all’incontro “Aspettando giustizia” organizzato da Tempi a Milano, hanno avuto profonda risonanza. Le testimonianze del generale Mori, di Renato Farina e di Ottaviano Del Turco sono rappresentative di una giustizia che si mischia con la stampa, diventando una raffigurazione inquietante della società italiana. Tempi.it ne parla con Maurizio Tortorella, vicedirettore di Panorama e autore di un bel libro, La gogna (Boroli editore).

Quando nascono i primi processi a mezzo stampa?

«Tutto comincia con Tangentopoli. Anzi, ancora prima, quando nel 1989 una nuova modifica alla procedura penale cambia il procedimento tradizionale. Mentre prima le indagini erano portate avanti congiuntamente da due magistrati, il pubblico ministero e il giudice istruttore, che avanzavano congiuntamente, da quel momento il pm diventava l’unico titolare dell’azione penale. La polizia giudiziaria inizia a dipendere da lui. Per un tempo illimitato il pm decide su intercettazioni, perquisizioni e arresti, ecc. Nella sua azione diventa completamente libero. Ogni atto, poi, passa al vaglio del giudice preliminare, ma solo successivamente all’azione del pm. Non appena l’atto va a finire tra le mani dell’avvocato difensore dell’imputato e del giudice, diventa automaticamente pubblicabile. Spesso i pm hanno “amici” che lavorano in testate giornalistiche di cui condividono la visione politica. Questa stampa non aspetta la fine del processo, né tantomeno intervista la controparte, per gettare fango su imputati di cui non è ancora stabilita la colpevolezza».

Perché si è modificata la procedura penale?

«Si intendeva migliorare le nostre procedure penali. Il nostro codice aveva caratteristiche arretrate, ben lontane da quelle europee, considerate più moderne. Ma la cura è stata peggiore della malattia che si voleva debellare. Questo meccanismo infernale funziona anche laddove l’avvocato dell’indagato rifiuti di ritirare l’interrogatorio. È il caso di Guido Bertolaso. Sono usciti sulla stampa dei virgolettati di un interrogatorio che non potevano che venire dall’accusa, perché la difesa ha rifiutato il ritiro dei documenti. A quanto pare, è necessario sentire soltanto l’accusa per redigere un articolo».

La “gogna” mediatica colpisce tutti indiscriminatamente o ha una certa predilezione verso un colore politico?

«Il garantismo non è un’idea molto praticata in Italia. Un tempo, fino agli anni Settanta, era la sinistra a essere garantista, a fronte di una destra forcaiola che chiedeva più galera, pene pesanti e l’uso della custodia cautelare. Adesso, le parti si sono invertite. È la sinistra forcaiola a chiedere misure pesantissime, mentre il centrodestra ha un orientamento garantista».

Pubblicare stralci di documenti prima della sentenza segue la deontologia professionale?

«Si dovrebbero ascoltare più voci e diversi punti di vista prima di toccare temi così delicati. Trovo mortificante che in troppi casi un pezzo si risolva aspettando che dalla procura arrivino delle carte. Non è dignitoso che un giornalista faccia “copia e incolla” dei documenti che la procura gli passa sottobanco. Se consideri che il pm di Palermo, dopo che Panorama ha pubblicato parte dell’intercettazione tra il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e l’ex ministro Nicola Mancino, ha smentito di aver passato lui stesso le carte, giustificandosi che Panorama non è un giornale “amico”, ti spaventi. Perché significa che ci sono media “amici” e media “nemici”. E quelli amici, inevitabilmente, sono dello stesso colore politico del magistrato in questione».

La carcerazione preventiva e le lungaggini della giustizia italiana aiutano “la gogna”?

«Certo. Nello Rossi, procuratore aggiunta a Roma e appartenente a Magistratura democratica, ammette che oggi ha più impatto un arresto di una sentenza di primo grado. Perché? Sul piano emotivo, l’immediatezza di un arresto ha più effetto di una sentenza, che impiega anni prima di essere confermata o smentita. Nessuno più segue i processi – come quello di Ottaviano Del Turco – perché questi si svolgono sui giornali. Il vero processo è di carta.

Sbattere il mostro in prima pagina: quando l’orco è uno di noi, scrive in un suo editoriale Raffaella De Grazia. Massimo e Carlo, padri di famiglia realizzati e felici. Massimo e Carlo, lavoratori stacanovisti dalla vita senza ombre. Sono i vicini di casa ideali, i mariti fedeli, coloro ai quali affidereste volentieri i vostri figli, gli amici di mille bevute al bar, mentre si guarda l’ennesima partita di calcio. Se è vero ciò che sostiene Goya – e cioè che “Il sonno della ragione genera mostri” – allora Massimo e Carlo sono gli esempi più eclatanti di come, spesso, la ricerca dell’esecutore di crimini tanto efferati quanto immotivati che macchiano di sangue il nostro Bel Paese debba essere indirizzata poco lontano dalle sempre meno rassicuranti mura domestiche, più vicino a quella che l’uomo medio, erroneamente, denomina la “zona sicura”. Il “mostro”, identificato comunemente come lo sconosciuto, lo “straniero” che porta via la serenità ad una piccola comunità pare essere, invece, sempre più spesso un componente della stessa. E’ inserito perfettamente nel tessuto sociale del paese che gli ha dato i natali, contribuisce all’economia autoctona, conosce tutto di tutti. Nessuno dei suoi parenti o amici ha però idea del suo “lato oscuro”, delle sue perversioni inconfessabili, nemmeno nell’attimo stesso in cui il mostro le confessa, lasciando attoniti persino i più diffidenti tra i suoi conterranei. Il caso di Avetrana ha fatto tristemente “scuola” in tal senso. Come dimenticare lo sgomento di parenti, amici e vicini di casa nel conoscere la vera, presunta natura della famiglia Misseri, umili braccianti fuori le mura domestiche ma, al contempo, spietati killer di una 15enne, peraltro loro stretta parente? Eventi drammatici come il caso di Sarah Scazzi hanno catalizzato l’attenzione mediatica, generando un’ondata di morboso interesse attorno a simili crimini dettati dall’odio. Nello stesso periodo in cui le indagini sull’omicidio della piccola Sarah proseguivano – tra dichiarazioni ufficiali e smentite mezzo stampa – un’altra piccola, innocente creatura spariva, inghiottita dal nulla. Si trattava della 13enne Yara Gambirasio, grande sorriso e voglia di vivere appieno la sua adolescenza, oramai alle porte. Il mostro che ha privato la 13enne Yara del suo bene più prezioso – il diritto alla vita – è stato cercato ovunque. Sin dagli istanti successivi alla sua sparizione, però, il dito dell’intera comunità di Brembate di Sopra e non solo era stato puntato solo contro un operaio extracomunitario. Qual era la sua colpa? Ai compaesani di Yara era forse sembrato più facile “sbattere in prima pagina” un “corpo estraneo” alla propria comunità? Erano tanti i dubbi che circolavano attorno ad un caso così complesso, con pochi reperti a disposizione. Di certo c’è che mai nessun abitante di Brembate avrebbe immaginato di dover cercare il mostro proprio vicino a casa propria, di identificarlo nelle vesti dell’ uomo qualunque, sposato, incensurato e papà di tre figli piccoli. Ancora più cruenta è stata la svolta nel terribile, triplice omicidio di Motta Visconti. Cristina, Giulia e Gabriele hanno perso la vita per mano di una persona talmente vicina a loro da risultare assolutamente insospettabile. Ricordiamo, quasi sempre, più facilmente i nomi dei killer che delle proprie vittime, quando non dovrebbe essere così. Difficilmente, però, dimenticheremo quei volti, visibilmente felici nelle foto di rito, la cui esistenza è stata strappata via per motivi tanto futili quanto squallidi. Voleva un’altra donna il “papà-mostro” che, nella notte d’esordio “mondiale” della nostra Nazionale, ha ucciso senza pietà sua moglie ed i suoi due piccoli bimbi, di appena 5 anni e 20 mesi. Una storia raccapricciante che, man mano che il tempo passa, si arricchisce di orpelli sempre più orridi. Un altro mostro dalla faccia pulita, che sorride beffardo abbracciando sua moglie. Un altro mostro da sbattere in prima pagina, per non dimenticare l’orrore perpetrato dall’uomo comune.

Di che ci stupiamo?

Yara, fermato un uomo. E’ già il killer, scrive “Il Garantista”. Non è detto che  sia la fine del giallo iniziato quattro anni fa ma di sicuro, dopo mesi di stasi apparente nelle indagini, si configura come una svolta cruciale l’arresto di uomo di quaranta anni accusato di essere l’assassino di Yara Gambirasio. A riferire della cattura del presunto colpevole è il ministro dell’Interno in persona: «Le forze dell’ordine, d’intesa con la magistratura, hanno individuato l’assassino di Yara Gambirasio. E’ una persona dello stesso paese dove viveva la vittima»- annuncia Alfano. Ad incastrare l’uomo, un muratore  della provincia di Bergamo, sposato e  padre di tre figli, sarebbe stata l’analisi del suo Dna che è stato ritenuto dagli esperti sovrapponibile con le tracce biologiche ritrovate sul corpo di Yara ( che era astato rinvenuto il 21 febbraio  2011 dopo quasi un anno di estenuanti ricerche). Per maggiori dettagli Alfano invita ad essere pazienti e aspettare le prossime ore. Pazienza di cui però il ministro e la maggior parte dei media non hanno dato prova additando un uomo che non è nemmeno  ancora stato messo sotto processo come  inequivocabilmente colpevole. 

Caso Yara, così la stampa sbatte il mostro in prima pagina, scrive Angela Azzaro su  “Il Garantista”. Un presunto colpevole – al solito – che diventa senza dubbio l’assassino. Un fermato che viene dato – al solito – in pasto alla rabbia del popolo. Le indagini sull’omicidio di Yara Gambirasio sono diventate una brutta pagina di giornalismo e politica, e stavolta non è colpa della magistratura. Anzi, la procura di Bergamo, a poche ore dal fermo di Massimo Giuseppe Borsetti, è dovuta intervenire in polemica con il ministro dell’Interno. Perché Alfano aveva dato la notizia parlando di “assassino”. Sentenza già emessa. Il procuratore Francesco Dettori si è sentito obbligato a intervenire, per correggere: «Volevamo il massimo riserbo. Questo anche a tutela dell’indagato in relazione al quale, rispetto alla Costituzione, esiste la presunzione di innocenza». Il capo del Viminale – ex ministro della Giustizia – questi dettagli del diritto non li conosce bene. Perciò ha tuonato, mettendo da parte ogni dubbio: il popolo italiano «aveva il diritto di sapere e ha saputo per essere rassicurato». L’intervento di Alfano ha provocato un vero e proprio linciaggio. Rafforzati dall’intervento del ministro, quasi tutti i giornali, sia nella versione cartacea ma soprattutto in quella on line, hanno dato libero sfogo alla caccia al mostro. Il muratore fermato è diventato immediatamente il reietto, la sua foto sbattuta in prima pagina. Con facebook ci vogliono pochi secondi, si entra nei profili, si prende l’immagine e si fa girare con scritto: è lui il killer. Ma è facile anche prendere altre foto, come quelle con i tre figli, due bambine e un bambino, o quelle con la moglie, adesso chiusi in casa per paura di ripercussioni. La caccia al mostro: giornali all’assalto. Tra i titoli peggiori letti ieri, spicca quello di Repubblica. “E’ lui l’assassino di Yara”, dove le virgolette servono formalmente per riprendere la dichiarazione di Alfano, sostanzialmente sono un modo per condannare ma salvandosi la coscienza. Senza ipocrisie, Libero (“Preso l’assassino di Yara”) e il Giornale che mette insieme Yara e il caso di Motta Visconti (“Schifezze d’uomini”). Su molti quotidiani campeggiava la foto del “colpevole” e vicino, quasi citazione di un mondo che fu, la parola “presunto”. A non mettere in prima pagina la foto del mostro solo pochi giornali, tra cui il Corriere (che la pubblica all’interno, ma l’aveva pubblicata sull’home-page dell’on line) e l’Unità. Per il resto un lancio di pietre virtuali e l’indicazione della via dove abita la famiglia del fermato, fosse mai che qualcuno voglia provare a farla pagare a loro. Un caso esemplare di gogna mediatica. Certo, non è la prima volta che assistiamo a processi sommari di questo tipo. Sempre più spesso in Italia la presunzione di innocenza è un valore costituzionale di cui vergognarsi. Sono tanti i casi soprattutto di cronaca che diventano processi pubblici, senza né primo, né secondo, né terzo grado di giudizio. La sentenza è immediata, la condanna certa. E poco importa se poi nelle aule di tribunale mancano le prove certe. Questa volta però è accaduto qualcosa di più grave: un ministro dell’Interno che dovrebbe far rispettare le regole è stato il primo a “tradirle” in nome del clamore e della pubblicità personale che avrebbe potuto ricavare dalla vicenda. Del resto, bisogna dire che non è la prima volta che i giornali annunciano la cattura dell’assassino di Yara. Con la stessa certezza di oggi descrissero come mostro un ragazzetto egiziano, arrestato 24 ore dopo l’omicidio, e che – si seppe dopo un paio di settimane – con l’omicidio non c’entrava niente di niente ed era stato fermato per un clamoroso errore degli inquirenti. Proprio un caso come questo, così estremo, ci aiuta a capire ancora meglio come il rispetto delle regole sia fondamentale. Tutto fa pensare che Massimo Giuseppe Borsetti sia colpevole, ma proprio per questo dobbiamo essere cauti, per far sì che il processo si svolga nel migliore dei modi, senza interferenze e senza decidere al posto dei giudici. Solo così si può garantire una giustizia giusta e non processi sommari. Ma soprattutto solo in questo modo possiamo evitare di diventare meno umani, più incivili. Il sangue richiama sangue. La parola assassino solletica gli istinti peggiori. Dopo l’arresto del presunto assassino di Yara e dopo la confessione di Carlo Lissi di aver ucciso lui la moglie e due figli a Motta Visconti, sul web è partita una gara a chi la sparava più grande. Dall’ergastolo alle pene corporali. Fino alla richiesta di ripristinare la pena di morte, avanzata da Stefano Pedica, esponente della direzione del Pd, e dal suo compagno di partito, il senatore Stefano Esposito.

Yara: l'oscenità della giustizia-spettacolo, scrive Marco Ventura su “Panorama”. La cattura del presunto killer doveva avvenire senza clamori, proteggendo innocenti e minori. Invece, nel tritacarne, ci sono finiti tutti. Uno spettacolo immondo, inaccettabile, folle. Senza nulla di umano, di corretto, di giustificato. È la vicenda-spettacolo della cattura del presunto assassino di Yara Gambirasio. Una storia terribile, data in pasto senza le dovute cautele - complici autorità e giornalisti - a una pubblica opinione insieme respinta e attratta, attonita ma anche, forse, perversamente golosa dei particolari raccapriccianti, addirittura piccanti, di uno dei più clamorosi delitti di cronaca degli ultimi anni: Yara, la ragazzina di 13 anni uccisa il 26 novembre 2010 e ritrovata dopo tre mesi. Questa tragedia è diventata un thriller, un giallo, uno show, un noir, una gara a chi annuncia per primo la chiusura del caso (che non c’è). A chi ricama meglio. Sui giornali, in televisione, su Twitter. Senza ritegno, senza alcun rispetto per le famiglie coinvolte. Un intreccio sul quale ha improvvidamente alzato il sipario il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, quando secondo i magistrati non erano ancora concluse le operazioni di convalida del fermo del presunto assassino, Massimo Giuseppe Bossetti. Da dove cominciare per dire quanto dovremmo provare disagio per noi stessi, per questo paese, per chi ha gestito la vicenda? Potrei cominciare da un’ipotesi che oggi pare assurda ma che troppi errori giudiziari inducono a non considerare così improbabile: l’ipotesi che l’arrestato sia innocente. A dispetto delle notizie trapelate sul test del Dna confrontato con la macchia di sangue rinvenuta sugli slip della vittima. A dispetto delle convinzioni degli inquirenti (i primi però a invitare alla cautela, perché la prova del Dna non è certa al mille per mille, parliamo sempre di probabilità). L’altro elemento è la quantità di vite umane gettate nel tritacarne di una troppo affrettata divulgazione delle indagini. Adulti e minori, padri e patrigni, figli e figlie, gemelli, fratelli e fratellastri, madri, amanti, cugini, suoceri, amici... Ormai sappiamo tutto (dell’accusa). Il carpentiere sarebbe figlio illegittimo della relazione tra un autista morto (e riesumato) e una donna sposata. L’autista ha una vedova e tre figli (che non c’entrano nulla ma si ritrovano sulle prime pagine dei giornali: un imprenditore “di successo”, una madre “felice” e un idraulico “stimato”). I cronisti di “Repubblica” scrivono che tacciono, “introvabili dietro i loro citofoni nel centro di Clusone”. Già. L’assedio è cominciato, chissà quanto dovrà durare. C’è la madre del presunto assassino, che nega la relazione clandestina ma nessuno le crede e viene descritta come “la donna dei misteri”, barricata dietro le persiane della sua casa di Terno d’Isola. Addirittura i giornalisti abbozzano sentenze: lei assicura che Massimo “è figlio naturale di mio marito”, e così “tenta di salvarlo dalle accuse che lo hanno travolto”. Ecco i sospetti, nascosti dietro punti interrogativi. Lei cerca “di difendere anche di fronte all’evidenza quel segreto inconfessabile che solo gli esami del Dna hanno potuto svelare? E soprattutto: è stata lei negli ultimi mesi più consapevole del figlio che il cerchio delle indagini si stava stringendo attorno a Massimo?”. Già, perché tutti a chiedersi se Massimo sapesse, a sua volta, di essere figlio illegittimo di un altro padre. E con lui la sorella gemella. Poi c’è il terzo figlio, fratellastro di Massimo, di nome e di fatto del padre che non sa più se credere alla moglie e affronta il rovello di un possibile adulterio di oltre quarant’anni fa. Poi ci sono i figli del presunto omicida. Che sono piccoli, hanno 13, 10 e 8 anni. Da chi hanno saputo che il padre è accusato di un delitto così efferato? Come potranno proteggersi se l’altro giorno, durante il primo interrogatorio di Bossetti, tutti sapevano tutto e qualcuno pensava al linciaggio? C’è la moglie del presunto assassino, e madre dei tre bambini (la madre, suocera dell’arrestato, viene fotografata mentre si affaccia a una finestra col cane). Ovviamente diventa titolo sui giornali che lei non fornisca un alibi al marito. Dice di non ricordare. “È strano, molto strano”, osserva il “Corriere della Sera”. “Perché quel 26 novembre del 2010 quando Yara sparì all’improvviso, la notizia circolò velocemente. E già durante la notte cominciarono le ricerche diventate poi mobilitazione di centinaia di persone per giorni e giorni”. Fino al 26 febbraio 2011, quando fu ritrovata. “Possibile che una persona della zona, per di più mamma, non ricordi che cosa ha fatto quella sera?”. Io dico: è possibile eccome. “Che non abbia tenuto a mente ogni dettaglio e spostamento del marito, dei figli, degli altri familiari. Il dubbio è che lei sappia tutto, ma abbia così deciso di marcare la distanza dall’uomo diventato il mostro”. Ma se sono passati tre anni e mezzo! Ma come si fa a tranciare sospetti così. Non mi è piaciuto neppure l’incontro del Procuratore di Brescia, Pier Luigi Maria Dell’Osso, con i giornalisti, quelle risate sull’adulterio e sulla gemella di Bussetti come “complicazione” per le indagini. Tutto assurdo, tutto fuori luogo. E dire che invece il questore di Bergamo, Fortunato Finolli, ha correttamente e ripetutamente precisato che il caso non è per nulla chiuso, che bisogna ancora fare accertamenti e che poi dovrà tenersi il processo, “con le dovute risultanze e il dovuto contraddittorio”. Era tanto difficile mantenere questa linea? Infine, la parte più tragica, quella dei genitori di Yara, costretti a leggere dopo tanti anni che nelle tre pagine con cui il pubblico ministero dispone il fermo di Bossetti ci sono quelle righe che fanno titolo sui giornali: “con l’aggravante di avere adoperato sevizie e avere agito con crudeltà”. Sì, i genitori di Yara sono i più cauti e taciturni. Gli unici, quasi, all’altezza di questo mare di sofferenze. E sono quelli che hanno sofferto (e soffrono) di più. Non spetta a un ministro condannare un indagato, scrive Riccardo Arena su “Il Post”. l processo penale si celebra solo nelle aule di giustizia (e non sui giornali). La sentenza di condanna viene pronunciata solo da un giudice (e non da un Ministro dell’Interno). Ogni imputato è presunto non colpevole fino a condanna definitiva. Sono questi concetti ovvi per un Paese che si dice civile. Concetti che evidentemente non sembrano così ovvi per il Ministro dell’Interno Angelino Alfano. Ministro che si è affrettato ad emettere la sua condanna definitiva nei confronti di un indagato. “Le forze dell’ordine” ha sentenziato Alfano “hanno individuato l’assassino di Yara”. Una frase categorica capace di superare la necessità di celebrare un processo. Un’affermazione lapidaria che si è sostituita a tre gradi di giudizio: Corte d’Assise, Corte d’Appello e Corte di Cassazione. Eppure nessuna norma attribuisce al Ministro dell’Interno il compito di emettere sentenze né di diffondere notizie che riguardano esclusivamente le attività istituzionali dei magistrati. Attività dei magistrati che, soprattutto quando riguardano casi che sono nella fase delle indagini, necessitano del massimo riserbo. Riserbo che se violato potrebbe nuocere alle indagini stesse. Ma c’è dell’altro. La gogna politica di Alfano ha prodotto anche una gogna mediatica su tanti giornali. Una gogna mediatica fatta di titoli in prima pagina che hanno riportato tra le virgolette la sentenza emessa da Alfano: “Yara, preso l’assassino”. È la contaminazione dell’errore. È l’epidemia del decadimento. Resta infine un ultima perplessità: perché il ministro Alfano si è spinto tanto oltre? Al momento non è dato saperlo, anche se è preferibile non pensare al peggio. Ovvero che lo abbia fatto per ragioni di visibilità. Approfittare dell’omicidio di una tredicenne per andare sui giornali sarebbe una condotta davvero inqualificabile. Forse anche peggiore che fingersi giudice.

Caso Scazzi. La pubblica opinione è la "Cavia" di chi ha il potere di trasmettere formule retoriche elementari e ripetitive..., scrive Gilberto Migliorini. Alla fine il topolino partorisce la montagna. Forse l’opera strapperà il primato À la recherche du temps perdu in sette volumi di Marcel Proust. Non tanto per la lunghezza quanto per il tema della rievocazione come oeuvre cathédrale, con quella memoria spontanea e creativa. Come era del tutto logico prevedere, tutto un sistema di sillogismi (teoremi) può risultare una corposa esercitazione di verità apodittiche e dimostrazioni congetturali. Quando ci si avventura sulla strada delle inferenze induttive, quando si dimenticano i fatti e si introducono interpretazioni senza metterle al vaglio di altri fatti, quando non si tiene conto che i testimoni sono suggestionabili dal sistema mediatico e che più ci si allontana nel tempo da un evento tanto più subentrano fisiologicamente mille cose a inquinare e deformare la memoria… si finisce per dar credito alle fantasie, alle illazioni e alle deduzioni senza base empirica, scambiando per prove quelli che sono solo indizi lacunosi e inconsistenti, ricostruzioni di fantasia. Ne nasce un mastodontico zibaldone da leggere come una prolissa inventio di accadimenti, magari anche avvincente, ma priva di quella che si suole chiamare verosimiglianza. Il caso ricorda il feuilleton, quel romanzo d’appendice pubblicato a episodi e rivolto a un pubblico di massa, di bocca buona. I detrattori direbbero di un sottogenere letterario che anticipa certi moderni rotocalchi o le novelle di riviste prevalentemente femminili. Non a caso una delle opere più famose è i Misteri di Parigi (Les Mystères de Paris), di Eugène Sue, romanzo pubblicato a puntate, fra il 1842 e il 1843 su Le Journal des Débats. Non è da dimenticare che dai Misteri di Parigi trarrà ispirazione Victor Hugo con la prima versione de I miserabili (intitolata Les mystères) e Alexandre Dumas (padre), con il suo Edmond Dantès. Il romanzo d'appendice inaugura quella letteratura di massa che ai giorni nostri è andata annacquandosi nel genere dei rotocalchi e soprattutto nei format televisivi nazional-popolari. L’attuale romanzo d’appendice televisivo ha perso qualsiasi velleità letteraria per diventare soltanto un sistema di gossip salottiero con divagazioni psico-sociologiche da accatto, connotate da una sorta di narcisismo retorico da libro cuore (Les Mystères de Paris conservava invece ispirazione e perfino denuncia dei mali sociali, contro la società del suo tempo, contro un sistema giudiziario ed economico incapace di punire i veri colpevoli, anticipando le più complesse e approfondite analisi del naturalismo dei fratelli Goncourt, di Zola e del verismo italiano). Tutta la storia relativa al caso di Avetrana è ricca di misteri, cominciando dalle strane confessioni di Michele, ma nello stesso tempo risulta un caso senza capo né coda, un insieme di fotogrammi spaiati e senza logica. Nulla che abbia la parvenza di un mosaico dove le tessere si embricano con naturale verosimiglianza, sembra piuttosto un collage dove tutto ha l’apparenza di un quadro surreale, quasi un sogno con un incubo al risveglio. Evidentemente c’è un’altra verità che sfugge alla comprensione. Solo un’indagine che riparta da zero può riuscire a mettere insieme le tessere del puzzle senza pregiudizi e senza teoremi, con esiti che potrebbero risultare del tutto imprevedibili, forse perfino ribaltando ruoli e status dei personaggi. Di certo e assodato, c’è solo il corpo della povera ragazza in fondo al pozzo e quelle strane narrazioni di Michele, con un carattere vagamente onirico, e quei sogni che fanno da contraltare a una vicenda avvolta in una sorta di fantasia spettrale. Tanti operatori del settore criminologico (omicidi irrisolti) che affollano gli studi televisivi dimostrano notevoli capacità dialettiche quando discettano di cold case. Un florilegio di analisi e di affermazioni fondate su fantasticherie, dicerie, astruserie, pressapochezze… i classici ragionamenti per assurdo, sillogismi formulati senza il ben che minimo riscontro, tutto sulle spalle di poveri cristi messi alla berlina e senza che nessun settore del parlamento italiano abbia niente da ridire, rappresentanti politici solitamente così pronti ad attivarsi quando si invocano i diritti inalienabili della difesa per uno di loro fino al completamento di tutto l’iter giudiziario. Due imputate sono tenute in galera con motivazioni a dir poco sorprendenti in attesa dei successivi gradi di giudizio. Ovvio che due donne di estrazione contadina - che tutto un sistema massmediatico ha provveduto a rappresentare come diaboliche e perverse assassine - sono in grado con la loro rete di connivenze e di conoscenze non solo di inquinare le prove servendosi del loro mostruoso sistema di supporto e di protezione, ma, fidando su relazioni internazionali distribuite in vari paesi, possono proditoriamente sottrarsi con la fuga in qualche paradiso fiscale dove hanno accumulato cospicue risorse finanziarie grazie alla loro attività come bracciante agricola e estetista a tempo perso. Un sistema di linciaggio morale nei confronti di altri presunti colpevoli di omicidio (fino a sentenza definitiva), o semplicemente di persone entrate per caso in qualche cold case, va avanti ormai da anni (salvo qualche meritoria eccezione di opinionisti garantisti) in trasmissioni televisive che fanno illazioni e ricavano teoremi non già attraverso inchieste basate su dei fatti - mediante una meticolosa e obiettiva ricerca di riscontri, magari sul modello della controinchiesta tesa a sottolineare i dubbi e le incongruenze a favore del più debole o del meno ‘simpatico e fotogenico’ - ma su delle interpretazioni capziose con l’unico fine di creare audience indipendentemente da criteri di verità, obiettività e trasparenza. A questo si aggiungono sedicenti esperti che forniscono interpretazioni scientifiche senza indicare alcun criterio epistemologico, ma solo sulla base di considerazioni empiriche o semplicemente di impressioni soggettive. Semplificazioni che farebbero inorridire qualunque investigatore serio abituato a esercitare il dubbio e a relativizzare le conclusioni in ragione della complessità della realtà investigativa (con tutte le sue implicazioni giuridiche e metodologiche). Si tratta dei limiti di qualsiasi stereotipo di indagine applicato a situazioni che non sono mai quelle di laboratorio in cui si possono individuare con assoluta certezza le variabili (dipendenti e indipendenti) in una situazione controllata. Programmi con opinionisti che parlano spesso senza cognizione di causa, senza veri strumenti interpretativi, senza esperienza sul campo… ma influenzando e orientando un’opinione pubblica educata alla superficialità. Un processo di retroazione che finisce per determinare una sorta di profezia che si autoadempie attraverso l’individuazione di colpevoli sulla base esclusivamente di una influenza mediatica che nei casi più estremi diventa psicosi collettiva e ricerca di un capro espiatorio. Tutto questo avviene soprattutto in periodi di crisi, quando le difficoltà socio-economiche delle famiglie e la ricerca di compensazioni alle frustrazioni e all’angoscia del futuro determinano situazioni di stress e il bisogno di scaricare tensioni e difficoltà emozionali attraverso identificazioni proiettive e protagonismi per interposta persona. Da anni si effettua una sorta di teatro dell’assurdo con giudizi sommari attraverso format ammantati di approfondimento informativo con un circo di opinionisti dall’aria da Sherlock Holmes, armati vuoi di un armamentario da detective improvvisato e vuoi con teorie vagamente neo-lombrosiane, frenologiche, o vuoi semplicemente con il supporto dell’autorevolezza presenzialista di volti da sempre incorniciati nel rettangolo del televisore. La locuzione in dubbio pro reo assume un valore puramente teorico se non entra a far parte dei processi di inferenza logica già nella fase preliminare delle indagini, come forma mentis, in caso contrario, una volta presa una strada è come viaggiare sui binari della ferrovia andando in capo al mondo (un mondo per lo più inventato attraverso teoremi fantasiosi e prove(tte) abborracciate con molta fantasia e zero riscontri. Il dubbio investigativo dovrebbe costituire l’abito mentale di qualsiasi ricerca in qualsiasi ambito. Quel dubbio metodico che consente di tornare continuamente sui propri passi per verificare che qualche perverso particolare possa aver messo l’indagine su una strada sbagliata. Con l’avvento delle prove scientifiche, armi notoriamente a doppio taglio se usate come verifica, e non come falsificatori potenziali, si possono davvero fare danni notevoli. Alcuni sanno lavorare con metodo e consapevolezza, ma altri scambiano un indizio per un passepartout che in quattro e quattr’otto risolve un caso miracolosamente. Siamo tutti in pericolo di errore giudiziario, e senza voler fare di ogni erba un fascio, perché il lavoro dell’inquirente e del giudice è duro, difficile e oneroso (e in qualche caso molto pericoloso quando si ha a che fare con la delinquenza organizzata come la storia del nostro paese dimostra con veri eroi che hanno pagato con la vita l’abnegazione e il servizio alla collettività). Occorre però dire che spesso si ha l’impressione che la categoria si chiuda a riccio in una autodifesa, a prescindere, quando qualcuno dei suoi rappresentanti non si dimostra all’altezza...Il caso di Michele Misseri è poi emblematico. Si tratta di un contadino che in più di un’occasione ha dimostrato di trovarsi in un grave stato confusionale, che ha accumulato una serie di confessioni (narrazioni) diverse, contraddittorie e inattendibili, un teste che porta indizi senza prove, che dichiara cose senza riscontri (nessun elemento che attesti che nella casa di via Deledda sia avvenuto un delitto, nessun elemento che dimostri che la sua auto abbia trasportato un cadavere, nessun elemento che provi che lui abbia infilato il cadavere nel pozzo, nessuna prova che la povera Sarah abbia raggiunto la casa di via Deledda. L’uomo, in palese stato di sofferenza psichica, non viene sottoposto a perizia psichiatrica per capire qualcosa di più della sua personalità, se per caso non sia stato invece semplice testimone di qualcosa che lo ha sconvolto emotivamente. Tornando ai mass media e alla loro utilizzazione, occorre dire che l’influenza sull’opinione pubblica è tale da determinarne l’orientamento e da influenzarne l’interesse puntando sulla spettacolarizzazione e facendo leva sulla curiosità morbosa e sul giudizio di pancia, abituando il target a dare valutazioni basate sull’emotività e sul disimpegno. Tale atteggiamento è tanto più diseducativo quanto più trasforma l’audience in un modello di elettore sempre meno informato e che offre risposte pavloviane. Non a caso i cold case, in quanto casi irrisolti e problematici, rappresentano un test di influenza e un banco di prova su un target sprovvisto di autonomi e adeguati strumenti interpretativi, sempre più influenzabile attraverso l’uso di format che ne orientano le scelte e le modalità di reazione, con input emozionali programmati secondo il vecchio e inossidabile modello SR. Il caso in parola risulta emblematico, dal punto di vista mediatico, della facilità con la quale l’opinione pubblica può essere influenzata utilizzando una comunicazione basata su formule retoriche elementari e ripetitive e senza mai mettere in dubbio i contenuti espressi dall’autorevolezza del mezzo televisivo…

Quando la giustizia semina morti si chiama ingiustizia: Mimino Cosma è uno dei tanti uccisi dalla malagiustizia? Scrive Massimo Prati sul suo Blog, Volando Controvento. Per tanti di noi è difficile capire cosa significhi vivere nello stress e cosa lo stress porti in dote al fisico umano. Parlo in special modo dei giovani, di quelli fortunati che non hanno mai avuto a che fare con le disgrazie e vivono ancora nella leggerezza della loro età senza mai essere passati fra quelle brutte esperienze che cambiano il modo di vedere la vita. Inoltre, non tutte le persone soffrono in maniera cruenta lo stress: questo perché non siamo tutti uguali, non tutti reagiamo alla stessa maniera e non tutti siamo costretti a vivere quelle tragedie familiari che stroncano il pensiero e marciscono la speranza. Eppure i periodi stressanti esistono e prima o poi toccano a tutti noi. Chi non trova lavoro e non sa come andare avanti soffre di stress. Chi ha una famiglia e non sa come mantenerla soffre di stress. Una donna incinta che non si sente pronta a diventare madre soffre di stress. Suo marito, a cui un figlio cambierà radicalmente la vita, soffrirà di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un padre o di una madre, perdendo un punto di riferimento importante, soffre di stress. Chi subisce la morte improvvisa di un figlio, perdendo quanto di più caro aveva al mondo, soffre di stress. Lo stress è sempre dietro l'angolo, pronto a colpire chiunque nei momenti meno attesi. Anche le persone a cui pare andare tutto bene. Per capire a cosa portino i periodi stressanti, possiamo far riferimento a diversi studi scientifici. Ad esempio il Brain and Mind Research Institute dell'Università di Sydney, ha pubblicato una ricerca sul Medical Journal of Australia in cui stabilisce che l'infarto è provocato dallo stress che eventi diversi possono scatenare nell'uomo. Ma non è lo stress da lavoro che uccide, non è quello che si prova in ufficio o in una catena di montaggio. No, a uccidere è quello provocato da fatti imprevisti, straordinari, e da tragedie familiari. Un altro studio, questa volta dei ricercatori della Ohio State University, pubblicato sul "Journal of Clinical Investigation" nell'agosto del 2013, ha cercato di stabilire come i tumori possano svilupparsi in caso di stress. Da tempo immemore la scienza ha ipotizzato una correlazione fra stress e cancro, senza però mai individuare un nesso concreto che portasse a una conferma della supposizione. Ma la ricerca non ha smesso di studiare e sperimentare, ed ora gli scienziati statunitensi hanno trovato nel gene ATF3 la possibile chiave per lo sviluppo e la diffusione delle metastasi, con la conseguente morte per cancro. In particolare si può dire che il gene era già conosciuto e già si sapeva che si attivava in condizione di stress. Ciò che gli esperimenti hanno dimostrato è che il gene non solo uccide le cellule sane, ma agendo in modo irregolare aiuta anche la proliferazione delle metastasi. "Se il corpo è in perfetto equilibrio - ha affermato lo scienziato Tsonwin Hai - non è un gran problema. Quando il corpo è sotto stress, però, cambia il sistema immunitario. E il sistema immunitario è una lama a doppio taglio". Detto questo c'è da star certi che l'essere indagati in un caso criminale dal grande profilo pregiudizievole, e dalla grande eco mediatica (essere indagati da una procura, ormai si è capito, significa anche essere additati dai compaesani a causa del pregiudizio iniettato nel popolo da giornalisti e opinionisti sapientoni), porta stress al fisico che più facilmente può subire un infarto o una malattia incurabile. Per averne conferma si potrebbe cadere nella tentazione di ricordare sin da subito il compianto Enzo Tortora, morto di tumore dopo anni di tortura mediatica e pregiudizi. Ma non serve scomodare il caso più eclatante della nostra stampa, perché tanti più gravi (ma meno pubblicizzati) stanno a dimostrare che chi viene indagato, se innocente, soffre in maniera esponenziale di stress, quello stress che può portare alla morte. Prendiamone alcuni e partiamo da Don Giorgio Govoni, che dal '97 al 2000 fu perseguitato dai magistrati che lo additavano a pedofilo-satanista. Nell'ultima udienza a cui assistette, il pubblico ministero lo dipinse come un rifiuto della società, come capo di una setta perversa, e chiese per lui 14 anni di carcere. Il giorno dopo Don Giorgio, agitatissimo, si presentò nello studio del suo legale: aveva bisogno di sfogarsi e di sentire una voce amica. Ma non riuscì a parlargli perché morì di infarto in sala d'attesa. Fu condannato da morto Don Giorgio. Per il giudice, dopo 57 udienze e 300 testimoni (un processo costosissimo), era lui a dire messa nei cimiteri della zona, era lui l'uomo vestito di nero che diceva "diavolo nostro", invece che Padre nostro, mentre i satanisti in maschera lanciavano bambini per aria o li sgozzavano gettandoli nel fiume. Ma c'erano davvero satanisti in quei cimiteri? No, non c'erano satanisti e non c'erano abusi. Tutto venne allestito da un Pm che si basò su quanto stabilito da una psicologa dei servizi sociali di Modena. Ma i procuratori si accanirono e quella brutta storia rovinò la vita anche ad altri. Parlo di una madre che quando le portarono via il figlio si gettò dalla finestra, parlo anche dei coniugi Covezzi che nel '98 se ne videro portar via 4 di figli dai magistrati. L'assoluzione definitiva per loro è giunta nel 2013, ma Delfino Covezzi non se l'è goduta perché subito dopo è morto senza poter rivedere i quattro figli strappatigli dalla giustizia e dati in adozione quindici anni prima del verdetto definitivo (solo in primo grado fu condannato). Storie allucinanti di sofferenza e stress incessante che portano anzitempo alla morte e crescono solo per il propagarsi del pregiudizio, lo stesso che ancora oggi fa dire a tanti italiani che Enzo Tortora qualcosa aveva fatto, altrimenti non sarebbe stato indagato. Storie allucinanti come quella di Giovanni Mandalà che assieme a Giuseppe Gullotta fu condannato per aver ucciso due carabinieri (strage di Alcamo Marina). Giovanni si è sempre proclamato innocente, come Giuseppe a cui la stampa l'anno passato ha dedicato tante parole perché ha chiesto allo Stato 69 milioni di euro per aver trascorso 22 anni in carcere da innocente. Ma il signor Mandalà non è riuscito ad arrivare alla sentenza di assoluzione. Lui è morto nel '98. Morto dopo aver subito il dolore assoluto, vittima di un tumore. Come in carcere è morto Michele Perruzza, un uomo incastrato in una storia che ha attinenze con quella di Avetrana. Forse non la ricorderete, perché contemporanea al delitto di via Poma (Simonetta Cesaroni) e perché in pochi giorni i magistrati dissero di aver scoperto la verità: e come sempre i giornalisti si defilarono senza approfondire né chiedersi se le accuse mosse dalla procura fossero reali. Michele Perruzza nel 1990 abitava in una piccola frazione di Balsorano, provincia de L'Aquila, dove viveva anche sua nipote, la piccola Cristina Capoccitti di soli sette anni. Il 23 agosto, dopo cena, Cristina uscì di casa per giocare all'esterno. Ma quando sua madre la chiamò perché si stava facendo buio, la bimba non rispose. Le ricerche si protrassero per tutta la notte, poi arrivò l'alba e il corpo di Cristina venne visto: la bimba era svestita e aveva la testa spaccata. Due giorni dopo un ragazzo di 13 anni, Mauro Perruzza (figlio di Michele e cugino di Cristina), confessò l'omicidio. Stavano facendo un gioco, disse, quasi erotico. Poi lei cadde sbattendo la testa su una pietra e lui, per paura, la strangolò. Ma gli inquirenti non gli credettero, non ce lo vedevano ad uccidere la cugina e così lo interrogarono per ore fino a fargli dire che era stato suo padre a uccidere e che lui lo aveva visto perché si trovava a 50 metri dal luogo del crimine. Ma questa fu solo la sua seconda versione, nel tempo ne fornì 17 e tutte diverse. Però non appena inserì suo padre, un'auto corse fino alla sua casa per arrestarlo: era l'alba del 26 agosto e nessuno verificò le parole del ragazzo. Quando in caserma gli passò davanti in manette, i giornalisti lo sentirono urlare: "Scusami papà, sono stato costretto!". In effetti il ragazzo, si scoprirà poi, era stato intimidito di brutto. In ogni caso suo padre non fece più ritorno a casa. Ma mai accusò il figlio per quel crimine. Così anche sua moglie che mai ha detto qualcosa contro suo figlio. Come sempre se non ci sono prove si ragiona di pregiudizio usando il solito ragionamento del: "Perché un figlio dovrebbe incolpare il padre se non è colpevole?". Che equivale al moderno: "Perché un padre dovrebbe incolpare la figlia se non è colpevole?". Così, basandosi su un pregiudizio, in un processo in cui l'avvocato del sempliciotto muratore Perruzza era lo stesso che difendeva suo figlio, inconcepibile, il 15 marzo del '91 ci fu una prima condanna all'ergastolo. In paese ormai tutti erano certi della colpevolezza del Perruzza e quella sera si festeggiò la condanna coi fuochi d'artificio. Il pregiudizio della gente era nato da un obbrobrio investigativo e giudiziario in cui non mancava neppure un'audiocassetta scomparsa (era quella di un interrogatorio in cui, si dice, si sentivano distintamente i colpi di un pestaggio). Alcuni giornalisti, solo un paio a dire il vero, muovendosi con sapienza cercarono di entrare nella verità. Ma non era facile e Gennaro De Stefano (uno dei pochi giornalisti veri, purtroppo morto anni fa) venne anche intimidito grazie a un poliziotto che mise della droga nella sua auto prima di una perquisizione (sei mesi dopo il fatto De Gennaro, per nulla intimidito, fu scagionato e risarcito con tante scuse). Tralasciando il resto di questa infame storia che procurò solo dolore, arrivo alla fine. Le Perizie stabilirono che il figlio, da dove aveva detto di trovarsi non poteva vedere il padre uccidere Cristina. Ma sia in appello che in cassazione le accuse della procura tennero e nel settembre del '92 la condanna divenne definitiva. Lo sconcerto subentrò poi, quando in un processo parallelo (celebrato a Sulmona e non a L'Aquila) si scoprì che sulle mutandine di Cristina c'era il dna del cugino Mauro, non dello zio. Per cui la giustizia si trovò agli estremi: la cassazione nel '92 aveva stabilito che Michele era colpevole oltre ogni  ragionevole dubbio, ma nel '98 un giudice, grazie a buone perizie, certificava nelle sue motivazioni l'innocenza di Michele Perruzza. Si poteva a quel punto rifare il processo, ma la procura del capoluogo abruzzese si oppose e alla fine vinsero i procuratori (fra l'altro, il giudice che aveva condannato all'ergastolo il Perruzza in quel periodo era diventato procuratore generale de L'Aquila). Comunque lo strazio e lo stress accesero in maniera esponenziale la sofferenza di Michele Perruzza quando questi capì che nessuno avrebbe fatto nulla per aiutarlo. Morì nel gennaio del 2003 a causa di un infarto e le sue ultime parole furono: "Dite a tutti che non ho ucciso io Cristina". Le disse in punto di morte ai medici dell'ambulanza che inutilmente cercarono di salvargli la vita. Storie di ordinaria follia? Casi rari che non fanno testo e non gettano ombre su una giustizia da decenni malata? Una giustizia spesso falsa e coadiuvata dai media che iniettano il pregiudizio delle procure nelle vene del popolo? In Italia ci sono sacerdoti con le palle. Uno si chiama Don Mario Neva e col suo gruppo (Impsex) da tempo cerca di salvare le ragazze costrette a battere sulle strade. Lui dieci anni fa disse: "Nel ’600 si credeva di combattere la peste uccidendo gli 'untori', innocenti accusati di spargere unguenti mortiferi. Un rito crudele quanto inutile che solo dopo 200 anni ebbe giustizia e cessò. Oggi sta succedendo lo stesso. In buona fede allora, in buona fede oggi: ma è una buona fede che mette radici profonde e diventa madre di ogni inquisizione". Ed è proprio così. Nulla è peggio del pregiudizio e nulla è peggio dello stress che uccide chi sa di essere vittima di una ingiustizia giudiziaria. La vergogna non vive in chi non ha cuore, ma si amplifica in chi il cuore lo ha più grande. Ed arrivo a Cosimo Cosma, morto a causa di un tumore che nessuno può dire lo avrebbe certamente colpito senza lo stress dovuto alle accuse della procura di Taranto. Mimino non era un santo, ma con lui la giustizia si è sbizzarrita e ha dimostrato di avere una doppia personalità (e una doppia morale), perché mentre veniva condannato a Taranto per aver occultato il corpo di una ragazzina di 15 anni (Sarah Scazzi), a Brindisi subiva la medesima sorte per qualcosa che risulta essere l'esatto contrario: per aver messo le mani addosso a chi aveva violentato una ragazza di 16 anni (questa è l'accusa a cui la difesa ha risposto chiedendo al giudice di riconoscere che il violentatore al momento del fatto non era in grado di intendere e volere). Un po' come dire che per la nostra giustizia un missionario può con una mano dare a un bimbo un pezzo di pane e con l'altra mollargli uno schiaffo. Non c'è logica in certe accuse, lo so, ma fin quando non si metteranno paletti e regole vere da rispettare, tutto e il contrario di tutto potrà essere dimostrato dal potere giuridico consolidato. Perché a tutt'oggi c'è chi può iniziare indagando A ed arrivare a condannare C senza alcun problema. Perché se non convince la versione di A si gira la frittata e si manda in galera B. E e se non è possibile incastrare solo B si gira la pentola in verticale e si condanna anche C. Basta volere e con sogni e veggenze alla fine si può anche dire che non era una frittata ma una paella, così da mettere in atto un gioco di prestigio buono per condannare chiunque. Il problema è che, tranne i soliti noti (e sono pochi), nessuno protesta: la maggioranza dei media sparge il pregiudizio e anche grazie a loro, con nulla in mano se non pochi indizi, c'è chi può indagare e condannare chiunque e credere, e far credere, di essere nel giusto. E se qualche avvocato in gamba dimostra che non è zuppa quanto portato dai procuratori in tribunale, per i pubblici ministeri c'è sempre la possibilità giuridica di cambiare la formula e le ricostruzioni e far credere zuppa il pan bagnato. Questo perché quando si entra nella categoria degli indagati, per i magistrati e la pubblica opinione non si è più persone e il dolore che si prova quando nessuno ti crede non figura essere dolore per chi accusa: in fondo, possono soffrire i numeri? L'essere umano per certe istituzioni non esiste e il dolore che una accusa fondata su congetture lascia in dote, come lo stress che si prova nel sentirsi già giudicati prima del processo finale, passa in secondo piano. Ma non solo gli indagati sono numeri. Forse non vi rendete conto che tutti noi siamo solo stupidi numeri scritti in sequenza su una qualche cartella o documento: sia per la sanità che per la giustizia che per i comuni e il governo. Numeri da allevare in provetta per gli scopi altrui, tifosi che vengono plagiati dalle istituzioni e vogliono solo vincere, nei campi di calcio come nella politica e nei tribunali, e a cui non importa di come si giochi la partita, se si fanno entrate oltre il limite, se agli avversari che giocano in inferiorità numerica saltano caviglia e perone, se l'arbitro non si dimostra imparziale, se qualcuno muore. Fin quando non toccherà a noi di subire tutto va bene, anche lo sport che non è più sport, la politica che non è più politica e la giustizia che non è più giustizia. Tanto la pubblica opinione alla fine darà ragione a chi comanda preferendo mettere in campo la volgarità dell'offesa. Tanto i media non daranno risalto alla notizia scomoda e nessuno si indignerà se i carcerati che si proclamano innocenti si suicidano dopo aver perso la speranza, se gli imputati che si proclamano innocenti muoiono di infarto o di tumore a causa di uno stress infinito, se chi ha mandato in carcere gli innocenti, morti e non, invece di venir cacciato dalla magistratura continua a incassare i suoi 100.000 euro all'anno e a far carriera...

Nicola Izzo: "Così i pm mi hanno rovinato". L’intervista di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questi giorni in Parlamento si sta discutendo di riforma della giustizia e responsabilità civile dei magistrati. Sono migliaia in Italia le persone rovinate dagli errori giudiziari delle toghe. E sicuramente uno dei casi più celebri è quello del prefetto Nicola Izzo. Da qualche mese è in pensione, ma sino al novembre 2012 era il vicecapo vicario della Polizia, quasi il comandante in pectore vista la battaglia contro la malattia che stava conducendo l’allora numero uno Antonio Manganelli. Un gruppo di agguerriti pm napoletani gli ha stroncato la carriera indagandolo per turbativa d’asta nell’ambito di un’inchiesta sull’appalto per il Centro elaborazione dati della Polizia. Lo scorso maggio il gip di Roma, dove il fascicolo era stato trasferito per competenza, ha prosciolto Izzo da ogni accusa. Lui ora resta alla finestra, in attesa che qualcuno lo risarcisca per un danno tanto grande.

Dottor Izzo, quanti milioni di euro dovrebbero darle per ripagarla di questo clamoroso errore giudiziario?

«Non saprei cosa risponderle. Si parla, ormai da troppi anni, dei malanni della giustizia senza trovare un rimedio. Io comunque ho sempre pensato che chi sbaglia deve rispondere: l’irresponsabilità crea i presupposti per aumentare gli errori e formare il convincimento in chi li commette di esercitare un potere incontrollato».

Il gip che ha archiviato il procedimento contro di lei e altri 14 indagati vi ha prosciolti senza ombre. Non fa male avere questo riconoscimento dopo aver lasciato la Polizia?

«Fa male perché in tutto il procedimento ci sono una serie di “travisamenti” che avrebbero, se valutati correttamente e con accertamenti approfonditi, consentito, anziché immaginifiche ricostruzioni giudiziarie, l’immediata archiviazione del tutto, senza creare danni irreparabili. L’inesistenza di qualsiasi ipotesi collusiva tra noi indagati era di un’evidenza solare».

I pm sembra che non abbiano brillato in precisione. Per esempio siete stati accusati di aver fatto vincere aziende senza Nos (nullaosta di sicurezza), mentre in realtà tutte ne erano in possesso. Come è possibile mettere nero su bianco un’accusa del genere senza averla verificata?

«Questa, al pari di alcune altre accuse, è una delle cose più strabilianti e gravi. Come si fa a riportare tra i capi di imputazione fatti neanche accertati, ma solo frutto della propria immaginazione? C’era da fare un semplice accertamento cartaceo, lo stesso che hanno fatto le difese. Bastava consultare gli archivi degli enti deputati al rilascio del Nos».

L’inchiesta è stata trasferita a Roma per competenza. Ma non era chiaro sin dall’inizio che quella presunta turbativa d’asta, se mai ci fosse stata, era stata consumata nella Capitale (dove si tenne la gara) e non a Napoli?

«Dico solo che dal 20 dicembre del 2012, data in cui la Procura Generale della Cassazione aveva individuato la competenza della Procura di Roma, abbiamo dovuto attendere il luglio 2013 per la trasmissione di tutti gli atti da Napoli, con la conseguenza che la procura di Roma ha dovuto emettere due distinti decreti di chiusura indagini per la “rateizzazione”, forse dovuta, mi passi il termine, a “dimenticanze” nella trasmissione dei documenti».

Certi pm sono innamorati dei loro fascicoli e se ne separano mal volentieri. Non vorrei infierire, ma per il giudice della Capitale «tutte le condizioni necessarie al regolare svolgimento della gara erano state seguite». Ma allora perché tenervi sotto processo per tanti anni?

«Non voglio infierire neanche io, credo solo che in questo clamoroso caso di malagiustizia ci siano, per chi ha la responsabilità di farlo, sufficienti elementi per accertare l’inconsistenza e la fantasia dei capi di imputazione e la leggerezza con cui è stata condotta l’indagine».

Pensa che qualcuno risponderà di questo svarione?

«Spero di scoprirlo presto».

In questa vicenda anche i media hanno contribuito al suo calvario. Per esempio hanno dato ampio risalto alla lettera anonima di un “corvo” che collegava il suicidio di un suo stretto collaboratore alle pressioni gerarchiche che avrebbe subito per alterare le procedure di gara. Ma la vicenda processuale ha raccontato un’altra verità.

«La morte del collega, anche per l’affetto che nutrivo per lui, è la vera tragedia nel contesto di questa vicenda. I verbali delle nostre riunioni di lavoro raccontano una verità molto diversa da quella immaginata dal “corvo”, verbali da cui emergono le richieste del mio collaboratore di maggiori risorse economiche per finanziare imprevisti progettuali e le mie pressanti pretese di giustificazioni per questi nuovi costi. Nell’ultima riunione il collega ammetteva di non conoscere il progetto a suo tempo elaborato, ma di essere convinto che avremmo dovuto ricorrere a inconsueti ampliamenti dei contratti, con l’ utilizzo di ulteriori risorse economiche».

Di fronte a tale affermazione come ha reagito?

«Nonostante fossi convinto della sua buona fede, lo richiamai molto fermamente a essere più attento e a documentarsi prima di reclamare altri fondi, anche perché qualsiasi superficialità poteva causare dei dispiaceri. È questo in sintesi il prologo della tragedia sulla quale ho sempre tenuto il più stretto riserbo per non ledere l’immagine di una persona onesta e perbene».

In questa storia c’è stata anche un’altra morte prematura. Per qualcuno pure in questo caso si sarebbe trattato di suicidio…

«Questa notizia non è un refuso di stampa, viene da un’affermazione del Gip di Napoli che a proposito di un dirigente di polizia ha scritto: «anch’egli recentemente deceduto in circostanze oggetto di accertamento, come emerso nel corso degli interrogatori». Di questi accertamenti e interrogatori non ho trovato traccia, se non nell’affermazione falsa, «si è suicidato», fatta dal pm nel corso dell’interrogatorio di un teste. Il figlio del compianto funzionario ha dovuto smentire la circostanza «assurda» con due comunicati in cui dichiarava che il padre era deceduto naturalmente, «stroncato da un infarto».

Perché secondo lei la lettera del “corvo” spunta sui giornali 3-4 mesi dopo la sua spedizione? Secondo lei c’era un piano dietro a quella strana fuga di notizie?

«Il ministro dell’Interno, all’epoca Anna Maria Cancellieri, non ha ritenuto di disporre alcuna inchiesta per scoprire questi motivi e quindi non posso avere certezze sul punto. Di certo, però, quell’azione va contestualizzata: nell’estate del 2012 ci trovavamo in un grave momento di crisi del vertice della Pubblica Sicurezza e vi erano grandi fermenti per la sua sostituzione. Gli artefici della lettera non erano dei passanti: hanno potuto manipolare i documenti sull’attività del Ministero di cui erano in possesso, falsandone i contenuti, e hanno diffuso la lettera utilizzando tecnologie così sofisticate da rendere non identificabili i mittenti neanche per i tecnici della Polizia delle comunicazioni».

Il “corvo” ha trovato anche spazio sui giornali…

«Quel documento anonimo è stato accolto con favore in importanti redazioni che hanno così dato risalto mediatico a una realtà travisata e falsa. Tanto falsa che oggi vi sono tre direttori di testate nazionali e vari giornalisti rinviati a giudizio per diffamazione, ma questo a differenza delle farneticazioni di un anonimo sembra che non sia una notizia degna di nota».

Potremmo definirla una “congiurina” contro la sua eventuale candidatura forte a Capo della Polizia?

«Certo i malpensanti possono opinare che vi sia dietro un vile, ma astuto manovratore, qualche puffo incapace di altro che possa aver ordito un qualche “disegno” per bruciare il mio nome per la successione di Manganelli, ma io non sono un malpensante e quindi mi ostino a credere che sia stato il “fato”».

Subito dopo le notizie di stampa che facevano riferimento al “corvo”, lei ha deciso di presentare le dimissioni. Qualcuno ha fatto pressioni per ottenere quel suo passo indietro?

«Assolutamente no, tutt’altro. Il ministro Cancellieri le respinse. Ma io non sono un personaggio da operetta, come ce ne sono molti in questo Paese, che presenta le dimissioni per incassarne il rigetto. In quel momento c’era un’ombra su di me ed era giusto fare un passo indietro. Per senso dello Stato».

Che cosa le ha fatto più male in questa vicenda, dal punto di vista umano? Di fronte a quelle ricostruzioni fantasiose, non ha avuto la sensazione di essere prigioniero di un castello kafkiano?

«Ho avuto modo in questo periodo di approfondire Kafka, e posso risponderle prendendo in prestito una frase “del traduttore”, Primo Levi: «Si può essere perseguiti e puniti per una colpa non commessa, ignota, che il “tribunale” non ci rivelerà mai; e tuttavia, di questa colpa si può portar vergogna, fino alla morte e forse anche oltre». Tutto questo lo sto provando sulla mia pelle. E nessuno vi potrà porre mai rimedio».

Lo scandalo del Viminale. Il corvo fa dimettere Izzo, ma la Cancellieri dice no. Il ministro dell'Interno ha respinto le dimissioni del vice di Manganelli dopo l'esposto anonimo su appalti pilotati, scrive “Libero Quotidiano”. Il ministro dell'Interno: "Abbiamo preso molto seriamente la vicenda. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”. Aperta un'inchiesta. Si è dimesso il vice capo della Polizia, prefetto Nicola Izzo, chiamato in causa dal corvo nell’inchiesta sui presunti appalti truccati al Viminale. Izzo ha inviato questa mattina una email al Capo della Polizia, prefetto Antonio Manganelli e al ministro dell’Interno, Annamaria Cancellieri che però ha ha respinto le dimissioni, perché "credo, ha detto il ministro, che una persona non possa essere giudicata sulla base di un esposto anonimo sul quale non abbiamo ancora riscontri". Intanto la Procura di Roma procede nell'inchiesta partita in seguito dell’esposto anonimo inviato nei giorni scorsi al ministro dell’Interno dove si faceva riferimento a presunte violazioni e illeciti nel conferimento di appalti per l’acquisto di apparecchiature tecnologiche. L'inchiesta è stata avviata dal procuratore capo, Giuseppe Pignatone, che ha affidato il fascicolo all’aggiunto Francesco Caporale, che guida da poco il pool dei magistrati per i reati contro la pubblica amministrazione. L’esposto anonimo, composto da una ventina di pagine, indica episodi circostanziati e diversi illeciti che sarebbero stati compiuti dall’ufficio logistico del Viminale, incaricato delle gare d’appalto per l’acquisto degli impianti tecnologici. Da parte sua, nelle scorse ore, Izzo si era difeso da ogni accusa:"Diffamato per fatti che mi sono estranei: da vicecapo vicario non mi occupo della gestione di  appalti". In una nota ha scritto: "Sono citato ignominiosamente in un esposto anonimo, che potrebbe essere redatto a carico di chiunque e con qualsiasi contenuto - scrive Izzo - per acquisti di cui ho conoscenza solo per la funzione strategica dei beni e non delle procedure per la loro materiale acquisizione. Chi ha costruito l’anonimo, si è nascosto abilmente, dimostrando la sua conoscenza delle tecnologie avanzate e del settore degli appalti, usando la mail di persone ignare; e tale modalità forse merita qualche riflessione sui nobili intenti dell’autore". Prosegue Izzo: "Nello scritto, l’anonimo segnala anomalie sulle procedure amministrative adottate, procedure per le quali, in alcuni casi e per quanto mi consta, le stazioni appaltanti, diverse tra loro e non solo interne al dipartimento della Ps, si sono consultate con gli organi istituzionali preposti e in tutti i casi, a conclusione degli appalti, sono state sottoposte al vaglio e registrate, senza alcun rilievo, dalla Corte dei Conti". Izzo conclude che "nonostante la natura anonima dell’esposto non dovrebbe dare luogo a seguiti e in presenza di un quadro di sostanziale regolarità, l’Amministrazione ha trasmesso gli atti alla Procura per gli eventuali approfondimenti. La morte del compianto Saporito per le sue tragiche modalità merita solo dolore e rispetto e non vili e strumentali insinuazioni. Per il Cen sono stato interrogato circa due anni e mezzo fa e attendo fiducioso il giudizio della magistratura". “Il corvo? Ci piacerebbe conoscerlo, vedere se sono uno, due o quanti sono”, sostiene il ministro dell’Interno, Anna Maria Cancellieri ribadendo che oltre all’inchiesta della magistratura, “di cui attendiamo gli esiti” sono in corso accertamenti all’interno del Viminale: “Abbiamo preso molto seriamente la vicenda -conclude- perchè non sappiamo chi volesse colpire” il corvo, “forse aveva anche un interesse personale. Quello che vogliamo è che il Viminale resti una casa di vetro e un punto di riferimento per il Paese”.

Lo dice anche il capo della polizia. "I magistrati sono dei cialtroni". Manganelli al telefono col prefetto Izzo: "Vergognoso che le notizie sui processi vengano passate ai giornali per fare clamore", scrive “Libero Quotidiano”. "E' una cosa indegna". Veramente mi disgusta il fatto che io debba leggere sul giornale, momento per momento, 'stanno per chiamare la dottoressa Tizio, la stanno chiamando...l'hanno interrogato...la posizione si aggrava'". E ancora: "Perchè se no qua diamo per scontato che tutto viene raccontato dai giornali, che si fa il clamore mediatico, che si va a massacrare la gente prima ancora di trovare un elemento di colpevolezza". E poi ancora: "A me pare molto più grave il fatto che un cialtrone di magistrato dia indebitamente la notizia in violazione di legge...". Chi parla potrebbe essere Silvio Berlusconi, che tante volte si è lamentato di come le notizie escano dai tribunali prima sui giornali che ai diretti interessati. E invece, quelle che riporta il Corriere della Sera, sono parole pronunciate nel giugno 2010 nientemeno che del capo della polizia Antonio Manganelli, al telefono col prefetto Nicola Izzo, ex vicario della polizia. Si lamenta, Manganelli, della fuga di notizie a proposito del caso degli appalti per il centro elettronico e per gli altri interventi previsti dal patto per la sicurezza, indagine condotta dalla procura di Napoli e che portò a una serie di provvedimenti tra cui l'arresto del prefetto Nicola Fioriolii e l'interdizione dai pubblici uffici per i prefetti Nicola Izzo e Giovanna Iurato.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

Il pm Antimafia della Procura di Bari Isabella Ginefra ha chiesto 58 condanne, 35 assoluzioni e un non luogo a procedere per prescrizione nei confronti dei 103 imputati (gli altri 9 deceduti) nel processo chiamato «Il canto del cigno» su una presunta associazione mafiosa operante sulla Murgia barese tra Gravina e Altamura negli anni Novanta, finalizzata a traffico e spaccio di droga, detenzione di armi ed esplosivi, estorsioni, 8 tentati omicidi, ferimenti e conflitti a fuoco tra clan rivali, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. Il procedimento penale fu avviato nel 1997 dall'allora pm antimafia barese Leonardo Rinella quando, nel corso del processo alla mafia murgiana denominato «Gravina» nei confronti di oltre 160 persone, alcuni imputati decisero di collaborare con la giustizia rivelando nuovi particolari sulle attività illecite dei clan Mangione e Matera-Loglisci, all'epoca - secondo la Procura - in stretto contatto con i gruppi criminali baresi di Savino Parisi, Antonio Di Cosola, Giuseppe Mercante, Andrea Montani ed altri. Tra i capi di questa presunta associazione mafiosa c'erano, secondo l'accusa, Vincenzo Anemolo, ritenuto un «figlioccio» del boss Savinuccio, e suo fratello Raffaele, il defunto Francesco Biancoli (il camorrista che avrebbe battezzato Parisi), Bartolo D'Ambrosio (ucciso nel 2010) e il suo ex alleato, poi rivale, Giovanni Loiudice (processato e assolto per l'omicidio del boss), Emilio Mangione e suo nipote Vincenzo, Nunzio Falcicchio, soprannominato «Lo scheletro». L'indagine, ereditata negli anni successivi dai pm Antimafia Michele Emiliano ed Elisabetta Pugliese, portò nel marzo 2002 all'arresto di 131 persone. Per oltre 200 fu poi chiesto il rinvio a giudizio ma soltanto 94 sono ancora imputate per quei fatti. Gli altri sono stati giudicati con riti alternativi o prosciolti. A quasi vent'anni dai fatti contestati sulla base degli accertamenti dei Carabinieri di Bari e Altamura, la Procura chiede ora condanne comprese fra 10 e 4 anni di reclusione per 58 di loro. Tra i reati ritenuti ormai prescritti ci sono due tentati omicidi del 1994 e del 1997 e alcuni episodi di spaccio. Stando all'ipotesi accusatoria quella murgiana era una vera e propria «associazione armata di stampo mafioso-camorristico» promossa e organizzata da «padrini e figliocci». Agli atti del processo, durato oltre sette anni, ci sono prove dei «battesimi», le cerimonie di affiliazione, e l'esatta ricostruzione dei ruoli all'interno del clan sulla base di una precisa ripartizione territoriale per la gestione delle attività illecite. Le discussioni dei difensori sono fissate per le udienze del 16 luglio e del 29 settembre, data in cui è prevista la sentenza.

Niente sentenza per 17 anni. Imputati morti e prescritti. Il pm chiede le condanne per un'inchiesta antimafia del 1997. Ma alla sbarra di 200 ne restano solo 58, scrive Gianpaolo Iacobini su “Il Giornale”. A Bari, il processo alla cosca? Dopo 17 anni arrivano le richieste di condanna in primo grado. L'antimafia dei record è pugliese. Il primato, però, non è di quelli di cui andar fieri: per un procedimento penale nato da indagini avviate nel 1997, e relative a fatti verificatisi agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso, soltanto adesso la Procura ha avanzato davanti ai giudici richiesta di pena nei confronti degli imputati. La storia ha un nome simbolico, uno di quelli che tanto solleticano le cronache ed i giornalisti quando scattano i blitz: «Il canto del cigno». È il 2 settembre del 2002: i magistrati della Dda barese Elisabetta Pugliese e Michele Emiliano (proprio lui: l'ex sindaco di Bari) chiudono con un'ordinanza di custodia cautelare a carico di 131 persone il troncone investigativo fiorito 5 anni prima per gemmazione da un altro maxi-processo. Nel mirino della Direzione distrettuale finiscono gli appartenenti ad una presunta organizzazione criminale attiva sull'altopiano delle Murge, nei Comuni di Altamura e Gravina in Puglia, ed i loro collegamenti con i clan del capoluogo di regione. All'attivo estorsioni, detenzione d'armi, traffico di droga e ferimenti. Finalizzati, secondo gli inquirenti, all'affermazione di un'associazione armata di stampo mafioso-camorristico. «Quest'operazione dimostra come la criminalità barese, dalla fine degli anni '80 ad oggi, abbia creato dei cloni in tutta la provincia», commenta in quei giorni coi cronisti Emiliano, esprimendo soddisfazione per il lavoro portato a termine. Ma i processi sono un'altra cosa. Ed in Tribunale il cigno canterà solo a settembre 2014. Quando il collegio giudicante si determinerà in primo grado sulle richieste di pena avanzate l'altro ieri - a quasi vent'anni dall'apertura dell'inchiesta - dal pm antimafia Isabella Ginefra. Che la sua requisitoria l'ha conclusa sollecitando condanne oscillanti tra i 10 e i 4 anni di reclusione nei riguardi di 58 degli oltre 200 imputati: gli altri sono stati prosciolti o processati con riti alternativi. O sono morti. Alcuni per vecchiaia. Qualcuno per piombo, come Bartolo D'Ambrosio, crivellato a colpi di fucile e pistola nel 2010. Ed il passar del tempo, oltre agli uomini, ha spazzato via con la ramazza della prescrizione anche molti dei reati contestati, come un paio di tentati omicidi risalenti al 1994. Farà notizia? No, a giudicare dagli echi di cronaca che arrivano da Palermo, dove il presidente del tribunale del riesame, Giacomo Montalbano, con un'ordinanza ha disposto il rinvio d'ufficio a settembre di tutti i procedimenti che non riguardino detenuti in carcere o ai domiciliari: pochi i magistrati in organico, troppi i ricorsi che si prevede arriveranno dopo l'arresto, il 22 giugno, di 91 persone considerate affiliate ai mandamenti mafiosi di Resuttana e San Lorenzo. La chiamano giustizia. Pare una barzelletta.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

Dopo aver affermato qualche mese fa che se nel nostro Paese si fanno troppe cause la colpa è del numero eccessivo di avvocati, ora l’illustre magistrato Giorgio Santacroce, presidente della Corte di Cassazione, interviene per chiarire (agli avvocati, ovviamente) come vanno redatti i ricorsi da presentare alla Suprema Corte onde non incorrere in possibili declaratorie di inammissibilità. Lo ha fatto con una lettera inviata al Presidente del CNF Guido Alpa dopo il Convegno “Una rinnovata collaborazione tra magistratura e avvocatura nel quadro europeo” organizzato dal Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa, dal CSM e dal CNF. Prendendo spunto dal dibattito scaturito in quella circostanza, il Dott. Santacroce ha preso carta e penna ed ha scritto una lettera al Consiglio Nazionale Forense per confermare alcune direttive, ora finalmente rese “ufficiali” dall’organo deputato a riceverle. Richiamando quanto già espresso in precedenza sia dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo (la quale ha previsto tra le indicazioni pratiche relative alla forma e al contenuto del ricorso di cui all'art. 47 del Regolamento che «nel caso eccezionale in cui il ricorso ecceda le 10 pagine il ricorrente dovrà presentare un breve riassunto dello stesso») e dal Consiglio di Stato (che ha suggerito di contenere nel limite di 20-25 pagine la lunghezza di memorie e ricorsi, e, nei casi eccedenti, di far precedere l’esposizione da una distinta sintesi del contenuto dell’atto estesa non più di 50 righe), il primo Presidente della Corte ha affermato che anche gli atti dei giudizi di cassazione dovranno trovare applicazione criteri similari. “Ben potrebbe ritenersi congruoscrive il Presidente Santacroce nella lettera indirizzata al CNF - un tetto di 20 pagine, da raccomandare per la redazione di ricorsi, controricorsi e memorie. Nel caso ciò non fosse possibile, per l'eccezionale complessità della fattispecie, la raccomandazione potrà ritenersi ugualmente rispettata se l'atto fosse corredato da un riassunto in non più di 2-3 pagine del relativo contenuto. Sembra, altresì, raccomandabile che ad ogni atto, quale ne sia l'estensione, sia premesso un breve sommario che guidi la lettura dell'atto stesso. Allo stesso modo è raccomandabile che le memorie non riproducano il contenuto dei precedenti scritti difensivi, ma, limitandosi ad un breve richiamo degli stessi se necessario, sviluppino eventuali aspetti che si ritengano non posti adeguatamente in luce precedentemente, così anche da focalizzare su tali punti la presumibile discussione orale”. Attenendosi a tali criteri di massima si potrebbe superare, secondo il primo Presidente - in molti casi quello scoglio che è l’inammissibilità del ricorso “non già per la mancanza di concretezza dei motivi del ricorso, ma per la modalità con cui questo viene presentato, che non rispondono ai canoni accettati dalla Cassazione”, tra i quali appunto la sinteticità degli atti presentati a sostegno della presa in esame del dibattimento arrivato a sentenza in Appello”. Lo spirito dell’iniziativa del Dott. Santacroce è certamente propositivo e positivo, così come lo è il clima di collaborazione che il Magistrato ha auspicato in tal senso. Di certo però andrà conciliato con un altro principio - quello dell’autosufficienza dell’atto - che non poco ha turbato il sonno degli avvocati in questi ultimi mesi, ossia l’esigenza posta a carico del ricorrente di inserire nel ricorso o nella memoria la specifica indicazione dei fatti e dei mezzi di prova asseritamente trascurati dal giudice di merito, nonché la descrizione del contenuto essenziale dei documenti probatori con eventuale trascrizione dei passi salienti. Un requisito (l’autosufficienza) che i giudici della Corte non hanno ritenuto affatto assolto mediante la allegazione di semplici fotocopie, e questo perché, si è detto, non è compito della Corte individuare tra gli atti e documenti quelli più significativi e in essi le parti più rilevanti, “comportando una siffatta operazione un'individuazione e valutazione dei fatti estranea alla funzione del giudizio di legittimità”. Da qui la redazione di atti complessi ed articolati, e dunque anche lunghi, nel timore di non vedere considerato dal parte del Giudice un qualche aspetto o un qualche documento essenziale ai fini del decidere. Ora, insomma, gli avvocati avranno un compito in più: conciliare il criterio della brevità dell’atto con quello dell’autosufficienza. Mica roba da poco….

La conseguenza è.........La Cassazione boccia un ricorso perché "troppo prolisso".Sotto accusa l'atto degli avvocati dell'Automobile club d'Ivrea contro una sentenza della Corte d'Appello di Torino:"Tante pagine inutili". Ma diventa un modello: massimo venti pagine, scrive Ottavia Giustetti su “la Repubblica”. La dura vita del giudice di Cassazione: presentate pure il ricorso, avvocati, ma fate in modo che sia sintetico. Altrimenti state pur certo che sarà respinto. Poche pagine per spiegare i fatti, niente che comporti uno sforzo inutile per chi legge. Insomma «non costringeteci» a esaminare pagine e pagine se volete avere qualche speranza di vincere. Nero su bianco, tra le righe del testo di una recente sentenza della terza sezione sul ricorso contro una decisione della Corte d’appello di Torino, i giudici supremi hanno vergato il vademecum della sintesi estrema. Altrimenti: bocciatura assicurata. Qualche tempo fa lo avevano fatto a proposito dei ricorsi di legittimità legati al fisco. «La pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali - scrivono i magistrati al primo capoverso che illustra le motivazioni del rigetto del ricorso - è del tutto superfluo ed equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre che sia informata) la scelta di quanto rileva. La conseguenza è l’inammissibilità del ricorso per Cassazione». E, a quanto pare, è solo un esempio dei pronunciamenti di questo tenore che in questi mesi agitano le acque nell’ambiente degli avvocati. I forum sul diritto sono zeppi di commenti taglienti sulla «preziosa risorsa» del giudice che va «salvaguardata a tutti i costi». Tempi sterminati della giustizia, necessità di smaltire migliaia di procedimenti arretrati, prescrizione sempre in agguato: è nell’ambito della lotta a questi ormai cronici problemi del Paese il vademecum del giudice all’avvocato per evitare sbrodolamenti inutili. E non si può dire che sia nuova la tendenza a inibire il difensore che non si trasformi ogni volta in un Marcel Proust del diritto quando chiede giustizia. Ma respingere un ricorso perché un legale non è stato capace di sintesi da bignami appare come una novità giuridica importante, dicono gli avvocati. Nel caso della terza sezione civile sulla sentenza della Corte d’appello di Torino l’oggetto del contendere erano le spese di gestione dell’Automobile club di Ivrea. Una vicenda relativamente di poco conto. Ma analoghe prescrizioni si fanno strada e rischiano di diventare obbligo previsto per legge se sarà approvato uno specifico emendamento del decreto di riforma della giustizia in discussione in questi mesi in Parlamento. Il punto che è già stato approvato dalla commissione affari costituzionali della Camera finisce col prevedere la necessità per gli avvocati amministrativisti di scrivere i ricorsi e gli altri atti difensivi entro le esatte dimensioni che sono in via di definizione e sono stabilite con un decreto del Presidente del Consiglio di Stato. Saranno venti pagine al massimo i ricorsi d’ora in poi, mentre quel che sconfina è destinato per sempre all’oblio. Brevità della trattazione, che va in direzione opposta all’abitudine di molti legali che, con il timore di rientrare nei canoni dell’inammissibilità, finiscono per presentare ricorsi-fiume.

Ed ancora: “Inammissibile, prolisso e ripetitivo”. Così i giudici del Consiglio di Stato di Lecce hanno giudicato il ricorso d’appello presentato dai tredici proprietari dei terreni interessati dai lavori di allargamento della tanto contestata s.s. 275. Oltre a riconfermare quanto rilevato dal Tribunale amministrativo leccese, il Consiglio di Stato ha deciso di condannare gli appellanti al rimborso delle spese di lite, con la sanzione prevista per la violazione del principio di sinteticità degli atti processuali, introdotta dall’art. 3 del nuovo Codice del processo amministrativo. “Si deve tener conto – si legge in sentenza – dell’estrema prolissità e ripetitività dell’appello in esame (di 109 pagine)”. Il rispetto del dovere di sinteticità, ha sottolineato il Giudice, “costituisce uno dei modi – e forse tra i più importanti – per arrivare ad una giustizia rapida ed efficace”. Gli appellanti dovranno rimborsare, dunque, le spese alla Provincia di Lecce, alla Regione Puglia, al Consorzio Asi, alla Prosal, al CIPE, all’Anas, al Ministero delle Infrastrutture, al Ministero dell’Ambiente e al Ministero dei Rapporti con la Regione.

Eh, sì! Proprio così : lo affermano la Suprema Corte con sentenza n. 11199 del 04.07.2012 e, di recente, il Tribunale di Milano con sentenza del 01.10. 2013, scrive l’Avv. Luisa Camboni. "Viola il giusto processo l'avvocato che trascrive nel proprio atto processuale le precedenti difese, le sentenze dei precedenti gradi, le prove testimoniali, la consulenza tecnica e tutti gli allegati; il giusto processo richiede trattazioni sintetiche e sobrie, anche se le questioni sono particolarmente tecniche o economicamente rilevanti". I Giudici di Piazza Cavour dicono "NO" agli avvocati prolissi. Perché? Perché, a dire dei Giudici con la toga di ermellino, si violerebbe uno dei principi cardine, uno dei pilastri fondamentali su cui poggia il nostro sistema giuridico: il principio del giusto processo, ex art. 111 Cost. "La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge. [...]". Uno dei tanti significati insiti nel menzionato principio, difatti, è quello di garantire la celerità del processo, celerità che si realizza anche attraverso atti brevi, ma chiari e precisi nel loro contenuto ( c.d. principio di sinteticità). Il caso, su cui i Giudici si sono pronunciati, riguardava un ricorso di oltre 64 pagine e una memoria illustrativa di ben 36 pagine, il cui contenuto reiterava quello del ricorso. Il principio cui hanno fatto riferimento per dare un freno, uno STOP a Noi Avvocati, molto spesso prolissi, è il principio del giusto processo. Difatti, hanno precisato che un atto processuale eccessivamente lungo, pur non violando alcuna norma, non giova alla chiarezza e specificità dello stesso e, nel contempo, ostacola l'obiettivo di un processo celere. Il cosiddetto giusto processo, tanto osannato dalla nostra Carta Costituzionale, infatti, richiede da Noi Avvocati atti sintetici redatti in modo chiaro e sobrio: "nessuna questione, pur giuridicamente complessa", a dire della Suprema Corte, "richiede atti processuali prolissi". L'atto processuale, dunque, deve essere completo e riportare in modo chiaro la descrizione delle circostanze e degli elementi di fatto, oggetto della controversia. Ancora una volta la Suprema Corte ha richiamato l'attenzione di Noi Avvocati specificando quali sono i principi che ogni operatore di diritto, nella specie l'Avvocato, deve tener presente nel redigere gli atti: specificità, completezza, chiarezza e precisione. Nel caso, dunque, di violazione del principio di sinteticità, ovvero di redazione di atti sovrabbondanti, il giudice può tenerne conto, in sede di liquidazione delle spese processuali, condannando la parte colpevole ai sensi degli artt. 91 e 92 c.p.c.. Per Noi Avvocati, sulla base di quanto affermato dai Giudici di Piazza Cavour, non ha valore alcuno il motto latino "Ripetita iuvant", in quanto le cose ripetute non giovano alla nostra attività professionale che si estrinseca, nei giudizi civili, in attività di difesa negli atti, i quali devono essere chiari, sintetici e precisi. Un'attività di difesa non dipende dalla lungaggine dell'atto, ma dall'ingegno professionale, ingegno che consiste nell'individuare la giusta strategia difensiva per ottenere i migliori risultati sia per il cliente, sia per lo stesso professionista.

"Avvocati siete troppo prolissi, se volete ottenere giustizia per i vostri assistiti dovete imparare il dono della sintesi": la Cassazione ormai lo scrive nel testo delle sentenze. Ecco il parere di un principe del foro torinese, l'avvocato Andrea Galasso, protagonista nelle battaglie tra Margherita Agnelli e la sua famiglia e nel processo a Calciopoli.

Avvocato, i suoi colleghi sono contrari e allarmati, lei cosa ne pensa?

«Da un certo punto di vista i giudici mi trovano d'accordo perché so che spesso quando ci si dilunga e si sbrodola volentieri sui fatti è perché si teme di non poter argomentare bene in punto di diritto. Quindi la Cassazione ha ragione a ritenere che sia necessaria una buona dote di sintesi anche per non appesantire una attività che è diventata sempre più pressante».

Quindi, secondo lei, un bravo avvocato è capace di rimanere nei limiti che la Cassazione considera legittimi per presentare un ricorso?

«In linea di massima ritengo di sì. Poi, ovviamente, ci sono casi diversi. La sintesi deve essere una indicazione generale. poi ogni processo ha la sua storia».

Però sentenze recenti scrivono proprio nero su bianco che il ricorso può essere respinto perché è troppo prolisso e costringe la Corte a leggere elementi inutili. Lei crede che sia corretto?

«No, questo no. Siamo in un caso di cattiveria intellettuale. Di malcostume alla rovescia».

Tra l'altro queste indicazioni di brevità estrema condizioneranno sempre di più il lavoro degli avvocati. È in via di approvazione un emendamento che stabilisce un tetto di venti pagine per i ricorsi al Tar.

«Questo è un problema serio che riguarda il rapporto degli avvocati con i consigli dell'Ordine che evidentemente non sono in grado di far sentire la propria voce quanto dovrebbero».

Lei crede che la categoria dovrebbe essere più ascoltata, insomma?

«Beh sì. Quando si trasformano in legge regole che condizionano così profondamente il nostro lavoro sarebbe opportuno avere un Ordine degli avvocati capace di proporsi come interlocutore valido. E invece, evidentemente non è così».

Ma all'inaudito non c'è mai fine....

Il giudice: "Troppi testimoni inutili? Pena più alta". E gli avvocati milanesi scioperano. Gli avvocati si asterranno dalle udienze il 17 luglio 2014 perché ritengono che siano stati stravolti "alcuni principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova", scrive “La Repubblica”. Non sono andate giù agli avvocati penalisti milanesi le parole pronunciate in aula da un giudice che, in sostanza, di fronte ai legali di un imputato ha detto che se si insiste per ascoltare testimoni inutili, i magistrati poi ne tengono conto quando si tratta di calcolare la pena. E così la Camera penale di Milano, prendendo una decisione clamorosa e dura, anche sulla base di quel grave "caso processuale" che lede il diritto di difesa, hanno deciso di proclamare una giornata di astensione nel capoluogo lombardo per il prossimo 17 luglio. Come si legge in una delibera del consiglio direttivo della Camera penale,"lo scorso 20 giugno, nell'ambito di un'udienza dibattimentale celebratasi avanti a una sezione del tribunale di Milano, il presidente del collegio ha affermato" a proposito dell'esame di testimoni: "Non mi stancherò mai di ripetere che secondo me quando in un processo si insiste a sentire testi che si rivelano inutili, ovviamente si può essere assolti, ma se si è condannati il tribunale ne tiene sicuramente conto ai fini del comportamento processuale" (che influisce sulla pena). E ha aggiunto: "E mi dispiace che sugli imputati a volte ricadano le scelte dei difensori". Il giudice che ha usato quelle parole in udienza sarebbe Filippo Grisolia, presidente dell'undicesima sezione penale. Il giudice, secondo la Camera penale, ha così violato "l'autonoma determinazione del difensore nelle scelte processuali, il quale deve essere libero di valutare l'opportunità o meno di svolgere il proprio controesame". In più il magistrato ha violato le norme che "riconducono la commisurazione della pena esclusivamente a fattori ricollegati alla persona dell'imputato", oltre a manifestare "non curanza per alcuni dei principi cardine del processo accusatorio, ovvero quelli del contraddittorio nella formazione della prova". I penalisti milanesi, dunque, preso atto che "le segnalazioni agli uffici giudiziari" fatte in passato "non hanno ottenuto" lo scopo di "neutralizzare" i comportamenti lesivi del diritto di difesa, e ritenuta "la gravità del fenomeno che il caso processuale riportato denuncia", hanno deciso di astenersi dalle udienze e da "ogni attività in ambito penale" per il 17 luglio prossimo. Con tanto di "assemblea generale" convocata per quel giorno per discutere "i temi" della protesta. "Questo fenomeno della violazione del diritto di difesa - ha spiegato il presidente della Camera penale milanese, Salvatore Scuto - è diffuso ed è emerso con virulenza in questo caso specifico, ma non va ridotto al singolo giudice che ha detto quello che ha detto. Questa è una protesta - ha aggiunto - che non va personalizzata, ma che pone l'indice su un problema diffuso e che riguarda le garanzie dell'imputato e il ruolo della difesa". La delibera è stata trasmessa anche al presidente della Repubblica, al presidente del consiglio dei ministri, al ministero della Giustizia e al Csm, il Consiglio superiore della magistratura.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere. 

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

La vittoria di Pirro dei nostri politicanti. Con la metà dell'elettorato che va a votare, che è poi lo zoccolo duro della sinistra che voterebbe pecore e porci, chi vince governa con solo con il 30% dei consensi, tanto basta per non cambiare le cose...e poi la chiamano democrazia. La gente non vota perché non si sente rappresentata da quei personaggi che la notorietà mediatica, per essere eletti, l’hanno conquistata per mezzo dei loro gaglioffi che hanno occupato le redazioni di Tv e Carta stampata. Il web può solo produrre un’accozzaglia di personaggi in cerca di autore. Coacervo di idee sinistroidi che si fa movimento e che guarda solo all’aspetto finanziario-economico della debacle della società italiana.

Giampaolo Pansa su “Libero Quotidiano”: "Elezioni? No, inutile delirio. io a votare non ci vado più". Ma si tengono ancora le elezioni in Italia? Se devo stare a quel che leggo sui giornali, sembra di no. Tra due domeniche si dovrebbe votare in sette regioni, ma la battaglia tra i partiti assomiglia sempre di più a un inutile delirio. Sento parlare di futuri presidenti in teoria eccellenti, ma circondati da un corteo di impresentabili. Le cronache politiche diventano bollettini di cronaca nera. Emergono scandali a ripetizione. Dopo il voto, scommetto che in tanti urleranno ai brogli commessi dagli avversari. Se fossi un reduce delle Brigate rosse, mi fregherei le mani: quello che non siamo riusciti a fare noi, l’hanno realizzato i partiti. E senza neppure lasciarsi alle spalle qualche morto ammazzato e un po’ di gambizzati. Ma sono sempre state così le elezioni? Un signore che si chiamava Benito Mussolini le definiva «ludi cartacei». Però lui non aveva bisogno delle urne. Una volta varata la legge Acerbo, la nonna dell’Italicum di Matteo Renzi, inchiodò gli italiani al suo regime. E tirò diritto lungo una strada che avrebbe portato l’Italia verso la catastrofe della seconda guerra mondiale. Dove ci porterà il premier oggi in carica non lo sa nessuno, tanto meno il suo imponente staff di Palazzo Chigi. Dunque voglio rimanere con i piedi per terra. E rievocare le prime elezioni del dopoguerra. Quelle che videro una novità rivoluzionaria: l’irrompere sulla scena politica di una forza strapotente che avrebbe cambiato il volto dell’Italia e deciso a chi sarebbe andato il governo del paese. Questa forza erano le donne. In casa nostra, per secoli non avevano mai votato. Andare alle urne era prerogativa dei maschi, «come il pisciare in piedi», rognava la più giovane delle mie zie. Poi un decreto firmato da Umberto di Savoia il 1° febbraio 1945, tre mesi prima della Liberazione, stabilì che anche le signore potevano presentarsi ai seggi. Il primo effetto fu il raddoppio del corpo elettorale, da 11 a 23 milioni di iscritti alle liste. Un notorio dongiovanni della mia città bofonchiò a una delle sue amanti: «Non immaginavo che foste così tante. Adesso vi monterete la testa, comincerete a fare le preziose e ce la mostrerete con il lanternino!». La più spavalda delle sue morose, gli replicò: «Adesso dovrai votare il partito che ti dirò io. Altrimenti scordati il mio indirizzo». Un altro effetto fu di consentire a mia madre di andare al seggio come non aveva mai fatto. Erano le prime elezioni dell’Italia liberata. Accadde il 31 marzo 1946 e lo scopo era di decidere chi avrebbe amministrato le città. Le urne si aprirono in cinque domeniche diverse e per grandi raggruppamenti. Il motivo era semplice: occorreva presidiare i seggi, ma siccome la forza pubblica era molto scarsa, bisognava lasciarle il tempo di spostarsi da una zona all’altra. Fu una corsa a tappe e si svolse nella più assoluta normalità. Con un’affluenza alle urne assai alta per l’epoca: il 71,6 per cento, un’utopia nell’Italia del 2015. Nella mia città, un comune di 35 mila abitanti in Monferrato, si presentò al voto addirittura l’88 per cento del corpo elettorale. Contribuirono a quel record anche mio padre Ernesto e mia madre Giovanna. Lei era una femminista inconsapevole perché guadagnava più di papà. Lui un uomo dolce, operaio guardafili del telegrafo. L’arrivo di Giovanna al seggio, aperto nelle scuole elementari di via Cavour, fu memorabile. Si era messa in ghingheri come per andare a un matrimonio. In più si fece accompagnare da due giovani clienti che erano uno schianto. Disse alle ragazze: «Tiratevi su le calze, donne, perché dobbiamo mandare al tappeto gli scrutatori, soltanto maschi e di quelli stagionati!». L’ingresso in sezione del Trio Lescano lasciò tutti a bocca aperta. E non avevano ancora visto il cartello che Giovanna aveva appeso alla saracinesca abbassata del suo negozio. Diceva: «La proprietaria di questa modisteria finalmente va a votare per la prima volta. Alla bella età di 42 anni!». Mio padre Ernesto osservò: «Non ti sembra di agitarti un po’ troppo?». Giovanna gli replicò: «Mio caro Netu, oggi il troppo o il poco lo decido io!». Di quelle prime elezioni del dopoguerra ricordo un’armonia sociale che nel 1948 sarebbe svanita a causa dello scontro all’ultimo voto tra la Dc e il Fronte democratico popolare. Pur essendo una tifosa di De Gasperi, mia madre stravedeva per una nipote, figlia dell’ultimo fratello di mio padre, Francesco. Dopo essere andato a lavorare in Argentina, era tornato in Italia e aveva sposato la tredicesima figlia di un pescatore del Po, Giuseppina, detta Pinota. Piccola, mora, occhi vivaci, carattere da comandante, portava in dote soltanto una cosa di valore: la licenza per aprire una trattoria. Nacque così l’Osteria del Ponte, di fronte al Po. Francesco era comunista e quando si trattò di inaugurare la bandiera della sezione di Porta Po, lo fece in pompa magna. E chi era la madrina? Mia cugina Luigina, sedici anni, un viso incantevole, capelli neri lunghi sulle spalle, labbra perfette, sguardo da stendere tre giovanotti. Indossava un vestito intero, con la gonna plissettata che lasciava intuire una silhouette da sballo. Giovanna le aveva suggerito di tenere in mano un bouquet di fiori. Insieme all’armonia, c’era anche molto pragmatismo. Alle comunali del 1946 vinsero i socialisti con sette mila voti. I democristiani ne ebbero appena trecento in meno. Terzi i comunisti. Sindaco della città divenne il socialista Paolo Angelino, professore di inglese, con una data di nascita impossibile da scordare: 1° gennaio 1900. Giovanna confessò a mio padre: «Anch’io ho votato per Angelino». Sorpreso, lui osservò: «Ma non sei una tifosa di De Gasperi?». Lei alzò le spalle: «Che c’entra? Adesso si tratta di rimettere in ordine la città, dopo tanti anni di guerra. Il professor Angelino è l’uomo giusto per riuscire a farlo. Sai come lo chiamano? Pietrischetto Bitumato. E sai perché?». Ernesto sbuffò: «Sei tu quella che sa sempre tutto». Allora mia madre gli spiegò: «Il sindaco controlla di nascosto che i cantonieri lavorino a dovere sulle strade. Arriva a nascondersi dietro le piante o nei portoni e si accerta della consistenza dell’asfalto con la punta della scarpa. Ho fatto bene a votarlo. Quando sceglieremo il Parlamento mi comporterò in un modo diverso». Pietrischetto Bitumato era di un’onestà a tutta prova. Voleva il bilancio sempre in pareggio. Ci teneva al buon nome del municipio di fronte agli elettori che continuarono a votarlo, anche quando si presentò alla Camera dei deputati. Era un socialista colto, ottimo parlatore, lettore infaticabile di buoni libri. Com’era fatale, teneva molto alle sue tre cariche: sindaco, deputato, capo dei socialisti cittadini. Per noi ragazzacci era il Califfo. Quando gli chiedemmo la tessera del Psi, ci cacciò dal suo studio strillando: «Non sono mica matto! In un mese voi mi distruggete il partito!». Che cosa è rimasto di quel tempo? Nulla. Tanto che mi domando se devo ritornare a votare. La mia risposta è che non ci andrò più. Non ho niente da spartire con i partiti di oggi, se non i torti che potrebbero farmi. E adesso il compagno Renzi mi iscriva pure nella lista nera dei gufi e dei rosiconi. Non me ne potrebbe fregare di meno. Giampaolo Pansa.

E' possibile avere un po' meno corruzione? Si Chiede Bruno Manfellotto su "L'Espresso". Non bastano leggi più severe o l’Autorità di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno. È luogo comune o verità che l'Italia sia il paese più corrotto d'Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l'Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa', è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c'è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete "l'Espresso" lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po' come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al "Corriere della Sera", quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c'è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale. Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent'anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi. Tra le tante cause del decadimento c'è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l'idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un'area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L'idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile. E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l'approvazione della legge Severino, con l'istituzione di un'autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell'impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c'è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c'è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.

Ecco la mappa della corruzione disegnata dagli studenti. Il progetto coinvolge mille ragazzi: per mesi hanno raccolto dati e testimonianze sulla corruzione in Lazio, Campania e Lombardia. Produrranno un "Atlante" che la fotografa nei loro quartieri, scrive Manuel Massimo su “La Repubblica”. Da discenti a docenti: gli studenti del progetto per la legalità "Piccolo Atlante della corruzione", dopo aver indagato il fenomeno sul campo e raccolto in forma anonima le testimonianze dei soggetti a rischio, si stanno preparando alla lezione conclusiva di fine maggio che li vedrà protagonisti. Saranno proprio loro a salire in cattedra per "insegnare" quello che hanno imparato dai tutor e agli esperti che li hanno seguiti nel corso del laboratorio - ideato e promosso da Beatrice Ravaglioli del circolo "Libertà e Giustizia" di Roma, finanziato dal Miur, sostenuto attivamente dall'Autorità nazionale anticorruzione, dall'Associazione nazionale magistrati e in collaborazione con l'Università di Pisa e con Repubblica.it. I materiali prodotti dalle 15 scuole aderenti al progetto confluiranno nel "Piccolo Atlante della corruzione": una pubblicazione scaricabile gratuitamente online che potrà essere utilizzata anche dagli addetti ai lavori che ogni giorno combattono per la legalità. Questa seconda edizione del progetto (2015) - partito lo scorso anno in via sperimentale solo a Roma e nel Lazio e allargato quest'anno anche alla Campania e alla Lombardia - ha visto la partecipazione di oltre mille ragazzi, studenti delle scuole superiori, che hanno mappato la percezione del fenomeno "corruzione" nei territori accanto ai loro istituti grazie a questionari (somministrati anonimamente a una varietà di soggetti potenzialmente interessati dal problema, ndr) messi a punto seguendo le indicazioni del professor Alberto Vannucci, politologo e direttore del Master anticorruzione presso l'Università di Pisa. Non si è trattato di un modello di didattica calata dall'alto, ma piuttosto di un processo attivo di raccolta ed elaborazione dei dati, come spiega Vannucci: "Nelle fasi iniziali noi docenti ed esperti abbiamo fornito ai ragazzi gli strumenti d'indagine: poi sono stati loro a elaborare da soli il questionario mappando i settori più a rischio e diventando protagonisti". Dopo aver ascoltato dal vivo le testimonianze di giornalisti sotto scorta come Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria per Repubblica, gli studenti hanno intrapreso un percorso di studio sul campo, indagando nei meandri del sommerso e diventando giovani "sentinelle della legalità" anche in contesti difficili dove la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa sentire. Ogni scuola ha elaborato autonomamente un questionario specifico, partendo da una base comune ma modellandolo sulle peculiarità del proprio territorio. Un'operazione che fornirà una mappa diversificata e territoriale della corruzione, partendo anche da casi concreti. L'elemento della comparazione è fondamentale in questo tipo di studi, ne è convinto il professor Vannucci che auspica un ulteriore allargamento del progetto: "Dopo l'esperienza-pilota dello scorso anno e questa seconda edizione che ha coinvolto anche altre due Regioni, da studioso del fenomeno spero che il progetto possa crescere ancora. I ragazzi coinvolti hanno sviluppato gli anticorpi per la legalità e maturato una fiducia critica nelle Istituzioni, perché troppo spesso la sfiducia radicale nasce dall'ignoranza ed è lì che bisogna andare a stimolare la presa di coscienza su determinati temi". Il "Piccolo Atlante della corruzione" sarà composto da 15 parti - una per ciascuna delle scuole coinvolte nel progetto itinerante per la legalità - e scatterà un'istantanea del fenomeno che potrà essere utilizzata come base di ulteriori indagini e approfondimenti della magistratura. Uno strumento utile, soprattutto oggi che la corruzione si è "smolecolarizzata" e troppo spesso riesce a passare inosservata, come sottolinea Vannucci con tre aggettivi: "Sotterranea, invisibile, impercettibile". Portare a galla il sommerso rappresenta dunque il primo passo per guardare dritto negli occhi il problema, prenderne coscienza e impegnarsi in prima persona per cercare di risolverlo. I tre incontri finali - uno in Lombardia, uno nel Lazio e uno in Campania - si stanno avvicinando e gli studenti sono pronti a salire in cattedra: l'appuntamento di Napoli è fissato per mercoledì 20 maggio a partire dalle ore 10 presso l'Istituto di Istruzione Superiore "Sannino-Petriccione"; già calendarizzato anche l'incontro di Roma, che si terrà la mattina di venerdì 29 maggio nell'aula magna dell'Università Sapienza, alla presenza tra gli altri del presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e con la partecipazione dell'attore Elio Germano. I ragazzi, sentinelle di legalità, hanno studiato la corruzione nelle strade che percorrono tutti i giorni per andare a scuola e ora sono pronti a salire in cattedra per parlarne in pubblico: un piccolo passo individuale per ciascuno, ma un grande esempio collettivo per tutti nella lotta alla corruzione.

Corruzione? Tutto il mondo è paese, scrive Alessandro Bertirotti su “Il Giornale”. È tutta questione di… disonestà. Abbiamo letto in molte classifiche che la nostra meravigliosa nazione è fra gli ultimi posti rispetto alla capacità di combattere la corruzione, e dunque ai primi per il numero di casi in cui tale reato è presente. E questo, ovviamente, assieme a molte altre cose non positive rappresenta per noi tutti un disonore, specialmente quando i rappresentanti di questo reato sono persone che vengono definite “onorevoli”. Scritto questo, è interessante sapere che anche nel mondo islamico esiste un divieto a procurare corruzione, come ad accettare di essere corrotti, e lo si legge nella seconda Sura. I corrotti sono coloro che non rispettano le leggi che Allah ha fornito agli uomini per vivere in pace fra loro; sono coloro che al posto di conciliare spargono divisioni e male per il prossimo; coloro che rubano, non sono leali e sfruttano la fiducia degli altri per il proprio personale tornaconto. Insomma, anche per il Corano questo comportamento viene profondamente sanzionato ed è considerato un vero e proprio oltraggio ad Allah, il quale giungerà a vendicarsi con questi suoi figli fedifraghi. Ebbene, qualche giorno fa, ho incontrato una persona che mi raccontava di essersi recato a Roma in una ambasciata di un Paese arabo, imbattendosi in un funzionario che per un documento ha rilasciato una ricevuta di Euro 25,00, chiedendone però 50,00. La motivazione è stata che, avendo la richiesta le caratteristiche dell’urgenza, vi era il costo aggiuntivo di 25,00 euro, fuori ricevuta, ovviamente. Bere oppure affogare, proprio come accade da noi quando andiamo da un professionista che non ci rilascia la ricevuta con il giusto prezzo pagato. Ho l’impressione che le classifiche che vengono stilate su questo tipo di comportamento umano, non tengano conto di quanto il concetto di corruzione sia diventato pervasivo, anche all’interno di quei paesi che ci sembrano tanto diversi da noi. E sono anche convinto che tale situazione sia rinvenibile in altri paesi, ad esempio in quelli del Nord Europa, perché la questione non è legata solo alla morale religiosa, ma anche a quello che ogni individuo pensa di se stesso. In sostanza, non lamentiamoci dei nostri ladri perché i ladri abitano l’intero mondo e non dipende dalla religione professata se una persona si comporta male con il mondo intero, quanto dall’asservimento che la mente umana, di qualsiasi cultura essa appartenga, accorda al dio denaro. È il dio denaro che governa come un Principe questo mondo, e servirlo significa dedicare molti atti della propria vita a comportamenti come questi, dimenticando che il libero arbitrio lo possiamo esercitare in tutte le cose della vita quotidiana, anche nelle più piccole.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

Ecco come i politici manipolano i numeri. Da Berlusconi a Renzi, 20 anni di bugie. Dal milione di posti di lavoro al bonus di 80 euro, passando per tesoretti che appaiono e scompaiono e stime (come quelle Istat) su contratti e disoccupazione: sondaggi, tabelle e statistiche hanno invaso media e tv, e sono usate dai politici come strumento di propaganda. Così anche la matematica è diventata un'opinione, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Quando dà i numeri, Matteo Renzi sembra ispirarsi alla leggendaria lezione di economia di “The Wolf of Wall Street”. «Regola numero uno: nessuno (ok, se sei Warren Buffett allora forse sì), nessuno sa se la Borsa va su, va giù, di lato o in circolo», ragiona il broker Matthew McConaughey mentre spiega strafatto di coca a Leonardo DiCaprio come fare soldi e fregare i clienti. I dati e le cifre? «Sono tutto un “fughesi”, un “fugasi”, cioè falso, volante... polvere di stelle, non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi, non è reale cazzo!». Ecco. A vedere le statistiche snocciolate dal premier e dai suoi ministri nelle ultime settimane, sembra che in Italia, come nel film di Martin Scorsese, la matematica sia diventata un’opinione, un luogo dove 2 più 2 può fare anche 5, 7 o 39, a secondo delle esigenze e degli esegeti del numero. Così, se un tesoretto da «1,6 miliardi» può apparire improvvisamente in un bel giorno di primavera e scomparire 48 ore dopo, per rinascere ancora (accresciuto o sgonfiato, a seconda dell’economista che ne scrive) in qualche dichiarazione al tg, e se le previsioni di crescita del Pil piazzate nel Documento di programmazione economica sembrano scientifiche quanto una partita a dadi, i dati sugli effetti del nuovo Jobs Act sono metafora perfetta dell’affidabilità delle tabelle che dominano il dibattito pubblico. Già: sia a fine marzo che a fine aprile il ministro Giuliano Poletti ha annunciato il miracolo, spiegando che la nuova legge aveva creato 79 e 92 mila contratti in più. Dopo una settimana l’Istat ha però certificato che il tasso di disoccupazione, proprio a marzo, ha raggiunto il suo massimo storico, toccando il 13 per cento. «I numeri non sono confrontabili», hanno spiegato fuori di sé da Palazzo Chigi. Oggi l'Istituto ha rilasciato un'altra sfilza di dati, stavolta trimestrali, che evidenzierebbero un boom (grazie al taglio delle tasse per chi assume) di contratti a tempo indeterminato. Insomma, ce più o meno lavoro di prima? Nemmeno i chiromanti e gli economisti più quotati finora ci hanno ancora capito nulla. Dal milione di posti di lavoro promessi da Silvio Berlusconi nel 1994 fino agli 80 euro del bonus Renzi, passando per l’ossessione europea del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, sono più di vent’anni che la dittatura dei numeri condiziona le elezioni, il confronto politico e, conseguentemente, l’evoluzione della società. La passione per le tabelle è diventata una moda e poi una malattia, un diluvio di cifre ci piove in testa tutti i santi giorni. «È vero. Il boom delle cifre è un fenomeno evidente, tangibile, ed è contestuale alla fine delle ideologie», spiega Ilvo Diamanti, ordinario all’università di Urbino che con dati e sondaggi ci lavora da sempre. «Durante la Prima Repubblica politica e partiti erano fondati su certezze granitiche, ma la fine della contrapposizione tra democristiani e comunisti, sommata al declino della fede religiosa, ha cambiato tutto. Le statistiche rappresentano una risposta alla crisi dei valori tradizionali, hanno riempito un vuoto, e sono diventate un totem». Scomparsi i fondamenti culturali e le visioni etico-morali su cui si disegnavano gran parte delle misure politiche e delle strategie sociali, dunque, la matematica e la statistica sono diventate il filtro più usato per rappresentare e analizzare la realtà. I politici, ovviamente, ci sguazzano dappertutto, ma sotto le Alpi lo fanno con accanimento e modalità che altrove non hanno attecchito: non è un caso che nel “Grande dizionario della lingua italiana” la locuzione «dare i numeri» vuol dire anche «apparire insincero, suscitare il sospetto di tramare un inganno, di agire con doppiezza, con fini reconditi». Di sicuro i numeri sono diventati un corredo indispensabile a ogni strategia comunicativa. Ma, oltre a dare sostegno alle chiacchiere e una parvenza di concretezza alle parole, in Italia vengono usati soprattutto per impressionare, suggestionare, muovere passioni, speranze e paure. Se nel contratto con gli italiani Berlusconi prometteva «l’innalzamento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese» e «la riduzione delle imposte al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui», nel 2013 Bersani spiegò di voler restituire alle imprese «50 miliardi in 5 anni» in modo da diminuire i debiti della pubblica amministrazione. Il cavallo di battaglia di Beppe Grillo è, da sempre, il reddito minimo di cittadinanza «da mille euro al mese», mentre Matteo Salvini afferma, da giorni, che «un milione di immigrati è pronto a salpare dalla Libia per le nostre coste». Secondo il linguista Michele Porcaro, dell’università di Zurigo, c’è anche una strategia precisa nel dare i numeri, a seconda di cosa si vuole comunicare: la cifra tonda (un milione, un miliardo) «è in funzione di aggressione verbale», scrive l’esperto, «serve non a essere credibili, ma a suggestionare. Se si vuole suonare affidabili, invece, si usa la cifra esatta». In quest’ultimo caso, però, l’eccesso di pignoleria può causare effetti comici, come quando Berlusconi annunciò che durante il suo mandato a Palazzo Chigi «gli sbarchi di clandestini si sono ridotti del 247 per cento». Fosse stato vero, sarebbe addirittura un saldo negativo, sotto zero. Già nel 1954 Darrell Huff nel best seller “Mentire con le statistiche” spiegava che i politici hanno una tendenza innata alla manipolazione della matematica. Che in sé è oggettiva e non opinabile, ma la sua interpretazione è assai discutibile. Prendiamo il tasso di disoccupazione: un dato che dovrebbe essere obiettivo e invece dipende da decine di parametri: hai risultati diversi se consideri o meno gli scolarizzati, l’ampiezza della popolazione che misuri, puoi decidere se dare il tasso annuale, mensile, tendenziale. «Alla fine il politico sceglie quello che gli conviene maggiormente. L’ambizione primaria dei partiti non è quella di riformare il Paese, ma costruire consenso», spiega ancora Diamanti. «E i numeri sono invece facili da strumentalizzare. Io per primo, quando faccio sondaggi elettorali, so che il mio lavoro può essere usato come mezzo di condizionamento delle masse. Bisogna, proprio per questo, che gli studi siano autorevoli, e che i media sappiano discernere tra fatti e fattoidi». La propaganda non è l’unico modo in cui i politici e gli opinionisti stuprano le cifre. Altra caratteristica nazionale è quella di commentare fenomeni che non si conoscono a fondo, e imbastire analisi con numeri orecchiati al volo. «Nessuno studia, nessuno sa nulla, e così gli errori non si contano più. Anche perché ministri e deputati hanno mutuato dalla Borsa, sempre affamata di previsioni, una tendenza a pubblicare dati provvisori, che dopo poco tempo possono subire enormi revisioni», ragiona Giacomo Vaciago, economista all’Università Cattolica di Milano. «Questo avviene soprattutto in Italia, dove i politici hanno ormai una veduta non corta, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, ma cortissima: se esce un dato sull’occupazione o sul Pil, un sondaggio o uno studio dell’ultima associazione dei consumatori, il politico vuole subito commentarlo, in modo da comparire sui telegiornali delle 20, sui siti, sulla stampa e nei talk show. Pazienza se il dato è solo una stima che può cambiare dopo qualche giorno: mal che vada si fa sempre in tempo a tornare in tv e ricommentarlo, dicendo il contrario di quanto affermato prima. È tutta fuffa, una bolla, numerologia irrazionale. La cosa incredibile è che tutti noi ci viviamo in mezzo, a questa panna montata, come fossero sabbie mobili». Così non deve stupire che esperti vari, economisti, e persino i cervelloni di Bankitalia abbiano prodotto decine di interventi per spiegare come spendere al meglio il tesoretto da 1,6 miliardi di euro che dopo un po’ si è ridotto della metà, e che oggi rischia di scomparire mangiato da un nuovo buco miliardario causato dalla sentenza della Consulta che ha bocciato come incostituzionale quella parte della riforma Fornero sul blocco delle pensioni (anche qui si è passati da 5 a 13 miliardi di euro in due giorni appena). Un provvedimento che angosciò anche i cosiddetti esodati, lavoratori finiti in un limbo tra lavoro e pensione. Per mesi non si capì quanti fossero davvero: se il governo Monti li quantificò in 65 mila persone, l’Inps parlò inizialmente di 130 mila casi, lievitati in una seconda relazione tecnica a 390 mila, mentre il sindacato ne contò 300 mila. Nemmeno fossimo alla tombola di Natale. Se fin dalle scuole elementari i numeri danno ai futuri contribuenti un’illusoria garanzia di precisione, oggi gli italiani non riescono a sapere con certezza nemmeno quante tasse pagano: se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che il 2014 s’è chiuso con una riduzione della pressione fiscale, l’Istat - classificando il bonus da 80 euro come spesa sociale e non come riduzione del peso fiscale - ha fotografato invece un nuovo picco, arrivato al 43,5 per cento del Pil. Anche i numeri ballerini sulla spending review hanno intasato per mesi tv e giornali: se l’ex commissario Carlo Cottarelli parlò di tagli «per 8-14 miliardi», il governo Renzi ha recentemente ipotizzato «tagli per 10 miliardi». Alla fine, visto che gran parte degli impegni è rimasta solo su carta, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Almeno così sostiene la Ragioneria dello Stato. Se le cifre hanno sostituito le ideologie, coloro che le maneggiano sono diventati i nuovi guru, i sacerdoti della modernità. «E i numeri», aggiunge Diamanti, «sono il nuovo dio: peccato che, per definizione, siano molto meno obiettivi e infallibili di quanto si creda». La voglia incontenibile di tabelle e grafici ha fatto esplodere la domanda di cifre e sondaggi già da qualche lustro, ma oggi, nell’era dei Big Data, la tendenza è ancora più evidente. La società chiede ai numeri le risposte alle domande che pone: decisioni aziendali, personali, politiche vengono prese innanzitutto su dati statistici. I numeri fanno ascolto, piacciono alla gente, e non è un caso che economisti ed esperti, veri o presunti, siano diventati star assolute della tv e del web: sondaggisti come Renato Mannheimer, Nicola Piepoli e Nando Pagnoncelli sono ospiti fissi nei talk, ascoltati e riveriti da politici e giornalisti come fossero la Sibilla Cumana (e pazienza se a ogni elezione le loro previsioni si dimostrano distanti dalla realtà); economisti come Tito Boeri hanno fondato siti di successo come lavoce.info e hanno fatto carriere importanti (Renzi l’ha nominato presidente dell’Inps, mentre cinque suoi redattori sono in aspettativa dopo aver ottenuto incarichi politici); piccole associazioni di artigiani, come la Cgia di Mestre, hanno pure creato un inedito business delle tabelle, grazie a un ufficio studi che macina centinaia di analisi e classifiche l’anno, riprese quotidianamente da agenzie di stampa e giornali. «Per fortuna non ho beccato neppure una smentita», disse il segretario Giuseppe Bortolussi in un’intervista a “Panorama”, dimenticando però le critiche arrivate da Asl, assessori comunali, Regioni ed economisti assortiti. «Questa associazione ha una buona notorietà, ma a volte dà i numeri», notò pure Marco Ponti, ordinario di Economia a Milano. «Non che i numeri che dà siano tecnicamente sbagliati, ma confonde tra di loro dati che non c’entrano affatto». Bortolussi, per la cronaca, ha ottenuto un ritorno d’immagine straordinario, e nel 2010 è stato anche candidato del Pd in Veneto alle regionali contro Luca Zaia. Il doping informativo ha travolto tutto, e non c’è fenomeno che non venga misurato e quantificato. Dal presunto boom dei suicidi degli imprenditori (bufala di cui i media si sono occupati per mesi) all’«inflazione percepita» in voga dopo il passaggio dalla lira all’euro, non c’è organismo o consorteria che non abbia un suo centro studi che macina dati e fornisce tabelle facendo concorrenza a Istat, Ocse e Eurostat: dai sindacati alla Confcommercio, da Confindustria al Codacons di Carlo Rienzi, dalle banche al Censis, il delirio di cifre su Pil, fatturati industriali, tasse, stime per la ripresa e crisi dei consumi non lascia tregua a nessuno, ventiquattro ore su ventiquattro. Vittima predestinata dell’overdose è ovviamente l’opinione pubblica, intontita da dati che alla lunga perdono di senso e di valore, in uno tsunami di matematica che, se da un lato allontana dalla verità, dall’altro distanzia le masse dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Perché in tanti, ormai, cominciano a comprendere l’aforisma dell’ex primo ministro inglese Benjamin Disraeli: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche».

Così sono aumentate le tasse sul lavoro. Ecco chi paga di più. E dove conviene emigrare. La pressione fiscale nel nostro Paese non vuole saperne di ridursi e ha raggiunto ormai una cifra record. Ma non tutte le categorie dei lavoratori sono vessate allo stesso modo. E il confronto con alcuni paesi europei è impietoso, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. La teoria è semplice - quasi banale: lo stato esiste per servire i propri cittadini. A volte invece succede il contrario, soprattutto nei momenti di difficoltà. Dall'inizio della crisi economica il conto è diventato sempre più salato, e a pagarlo sono state le tasse dei cittadini: anche quelle sul lavoro. I dati Ocse mostrano che rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi economica, tasse sul lavoro e contributi sono aumentate per quasi tutti i tipi di famiglie - per alcune molto più di altre. Prendiamo una famiglia con un solo coniuge che lavora e guadagna uno stipendio nella media - intorno ai 30mila euro lordi l'anno. Per loro, due figli e spina dorsale della classe media italiana, in sette anni il cuneo fiscale è passato dal 35,7 percento al 39 percento. Non ci vuole molto neppure per essere considerati ricchi: il secondo incremento più consistente è per i single senza figli con un reddito lordo sui 50mila euro - per un guadagno di circa 2.500 euro netti al mese -, che fra tasse e contributi passano al 53,8 percento contro il 51,4 percento del 2007. Aumentano le pretese dello stato anche verso i lavoratori single senza figli, nonché per le coppie in cui un coniuge ha reddito medio e l'altro invece molto basso, sui 10mila euro. Unica eccezione, i single con un reddito medio-basso, per i quali invece il cuneo fiscale è diminuito - anche se di poco. Eppure tassare il lavoro ha due effetti collaterali. Il primo - più evidente - è che sottrae reddito alle persone, così che ogni mese hanno meno da spendere o risparmiare. Il secondo è più sottile ma non meno importante: tanto più un datore di lavoro si trova costretto a pagare contributi elevati, tanto più sarà difficile mantenere i dipendenti che ci sono già - per non parlare di assumerne nuovi. È una cosa che può succedere a chiunque. Poniamo di aver bisogno di una persona che si occupi delle pulizie, qualcuno che badi a un anziano in famiglia. Se aumentano le tasse sul lavoro non ci sono molte alternative: o troviamo qualcuno che si accontenta di guadagnare poco - magari meno bravo -, oppure è necessario dargli uno stipendio più alto per compensare. E se salgono i contributi il risultato non cambia. Ma noi non siamo ricchi, né possiamo spendere troppo, soprattutto in tempi incerti come questi. Forse abbiamo soltanto qualcuno che dia una mano ogni tanto, senza troppe pretese. Così, invece di prendere qualcuno, lasciamo perdere e facciamo noi uno sforzo in più. Risultato: meno lavoro. L'esatto contrario di quanto sarebbe necessario mentre la disoccupazione cresce. Se invece confrontiamo l'Italia con altre nazioni europee la troviamo nel gruppo di quelle che il lavoro lo tassano di più. Allora forse non è un caso che tanti italiani decidano di trasferirsi a Londra, visto proprio in Gran Bretagna per un single senza figli e con un reddito medio-basso - una situazione comune per tanti giovani espatriati - tasse e contributi incidono per il 26 percento. Nella stessa identica situazione, per una persona nel nostro paese ammontano invece al 42 percento: un differenza che vale diverse migliaia di euro - ogni anno. Non sono l'unico gruppo: in generale nel Regno Unito il cuneo fiscale è più ridotto per tutti i tipi di famiglie e risulta generoso soprattutto verso i single con due figli a basso reddito, per i quali non arriva neppure al 6 percento. Anche in Spagna le famiglie sono meno pressate dalle tasse. Qui però la differenza maggiore con il nostro paese riguarda le coppie con figli e reddito medio basso, che sono più tutelate. Ma poiché in Europa il paese iberico è il più simile all'Italia - sotto tutti i punti di vista - sorprende trovare un sistema fiscale tanto diverso dal nostro. Francia e Germania, d'altra parte, hanno livelli di tassazione sul lavoro pressappoco equivalenti all'Italia. Non identici, però: se Londra sembra essere un rifugio per i giovani lavoratori, Parigi va in senso opposto - lì il cuneo fiscale per quel tipo di persone è persino più elevato che in Italia. La Germania è un caso a parte, e riesce ad avere allo stesso tempo tasse elevate e un livello di disoccupazione molto basso, anche per i giovani. Certo tasse e contributi sul lavoro sono una parte importante dei balzelli che cittadini e datori di lavoro devono versare allo stato, ma certo non gli unici. In realtà il loro aumento, negli ultimi anni, è andato di pari passo con una crescita generalizzata della pressione fiscale. Mentre la crisi imperversava già da tempo, Berlusconi rassicurava il paese. “I ristoranti sono pieni”, diceva ancora nel 2011, evitando di prendere misure - anche minime - per attenuare la gravità degli eventi. Così la situazione è diventata ancora più grave. Dopo di lui il governo tecnico di Monti, la cui manovra economica ha pesato di più proprio dal lato delle imposte: in questo modo l'Italia arriva ad avere una pressione fiscale pari al 43,5 percento del prodotto interno lordo. Ogni dieci euro prodotti dai 60 milioni di abitanti della penisola, quattro e 35 centesimi si trasformano in tasse dovute allo stato. È un livello mai raggiunto prima durante la Seconda Repubblica. Il governo guidato da Enrico Letta, più avanti, non modifica questo rapporto in maniera sostanziale. Né le cose cambiano con Renzi e il suo bonus di 80 euro, che secondo le convenzioni statistiche internazionali vale come ulteriore spesa pubblica - anch'essa a livelli record. Così si torna al punto di partenza mentre l'economia resta ferma, e con lei il reddito degli italiani - soprattutto di chi ha meno.

Cervelli in fuga, un problema non solo italiano. Ecco chi sono e dove vanno i nostri emigranti. Il nostro paese continua a "esportare" laureati, ma ha difficoltà ad attrarne. Scopri con le nostre infografiche interattive quali sono le mete principali e dove preferiscono andare quelli con la tua età e titolo di studio, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Di italiani in giro per il mondo ce ne sono sempre di più, e su questo non c'è dubbio. Ma chi sono, e dove vanno esattamente? Secondo le stime prodotte dall'Ocse e aggiornate al 2010, con 450mila migranti gli Stati Uniti sono risultati come prima meta degli espatriati italiani. Seguono Francia (350mila), Germania (340mila), Canada (260mila), Svizzera e Australia (entrambe 185mila). Il flusso verso il Regno Unito si ferma a 140mila persone, mentre quello diretto in Spagna a 80mila. Altri gruppi più piccoli sono andati a cercare fortuna in Polonia, Irlanda o persino in Grecia, meno ancora nell'esotico Giappone. Anche i dati Istat, aggiornati fino al 2013, mostrano che negli ultimi anni i flussi di italiani che vanno via sono in aumento. Dal 2010 le cose non sembrano essere cambiate troppo e le destinazioni preferite restano, nell'ordine, Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia e Stati Uniti. Se però andiamo a guardare più in dettaglio, emergono preferenze molto specifiche a seconda dell'età, del sesso e del proprio titolo di studio. Per esempio paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna sono le mete preferiti dei giovani laureati, soprattutto maschi. Chi ha un'istruzione inferiore tende invece a dirigersi spesso verso Germania, Spagna e Svizzera. Discorso diverso per la Francia, più in alto fra le destinazioni delle giovani donne laureate. Anche Australia e (soprattutto) Canada risaltano per ospitare un nutrito gruppo di italiani. Di questi buona parte è composta da anziani a bassa scolarizzazione: due mete molto diffuse per le migrazioni del dopoguerra, e che però ora sembrano attrarre meno chi decide di andare via. Quando si parla di emigrazione proprio i laureati sono una delle categorie cui prestare più attenzione. Una maggiore cultura è in sé un valore aggiunto, impossibile negarlo, e poi c'è un elemento in più. Tracciarne le migrazioni è un utile indizio per capire quali sono i paesi più dinamici, aperti al cambiamento e alle nuove idee: da dovunque esse vengano. Il discorso vale anche al contrario, per stabilire i luoghi più ambiti da parte di chi lascia il proprio paese natale. Qual è allora la situazione in Italia? Sono pochi, pochissimi gli arrivi di laureati. E in effetti proprio l'Ocse, in uno studio preliminare , conferma che in quanto a capacità di attirare talenti l'Italia fa peggio di tutti gli altri paesi con cui, in teoria, vorrebbe confrontarsi. Senza neppure voler citare Regno Unito e Stati Uniti, dove rispettivamente il 46 e il 30 per cento dei migranti sono laureati, anche il 24 per cento della Spagna sembra un miraggio e all'Italia tocca invece fermarsi appena sopra il 10 per cento. Da notare anche Francia (24 per cento) e Germania (20 per cento), che in questo gioco riescono meno bene di quanto ci si potrebbe aspettare. Un altro modo di guardarla è contare quanti sono i laureati che arrivano rispetto a quelli che vanno via – il loro “ricambio”, se così lo vogliamo chiamare. Qui gli Stati Uniti restano la calamita globale: nessuno vuole andare via, mentre molti altri arrivano. Anche l'Australia, seconda in classifica e che pure non se la cava male, resta comunque molto più indietro, mentre altre mete attraenti per i laureati sono Israele, il Canada e la Spagna. E l'Italia? Il bilancio è appena positivo, e comunque molto inferiore a Francia, Germania e Regno Unito. Altrove però va peggio e si verifica una perdita complessiva di laureati: in Irlanda e Giappone, per esempio, oppure in Finlandia o Islanda dove per ogni due titolati che hanno lasciato il paese ne è arrivato solo uno a sostituirli. Attirare cervelli è come cercare di riempire una piscina: conta l'acqua nuova che arriva dall'esterno, attraverso i rubinetti, ma anche quella che scappa via dalle crepe. Per l'Italia il problema non sembra essere tanto il liquido che sfugge: le analisi Ocse mostrano che il tasso di emigrazione dei laureati nel 2010 era dell'8,4 per cento, più elevato di quello spagnolo (2,5 per cento) o francese (5,7 per cento), ma molto inferiore a quello inglese (10,5 per cento) e in linea con la Germania (8,8 per cento). Pare piuttosto che qualcuno ci abbia tagliato le forniture perché venire a nuotare, alla fine, non interessava a nessuno.

Nota: i dati sono stime che fanno riferimento all'immigrazione nei paesi Ocse fino al 2010. In alcuni casi le statistiche escludono coloro di cui non è stato possibile rilevare età, paese di provenienza o titolo di studio. È del tutto probabile, dunque, che i valori reali siano leggermente più elevati.

"Schiavi" italiani in Australia? Sì, ma legali. E invece di indignarci dovremmo imitarli. Un'inchiesta tv ha denunciato casi di schiavismo nelle campagne dell'isola oceanica. Gli sfruttati sono però solo una piccola parte del totale e il sistema di Canberra offre ai migranti molte più garanzie del nostro, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. «L'odissea dei giovani schiavi italiani. Undici ore a notte, a raccogliere cipolle». L'articolo pubblicato dal “Corriere della Sera”  racconta il risultato di un'inchiesta giornalistica condotta dalla popolare trasmissione televisiva australiana “Four Corners”. Un programma che ha squarciato il velo, nella terra dei canguri, sulle migliaia di giovani europei che finiscono a lavorare gratis nelle fattorie. Tutto vero. Per gli australiani meno informati è stato sicuramente uno shock scoprire che nel loro Paese ci sono persone praticamente schiavizzate, raccoglitori di quei prodotti che finiscono poi nei supermercati di Sydney, Melbourne, Brisbane, Darwin e delle altre cittadine sparse per l'immensa isola dell'Oceania. Ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono. Ovvero: per tanti che hanno denunciato condizioni di sfruttamento, ce ne sono almeno altrettanti contenti dei loro tre mesi di vita agreste. Perché, a differenza di quanto succede in Italia con gli extracomunitari, di fatto costretti all'illegalità oltre che talvolta schiavizzati, in Australia i tre mesi di lavoro in campagna danno diritto a un regolare permesso di soggiorno. L'inchiesta in questione si è concentrata sul visto vacanza-lavoro, il “working holiday visa” . Rilasciato solo a cittadini di alcune nazioni industrializzate, con età compresa tra i 18 e i 31 anni, costa poche centinaia di euro e permette di stare in Australia per un anno lavorando a tempo pieno, estendendo la permanenza di un altro anno se il migrante è disposto a svolgere per tre mesi alcune mansioni come l'agricoltore o l'allevatore. Si può decidere di farlo percependo uno stipendio (le paghe variano dai 10 ai 25 dollari australiani all'ora), oppure prestare la propria opera gratuitamente, in cambio di vitto e alloggio. Nel 2014, scrive il “Corriere” della Sera citando i dati del dipartimento per l'Immigrazione australiana, nel Paese c'erano più di 145 mila giovani con questo tipo di visto, oltre 11 mila dei quali italiani. I casi di sfruttamento sono stati ben documentati dalla tv australiana. E pure il "Corriere" ha dato conto di alcuni esempi, come quello di due ragazze che, impiegate in un'azienda agricola, raccoglievano cipolle rosse «dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo». Il fatto è che quelli evidenziati da “Four Corners” sono solo i casi sfortunati. Chi scrive ha potuto sperimentare in prima persona il working holiday visa australiano. E può assicurare che molti europei, fra cui parecchi italiani, non hanno subìto alcun tipo di sfruttamento. Certo, con questo sistema le aziende locali beneficiano della manodopera straniera a basso costo, ma c'è un altro lato della medaglia da considerare. Grazie a questa politica migratoria, gli italiani e i tanti altri cittadini stranieri che vogliono emigrare in Australia possono farlo legalmente. Fanno la richiesta di visto online, vanno a lavorare per tre mesi in campagna, pagati oppure solo compensati con il vitto e l'alloggio, e in questo modo si guadagnano la possibilità di restare nel Paese per un secondo anno (in realtà, come ricorda il “Corriere”, il governo di Canberra ha recentemente deciso di concedere l'estensione del visto solo a chi viene pagato per lavorare). La sostanza però non cambia. Invece di costringerli ad entrare illegalmente, come avviene oggi per i tanti extracomunitari che continuano ad arrivare sulle nostre coste, adottando una politica migratoria simile a quella del "working holiday visa" si permetterebbe ai migranti di avere due anni di visto per stare nel Paese, tempo utile per imparare la lingua e trovarsi un lavoro. Al contempo, le aziende italiane beneficerebbero di manodopera a basso costo, come peraltro già avviene. Ma tutto questo avverrebbe in modo legale, mentre oggi da noi le campagne sono ancora teatro di uno sfruttamento ben più pesante rispetto a quello visto nei casi raccontati dalla tv australiana.

Australia, ecco i giovani «schiavi» italiani: undici ore a notte, a raccogliere cipolle nei campi. 15 mila giovani italiani si trovano nel Paese con un visto di «Vacanza Lavoro» rinnovabile dopo un anno. Molti subiscono ricatti, abusi e perfino violenze sessuali, scrive di Roberta Giaconi su “Il Corriere della Sera”. Oltre 15.000 giovani italiani si trovano attualmente in Australia con un visto temporaneo di «Vacanza Lavoro». Hanno meno di 31 anni e, spesso, una laurea in tasca. Alla partenza, molti di loro neppure immaginano di rischiare condizioni di aperto sfruttamento, con orari di lavoro estenuanti, paghe misere, ricatti, vere e proprie truffe. Perlopiù finiscono nelle «farm», le aziende agricole dell’entroterra, a raccogliere per tre lunghi mesi patate, manghi, pomodori, uva. L’ultima denuncia arriva da un programma televisivo australiano, «Four Corners», durante il quale diversi ragazzi inglesi e asiatici hanno raccontato storie degradanti di molestie, abusi verbali e persino violenze sessuali. Gli italiani non sono esclusi da questa moderna «tratta». Ne sa qualcosa Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni fatte da giovani italiani sulle condizioni che avevano trovato nelle “farm” australiane. Alcune erano terribili», spiega. Due ragazze le hanno raccontato la loro odissea in un’azienda agricola che produceva cipolle rosse. Lavoravano dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo. «Non potevano neanche andare in bagno, dovevano arrangiarsi sul posto», dice Stagnitti. Un ragazzo, invece, era stato mandato sul tetto a pulire una grondaia piena di foglie. «È scivolato ed è caduto giù, ferendosi gravemente. L’ospedale mi ha chiamata perché il datore di lavoro sosteneva che aveva fatto tutto di sua iniziativa». Secondo i dati del dipartimento per l’Immigrazione, nel giugno dell’anno scorso in Australia c’erano più di 145.000 ragazzi con il visto «Vacanza Lavoro», oltre 11.000 dei quali italiani. E il nostro è uno dei Paesi da cui arriva anche il maggior numero di richieste per il rinnovo del visto per un secondo anno. Per ottenerlo, questi «immigrati temporanei» hanno bisogno di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali dell’Australia. E questo li rende vulnerabili ai ricatti. «Ho sentito di tutto», dice Stagnitti. «Alcuni datori di lavoro pagano meno di quanto era stato pattuito e, se qualcuno protesta, minacciano di non firmare il documento per il rinnovo del visto. Altri invece fanno bonifici regolari per sembrare in regola, ma poi obbligano i ragazzi a restituire i soldi in contanti. E poi ci sono i giovani che accettano, semplicemente, di pagare in cambio di una firma sul documento». Non sono in molti a denunciare la situazione. «Quando mi chiedono cosa fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il dipartimento per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi dicono che ormai sono abituati: anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Stagnitti alza le spalle. «La verità è che spesso questi giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori che gli australiani non vogliono più fare». Sulla scia della denuncia di «Four Corners», il governo dello stato di Victoria ha annunciato che darà il via a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle «farm», con l’obiettivo di stroncare gli abusi e trovare nuove forme di regolamentazione che mettano fine allo sfruttamento. Intanto, proprio nei giorni scorsi, il Dipartimento per l’Immigrazione ha deciso che il cosiddetto «WWOOFing», una forma di volontariato nelle azienda agricole in cambio di vitto e alloggio, non darà più la possibilità di fare domanda per il secondo anno di visto «Vacanza Lavoro». «Nonostante la maggior parte degli operatori si sia comportata correttamente - si legge in un comunicato stampa - è inaccettabile che alcuni abbiano sfruttato lavoratori stranieri giovani e vulnerabili».

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

Indagare i ministri è diventato impossibile. Così una legge vergogna difende la Casta. Tremonti e Matteoli sono sotto accusa per corruzione, ma una norma soccorre i politici di governo. E le uniche condanne risalgono a Tangentopoli, scrive Paolo Biondani su "L'Espresso". Altero Matteoli e Giulio Tremonti Vietato indagare sulla casta di governo. Nell’Italia saccheggiata da una corruzione enorme, c'è uno scudo legale che protegge proprio i politici con più poteri: i ministri che controllano le casse centrali della spesa pubblica. In questi mesi di crisi e lotta agli sprechi, i magistrati di Venezia e di Milano hanno rimesso in moto la speciale procedura per i reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Giulio Tremonti e Altero Matteoli, esponenti di spicco dei governi di Silvio Berlusconi, sono accusati di corruzione. Come tutti gli indagati, fino a prova contraria vanno considerati innocenti. Anche perché la legge in vigore non impone più rigore e più controlli per chi conta di più, ma il contrario: come parlamentari, non possono essere intercettati, perquisiti e tantomeno arrestati; e come ministri, godono di privilegi speciali, tutti per loro. Che nella storia italiana hanno quasi sempre salvato i governanti. I condannati per reati ministeriali sono pochissimi. E gli ultimi casi risalgono ai tempi di Mani Pulite. Prima e dopo quel periodo eccezionale, decine di accuse sono state azzerate da un veto politico: stop alle indagini, con tanti saluti alla giustizia. Le inchieste sui ministri sono regolate da una disciplina che alcuni giuristi paragonano a un «fossile legale» dei tempi del vecchio codice: la legge costituzionale numero 1 del 16 gennaio 1989. «È una normativa tecnicamente incredibile: sembra fatta apposta per garantire l'impunità», sintetizza uno dei magistrati che hanno condotto le nuove inchieste. Il privilegio più vistoso è l'autorizzazione a procedere: il ministro può essere processato solo con il permesso della Camera, se è un onorevole, o del Senato. Dietro questo muro legale, trovano riparo anche i coimputati di ogni sorta: imprenditori, burocrati, faccendieri, eventuali complici mafiosi. Se il Parlamento nega l'autorizzazione, si salvano tutti. «Una vera assurdità tecnica», secondo diversi magistrati, è il comma di legge che regola l'avvio dell'inchiesta. Quando una Procura scopre un ipotetico reato ministeriale, non può fare niente: «omessa ogni indagine», come prescrive l'articolo 6, i pm devono liberarsi del fascicolo «dandone immediata comunicazione» a tutti i sospettati. Per i normali cittadini le Procure possono, anzi devono tenere segreta l'inchiesta almeno nei primi sei mesi, per evitare che l'indagato possa far sparire i soldi o inquinare le prove. Per i ministri e i loro complici, la regola è rovesciata: preavviso immediato a tutti gli indagabili, fosse anche un caso di omicidio, mafia o droga. Messi così in allarme i sospettati, l'inchiesta va affidata a tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto, anche se non hanno mai fatto indagini, riuniti nel cosiddetto tribunale dei ministri: un collegio che ricorda i vecchi giudici istruttori, aboliti da un quarto di secolo. Il collegio ha solo 90 giorni per concludere tutta l'inchiesta, prorogabili di altri 60 al massimo. In tempi così brevi è praticamente impossibile fare rogatorie, ad esempio, per trovare l'eventuale bottino nascosto all'estero. Alla fine, se il tribunale archivia, il verdetto è «inoppugnabile». Se invece chiede l'autorizzazione al processo, il Parlamento può negarla anche se il reato è provato, «qualora reputi che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato»: un alibi politico «insindacabile», per cui regge anche se è falso. Con regole del genere, non meraviglia che i ministri condannati si riducano a pochi sfortunati. Il primo e per anni unico fu Mario Tanassi, socialdemocratico, condannato a due anni e quattro mesi, il primo marzo 1979, dalla Corte Costituzionale con il vecchio rito: una sola sentenza autorevolissima e inappellabile. Era il fronte italiano dello scandalo Lockheed, innescato da un'inchiesta degli Stati Uniti che il nostro Paese non poteva ignorare: come ministro della Difesa, Tanassi fu corrotto con 560 milioni di lire per sbloccare l'acquisto di 14 aerei militari costosissimi. La legge del 1989 è nata proprio per garantire a ministri come lui i soliti tre gradi di giudizio. E così è toccato al tribunale dei ministri, appena creato, indagare sulle "carceri d'oro": le tangenti confessate a Milano, dopo l'arresto, dall'imprenditore Bruno De Mico. Il suo processo si è chiuso nel 1994 con la condanna definitiva a cinque anni, per concussione, dell'ex ministro Franco Nicolazzi, anche lui del Psdi, che aveva intascato 2,5 miliardi di lire. In quel periodo era diventato normale concedere l'autorizzazione a procedere, che nel 1993, al culmine di Tangentopoli, è stata abolita per i semplici parlamentari. Tra i ministri, il condannato più illustre è Francesco De Lorenzo, liberale, titolare della sanità dal 1989 al 1992, condannato a cinque anni e quattro mesi per decine di tangenti, per un totale accertato di 4,5 milioni di euro, sborsate dalle industrie farmaceutiche da lui favorite. Dopo Mani Pulite, invece, le indagini sui governi sembrano fermarsi. Per tutto il ventennio dominato da Berlusconi, la procedura per i reati ministeriali diventa un muro di gomma. Alcune procure archiviano sul nascere decine di fascicoli. E quando il tribunale dei ministri conferma qualche accusa, interviene il Parlamento. Tra i casi più clamorosi spicca il salvataggio politico di Pietro Lunardi, l'ex ministro delle grandi opere, accusato di corruzione con il cardinale Crescenzio Sepe. Nel 2010 il tribunale dei ministri conclude che Lunardi ha acquistato a prezzo bassissimo un palazzo di lusso dall’ente religioso Propaganda Fide, che intanto otteneva cinque milioni di euro dal governo«in assoluta carenza dei presupposti». I magistrati invocano per quattro volte l'autorizzazione a procedere, ma il parlamento le blocca una dopo l'altra chiedendo sempre «approfondimenti». Nello stesso periodo beneficia dello stop politico al processo anche il ministro Matteoli, accusato di favoreggiamento per aver rivelato a un amico prefetto che era sotto intercettazione per tangenti su speculazioni edilizie all'Isola d'Elba. Dopo la bocciatura del lodo Alfano, (che avrebbe sospeso i processi al premier) l'immunità ministeriale è stata invocata pure nel caso Ruby: Berlusconi, secondo la sua maggioranza, telefonò in questura per far rilasciare la minorenne marocchina agendo da premier, perché credeva veramente che fosse la nipote di Mubarak. Quindi la Camera ha votato un conflitto di attribuzioni, ma la Corte Costituzionale, il 12 aprile 2012, ha dato ragione alla Procura di Milano, scrivendo che «era obbligata a indagare». Pochi ricordano che anche Giulio Andreotti, dopo una carriera costellata di mancate autorizzazioni a procedere, tentò di sottrarsi allo storico processo di Palermo per complicità con la mafia (poi chiuso con la prescrizione fino al 1980 e l'assoluzione per gli anni successivi) accampando la competenza del tribunale dei ministri di Roma. Ma i giudici hanno replicato che Andreotti era sotto accusa solo come capo-corrente della Dc. Ora si ricomincia da due. La nuova Camera ha già autorizzato il processo a Matteoli: i padroni del Mose di Venezia hanno confessato di avergli versato 550 mila euro, oltre a dover inserire una sua società, intestata secondo l'accusa a un prestanome, nei maxi-finanziamenti per disinquinare Porto Marghera. E al Senato pende la richiesta di procedere contro Tremonti per una presunta corruzione targata Finmeccanica: 2,6 milioni di euro mascherati da parcella per il suo studio professionale. Il tribunale dei ministri ha firmato un atto d’accusa che sembra quasi una sentenza di condanna. Ma l’affare è del 2008/2009, per cui Tremonti potrà comunque approfittare della vecchia, cara legge sulla prescrizione.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

Onorevole inquisito? Non c'è fretta. La melina delle Camere che rallenta i giudici. Due anni di attesa per le intercettazioni di Verdini. Quasi uno per quelle dell'Ncd Azzollini. Sei mesi (finora) per l'autorizzazione nei confronti dell'ex ministro Matteoli e tempi ancora vaghi per le offese di Calderoli alla Kyenge. Quando è indagato un suo componente, il Parlamento se la prende comoda, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Paragonare un ministro di origini congolesi a un orango è un'opinione insindacabile espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari? Comunque la pensiate, sappiate ci vuole molto tempo prima di stabilirlo. Pure se, dopo un'istruttoria durata settimane e settimane, per decidere ci vorrebbe assai poco. E per autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di un ex ministro accusato di aver intascato mezzo milione di euro? Possono volerci anche sei mesi. Troppo? Sciocchezze, perché come niente si può arrivare anche a un anno o due di attesa. Parafrasando Bogart, sono i tempi dell'immunità parlamentare, bellezza. Un istituto pensato per proteggere deputati e senatori dal rischio di intenti persecutori della magistratura, trasformatosi col tempo in un tribunale preventivo preoccupato più che altro di salvarli dai processi. Ma a regalare anzitempo generose assoluzioni non c'è solo questo scudo giudiziario, che ha trasformato l'immunità in impunità e portato a respingere nella Seconda repubblica il 90 per cento delle richieste di arresto avanzate dai giudici . Prima ancora di arrivare a un verdetto, qualunque sia, si assiste infatti puntualmente a una sorta di "melina" calcistica che dilata a dismisura i tempi. Il caso di Denis Verdini è emblematico: il Parlamento ci ha messo due anni prima di concedere l'uso delle sue intercettazioni nell'inchiesta sulla P4, in cui è accusato di corruzione. Era maggio 2012 quando il gup Cinzia Parasporo ha trasmesso alla Camera la richiesta di usare una trentina di telefonate captate indirettamente tra l'allora deputato, che in quanto tale non poteva essere intercettato, e la "cricca" delle Grandi opere (Angelo Balducci, Fabio De Santis e Riccardo Fusi). La Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio aveva anche espresso parere positivo e nel giro di un mese era tutto pronto. Bastava solo trovare uno spazio nel calendario dei lavori d'Aula. Invece, nonostante ci fossero mesi e mesi a disposizione, niente da fare. Risultato: la legislatura è finita, Verdini è stato eletto senatore e ad aprile 2013 il gup ha dovuto di nuovo trasmettere gli atti, stavolta a Palazzo Madama. Dove, come al gioco dell'oca, si è ripartiti da zero. E prima del via libera è trascorso un altro anno. Grosso modo lo stesso lasso di tempo necessario a rispondere "no" al gip di Trani che chiedeva di usare una decina di intercettazioni indirette del senatore Ncd Antonio Azzollini, inquisito per la presunta truffa dell'ampliamento del porto di Molfetta . Una vicenda che mostra la mera ragion politica che si cela a volte dietro alcune scelte: per salvare il potente parlamentare alfaniano e in questo modo la stabilità del governo, con una decisione senza precedenti il Pd - come ha rivelato l'Espresso - ha addirittura convocato una riunione d'emergenza. E dire che in Giunta si era già visto di tutto: 11 sedute in 7 mesi, due richieste di integrazioni istruttorie chieste al giudice e altrettante audizioni del senatore, perfino una disputa sulle date in cui erano iniziati gli ascolti. Alla fine, dopo dieci mesi di passione, il Senato ha negato l’autorizzazione: era chiaro che mettendo sotto controllo i telefoni degli altri indagati i pm avrebbero intercettato anche il parlamentare, ha motivato nella sua relazione il senatore Pd Claudio Moscardelli. Ma se quelli di Verdini e Azzollini sono i più eclatanti, i casi sono numerosissimi. Sono passati sei mesi, ad esempio, da quando è arrivata in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, che secondo i pm dell’inchiesta sul Mose avrebbe ricevuto tangenti per 550 mila euro fra il 2001 e il 2012. Sarebbe bastata qualche ora per votare, visto che la relazione istruttoria sulla vicenda è pronta dal 10 febbraio. Solo che per settimane nessuno si è preoccupato di farla mettere all'ordine del giorno dell’Aula. Che si è occupata di tutt’altro, fra decreti in scadenza da convertire, emergenze, mozioni varie e perfino la richiesta di dimissioni di fuoriusciti del Movimento cinque stelle. Adesso, dopo qualche pressing informale, il presidente Piero Grasso ha finalmente fissato la data: il 2 aprile. Intanto, nel corso di un'audizione sugli appalti, si è assistito al paradosso di un presidente di commissione accusato di corruzione (Matteoli) seduto accanto al presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Ancora tempi lunghi si prevedono invece per gli epiteti di Roberto Calderoli rivolti nel luglio 2013 all’allora ministro dell’Integrazione: «Ogni tanto, smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, secondo i pm bergamaschi Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Ma non per la Giunta di Palazzo Madama, che col voto determinante di alcuni senatori Pd si è espressa per lo stop al processo. Adesso resta da vedere se, dopo le polemiche, l'Aula ( e soprattutto il Pd ) confermerà o ribalterà il parere espresso. Intanto le cose vanno per le lunghe: la relazione, affidata al forzista Lucio Malan, è pronta dal 25 febbraio ma la questione non ha ancora trovato posto nel calendario dei lavori.. «Calderoli - vi si legge - ha utilizzato, all'interno di un articolato intervento sull'immigrazione fortemente critico, un'espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico, era anche ludico e cioè quello di una festa estiva organizzata». Insomma, uno scherzo. Quindi niente processo. Non sono state poste all'ordine del giorno nemmeno le 13 telefonate e 68 sms dell’ex senatore Pd Antonio Papania che secondo la Procura di Trapani proverebbero la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: tra il 2010 e il 2012 l’allora parlamentare avrebbe ricevuto “in più occasioni utilità consistite nell’assunzione di numerose persone a lui gradite e da lui segnalate”. Ma la vicenda è oggetto di un ping pong che si trascina da mesi. Le carte sono arrivate a Palazzo Madama a giugno ma se ne è iniziato a discutere solo a ottobre. A dicembre il caso è approdato in Aula ma per una questione formale il fascicolo è stato rimandato in Giunta. Sono trascorsi altri tre mesi e da qualche settimana è tutto pronto per il voto dell’Assemblea. Ma tutto è ancora fermo. Va riconosciuto che quando si tratta di arrestare un parlamentare le Camere riescono a essere più celeri: per acconsentire a mandare dietro le sbarre i deputati Giancarlo Galan (Forza Italia) e Francantonio Genovese (Pd), come chiesto dai giudici, ci sono voluti “solo” due mesi. In ogni caso moltissimo se si considerano le motivazioni che richiedono la carcerazione: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Insomma, se i rischi sono tali, a ben vedere neppure otto settimane sono così poche. Tanto più che, a giudicare dalle date, nemmeno in queste circostanza di estrema urgenza il Parlamento pare essere stato particolarmente solerte nella rispondere alla magistratura. La relazione che concedeva l'arresto di Galan per corruzione, ad esempio, è rimasta ferma una dozzina di giorni prima di arrivare in Aula: dal 10 al 22 luglio 2014. Nel caso di Genovese - accusato di peculato, truffa aggravata, riciclaggio, emissione di fatture false e associazione a delinquere - le carte sono arrivate da Messina il 18 marzo 2014 ma la Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio ha iniziato l’esame solo il 26 e la seconda seduta si è tenuta il 10 aprile, dopo altre due settimane. Poi, siccome c'è stata Pasqua di mezzo, altre due settimane di stop. Casi eccezionali? Non proprio. Nella scorsa legislatura, quando fu raggiunto il record di 11 richieste di arresto nei confronti di parlamentari, i tempi sono stati grosso modo gli stessi. Nel 2008 ci vollero tre mesi e mezzo prima di votare (contro) la richiesta di domiciliari per il pidiellino Nicola Di Girolamo. E oltre due mesi prima di respingere l'arresto dell'imprenditore Antonio Angelucci, di Vincenzo Nespoli, del consigliere del ministro Tremonti, Marco Milanese, e consentire quello di Alfonso Papa (tutti del Pdl). Due mesi per arrestare Alberto Tedesco (Pd) e un mese e mezzo per mandare ai domiciliari Sergio De Gregorio (Pdl) e in carcere Luigi Lusi (Pd). Unica eccezione, quella del deputato Pd Salvatore Margiotta: nel 2008 la Camera impiegò appena due giorni per respingere la richiesta di arresti domiciliari, avanzata dal pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta per la realizzazione del Centro oli della Total in Basilicata. Per quelle accuse (turbativa d’asta e corruzione) lo scorso dicembre il parlamentare dem, adesso senatore, è stato condannato in Appello a un anno e sei mesi.

Casta, così l'immunità parlamentare è diventata lo scudo contro arresti e processi. Dal 1994 Montecitorio e Palazzo Madama hanno respinto il 90 per cento delle richieste di carcerazione o di domiciliari avanzate dai giudici. E negato spesso l’uso di intercettazioni e tabulati, sempre per un presunto fumus persecutionis nelle indagini. Una “protezione” che con il nuovo Senato sarà estesa a sindaci e consiglieri regionali, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Immunità anche per i “nuovi” senatori. Dopo critiche, proteste, smentite e pressioni varie, alla fine lo scudo giudiziario sarà esteso anche ai sindaci e ai consiglieri regionali che approderanno a Palazzo Madama. E come avviene per i deputati, servirà un’autorizzazione per arrestarli, intercettarli ed effettuare perquisizioni nei loro riguardi. Eppure, se vorrà evitare che finisca col lancio di monetine come durante Tangentopoli, il governo farebbe bene ad approfittare della riforma costituzionale per congegnare un sistema che eviti gli abusi degli ultimi due decenni. Senza contare il caso Galan , in merito al quale Montecitorio non si è ancora espresso, su 31 richieste di arresto avanzate dai giudici nell’arco di questo ventennio - ha ricostruito l’Espresso - 28 sono state respinte. Nove volte su dieci, in pratica, Camera e Senato hanno ritenuto viziate da fumus persecutionis le istanze della magistratura di mandare in carcere o ai domiciliari un parlamentare. Un dato che mostra come la riforma dell’articolo 68 della Costituzione varata nel 1993 sull’onda di Mani pulite non sia servita a granché. Così se nella Prima Repubblica, senza il via libera della Camera di appartenenza, un onorevole non poteva essere inquisito e nemmeno arrestato dopo una condanna definitiva, dal ’94 in poi l’immunità ha continuato a rappresentare un formidabile scudo dalle vicende giudiziarie. Peraltro con una significativa recrudescenza negli ultimi anni, visto che oltre un terzo delle richieste di arresto sono state inoltrate nella scorsa legislatura (2008-2013). Il berlusconiano Alfonso Papa e i democratici Luigi Lusi e Francantonio Genovese , arrestati negli ultimi tre anni, sono gli unici a essere finiti dietro le sbarre. Ma fino al 2011 ogni richiesta è stata puntualmente respinta. Spesso grazie anche al voto segreto. Come nel caso del deputato Pdl Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica: secondo l’istruttoria svolta dai deputati della Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio, l’onorevole andava spedito in carcere come chiedeva il gip di Napoli. Ma nel segreto dell’urna, nel 2009 l’Aula lo ha graziato , impedendo anche l’utilizzo di alcune sue intercettazioni telefoniche. Idem nel 2011 per Alberto Tedesco (Pd) e nel 2012 per il senatore Sergio De Gregorio (Pdl), accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria e per il quale erano stati chiesti i domiciliari. In altri casi, invece, il Parlamento si è trasformato in una sorta di Corte di Cassazione. E anziché limitarsi ad appurare un eventuale intento persecutorio dei pm (come previsto dalla legge), si è spinto a dare giudizi di merito sulle inchieste. Nel 1997, ad esempio, il deputato Carmelo Carrara (Ccd-Cdu), relatore della richiesta d’arresto di Cesare Previti - salvato dal carcere nell’inchiesta Imi-Sir, in cui l’avvocato fu poi condannato per corruzione in atti giudiziari - ravvisava «un’esasperazione accusatoria del gip di Milano». Due anni dopo anche il relatore Filippo Berselli (An) motivò il suo “no” alla richiesta di carcerazione nei confronti di Marcello Dell’Utri per la «evidente sproporzione tra la misura cautelare adottata e i reati contestati», ovvero tentata estorsione e calunnia. Quando il gip di Bari nel 2006 chiese i domiciliari per Raffaele Fitto nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, la Giunta della Camera stabilì all’unanimità che il pericolo di reiterazione del reato “non appare motivato”. E quindi l’ex governatore pugliese - poi condannato a 4 anni in primo grado -  doveva restare libero. La richiesta di carcerazione nei confronti del deputato Udc Remo Di Giandomenico, anche lui accusato di corruzione nel 2006, era invece “connotata da fumus persecutionis, specie in rapporto all’attualità delle esigenze cautelari”. E siccome l’onorevole in una sua memoria difensiva alla Giunta aveva “offerto concreti elementi di contestazione nei confronti delle accuse”, “si affievolisce la esigenza custodiale”. Tradotto: niente arresto. Il fumo della persecuzione Montecitorio l’aveva ravvisato anche nel 1998, nelle due diverse richieste di carcerazione dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (poi condannato sia per l’una che l’ altra vicenda): entrambe furono infatti respinte. Si dirà: se l’inchiesta è debole, è comprensibile una levata di scudi. Eppure nemmeno un’indagine riconosciuta come fondata dagli stessi onorevoli ha portato a un esito diverso. Quando nel 2006 il gip di Roma chiese il carcere per il deputato Giorgio Simeoni (Forza Italia) per il pericolo d'inquinamento delle prove in un’inchiesta sulla sanità, la maggioranza dei suoi colleghi in Giunta osservarono che “il pericolo mancherebbe perché il quadro indiziario è tutto sommato abbastanza solido”. Risultato: l’autorizzazione a procedere non fu concessa nemmeno in questo caso. Il diniego agli arresti non è l’unico aspetto significativo. Grosso modo una volta su due (in totale 26 su 58), il Parlamento ha negato anche l’uso di uno strumento fondamentale d’indagine come le intercettazioni. Ma le Camere non hanno solo impedito l’utilizzo delle conversazioni captate indirettamente. In qualche caso hanno negato perfino la semplice acquisizione dei tabulati, che consentono di ricostruire le chiamate ricevute ed effettuate, per “tutelare la sfera di riservatezza del parlamentare”. Pure l’insindacabilità, vero cuore dell’immunità, si è prestata a qualche interpretazione di manica assai larga. Si tratta dello “scudo” nei confronti delle opinioni espresse dagli eletti, una prerogativa fondamentale per assicurare la loro indipendenza e autonomia senza il timore di essere trascinati in tribunale. Su oltre 700 casi, il 92 per cento delle volte Montecitorio e Palazzo Madama hanno ritenuto che i giudizi di deputati e senatori sfociati in una causa per diffamazione erano stati espressi nell’esercizio delle funzioni parlamentari, come prevede la legge. Pertanto gli onorevoli non erano processabili. Un “ombrello” sotto il quale - solo per citare alcuni degli episodi più celebri - sono finite le critiche di Francesco Storace a Giorgio Napolitano (dalla «disdicevole storia personale», la «evidente faziosità istituzionale» e «indegno di una carica usurpata a maggioranza»), le accuse di Maurizio Gasparri a John Woodcock («un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole») oppure le intemerate di Vittorio Sgarbi contro i pm del pool di Milano («vanno processati ed arrestati: sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere che mira al sovvertimento dell'ordine democratico»). Proprio Sgarbi, peraltro, in questi anni si è dimostrato una sorta di record-man: oltre 150 delibere di insindacabilità (un quinto del totale) hanno riguardato proprio lui. Un dilagare generalizzato contestato dalla Corte costituzionale, che in questi 20 anni - a seguito di conflitti di attribuzione sollevati dai giudici - ha annullato 84 concessioni di immunità: per la Consulta si trattava di affermazioni che nulla avevano a vedere con l’attività parlamentare. E quindi deputati e senatori andavano processati come normali cittadini.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è - né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

GLI IMPRESENTABILI TRA POPULISMO, DEMAGOGIA E MENZOGNA.

E l'ex procuratore disse: "Basta con la gogna". Piero Tony, per 45 anni magistrato (e dichiaratamente di sinistra), scrive un libro che è un durissimo j’accuse contro il populismo giudiziario, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. «Non ce la facevo più. Non potevo andare avanti in un mondo divenuto surreale, dove ogni giorno vedevo cose che non avrei mai voluto vedere. Così nel luglio 2014 ho preferito andarmene, a 73 anni, due in anticipo sulla pensione. E ora lancio questo tricche-tracche, un mortaretto in piccionaia». Sorride, Piero Tony. Ma non è un sorriso rassicurante. Per 45 anni magistrato, da ultimo procuratore della Repubblica a Prato, Tony ha appena pubblicato un libro, Io non posso tacere (Einaudi, 125 pagine, 16 euro) e non è affatto un mortaretto: anzi, è una bomba atomica. Che in nome di un ineccepibile garantismo devasta, spiana, annienta tutte le parole d’ordine del populismo giudiziario. È tanto più potente, la bomba, in quanto a lanciarla è un serissimo, autorevolissimo ex procuratore che per di più è stato a volte definito «uomo di sinistra estrema»: per intenderci, uno che nei primi anni Ottanta s’è iscritto a Magistratura democratica e non ne è mai uscito.

Qualche frase del libro?

«È ovvio che molti magistrati giochino spesso con i giornalisti amici per amplificare gli effetti del processo: purtroppo, quando un pm è politicizzato, può utilizzare questo strumento in maniera anomala. Funziona così, negarlo sarebbe ipocrisia».

Ancora?

«Con la Legge Severino la politica ha delegato all’autorità giudiziaria il compito, anche retroattivamente, di decidere chi è candidabile e chi no a un’elezione». Continuiamo? «L’obbligatorietà dell’azione penale è una simpatica barzelletta». Non vi basta? «Spesso si sceglie di mandare in gattabuia qualcuno, evitando altre misure cautelari, per far sì che paghi comunque e a prescindere».

Dottor Tony, lei lo sa che non gliela perdoneranno, vero?

«Il libro è intenzionalmente provocatorio. Perché vorrei sollecitare la discussione su una situazione che con tanti altri ritengo insostenibile, ma di cui si parla solo in certe paraconventicole. Nei miei 45 anni di professione ho visto una giustizia che è andata sempre più peggiorando: mi riferisco ai frequenti eccessi di custodia cautelare, ai rapporti troppo familiari tra alcuni pm e i mass media, e alla conseguente gogna, sempre più diffusa e intollerabile».

Lo sa che rischia attacchi feroci, vero?

«Amo troppo la magistratura per avere paura di rischiare. E poi  qualcuno deve pur dirlo che non è accettabile quella parte della giustizia che opera disinvoltamente rinvii di anni; che spiffera ai quattro venti le intercettazioni; che pubblica atti e carte in barba a tutti i divieti; che lancia inchieste fini a se stesse, che partono in quarta per poi sgonfiarsi; che anticipa le pene con misure cautelari «mediatizzate»».

Lei scrive che le correnti sono come partiti, e che «nel Csm si fa carriera soprattutto per meriti politici». Ma si rende conto di quel che rischia?

«Certo che me ne rendo conto, ma è così: le correnti oggi non sono lontane dalla compromissione politica. Sarebbe molto meglio che i membri togati del Csm fossero scelti per sorteggio. Qui ormai si fa carriera quasi solo con l’appartenenza, con criteri di parte. Io non riesco a criticare chi sostiene che con una magistratura così esista il rischio che le sentenze abbiano una venatura politica. Ed è un dramma, negarlo sarebbe follia».

Lo dice lei, per una vita iscritto a Magistratura democratica?

«Nei primi anni Ottanta, almeno lì dentro, si respirava garantismo. Ahimé durò poco: oggi non faccio fatica a dire, purtroppo, che il garantismo è estraneo anche a Md. Perché garantismo e sospetti non sono compatibili. E nemmeno Md sa rinunciare al sospetto».

Il sospetto: è il tema tipico del concorso esterno in associazione mafiosa. Lei ne scrive che è «uno degli obbrobri del nostro sistema giudiziario».

«Peggio. Non è nel nostro sistema normativo: e fino a quando non interverrà il legislatore, come auspicato da tutti, è un vero mostro giuridico. Sono sicuro che se invece che a Zara fossi nato a Napoli, dove da giovane vissi per qualche anno, avrei corso il rischio di finire in una foto con un criminale. Ma un po’ per dolo, un po’ per sciatteria, in certe Procure c’è chi si accontenta di qualche prova anche rarefatta per accusare e per avviare un processo».

La Corte di Strasburgo ha da poco stabilito che Bruno Contrada fu condannato indebitamente per concorso esterno. Che ne dice?

«Non ho letto gli atti del suo processo, ma è notorio che negli anni Cinquanta e Sessanta il capo di una Squadra mobile aveva rapporti ambigui, spesso pericolosamente diretti e negoziatori, con la criminalità: rapporti che non di rado si prestavano a essere, quantomeno formalmente, d’interesse penale. Oggi Strasburgo ci fa fare un passo avanti nella civiltà giuridica: s’invoca il principio della irretroattività, nessuno può essere condannato per fatti compiuti prima che siano considerati reato. In questo caso, visto che il reato colpevolmente non è mai stato tipizzato dal legislatore, si dice che Contrada non poteva essere condannato per fatti compiuti prima che la Cassazione avesse stabilito bene che cosa fosse il concorso esterno, nel 1994».

Passiamo alle intercettazioni?

«Temo che restrizioni della nostra privacy saranno sempre più necessarie: non se ne può fare a meno, in una società atomizzata e nel contempo globalizzata. Ma è l’applicazione mediatica delle intercettazioni che in Italia è vergognosa, così come leggere sui giornali la frase di due  intercettati che dicono, per esempio: «Il tal sottosegretario ha strane abitudini sessuali». E quello non c’entra nulla con le indagini. È ciò che io chiamo «il bignè»».

Il bignè?

«Ma sì: l’ottimo bignè con la crema, regalato da certi pm ai giornalisti. E più sono i bignè offerti, più saranno i titoli sui giornali: quindi l’inchiesta sarà apprezzata dall’opinione pubblica, il pm diventerà famoso e l’indagato, o chiunque sia coinvolto, verrà seppellito dal fango. Non si può vivere in questo modo. La dignità umana è un diritto fondamentale, forse il primo».

Ha visto che ora alcuni suoi colleghi, da Edmondo Bruti Liberati a Giuseppe Pignatone, propongono una «stretta» nell’utilizzo delle intercettazioni?

«È sempre inutile aumentare le pene, visto che si delinque con la convinzione di farla franca, e vista anche la diffusa mancanza d’effettività della pena».

Qual è la sua soluzione, allora?

«Quando arrivai a Prato, nel 2006, prescrissi, anzi pregai i miei sostituti di fare un «riassunto» delle intercettazioni per qualsiasi richiesta di provvedimento, evitando ogni inserimento testuale delle trascrizioni. È il riassunto la soluzione: così i terzi indebitamente coinvolti restano automaticamente protetti, e nessuno, per restare all’esempio, conoscerà mai le «strane abitudini sessuali» del sottosegretario. Il fatto è che così il pm dovrebbe fare più fatica. Quindi preferisce il maledetto taglia-e-incolla. A parte i miei sostituti pratesi, ovviamente… E troppo spesso il taglia-e-incolla si trasforma in un ferro incandescente».

Ma è soltanto sciatteria?

«In genere sì. Solo le mele marce lo fanno con intenti sanzionatori o per motivi loro, che nulla hanno a che fare con la Giustizia, quella con la g maiuscola».

Cambierà qualcosa con la nuova responsabilità civile dei magistrati?

«La levata di scudi della categoria contro la riforma, in febbraio, è stata penosa. Sostenere che ora tutti i magistrati avranno paura d’incorrere in decurtazioni di stipendio, e per questo non lavoreranno più come una volta, è assurdo. Paralizzante sarebbe quindi il pericolo di una riduzione dello stipendio, e non piuttosto quello di danneggiare illegalmente un indagato, per dolo o per colpa grave? Ma di che cosa parlano?»

Che cosa si aspetta, ora che il suo libro è uscito?

«Spero che se ne discuta serenamente. Temo una sola cosa: l’incatalogabilità».

Cioè?

«Purtroppo, prima di elaborare un giudizio, sempre più ci si chiede: ma è un discorso di destra o di sinistra? E quello che ho scritto sicuramente non è allineato, anzi è eretico da qualsiasi parte lo si guardi. Ecco, in molti potrebbero avere paura di dare un giudizio perché, da destra come da sinistra, non riusciranno a catalogarmi. Io mi sono sempre ritenuto, e sono sempre stato ritenuto, di sinistra; anzi, sono praticamente «certificato» come tale. Questo non m’impedisce di pensare tutto quel che ho scritto, che è poi alla base delle garanzie della persona, dell’individuo. E non sono il solo».

Resta il fatto che il «populismo giudiziario», che lei avversa, oggi stia soprattutto a sinistra. O no?

«È di destra o di sinistra pensare che nessuna ragione al mondo può giustificare il sacrificio di diritti fondamentali di una persona, se non nei limiti stabiliti dalla legge democratica? È per questo che chi crede davvero nella civiltà giuridica non può accettare le troppe disfunzioni della giustizia italiana. Ed è per questo che io non potevo più tacere».

Giustizia: per l'Unione europea la presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale, scrive Damiano Aliprandi su "Il Garantista" del 15 aprile 2015. Iniziato iter per la Direttiva. Il giustizialismo è diventato un problema europeo e la commissiono europarlamentare vuole correre ai ripari. "La presunzione d'innocenza è un diritto fondamentale e anzitutto un principio essenziale che intende garantire da abusi giudiziari e giudizi arbitrari nei procedimenti penali!", ha dichiarato la francese Nathalie Griesheck, relatore del provvedimento in Commissione Libertà civili che prevede una normativa in grado di dissuadere le autorità giudiziarie nazionali dal fare dichiarazioni sulla colpevolezza di un condannato prima del giudizio definitivo, o che violino i principi dell'onere della prova (che spetta alla pubblica accusa), quello di rimanere in silenzio durante gli interrogatori e quello di essere presenti fisicamente al proprio processo. Questa "proposta di direttiva nasce dal fatto che notiamo un'erosione del principio di presunzione di innocenza in diversi Paesi membri", ha aggiunto sempre la Griesheck, Il provvedimento della Commissione pone anche il problema dei mezzi di informazione molto spesso legati con le autorità giudiziarie che fanno da megafono. Infatti l'emendamento richiede ai Paesi membri di vietare alle autorità giudiziarie locali di dare informazioni - incluse interviste e comunicazioni in collaborazione con i media - che potrebbero creare pregiudizio o biasimo nei confronti di indagati o accusati prima della sentenza finale in tribunale. L'europarlamento in pratica chiede di promuovere un vero e proprio codice etico e di rispettarlo. Un altro aspetto dell'emendamento è quello di non far travisare - attraverso i mezzi di informazione - la legittima facoltà di non rispondere dell'imputato come "prova" di colpevolezza. "L'esercizio di questo diritto - spiega sempre la relatrice Nathalie Griesbeck - non deve mai essere considerato come una conferma dì una tesi sui fatti occorsi". Con l'approvazione della Commissione ora inizia il negoziato con il Consiglio Uè per poi arrivare alla formale proposta di direttiva. Sempre attraverso la suddetta Commissione, in questi giorni, ci si sta occupando della situazione carceraria e il commissario Nìls Muiznieks ha espresso gratitudine per i miglioramenti apportati per rimediare al nostro sovraffollamento penitenziario, ma ha precisato che ancora non abbiamo risolto definitivamente il problema. Nel corso di un'audizione della Commissione Libertà civili, è stato ascoltato il procuratore aggiunto di Reggio Calabria Nicola Gratteri e consulente del Governo Renzi sui problemi della giustizia e la lotta alle mafie, ha dichiarato di non rallegrarsi per quello che è stato detto dal Consiglio d'Europa sullo svuotamento delle carceri in Italia. Ma sempre per Gratteri la soluzione è la costruzione di nuove carceri e non subire ciò che dice l'Europa. Gratteri, ricordiamo, solo per un soffio al momento della formazione del Governo Renzi non diventò ministro della Giustizia così come era stato annunciato.

Gherardo Colombo: "Io, magistrato pentito, non credo più nella punizione". Il modello possibile della giustizia riparativa. Rispetto a un sistema che non riconosce le vittime e che crea solo inutile sofferenza. Rendendo più insicura la società. Ma i politici hanno un solo cruccio: aumentare le pene. Come nel caso - "fuori luogo" - dell'omicidio stradale. Parla il grande giudice e pm, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Gherardo Colombo: «Questa donna ha ragione. E va ascoltata. Perché se oggi il carcere svolge una funzione, è la vendetta». Prima giudice, poi pubblico ministero in inchieste che hanno fatto la storia d’Italia come la Loggia P2 o Mani Pulite, Gherardo Colombo ha messo profondamente in discussione le sue idee: «Ero uno che le mandava le persone in prigione, convinto fosse utile. Ma da almeno quindici anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione».

Da uomo di legge, la sua è una posizione tanto netta quanto sorprendente.

«È concreta. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono, restituendo uomini più fragili o più pericolosi, privando le persone della libertà senza dare loro quella possibilità di recupero sancita dalla Costituzione. Esistono esempi positivi, come il reparto “La Nave” per i tossicodipendenti a San Vittore, o il carcere di Bollate, ma sono minimi».

Molti dati mostrano la debolezza della rieducazione nei nostri penitenziari. Ma perché parlare addirittura di vendetta?

«Credo sia così. Pensiamo alle vittime: cosa riconosce la giustizia italiana alla vittima di un reato? Nulla. Niente; se vuole un risarcimento deve pagarsi l’avvocato. Così non gli resta che una sola compensazione: la vendetta, sapere che chi ha offeso sta soffrendo. La nostra è infatti una giustizia retributiva: che retribuisce cioè chi ha subito il danno con la sofferenza di chi gli ha fatto male».

Esistono esperienze alternative?

«Sì. In molti Paesi europei sono sperimentate da tempo le strade della “giustizia riparativa”, che cerca di compensare la vittima e far assumere al condannato la piena responsabilità del proprio gesto. Sono percorsi difficili, spesso più duri dei pomeriggi in cella. Ma dai risultati molto positivi».

Se questa possibilità è tracciata in Europa, perché un governo come quello attuale, così impegnato nelle riforme, non guarda anche alle carceri?

«Nei discorsi ufficiali sono tutti impegnati piuttosto ad aumentare le pene, a sostenere “condanne esemplari”, come sta succedendo per la legge sull’omicidio stradale - una prospettiva che trovo quasi fuori luogo: quale effetto deterrente avrebbe su un delitto colposo? Ma al di là del caso particolare, il problema è che i politici rispondono alla cultura dei loro elettori. Il pensiero comune è che al reato debba corrispondere una punizione, che è giusto consista nella sofferenza. Me ne accorgo quando parlo nelle scuole del mio libro, “Il perdono responsabile”: l’idea per cui chi ha sbagliato deve pagare è un assioma granitico, che solo attraverso un dialogo approfondito i ragazzi, al contrario di tanti adulti, riescono a superare. D’altronde il carcere è una risposta alla paura, e la paura è irrazionale, per cui è difficile discuterne».

È una paura comprensibile, però. Parliamo di persone che hanno rubato, spacciato, ucciso, corrotto.

«Ovviamente chi è pericoloso deve stare da un’altra parte, nel rispetto delle condizioni di dignità spesso disattese nei nostri penitenziari. Ma solo chi è pericoloso. Ed è invece necessario pensare fin da subito, per tutti, alla riabilitazione. Anche perché queste persone, scontata la condanna, torneranno all’interno di quella società che li respinge».

Luigi Manconi: "Aboliamo il carcere". Inefficace, costoso e violento. Per questo il sistema penitenziario va cambiato. Le proposte in un libro appena uscito, continua Francesca Sironi. Primo: il carcere È inutile, perché sette detenuti su dieci tornano a compiere reati. Secondo: le galere non esistono da sempre. Terzo: le celle sono violente. Cambiare l’esecuzione della pena in Italia è l’obiettivo di un libro implacabile scritto da Luigi Manconi, Stefano Anastasia, Valentina Calderone e Federica Resta, appena pubblicato da Chiarelettere con il titolo: «Abolire il carcere, una ragionevole proposta per la sicurezza dei cittadini». Il volume raccoglie dati, storie e notizie su torture, recidiva, costi assurdi, sbagli e omissioni di un sistema che restituisce alla collettività criminali peggiori di quelli che aveva rinchiuso. Da questa analisi, scrive Luigi Manconi, presidente della Commissione diritti umani del Senato, emerge come «la pena si mostri in carcere nella sua essenzialità quale vera e propria vendetta. E in quanto tale priva di qualunque effetto razionale e totalmente estranea a quel fine che la Costituzione indica nella rieducazione del condannato». Per questo gli autori propongono dieci riforme possibili. A partire dall’idea che «il carcere da regola dovrebbe diventare eccezione, extrema ratio», come sostiene il costituzionalista Gustavo Zagrebelsky nella postfazione.

Soro, Garante della privacy: «Stop ai processi mediatici, ne va della vita delle persone», scrive Errico Novi su “Il Garantista”. C’è una parola che Antonello Soro non si stanca di ripetere: «Dignità». A un certo punto tocca chiedergli: presidente, ma com’è possibile che non riusciamo a tenercela stretta, la dignità? Che abbiamo ridotto il processo penale a un rodeo in cui la persona è continuamente sbalzata per aria? E lui, che presiede l’Autorità garante della Privacy, può rispondere solo in un modo: siete pregati di scendere dalla giostra. La giostra del processo mediatico, s’intende. «È una degenerazione del sistema che può essere fermata in un modo: se ciascuna delle parti, stampa, magistrati, avvocati, evita di dare un’interpretazione un po’ radicale delle proprie funzioni. C’è un nuovo integralismo, attorno al processo, da cui bisogna affrancarsi. Anche perché la giustizia propriamente intesa si fonda sulla presunzione d’innocenza. Quella mediatica ha come stella polare la presunzione di colpevolezza».

Senta presidente Soro, ma non è che il processo mediatico è una droga di cui non possiamo più fare a meno, magari anche per alleviare i disagi di una condizione generale del Paese ancora non del tutto risollevata?

«Non credo che per spiegare le esasperazioni dell’incrocio tra media e giustizia sia necessario arrivare a una lettura del genere. Siamo in una fase, che ormai dura da molto, in cui prevale un nuovo integralismo, anche rispetto alla preminenza che ciascuno attribuisce al proprio ruolo. Succede in tutti gli ambiti, compreso quello giudiziario. Ciascuna delle parti si mostra poco disponibile ad affrontare le criticità del fenomeno che chiamiamo processo mediatico».

Be’, lei descrive una tendenza che brutalmente potremmo definire isteria forcaiola.

«È il risultato di atteggiamenti – che pure non rappresentano la norma – sviluppatisi tra i giornalisti e anche tra i magistrati, persino tra gli avvocati. Ciascuna di queste componenti finisce in alcuni casi per deformare la propria missione. Il tema è sicuramente complesso, io mi permetto sempre di suggerire che si lascino da parte i toni ultimativi, quando si affronta la questione. Lo sforzo che va fatto è proprio quello di trattenersi dall’esaltare la propria indispensabile funzione. Esaltare la propria si traduce fatalmente nel trascurare la funzione degli altri».

È una situazione di squilibrio in cui parecchi sembrano trovarsi a loro agio, tanto da difenderla. È il caso delle intercettazioni.

«Nessuna persona ragionevole può mettere in discussione l’utilità delle intercettazioni e il diritto dei cittadini all’informazione. Due elementi di rango differente ma ugualmente imprescindibili. Nessuno pensa di rinunciare né alle intercettazioni né all’informazione. Si tratta di valutare con il giusto spirito critico la funzione di entrambe».

E non dovrebbe volerci uno sforzo così grande, no?

«No. Però cosa abbiamo davanti? Paginate intere di intercettazioni, avvisi di garanzia anticipati ai giornali, interrogatori di indagati in stato detentivo di cui apprendiamo integralmente il contenuto, immagini di imputati in manette, processi che sembrano celebrarsi sui giornali più che nelle aule giudiziarie. E in più c’è una variabile moltiplicatrice».

Quale?

«La rete. E’ un tema tutt’altro che secondario. La diffusione in rete delle informazioni e della produzione giornalistica non è neppure specificamente disciplinata dal codice deontologico dei giornalisti, che risale al 1998, quando il peso oggi acquisito dal web non era ancora stimabile».

Qual è l’aspetto più pericoloso, da questo punto di vista?

«Basta riflettere su una differenza, quella tra archivi cartacei e risorse della rete. Su quest’ultima la notizia diviene eterna, non ha limiti temporali, ha la forza di produrre condizionamenti irreparabili nella vita delle persone. La gogna della rete costituisce insomma un fine pena mai a prescindere da come finisce un processo. È uno degli aspetti che contribuiscono a rendere molto complesso il fenomeno dei processi mediatici. Tutto può essere riequilibrato, ma ora vedo scarsa attenzione per tutto quanto riguardi il bilanciamento tra i diritti fondamentali in gioco. Un bilanciamento che invece ritengo indispensabile quando riguarda la dignità delle persone».

È un principio di civiltà così elementare, presidente, che il fatto stesso di doverlo invocare fa venire i brividi. Di paura.

«Nel nostro sistema giuridico anche chi è condannato deve veder riconosciuta la propria dignità. Basterebbe recuperare questo principio. Che nella nostra Costituzione è centrale. Una comunità che rinuncia a questo presidio di civiltà ha qualche problema».

Com’è possibile che abbiamo rinunciato?

«Ripeto: stiamo dicendo per caso che dobbiamo eliminare l’uso delle tecnologie più sofisticate nelle indagini? No. Si pretende di negare il diritto all’informazione? Neppure. Si dovrebbe solo coniugare questi aspetti con la dignità delle persone, anche con riguardo alla loro vita privata. La privacy non è un lusso. Il fondamento della privacy è sempre la dignità della persona».

Se si prova a toccare le intercettazioni parte subito la retorica del bavaglio.

«Al giudice, in una prima fase, spetta la decisione sull’acquisizione delle intercettazioni rilevanti ai fini del procedimento, mentre al giornalista spetta, in seconda battuta, la scelta di quelle da pubblicare perché di interesse pubblico. Non è detto che il giornalista debba pubblicare tutti gli atti che ha raccolto compresi quelli irrilevanti ai fini del processo».

Spesso quelli irrilevanti sul piano penale sono i più succosi da servire al lettore.

«Guardi, è plausibile che alcune intercettazioni contengano elementi utili per la ricostruzione dei fatti penalmente rilevanti anche se non riguardano la persona indagata. Può avere senso che elementi del genere vengano resi pubblici. Ma altri che non hanno utilità ai fini del processo andrebbero vagliati con particolare rigore in funzione di un vero interesse pubblico. Prescinderei dai singoli episodi. Ma ricorderei due princìpi abbastanza trascurati. Da una parte, la conoscenza anche di un dettaglio della vita privata di un personaggio che riveste funzioni pubbliche può essere opportuna, se quel fatto rischia di condizionarne l’esercizio della funzione. È giusto che il cittadino conosca cose del genere».

Ad esempio, il fatto che Berlusconi ospitasse a casa sua molte giovani donne, alcune delle quali erano prostitute e lui neppure lo sapeva.

«Sì, però poi i dettagli sulle attività erotiche di un leader politico, tanto per dire, possono alimentare curiosità, ma è difficile riconoscerne il senso, in termini di diritto all’informazione. In altre parole: può essere utile sapere che quel leader, in momenti in cui esercita la propria funzione pubblica, compie atti che, ad esempio, lo espongono al ricatto; ma riportare atti giudiziari che entrano morbosamente nel dettaglio, diciamo così, va al di là di quell’informazione utile di cui sopra. A meno che non riferiscano comportamenti che costituiscono reato».

Negli ultimi anni l’inopportunità di certe divulgazioni spesso è emersa quand’era troppo tardi.

«E in proposito mi preoccupa ancor di più il dramma vissuto da privati cittadini casualmente intercettati ed esposti a una gogna molto pesante. E la gogna mediatica è una pena inappellabile, a prescindere da come finisce in tribunale. Ho segnalato più volte la situazione del cittadino Massimo Bossetti. Nel suo caso sono stati divulgati i dati genetici di tutta famiglia, i comportamenti del figlio minore e di tutti familiari, fino al filmato dell’arresto, all’ audio dell’interrogatorio e al colloquio con la moglie in carcere: tutto questo contrasta la legge sul diritto alla riservatezza. Che rappresenta una garanzia per i cittadini e che però viene travolta da una furia iconoclasta, funzionale al processo mediatico. Nel processo propriamente inteso vige la presunzione di innocenza, in quello mediatico si impone la presunzione di colpevolezza».

Come se ne esce?

«Tutti, magistrati, giornalisti, avvocati, cittadini, debbono cercare il punto di equilibrio più alto. E smetterla di pensare che qualche diritto debba essere cancellato. Anche perché oltre alla dignità delle persone è in gioco anche la terzietà del giudice».

Cosa intende?

«Chi siede in una Corte viene ‘inondato’ da una valanga di informazioni dei media che finiscono per costruire un senso comune. In un ordinamento in cui esistono anche i giudici popolari c’è il rischio che questi non formino la loro convinzione in base alla lettura degli atti ma in base al processo mediatico, che ha deciso la condanna molto tempo prima, e non nella sede dovuta. Intercettazioni, atti e immagini divulgati dai media, non solo costituiscono uno stigma perenne per la persona, ma rischiano di condizionare anche l’esercizio della giurisdizione in condizioni di terzietà».

Ma non è che i magistrati alla fine spingono il processo mediatico perché pensano di acquisire in quel modo maggiore consenso?

«Guardi, quando un singolo magistrato ricerca il consenso può casomai far calare un po’ il consenso dell’intera magistratura. E questo lo hanno affermato negli ultimi tempi autorevoli magistrati, che hanno usato parole molto eloquenti nel criticare gli abusi di singoli colleghi. Mi riferisco in particolare al procuratore capo di Torino Armando Spataro quando dice che durante Mani pulite, per esempio, alcuni magistrati sembravano più preoccupati della formazione della notizia da prima pagina che della conclusione del processo. Ecco, la legittimazione che ha il magistrato viene messa in discussione proprio da quei comportamenti impropri. La ricerca del consenso non è propria della funzione del magistrato. Chi ha da decidere della giustizia ha un compito che da solo gratifica e impegna la vita. Io ho una grandissima considerazione di questo compito e credo vada preservato».

Nordio agita i colleghi in toga: "Niente multe, via i pm scarsi". Il procuratore di Venezia critica la scelta del governo sulla responsabilità civile: "Inutile, paga l'assicurazione", scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. I magistrati hanno una gran fretta: per denunciare davanti alla Consulta l'incostituzionalità della legge sulla responsabilità civile, varata solo a febbraio, non hanno aspettato che un cittadino chiedesse i danni a uno di loro. Hanno giocato d'anticipo. Per il giudice civile Massimo Vaccari del tribunale di Verona basta il timore di un giudizio di responsabilità per condizionare l'autonomia e l'indipendenza della toga, ledere i suoi diritti e privarla della necessaria serenità nel suo lavoro. Così, il 12 maggio ha inviato alla Corte costituzionale 17 pagine di ricorso, che sostengono contrasti con diversi articoli della Carta. La notizia arriva proprio mentre il Matteo Renzi ricorda su Twitter l'anniversario della morte di Enzo Tortora, sottolineando che da allora, e grazie a lui, le cose sono cambiate. «Ventisette anni dopo la morte di Tortora - scrive il premier-, abbiamo la legge sulla responsabilità civile dei giudici e una normativa diversa sulla custodia cautelare #lavoltabuona». Nella stessa giornata e proprio partendo dal tempestivo ricorso del giudice veronese, su Il Messaggero il procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio firma un editoriale che certo non farà piacere ai suoi colleghi. Basta il titolo: «Il magistrato che sbaglia va rimosso più che multato». Mentre le toghe, con l'Anm in testa, protestano aspramente per la legge, minacciano lo sciopero e si organizzano perché la Consulta la faccia a pezzi, Nordio sostiene dunque che le nuove norme sono troppo deboli e non risolvono i problemi, cioè le cause degli errori giudiziari: dall'«irresponsabile potere dei pm» a quello dei giudici di «riprocessare e condannare un cittadino assolto», con una «catena di sentenze». Il magistrato accusa governo e Parlamento di aver «risposto in modo emotivo» alle richieste dell'opinione pubblica, puntando sull'«effetto intimidatorio delle sanzioni, privilegiando peraltro quelle pecuniarie». Così, per Nordio, hanno fatto «una scelta inutile, perché ci penserà l'assicurazione; e irragionevole, perché la toga inetta o ignorante non va multata, va destituita». Denunciando davanti all'Alta corte, sostiene il pm, «la parte più ambigua della legge, quella che consente, o pare consentire, di far causa allo Stato prima che la causa sia definitivamente conclusa», paralizzando i processi, se ne otterrà forse una parziale abrogazione. E «i magistrati impreparati o inetti tireranno un sospiro di sollievo». Vedremo se andrà proprio così. Intanto, il ricorso a bocce ferme del giudice veronese deve superare il giudizio di ammissibilità. Vaccari cita un precedente simile contro la legge del 1989, ma non è affatto detto che riesca nel suo intento. I magistrati, però, si sono organizzati da un pezzo per ricorsi singoli o collettivi e, se questo verrà bloccato, di certo alla Consulta ne arriveranno molti altri. L'ultima parola sarà anche stavolta dei giudici costituzionali.

Il super-Pm sbotta: «Giudici, ora basta», scrive l'11 maggio 2015 Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Lo sapete tutti che nei manuali di giornalismo c’è scritto che una notizia è notizia quando l’uomo morde il cane, e non viceversa. Beh, stavolta è ancora più notizia: è il magistrato che morde il magistrato. Cosa mai vista, finora. E il magistrato in questione non è un tizio qualunque, ma è il Procuratore di Torino Armando Spataro, anni 67, carriera lunghissima, sempre impegnato in indagini molto delicate, prima la lotta al terrorismo di sinistra, nei primi anni ottanta, poi l’antimafia. Spataro è un’icona di coloro che amano i Pm. Duro, rigoroso, burbero, cattivo, non sorride mai. Uno sceriffo. E uno che parla chiaro, non si nasconde, te le grida in faccia. A occhio non è proprio il tipo del magistrato garantista. Ed è difficile trovare qualche sua frase di simpatia per i garantisti. Beh, ieri Spataro è andato a parlare nella tana del nemico, e cioè a un convegno organizzato dalla camere penali del Piemonte, e ha pronunciato una requisitoria delle sue, ma stavolta contro i suoi colleghi. Spataro ha tuonato contro i magistrati protagonisti, i magistrati presunti ”eroi”, i magistrati moralisti, i magistrati maestri di storia, i magistrati faziosi, i magistrati narcisi eccetera eccetera. Ha messo nel mirino (senza mai nominarli) Ilda Boccassini, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Antonio Di Pietro (ma anche Borelli, D’Ambrosio e Colombo) forse anche Pignatone, sicuramente, e con durezza, il ministro Alfano. E poi ha disintegrato l’immagine dei giornalisti giudiziari, accusandoli di pigrizia e scarsa professionalità (ma anche un po’ di servilismo…). Ha pronunciato un discorso simile agli articoli che su questo giornale scrive Tiziana Maiolo…I casi sono due. O prendiamo questo sfogo di Armando Spataro come una boutade (o come semplice espressione della lotta interna tra le correnti della magistratura); oppure lo prendiamo sul serio ed esaminiamo una a una le cose che lui ha detto e immaginiamo che forse si è arrivati – nella vicenda del potere sempre più grande in mano alla magistratura – a quel punto di rottura che provoca reazioni, discussioni, dubbi, e che forse può portare a una inversione di tendenza. Speriamo. Naturalmente è chiaro che alcuni degli attacchi di Spataro possono essere effettivamente letti all’interno della lotta tra correnti della magistratura. Spataro ce l’ha sempre avuta con ”Magistratura Democratica” e oggi gli tira un po’ di frecce avvelenate. Così come è noto che Spataro non ha mai amato la Boccassini, che addirittura una volta fece pedinare degli indagati sui quali stava indagando, appunto, Spataro, che la prese molto male. Ed è anche noto che Spataro non ama il ministro Alfano e perciò – come vedrete – lo espone a impietosi paragoni con ministri dell’Interno del passato (Virginio Rognoni, in particolare) e lo maltratta in tutti i modi. Detto ciò, vediamo quali sono i sassolini che Spataro si toglie dalla scarpa. Trascrivendo pari pari le frasi che ha pronunciato a Torini, senza cambiare una virgola. «E’ una fortuna che sia finita l’era di mani pulite e l’era di Di Pietro. Rammento i giornalisti a frotte dietro i pubblici ministeri nei corridoi, e devo dire che alla fine qualche collega era più convinto dell’importanza della notizia in prima pagina che non dell’esito del processo…«Badate che non sto contestando il diritto e il dovere del magistrato di intervenire nel dibattito civile. E’ giusto che intervenga. Senza però dare alcun segnale di dipendenza o vicinanza politica…«Vi faccio qualche esempio di protagonismo non virtuoso: c’è un magistrato che a Palermo, dopo aver letto una sentenza che disattendeva le sue conclusioni, disse che se lui fosse stato un professore avrebbe dato quattro meno al giudice che aveva fatto quella sentenza (e qui si riferisce al dottor Vittorio Teresi, coordinatore del pool antimafia della Procura di Palermo, il quale pronunciò quella frase infelice commentando la sentenza del processo Mori, ndr); poi c’è chi ha detto che il Csm avrebbe dovuto valutare, al fine di designare il nuovo procuratore capo di Palermo, il grado di condivisione dei candidati con l’impostazione del processo sulla trattativa Stato mafia (e qui si riferisce ancora a Teresi, ma anche a Ingroia e più in generale a tutti i Pm che fanno capo all’ex Procuratore di Palermo De Matteo, ndr). Mi sembra una impostazione inaccettabile». «Poi c’è il caso di quei pubblici ministeri che a distanza di 20 anni dall’inizio dei processi di mafia al Nord, dicono: ”Finalmente arrivo io e indago sulle infiltrazioni di mafia al Nord”, oppure che continuamente fanno riferimenti a entità esterne, ai poteri forti…Il vizio più pesante della magistratura è la tendenza a porsi come moralisti, come storici, cioè pensare che tocca ai magistrati moralizzare la società e ricostruire un pezzo di storia». «Non sopporto più i colleghi che si propongono come gli unici eroi che lottano per il bene, mentre tutto attorno c’è male, e loro sono una sorta di Giovanna D’Arco, e sono alla continua denuncia dell’isolamento nel quale si trovano. Ma l’isolamento del magistrato non ha niente di eccezionale, è una condizione tipica del nostro lavoro. Non sopporto quelli che vanno in piazza per raccogliere firme di solidarietà». «Se si dovesse fare una riforma della Costituzione, vorrei che fosse inserita una norma che prevede l’indipendenza della stampa dal potere politico. Anni fa feci un viaggio negli Stati Uniti e chiesi al Procuratore federale di Chicago come facessero a mantenere l’indipendenza visto che sono nominati dal presidente degli Stati Uniti. Lui mi rispose: «Ma qui c’è la stampa», alludendo al ruolo della stampa e alla sua assoluta indipendenza. In Italia invece abbiamo degenerazioni di ogni tipo: magistrati che sfruttano il processo famoso per curare la propria icona, avvocati che tendono a trasferire il processo in Tv per auto-promuoversi, giornalisti che non cercano riscontri ma inseguono misteri, e ministri che inseguono slogan e telecamere. «Quando arrestammo Mario Moretti, il capo delle Br, non potrò mai scordarmi che mi telefonò l’allora ministro dell’Interno (Virginio Rognoni ). Avevo 31 anni, mi emozionai ( in verità ne aveva 33…anche lui bada un po’ alla sua immagine e si cala l’età…peccato veniale…, ndr). Il ministro mi chiamò per dirmi: ”lei sa quanto è importante per noi diffondere la notizia dell’arresto di Moretti, ma deve essere lei a dirmi che posso farlo, perché prima vengono le indagini”. Oggi avviene esattamente il contrario: notizie di operazioni contro il terrorismo internazionale vengono diffuse prima ancora che si realizzino, abbiamo notizie che vengono riprese senza alcun potere critico da parte della stampa, ad esempio quella sui terroristi che arrivano sui barconi dei migranti in Sicilia. Veicolare questa informazione interessa alla politica: possibile che non ci sia nessun giornalista che scriva che questa cosa non sta né in cielo né in terra?…» Questa è la sintesi del discorso di Spataro. Non mi è mai capitato di parlare bene di Spataro…Però questi suoi ragionamenti, se fossero ripresi da qualche altro Pm, potrebbero essere un punto di partenza per una discussione seria, no? Del resto sono convinto che la possibilità di fermare l’aggressività politica della magistratura (e del patto di ferro tra magistratura e giornalismo) , oggi esiste solo se la critica parte dall’interno della magistratura.

Eppure, ciononostante succede questo!

Della serie: subisci e taci…

"Assassini" ai pm di Mani Pulite: la Cassazione condanna Sgarbi a risarcire 60mila euro. Le dichiarazioni dell'allora deputato contro Davigo, Colombo e Greco si riferivano ai suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini. La Cassazione: "Il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità", scrive “Il Corriere della Sera".  Confermata dalla Cassazione la condanna nei confronti di Vittorio Sgarbi a risarcire con 60mila euro tre ex pm del pool 'Mani pulite' di Milano, Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco, per averli definiti - in dichiarazioni riprese nel luglio 1994 dai quotidiani Avvenire e Il Giornale, a un anno dai suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini - come degli "assassini" che "avevano fatto morire delle persone" e per questo dovevano "essere processati e condannati" in quanto costituivano "una associazione a delinquere con libertà di uccidere". Secondo la Terza sezione civile della Suprema Corte - sentenza 10276/2015 -  "il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità altrui, e la dignità altrui è violata quando la critica trascende il limite della continenza verbale". E per quanto riguarda le espressioni usate da Sgarbi, che all'epoca deputato, "nemmeno la più benevola concezione del limite della continenza verbale - ritengono gli ermellini - potrebbe mai giungere ad ammettere che tali espressioni non violino quel limite". La Cassazione, inoltre, sottolinea che la condanna di Sgarbi a risarcire i pm con 60mila euro non può considerarsi "esorbitante" se si considera il "lavoro svolto" dai tre magistrati offesi, la "gravità degli addebiti loro mossi" e "l'impatto sociale di affermazioni così drastiche". Senza successo Sgarbi ha protestato perché gli editori delle due testate e i giornalisti che avevano riportato le sue esternazioni non erano stati condannati in solido con lui a risarcire i danni ai pm diffamati. Secondo Sgarbi, era compito dei giornalisti "verificare la violazione del limite della continenza verbale". In proposito i supremi giudici - con la sentenza - gli rispondono che questa richiesta lui l'ha avanzata ben nove anni dopo l'apertura del procedimento a suo carico mentre avrebbe dovuto proporla nella prima memoria di costituzione in giudizio. Quanto al fatto che gli ex del pool hanno promosso azioni risarcitorie per le stesse dichiarazioni di Sgarbi pubblicate, però, da altre testate, la Cassazione ha fatto presente all'ex parlamentare che "una medesima dichiarazione diffamatoria diffusa da più organi di stampa genera più danni. La lesione dell'onore consiste infatti nel detrimento della reputazione che l'offeso vanta presso il pubblico dei lettori; sicchè - conclude il verdetto - dovendo presumersi che ogni quotidiano abbia lettori in gran parte diversi, a ogni pubblicazione corrisponderà un danno differente". E' stata così interamente confermata la sentenza emessa dalla Corte di appello di Milano il 14 aprile del 2011.

Criticare Mani pulite è reato. Sberla dei giudici a Sgarbi. Il critico definì assassini i pm di Tangentopoli. Ora deve risarcire i magistrati con 60mila euro, scrive Marcello Di Napoli su “La Notizia Giornale”. Non c’è da meravigliarsi se la giustizia italiana ha perso ogni credibilità in tutto il mondo. Un rispetto perduto a causa del protagonismo di alcuni pubblici ministeri e dei tempi lunghissimi dei processi. Il tutto mentre centinaia di giudici scrivono libri, vanno a ogni genere di conferenze e non si perdono un vernissage. Insomma, purtroppo il discredito la magistratura se l’è cercato da sé. A causa anche delle inchieste spettacolo. L’ultima è stata riservata a Vittorio Sgarbi. Ieri (20 maggio 2015) il critico d’arte è stato condannato a pagare un risarcimento di 60mila euro ai tre ex pm del pool di Milano: Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Francesco Greco. Si sa, il noto opinionista è sempre stato contrario ai metodi usati dai magistrati milanesi nella stagione di mani pulite. In particolare, ha sempre contrastato quello che lui ritiene un abuso della carcerazione preventiva. Ma nel 1994, all’epoca dei fatti, secono la Cassazione ha usato “espressioni lesive della dignità dei magistrati”. L’allora deputato dell’appena nata Forza Italia definì “assassini” i pm. Lo scrisse su due testate nazionali (“Il Giornale” e “Avvenire”) e lo ribadì durante la trasmissione Sgarbi Quotidiani. Accuse che erano state espresse in merito ai suicidi di Raul Gardini e di Gabriele Cagliari (che si tolse la vita nelle docce del carcere di San Vittore). Dunque la Terza sezione civile della Suprema Corte ha confermato la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Milano, affermando che: “il diritto di critica è limitato dal rispetto della dignità altrui, e la dignità altrui è violata quando la critica trascende il limite della continenza verbale”. La Cassazione ha evidenziato che la pena pecuniaria inflitta all’ex di Forza Italia non può essere considerata esorbitante se si tengono in conto il “lavoro svolto” dai tre pm, “la gravità degli addebiti loro mossi” e “l’impatto sociale di affermazioni così drastiche”. Inoltre, la Corte ha fatto presente che “una medesima dichiarazione diffamatoria diffusa da più organi di stampa genera più danni”. Sgarbi, a suo tempo, ha protestato perché gli editori dei giornali che hanno riportato le sue dichiarazioni non sono stati condannati in solido con lui a risarcire i danni ai pm. Per il critico d’arte, inoltre, era compito delle testate quello di “verificare la violazione del limite della continenza verbale”. Ma i giudici gli hanno dato torto, perché questa richiesta è stata inoltrata solo nove anni dopo l’apertura del procedimento, e non nella prima memoria di costituzione in giudizio. Insomma, mentre mentre procedimenti vitali per tanta gente comune si rimandano alla calende greche, i giudici scelgono di occuparsi, anche per molti anni, di vicende paradossali come quella di Sgarbi (i morti ci furono per davvero) o come il bunga bunga di Berlusconi. E poi non meravigliamoci se la giustizia italiana ha perso ogni credibilità in tutto il mondo.

Appunto!!!

Fanciullacci, vigliacco assassino». Per la Cassazione non è diffamazione. La Suprema Corte ha assolto, «perchè il fatto non costituisce reato» Achille Totaro, dall’accusa di aver diffamato il partigiano Bruno Fanciullacci, scrive “Il Corriere Fiorentino”. La quinta sezione della corte di Cassazione ha assolto, «perchè il fatto non costituisce reato» il senatore toscano del Pdl, Achille Totaro, dall’accusa di aver diffamato il partigiano Bruno Fanciullacci, eroe della Resistenza, definendolo «vigliacco assassino» riguardo all’omicidio del filosofo Giovanni Gentile avvenuto nel 1944 a Firenze. Totaro aveva fatto ricorso in Cassazione dopo che la corte d’appello di Firenze lo aveva condannato al risarcimento simbolico di un euro verso gli eredi di Fanciullacci, avendo stabilito che il reato era prescritto. «Stavolta invece la suprema Corte con questa sentenza - ha commentato l’avvocato di Totaro, Paolo Florio - ha riconosciuto che Totaro aveva esercitato, con le sue valutazioni, il diritto di critica politica nel giudicare la condotta di Fanciullacci limitatamente a quella determinata circostanza dell’assassinio di Gentile, e che quindi non espresse una valutazione generale sull’uomo Fanciullacci». «Totaro - ha osservato ancora il legale - parlò di Fanciullacci in una seduta del consiglio comunale di Firenze, e lo fece da politico che si rivolgeva ad un consesso politico». I fatti risalgono al 2000. Il 10 gennaio si tenne il consiglio comunale dove fu discussa una mozione su Fanciullacci durante la quale Totaro, consigliere comunale di An, lo definì «vigliacco assassino»; due giorni dopo lo stesso giudizio fu riportato in un’intervista concessa a un quotidiano. La famiglia di Fanciullacci, in particolare la sorella, denunciò per diffamazione non solo Totaro ma anche i consiglieri comunali che firmarono un comunicato stampa di sostegno all’attuale senatore del Pdl. Nel tempo, quattro di quei consiglieri sono stati assolti. Invece, dopo esser stati assolti con formula piena in primo grado sia Totaro sia un altro consigliere comunale di An, poi del Pdl, Stefano Alessandri, nel maggio 2009 la corte di appello cambiò l’orientamento della vicenda ravvisando per entrambi il reato di diffamazione anche se prescritto e stabilendo il risarcimento simbolico. Ora la Cassazione ha assolto alla stessa maniera di Totaro anche Alessandri, che nello stesso procedimento era co-imputato con il senatore.

Aldro, non è diffamazione dire assassino all’agente. La motivazione del gip Tassoni che ha archiviato la denuncia di Paolo Forlani, scrive “La Nuova Ferrara”. Un altro atto giudiziario va ad arricchire l’ormai copioso archivio del caso Aldrovandi: è il decreto di archiviazione del gip Piera Tassoni che ha annullato le accuse di diffamazione mosse da Paolo Forlani, uno degli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi, alla madre Patrizia Moretti per aver detto nel blog che scrive ormai da 7 anni di aver visto appunto il poliziotto in un bar cittadino, ossia «uno degli assassini di Federico». Indicare Forlani come assassino, secondo il gip Tassoni che ha accolto le tesi della pm Volta, non è diffamatorio: perchè con il termine assassino Patrizia Moretti - scrive il gip - «aveva inteso indicare in Forlani colui che era stato ritenuto responsabile in primo grado dell’omicidio di suo figlio, non essendovi elementi per poter sostenere che si volle muovere un’accusa di omicidio volontario». La decisione del giudice Tassoni è arrivata a conclusione dell’ennesimo processo che Patrizia Moretti deve subire, come strascico di sue dichiarazioni, o affermazioni in questi anni. Uno tra i tanti lo ricordiamo, è il processo per diffamazione attivato dal pm Mariaemanuela Guerra, processo aggiornato al 2 ottobre prossimo davanti al tribunale di Mantova dove la Moretti comparirà con giornalisti de la Nuova Ferrara. Una contesta giudiziaria tra il nostro giornale e il pm Mariaemanuela Guerra che si è spostata ieri mattina ad Ancona: davanti al tribunale marchigiano è partito infatti il processo civile in cui la pm Guerra chiede all’editore del nostro giornale e a 7 tra giornalisti e direttori, un indennizzo per danni, di non meno di 1 milione e mezzo di euro, per una campagna stampa (presunta) diffamatoria e denigratoria nei suoi confronti.

La prova definitiva: in Italia la legge non è uguale per tutti, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. La legge non è uguale per tutti. Per qualcuno è più uguale di altri, nel senso che è più rigida, soprattutto se ci si chiama Silvio Berlusconi. Ricordate la sentenza con cui l’ex Cavaliere è stato condannato a quattro anni di detenzione e sospeso dai pubblici uffici? Cioè quella misura che ha consentito la sua estromissione dal Parlamento e ha stabilito la sua ineleggibilità? Per i giudici della Corte di Cassazione il fondatore di Forza Italia fu l’artefice di una frode fiscale ai danni dell’erario e per questo fu costretto non solo a lasciare il suo seggio da senatore, ma anche a risarcire l’agenzia delle entrate. Peccato che in una sentenza del 20 maggio 2014, cioè emessa dieci mesi dopo quella pronunciata contro Berlusconi, la suprema corte si rimangi tutto, sostenendo che non si può condannare un contribuente solo in base alla presunzione di colpevolezza. Per stabilire che ha frodato il fisco ci vuole ben altro, ad esempio un atto fondamentale, ossia che l’accusato abbia materialmente partecipato alla frode compiendo l’atto finale: la dichiarazione dei redditi. Testuale: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione annuale». Ancor più esplicita: i reati di frode non possono essere provati «dalla mera condotta di utilizzazione, ma da un comportamento successivo e distinto, quale la presentazione della dichiarazione, alla quale in base alla disciplina in vigore non dev'essere allegata alcuna documentazione probatoria». Tradotto, tutto quel che succede prima, tutta la fase di valutazione antecedente al fatto, non ha importanza, perché «il comportamento precedente alla dichiarazione, quindi si configura come ante factum meramente strumentale e prodromico per la realizzazione dell'illecito, e perciò non punibile». La Cassazione, assolvendo nel maggio scorso un imputato di frode fiscale, nega dunque la rilevanza penale delle violazioni «a monte» della dichiarazione e lo fa facendosi forte di una serie di pronunciamenti passati. A qualcuno il discorso potrà sembrare ostico e forse anche ininfluente, in quanto la sentenza si riferisce a un caso diverso rispetto a quello di Silvio Berlusconi e, come è a tutti noto, ogni processo fa caso a sé, anche perché ogni giudice fa caso a sé. E per questo appunto c'è la Cassazione e le sezioni unite che fissano i principi inderogabili. I principi valgono per tutti e non si possono cambiare le carte in tavola a seconda di chi finisce alla sbarra. Dunque «i comportamenti di un soggetto quando era ancora amministratore di una società e che si era dimesso prima della presentazione della dichiarazione dei redditi, non possono essere valorizzati neppure in termini di concorso con colui che, rivestendo successivamente la carica di amministratore, aveva indicato nella dichiarazione gli elementi fittizi». Tutto ciò messo nero su bianco da una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, un provvedimento che fa giurisprudenza e al quale ci si deve attenere.

"Ora la revisione del processo Mediaset". Una sentenza di assoluzione della Cassazione su un caso analogo a quello di Berlusconi riapre la partita. L'annuncio di Ghedini, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. C'è una sentenza della Cassazione che, dieci mesi dopo quella Mediaset di condanna di Silvio Berlusconi, la bolla esplicitamente come sbagliata. Si regge su una tesi, spiega la motivazione, «che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte e al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari». Il caso è del tutto analogo a quello Mediaset, frode fiscale, le conclusioni opposte: sentenza di condanna confermata per il leader azzurro il primo agosto 2013, sentenza di condanna annullata per il signor X il 20 maggio 2014. Colpisce che il relatore sia lo stesso, il giudice Amedeo Franco, che già aveva firmato precedentemente altre sentenze «conformi» a quest'ultima. E che la sezione sia la Terza penale, cui era naturalmente destinato il processo Mediaset prima di venire dirottato a quella Feriale, presieduta da Antonio Esposito, per il timore (poi, a quanto sembra, rivelatosi infondato) che nei mesi estivi potesse scattare la prescrizione. «Questo dimostra - spiega il legale di Berlusconi, Niccolò Ghedini - che la condanna Mediaset ha rappresentato un unicum nella giurisprudenza della Cassazione. Che prima e dopo la legge è stata interpretata in maniera diversa, con un orientamento univoco. Se il processo Mediaset fosse arrivato alla Terza Sezione e non in quella Feriale, e con quello stesso relatore, sarebbero cambiate le sorti di Berlusconi e del Paese, sarebbe cambiata la storia. Questo sarà un elemento importante per la decisione della Corte europea per i diritti dell'uomo, che attendiamo. Ma soprattutto, sulla base di questa sentenza e delle nuove prove che abbiamo raccolto, chiederemo la revisione del processo». La difformità nella giurisprudenza di per sé non produce effetti sulla condanna Mediaset, ma potrebbe convalidare una violazione del principio del giusto processo, tra le ipotesi che giustificano la revisione del processo. E la strada sarebbe aperta se la Corte di Strasburgo, nella pronuncia attesa dopo l'estate, affermasse appunto che questa violazione c'è stata. È vero che ogni giudice e ogni collegio fa giurisprudenza a sé, ma è anche vero che la Suprema Corte ha proprio la funzione di uniformare l'interpretazione e l'applicazione del diritto. È lecito chiedersi perché prima della sentenza Mediaset si è seguita una strada precisa per il reato di frode fiscale e anche dopo è stato così, mentre in quel caso isolato ha prevalso proprio la teoria rivelata dal presidente Esposito in un'intervista al Mattino che gli ha procurato un processo disciplinare: Berlusconi fu condannato «perché sapeva», fu informato da altri della frode, non per il principio astratto del «non poteva non sapere», essendo il capo. Proprio qui sta il punto in cui la sentenza depositata in Cassazione il 19 dicembre scorso contraddice quella Mediaset, che cita esplicitamente, con data e numero di serie. Contestando la condanna dell'imputato, i Supremi giudici scrivono: «In sostanza, la corte d'appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione feriale 1-8-2013, n.35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un "coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento... che ha consentito... di avvalersi della documentazione fiscale fittizia", al sottoscrittore della dichiarazione». Invece, continua la sentenza, questo non è affatto sufficiente. E le massime che l'accompagnano, quelle che per il futuro indicano ai giudici come interpretare la legge, dicono chiaro che: «I reati di dichiarazione fraudolenta hanno natura istantanea e si consumano soltanto con la presentazione della dichiarazione dei redditi». Le fasi preparatorie, il sapere o non sapere, non contano.

La Cassazione si rimangia la sentenza su Berlusconi, scrive Davide Giacalone su “Libero Quotidiano”. Il condannato Silvio Berlusconi ha terminato di espiare la pena. E questo è noto a tutti. Quel che non è noto, però, è che nel frattempo la corte di Cassazione ha condannato la sentenza che lo condannava. La considera un’eccezione, da non prendere ad esempio, perché sbagliata. Il nome del condannato agita le tifoserie. Gli capitava da imprenditore, ancor più da politico. La condotta di quelle trincee vocianti non è per nulla interessante. Talora neanche ragionevole. La linea cui ci si deve attenere, quando si affrontano questioni di giustizia, consiste nel non cedere alla contrapposizione fra innocentisti e colpevolisti, ma di attenersi alla difesa del diritto e dei diritti. Solo in questo modo non ci si limita a discutere casi personali, sollevando questioni che, sempre, riguardano tutti. Il che vale anche questa volta. Ma non faccio il falso ingenuo, so bene che il nome di Berlusconi è divisivo, capace, per i simpatizzanti e gli antipatizzanti, di distorcere la percezione della realtà. Chiedo uno sforzo, però: prima si capisca quel che è successo, poi si passi alle considerazioni, anche politiche e personali, che se ne possono far discendere. Con sentenza della Cassazione, emessa il primo agosto del 2013 (numero 35729), è stata confermata la condanna inflitta agli imputati in appello. Per Berlusconi la Cassazione chiese anche il ricalcolo della pena accessoria. Il reato contestato era la frode fiscale, con violazione (scusate la pedanteria, ma fra poco ne sarà chiara la ragione) del decreto legislativo 10 marzo 2000, numero 74. Detto in soldoni: la dichiarazione dei redditi della società (Mediaset) era mendace, giacché contenente riferimenti e contabilizzazioni di documenti falsi (fatture). Il seguito lo conoscono tutti: decadenza da parlamentare e affidamento ai servizi sociali. Il 20 maggio del 2014, quasi un anno dopo, quindi, la terza sezione della corte di Cassazione si è trovata ad esaminare un caso del tutto analogo, emettendo una sentenza, depositata in cancelleria il 19 dicembre successivo. L’imputato era stato condannato a due anni e sei mesi di reclusione. Osserva la Cassazione, a pagina 10 della sentenza: «In sostanza, la corte d’appello appare aver adottato una interpretazione (analoga a quella poi seguita dalla Sezione Feriale 1/8/2013, n. 35729) nel senso che per la sussistenza del reato sarebbe sufficiente la prova di un “coinvolgimento diretto e consapevole alla creazione del meccanismo fraudolento (…) che ha consentito (…) di avvalersi della documentazione fiscale fittizia” al sottoscrittore della dichiarazione» (corsivo e omissioni come da sentenza). Tenetevi forte, perché le parole che seguono vanno valutate una per una. Scrive la Corte: «Si tratta però di una tesi che non può essere qui condivisa e confermata, perché contraria alla assolutamente costante e pacifica giurisprudenza di questa Corte ed al vigente sistema sanzionatorio dei reati tributari introdotto dal legislatore con il decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74». Detto in altro modo: le ragioni per cui Berlusconi, assieme ad altri, è stato condannato non solo sono difformi dalla «contraria» e «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza» della Cassazione, ma sono in contrasto con quanto stabilisce la legge. Tanto che, quel 20 maggio dell’anno scorso, la Cassazione annullò la sentenza che le era stata sottoposta. Il primo agosto del 2013, invece, la confermò. Non è finita. Alla sentenza si accompagnano delle «massime», che sono delle brevi citazioni, utili a fissare i principi di diritto che la sentenza afferma. La Cassazione, infatti, esiste quale giudice di legittimità ed ha una funzione nomofilattica, che significa: garantire l’uniformità dell’interpretazione e dell’applicazione del diritto. Le massime aiutano i futuri giudici di merito (e gli avvocati, naturalmente) ad attenersi a quell’uniforme interpretazione e applicazione. Ebbene, la sentenza di cui parliamo è accompagnata da alcune massime, in calce alle quali ci sono i riferimenti a varie sentenze, sempre della Cassazione, «conformi», vale a dire che sostengono la stessa cosa. E c’è la difforme: la numero 35729. Quella che condannò Berlusconi. Nelle motivazioni e nella massime si legge la corretta interpretazione della legge: la frode fiscale nasce e si concretizza nel momento in cui è firmata la dichiarazione mendace, mentre nessuno degli atti preparatori può, in nessun caso, essere utilizzato per dimostrarla e indicarne il colpevole. Tale, del resto, è chi firma il falso, ovvero nessuno degli imputati allora condannati. Ma colpevole può anche essere chi induce l’amministratore di una società in errore, mediante l’inganno. Circostanza negata dalla sentenza d’appello, quindi, ove la si voglia contestare, sarebbe stato un motivo di annullamento (con rinvio), non di conferma. Colpevole può anche essere l’amministratore di fatto, ovvero la persona che non figura come amministratore, ma che ne esercita le funzioni. Nel qual caso, però, si deve dimostrarlo. Senza nulla di ciò non può esserci condanna, questo stabilisce la Cassazione, con «assolutamente costante e pacifica giurisprudenza». Vengo all’ultimo aspetto, che a sua volta ha un peso dirompente. I contrasti di giurisprudenza esistono fin da quando esiste la giurisprudenza. Per quanto la Cassazione s’affanni a perseguire l’uniformità, agguantarla in modo assoluto è impossibile. Quindi, se due giudici emettono sentenze diverse non è una cosa poi così terribile. Peccato, però, che la Cassazione esiste proprio per correggere, non per produrre le difformità. E peccato che, in questo caso, non ci sono due giudici, ma uno solo. I due collegi, quello del 2013 e quello del 2014, si compongono complessivamente di dieci giudici, ma, come si vede dal frontespizio delle due sentenze, il «consigliere relatore» è uno solo. La stessa persona. Che ad agosto del 2013 scrive una cosa e a maggio del 2014 la demolisce. Anche in modo sprezzante, e ben più a lungo e dettagliatamente di quanto qui riportato. Nessuno pensi di cavarsela supponendo uno sdoppiamento della personalità. Meno ancora in un cambio di opinione, perché ha messo nero su bianco che l’orientamento era univoco sia prima che dopo. In quelle parole, dure e inequivocabili, io leggo il dolore. Un cultore del diritto cui si è storto fra le mani. E siccome la legge impedisce a un giudice di manifestare e rendere noto il proprio dissenso (in altri sistemi di diritto si verbalizza il diverso parere e, anzi, lo si utilizza pubblicamente per aiutare l’interpretazione della sentenza), quello ha preso la forma di una sentenza successiva. Tutto questo dice una cosa terribile: s’è scassata la Cassazione. La prova ce l’avete sotto gli occhi, contenuta nelle due sentenze. Questo è il punto che considero più rilevante e, ovviamente, di valore generale. Ma so benissimo che tutti guarderanno al nome del condannato, sicché aggiungo un dettaglio, che le tifoserie interpreteranno da par loro, mentre a me preme perché conferma quanto appena, tristemente, constatato: quel condannato, quando ancora era imputato, sarebbe dovuto finire davanti alla terza sezione, perché così stabilisce la Costituzione, affermando che il giudice non lo sceglie nessuno, ma è precostituito per legge, invece finì davanti alla sezione feriale. Perché accadde? Allora si disse, e ovunque si scrisse, perché i reati contestati sarebbero andati in prescrizione di lì a qualche settimana. In questi casi, giustamente, non si lascia che le ferie dei giudici mandino al macero le sentenze. Ma l’autorità giudiziaria di Milano, dove si era svolto il processo e dove risiedeva la procura che aveva sostenuto l’accusa, aveva inviato un fax con il quale dimostrava che la prescrizione, correttamente conteggiata, non era così imminente. Le tifoserie pro Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci il complotto. Le tifoserie anti Berlusconi grideranno d’orrore, vedendoci la delegittimazione di giudici e sentenza. Lasciatemi accudire l’orrore silente, per una giustizia che si fatica a considerare tale.

I giudici Esposito e Berlusconi: il figlio gli chiedeva favori, il padre lo condannava, scrive  "Articolo 3". Si torna a parlare degli anomali rapporti tra i giudici Esposito, padre e figlio, e l'ex premier Silvio Berlusconi. Il motivo è chiaro: nell'agosto del 2013, il collegio della Corte di Cassazione, presieduta da Antonio Esposito, aveva confermato la condanna di 4 anni per evasione fiscale nei confronti di Berlusconi, nell'ambito del processo Mediaset. Nello stesso periodo, però, il figlio di Antonio, Ferdinando Esposito, giudice a Brescia, aveva avuto rapporti con l'ex premier. E non solo: ci sarebbero state anche delle visite, ad Arcore, e regali. Il rapporto "sconveniente" è emerso nell'ambito di un altro processo, che con quello Mediaset non c'entra niente: Ferdinando Esposito è indagato per “tentata induzione indebita” e “tentata estorsione”. Secondo gli inquirenti, avrebbe fatto pressioni indebite per spingere un avvocato, oggi suo accusatore, a subentrare nell'affitto da 32mila euro annui della casa in cui il pm abitava. L'accusatore di Esposito, nel raccontare il tutto, aveva anche rivelato appunto i rapporti con Berlusconi. E il giudice, da parte sua, li ha confermati: ha rivelato di aver conosciuto l'ex premier attraverso la parlamentare di Forza Italia Michela Brambilla e, tra il 2009 e il 2013, vi furono anche delle visite ad Arcore che, secondo il pm, riguardavano una sua «possibile entrata in politica», cosa che poi non è avvenuta. "Io mai e poi mai nella maniera più assoluta ho trattato questioni che avessero a che fare con i processi Ruby e Mediaset”, ha precisato, pur confessando di aver anche ricevuto dei regali da Berlusconi: «Soltanto regalie d’uso che è solito dare a tutti quando si presentano lì», ossia cravatte.

Impresentat’arm, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Gli impresentabili sono:

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

8) Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

15) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

Siamo tutti populisti. Se è comunicazione personale diretta, allora va ben oltre la Lega, Grillo e Berlusconi. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, scrive Ilvo Diamanti su “La Repubblica”. C'è un fantasma che si aggira in Europa e in Italia. Inquietante e opprimente. Il populismo. Una minaccia diffusa, che echeggia in questa confusa campagna elettorale, in vista delle Europee. Eppure "mi" è difficile spiegare di che si debba avere "paura". Il populismo, infatti, associa forze politiche diverse e, talora, opposte fra loro, ma "unite" contro l'Unione Europea e contro l'Euro. Il termine, ad esempio, viene applicato al Front National, in Francia, e alla Lega, in Italia. Insieme ad altri partiti, di altri Paesi, fuori dall'Euro. Come l'Ukip, in Inghilterra. Anche se il Fn e l'Ukip si oppongono alla Ue in nome della sovranità, rispettivamente, della Francia e dell'Inghilterra. La Lega, invece, in nome dell'indipendenza dei popoli padani e contro la sovranità dell'Italia. Fino a poco più di vent'anni fa, al contrario, era a favore dell'Europa - delle Regioni. Ma la Lega è abituata a cambiare idea, in base alle convenienze. Come ha fatto nei confronti dei veneti(sti). Nel 1997, al tempo dell'assalto al campanile di San Marco, i Serenissimi, secondo Bossi, erano "manovrati dai servizi segreti italiani". Oggi, invece, sono perseguitati dall'imperialismo romano. Ma la lista dei populisti va ben oltre. Coinvolge gli antieuropeisti del Nord Europa e quelli dell'Est. Per tutti e fra tutti, il Fidesz di Viktor Orbán che ha trionfato di recente in Ungheria (dove Jobbik, movimento di estrema destra, ha superato il 20%). Oltre ad Alba Dorata, in Grecia. In Italia, però, il populismo è un'etichetta applicata senza molti problemi. Riguarda, anzitutto, il M5s e Beppe Grillo. Per il loro euroscetticismo ma, soprattutto, per l'esplicita opposizione alla democrazia rappresentativa. In nome del "popolo sovrano" che decide da solo. Senza rappresentanti. Grazie al referendum che ormai si può svolgere in modo permanente nella piazza telematica. La Rete. Naturalmente, il Popolo, per potersi riconoscere come tale, ha bisogno di riferimenti comuni. Così si rivolge a un Capo. Che comunichi con il Popolo direttamente. Senza mediazioni e senza mediatori. Attraverso i Media. La Rete, ma anche la televisione. Dove il Capo parla con me. Direttamente. In modo "personale". Non a caso, il Grande Populista del nostro tempo è stato Silvio Berlusconi. Il Berlusconismo, in fondo, è proprio questo: partito e Tv riassunti nella persona del Capo. La Rete ha moltiplicato il dialogo personale. Perché tutti possono parlare con tutti. Con il proprio nome, cognome, account e alias. Associato a un'immagine, una fotina, un marchio, un profilo. Naturalmente, c'è bisogno di un blogger, che orienti il dibattito e che, alla fine, tiri le somme. Ma che, soprattutto, dia un volto comune a tanti volti (oppure un "voto" comune a tanti "voti"). Che fornisca una voce comune a un brusio di messaggi fitto e incrociato. Senza Grillo, il M5s non sarebbe un MoVimento. Ma un'entità puntiforme priva di "identità". Grillo, d'altronde, sa usare la Tv, oltre che la Rete (guidato da Gianroberto Casaleggio). La maneggia da padrone. C'è sempre senza andarci mai. È la Tv che lo insegue, nelle piazze e, ora e ancora, nei teatri. Riprende e rilancia i suoi video, prodotti e postati nel suo blog. Ma se il populismo è comunicazione personale diretta senza mediazione, allora va ben oltre la Lega, Berlusconi e Grillo. Diventa un imperativo per chiunque intenda imporsi, politicamente. Perché deve saper usare la Tv e i nuovi media. Diventare protagonista di quella che Georges Balandier ha definito "La messa in scena della politica". Come ha fatto Matteo Renzi. Capace, meglio di ogni altro, di parlare direttamente al "popolo". Di lanciare sfide simboliche e pratiche. In Italia, d'altronde, ogni riforma promessa è rimasta tale. Imbrigliata da mille difficoltà, mille ostacoli. Renzi, per questo, va veloce. E parla direttamente al popolo. A ciascuno di noi. Guarda dritto nella macchina da presa. E ci chiama per nome. È per questo che Grillo lo ha preso di mira, come il suo principale, vero "nemico" (politico). Perché il popolo ha bisogno di un capo che gli indichi i suoi nemici. Gli "altri" da cui difendersi. L'Europa, la globalizzazione, le banche, i mercati. Gli "stranieri". Gli immigrati, i marocchini, i romeni, i veneti, i romani, gli italiani. E, ancora, le élite, la classe politica, i partiti, i giornalisti, i giornali, i manager, le banche, i banchieri. Così il catalogo dei populismi si allarga, insieme all'elenco dei populisti. Berlusconi, Grillo, Marine Le Pen (per non parlar del padre), Renzi. Ma anche Vendola, con il suo parlar per immagini e il suo partito personalizzato. Lo stesso Monti, bruciato dal tentativo di diventare pop, con il cagnolino in braccio (che fine avrà fatto Empy?). Uscendo dal "campo" politico, Papa Francesco è, sicuramente, il più bravo a parlare con il suo "popolo". Il più Pop di tutti di tutti. D'altronde, alle spalle, ha esempi luminosi, come Giovanni Paolo II e, ancor più, Giovanni XXIII. E poi è argentino, come Perón. Scivola sull'onda di una lunga tradizione. Non è un caso, peraltro, che la fiducia nei suoi confronti sia molto più alta di quella nella Chiesa. Perché Francesco, sa toccare il cuore dei fedeli (e degli infedeli). E supera ogni confine. Ogni mediazione. Va oltre la Chiesa. Parla al suo popolo, senza distinzioni (visto che la fiducia nei suoi riguardi viene espressa da 9 persone su 10). Per questo, diventa difficile dire chi sia populista. O meglio, chi non lo sia. Perché tutti coloro che ambiscano a imporsi sulla scena pubblica debbono usare uno stile "populista". E lo ammettono senza problemi, mentre ieri suonava come un insulto. Echeggiando Jean Leca: "Quel che ci piace è popolare. Se non ci piace è populista". Oggi invece molti protagonisti politici rivendicano la loro identità populista. Grillo e Casaleggio, per primi, si dicono: "Orgogliosi di essere insieme a decine di migliaia di populisti. (...) Perché il potere deve tornare al popolo". Mentre Marine Le Pen si dichiara "nazional-populista", in nome del "ritorno alle frontiere e alla sovranità nazionale". Meglio, allora, rinunciare a considerare il "populismo" una definizione perlopiù negativa e alternativa alla democrazia. Per citare, fra gli altri, Alfio Mastropaolo, ne fa, invece, parte. Come il concetto di "popolo". Il quale, quando ricorre in modo tanto esplicito e frequente, nel linguaggio pubblico, denuncia, semmai, che qualcosa non funziona nella nostra democrazia "rappresentativa". Perché il "popolo" non trova canali di rappresentanza efficaci. I rappresentanti e i leader non dispongono di legittimazione e consenso adeguati. Perché il governo e le istituzioni non sono "efficienti" e non suscitano "passione". Così non resta che il populismo. Sintomo e al tempo stesso diagnosi del malessere democratico. Meglio non limitarsi a scacciarlo con fastidio. Per guarire dal populismo occorre curare la nostra democrazia.

Il populismo si nutre di menzogne! Si guarda la pagliuzza nell'occhio altrui e si tace sulla trave nel proprio occhio.

Il Paese più corrotto dell'Ue? L'onesta e corretta Germania. Secondo un rapporto di Visa Europa, l'economia sommersa tedesca è la più consistente d'Europa: 351 miliardi di euro, 20 in più rispetto all'Italia, scrive Sergio Rame su "Il Giornale". I tedeschi, si sa, sono sempre pronti a fare la ramanzina all'Italia. Chiunque a Berlino si sente titolato a puntare il dito. Se non è la cancelliera Angela Merkel, è il presidente dell'Europarlamento Martin Schulz. Eppure i numeri dicono tutt'altro. Secondo un attento studio di Visa Europa, riportato oggi da ItaliaOggi, in termini assoluti l'economia sommersa tedesca è la più consistente di tutta l'Unione europea. Supera addirittura i 350 miliardi di euro ed è pari al nero di Gran Bretagna, Belgio, Svezia, Irlanda e Austria messe insieme. Eppure nessuno ci fa caso. I dati non mentono. Ma smentiscono. E basta dare una rapida occhiata al report realizzato dalla At Kearney con il professore dell'Università di Linz, Friedrich Schneider, autorità nello smascherare la cosiddetta shadow economy per capire che i tedeschi sono dei gran furbetti. Certo gli italiani ci mettono del loro per toccare certo livelli, ma mai come i tedeschi. Ebbene, secondo il rapporto commissionato da Visa Europa, l'economia sommersa tedesca si aggira intorno ai 351 miliardi di euro, quasi 20 miliardi in più rispetto a quella italiana che è appunto stimata intorno ai 333 miliardi. Di questo malloppo, spiega Schneider, solo nel 2012 le mazzette teutoniche hanno pesato per 250 miliardi di euro. In questo gli italiani sono imbattibili: le tangenti sono stimate intorno aI 280 miliardi di euro.

A fronte di questi numeri quello che più colpisce è il capitolo dedicato alle statistiche giudiziarie. Secondo il rapporto di Visa Europa, infatti, nel 2009 sono state sporte 6.354 denunce, nel 2012 ben 8.175. "Mentre le denunce di crimini aumentano, le indagini diminuiscono - spiega Marco Cobianchi su ItaliaOggi - dalle 1.813 del 2010 si è passati alle 1.528 del 2011 fino alle 1.373 del 2012". E in Italia? Nel 2012 le denunce per corruzione e concussione e abuso d'ufficio sono state 1.820, mentre i condannati sono stati 800. Tutt'altra proporzione. Come fa notare Cobianchi, infatti, "in Italia si denuncia meno ma si condanna molto di più". Secondo il rapporto della Commissione europea sulla corruzione, la colpa è della magistratura tedesca che è soggetta al potere politico. A Berlino, infatti, il ministero della Giustizia può "istruire il magistrato di una inchiesta su come condurre le indagini" e dove andare a concentrare le proprie attenzioni.

Lo scandalo necessario del Pd di Roma, scrive Stefano Menichini su "Europa Quotidiano”. L'inchiesta che travolge gli anni della giunta Alemanno colpisce in pieno anche la sinistra del Campidoglio, delle cooperative sociali e del mezzobosco affaristico. Hanno diviso il potere con la destra, ora dividono le accuse. Si salvano Marino e poco altro. Il ritratto di Roma che esce dalle prime carte dell’inchiesta “Mondo di mezzo” è contemporaneamente il più pazzesco e anche il più verosimile. Qualcosa che stupisce – per alcuni dei nomi coinvolti, per certe assurde resurrezioni criminali a cominciare da quella di Massimo Carminati – ma che in realtà conferma quanto si sapeva, o si intuiva, o si sospettava a proposito degli intrecci tra amministrazione e raggruppamenti mafiosi di varie dimensioni. La personalità più duramente investita è senz’altro quella di Gianni Alemanno, e del resto i suoi cinque anni da sindaco erano già stati travolti dalle inchieste, dal discredito e infine da una pesantissima stroncatura elettorale. Vedremo di quale entità sarà il suo coinvolgimento attuale ma una cosa è certa: il tentativo di riciclarsi come capopopolo della rivolta anti-immigrati va a sbattere contro una vicenda che, oltre tutto, racconta dei campi nomadi sfruttati come business. Nemesi implacabile per Alemanno e per tutti i neofascisti che provano a cavalcare i drammi della convivenza nelle periferie. Tra il 2008 e il 2013 il Campidoglio è stato spolpato da una banda di vecchi camerati radunati in risposta al richiamo della foresta. E si sapeva. È perfino ricomparso un cognome terribile: c’è un Alibrandi fra gli indagati. Ma prendiamo per buona la frase di Carminati carpita dai carabinieri: sono affari, la politica non conta. E allora guardiamo bene dentro la trasversalità del sistema di appalti e di potere. Affrontiamo la realtà di cooperative cresciute negli anni al fianco delle amministrazioni di sinistra, diventate holding di servizi e di collocamento, implacabili nell’accaparrarsi lavori in campi che l’amministrazione non sa o non può gestire da sé, tutti socialmente cruciali: il verde, la sanità, l’accoglienza di nomadi e immigrati, lo smaltimento dei rifiuti. È il lato oscuro della sussidiarietà, che si fa forte della debolezza e della transitorietà della politica per imporre l’eternità dei propri affari piccoli, grandi o grandissimi, e che per essere più sicura si associa con vera e propria criminalità. Non possiamo fermarci alla strana amicizia tra l’ex Nar Carminati e il capo storico della coop 29 giugno, Salvatore Buzzi. Perché non è con i fascisti al potere che quest’ultimo ha costruito la propria presenza ovunque ci fosse da tappare una falla dei servizi pubblici. Inutile girare la testa dall’altra parte: sono storie che non possono essere confinate a destra, come del resto conferma il coinvolgimento nell’inchiesta dei pm di Pignatone di diversi e importanti dirigenti del Pd romano. Per questo diciamo: rammarico, attesa di verificare accuse e prove, presunzione di innocenza per tutti, ma nessuna sorpresa se i sospetti si rivelassero fondati. Infatti, al di là delle eventuali implicazioni penali, la colpa grave della sinistra romana è stata esattamente questa: quando Alemanno, Polverini, e Storace prima di loro, l’hanno estromessa dal potere, essa si è in gran parte acconciata ai tempi “nuovi”, e a contrattare con i nuovi padroni della città. Fino a quando con Zingaretti e Marino è tornato il suo momento. E, insieme al momento, sono tornati in posizioni preminenti molti degli eterni abitanti del sottobosco capitolino, politici o funzionari pubblici. È in questo ambiente che può consumarsi una vicenda – questa sì, incredibile – come quella di Marco Di Stefano, il deputato Pd che proprio ieri per combinazione  veniva interrogato a palazzo di giustizia: un’altra creatura del trasformismo e della vischiosità della politica romana, un altro esemplare di quella fauna che può accasarsi a sinistra se a contare sono solo le tessere più o meno false, le preferenze più o meno comprate e le poltrone quasi mai meritate. Il capo della procura Pignatone è intervenuto giorni fa in un’assemblea che avrebbe voluto segnare una sorta di “rifondazione” del Pd. Che glielo abbiano chiesto, e che lui l’abbia voluto fare pur sapendo che cosa avevano per le mani i suoi colleghi, sono due segnali importanti e incoraggianti. Come la distinzione che lui stesso, in modo irrituale, ha voluto proporre tra la gestione di Alemanno e la gestione di Ignazio Marino. Su questo sindaco – goffo, sfortunato, «involontario» come l’ha definito Europa – s’è detto di tutto. Eppure oggi ce lo ritroviamo, nonostante giunta e consiglio comunale stiano perdendo pezzi, come un punto di riferimento sicuramente pulito in un mare di opacità. Il Pd nazionale ha almeno qualcosa su cui appoggiarsi, in una ricostruzione che non sarà breve né indolore, come Matteo Renzi e Lorenzo Guerini hanno capito benissimo. Lo scandalo potrà perfino aiutarli. Il Pd romano, che molto ha attaccato il marziano Marino fin dal primo momento pretendendo più spazio e più potere, adesso farà bene a leccarsi le ferite, a cercare di guarire finalmente dal suo morbo oscuro, e a fidarsi.

Il deluchismo populista, scrive Vito Massimano su “L’Opinione”. Sgombriamo subito il campo da eventuali dubbi: Vincenzo De Luca sarà sicuramente un ottimo sindaco ed un uomo di specchiata onestà. Non lo mettiamo in dubbio sia perché non abbiamo elementi per affermare il contrario sia perché il gradimento dei salernitani verso di lui ci induce a pensare che sia un buon amministratore o, quantomeno, gradito. Il problema non è quindi De Luca in sé, ma lo stucchevole deluchismo da operetta di cui è rimasto vittima lo stesso uomo forte di Salerno e che ha molta presa sul popolino all’eterna ricerca di una figura di riferimento. Non sappiamo se il fenomeno sia puramente voluto, ma pare che il deluchismo faccia presa specialmente sugli ultimi (meglio se frustrati) o, se vogliamo, su quelli che, dalla festa delle medie in poi, sono stati esclusi da tutto sviluppando per questo un livore sociale quasi cronico. Ma il deluchismo è anche molto di più visto che ormai questo smalto da intransigenti incazzati di facciata si è spalmato anche sul ceto medio. Forse ha ragione Marco Demarco quando lo dipinge come un prodotto tipico del plebeismo carismatico meridionale, perché c’è troppa retorica nella maschera da uomo tutto d’un pezzo che De Luca si è voluto cucire addosso, c’è troppa rigidità nel suo carattere intransigente da fustigatore della politica politicante, c’è troppa arroganza in questo suo considerarsi “altro” rispetto ai palazzi del potere cui il nostro non è proprio estraneo visto che ha occupato posti di rilievo nel Partito Comunista, nelle istituzioni locali ed in quelle nazionali. È la retorica dell’onestà a destare sconcerto, è il decisionismo ostentato con arroganza a rendere quello di De Luca un fenomeno contagioso con più ombre che luci. Ripetiamo, non è l’ex sindaco di Salerno in sé ad essere in discussione, ma il suo atteggiamento prosaico che offre la sponda alle pulsioni più triviali della gente comune alla continua ricerca di un Masaniello di cui essere orgogliosa e che le canti a quei porci dei potenti, incapaci e maneggioni, possibilmente condendo il tutto con un po’ di campanilismo un tanto al chilo che non guasta mai. De Luca ha accettato di rappresentare questi istinti e si è calato nel personaggio a tal punto da delirare, auto-assolvendosi con formula piena da tutte le colpe della politica come se le colpe fossero sempre altrove e mai sfiorassero lui, uomo del popolo, che nulla ha a che spartire con gli apparati, con i capibastone e con i voti inquinati da fenomeni poco chiari. Lui è altro, mica ha fatto politica negli ultimi vent’anni; lui ha fatto lo sceriffo del pueblo. Da questo teorema non sfuggono nemmeno i suoi elettori: costoro, a sentir lui, sono tutti certificati dalla Madonna di Pompei, così come il suo immacolato operato che è scevro da qualsiasi colpa “a prescindere”, perché lui solo è quello che ascolta la sua gente (già, ma sua perché, per diritto acquisito?), che agisce per il bene della collettività, che è distinto e distante dai malfattori perché primus inter pares capace di guidare il gregge verso il progresso e la verità sputacchiando in faccia ai disonesti. Questo astio verso gli altri, questo disprezzo verso chi non sta con lui glielo si legge in faccia e non riesce proprio a scrollarselo di dosso: forse è uno dei pochi uomini al mondo ad avere la faccia incazzata anche quando vince, fronte alta e sguardo solenne con annessa espressione ai limiti dello schifato, tipica di chi sente su di sé il peso atroce di essere costretto a rappresentare i buoni al cospetto dei cattivi, usando il registro verbale tagliente e superbo tipico di chi ritiene di non dovere riconoscere alcuna dignità a chi è antropologicamente diverso da lui e dal sistema valoriale che unilateralmente si è intestato. E lo vedi da come si pone nei confronti della legge Severino che, qualora vincesse le Regionali cui si è candidato a valle della vittoria alle primarie del Pd, ne sancirebbe la sospensione dalla carica di presidente, stante una condanna in primo grado per abuso d’ufficio. La legge in questione, se tarpa le ali agli altri è la giusta mannaia contro i parrucconi malvagi mentre, se lambisce la sua cristallina verginità, innesca una battaglia di civiltà contro una legge che ammazza la democrazia e che viene applicata in virtù di una condanna che per gli altri si chiama abuso d’ufficio mentre per lui è il lapsus semantico di un povero Cristo che ha scritto su un atto “project manager” in luogo di “coordinatore di un gruppo di lavoro”. Quando la legge impedisce al nostro tribuno di esercitare le funzioni che il popolo gli chiede a gran voce di esercitare, diventa una questione che ammazza le regole della democrazia mentre se caccia dal Senato Berlusconi è una cosa diversa, è una legge che tutti hanno votato e che libera le istituzioni dai briganti. E che nessuno si permetta di accostare le due vicende (quella sua e di Berlusconi) che non sono equiparabili per diritto divino anche perché, una legge come quella in questione che arriva a tarpargli le ali, diventa automaticamente un imbarazzo non per lui ma per il Parlamento cui spetta risolvere lo spiacevole equivoco. Baby è la teoria del perfetto giustizialista 2.0, quel doppiopesismo che assimila le opinioni all’elastico delle mutande e che rende una legge giusta a seconda di chi penalizza. Per cui adesso il nostro sindaco benemerito chiede al Parlamento di risolvere le criticità di questa norma imbarazzante, sollecitando cioè un provvedimento che per altri sarebbe valso l’appellativo di legge ad personam. Ma per lui no, per carità. In questo caso “è una giusta revisione”, per dirla con i bersaniani; “bisogna prendere atto di oggettive criticità connesse alla legge Severino”, per dirla con la Serracchiani; “è una legge che non cambieremo come Governo ma, se il Parlamento volesse potrebbe tranquillamente risolvere la stortura”, per dirla con la Boschi. Ma che non si dica che le anime candide del progressismo nostrano stiano tentando il colpo di mano pensando ad una legge ad personam. Quelle le fa solo Berlusconi, la cui vicenda sarà sicuramente diversa da quella di De Luca, al quale raccontarono, in occasione della decadenza da senatore che, giusta o no, dura lex sed lex.

L’antipolitica à la Grillo? È figlia legittima del Pci di Berlinguer e di Repubblica (e della loro “questione morale”), scrive Mattia Feltri su “Tempi”. Se oggi in Italia non esiste partito che sia immune dal populismo; se questo paese è costretto a fare i conti ancora a lungo con il suo lato più qualunquista e inconcludente, lo dobbiamo a un’intervista pubblicata nel 1981. Il populismo, secondo la definizione della Treccani online, è l’«atteggiamento ideologico che, sulla base di princìpi e programmi genericamente ispirati al socialismo, esalta in modo demagogico e velleitario il popolo come depositario di valori totalmente positivi». L’accezione negativa non è quella originaria, perché – ricorda sempre la Treccani – il termine viene dal populismo russo che alla fine del XIX secolo «si proponeva di raggiungere, attraverso l’attività di propaganda e proselitismo svolta dagli intellettuali presso il popolo e con una diretta azione rivoluzionaria (culminata nel 1881 con l’uccisione dello zar Alessandro II), un miglioramento delle condizioni di vita delle classi diseredate, specialmente dei contadini e dei servi della gleba». Lo è diventata – negativa – nel corso del secolo successivo, quello delle ideologie assassine (come scrisse Robert Conquest). Sono stati decenni durante i quali i leader hanno arricchito il populismo di un rapporto diretto e carismatico con le masse (orrenda parola novecentesca in via d’estinzione), consolate dall’esercizio facile e vibrante dell’antipolitica. Non erano apostoli dell’antipolitica i rivoluzionari populisti russi ma lo erano, in Occidente, Benito Mussolini e Adolf Hitler. Questo perché senza democrazia non c’è antipolitica, mentre l’antipolitica è spesso servita, come appunto in Italia e in Germania, per abbattere la democrazia. Un bel paradosso. Chi ha letto due o tre opuscoli sull’alba del fascismo e del nazismo ricorderà che prosperarono sull’esasperazione dei cittadini comodamente riversata sulle classi dirigenti. Mussolini era un trentenne nuovista, nemico delle lentezze parlamentari e del burocratismo ottocentesco, Hitler era il facile avversario dell’inconcludenza di Weimar, oltre che delle durissime condizioni di pace cui la Germania era stata sottoposta a Versailles . Di leader populisti ce ne sono stati a decine, nel Novecento, che è stata non soltanto l’età dei totalitarismi, ma anche del suffragio universale, del consenso, dei nuovi mezzi di comunicazione – dalla radio fino a internet – che fanno di ogni elettore una persona unica, speciale, a cui rivolgersi direttamente. Oggi in Italia è difficile trovare un capopartito immune dal populismo e da un suicida esercizio dell’antipolitica. Tanto è vero che si danno dei populisti l’un l’altro ed è difficile negare il populismo di Beppe Grillo o di Silvio Berlusconi, ma anche di Matteo Renzi, senz’altro di Umberto Bossi e dell’intera stirpe leghista, e poi dei politici usciti dalla rivoluzione giudiziaria come Antonio Di Pietro e Antonio Ingroia. I radicali non sono populisti e infatti non pigliano un voto. Grillo è tanto populista – e lo è consapevolmente, anche se poi si arrabbia se lo si dipinge così – da aver teorizzato che i parlamentari sono semplici portavoce del popolo, che dà loro istruzioni via internet. In ogni suo comizio, Grillo spiega che sono le persone più semplici, proprio perché non impantanate nella melma schifosa del potere, a produrre le idee migliori. Di conseguenza non coltiva rapporti nemmeno utilitaristici con altri partiti. Gli onesti di qua, i ladri di là. Andando a rivedere gli esordi del 1994, si scopre che i punti in comune fra quel Berlusconi e questo Grillo sono spettacolari: Silvione rifiutava gli inviti in tv perché aveva orrore delle liti e sosteneva fosse sua missione parlare nelle piazze; come Grillo, poi, inizialmente rifiutò il titolo di onorevole, nel frattempo diventato disonorevole. Mani pulite e il 1992 erano questione dell’altroieri. Finalmente, grazie al lavoro della magistratura milanese, avevamo scoperto perché eravamo tanto poveri, infelici e sottomessi. Veramente venivamo dal mezzo secolo più prospero della nostra storia, ma niente: la convinzione generalizzata, con il contributo dei partiti di opposizione e della stampa, era che spazzata via la nomenclatura primorepubblicana saremmo decollati verso le terre della felicità. Abbiamo celebrato un processo sommario e tolto di mezzo una classe politica – ormai inetta e arrogante, ma col merito piuttosto decisivo di averci tenuto dalla parte giusta della storia. Fu senz’altro un biennio di strepitoso populismo e di esuberante antipolitica: c’era il popolo dei fax, si lanciavano le monetine al capo socialista, si viveva nell’euforia (vista dal 2014 un po’ ridicola) di aver spezzato le catene. I successivi due decenni sono stati conseguenti. E oggi – sarà per via di internet che, come una volta i cortei di strada, arma le minoranze rumorose – il desiderio diffuso è di “mandarli tutti a casa”, come allora, e forse più di allora: mandarli tutti a casa, a prescindere, anche in assenza di un’alternativa; nel 1992-93 c’era desiderio di rinnovare la classe dirigente, oggi c’è desiderio di rinnovare il sistema; allora si aveva una gran voglia di democrazia, oggi della democrazia, così com’è, non ci si fida più. Il populismo, l’antipolitica e la demagogia (che piacciono tanto a giornali e tv) nella loro versione contemporanea non sono però nati con Mani pulite. Sono nati una decina d’anni prima, e precisamente nel 1981 con la celeberrima intervista di Eugenio Scalfari a Enrico Berlinguer sulla questione morale. Quell’intervista segna un passaggio fondamentale perché per la prima volta – per la prima volta da un sacco di tempo – un leader basa la sua strategia politica sull’assunto che i partiti sono marci e che esistono i buoni e i cattivi. L’inizio dell’intervista ha già un tono che è lecito sospettare di qualunquismo: «I partiti non fanno più politica». Poi: «I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia». Ancora: «Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune». Il potere degli altri. La questione morale – è stato specificato frequentemente – non era tanto nella corruzione, ma nell’occupazione del potere. Ecco Berlinguer: «I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali». Tutto è stato lottizzato e spartito, dice. E Scalfari allora fa la domanda giusta: ma se le cose stanno così, è perché agli italiani vanno bene, se no voterebbero Pci. Risposta: «Si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più». Noi, aggiunge Berlinguer, «siamo un partito diverso» e «se l’occasione fa l’uomo ladro (…) le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati». Infatti lo sfascio morale ha una «causa prima e decisiva: la discriminazione contro di noi». A questo punto serve un breve riassunto: in Italia la politica è immorale e il paese va a fondo; chi fa eccezione è il Partito comunista che è diverso e naturalmente i suoi elettori; gran parte degli italiani sono buoni, ma non possono votare Pci perché, poverini, sono sotto ricatto dei “boss” e delle “camarille” e non riescono a liberarsi; in definitiva, è la ragione per cui il Pci è escluso del governo: perché gli altri partiti possano continuare a rubare, a spartire, a taglieggiare il popolo. Prima di concludere, un piccolo inciso: il Pci – lo sanno tutti – sarebbe entrato nel governo secondo il piano del compromesso storico terribilmente interrotto col sequestro e l’assassinio di Aldo Moro. A quel punto, sostituito da Bettino Craxi e constatata la fine della forza propulsiva dell’Urss, che resta da dire a Berlinguer se non: siamo migliori, dunque ci fanno fuori? Che resta, quando si è tagliati fuori dai giochi, se non chiudersi nella casamatta della propria pretesa virtù? Dove comincia il declino. Certo, Enrico Berlinguer aveva ragione. L’Italia (e lo è tuttora) era marcia, la politica era corrotta ed onnivora, il paese aveva a che fare con una devastante questione morale. Pessimo – e cioè populista e demagogico – fu aggiungere che dello sfacelo non aveva responsabilità il Pci né l’avevano gli italiani. Pessimo fu non ammettere che il partito comunista, stanco di aspettare una rivoluzione proletaria che non sarebbe arrivata, e rimesso ai margini della politica domestica, era nell’angolo per motivi storici, e non per santità. Che alla spartizione aveva partecipato e non poco secondo il progetto dell’egemonia culturale di Antonio Gramsci. Pessimo fu gettare le basi teoriche della superiorità antropologica della sinistra, un concetto quasi genetico della politica che non si vedeva dai tempi di Gottfried Feder, e sul quale (non solo, ma anche) si è inchiodata l’intera seconda Repubblica. Pessimo, particolarmente populista e particolarmente demagogico, fu dire agli italiani che loro non c’entravano niente, negare che le società si muovono tutte assieme, crescono e declinano collettivamente, che il paese non funziona a cominciare dai comportamenti quotidiani furbini e disonesti di tutti noi, e dall’esercizio pigro, inconsapevole o opportunistico del voto. Pessimo – e Berlinguer avrebbe avuto molti imitatori – fu in definitiva dire agli italiani che erano vittime, e non correi. Adesso tenetevela l’antipolitica.

M5s, quanti voti porta l’onestà? Si chiede Marco Venturini su “Il Fatto Quotidiano”. Alla Notte dell’onestà, Piazza del Popolo era gremita. La folla che gridava all’unisono “o-nes-tà, o-nes-tà” è una scena che al giorno d’oggi emoziona. Dal cuore di Roma, un colpo al cuore di Mafia Capitale e della corruzione nelle istituzioni. Ma, politicamente parlando, quanti voti porta l’onestà? La disonestà sicuramente tanti. Basti pensare al voto di scambio, ai voti della mafia, ai voti comprati, ai brogli elettorali. E l’onestà? quanti elettori votano uno schieramento perché è onesto, magari perché è l’unico ad esserlo? Non è il 25% (nove milioni di persone nel 2013), quanto ha preso il M5s alle ultime politiche. Lì c’erano anche molti voti di quelli che volevano “mandare a casa” la classe politica di allora. Un parametro più realistico può essere quello di chi, seppur onesto, è disponibile ad alleanze e trattative coi partiti (che non vuole quindi “mandarli a casa”), come l’Idv. Prima dell’abbandono della presidenza da parte di Di Pietro il partito oscillava dal 2 al 4 percento, fino a sparire sotto l’1 alle ultime europee. L’onestà dunque, dati alla mano, non porta voti. Anzi, spesso spaventa. Ma questo Grillo lo sa bene. La Notte dell’onestà, non fosse stato per il Quirinale di mezzo, avrebbe parlato ben poco di Movimento 5 stelle. Grillo è pienamente consapevole del rapporto difficile che gli italiani hanno con l’onestà. “Oggi -ha detto durante il suo intervento di chiusura- a essere onesto quasi ti vergogni.” E così, per tranquillizare gran parte degli spettatori, Grillo ha rassicurato: “Vi devo fare una confidenza: non sono una persona onesta. Qua rubacchiamo tutti, un pochino, ci difendiamo. È la mistificazione delle parole, è la disonestà intellettuale che dobbiamo combattere.” Queste parole erano rivolte agli italiani fuori dalla piazza, a chi seguiva dalla tv. Chi era con la propria faccia in piazza del Popolo evidentemente non si vergogna di dichiararsi onesto. Per essere certo di questo Grillo testa la piazza. “Non so se rimarremo anche noi duri, puri o onesti, o forse se dovremmo sporcarci anche noi”. Lo ha detto camminando indietro sul palco, dando le spalle al pubblico, per mascherare il bluff ed ottenere una reazione sincera dal pubblico. Quando la piazza ha risposto con un netto “no”, il fondatore si è girato con un’esclamazione di sollievo. Il test è stato superato. L’onestà non è come gli 80euro, non fa vincere le elezioni. Ma vale la pena continuare a parlarne. Come hanno fatto ieri dal palco uomini e donne di ogni fede politica. Perché l’onestà non è la soluzione ai problemi di un partito, ma a quelli del nostro Paese.

La fallacia dell'”onestà”, scrive Capretta Amaltea su "Movimento Caproni". Scopo di questo post ė riflettere su alcuni concetti ormai entrati nel “comune senti­e”, per capire bene dove ci ha portato il populismo imperante, soprattutto quello declinato in salsa grilloide. Il movimento di Grillo ha fatto leva soprattutto sul sentimento popolare di disaffezione per i politici professionisti, considerati in blocco come una casta malvagia di corrotti e disonesti ( e qui il noto libro di Stella ha dato una grossa mano). Nella vulgata grillica, basta liberarsi di costoro (“tutti a casa”) e sostituirli con “onesti cittadini” estranei alla politica, e tutto magicamente si sistemerà. Nella pratica, quel che si è visto sinora degli “onesti cittadini” andati in parlamento sull’onda del populismo grillino non è certo incoraggiante. Il "MoVimento" degli “onesti” ha selezionato personaggi al peggio impresentabili, al meglio insignificanti, quasi tutti sprovveduti anche delle minime nozioni di educazione civica (e, frequentemente, anche di buona educazione) necessarie per svolgere con dignità un mandato parlamentare. Abbiamo visto gazzarre indecenti, scalate dei tetti, occupazione di banchi, insulti gratuiti agli altri colleghi parlamentari, aventini improvvisati, senza che tutto questo contribuisse minimamente a migliorare l’attività legislativa. Per quanto riguarda l’”onestà”, poi, abbiamo visto parenti, affini e amici assunti come portaborse o assistenti, per non parlare della precedente selezione dei candidati alle cosiddette parlamentarie, dove si sono visti casi di membri di una stessa famiglia paracadutati in Parlamento grazie a pochi voti di amici e parenti. Tutta la pretesa di onestà si è in definitiva concentrata nella rappresentazione della “restituzione” di parte dei compen­i parlamentari. Il succo della storia è che i parlamentari grillini ( e manco tutti) “restituiscono”, cioè versano in un fondo bancario scelto da Casaleggio e Grillo, mediamente 2-3.000 euro dei loro compensi mensili. Restano pur sempre nelle loro tasche 10- 12.000 euro, ma il messaggio truffaldino che cercano di far passare all’opinione pubblica è che vivono modestamente con 2.500 euro in tutto, mentre gli altri malvagi componenti della casta banchettano a caviale e champagne sghignazzando sulle disgrazie della povera gente. E parliamo dell’onestà. Anche se i grillonzi fossero davvero poveri ed onesti, basta questo per fare della buona politica? Evidentemente no. La politica, oggigiorno specialmente, è una professione come un’altra, anzi più di altre complessa e difficile, che richiede capacità e competenze per essere svolta al meglio. Ma la politica richiede anche altro: una percezione disincantata, potrei anche dire cinica, della situazioni reali, dei rapporti di forza, di ciò che si può fare oppure no; di quali appoggi bisogna assicurarsi, quali concessioni si debbano fare, per raggiungere il risultato voluto. Il politico deve, in altre parole, essere spregiudicato e realista, perché senza queste qualità non si raggiunge alcun risultato. Naturalmente, ciò non vuol dire essere disonesti, e la disonestà va in ogni caso punita; ma il problema è che nella mente dell’adepto grillino compromessi e realpolitik significano di per se stessi disonestà. Nella loro mente, fare politica onestamente significa strillare da un banco parlamentare “gnenteee!! Siete gnenteee !!!”; significa rifiutare qualunque accordo o alleanza, perché “noi” siamo i buoni e gli “altri” sono i cattivi; significa che le attività parlamentari promosse dagli altri devono essere boicottate e intralciate; significa che le proposte in positivo eventualmente fatte saranno per lo più irrealizzabili, sia perché utopistiche (non tengono conto dei costi necessari, delle difficoltà tecniche) sia perché si esclude a priori la ricerca di accordi con chi potrebbe appoggiarle. “Compromesso” è diventata una parolaccia. Ma il compromesso è il cuore della buona politica. La società non è divisa in buoni (lagggente) e cattivi (la kasta) ma si compone di gruppi diversi, con interessi diversi e spesso in contrasto fra loro. Il compito dello statista è cercare il miglior compromesso possibile fra questi vari interessi, in modo da assicurare il progresso della comunità e il miglioramento delle condizioni economiche e sociali di quanti più cittadini possibile. So, naturalmente, che anche questa è una visione ideale della politica; che i politici, essendo umani, ricercheranno abbastanza spesso più il vantaggio loro e dei loro parenti e/o clienti che il bene comune. Qui diventa cruciale il controllo della comunità degli elettori. Se questa comunità è composta di individui sufficientemente acculturati e consapevoli, certi comportamenti non saranno tollerati e la carriera del politico sarà finita: ne abbiamo visto diversi esempi nei paesi del Nord Europa. Ma schiamazzare di gggente contro kasta rende molto più difficile questo controllo. I vari gruppi di interesse in cui la gggente è pur divisa considereranno onesti i comportamenti che li favoriscono e disonesti quelli che favoriscono il gruppo rivale. Darsi patenti a priori di bontà rende molto più facile e giustificabile sabotare i progetti altrui: ne sono un esempio varie fisime ecologiste che hanno superato da tempo il limite di ciò che è ragionevole per sconfinare nel fanatismo. In conclusione, il mondo è un posto complesso. I “buoni” sono spesso coloro che ancora non hanno avuto l’opportunità di essere cattivi. Per contro, i “cattivi” sono spesso coloro che semplicemente perseguono interessi in contrasto con qualche altro gruppo sociale autoproclamatosi “buono”. Sapere queste cose, riflettere sui nostri scopi e i nostri fini, abbandonare una visione infantile e magica della realtà per studiare e sapere più cose può aiutare a migliorare la nostra vita più di certe utopistiche istanze di purezza.

Il doppiopesismo della Boldrini: dire "onestà" è vietato, urlare "zoccola" si può. Sanziona con 18 giorni di sospensione la grillina Ruocco per il coro "onestà-onestà"; assolve il piddì Sanna che aveva dato della zoccola alla collega M5S, scrive Ivan Francese su "Il Giornale". Sembra proprio un caso di doppiopesismo, quello che emerge dall'applicazione del regolamento della Camera dei Deputati. Già, perché se chi scandisce ad alta voce la parola "onestà" viene sanzionato con diciotto giorni di sospensione, può anche capitare che chi insulta un'onorevole collega al grido di "zoccola" riesca invece a farla franca. Come rivela oggi il Fatto Quotidiano, il collegio dei Questori di Montecitorio ha sanzionato la deputata M5S Carla Ruocco insieme ad altri cinquanta colleghi di partito per le proteste dello scorso 13 febbraio, quando in Aula venne affrontato il voto sulla riforma costituzionale. In quell'occasione i grillini rivolsero cori di protesta all'indirizzo di maggioranza e governo, scandendo ad alta voce la parola "onestà" e anche l'insulto "serva", rivolto al presidente Laura Boldrini. Espulsa, ora la Ruocco è stata sanzionata con 18 giorni di sospensione. Per protestare contro le decisioni della presidenza di Montecitorio, nel pomeriggio è arrivato a Roma anche Beppe Grillo che ha organizzato un sit-in davanti alla Camera dei Deputati. Ma a fare discutere è il mancato provvedimento nei confronti del piddì Francesco Sanna, che avrebbe ripetutamente apostrofato la stessa Ruocco come "zoccola". L'onorevole dem, però, è stato graziato: in una lettera indirizzata alla presidenza, i Questori spiegano che "Sanna ha spiegato che, durante un vivace scambio con la Ruocco, ha utilizzato una locuzione mutuata da un'espressione gergale sarda, 'Zacc'a strada', che può essere resa in lingua italiana come un invito ad allontanarsi, come un 'ti invito ad allontanarti in gran fretta'.") Misteri e bizantinismi dei regolamenti parlamentari. La Boldrini, intanto, che dice?

Belpietro a Virus da Nicola Porro del 21 maggio 2015 zittisce Fassino: "Colpa della sinistra se siamo invasi dagli immigrati". Lo scontro monta quando a Virus su Raidue si parla di immigrazione e viene mostrato un filmato in cui un gruppo di eritrei appena sbarcati si rifiuta di farsi prendere le impronte digitali. Al ritorno in studio il direttore di Libero Maurizio Belpietro ricorda quando "vent'anni fa c'era un senatore leghista che si chiamava Boso il quale per primo chiese che agli immigrati appena sbarcati fossero prese le impronte e si scatenò il finimondo, perché si disse che era una pratica razzista". A quel punto, il sindaco di Torino Piero Fassino si dice d'accordo sul fatto che gli immigrati debbano essere identificati, ma Belpietro non gliela fa passare liscia: "Ma cosa sta dicendo Fassino? Ma se voi negli anni avete fatto entrare tutti finche ci siamo trovati nella situazione di oggi. Lei dice un sacco di balle e di stupidaggini, se oggi siamo ridotti in questo modo è colpa della sinistra che ha sempre tenuto le porte aperte a tutti".

Brindisi e sbornie, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Qualcuno ricorda le bombe di Brindisi? Nessuno o quasi, c'è da giurarci: esplosero fuori da una scuola superiore il 19 maggio di tre anni fa e causarono la morte di una studentessa. Ancor meno, forse, ricorderanno alcune esternazioni apocalittiche seguite alle esplosioni. Dunque. Beppe Grillo disse che "sentiva la bomba nell'aria" e fece evocazioni del genere strage di Stato. Antonio Ingroia parlò di analogie con le stragi del '92-'93 e spiegò che "la mafia non riesce a fare a meno di rapporti con la politica, e, per mettersi sul mercato, dimostra di essere ancora forte". Giancarlo Caselli paventò un "rischio di poteri occulti o deviati". Maurizio Landini disse che "poteri occulti hanno tentato una strage mentre sono in atto cambiamenti nel Paese". Nicola Zingaretti, il presidente della Provincia, ovviamente chiese di colpire "i mandanti". Persino Gianni Alemanno parlò di attacco mafioso "che ha scelto il ventennale della morte di Falcone per lanciare un segnale". E anche il procuratore capo di Brindisi ipotizzò che l'attentato fosse ricaduto su quella scuola perché intitolata neppure a Falcone, ma a sua moglie Francesca Morvillo. Orbene, qualcuno ricorda com'è finita? Il 6 novembre scorso è diventato definitivo l'ergastolo per il colpevole: un balordo ultrasettantenne che piazzò le tre bombe artigianali senza una ragione apparente o accertata. Non fu apocalisse. Morale: si dice sempre che questo è un Paese senza memoria. E sfido io.

Denuncia la "miseria ladra" col vitalizio da consigliere. Il coordinatore di Libera e braccio destro di don Ciotti invoca il reddito minimo, poi intasca 2.600 euro al mese, scrive Giuseppe Alberto Falci su “Il Giornale”. Da animatore delle campagne contro la povertà al vitalizio da 2.619 euro netti al mese il passo è breve. Addirittura brevissimo se il soggetto interessato si chiama Enrico Fontana ed è anche il coordinatore nazionale di Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti. Associazione nata nel marzo del 1995 «con l'intento - si legge nel sito internet di Libera - di sollecitare la società civile nella lotta alle mafie e promuovere la legalità e la giustizia». Nessun imbarazzo insomma per i venerabili maestri della sinistra benpensante quando si tratta di arricchire la cassaforte di famiglia. A Fontana, classe '58, giornalista professionista, ideatore del termine «ecomafie», che fa il maestrino a destra e a sinistra pubblicando libri per Einaudi e inchieste per l'Espresso , è bastato farsi eleggere alla Regione Lazio nel 2006. Anzi, subentra ad Angelo Bonelli che nel frattempo diventa capogruppo a Montecitorio del Sole che ride, gruppo a sostegno dell'ex premier Romano Prodi. Sono gli anni di Piero Marrazzo a governatore della Pisana. Anni in cui Fontana pungola l'esecutivo sui temi più disparati, dai rifiuti passando ai beni confiscati, continuando a presenziare in convegni dal titolo «Il sole sul tetto, energie rinnovabili e risparmio energetico». Ovviamente, non perdendo mai di vista il tema della povertà, cruccio della carriera dell'attuale braccio destro di Don Luigi Ciotti. Ma la legislatura finisce con qualche mese di anticipo per le dimissioni del governatore Marrazzo, coinvolto in uno scandalo a base di festini e trans. Ciò ovviamente consente al nostro Fontana di ottenere un lauto vitalizio. Dopo cinque anni scarsi in Regione e dopo aver versato circa 90mila euro di contributi, dal 2011 Fontana ricevo un assegno mensile di 3.187 euro che, a causa delle recenti sforbiciata apportate dalla modifica della normativa sui vitalizi, si è ridotto a 2.616,32 netto (dato che è possibile reperire all'interno del sito del M5s Lazio che monitora giornalmente le evoluzioni dei vitalizi). In sostanza, facendo un calcolo di massima, Fontana ha già incassato più di 150mila euro recuperando i 90mila euro versati di contributi. Ma non finisce certo qui. Perché dal settembre del 2013 Fontana è il coordinatore nazionale di Libera. E dalla casa di Don Ciotti, non è uno scherzo, Fontana lancia e anima la campagna «Miseria ladra». Gira ogni angolo del Belpaese per diffondere il verbo del padre nobile di Libera. Ma il vero paradosso è il seguente: il 15 aprile di quest'anno - insieme a Giuseppe De Marzo, coordinatore di «Miseria Ladra» - invia una lettera a tutti i parlamentari «per calendarizzare in aula entro cento giorni una legge per il reddito minimo o di cittadinanza, per contrastare povertà e disuguaglianza, così come da tempo ci chiede l'Europa». Il virtuoso della «legalità e della giustizia» incalza Montecitorio e Palazzo Madama ma intanto incassa, senza batter ciglio, il vitalizio. D'altronde è nello stile dei vertici di Libera. Nando Dalla Chiesa, presidente onorario dell'associazione, riceve mensilmente un assegno di 4.581,48 euro. Insomma, «miseria ladra» per gli altri, non per i venerabili maestri.

Luca Telese tra “cuori neri” e cuori marci, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Luca Telese è un giornalista di sinistra ma che, come molti suoi compagni, deve la sua fama e anche molti soldi, alla destra. Potrebbe rappresentare il logotipo dell’intellettuale col cuore dalla parte giusta e il portafoglio rigorosamente dalla parte opposta, se, un’affermazione del genere, non fosse un mancato riconoscimento ad uno che comunque ha coraggio da vendere nel difendere le proprie idee. La sua vita, politicamente iniziata distribuendo copie de l’Unità la domenica nei giardinetti di Cinecittà a Roma, è professionalmente continuata dentro la sede di Rifondazione Comunista di cui è stato portavoce e capo della comunicazione: insomma un percorso che sembrava costellato dalla solita coerenza del giornalista militante, quando, ad un certo punto, è rimasto folgorato sulla via di Damasco iniziando a frequentare postacci di destra. Dapprima ha scritto per Il Foglio di Ferrara poi, nel 1996, è approdato al destrissimo Italia Settimanale chiamato da Pietrangelo Buttafuoco (che aveva appena sostituito Marcello Veneziani che di quell’esperienza editoriale fu il vero creatore ed artefice). Infine è diventato una firma importante e controcorrente de Il Giornale, secondo quella sana e virtuosa abitudine dei liberali di consentire anche a chi non la pensa come loro, di poter lavorare ed esprimersi (cosa difficlmente realizzabile a parti invertite con editori di sinistra). Ed è su queste basi pluraliste che oggi Telese è il conduttore di Matrix a Mediaset. Perché Luca Telese, mica è semplicemente uno di sinistra: lui è un vero e proprio comunista; e non lo dico io. Quando nel 2008 Concita De Gregorio, appena diventata direttore de L’Unità, gli offrì di affiancarla nella sua avventura, lui declinò cortesemente l’invito affermando che preferiva rimanere “un comunista italiano impegnato in un giornale di destra”. Insomma la sua vita professionale è costellatta di un rimbalzo tecnico tra destra e sinistra che per molti è segno di intelligenza e libertà, per altri è segno di grande paraculaggine. Per carità,  la sua carriera è stata anche costellata di qualche incidente di percorso: come quando, collaborando con Cruciani a La Zanzara, su Radio24, fu cacciato per aver definito “cretina”, Anna Marcegaglia, allora Presidente di Confindustria (e quindi di fatto, editore di quella radio). Telese se la prese e definì Radio24 una radio poco liberale, accusa paradossale se fatta da uno che si definisce comunista (un po’ come se l’Ayatollah Khomeini avesse definito Ronald Reagan poco democratico). Oppure quando, dopo aver litigato con Travaglio, sbattendogli la porta in faccia, andò via da Il Fatto per fondare un suo proprio giornale, “Pubblico”, che doveva diventare una sorta di Libération de noantri e fallì dopo tre mesi tra mille polemiche e molti stipendi non pagati. Telese, alla destra deve anche un’altra cosa (che però la destra deve anche a lui). Nel 2006 ha pubblicato un libro dal titolo “Cuori Neri”, un caso editoriale importante. Per la prima volta, un giornalista di sinistra, affrontava in maniera organica il tema scottante dei ragazzi morti a destra negli anni ’70. Un lavoro storiograficamente importante (seppure con diverse imprecisioni e lacune) e intellettualmente onesto. Quel libro ha dato fama a Telese (giusta, per il coraggio che ha dimostrato) e ha consentito anche ad un intero ambiente di ricucire la memoria storica di un periodo dimenticato e di vittime innocenti spesso oltraggiate (cosa che quell’ambiente deve continuare riconoscere a Telese). Ma ora, cosa ti combina il comunista frequentatore della destra? Ristampa il libro aggiungendo un capitolo su Mafia Capitale e sparando in copertina la foto di Carminati, l’ex Nar ed ex Banda della Magliana arrestato per associazione a delinquere di stampo mafioso nell’inchiesta sulla corruzione a Roma. Ora, cosa c’entrino i giovani di destra uccisi negli anni ’70 con la vicenda criminale di Carminati non è dato sapere (se non un vago e forzato richiamo a simbolismi e immaginari comuni). Perché mettere insieme la storia di Paolo Di Nella, Sergio Ramelli o di Virgilio Mattei e del suo fratellino bruciati vivi a Primavalle, con questa roba qui? Tecnicamente si chiama “nuova edizione aggiornata”; sostanzialmente si chiama “porcata”. Una misera operazione di marketing. È come se io scrivessi un libro su Enrico Berlinguer e mettessi in copertina la faccia di Salvatore Buzzi (il capo delle cooperative rosse della Capitale, alter ego di Carminati e gestore del sistema di corruzione della sinistra romana). Probabilmente la famiglia Berlinguer (di cui Telese fa parte avendone sposato una figlia) mi inseguirebbe per strada. Come prevedibile la questione ha scatenato un putiferio in tutti gli ambienti dei “cuori neri”. Il caso, sollevato da Barbadillo (creativa rivista online della destra identitaria) è rimbalzato sui social in maniera dirompente tanto che Telese ha deciso di scrivere una lettera aperta di risposta. Nella lettera Telese cerca di prendere le distanze affermando che in effetti quella copertina è sbagliata e che lui era dubbioso (non contrario). Versione poco credibile: Telese è il direttore editoriale della collana che pubblica il libro e si fosse opposto quella copertina non sarebbe uscita. Ora lui stesso chiede alla sua casa editrice (la Sperling & Kupfer) di ritirare il libro dal mercato e ristamparlo con una copertina più dignitosa e rispettosa delle storie che lì dentro vengono raccontate. Vediamo se alla Sperling & Kupfer, avranno la dignità di farlo. Non è bello pubblicare le storie dei “cuori neri” avendo i cuori marci.

Cuori neri e Mafia capitale? Una copertina che riapre vecchie ferite, scrive Roberto Alfatti Appetiti su “Il Giornale”. Cosa non si farebbe per vendere qualche copia in più. Eppure Luca Telese, di copie di Cuori neri (Sperling & Kupfer), nel 2006 ne aveva vendute già moltissime. In libreria e a domicilio. Senza risparmiarsi presentazioni porta a porta nei circoli vicini ad Alleanza Nazionale, perché il libro raccontava la storia di ventuno giovani militanti di destra “caduti” negli anni di piombo e lo faceva restituendone per la prima volta un ritratto onesto: quello di ragazzi normali, animati da una forte passione politica ma tutt’altro che criminali. Certo, il libro era lacunoso, a tratti impreciso e raffazonato, ma tenuto in piedi da una scrittura tanto empatica da farsi persino troppo ammiccante, sapientemente “ruffiana”. Telese aveva capito che con quel libro avrebbe trovato davanti a sé una prateria enorme e l’ha cavalcata con disinvolta abilità. Opportunità che la casa editrice non si fece scappare e che oggi vorrebbe tornare a sfruttare con una goffa e stravagante incursione nell’attualità.  Il sottotitolo è semplicemente agghiacciante: “Dal rogo di Primavalle a mafia capitale. Storia di vittime e carnefici“. Un “epilogo” che non è soltanto uno schiaffo alla verità storica, ma un pugno nello stomaco dei familiari, degli amici e dei sopravvissuti di quella stagione di odio e violenza che, malgrado diffidenze e pregiudizi, si sono realizzati felicemente nelle più diverse professioni. Percorsi di vita che avrebbero compiuto anche quei ragazzi, se qualcuno non li avesse ammazzati brutalmente. Perché tra il rogo di Primavalle e mafia capitale, questo sia chiaro a tutti, non c’è e non può esserci alcun collegamento, alcun filo rosso se non una forzatura dell’editore incautamente avallata dall’autore, diventato popolare proprio grazie a quella pubblicazione. La scelta della copertina, spudorata quanto offensiva per quelle vicende tragiche, è se possibile ancora più intollerabile: la faccia è quella di Massimo Carminati, recentemente assurta alle cronache (giudiziarie) per una brutta storie di appalti ed estorsioni di cui si sarebbe reso protagonista con il fior fiore del cooperativismo romano di sinistra. Suonano quasi ironiche le parole con cui la casa editrice accompagna questo “capolavoro” di marketing editoriale: “Il volume si arricchisce, in questa edizione, di un ampio capitolo sul fenomeno di «Mafia capitale» e la figura di Massimo Carminati, ex militante dei Nar al fianco di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, che negli anni Ottanta entra in sodalizio con la banda della Magliana, e più di vent’anni dopo, uscito dal carcere, diventa il capo della gang che prende il controllo degli affari romani, fra appalti ed estorsioni. Seguendone il percorso, Luca Telese torna a riflettere sul periodo della lotta armata e sul modo in cui la storia italiana continui a svilupparsi nel perimetro della sua lunga ombra”. Una lunga ombra, invece, si alza sull’opera di Telese, «un comunista italiano a lungo impegnato in un giornale di destra» (Il Giornale), come si dichiara con birichino compiacimento. Barbadillo.it ha chiesto all’autore di far ritirare la copertina e confidiamo che Telese abbia la sensibilità necessaria per chiedere all’editore di fare un passo indietro. Intendiamoci, liberissimo di scrivere quel che vuole e di stupirci con chissà quale altra capriola intellettuale, ma quella copertina riapre una ferita per tanta gente perbene che, con mafia capitale – un fenomeno criminale “politicamente” trasversale – non ha avuto e non ha niente a che dividere. Il rogo di Primavalle, da qualche giorno, è tornato ad ardere. Per completezza d’informazione, apprendiamo che Luca Telese ha accolto favorevolmente la proposta di Barbadillo e ha annunciato che chiederà il ritiro della copertina. Queste le sue motivazioni/giustificazioni. La risposta di Luca Telese su Barbadillo Caso #CuoriNeri. Luca Telese: “Ricopertiniamo il libro per non sprecare un patrimonio”. Riceviamo da Luca Telese una lettera in risposta alla nostra richiesta di invitare la Sperling&Kupfer a ritirare la nuova edizione di Cuori Neri con in copertina l’accostamento fotografico tra Mafia Capitale e i caduti fascisti negli anni di piombo della Repubblica. Telese fa sua l’accorata proposta di Barbadillo affinché il  libro sia ritirato dalle librerie e spiega la genesi del nuovo capitolo “sul fenomeno di «Mafia capitale» e la figura di Massimo Carminati, ex militante dei Nar al fianco di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro”. "Caro direttore, per quanto possa sembrare strano, non possiedo, come la maggior parte degli autori, il potere di decidere la copertina di un mio libro. Lo avranno Hillary Clintone Umberto Eco, forse, lo avrà Jeremy Rifkin e qualche autore americano. Non io, purtroppo. Ho visto che persino un grande classico come “Il secolo breve” di Eric Hobsbawn è stato ripubblicato senza la foto del Grande dittatore di Chaplin che pure è stato un elemento cruciale del racconto e delle sue interviste: ce n’è un’altra che non è brutta, ma non è la sua. Ed è celebre il caso di Salinger che ha dovuto lottare una vita per non avere nessuna foto sulla copertina del suo Giovane Holden. Adesso, passando dai giganti al pianeta terra, devo spiegare che nel suo piccolo, per me, la copertina di Cuori neri era come una parte essenziale del libro che avevo scritto. Mi era costata, anche all’epoca, discussioni infinite, e devo dire che era “mia” quasi in ogni dettaglio. Ricordo che la difesi dal rigetto alternativo elaborato dall’ufficio grafico davanti alla storica direttrice della Sperling, Carla Tanzi, vita a aroma per dirimere la contesa. Le avevo provato a spiegare perché quei personaggi da fumetto sconosciuti ai più – i Balder – erano gli unici che potessero rappresentare le storie diversissime che raccontavo. Per me era importante la bicromia di quel titolo logo: Cuori-Rosso e Neri-nero. Era importante persino la fascia bianca che rendeva possibile usare quei due colori su fondo nero, che nacque su un tavolino del Pantheon sovrapponendo le scritte. In un Capitolo-estratto distribuito alla festa di Atreju sei mesi prima dell’uscita, c’era in più sullo sfondo solo il profilo rosso di una P38 che per me rappresentava la minaccia che le vite di cui raccontavo avevano subito, la violenza di un’epoca: la sagoma fu tolta solo perché appesantiva molto (e questa scelta era stata opportuna) il tutto. Ma quella era una prima edizione e non una ristampa, e io come autore avevo un potere maggiore (derivante, se non altro, dal fatto che se non consegnavo il testo non si poteva stampare!). In dieci anni ci sono state almeno tre copertine diverse, due delle quali non le avevo approvate, ma che erano state decise senza consultarmi da editori in licenza: quella del club del libro aveva una foto con scontri di piazza del ’77, quella de Il Giornale immagini generiche: la prima era una tiratura circoscritta, la seconda una tiratura monstre, ma da edicola (due volumi da 50mila copie) alla fine non se n’è accorto nessuno. Questo solo per dire che quando ho visto il primo bozzetto della nuova copertina ho subito espresso i miei dubbi alla Sperling. Leggere in rete tutte queste reazioni in qualche modo mi conforta perché rende molto chiaro che non si trattava di miei pallini da autore pignolo, e che questo libro non appartiene solo a chi lo ha scritto e a chi lo ha pubblicato, ma anche e soprattutto a chi lo ha letto, e a chi lo legge tutt’ora, e soprattutto a coloro di cui in quel libro si parla. Per questo sono d’accordo con la proposta di Barbadillo, per questo spero che la Sperling l’accolga subito, anche se ha dei costi. Le cose sono andate, più semplicemente così: la casa editrice mi aveva chiesto un nuovo capitolo per il decennale, cosa che io avevo accettato molto volentieri. si trattava di un piccolo saggio, quasi cinquanta pagine, in cui parlavo del caso Moro, del rapporto fra vecchio e nuovo terrorismo, e anche, ovviamente, di Massimo Carminati. Al contrario dei giudici di Mafia capitale a me non importavano i reati che erano documentati in quelle intercettazioni, ma il rapporto con la mitografia dei Cuori neri – citati molto spesso – e usati da Carminati, consapevolmente o inconsapevolmente, per sostenere l’aura del suo personaggio pubblico. Ho scritto anche, e ne sono convinto, che Quella foto è un logo, e che rappresenta l’equivalente di un segnale di pericolo sulla strada, per tutti i protagonisti di quella storia. Quel ritratto era una immagine che stava agli anni di piombo come un taglio nella tela di Fontana. Mi hanno spiegato che per i grafici della casa editrice era una fotografia che poteva raccontare simbolicamente tutta una stagione. Ho detto loro che non ero d’accordo perché nel libro ero stato molto attento ad una distinzione tra “vittime” e “caduti”, o “combattenti” della lotta armata, che fra l’altro mi era costata molte polemiche e molte critiche. Adesso, la rivolta che arriva dai social mi conferma in un’altra cosa che scrivo in quel nuove pagine: questo libro è più attuale oggi di ieri, il rapporto che tra la storia degli anni di piombo e il presente è un continuo cortocircuito, quella stagione è la scatola nera di quella che stiamo vivendo. Sono così convinto della vecchi copertina che quando ho immaginato quella del libro che sto scrivendo da dieci anni – Cuori dopo cuori – l’ho costruita su una variazione innovativa della vecchia. Fra l’altro devo riconoscere alla casa editrice di aver tutelato il libro per dieci anni con ristampe puntuali, rifornimenti meticolosi, una grande attenzione che ne hanno fatto un piccolo classico e che in molti altri casi – anche per libri importanti – non c’è stata. La Sperling ha pubblicato una intera collana piena di testi e testimonianze preziose, che ha rappresentato un impegno indiscutibile e meritori. Ovviamente le teorie su improbabili intenti speculativi, o eventuali aspettative economiche non hanno alcun senso: Cuori neri vende poco meno di duemila copie l’anno e chi conosce il mercato del libro sa che un dato così consolidato non si cambia in nessun caso. So che ci vogliono soldi e tempo: ma credo che se la casa editrice accetterà la proposta di rifare il libro e di ricopertinarlo farà un regalo a se stessa e ai suoi lettori, che sono la cosa a cui tiene di più. Ieri, quando ho letto in rete quei commenti all’articolo di Barbadillo, mi sono sentito come uno che viene preso a schiaffoni dopo che gli è stato rubato l’orologio per strada. Questo libro, per me, è come un figlio che è cresciuto e cammina con le sue gambe. Per questo rimettere a posto quella copertina non è una concessione ai miei capricci, ma un modo per non sprecare un patrimonio. Luca Telese.

Grillo-Leaks e la disonestà spacciata per onestà, scrive Franco Marino su "Freedom 24 news". Grillo e tutto il mondo culturale che vi ruota attorno (Travaglio, Scanzi, Magistratura Democratica, l’antimafia etc.) sono responsabili di gravissimi lasciti di cui abbiamo già parlato in passato in questo spazio (spettacolarizzazione della giustizia, un pericolosissimo primato culturale e morale della magistratura rispetto alla politica, abbattimento della presunzione di innocenza). Di uno non credo di averne mai parlato e cioè dell’idea che l’onestà debba coincidere per forza con la fedina penale pulita o con il non coinvolgimento in vicende penali. E quindi la disonestà coincida con condanne e processi in cui si è coinvolti. Esistono invece tantissime forme di disonestà non penali, verso le quali il giustizialista non presta alcuna attenzione, quasi che esse non siano importanti e che anzi forse sono più gravi di quelle penali. Tra queste c’è la disonestà intellettuale. In questo senso, i Grillo-Leaks non sono altro che la conferma di ciò che si è sempre pensato. E cioè che il Movimento 5 Stelle non è un partito che si occupa di temi importanti per il paese ma semplicemente un progetto di marketing ben riuscito, peraltro con un brand in calo (come nei leaks confessa uno dei suoi attivisti). Grillo che vuole farmi credere che il suo Movimento si occupa di politica invece di essere ciò che è, in quel momento si sta comportando in maniera disonestà nei nostri confronti. D’accordo, non è una disonestà di rilevanza penale. Il dato di fatto però è che milioni di persone hanno dato fiducia ad un movimento che ha fatto credere ciò; e che in virtù di questo ha preso voti e soldi, rappresenta un raggiro. E la sensazione di smarrimento è peggiore. Mentre di una truffa si sa benissimo ciò che ci viene tolto e si sa anche che se si è abbastanza bravi nel seguire certe procedure e si sceglie di farsi aiutare, si può avere una speranza di recuperare il maltolto, quando vieni ingannato da un politico che tradisce la tua fiducia, spacciandosi come eroe della moralità, della giustizia, non c’è niente che possa riparare il tutto. Nel corso di 70 anni di democrazia, l’Italia è stata attraversata in lungo e in largo da partiti che cianciavano di questione morale, di “valori” di “rivoluzioni civili e scelte civiche” e di “onestà che torneranno di moda”. E tutto ciò che abbiamo visto in concreto è: il PD che oggi scarica in mezzo alla strada un gruppetto di giornalisti dell’Unità, facendo pagare loro i debiti di una gestione economica scriteriata, dopo che l’Unità per decenni è stato il giornale di riferimento di quel partito che predicava onestà, giustizia, verità. Tutto ciò che abbiamo visto dopo quindici anni di “Italia dei valori” è stato un uomo che ha usato il partito per sistemare il proprio patrimonio familiare. Oggi ciò che vediamo con il caso di Grillo-Leaks è questo: un partito che aveva illuso tutti facendo credere di essere il tempio della democrazia, di essere il movimento dove uno vale uno. E invece scopriamo che non è altro che una società di comunicazione, dove si usano le strategie caratteristiche di una società di comunicazione, con il solo obiettivo di raccattare e monetizzare il consenso. Ok, non è reato. Non è qualcosa contro cui potrebbe scagliarsi il Fatto Quotidiano. E’ semplicemente una presa per il culo, di quelle che subiamo quando il nostro partner ci fa credere che ama solo noi, poi segretamente si vede con l’amante o quando un amico finge di volerci bene, di collaborare con noi e poi ci tradisce. La domanda è: è onesto tutto ciò? E’ morale? E’ indice di valori morali? Un mentitore, un individuo disonesto intellettualmente, è migliore di uno che evade il fisco, magari per bisogno? Questo è forse il lascito peggiore di vent’anni di giustizialismo e di moralismo politico, aver cioè diffuso l’idea che si è disonesti solo se si commettono reati: dopodiché si è liberi di mentire, tradire, ingannare. Per colpa di questi signori, le parole “moralità”, “onestà”, “giustizia”, oggi che ne è evidente l’utilizzo come clava per colpire i nemici politici, suscitano solo sorrisi ironici.

La «Questione morale» esiste e brucia: è il populismo, scrive Franco Insardà su "Il Garantista". Eccolo lì: un altro mostro innocente. Abdel Majid Touil, 22 anni, è solo un ragazzo marocchino che vive a Milano e studia, la sera, la nostra lingua. Non è il terrorista che ha fatto strage al museo di Tunisi e ha ucciso, tra gli altri, quattro italiani. Stavolta la nostra magistratura è innocente. Ha ricevuto la richiesta di arresto dai giudici tunisini e ci ha messo nemmeno quarantotto ore per accertare che Abdel ha l’alibi di ferro. Ora sta indagando ancora, per cercare di capire se non ci siano altri reati per i quali perseguirlo, e speriamo che faccia in fretta. La nostra magistratura è innocente, stavolta, la nostra politica e la nostra stampa no. Hanno fatto, in allegria, il solito gioco del linciaggio. È incredibile la faccia tosta con la quale la nostra politica e gran parte della nostra stampa il mercoledì gridano al mostro e chiedono di bombardare i barconi dei migranti, e il giovedì mattina, quando si scopre che era una bufala, invece di modificare le proprie dichiarazioni e di ritirare le proprie richieste, e magari di chiedere scusa, fanno finta di niente. Ieri ho avuto uno scontro, in Tv, con una parlamentare – per altro tra le meno esagitate sul tema immigrazione – che quando è risultata abbastanza chiara l’innocenza del giovane marocchino, ha detto: «Vabbè, sarà innocente per la strage, ma è un clandestino e quindi viola la legge. Perché non è stato espulso?». Che è come dire a uno accusato di uxoricidio:«d’accordo non hai ucciso tua moglie però giovedì sera hai lasciato in disordine la cucina…». Si può anche scherzare su questo malcostume di stampa e politici (per esempio c’è Salvini che ormai quasi tutti i giorni chiede le dimissioni di Alfano, nemmeno lui sa perché…) ma non penso che sia giusto sottovalutare le enormi conseguenze di questi loro comportamenti. In questi giorni, per esempio, tutto è condizionato dalla campagna elettorale. Siccome è noto che a difendere gli immigrati si perdono voti e se invece si chiede il loro annientamento i voti si guadagnano, allora non si trova più un politico disponibile a ragionare con la propria testa. Chiunque – soprattutto a destra, ma non solo – prima di rilasciare una dichiarazione dà un occhio ai sondaggi. E i sondaggi dicono che una parte largamente maggioritaria dell’opinione pubblica vuole che sia innalzata una barriera contro la gente che sbarca in Italia fuggendo alle guerre e alla fame. E per di più ha una discreta paura del terrorismo. E allora i politici – e i giornali: non si sa chi sia quello che ha cominciato per primo – fanno la corsa a mischiare i problemi della difesa dal terrorismo coi problemi dell’accoglienza dell’emigrazione. E’ chiaro, a chiunque non abbia in sdegno l’idea di far funzionare il proprio cervello, che i due problemi sono distanti anni luce l’uno dall’altro. La prevenzione dal terrorismo la fanno i servizi segreti, che cercano di avere informazioni, di realizzare infiltrazioni, di monitorare i pericoli, di collegarsi ai serivizi segreti stranieri. Opera difficilissima, specie in democrazia. E dai risultati incerti. E della quale, peraltro, noi profani – e cioè anche noi giornalisti e loro politici – capiamo pochissimo. Però non ci sembra vero poter dire: fermiamo i barconi, fermiamo i barconi, bombardiamoli! Ora si può discutere quanto si vuole sui problemi dell’immigrazione e ci possiamo dividere tra chi pensa – come il sottoscritto – che l’unica via sia quella di finanziare l’accoglienza e organizzare corridoi umanitari gestiti dallo Stato italiano sul Mediterraneo, e chi invece pensa che si debba contrastare l’arrivo degli scafi pieni di profughi. Ma in nessun caso si può pensare che il potente terrorismo arabo abbia bisogno dei barconi per arrivare in Italia. Tra l’altro c’è da dire che finora l’Italia, cioè il paese dei barconi, è uno dei pochi paesi europei a non esser stato colpito dal terrorismo. Lo scandalo degli scandali, sollevato soprattutto dalla Lega, è che il ragazzo del Marocco accusato di essere un terrorista era arrivato qui col barcone. Però, in ogni caso, l’attentato non è stato a Brescia ma a Tunisi. Quindi questo ragazzo sarebbe arrivato col barcone, poi avrebbe preso un aereo a Malpensa e sarebbe andato a Tunisi, avrebbe fatto l’attentato e poi avrebbe preso un aereo di ritorno. Dunque, anche in questo caso fantasioso, cosa c’entrano i barconi? Oppure vogliamo chiudere gli aeroporti? Dice: almeno cancelliamo Schengen! Già, ma Shengen non vale per la Tunisia… Insomma: idiozie. Idiozie pure. Che però non creano alcun danno a chi le pronuncia. Anzi, gli procurano voti e popolarità. Creano danni a chi cerca di darsi da fare per governare una situazione difficilissima come l’ondata migratoria e fuggiasca dall’Africa. E naturalmente creano danni ai profughi, e a tutti gli immigrati, perché alimentano una ventata di razzismo che sta travolgendo il nostro paese. (Quando sentite dire: ”no, l’Italia non è un paese razzista”, sentite semplicemente una frase fatta. Frase fatta e menzognera: l’Italia è sempre più un paese razzista, dove il peso sull’opinione pubblica della Lega è superiore a quello esercitato da Pd e Forza Italia e Ncd messi insieme). E allora si pone un grande problema. Secondo me si pone un vero e proprio problema morale. Io credo che oggi la questione morale esista, e non riguardi le tangenti e la corruzione (che sfiorano appena il mondo politico, e senza danni enormi per la comunità) ma sia il populismo. Cos’è il populismo? Si può definire in tanti modi. Io lo definisco per ”sottrazione” Cioè, so cos’è che il populismo non è e non ha: non ha nessun valore, né di sinistra né di destra; non ha senso della comunità e dello Stato, cioè è privo del senso dell’interesse generale; non ha idee, non solo per pochezza culturale ma perché le idee ”vincolano” le politiche, e dunque ostacolano la libertà di ”vuotezza” del quale il populismo ha bisogno. Il ”populismo” è la rinuncia a produrre pensiero e politica e l’attitudine a cavalcare la ”pancia” dell’opinione pubblica, per assecondarla e trarne benefici politici. Io penso che il populismo sia la vera corruzione politica. Anche perché la corruzione finanziaria ”ferisce” ma non uccide la politica e la democrazia. Il populismo uccide la politica e le idee. Se nei partiti nessuno ha il coraggio di aprire questa ”questione morale”, la politica italiana è destinata a morire. I flebili tentativi del Pd, e talvolta anche del centrodestra non leghista, di opporsi a Grillo e a Salvini sono destinati ad essere sconfitti. Sono troppo subalterni, impauriti, sottovoce. Il centrodestra e il centrosinistra possono salvarsi solo se aprono la questione morale del populismo. Certo devono fare un passo indietro: devono convincersi che per fondare la terza Repubblica c’è bisogno di recuperare molte idee e molte abitudini della prima Repubblica. Bisogna gridare che Craxi, Andreotti, De Mita e Berlinguer erano degli statisti. Salvini e Grillo – e molti altri in ogni schieramento politico – sono mercanti di voti, senza idee e senza morale.

POPULISMO? IL POPOLO VUOLE LA NARRAZIONE, NON LA VERITA’…scrive Rosanna Spadini su “Come Don Chisciotte”. Populismo, questo sconosciuto!! A ognuno il suo populismo. Ingombra l’inconscio collettivo delle folle irrequiete, gratifica le loro sollecitazioni di benefici umanitari, illude le loro nostalgie democratiche, rassicura le loro ansie metropolitane. Insomma non lo si nega a nessuno, soprattutto nel tempo malsano e degradato  dell’egemonia dei banksters, dove la democrazia appare sempre più agonizzante e i Parlamenti degli Stati europei si sono svuotati di potere politico rappresentativo. Il populismo infatti ha assunto diverse facce nell’arco della storia, e mistificando i propri fini e i propri interessi, ha comunque seminato bufale a volontà, camuffando i veri intenti con i falsi ideali proposti e i discorsi retorici ad effetto. Screditato poi, dopo l’ipocrisia del passato fascista, il populismo sta riconquistando terreno presso  l’opinione pubblica, disorientata dalla ridondanza di significati privi di alcun senso, mentre i partiti esistenti facilitano questo revisionismo, perché non avendo veri programmi si sono trasformati solo e unicamente  in  dispositivi elettorali per vincere le elezioni: il loro paradigma dovrebbe essere “overcoming” invece di “planning”. Gli attuali partiti, di sinistra come di destra, apparati di potere e interesse, hanno sostituito le classi sociali con le categorie borghesi e popolari a-politiche e decontestualizzate: le“donne”, i“giovani”, gli “immigrati”, i“gay”, e via discorrendo. Ai diritti sociali, tutela del benessere moderno, si sono sostituiti i diritti universali ed estetici e l'opera di smantellamento dei miti fondanti della modernità ha prodotto la progressiva compressione del benessere. Il populismo postmoderno propone accidentalmente i tratti di una narrazione sempre più inquieta e devastante, dove le solide, compatte e stabili narrazioni della modernità si sono frantumate contro il nonsense di un sistema sociale globalizzato, privo di un baricentro definito, e sfilatosi verso una remota periferia a-ideologica, corredata socialmente di favelas agitate e baracche fatiscenti. Le classi popolari dunque, orfane del “populismo marxista”, rappresentato ora dai fantasmi postmoderni dei partiti della sinistra storica, hanno abbandonato ufficialmente i partiti mainstream e si sono rivolte in maggioranza alle forze populiste (Movimento 5 Stelle prima e Lega Nord poi). Di queste strategie illusionistiche si ciba Matteo Salvini, come di una pozione di mandragola soporifera, che poi riversa sulle masse adoranti, eccitando le loro frustrazioni e incoraggiando le più disparate istanze. Ma al popolo postmoderno  non interessa la “verità” dei fatti né il senso degli eventi, perché vuole ascoltare solo le narrazioni. Però non più le grandi narrazioni della modernità, sistemi filosofici emancipativi, quali Illuminismo, Idealismo, Marxismo, ma favole illusionistiche, emerse direttamente dal nuovo oscuro inconscio collettivo, deriva inquieta e potente del fallimento del sogno modernista. Del resto anche l’allegoria del “mito della caverna” spiega perfettamente come gli uomini vogliano essenzialmente dei racconti e non riconoscano il sapere: preferiscono guardare le ombre che scorrono sulla parete piuttosto che girarsi verso l’abbagliante luce del sole.  (Platone, La Repubblica). Ecco perché sotto il palco leghista del 28 febbraio a Roma, c’era quel popolo ignorato e dimenticato della middle-class  globalizzata, che pendeva dalle labbra del suo “guru”. C’erano pescatori, allevatori, operai, commercianti, agricoltori, artigiani, tutte quelle categorie sociali che rappresentano il ceto produttivo dell’Italia. E il “ball boy” del sistema, voce narrante regredita, che mistifica una metamorfosi orfica rispetto alla Prima Lega, diffonde ossessivamente le nuove (e antiche) minacce metropolitane: migranti e clandestini che invadono il paese, offrendo manodopera a basso costo, ingrossando le file della microcriminalità e minando così la serenità sociale; grottesche crociate contro l’Islam, riallineatesi integralmente con l’ordine capitalistico occidentale, unica dimora dei diritti e della ratio; euro killer che massacra l’economia dell’Italia, divenuta il sud Europa (contrappasso dantesco). Ma perché la stampa mainstream ha sbandierato ai quattro venti la manifestazione di Salvini, acclamandone il successo strepitoso (invece piuttosto improbabile date le modeste cifre dei partecipanti), e invece ha taciuto spudoratamente sulla manifestazione milanese contro il Jobs Act e il lavoro gratuito all'Expo, contro Lega, fascisti vari (Casapound) e governo Renzi, che ha visto scendere in piazza tra le 40 e 70 mila persone? Forse perché la Nuova Lega di Salvini non è poi così “nuova”, anzi è piuttosto esattamente funzionale al sistema ? Già, perché il nuovo giornalismo “postmoderno” si caratterizza per la ridondanza dei significati, che oscurano il senso degli eventi. La “notizia” della postmodernità consiste nella negazione stessa dell’informazione, perché non mira a “informare” sulla “verità” dei fatti, ma li reinterpreta “deformandoli”, proprio per oscurarli completamente (Marco Travaglio, La scomparsa dei fatti). Un giornalismo che diffonde una rappresentazione virtuale, basata su schemi che non hanno più alcun senso reale, un giornalismo scorretto e disonesto, che non agisce al servizio del lettore, ma è sfacciatamente asservito al potere finanziario, vero e proprio regime euroatlantico autoritario. Audace e  spavaldo inoltre il populismo celodurista di Matteo Salvini, reduce da cerchi d’oro e anelli di diamanti dei vecchi tempi, vate carismatico della Nuova Destra, ma ristrutturatosi attraverso l’affiliazione iniziatica con gli economisti dalla B maiuscola (Bagnai/Borghi), ora è pronto a genuflettersi remissivo agli ordini del leader con l’altra B (Berlusconi). Interessante anche il “populismo postmoderno” del filosofo Diego Fusaro, che non perde occasione per divulgare dogmi depistanti e confusi al suo pubblico assetato di verità metafisiche: “Personalmente, non sono tra coloro che gridano ossessivamente “fascista!” per delegittimare a priori l’interlocutore (Salvini). Da Socrate ho imparato che si dialoga con tutti, senza esclusioni. Se si rifiuta il dialogo, si ha perso in partenza. Il fascismo è un’esperienza morta e sepolta nel 1945.” Quindi dialogare con tutti, perché se si rifiuta il dialogo si è perso in partenza. Niente fascisti, né razzisti, né gattopardi rigenerati, semplicemente utili idioti del sistema, gatekeepers servili a guardia del cancello del capitale. Poveri leghisti, così ingenui e così generosi!! Poi viene il “populismo riformista” di Matteo Renzi, satrapo coloniale del Nuovo Ordine Mondiale, capace di realizzare a comando riforme epocali che passeranno alla storia, come lo smantellamento ossessivo di ciò che resta della democrazia e del welfare state: Riforma del Senato (camera privata della sovranità istituzionale e composta da 100 senatori nominati), Jobs Act (precariato a vita), Riforma della Carta fondamentale dello Stato italiano, divenuta obsoleta e superflua per il profitto dei banksters della Troika (40 articoli revisionati); Riforma della legge elettorale “Italicum” (premio di maggioranza iperbolico per chi arriva primo e liste bloccate). E poi ancora in cantiere la Riforma della giustizia e quella della scuola. Che dire? Ricordo con rabbia il populismo generoso, ingenuo, ma potente di Pier Paolo Pasolini, che immaginava un dialogo sulla tomba di Gramsci (Le ceneri di Gramsci), in uno scenario sociale italiano ormai mutato, attraversato da un marxismo in solitudine, in cui lui sentiva la vertigine dell’abbandono, la tensione del conflitto col Pci, ed esaltava la lotta dalla parte dei deboli e dei poveri, con profondo disgusto per l’ipocrisia del mondo borghese. Nella sua violenta critica contro la mutazione antropologica subita dalla società italiana, in forza del trionfo della tecnica capitalistica, che aveva imposto il centralismo fascista della civiltà dei consumi, potente, suadente, morbido e flessibile, biasimava con rabbia  la perfetta sudditanza della pubblica opinione, dove gli individui erano stati degradati a puri atomi interscambiabili, come atomi/oggetti/merce del monoteismo del consumo. Il sano, onesto e disperato populismo è quello di Pasolini, quando si rivolge alle “lucciole”, realtà popolari dotate di energia vitale e generosa, non ancora lacerate, violate, bruttate dalla società globalizzata. Ma il populismo di Pasolini era troppo onesto, quindi degno di disprezzo da parte del capitale. Ecco perché la sua fecondità critica fu velocemente rimossa, lordata da una morte ingiuriosa, oscurata da una “damnatio memoriae” degna dei più ripugnanti “profeti”. Lo scrittore regista infatti, pensatore non metabolizzabile, difficilmente ereditabile, maestro di dissidenza del  “not politically correct”, era fondamentalmente inattuale, quindi una coltre di oblio sprezzante è scesa su di lui. "Sine ira ac studio"? Non possiamo più permettercelo …

Populista a chi? Da Berlusconi a Grillo, è una delle accuse più in voga. Ma forse il problema è di chi la lancia, scrive Nicoletta Tiliacos su “Il Foglio”. Populista: giudizio politico tombale, qualifica spregiativa tra le più usate nella politica italiana, che di ventate classificate come populiste ne ha sperimentate parecchie, anche in anni recenti. Oggi il principale destinatario dell’insulto è diventato il Movimento 5  stelle di Beppe Grillo, ma c’è il sempreverde Berlusconi, così come il suo acerrimo avversario Di Pietro, e la verdissima Lega Nord, che al suo esordio conquistò a furor di opinionisti il podio olimpico del populismo (addirittura) europeo. E’ difficile trovare qualcuno che negli ultimi vent’anni si sia salvato da quell’anatema. Il quale è lanciato, va detto, soprattutto da sinistra verso destra. Il politologo Marco Tarchi, che nel 2003 ha pubblicato con il Mulino “L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi”, pensa che “il problema non stia nel definire populisti i soggetti citati, che in misura e forma diverse populisti lo sono davvero. Quel che trovo sgradevole è che si usi come un epiteto un termine che definisce, semplicemente, una mentalità, caratterizzata da un modo particolare di vedere la politica e la società. Su questo tema si è accumulata da decenni una letteratura scientifica consistente – ovviamente, spesso venata di riserve e pregiudizi, e tuttavia capace di prendere sul serio il fenomeno –, ma in bocca ai politici e agli opinionisti il concetto è diventato un banale insulto. Lo si confonde con la demagogia, che non è certo una sua esclusiva (chi, in politica, non proclama di fare il bene del popolo, della gente, sperticandosi in lodi delle sue virtù? Neanche l’algido Mario Monti è esente da queste tirate demagogiche, e tantomeno i Bersani o i Casini o i Montezemolo…). Lo si apparenta all’estrema destra, da cui molte caratteristiche lo allontanano. Se ne fa il ricettacolo di ogni male. E’ un surrogato di altre parole-talismano, che sono servite a lungo per squalificare ogni avversario, come ‘fascista’ (ma anche ‘comunista’, per  esempio nell’uso quasi onnicomprensivo che ne ha fatto Berlusconi). Va di moda, suona bene, evita di argomentare, tanto che nessuno degli spregiatori sente il bisogno di spiegare cosa intende vituperare nel populismo. Basta la parola. Che lo si usi, attualmente, più da sinistra, è inevitabile, perché la mentalità populista ha trovato, in Europa, più spazio per esprimersi sul versante opposto. Ma per un liberale, ad esempio, non è difficile individuare dosi sostanziose di populismo a sinistra. Castro è stato un populista, Chávez lo è, Grillo – che pure mi pare si collochi piuttosto al di là e al di fuori del discrimine sinistra/destra, come già si poteva dire di Di Pietro – pure”. Capita che certe accuse parlino più di chi le fa rispetto a chi le riceve. In particolare, nota Tarchi, lanciare l’anatema di populismo si addice “a chi è a corto di idee, programmi e serie prospettive di futuro da offrire e sa, o crede di sapere, che oggi è più facile convincere il pubblico a votare ‘contro’ qualcuno o qualcosa, piuttosto che ‘per’. In altre parole, all’intera classe politica italiana (e non solo), che da decenni è in uno stallo intellettuale sconcertante”. E se in Italia non passa mai di moda l’accusa di populismo è perché, effettivamente “è stata definita, e non a caso, da studiosi seri, come il francese Hermet o l’italiano Zanatta, il ‘laboratorio’ o, addirittura, il ‘paradiso’ del populismo. Concordo. Nel nostro paese c’è un ampio settore di opinione pubblica disposto a recepire il discorso populista. Anni fa, nel mio libro sull’Italia populista, ho compilato un catalogo degli attori politici classificabili in questo ambito. Fra costoro, non pochi sono ancora in attività: Berlusconi, Bossi (che peraltro, lasciando il posto Maroni, pone un interrogativo interessante: può il partito-prototipo del populismo peninsulare, ovvero la Lega nord, rinunciare a incarnare il modello che l’ha portata al successo? Io ne dubito, ma staremo a vedere), Di Pietro, Pannella (che però era più sbilanciato su questo versante vent’anni fa), parecchi degli ex girotondini (quelli che pretendono di incarnare il popolo ‘vero’ e virtuoso: la ‘gente’ che si contrappone alle corrotte classi dirigenti) e così via. Il nuovo ingresso più significativo è Grillo (lui, non il suo Movimento, che peraltro senza la sua voce colerebbe a picco in breve tempo), ma bisogna tener d’occhio anche De Magistris e dintorni”. Mentre, a livello europeo, ogni critica alla linea merkeliana (e montiana, in Italia) passa subito per populista: “Mi pare scontato. Ai populisti non piacciono i poteri sovranazionali, men che meno quelli che non hanno legittimazione elettorale, come la Commissione di Bruxelles, la Bce, il Fmi, né i tecnocrati. Che dal popolo sono distanti mille miglia. Quindi, chi vuol squalificare i critici di Monti o Merkel ci mette poco a fare d’ogni erba un fascio. Anche se ci sono molti motivi diversi da quelli esposti dai populisti per non apprezzare le politiche messe in atto dai due personaggi”. Lo storico Ernesto Galli della Loggia ha parlato più volte, da editorialista del Corriere della Sera, della natura non negativa di un populismo “dal basso”, visto come contenuto naturale della protesta contro le oligarchie democratiche. L’accezione dispregiativa di quel termine di nobili natali (vedi l’articolo di Maurizio Stefanini in questa pagina) secondo lui ha una genesi riconoscibile “nel Ventesimo secolo, quando la lotta politica ha avuto bisogno di insulti ideologici (e, in un certo senso, già con la Rivoluzione francese era così). L’ideologizzazione della politica non può che comportare lo scambio di accuse ideologico-politiche caricate di contenuti negativi. Negli ultimi decenni, in Europa, questo è stato consentito soprattutto alla sinistra, mentre l’unica accusa che la destra ha continuato a usare è quella di ‘comunista’; che  non è riuscito a essere un insulto, in quanto rivolto a persone che spesso rivendicavano proprio l’essere comunisti. La sinistra, al contrario, ha affibbiato definizioni negative, come quella di ‘fascista’, a democristiani o a socialdemocratci. ‘Populista’ rientra in questa categoria, e nel momento in cui la sinistra lo usa in modo denigratorio, lo diventa per tutti. Tanto che oggi capita di trovare anche cattolici – coloro che più di altri hanno idolatrato il popolo, che hanno avuto un Partito popolare e Il Popolo come testata storica – pronti a usare come pappagalli, a mo’ di marchio infamante, la parola ‘populista’. Termine che fa il paio con ‘liberista selvaggio’, anche questo usato e adottato in modo pappagallesco da tutti. Sono due termini che vogliono richiamare, nell’ascoltatore, caratteristiche denigratorie, capaci di far suonare sgradevoli campanelli d’allarme: ‘populista’ allude a fascista, ‘liberista selvaggio’ a sfuttatore”. Secondo Galli della Loggia, “l’equivalenza tra populista e demagogico è tutta da dimostrare. Ogni posizione può esporsi alla demagogia. Si può essere un liberista demagogico, un cattolico demagogico, un comunista demagogico e anche un montiano demagogico. La demagogia è una degenerazione di qualunque posizione politica, ed equipararla sic et simpliciter al populismo è indebito”. Anzi, aggiunge lo storico, una certa dose di populismo è implicita nella democrazia, “se vogliamo dar retta ad Abramo Lincoln, il quale ebbe a dire che la democrazia è il governo ‘del popolo, dal popolo e per il popolo’; attenendomi alla sua lezione, penso che la democrazia non possa fare a meno di un legame stretto con il popolo. E nel Ventesimo secolo il popolo ha conosciuto una grande rivincita sul concetto di classe, che invece si è offuscato. L’uomo della strada si è rivelato il grande vincitore sociale del Novecento”. Per Ernesto Galli della Loggia, c’è una  chiave fondamentale per capire lo straordinario successo dell’insulto “populista”: “Quell’accusa, così dilagante in Italia, corrisponde alla grande trasformazione politico-sociale intervenuta dopo il 1945 in tutti i paesi dell’Europa occidentale. Fino a quel momento le élite avevano avuto un marcato carattere liberale e altoborghese, e la protesta contro di esse aveva un riconoscibile contenuto di classe. Dal secondo Dopoguerra in poi, in tutto l’occidente hanno governato le élite cristiano e socialdemocratiche. Oggi assistiamo a una grande protesta contro il potere rappresentato da queste élite, verso le quali è molto più difficile, se non impossibile, scagliare accuse di classe. Dietro il dilagare dell’uso negativo di populismo, insomma, c’è il grande fenomeno storico di un avvicendamento delle classi egemoni e c’è una degenerazione oligarchica delle élite democratiche. Sono loro che lanciano l’accusa di populismo verso chi le contrasta. Ed è vero: la protesta ha caratteri populisti, ma non potrebbe essere diversamente. Come si fa a protestare contro le élite democratiche senza essere populisti? Non è possibile, e allora si demonizza la  protesta usando un termine in forma spregiativa”. In questo senso, Grillo, la Lega nord, Berlusconi, Di Pietro, “sono, ognuno a suo modo, populisti, perché non hanno fatto parte delle élite uscite dal 1945 e dalle culture cattolica, socialdemocratica o comunista. Incarnavano e incarnano, in modi diversi, magari anche demagogici, una protesta contro le politiche di quelle élite. Ma non è demagogico anche Vendola, quando promette grandi programmi di risanamento economico che facciano a meno di misure di feroce austerità?”. Certo, i toni contano “e il discorso populista ha una grande difficoltà ad articolarsi in maniera ragionevole. Rischia subito il bercio, l’urlo sguaiato. La sinistra tradizionale – che spesso è demagogica – conserva invece nel suo discorso aspetti di ragionevolezza, ha un lessico civile e una narrazione, come direbbe proprio Vendola, più piana, che conta su materiali lessicali ai quali il nostro orecchio è abituato. ‘Roma ladrona’ (e infatti s’è visto a Milano e in Lombardia che cosa succedeva…) è invece insulto demagogico allo stato puro. Ma anche dire “cancelliamo la riforma Fornero” è demagogia, e Vendola l’ha fatto; così come è demagogia pura quella di Berlusconi che promette di abolire l’Imu”. Il critico Alfonso Berardinelli osserva che “l’accusa di populismo, da destra e da sinistra, si intensifica fatalmente in epoca elettorale. Mentre, di per sé, ‘populismo’ non dovrebbe essere una parolaccia. Alla base c’è l’idea che al popolo, e non alle élite intellettuali o politiche, vadano attribuite qualità positive e diritti prioritari. Ma oggi quella di popolo è nozione generale, varia e oscillante. I marxisti dottrinari e ortodossi di una volta criticavano il populismo per attribuire ai soli operai di fabbrica ruolo sociale e politico privilegiato. L’operaismo era una specie di populismo settoriale, con pretese scientifiche, secondo l’idea che l’intera società non contava ma contava la sua essenza, cioè la classe operaia di fabbrica: una sorta di radice della società, l’unica di cui valesse la pena occuparsi. La situazione di oggi è molto diversa, ed è interessante sia per la sua incertezza sia perché le parti politiche in competizione sembrano ignorare la società. La considerano un’incognita e per questo si sente volare così frequentemente l’accusa di populismo. Ma tanto a sinistra quanto a destra temono il popolo, vale a dire il novanta per cento della popolazione”. Anche Berardinelli, come Tarchi e Galli della Loggia, distingue “tra populismo e demagogia. Il populista classico degli ultimi vent’anni è stato Berlusconi. La sinistra, convinta di tenere in pugno lo scettro della storia e il polso della società, ha scoperto che ignorava storia e società, e si è trovata di fronte a un fenomeno totalmente imprevisto. Allora la destra sorprese la sinistra, ma oggi anche la destra teme il popolo, perché ha esaurito il suo ciclo. Le novità sono la crisi internazionale e gli equilibri di politica estera, rispetto ai quali sia Berlusconi sia la Lega non si muovono agevolmente. Si parla tanto di populismo, anche rispetto al movimento di Grillo, proprio perché c’è surriscaldamento elettorale”. Il popolo è diventato un’incognita, dice Berardinelli, e non c’è sondaggista che possa rimediare a questo: “Il popolo è un’incognita perché nella sua composizione sociale c’è ormai una miriade di categorie spaventate e litigiose. A unirle c’è la paura dell’impoverimento e del declassamento, e l’odio per la classe politica. La stessa ambiguità nei confronti di Monti, non amato per i sacrifici inflitti ma capace di rispondere a un bisogno di fiducia, nasce da qui. Populista o meno, la domanda alla quale credo che molti italiani  pensano di voler trovare una buona risposta è: quale governo sarà più affidabile, per competenza e per onestà? E il popolo,  avrà più paura del controllo di stato o più paura del mercato?”.

QUOTE LATTE E DEFERIMENTO DI STATO.

Quote latte, Italia deferita a Corte Ue. Multe non pagate per 1,3 miliardi. «Ora Salvini chieda scusa», dice il ministro Martina. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, scrive “Il Corriere della Sera”. La Commissione europea ha annunciato la decisione di deferire l’Italia alla Corte di giustizia Ue per il mancato recupero dei prelievi dovuti dai produttori italiani per la sovrapproduzione di latte. Secondo una nota della Commissione di Bruxelles, l’Italia deve recuperare ancora sanzioni per 1,343 miliardi di euro. La questione riguarda il superamento delle quote da parte di alcuni produttori italiani tra il 1995 e il 2009, che ha dato origine a una serie di multe e poi a una procedura d’infrazione contro Roma. Bruxelles aveva già inviato una lettera di messa in mora sulla vicenda del recupero dei prelievi nel giugno del 2013, poi un parere motivato nel luglio dello scorso anno. Ora il terzo passo, quello del deferimento ai giudici Ue, visto che per la Commissione l’Italia non ha mostrato «alcun progresso significativo nel recupero». Secondo i dati della Commissione, su un importo complessivo di multe per 2,305 miliardi, circa 1,752 non sono stati ancore recuperati dalle autorità italiane. Ma «parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni», dunque la somma finale è pari a 1,343 miliardi di euro. Ma secondo la stima della Corte dei conti non tutti i soldi potranno essere incassati: ce ne sono 832 esigibili, sui quali il governo sta lavorando per la riscossione, mentre 507 milioni sono al momento non esigibili a causa dei processi in corso. Il sistema delle quote è stato istituito nel 1984 per evitare distorsioni del mercato dovute alla cronica sovrapproduzione di latte, ed è basato su quote di produzione nazionale. Quando uno stato membro eccede la propria quota, i produttori responsabili devono pagare una multa. Secondo la Commissione europea a rimetterci sono anche i contribuenti italiani, perché le somme da recuperare vanno iscritte nel bilancio italiano. «La notizia di oggi conferma che tutti quelli che hanno spiegato agli allevatori che non si doveva pagare le multe e che qualcuno sarebbe arrivato al posto loro, hanno fatto un grosso danno al Paese. Salvini si dovrebbe mettere una felpa con scritto "scusa"», commenta il ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina, annunciando che da marzo partiranno le cartelle per quei mille che non hanno pagato. Piccata la risposta della Lega, con i senatori Stefano Candiani e Paolo Arrigoni: «Invece di impartire lezioni, il ministro Martina si faccia un esame di coscienza e pensi alla realtà, visto che l’Imu agricola, vera e propria patrimoniale, preleverà 270 milioni di euro in tasse dal comparto agricolo». «La vicenda assume i contorni della beffa. Una coda pesante che chiama a responsabilità gli urlatori leghisti», incalza il presidente della commissione Agricoltura Luca Sani, deputato Pd. «Un nuovo e grave colpo al primario e alla morale del nostro paese», sottolinea il presidente di Confeuro, Rocco Tiso. «Paghi chi deve a questo punto, tutto e subito», chiede Confagri a cui fa eco la Cia, secondo cui «gli agricoltori e i cittadini onesti non devono pagare il conto pregresso dei `furbetti´, e il Governo deve trovare soluzioni per l’anno 2014». Per la Coldiretti si tratta infatti di una «pesante eredità delle troppe incertezze e disattenzioni del passato», mentre c’è ancora «il rischio di nuove multe quest’anno».

Quote latte, l’Italia dovrà risponderne alla Corte di Giustizia europea, per decisione della Commissione Europea, e rischia quindi un’altra pesante multa in materia, scrive “Blitz Quotidiano”. “Per colpa della Lega”, dice il ministro delle politiche agricole Maurizio Martina. Giovedì la Commissione europea ha deciso di deferire l’Italia alla Corte di giustizia per il mancato recupero di 1,75 miliardi di prelievi dai produttori per l’eccesso di produzione rispetto alle quote latte tra il 1995 ed il 2009. Gli allevatori dei Paesi europei possono produrre e vendere latte entro certe quote, per l’eccedenza è previsto un prelievo finanziario: questa regola vale fino all’1 aprile 2015. Ma per anni la Lega ha fatto una campagna perchè gli allevatori non pagassero. E infatti molti non hanno pagato e ora l’Italia rischia di pagare 1,7 miliardi di multa, oltre ai 4,5 già pagati. Una nota della Commissione europea dice: Ogni anno, dal 1995 al 2009, l’Italia ha superato la quota nazionale e lo Stato italiano ha versato alla Commissione gli importi del prelievo supplementare dovuti per il periodo in questione (2,305 miliardi di euro). Tuttavia – prosegue la nota – nonostante le ripetute richieste della Commissione, risulta evidente che le autorità italiane non hanno preso le misure opportune per recuperare il prelievo dovuto dai singoli produttori e caseifici. Ciò compromette il regime delle quote e crea distorsioni della concorrenza nei confronti dei produttori che hanno rispettato le quote e di quelli che hanno preso provvedimenti per pagare gli importi individuali del prelievo supplementare. Come sottolineato dalla Corte dei conti italiana, questa situazione è iniqua anche nei confronti dei contribuenti italiani. La Commissione Ue stima che, sull’importo complessivo di 2,305 miliardi di euro, circa 1,752 miliardi non siano ancora stati recuperati. Parte di questo importo sembra considerato perso o rientra in un piano a tappe di 14 anni, ma la Commissione stima che siano tuttora dovute sanzioni per un importo pari a 1,343 miliardi di euro. Nell’ambito delle procedure di infrazione dell’UE, il deferimento alla Corte di giustizia costituisce la terza e ultima fase della procedura. La Commissione ha inviato all’Italia una lettera di costituzione in mora su questo caso nel giugno 2013 e un parere motivato nel luglio 2014. Dato che l’Italia non ha mostrato alcun progresso significativo nel recupero, il caso è ora deferito. Come dire, fino a oggi non vi siete mossi: ora pagate. Il ministro Martina, nel governo da un anno, punta il dito contro la Legge a Giuliano Balestreri di Repubblica dice: “Salvini dovrebbe mettersi una bella felpa con scritto ‘scusate’. Scusate a tutti gli italiani per le prese in giro della Lega Nord: hanno pontificato per anni e questo è il risultato. Un settore in sofferenze dove i furbi spalleggiati dalla Lega hanno messo i difficoltà gli onesti. Ci risiamo, ci tocca gestire questa nuova grana, mentre il segretario della Lega pontifica sull’agricoltura che lui, a differenza di altri proteggerebbe. Farebbe meglio a chiedere scusa, e in fretta”. “Loro sulla storia delle quote latte hanno sempre speculato, hanno costruito anni di campagne elettorale sulle bugie che sono già costate agli italiani 4,5 miliardi di euro, 75 euro per ogni cittadino. E ora rischiamo di pagare ancora solo perché nessuno, prima di noi ha voluto gestire e risolvere il problema preferendo marciarci sopra. Dovrebbero chiedere scusa perché questa è la tassa padana, la tasse leghista”.

Quote latte, costo infinito: punita la «grazia» agli allevatori multati. Deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori, che avrebbero sforato le quote latte imposte dall’Europa, multe per 1,3 miliardi, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Non serviva certo la palla di vetro per sapere come andava a finire. Era scontato il deferimento dell’Italia alla Corte di giustizia per non aver recuperato dagli allevatori che avrebbero sforato le quote della produzione di latte imposte dall’Europa multe per 1,3 miliardi già pagate dallo Stato. La melina era andata avanti per anni, confidando che la patata bollente sarebbe toccata al prossimo governo, o al successivo ancora. Nonostante richiami sempre più severi: due lettere di messa in mora avevano preceduto il deferimento annunciato ieri da Bruxelles dopo aver riscontrato la mancanza di «alcun progresso significativo nel recupero». La ragione, fin troppo facile da comprendere: pretendere quelle multe era impopolare. Tanto più pretenderle da coloro ritenuti i più fedeli fra i propri elettori. Fedeli al punto che il leader dei Cobas del latte Giovanni Robusti, inguaiato pure con i giudici ordinari e contabili, era stato senatore della Lega Nord nel 1994 ed europarlamentare nel 2008. E se il Carroccio si metteva di traverso, non è che gli altri partiti si stracciassero le vesti perché non si chiedevano i soldi agli allevatori. Poco importa se l’inerzia dettata dal tornaconto politico caricava sulla collettività un peso finanziario immane e il rischio di una sanzione europea salatissima. Pagheranno i contribuenti, come sempre. Anche perché per questo genere di faccende, a differenza di quanto spesso accade qui, la prescrizione non opera. Solo che questa volta il destino ha giocato uno scherzo beffardo, facendo scattare il deferimento quando è in carica un governo che quelle multe si è mostrato deciso a farle pagare. Il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, secondo cui il segretario leghista Matteo Salvini ora dovrebbe mettersi una felpa con su scritto «scusa», dice che in questi giorni sono partite le cartelle indirizzate a 1.300 allevatori che dovrebbero all’erario 832 milioni. Altri 507 milioni sono invece incagliati nella solita giungla di ricorsi: e lì allarga le braccia. Ma temiamo che non basti per impietosire Bruxelles. Meglio prepararsi al peggio.

ANTROPOLOGIA CRIMINALE ED I PREGIUDIZI DELLA SINISTRA.

I pregiudizi che si alimentano a sinistra.

Cosa sono i radical chic? Si chiede Luca Sofri su “Il Post”. In teoria non "sono": abbiamo trasformato noi un'espressione inventata da Tom Wolfe nel 1970 e che ormai è usata lontanissimo dal suo senso. Nella rituale e un po’ ammuffita terminologia del dibattito pubblico italiano prospera da decenni con minore o maggiore frequenza l’espressione “radical chic”, usata prevalentemente in modo offensivo e dispregiativo, per indicare la presunta incoerenza di persone che si dicono politicamente di sinistra ma hanno redditi maggiori di quelli che un luogo comune anacronistico attribuirebbe ai militanti di sinistra. Proprio perché il termine è usato quasi sempre per polemica e con intenzioni aggressive, la coerenza del suo uso non è di solito rilevante: è diventato un insulto come un altro. Ma la sua storia è interessante, così come quella della nebbia semantica in cui è poi finito ora che viene usato spesso a caso e per mille cose diverse tra loro. Il termine “Radical chic” è formato dalla parola inglese “radical” – che vuol dire “radicale” nel senso dell’intensità dell’attivismo e degli obiettivi politici – e da quella francese “chic”, “raffinato”. Nella definizione del dizionario Treccani è sia un aggettivo che un sostantivo, e indica: «che o chi per moda o convenienza, professa idee anticonformistiche e tendenze politiche radicali». L’Oxford Dictionary precisa (in inglese “radical chic” è un concetto, non una persona): si tratta «dell’ostentazione», molto alla moda, di idee e visioni «radicali e di sinistra». Radicale, per moda. Wikipedia esplicita un terzo elemento: al concetto di “radical chic” è associata anche la ricchezza. Il “radical chic” appartiene «alla ricca borghesia» o proviene «dalla classe media» e «per seguire la moda, per esibizionismo o per inconfessati interessi personali, ostenta idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale (come il comunismo) o comunque opposte al suo vero ceto di appartenenza». Spiegazione che si può sbrigativamente riassumere nella frase “fai il comunista con il maglione di cachemire” (sinistra in cachemire è una delle diverse varianti usate per concetti simili, come gauche-caviar o champagne socialist). La versione inglese di Wikipedia dice che il “radical chic” è un esponente della società, dell’alta società e della mondanità impegnato a dare di sé un’immagine basata su due pratiche: da una parte quella di definire sé stesso attraverso la fedeltà e l’impegno ad una causa, dall’altra a esibire questa fedeltà perché quella stessa causa è alla moda e qualcosa di cui si preoccupa (anche tra i ricchi). Per il termine “Champagne socialist” Wikipedia spiega una cosa uguale e simmetrica: non un ricco che si atteggia artificiosamente a persona di sinistra, ma uno di sinistra che è ricco e ha abitudini da ricco in contraddizione con i suoi pensieri. Nell’uso comune, in italiano, “radical chic” è usato per definire entrambi i casi. L’introduzione della definizione di “radical chic” viene attribuita storicamente allo scrittore e giornalista americano Tom Wolfe che sul New York Magazine del giugno 1970 pubblicò un lunghissimo articolo intitolato “Radical Chic, That Party at Lenny’s”. Wolfe fece un resoconto del ricevimento che qualche mese prima Felicia Bernstein, moglie del compositore e direttore d’orchestra Leonard, organizzò per raccogliere fondi a sostegno del gruppo rivoluzionario delle «Pantere nere». La festa si svolse a casa dei Bernstein, in un attico su Park Avenue, a Manhattan. Erano presenti molte personalità che provenivano dal mondo della cultura e dello spettacolo newyorchese e i camerieri in livrea (camerieri bianchi per non offendere gli ospiti afroamericani) servivano tartine al Roquefort. Dopo una breve introduzione, la prima parte del racconto di Tom Wolfe inizia così: «Mmmmmmmmmmmmmmmm». Sedici lettere, un’onomatopea per esprimere l’aria di appagamento che circolava in quella serata, ma anche che cosa Wolfe intendesse per “radical chic”: una specie di corrente, di moda, di milieu, un matrimonio pubblico molto ridicolo tra la buona coscienza progressista delle classi più ricche e la politica di strada, un corto circuito in cui alcuni rischiavano davvero, per le loro idee, e altri invece non rischiavano niente e in cui c’era l’illusione di una collaborazione e contaminazione tra diversi mondi e diverse classi sociali. La serata fu molto criticata: un editoriale del New York Times sostenne che aveva offeso e arrecato danno a quei neri e a quei bianchi che «lavorano seriamente per la completa uguaglianza e la giustizia sociale», Felicia Bernstein rispose pubblicamente difendendo la sua festa. Fatto sta che il termine usato da Wolfe per descrivere l’atteggiamento dei Bernstein si diffuse ben presto in tutto il mondo, e in Italia si radicò ancora più che altrove e prese a indicare, in maniera inesatta, una persona o un atteggiamento, diventando anche aggettivo. L’espressione fu ripresa sul Corriere della Sera il 21 marzo del 1972 da Indro Montanelli in un famoso articolo intitolato “Lettera a Camilla” e rivolto a Camilla Cederna, la giornalista italiana che si era occupata della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato dalla questura di Milano dove si trovava accusato innocente dell’attentato di Piazza Fontana nel 1969. Montanelli descrisse Cederna così. «C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza [...]. Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. Che dopo aver tanto frequentato il mondo delle contesse, tu abbia optato per quello degli anarchici, o meglio abbia cercato di miscelarli, facendo anche del povero Pinelli un personaggio della café society, non mi stupisce: gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci. Una droga». Montanelli, con la sua sgradevole descrizione contribuì già allora in realtà a far scivolare il concetto originario di “radical chic” verso la confusione condivisa che sta oggi intorno a questa espressione. Che rapidamente fu fatta propria da chi a destra voleva accusare qualcuno di sinistra di scarsa coerenza e successivamente adottata nelle polemiche interne alla sinistra quando il mondo cominciò a cambiare e gli elettori di sinistra smisero di essere prevalentemente “proletariato” in senso stretto. Negli ultimi anni, con lo sviluppo di maggiori contraddizioni nella sinistra italiana di fronte a grossi cambiamenti, ma anche legata a tradizioni radicate, l’accusa è tornata a essere usata molto proprio a sinistra come contraltare di tutti i richiami alla “vicinanza al territorio”, “ai problemi della gente”, stimolata dai fallimenti delle dirigenze politiche della sinistra in questo periodo. E un generale antintellettualismo in grande crescita è stato un altro fattore che ha alleato nell’uso del termine sia leader della sinistra radicale che politici e stampa di destra, per attaccare da parti opposte gli esponenti della sinistra più riformista. Così oggi “radicalscìc” è diventato un insulto di uso comunissimo e destinato a persone dai redditi più vari e dalle posizioni più articolate. Con la contraddizione che oggi i principali destinatari dell’epiteto sono persone che hanno posizioni niente affatto radicali, anzi sono gli oppositori della sinistra radicale: l’uso più convincente del termine negli anni passati è stato quello destinato a Fausto Bertinotti, un uomo in effetti elegante e di modi garbati, coi pullover di cachemire e posizioni di estrema sinistra; mentre quando lo si dice per esempio a persone come Matteo Renzi, per niente radical e nemmeno straordinariamente chic, il senso è definitivamente stravolto.

E una carrellata di alcune espressioni di Radical-chic li troviamo nella  puntata del 26 febbraio 2015-02-27 di Virus condotto da Nicola Porro. Dal minuto 51:

“Ma vi rendete conto che siete impresentabili?” Lucia Annunziata 17 marzo 2013 intervistando Angelino Alfano;

“Se Berlusconi vince vivremo nell’Italia dell’abuso. Un giorno ho definito Forza Italia il partito di quelli che vogliono parcheggiare in seconda fila.” Romano Prodi 7 aprile 2006;

“Berlusconi ottiene ancora 10 milioni di voti . E di chi sono questi voti? O di gente che aspetta ancora di vedere volare gli asino, cioè gonzi. O che si aspetta di ottenere qualcosa da chi può offrirgli molto, cioè i furbi”. Eugenio Scalfari maggio 2013;

“Che senso ha parlare a questi elettori di offshore? Che senso ha parlare a questi elettori quando ignorano anche il titolo di molti giornali italiani e non sanno di che tendenza siano. E salendo in treno comperano indifferentemente una rivista di destra o di sinistra purche’ ci sia un sedere in copertina”. Umberto Eco 2001;

“La maggior parte dei votanti del PDL sono persone con scarso livello di istruzione. Persone con titolo di studio medio o medio-basso. Persone disinteressate o disinformate, che attingono le loro informazioni dalla televisione e soprattutto dalle tre reti Mediaset”. Piero Ignazi 7 maggio 2008;

“Il voto di scambio è, a mio parere, la forza più grande di quella parte politica”. Roberto Saviano 10 dicembre 2012;

“Il pubblico ideale di Porro è il ceto medio non riflessivo”. Aldo Grasso 20 settembre 2014.

Evadere sarà roba di destra ma gli evasori sono di sinistra. Visco spara sui moderati, ma dovrebbe guardare in casa propria. In quanti hanno avuto guai con le tasse, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. «Le tasse servono a finanziare i servizi pubblici e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». L'ex ministro dell'economia, Vincenzo Visco, in un'intervista concessa a Virus giovedì scorso, ha riproposto la propria personale teoria sociologica (che poi è la stessa di tutti coloro che hanno il cuore a sinistra e il portafogli dall'altra parte): «l'evasione è di destra». Senza se e senza ma, per Bacco. A sentir queste parole parrebbe di capire che la propensione a evadere sia un correlato genetico dell'uomo di destra. Esempio fulgido ne sarebbero i veneti. «Un popolo per natura antistatalista», ebbe a dire nel 2007 l'inventore del Grande Fratello fiscale che ficca il naso nel nostro conto in banca e in tutte i meandri della nostra vita. Ma il social-moralismo di Visco e dei suoi fans è una brutta bestia: l'etica e l'estetica (come la fisica) si fondano su schemi e tesi soggettive che l'esperienza spesso si incarica di smentire. E questo è il caso del nostro ex ministro che ha parlato proprio nel giorno nel quale a Gino Paoli è stata contestata una presunta evasione fiscale di 800mila euro per aver trasferito 2 milioni di euro in Svizzera senza dichiararlo. Le ironie sul web si sono sprecate (tipo «Il cielo in una banca, quattro amici al bar e due milioni in Svizzera») nei confronti dell'attuale presidente della Siae nonché ex deputato Pci che poi s'è giustificato pure affermando «alle feste dell'Unità ero costretto a prendere i soldi in nero» e, dunque, voleva rimpatriare i capitali non scudati in maniera regolare. Ecco, basterebbe già questo forse per dimostrare che un'icona della musica italiana e santino della sinistra (come tutta la scuola cantautorale genovese) non sia poi moralmente e geneticamente diverso da tutti gli altri. Però, se si analizzano alcuni fatti di cronaca più o meno recenti, non è che nelle citazioni si ritrovino solo personaggi con la tessera di Forza Italia o della Lega Nord negli elenchi, come Visco vorrebbe darci a intendere. Tornando indietro di qualche giorno, nelle dichiarazioni dell'inventore del Premio Grinzane Cavour, Giuliano Soria, emerge uno spaccato non proprio edificante del rapporto tra sinistra politico-intellettuale e il vil danaro. «Ho sostenuto l'allora sindaco Sergio Chiamparino in due occasioni», ha dichiarato ai giudici della Corte d'Appello aggiungendo che la ex presidente della Regione Mercedes Bresso «lo usava per le sue attività». Soldi per tutti giornalisti, attori e artisti. «Corrado Augias, era assillante sui pagamenti in nero: era vorace», ha aggiunto specificando che «partivo per Stresa con 100mila euro per gli attori», tra i quali viene citata Stefania Sandrelli, oltre che ex compagna di Gino Paoli nonché attiva partecipante ad alcune iniziative di Ds e Margherita. Tutti coloro che sono stati citati da Soria hanno respinto al mittente le accuse definendole calunnie. Sarà il magistrato a stabilire e ad accertare. Ma non si può non rilevare come il governatore piemontese, Sergio Chiamparino, abbia una storia tutta interna alla sinistra. E così pure per Corrado Augias che ogni giorno su Repubblica offre ai lettori la sua Weltanschauung. A proposito di Repubblica . Al gruppo Espresso, del quale è presidente la tessera numero uno del Pd Carlo de Benedetti, è stata contestata una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Un po' troppo per un editore che in tutti questi anni ha imputato a Silvio Berlusconi di aver corrotto la morale degli italiani. Ma, si sa, in Italia c'è chi è «inagibile» e chi invece ha la fortuna di battere strade meno impervie. Eppure per lanciare una fatwa bisognerebbe essere sopraffini esegeti, ma probabilmente nei testi sacri dell'Ingegnere manca qualche pagina. Idem per il direttore del quotidiano di Largo Fochetti, Ezio Mauro, «pizzicato» qualche anno fa a pagare parzialmente in nero (circostanza mai smentita) un immobile a Roma. Anche il noto giornalista utilizza spesso toni moraleggianti. Più che di etica della sinistra si potrebbe parlare di etica luterana. Pecca fortiter sed crede fortius , diceva l'eretico tedesco, ossia «Pecca fortemente, ma credi con ancora maggior vigore». Basta strologare sulla destra e si è perdonati. Qualche atto di contrizione in più dovrà recitarlo l'ex governatore sardo ed europarlamentare piddino, Renato Soru, alias Mister Tiscali. All'imprenditore, in quanto presidente del gruppo tlc, è stata attribuita una presunta evasione su un'operazione di prestito con una controllata britannica. Il dibattimento inizia il 6 marzo, ma intanto sul buon Soru pende una cartella Equitalia da 9 milioni dopo aver disatteso un accordo con il fisco. Lo dicevamo all'inizio, essere di «sinistra» in Italia è come avere uno speciale passaporto per l'oblio di tutto ciò che non è bellezza, rigore, solidarietà, misura, amore per il prossimo, impegno. Vale per Lorenzo «Jovanotti» Cherubini, referente ideologico del veltronismo che nel 1999 patteggiò una condanna per il reato di frode fiscale con un'ammenda di 1,2 milioni di vecchie lire: meno di 600 euro per chiuderla con un'omessa dichiarazione di circa ventimila euro. «Io lo so che non sono solo anche quando sono solo». Chissà se l'avrà cantata anche Pierino Tulli, imprenditore romano a capo di un gruppo di cooperative al quale è stata contestata 7una maxievasione da 1,7 miliardi. E dire che Veltroni lo voleva presidente della Lazio al posto di Claudio Lotito.

Da Bandiera rossa ai fondi neri, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. La Guardia di finanza ha appurato, dicono, che Gino Paoli ha portato in Svizzera due milioni di euro: evasione fiscale della più bella specie. In parte queste entrate occultate a Lugano, ripetono, si riferiscono a pagamenti in nero per esibizioni alle Feste dell'Unità. La nostra solidarietà va a Gino Paoli e alle Feste dell'Unità. Perché? Lo ha spiegato giovedì sera a Virus , intervistato da Nicola Porro, Vincenzo Visco, il famoso ministro delle Finanze di Romano Prodi. Ha detto Visco: «L'evasione fiscale è chiaramente di destra, perché le tasse servono a finanziare i servizi pubblici, e su questi temi la sinistra è chiaramente più sensibile». Chiaramente, il ragionamento non fa una grinza, anzi un Grinzane. Per questo solidarizziamo: Gino Paoli e il giornale fondato da Antonio Gramsci, con relativa festa, sono dei nostri, quinte colonne in territorio nemico, pronti a sacrificarsi agli ideali dell'evasione fiscale, che com'è notorio sono la nostra bandiera, espressione della nostra civiltà. Avevo a dire il vero già vissuto un'esperienza personalmente molto istruttiva un paio di decenni fa, andando per una sera a bere birra al Leonkavallo, il centro sociale guidato allora dal mio quasi omonimo Daniele Farina, attuale deputato anti-evasione di Sel. La bionda era buona, la scura meno, ma con il cavolo che vidi l'ombra di uno scontrino fiscale. Sono cose borghesi. Imparai allora una legge molto semplice e che è confermata dalle testimonianze di questi giorni: l'evasione fiscale è di destra, per dirla come Visco, «chiaramente di destra», ma gli evasori sono chiaramente di sinistra. Sono arrivato a maturare l'idea che sia una perfida astuzia dei (...)(...) compagni. Si noti: l'evasione di Gino Paoli e della Festa dell'Unità è del 2008. Chi andò allora al governo? Berlusconi. Dunque una forma di lotta politica antiberlusconiana poteva benissimo essere quella di incrementare l'evasione fiscale per darne la colpa a Silvio. Questa è pura dialettica marxista. O forse, andando alle purissime origini del marxismo-leninismo, bisogna risalire alla fase svizzera del bolscevismo. Quando Parvus e Stalin, al tempo in cui Lenin risiedeva lì, accumularono fondi neri per la rivoluzione nei forzieri delle banche di Zurigo, grazie a rapine, grassazioni finanziarie e matrimoni con ricche ereditiere. Così forse Gino Paoli, di cui si ricorda l'esperienza di deputato comunista, naturalmente indipendente. Esperienza che lo ha accomunato a Corrado Augias, ora anche lui - sia chiaro, da presunto innocente - accusato di essere golosissimo di prebende in nero dall'organizzatore del premio Grinzane-Cavour. Il rosso ama molto il nero, specie se è un artista, ed è una buona premessa per la riconciliazione nazionale. Ci resta una domanda. Chi sono stati, dagli anni dei Ds a quelli del Pd e fino al 2008 (anno del presunto transito di talleri da Genova alla Svizzera), i direttori dell' Unità la quale dava il suo bel nome alle sobrie feste dove girava allegro il nero tra le bandiere rosse? Ce ne sono tre: Furio Colombo fino al 2004, poi Antonio Padellaro fino ad agosto del 2008, quindi Concita De Gregorio. Idea: siete giornalisti ancora più famosi di allora. Mettete su una bella inchiesta su come si è costruito e occultato il falso in bilancio, sfruttando come testimonial le vostre facce di certo pulitissime? Domandatevi come mai quello che secondo Gino Paoli era un sistema a cui era impossibile sottrarsi è invece sfuggito persino al fiuto sgamatissimo dei vostri reporter così abili a prendersela con gli idraulici, i commercianti e i piccoli imprenditori. Un mito intoccabile, le Feste dell'Unità. Quando dopo la fine dei Ds e la nascita del Pd qualcuno minacciò di sopprimerle, cambiandone il nome, intervenne proprio Antonio Padellaro. Scrisse un memorabile panegirico in difesa della loro purezza, condita proletariamente di grasso e sudore colanti da salsicce e da militanti. Dopo aver ovviamente citato come minimo un premio Nobel, nel nostro caso per la precisione Elias Canetti, sentenziò: «Le Feste dell'Unità sono le Feste dell'Unità». Una delle poche verità, si suppone, apparse su quelle pagine dalla fondazione gramsciana. Aggiunse che non si può «cancellare qualcosa che resta comunque nel cuore di milioni di persone». Qualcosa resta nel cuore di milioni di persone; qualche milione resta nel conto svizzero di alcuni più persone degli altri. Ecco, Visco parla anche di falso in bilancio a Virus . Sostiene che «era preoccupatissimo fino all'altro ieri», ma poi con «l'allentamento del Patto del Nazareno» è più tranquillo. In che senso, scusi? Qualcuno lo informi: evasione è ideale di destra, ma falso ed evasione sono pratiche di sinistra. La morale? Come scrisse Montanelli: «Ho conosciuto molti mascalzoni che non erano moralisti, ma non ho mai conosciuto un moralista che non fosse un mascalzone».

Lello Liguori a Virus: "Vi dico come Grillo guadagnava in nero". Imbarazzo in casa 5 Stelle. Liguori racconta tutto a Virus: "Per uno spettacolo da 70 milioni ne prendeva 10 con un assegno e 60 in nero. I soldi li ho consegnati a lui personalmente", scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. "Ho pagato Grillo per i suoi spettacoli, voleva i soldi in nero". A puntare il dito contro il comico e leader del Movimento Cinque Stelle è Lello Liguori, un impresario, che intervistato da Virus, il talk di Nicola Porro su Rai Due, ha deciso di raccontare la sua verità. "Io ho dato 300 milioni di lire a Beppe Grillo in nero, me l'ha chiesto lui, cinque spettacoli se li è fatti pagare in nero". E ancora: "Io con Grillo ho trattato direttamente quando non lo conosceva nessuno e l'ho fatto conoscere come cabarettista. Con lui all'inizio si facevano 10-20 milioni. Poi crescendo anche 70 milioni di lire a serata". A questo punto Liguori parla dei metodi di pagamento: "Gli davo dieci milioni in assegno e 60 milioni in nero. Io i soldi li ho dati a lui. 54 milioni a Milano li ho consegnati nelle sue mani e disse pure voglio 10 milioni in più altrimenti non faccio lo spettacolo. Lo abbiamo strattonato un pò perché era nervoso. Poi si è convinto e ha fatto lo spettacolo. Lo fanno tutti, ma molte persone sono oneste come Aldo, Giovanni e Giacomo, o magari Crozza e tanti altri. Dieci chiedevano e dieci avevano con tanto di fattura. Grillo era invece tra quelli che preferiva il pagamento in nero". Le dichiarazioni di Liguori di certo faranno discutere e hanno suscitato qualche imbarazzo in casa 5 Stelle. Chissà se qualcuno avrà voglia di indagare su quanto dichiarato da Liguori e accertare se Grillo ha davvero preso dei compensi in nero...

La doppia morale (sinistra) sul fisco. Da una parte sbandiera la purezza, dall’altra inciampa nei guai con l’erario Ecco l’album dei «perfetti»: da De Benedetti a Sabina Guzzanti a Riondino, scrive Pietro De Leo su “Il Tempo”. A leggerlo quasi cinquant’anni dopo, appare come un piccolo inno etico il testo di una canzonetta, che Umberto Eco compose negli anni sessanta per l’amico cabarettista Franco Nebbia. Faceva così: «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me (…) hai dichiarato il reddito come pareva a te (…) hai finanziato anche le destre storiche». In poche strofe, si condensavano gli autoincensamenti morali di cui la sinistra si è cosparsa il capo per anni. Da sempre, infatti, c’è stata una legge prevalente a quella dei codici ed è quella dei luoghi comuni e dei tabù culturali. L’estetica del Quarto Stato, infatti, non si può sposare con chi «chi trasferisce i capitali in Svizzera» o anche chi è in odore di evasore fiscale. E poco importa se poi, magari, le montagne partoriscono topolini o, ancor peggio, flatulenze. La legge morale è legge morale. Solo che spesso la purezza è un boomerang, ti arriva addosso e può far molto male. Lo vediamo in questi giorni, scorrendo la cosiddetta Lista Falciani, composta dagli intestatari dei conti della banca Hsbc. In quella lista sono finiti due volti noti della sinistra italiana. Il primo è Pippo Civati, che appartiene all’opposizione interna al Pd, noto per le sue posizioni intransigenti in termini di giustizia. L’altro è Davide Serra, che non è un politico, ma un finanziere, ma appartiene lo stesso all’argenteria del Pd renziano, essendo amico e finanziatore del leader. Oltre che nel cast delle kermesse della Leopolda. Ora, se il semplice fatto di finire in una lista come quella, di per sé non vuol dire nulla, che ne è del tribunale morale della sinistra? Un tribunale che, è bene ricordarlo, quanto a indulgenza domestica non fa invidia nemmeno alle monarchie assolute. Implacabile con i nemici, chiude gli occhi quando si tratta dell’album di famiglia. Dove troviamo molti altri casi. A partire da Carlo De Benedetti, finito nei guai per una presunta evasione fiscale da 225 milioni di euro. Il 25 maggio 2012, quando fu condannato in appello dal tribunale tributario del Lazio, il portavoce ne diffuse la posizione sulla sentenza, definita «irricevibile, manifestamente infondata e palesemente illegittima». Parola di editore di Repubblica, la Bibbia del giustizialismo antiberlusconiano e del dogma delle sentenze che non si possono commentare (quelle degli altri). E ancora, Daniele Luttazzi. Tra i protagonisti di quella stagione luminosa del girotondismo, dove primeggiava il trio dei martiri perseguitati dal feroce dittatore di Arcore: Biagi, Santoro e appunto lui, Luttazzi. Eroi civili senza macchia e senza paura. Però qualche mese fa su Luttazzi si sono accesi i fari della procura di Civitavecchia in merito ad una presunta evasione di 140 mila euro di Irpef. Sempre nel mondo dello spettacolo, va ricordato il caso di Sabina Guzzanti e David Riondino. Anche loro colonne di quella comicità «de sinistra» che rimanda agli anni d’oro dell’Ambra Jovinelli. Entrambi, finirono nelle grinfie di Gianfranco Lande, meglio noto come il Madoff dei Parioli condannato di recente a 7 anni in Cassazione. Secondo le ricostruzioni della Procura, Lande e i suoi accoliti avevano truffato investitori in buona fede creando un «articolato e sofisticato meccanismo truffaldino che ha consentito di gestire un portafoglio stimabile in un ammontare non inferiore a 300 milioni di euro, investito in parte in obbligazioni, fondi di investimento creati ad hoc, strumenti derivati e liquidità negli stati delle Bahamas, del Lussemburgo, della Gran Bretagna e del Belgio, fuori dal circuito dei controlli legali». Tra i clienti vip, c’erano appunto anche Riondino e la Guzzanti. Parti lese, certo. Ma che avevano affidato i loro risparmi ad un «mago della finanza» nella speranza di plusvalenze a seguito di investimento all’estero. Tra l’altro, parlando della vicenda a Radio 24, proprio Riondino ammise: «sono un evasore pentito, me ne dispiaccio. Questo denaro, scudato nel 2009, per una decina d’anni ha prodotto un presunto guadagno sul quale sarebbe stato doveroso pagare allo Stato il 12% di tasse». E il tribunale morale robespierriano? Chiuso per ferie. Come lo è anche nel caso di Renato Soru, ora europarlamentare del Pd, sotto processo per una presunta evasione fiscale di svariati milioni di euro. E come lo è, infine, nel caso di Alessandro Profumo, Presidente della Monte dei Paschi di Siena, anche lui caro al Pd. Lo scorso 22 gennaio la Procura di Roma ha rinnovato nei confronti suoi, in quanto ex ad Unicredit, di altri 16 manager dello stesso istituto e di tre di Barclays, la richiesta di un processo in relazione ad una presunta frode fiscale di 245 milioni di euro. «Hai trasferito i capitali in Svizzera per me. Non potrò dimenticarlo mai», faceva quella canzone. Non è esatto. In qualche caso, si può far anche finta di non vedere.

PERCHE’ L’EVASORE LA FA FRANCA?

Perché l’evasore la fa franca. Processi affidati a dilettanti. Che impiegano anni per decidere su cause che potrebbero portare all’erario 52 miliardi di euro, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. La lotta alla grande evasione fiscale rischia di fermarsi in tribunale. Un tribunale molto speciale, formato in maggioranza da privati. Pagati pochissimo: 26 euro lordi a sentenza. Ed esposti a gravi tentazioni. Perché le loro decisioni valgono una fortuna: più di 52 miliardi di euro, in teoria. In pratica, l’erario incasserà molto meno. Perché nei processi fiscali, in sei casi su dieci, lo Stato perde. Mentre la nostra Costituzione stabilisce che «tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge», per cui le persone nella stessa situazione dovrebbero essere giudicate allo stesso modo, la giustizia tributaria è un ramo del diritto dove regna l’incertezza. Al caos fiscale non sfugge la lista Falciani, l’ormai famoso archivio della banca Hsbc di Ginevra, con i nomi di 7.499 italiani con il conto in Svizzera. La lista, consegnata dal tecnico Hervé Falciani ai magistrati spagnoli e francesi, è stata trasmessa alle autorità italiane nel 2009. Da allora la Guardia di Finanza ha concluso oltre 3.200 ispezioni. Ma lo Stato finora ha riscosso solo 30 milioni. In Spagna, per fare un confronto, l’evasore più ricco ha dovuto sborsare da solo oltre 200 milioni. In Italia invece ben 1.246 clienti della Hsbc hanno annientato ogni accusa grazie allo scudo fiscale varato nel 2009-2010 dal governo di Silvio Berlusconi e Giulio Tremonti: hanno sanato 1,7 miliardi di nero versando appena 83 milioni. E per tutti gli altri, quelli che non hanno pagato neppure quel condono, finora il fisco ha potuto soltanto minacciare super-multe, che verranno applicate solo se e quando lo Stato avrà vinto i processi tributari. Il primo problema è la durata di queste cause: in media passano 1.558 giorni tra primo e secondo grado, che diventano otto anni con il verdetto finale della Cassazione. Solo nell’aprile 2015, ad esempio, la nostra Corte Suprema pronuncerà la prima sentenza definitiva nel processo numero uno (il più veloce) sulla lista Falciani, avviato nel 2009 contro un giocatore professionista di poker con 41 mila dollari in Svizzera. Il verdetto della Cassazione è destinato a fare scuola per tutti gli altri clienti della Hsbc, che avevano depositi complessivi per 7,5 miliardi: la lista Falciani è utilizzabile dal fisco come prova? A questa domanda, che si ripete identica in tutti i processi, i giudici di primo e secondo grado hanno finora dato risposte contraddittorie. Tutto dipende dalla posizione geografica. Gli evasori di Genova, Pisa, Treviso o Verbania sono stati stangati. Chi abita a Pinerolo, Como o Avellino, invece, ha stravinto: lista inutilizzabile, fisco sconfitto. L’incertezza e quindi l’imprevedibilità delle sentenze sulle tasse, secondo alcuni economisti, è uno dei problemi strutturali che tengono lontani gli investimenti stranieri. «In Italia i processi fiscali vengono decisi da giudici part-time, non professionisti», lamentano gli studiosi Giuseppe e Nicola Persico in un recente articolo su “lavoce.info”, «e solo in Cassazione da giudici specializzati, ma oberati da cause di modesto valore». I ricorsi contro il fisco, infatti, non vengono decisi dai normali tribunali, ma da organi particolari. Si chiamano commissioni tributarie, provinciali (in primo grado) e regionali (in secondo), e sono formate da volontari, in maggioranza privati: avvocati, commercialisti, professori, funzionari in pensione, geometri, ragionieri, agronomi. Su un totale di 3.419 componenti, i magistrati professionisti sono 1.543. Gli altri 1.876 sono privati che fanno i giudici come secondo lavoro, nei ritagli di tempo, con paghe bassissime: in media tra 200 e 400 euro al mese. Eppure davanti alle commissioni pendono 570 mila processi, per un valore totale di 52,6 miliardi di euro. Affidare a privati sottopagati il potere di arbitrare cause milionarie è un sistema all’origine di infiniti scandali. L’ultima retata di giudici fiscali corrotti, a Bari, è partita da un’assurdità statistica: lo Stato perdeva il 98 per cento dei processi. Dagli affari privati di un giudice-geometra è nata, tra le tante, l’inchiesta sulla cosiddetta P3, che pilotava procedimenti a tutti i livelli. Nei fascicoli disciplinari del Consiglio di giustizia tributaria (una specie di Csm creato nel 1992), “l’Espresso” ha trovato casi di giudici tributari che erano contemporaneamente imputati di corruzione, bancarotta, prostituzione e, ironia della sorte, evasione fiscale. Per frenare il malcostume, negli ultimi anni il Consiglio ha radiato decine di avvocati e commercialisti che, mentre vestivano i panni di giudici imparziali, intascavano ricche parcelle dagli evasori, spesso attraverso mogli, amanti o soci di studio. Piercamillo Davigo Consapevoli di queste anomalie, autorevoli giudici propongono di cambiare sistema. «La mia opinione è che le commissioni andrebbero soppresse», spiega il magistrato Piercamillo Davigo, che fa anche il giudice tributario dal 1979: «Affidare i processi fiscali ai magistrati ordinari o amministrativi offrirebbe più garanzie sia allo Stato sia ai contribuenti onesti. Naturalmente c’è il solito problema: per non paralizzare i tribunali già oberati di cause, bisognerebbe fare i concorsi e assumere nuovi magistrati». L’attuale sistema delle commissioni aggrava anche le disuguaglianze economiche: gli evasori più ricchi possono pagarsi avvocati e consulenti in grado di schiacciare i funzionari che rappresentano lo Stato; mentre i contribuenti tartassati da un fisco forte con i deboli rischiano di non potersi permettere una difesa decente. Uno squilibrio aggravato dal «contributo unificato», imposto dall’ex ministro Tremonti per ridurre il numero di cause minori o inutili: nel 2014 sono stati presentati “solo” 181 mila ricorsi, 21 mila in meno del 2013. Secondo Davigo e altri giuristi, però, «invece di tassare chi chiede giustizia, forse sarebbe più sensato colpire con sentenze rapide e severe chi fa ricorsi pretestuosi». Altri giudici, pur confermando i limiti delle commissioni, difendono «un sistema che sta migliorando». Il magistrato milanese Gaetano Santamaria, già presidente del Consiglio di giustizia tributaria, spiega che «gli abusi vanno stroncati, ma sarebbe sbagliato buttare via i collegi misti: anche nei processi ordinari, se c’è un minimo di complessità tecnica, i giudici si affidano alle perizie, cioè a privati lautamente remunerati. La commissione tributaria invece ha già al suo interno il revisore dei conti che sa leggere i bilanci, il ragioniere che fa gli estimi, il geometra che conosce i dati catastali...». Fatto sta che, con tutti questi giudici privati, lo Stato perde. Secondo uno studio del “Sole24Ore” sulle sentenze emesse dalle commissioni provinciali tra il 1996 e il 2010, il fisco ha vinto solo quattro processi su dieci: l’accusa di evasione è stata cancellata totalmente in quasi due milioni di cause (45 per cento del totale), parzialmente in altre 642 mila (15 per cento). «Ma il vero problema è se le sentenze sono giuste o sbagliate», replica Santamaria: «Il calcolo va fatto sulle decisioni annullate in Cassazione: nei processi civili sono il 33,5 per cento, in quelli tributari il 33. Quindi le commissioni sbagliano come i giudici ordinari, anzi un po’ meno». Ma perché in 60 casi su cento ha torto lo Stato? Con queste percentuali, nei processi in corso il fisco rischia di perdere più di 31 miliardi. «Alcuni uffici fiscali reclamano tasse esagerate o non dovute, costringendoci ad annullamenti sistematici», risponde Santamaria. «E spesso lo Stato non sa difendersi neppure quando avrebbe ragione». Su questo concorda anche Davigo: «Succede che il funzionario non si presenta, o porta il fascicolo sbagliato, o non parla perché era un caso seguito da un collega. Per fortuna, nei centri più importanti, ora l’amministrazione sta creando veri uffici legali, dove lavorano molti giovani preparati, anche se spesso precari». In attesa delle riforme annunciate dal governo Renzi, che prevedono ad esempio un solo giudice per le cause di minor valore, il sistema resta caratterizzato da sentenze discutibili e contrastanti. Per tornare alla lista Falciani, alcuni verdetti l’hanno dichiarata «inutilizzabile» in quanto «sottratta illegalmente violando il segreto bancario svizzero». Per altri invece vale, perché è autentica e fu trasmessa ai magistrati di Torino con tutti i crismi delle rogatorie. A risolvere l’incertezza sarà la Cassazione con la sentenzaspartiacque di metà aprile. Come anticipato da “l’Espresso”, il fisco ha grandi probabilità di vittoria: il giudice incaricato di proporre la sentenza-pilota ai colleghi, infatti, ha spiegato nella relazione ufficiale che pagare le tasse è un «inderogabile dovere costituzionale», che vale più della privacy dei presunti evasori. Mentre il segreto bancario svizzero in Italia non esiste. Per cui il fisco può usare la lista Falciani «anche come unica prova». Una tesi in linea con la giustizia europea: la Corte Costituzionale tedesca, il 9 novembre 2010, aveva convalidato la «lista di Vaduz», cioè un altro elenco di evasori che fu comprato nel 2007 dai servizi segreti tedeschi. E poi usato perfino dalla Svizzera, ovviamente contro i propri evasori. In Italia invece pochissimi dei 394 clienti della banca di Vaduz hanno avuto problemi con la giustizia. E alcuni fortunati hanno già dribblato anche la lista Falciani: il 4 ottobre 2011 un giudice di Pinerolo, poi imitato da altri, non si è limitato ad assolvere un accusato di evasione, ma ha ordinato addirittura la «distruzione» della sua fetta di lista. Comunque decida la Cassazione, dunque, per il plotone dei miracolati sulla scia di Pinerolo la prova non c’è più. «In Italia c’è un’evasione che non ha paragoni nel mondo civile e non è vero che sia impossibile ridurla», conclude Davigo: «Basterebbe applicare a tutti le leggi antimafia, che permettono di confiscare le ricchezze sproporzionate rispetto ai redditi dichiarati». Un esempio pratico? «Se un tizio che si dichiara nullatenente viene fermato su una Ferrari, lo si fa scendere gentilmente. E la Ferrari se la tiene la Guardia di Finanza». 

SPECULAZIONE E BANCHE: ECONOMIA CHE UCCIDE.

Papa Francesco contro le banche e la speculazione: "Questa economia uccide", scrive “Libero Quotidiano”. Una lunga intervista rilasciata da Papa Francesco a ottobre 2014, pubblicata oggi su La Stampa, che anticipa così parte del libro Papa Francesco. Questa economia uccide, il volume sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi. Un libro che fin dal titolo esprime il pensiero del Pontefice, che punta il dito contro il sistema economico occidentale, contro le banche, contro la speculazione.  Bergoglio muove la sua accusa contro un intero sistema senza troppi giri di parole, come nel passaggio in cui afferma: "Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria - spiega il Papa - non possono godere di un'autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo". La povertà resta il primo dei pensieri di Bergoglio, che aggiunge: "Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all'altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo estendere questa richiesta anche all'essere in pace con i nostri fratelli poveri". Nella lunga intervista, Francesco risponde anche a chi lo accusa di marxismo, e spiega: "Questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un'invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia".

Intervista a Papa Francesco: “Avere cura di chi è povero non è comunismo, è Vangelo”. Il Pontefice: “Il Nuovo Testamento non condanna i ricchi, ma l’idolatria della ricchezza. Il nostro sistema si mantiene con la cultura dello scarto, così crescono disparità e povertà”. Jorge Mario Bergoglio, 78 anni, è diventato Papa con il nome di Francesco il 13 marzo del 2013, Scrivono Andrea Tornielli e Giacomo Galeazzi su “La Stampa”.

Anticipiamo uno stralcio di «Papa Francesco. Questa economia uccide», il libro sul magistero sociale di Bergoglio scritto da Andrea Tornielli, coordinatore di «Vatican Insider», e Giacomo Galeazzi, vaticanista de «La Stampa». Il volume raccoglie e analizza i discorsi, i documenti e gli interventi di Francesco su povertà, immigrazione, giustizia sociale, salvaguardia del creato. E mette a confronto esperti di economia, finanza e dottrina sociale della Chiesa - tra questi il professor Stefano Zamagni e il banchiere Ettore Gotti Tedeschi - raccontando anche le reazioni che certe prese di posizione del Pontefice hanno suscitato. Il libro si conclude con un’intervista che Francesco ha rilasciato agli autori all’inizio di ottobre 2014. «Marxista», «comunista» e «pauperista»: le parole di Francesco sulla povertà e sulla giustizia sociale, i suoi frequenti richiami all’attenzione verso i bisognosi, gli hanno attirato critiche e anche accuse talvolta espresse con durezza e sarcasmo. Come vive tutto questo Papa Bergoglio? Perché il tema della povertà è stato così presente nel suo magistero?

Santità, il capitalismo come lo stiamo vivendo negli ultimi decenni è, secondo lei, un sistema in qualche modo irreversibile?

«Non saprei come rispondere a questa domanda. Riconosco che la globalizzazione ha aiutato molte persone a sollevarsi dalla povertà, ma ne ha condannate tante altre a morire di fame. È vero che in termini assoluti è cresciuta la ricchezza mondiale, ma sono anche aumentate le disparità e sono sorte nuove povertà. Quello che noto è che questo sistema si mantiene con quella cultura dello scarto, della quale ho già parlato varie volte. C’è una politica, una sociologia, e anche un atteggiamento dello scarto. Quando al centro del sistema non c’è più l’uomo ma il denaro, quando il denaro diventa un idolo, gli uomini e le donne sono ridotti a semplici strumenti di un sistema sociale ed economico caratterizzato, anzi dominato da profondi squilibri. E così si “scarta” quello che non serve a questa logica: è quell’atteggiamento che scarta i bambini e gli anziani, e che ora colpisce anche i giovani. Mi ha impressionato apprendere che nei Paesi sviluppati ci sono tanti milioni di giovani al di sotto dei 25 anni che non hanno lavoro. Li ho chiamati i giovani “né-né”, perché non studiano né lavorano: non studiano perché non hanno possibilità di farlo, non lavorano perché manca il lavoro. Ma vorrei anche ricordare quella cultura dello scarto che porta a rifiutare i bambini anche con l’aborto. Mi colpiscono i tassi di natalità così bassi qui in Italia: così si perde il legame con il futuro. Come pure la cultura dello scarto porta all’eutanasia nascosta degli anziani, che vengono abbandonati. Invece di essere considerati come la nostra memoria, il legame con il nostro passato è una risorsa di saggezza per il presente. A volte mi chiedo: quale sarà il prossimo scarto? Dobbiamo fermarci in tempo. Fermiamoci, per favore! E dunque, per cercare di rispondere alla domanda, direi: non consideriamo questo stato di cose come irreversibile, non rassegniamoci. Cerchiamo di costruire una società e un’economia dove l’uomo e il suo bene, e non il denaro, siano al centro».

Un cambiamento, una maggiore attenzione alla giustizia sociale può avvenire grazie a più etica nell’economia oppure è giusto ipotizzare anche cambiamenti strutturali al sistema?

«Innanzitutto è bene ricordare che c’è bisogno di etica nell’economia, e c’è bisogno di etica anche nella politica. Più volte vari capi di Stato e leader politici che ho potuto incontrare dopo la mia elezione a vescovo di Roma mi hanno parlato di questo. Hanno detto: voi leader religiosi dovete aiutarci, darci delle indicazioni etiche. Sì, il pastore può fare i suoi richiami, ma sono convinto che ci sia bisogno, come ricordava Benedetto XVI nell’enciclica “Caritas in veritate”, di uomini e donne con le braccia alzate verso Dio per pregarlo, consapevoli che l’amore e la condivisione da cui deriva l’autentico sviluppo, non sono un prodotto delle nostre mani, ma un dono da chiedere. E al tempo stesso sono convinto che ci sia bisogno che questi uomini e queste donne si impegnino, ad ogni livello, nella società, nella politica, nelle istituzioni e nell’economia, mettendo al centro il bene comune. Non possiamo più aspettare a risolvere le cause strutturali della povertà, per guarire le nostre società da una malattia che può solo portare verso nuove crisi. I mercati e la speculazione finanziaria non possono godere di un’autonomia assoluta. Senza una soluzione ai problemi dei poveri non risolveremo i problemi del mondo. Servono programmi, meccanismi e processi orientati a una migliore distribuzione delle risorse, alla creazione di lavoro, alla promozione integrale di chi è escluso».

Perché le parole forti e profetiche di Pio XI nell’enciclica Quadragesimo Anno contro l’imperialismo internazionale del denaro, oggi suonano per molti – anche cattolici – esagerate e radicali?

«Pio XI sembra esagerato a coloro che si sentono colpiti dalle sue parole, punti sul vivo dalle sue profetiche denunce. Ma il Papa non era esagerato, aveva detto la verità dopo la crisi economico-finanziaria del 1929, e da buon alpinista vedeva le cose come stavano, sapeva guardare lontano. Temo che gli esagerati siano piuttosto coloro che ancora oggi si sentono chiamati in causa dai richiami di Pio XI...».

Restano ancora valide le pagine della “Populorum progressio” nelle quali si dice che la proprietà privata non è un diritto assoluto ma è subordinata al bene comune, e quelle del catechismo di San Pio X che elenca tra i peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio l’opprimere i poveri e il defraudare della giusta mercede gli operai?

«Non solo sono affermazioni ancora valide, ma più il tempo passa e più trovo che siano comprovate dall’esperienza».

Hanno colpito molti le sue parole sui poveri «carne di Cristo». La disturba l’accusa di «pauperismo»?

«Prima che arrivasse Francesco d’Assisi c’erano i “pauperisti”, nel Medio Evo ci sono state molte correnti pauperistiche. Il pauperismo è una caricatura del Vangelo e della stessa povertà. Invece san Francesco ci ha aiutato a scoprire il legame profondo tra la povertà e il cammino evangelico. Gesù afferma che non si possono servire due padroni, Dio e la ricchezza. È pauperismo? Gesù ci dice qual è il “protocollo” sulla base del quale noi saremo giudicati, è quello che leggiamo nel capitolo 25 del Vangelo di Matteo: ho avuto fame, ho avuto sete, sono stato in carcere, ero malato, ero nudo e mi avete aiutato, vestito, visitato, vi siete presi cura di me. Ogni volta che facciamo questo a un nostro fratello, lo facciamo a Gesù. Avere cura del nostro prossimo: di chi è povero, di chi soffre nel corpo nello spirito, di chi è nel bisogno. Questa è la pietra di paragone. È pauperismo? No, è Vangelo. La povertà allontana dall’idolatria, dal sentirci autosufficienti. Zaccheo, dopo aver incrociato lo sguardo misericordioso di Gesù, ha donato la metà dei suoi averi ai poveri. Quello del Vangelo è un messaggio rivolto a tutti, il Vangelo non condanna i ricchi ma l’idolatria della ricchezza, quell’idolatria che rende insensibili al grido del povero. Gesù ha detto che prima di offrire il nostro dono davanti all’altare dobbiamo riconciliarci con il nostro fratello per essere in pace con lui. Credo che possiamo, per analogia, estendere questa richiesta anche all’essere in pace con questi fratelli poveri».

Lei ha sottolineato la continuità con la tradizione della Chiesa in questa attenzione ai poveri. Può fare qualche esempio in questo senso?

«Un mese prima di aprire il Concilio Ecumenico Vaticano II, Papa Giovanni XXIII disse: “La Chiesa si presenta quale è e vuole essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri”. Negli anni successivi la scelta preferenziale per i poveri è entrata nei documenti del magistero. Qualcuno potrebbe pensare a una novità, mentre invece si tratta di un’attenzione che ha la sua origine nel Vangelo ed è documentata già nei primi secoli di cristianesimo. Se ripetessi alcuni brani delle omelie dei primi Padri della Chiesa, del II o del III secolo, su come si debbano trattare i poveri, ci sarebbe qualcuno ad accusarmi che la mia è un’omelia marxista. “Non è del tuo avere che tu fai dono al povero; tu non fai che rendergli ciò che gli appartiene. Poiché è quel che è dato in comune per l’uso di tutti, ciò che tu ti annetti. La terra è data a tutti, e non solamente ai ricchi”. Sono parole di sant’Ambrogio, servite a Papa Paolo VI per affermare, nella “Populorum progressio”, che la proprietà privata non costituisce per alcuno un diritto incondizionato e assoluto, e che nessuno è autorizzato a riservare a suo uso esclusivo ciò che supera il suo bisogno, quando gli altri mancano del necessario. San Giovanni Crisostomo affermava: “Non condividere i propri beni con i poveri significa derubarli e privarli della vita. I beni che possediamo non sono nostri, ma loro”. (...) Come si può vedere, questa attenzione per i poveri è nel Vangelo, ed è nella tradizione della Chiesa, non è un’invenzione del comunismo e non bisogna ideologizzarla, come alcune volte è accaduto nel corso della storia. La Chiesa quando invita a vincere quella che ho chiamato la “globalizzazione dell’indifferenza” è lontana da qualunque interesse politico e da qualunque ideologia: mossa unicamente dalle parole di Gesù vuole offrire il suo contributo alla costruzione di un mondo dove ci si custodisca l’un l’altro e ci si prenda cura l’uno dell’altro».

SINISTRA ED IDEOLOGIA: L'ECONOMIA CHE UCCIDE.

La Salva Silvio salva anche i banchieri. E Renzi perde consenso. Si allunga la lista dei beneficiari inconsapevoli del decreto fiscale. Oltre Berlusconi, la manina aiuterebbe anche i grandi banchieri, partendo da Passera e Profumo. Il governo dovrà riscrivere gran parte del decreto. E rimediare ai danni di reputazione, scrive Luca Sappino su “L’Espresso”. La prima settimana dell’anno per Matteo Renzi è stata un disastro. La polemica sul volo di Stato per la settimana bianca, per una sciata senza casco (come immortalato prontamente da Chi), ma soprattutto il codicillo Salva Silvio, con il mistero della manina che l’ha fatto comparire, con una dinamica ancora tutta da chiarire, nel decreto sul fisco approvato prima di Natale. Respinta al mittente la richiesta delle opposizioni, di Giuseppe Civati e del senatore Massimo Mucchetti di riferire alle camere («Gli atti del consiglio dei ministri non sono oggetto di informativa» ha sentenziato Maria Elena Boschi), l’episodio avrà ancora i suoi strascichi. In parte sulla reputazione del governo, in parte sul destino stesso del decreto, che è stato congelato ma che dovrà esser riscritto, secondo il premier dopo il voto per la successione al Quirinale. Una settimana pessima, insomma, fatta finire in anticipo solo dalle tragedie francesi, dagli attenti e dalle sparatorie e dal terrorismo che hanno giustamente cambiato l’agenda dei giornali. I danni però ci sono, o almeno così sostengono i sondaggisti. Danni al governo, e non al Pd, che tiene e anzi sale in alcune rilevazioni. Renato Mannheimer dice che «con gli scivoloni dell’ultima settimana il premier e il governo perdono tra i quattro e i cinque punti». Roberto Weber di Swg conferma: «Più che il volo di Stato è la non chiarezza sulla episodio di Berlusconi a determinare l’erosione. Come fatti in sé, e in relazione ai dati dell’economia. Nel senso che mentre il dibattito è monopolizzato dalla questioni tipo salva Berlusconi, il cittadino vede i dati della disoccupazione, quelli dell’Istat, gli indicatori economici e la sfiducia aumenta». Matteo Renzi cerca chi ha scritto il salva-Silvio, la minoranza dem riprende vigoreDel Salva Silvio però bisognerà parlare ancora. Il governo potrà anche non chiarire la genesi dell’articolo 19 bis, che introduce la soglia di non punibilità per l’evasione, senza escludere neanche la frode, e che quindi avrebbe “graziato” Silvio Berlusconi, ma del merito bisognerà comunque discutere. Come bisognerà discutere di un’altra aggiunta fatta last minute al decreto e che riguarda il comma 4 dell’articolo 4 che depenalizza le dichiarazioni fraudolente. Per alcuni critici sarebbe un regalo ai grandi banchieri, che quindi non lasciano solo Silvio Berlusconi nell’elenco dei beneficiari inconsapevoli della riforma. Tra i nomi, i classici Alessandro Profumo e Corrado Passera, coinvolti nelle partite di titoli derivati. La lista che si allunga di possibili beneficiari, poi, fa crescere in parlamento l’idea che sul decreto sul fisco il governo abbia per così dire accettato molti suggerimenti esterni, consigli estranei al ministero dell’economia, i cui tecnici non riconoscono la paternità, ma estranei anche all’ufficio legislativo di palazzo Chigi diretto dall'ex capo dei vigili fiorentini Antonella Manzione, almeno per quanto riguarda il processo creativo, perché la fedelissima di Renzi non è certo nota per le competenze in materia fiscale.

Salva Silvio, Pier Luigi Bersani attacca Renzi: "Più sincerità e chiarezza". «Matteo dà da bere agli ubriachi» è la metafora di Bersani sugli evasori e la soglia di non punibilità del 3 per cento introdotta dal governo. E Mucchetti (Pd) chiede che il premier riferisca in aula sul mistero della “manina”, continua Luca Sappino su “L’Espresso”. Non servono molte parole a Pier Luigi Bersani per fulminare Matteo Renzi sulla vicenda del decreto sul fisco, quello del pasticcio dell’articolo 19 bis, che alza la soglia di tolleranza per la frode fiscale, ed è ormai noto come il codicillo “Salva Berlusconi”. «Renzi parla tanto di proporzionalità per l'evasione fiscale, ma mi pare che il senso sia che chi ha di più può evadere di più», aveva detto già ieri l’ex segretario, a margine della riunione dei deputati del Pd, alludendo al fatto che l’articolo non interessa solo a Silvio Berlusconi, ma anche e soprattutto i grandi gruppi industriali che quel 3 per cento lo potrebbero applicare a bilanci molto ricchi. Per Eni, ad esempio la soglia di non punibilità penale si tradurrebbe, secondo i calcoli fatti dal Sole 24 ore e da Libero, in 419 milioni di euro, per Enel in 216, Unicredit 130, Telecom 16 milioni, e così via. A "L’aria che tira", su La7, Bersani ha però detto di più: «Ci vogliono più sincerità e chiarezza. Il modo per uscire da questa situazione non è aspettare il 20 febbraio, ma affrontare subito il decreto nel prossimo consiglio dei ministri e togliere quella parte del 3 per cento». Così la voce più forte della minoranza del Pd critica la scelta del premier che vorrebbe invece congelare il testo fino a dopo l’elezione del presidente della Repubblica, compiendo una forzatura delle procedure che vorrebbero l’atto approvato dal governo nelle disponibilità del Parlamento che è sovrano, entro i trenta giorni, nel determinare il calendario per arrivare alla valutazione e al suggerimento di eventuali correzioni. Questa è infatti la strada che propone la minoranza dem: Renzi lasci fare al Parlamento, raccolga le note e poi modifichi questo stesso testo. Il tutto molto prima del 20 febbraio. Il premier però preferisce fare a modo suo anche perché così, evidentemente, riesce a tenere sotto pressione Silvio Berlusconi e a tenere più ordinati i voti di Forza Italia, fondamentali nella delicata partita del Quirinale. Bersani continua il suo attacco: «Renzi ha dato un messaggio a un pezzo di Italia con quel 3 per cento: essere leggeri sul tema fiscale è come dare da bere agli ubriachi. Il punto è che concetto abbiamo di fedeltà fiscale in questo benedetto Paese. Renzi si è preso la responsabilità del decreto, la manina è la mia ha detto e ha risolto, ma io non riesco a fargli i complimenti». Ancora: «A Renzi voglio chiedere: abbiamo inventato l'evasione in proporzione? Non esiste in nessun posto al mondo una cosa così. La frode fiscale è un reato in tutto il mondo...». Bersani poi invita a non gridare al complotto degli antiberlusconiani: «Tiriamo via il riconoscimento della frode come hanno chiesto anche le associazioni degli imprenditori», nota l’ex segretario, «e non dimentichiamoci che la cosa l'ha tirata fuori il Sole 24 ore», e non qualche ex girotondino. Bersani, che evidentemente ha letto bene il giornale economico, dice anche un’altra cosa: «C'è da ripulire altro nel decreto...» aggiunge riferendosi agli altri punti controversi del testo prodotto dal governo. Oltre alla soglia percentuale di non punibilità sul reddito aziendale, infatti, c’è da rivedere, ad esempio, la depenalizzazione dell’emissione di false fatture sotto i mille euro, e l’aumento del limite da 50 mila a 150 mila per la dichiarazione infedele. Anche per questo, per Bersani, potrebbe non esser un cattiva idea che Renzi sia chiamato dalle Camera a riferire sulla vicenda della manina e di come sia stato scritto il decreto votato nel consiglio dei ministri del 24 dicembre. «Certo non guasterebbe» dice l’ex segretario. La richiesta è stata avanzata da Massimo Mucchetti, senatore dem, intervenuto in aula a titolo personale, come ha subito precisato il renziano Tonini. Per Mucchetti, Renzi dovrebbe spiegare «quale testo è stato licenziato dal Ministero; quale testo è arrivato in Consiglio dei ministri e, se ci sono state modifiche, chi le ha apportate; se in Consiglio dei ministri c'è stato dibattito, e chi è intervenuto nel dibattito; quale testo, infine è stato varato e come, in base a quali procedure, è stato poi ritirato». Il dubbio è che si sia potuta essere sì «una centralizzazione delle decisioni politiche in capo al Consiglio dei ministri, ma che poi le decisioni collegiali siano state modificate in modo monocratico, il che pone un problema di governance democratico». E sì, sarebbe forse coerente con il carattere del premier, ma non proprio gradito dalla Costituzione. La proposta è stata salutata con favore dal Movimento 5 stelle, dalla Lega e da Sinistra Ecologia Libertà. «Mi associo a Mucchetti» ha detto poi Pippo Civati, ormai lontanissimo dal governo, che oggi ha presentato con Sel una proposta per inserire il conflitto di interessi nella Costituzione: «Secondo me parla a nome di tutti gli elettori del Pd e del centrosinistra che si chiedono come siano andate le cose. Altro che manina, è una manona ed è un fatto di estrema gravità».

Visco e il club delle manette. Le colpe di Visco e della Orlandi in un impasto velenoso fatto di antiberlusconismo e voglia di colpire Renzi e le imprese, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Questa storia delle depenalizzazioni fiscali che rischia di affondare proprio non ci va giù. La delega votata dal Consiglio dei ministri è inciampata nella franchigia del tre per cento. Si è attivato un impasto velenoso fatto di tre ingredienti principali: lo sperimentato antiberlusconismo mediatico, la chance per la sinistra Pd di dare una bottarella al proprio segretario e cioè Renzi, e l'ideologia antimpresa per la quale le tasse sono belle e i privati evasori. Si rischia così di buttare a mare un passo avanti in materia fiscale e penale. Il circuito dei soliti ha funzionato alla grande. La vera manina da cui è partito tutto è quella dell'ex ministro Visco: in questo caso molto visibile e pubblicata sul blog laVoce.info. Intorno a lui la cortina politica della sinistra Pd e dei suoi vecchi assistenti, a partire da Fassina. In fila i burocrati che con il Pci di un tempo e con Visco poi si sono formati. E poi l'Agenzia delle entrate: ha giocato la sua moral suasion (e qualcosa di più), con la tosta Rossella Orlandi, che dalla scuola dura e pura di Visco arriva. In un primo tempo la vicenda non è stata ben capita anche da Confindustria: in fondo fu proprio il giornale della Confindustria, in un editoriale, a celebrare l'arrivo della Orlandi. Ma la buona stampa per questo nobile circoletto di manettari (burocrati che ben vedono le manette anche per errori od omissioni fiscali) non si ferma qua. Corriere e Repubblica (quest'ultima per riflesso condizionato) fanno il resto. I maligni insinuano che non c'è praticamente azionista del Corsera immune da un problemuccio fiscale e che il direttore, in uscita, abbia voluto dare l'ennesimo segno della sua indipendenza. Molto più probabile che a contare siano stati piuttosto gli storici rapporti con la Procura di Bruti Liberati. Non è un mistero che il grande esperto di reati finanziari (risalito dopo le vicissitudini kafkiane di Robledo) e anima del nuovo costoso scudo fiscale e cioè Francesco Greco non veda di buon occhio le depenalizzazioni. Purtroppo questo club continua ad alimentare un'ideologia antimpresa che deprime investimenti e sviluppo. Si è ormai formata una giurisprudenza, un corpo di norme e consuetudini, e una classe burocratica che (spesso in buona fede e ciò è anche peggio) picchia su chi fa impresa e ha una partita Iva come su un tamburo. Come negli anni '70 i pretori del lavoro hanno contribuito a distruggere un sano rapporto di relazioni industriali e attraverso le loro interpretazioni giurisprudenziali hanno reso lo Statuto dei lavoratori una camicia di forza, così oggi la magistratura sembra essersi assunta la responsabilità storica (e forse ideologica) di combattere con ogni mezzo e ultra petita l'evasione fiscale. Per chi pensa che la nostra sia una deformazione basta sottoporsi quotidianamente alla lettura del pregevole (è detto senza ironia) bollettino dell'Agenzia delle entrate (fate però uno sforzo, voi di Fisco oggi , di scrivere anche per noi umani). Vi citiamo solo due numeri recenti. Solo pochi giorni fa l'austera pubblicazione riportava una sentenza della Cassazione di dicembre. Sentite cosa scrivono: «La sentenza 52038/2014 ha confermato che, per l'omesso versamento delle ritenute certificate, la crisi dell'impresa non scrimina il reato. A tal fine, né l'aver ritenuto di privilegiare il pagamento delle retribuzioni dei dipendenti né l'aver dovuto pagare i debiti ai fornitori e neppure la mancata riscossione di crediti vantati e documentati sono situazioni - anche se provate - idonee a integrare lo stato di necessità e, dunque, a escludere il dolo». Ve la facciamo semplice: se un imprenditore dimostra di essere senza una lira perché non lo hanno pagato o perché ha preferito corrispondere gli stipendi ai propri dipendenti e non versa i contributi entro 60 giorni per una cifra annuale superiore a 50mila euro, rischia la galera. Il bollettino è ancora più chiaro: «Rafforzando la linea interpretativa più severa, la Corte di cassazione, con la sentenza 52038/2014, ha spiegato come siano rari i casi in cui la crisi di liquidità scrimina il reato e quindi che è punibile per evasione fiscale l'imprenditore nonostante il mancato versamento dipenda da uno choc finanziario dell'azienda». Senza pietà. Prima si paga lo Stato e poi i dipendenti e fornitori. Sia chiaro, qua nessuno chiede di girarsi dall'altra parte e fischiettare se un imprenditore non versa i contributi. Sono infatti previste sanzioni e interessi. Si dice solo che forse la galera in questi casi non ha senso. La sentenza della Cassazione è stata pubblicata proprio mentre tutto il circoletto dei manettari si lamentava dell'indulgenza governativa in merito ai reati fiscali. Di esempi ne potremmo fare altri centomila. Ci preme ricordare un'altra decisione di queste settimane. Una leggina (benedetta) aveva previsto che quando la Guardia di finanza si presentava in azienda non potesse bloccarvi per più di trenta giorni (Articolo 12 del disatteso Statuto dei contribuenti). Una verifica che fosse durata più di un mese avrebbe reso nullo l'accertamento. Una tagliola niente male. Con un'ordinanza di novembre la Corte suprema ha deciso che il termine è ordinatorio e non perentorio. Sapete cosa vuol dire? Che siete fottuti. Dovrebbero rimanere in azienda o nei vostri uffici non più di trenta giorni (peraltro non è necessario che siano consecutivi, altra assurdità), ma se invece ci mettono le tende non succede nulla. Niente di niente. Lo Stato vi prende per i fondelli. In termini perentori, mica ordinatori.

SINISTRA ED ISLAM: L'IDEOLOGIA CHE UCCIDE.

Falce e minareto: la predilezione della sinistra per gli islamici porta al suicidio della nostra civiltà, scrive il polemista polemologo di Giancarlo Matta. Falce e minareto: è un dato di fatto che la gente di sinistra (qui alludo principalmente ai politici dei vari ranghi) mostri una esagerata predilezione per gli islamici, contraddicendo pertanto i propri ideali, guadagnandosi il giustificato disprezzo di coloro che ragionano (anche tra i suoi elettori), e non di rado anche coprendosi di ridicolo. E probabilmente anche scavandosi la fossa (se non in senso immediatamente letterale - almeno per ora -, quanto meno in senso politico) con le proprie mani. Voglio segnalare in proposito, alcuni esempi e comportamenti persistenti:

-le Amministrazioni Locali prevalentemente di sinistra (le quali dovrebbero essere atee…), che concedono agli islamici per lo più gratuitamente o quasi, immobili per la realizzazione di moschee;

-gli Istituti Scolastici Pubblici prevalentemente diretti da persone ideologicamente di sinistra, che inibiscono le tradizioni e le celebrazioni tipiche della nostra cultura per “non offendere” gli islamici;

-le Asl prevalentemente dirette dalla sinistra, che tollerano le illecite pretese degli islamici di essere visitati da medici del sesso a loro gradito;

-gli impedimenti capziosi dei parlamentari di sinistra, alla emanazione di norme più severe di quelle peraltro esistenti (ma spesso disapplicate) in materia di abbigliamento “religioso” in luogo pubblico, nonostante le evidenti accresciute esigenze della pubblica sicurezza;

-le grottesche “reverenze” di politicanti di sinistra, porte agli islamici in occasione delle loro festività, con la concessione di spazi pubblici dove essi esigono illegittimamente la separazione fisica tra i due sessi, e addirittura vestendosi come loro;

-il perdurante silenzio delle “femministe” (ovviamente di sinistra) sulle violenze che gli islamici commettono verso le donne;

-la simpatia scomposta “a senso unico” manifestata da politicanti di sinistra verso le organizzazioni armate medio-orientali che combattono gli israeliani;

-la pelosa indifferenza dei politicanti di sinistra in materia di tutela dei minori, notoriamente spesso costretti a indossare determinati abbigliamenti e/o a rispettare determinati riti dannosi alla salute;

-l’omertà inammissibile dei politicanti di sinistra sulle alleanze dei nazisti con gli islamici, storicamente accertate;

-l’indegno riconoscimento della qualifica di “combattenti” conferito da politicanti di sinistra agli islamici terroristi che si suicidano per assassinare a tradimento civili indifesi, definendoli assurdamente “kamikaze” (mentre è storicamente noto come questi ultimi fossero dei veri militari che si sacrificavano combattendo solo contro altri militari);

-l’abdicazione tragicomica alle proprie funzioni di tutela dei lavoratori da parte dei sindacati di sinistra, in materia di igiene e sicurezza del lavoro quando a “lavorare” sono gli islamici;

-lo scriteriato incoraggiamento da parte di Amministratori Locali progressisti, delle iniziative di “nuoto islamico” = pratica che crea “disintegrazione” non certo “integrazione” nella nostra società.

-eccetera… .

Il fallimento epocale tanto del comunismo che dell’islamismo dovrebbero essere sufficientemente evidenti ovunque. Di fronte al fallimento di un “ideale” gabellato come nobile (il comunismo, la legge islamica), i rispettivi sostenitori puntano il dito contro l’elemento umano e non contro i loro ideali = “ci si deve impegnare di più, fare meglio… .” Tuttavia, a un certo punto, quando l’obiettivo mai è conseguito, e i disastri sono dinnanzi agli occhi di tutti, sarebbe logico e necessario incolpare quegli stessi ideali, e abbandonarli alla discarica della Storia. I “rossi” - comunque si chiamino - soffrono probabilmente della sindrome “cupio dissolvi”: ne consegue l’atteggiamento del “tanto peggio tanto meglio”. Gli islamici si rendono conto di essere in ritardo rispetto al resto del mondo in quasi tutti i settori dell’attività umana: una consapevolezza che è causa di disperazione e aggressività. Ambedue le forze rappresentano una minaccia per la Libertà in Italia, e in Occidente. Propongo sinteticamente un paragone storico (azzardato?): come la civiltà romana cadde -anche poiché indebolita al suo interno dal “cristianesimo”- per le aggressioni dei barbari dal nord, così la civiltà italiana rischia oggi di cadere -anche poiché indebolita al suo interno dal “comunismo”- per le aggressioni degli islamici dal Sud. L’ “amore” che molte persone ideologicamente di sinistra manifestano -con azioni e omissioni- per gli islamici (al di là dei comunque meschini interessi di “bassa corte” elettorale), “amore” al quale gli islamici replicano con odio malcelato, oltre che essere un importante punto debole da sfruttare a talento di chi combatte ambedue, è anche interessante materia di studio per psichiatri.

Nel blog Lux/ilcannocchiale ho trovato due pezzi molto interessanti che vi sottopongo e vi consiglio, se avete tempo, di visitarlo e leggere altre pubblicazioni, che sono certa troverete molto interessanti, scrive “Lisistrata”. Dal mio punto di vista sono riflessioni completamente condivisibili, ben articolate, approfondite e mai preconcette, ma analitiche e trattate con estrema intelligenza e lucidità: Perché la maggior parte della sinistra è affascinata e sta dalla parte dell'Islam. C’è una domanda che spesso mi tormenta e a cui fatico a dare una risposta: perché larga parte della sinistra sembra affascinata e spesso sta dalla parte dell’Islam? L’Islam (il termine significa “sottomissione”) è esattamente il contrario dei valori ai quali storicamente la sinistra fa riferimento; la sinistra si è sempre vantata di aver difeso gli ideali di progresso peccando semmai per eccesso e non per difetto; l’Islam è la negazione del progresso, di ogni progresso, sociale, politico, economico, scientifico. Diventa allora per me indispensabile porre alcune domande al “popolo” della sinistra.

Alle femministe (ma ce ne sono ancora? Me le ricordo bene in piazza a gridare: “è mia e me la gestisco io”) a tutti quelli, uomini e donne, che credono e si battono per la parità tra i sessi e per le pari opportunità, a chi ha condotto battaglie per il divorzio e per l’aborto dico: leggete un attimo:

Corano, IV Sura: Versetto 15: “Se le vostre donne avranno commesso azioni infami , portate contro di loro quattro testimoni dei vostri. E se essi testimonieranno, confinate quelle donne in una casa finché non sopraggiunga la morte o Allah apra loro una via d'uscita.”

Versetto 34: ”Gli uomini sono preposti alle donne, a causa della preferenza che Allah concede agli uni rispetto alle altre e perché spendono [per esse] i loro beni. Le [donne] virtuose sono le devote, che proteggono nel segreto quello che Allah ha preservato. Ammonite quelle di cui temete l'insubordinazione, lasciatele sole nei loro letti, battetele. Se poi vi obbediscono, non fate più nulla contro di esse. Allah è altissimo, grande”.

Sura II: Versetto 228: ”Le donne divorziate osservino un ritiro della durata di tre cicli, e non è loro permesso nascondere quello che Allah ha creato nei loro ventri, se credono in Allah e nell'Ultimo Giorno. E i loro sposi avranno priorità se, volendosi riconciliare, le riprenderanno durante questo periodo. Esse hanno diritti equivalenti ai loro doveri, in base alle buone consuetudini, ma gli uomini sono superiori. Allah è potente, è saggio.” Tale iman Mohammed Kamal Mustafa ha scritto pure un Vademecum sul modo di picchiare le mogli. E sapete di dov’è? Non si trova in Iran o in Iraq o in Pakistan, ma è consigliere della Federaciòn Espanola de Entidades Religiosas Islàmicas e l’esimio iman di Valencia, Abdul Majad Rejab, gli ha dato ragione sentenziando:”L’iman Mustafa è islamicamente corretto. Picchiare la moglie è una risorsa”, mentre l’iman di Barcellona, Abdelaziz Hazan, ha aggiunto:”L’iman Mustafa si limita a riferire ciò che è scritto nel Corano. Se non lo facesse, sarebbe un eretico”. E non stiamo parlando di terroristi, questo è l’Islam istituzionale delle moschee, è la parola di alcuni tra i più prestigiosi iman europei. Alle femministe, alle donne in genere quindi chiedo: tutto ciò non contrasta con la nostra Costituzione? La Costituzione Italiana non stabilisce l’uguaglianza tra i sessi? Non difende la libertà delle donne? Non vieta atti discriminatori? Non sostiene che i coniugi godono di uguali diritti e doveri? Avete mai fatto una manifestazione per i diritti delle donne islamiche? Non per quelle di Kabul, ma per quelle che abitano a Milano, Genova, Roma, Napoli. Oppure, perché non ne organizzate una a Rabat, o a Teheran, o a La Mecca, o a Medina, o a Damasco? Oppure i valori in cui credete non sono universali (neppure quelli della nostra Costituzione) e valgono sono per la nostra cultura? Parità tra i sessi, uguaglianza e dignità, divorzio e aborto non sono valori di “sinistra”? Allora chi li nega, chi li calpesta continuamente è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

Ai comunisti atei di una volta (ma ce n’è rimasto qualcuno?) quelli che si sarebbero mangiati i preti a colazione, quelli che il Papa non deve intromettersi, a questi mi permetto di ricordare quanto diceva Feuerbach:”La religione è l’infanzia dell’umanità. La gloria di Dio si fonda esclusivamente sull’abbassamento dell’uomo, la beatitudine divina solo sulla miseria umana, la divina sapienza solo sull’umana follia, la potenza divina solo sulla debolezza umana”. E Marx rincarava la dose: “La religione è il gemito della creatura oppressa, l’anima di un mondo senza cuore, così com’è lo spirito di una condizione di vita priva di spiritualità. Essa è l’oppio per il popolo. La critica della religione è dunque, in germe, la critica della valle di lacrime di cui la religione è l’aureola sacra.” A loro dunque chiedo: non è forse l’Islam un potentissimo narcotico delle masse? Il sintomo di una condizione umana e sociale alienata? Il frutto di una società malata? (sempre citando Marx) Oppure questi paradigmi sono valsi solo per la religione cristiana dell’800? Cosa ne pensate di una religione totalizzante che, di fatto, riconosce come unica legge suprema ciò che insegna il Corano, che aspira a teocratizzare ogni Stato? Ve li mangiate anche loro a colazione? Non insorgete? Perché domani potrebbero aspirare ad uno stato islamico italiano fondato sulla Sharia. Se abitaste in uno dei vari paesi islamici, come potreste far valere il vostro sacrosanto diritto a pretendere una legge fatta dagli uomini e per gli uomini? Vi siete mai chiesti che fine fareste? Non sentite ribollire il sangue nelle vene? E’ giusto che in molti paesi islamici le altre religioni siano discriminate? Fa parte della loro cultura e quindi va bene così? Dal Corano:

Versetto 85: “Chi vuole una religione diversa dall'Islàm, il suo culto non sarà accettato , e nell'altra vita sarà tra i perdenti.”

II Sura: Versetto 191: ”Uccideteli ovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.”

Sura IV: Versetto 84: ”Combatti dunque per la causa di Allah - sei responsabile solo di te stesso e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l'acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella Sua acrimonia, è più temibile nel Suo castigo.”

Versetto 89: “Vorrebbero che foste miscredenti come lo sono loro e allora sareste tutti uguali. Non sceglietevi amici tra loro, finché non emigrano per la causa di Allah. Ma se vi volgono le spalle, allora afferrateli e uccideteli ovunque li troviate.” Beh certo, se applicassimo a questi versetti un’analisi testuale e una critica ermeneutica anziché prenderli alla lettera, forse non sarebbero così devastanti. Peccato però che questo non avviene o qualcuno è al corrente di un Islam moderato che interpreta il Corano con un taglio laico e ammette la critica testuale? La libertà di professare la religione che si vuole e quindi anche di professarsi apertamente ateo è un valore di sinistra? Quindi chi lo calpesta è di destra? Quindi l’Islam è di destra?

E ancora: nei matrimoni misti, sapete darmi dei dati statistici su quale sia la percentuale relativa alla conversione alla fede cristiana del coniuge musulmano? E quale sia invece la percentuale opposta? Può un musulmano, liberamente, cambiare la sua religione e diventare cristiano? No, non può! E può una donna musulmana sposare un uomo di un’altra fede religiosa? NO, non può! Questo non è forse un atto discriminatorio? Considerare un’altra religione inferiore o addirittura da eliminare non è razzismo?
Ai ragazzi e alle ragazze dei centri sociali chiedo: ma se foste in un paese islamico, i vostri centri esisterebbero? Potreste andarci a bere una birra, farvi una canna, ascoltare un po’ di rock e, perché no, farvi una scopata? Perché non aprite un centro sociale in un qualsiasi paese islamico? E’ troppo “occidentale” aprire un centro sociale alternativo al modello “occidentale”? Se poi vi fanno storie, un po’ di sana disobbedienza civile. E che ci vuole, lo fate in tutta Europa non avrete certo timore a farlo là, o sì? La liberalizzazione delle droghe leggere non è forse un tema di sinistra? Ma come la pensano gli islamici in proposito? Essere contro le droghe leggere vuol dire essere di destra? Quindi l’Islam è di destra?

A tutti gli omosessuali, uomini e donne, di destra e di sinistra, chiedo: non vi pare un po’ troppo facile fare le manifestazioni a New York, a Londra, a Roma (sì, proprio dove c’è il Papa), a Parigi? Perché non farne una dove chi si dichiara omosessuale è veramente discriminato e rischia la vita o il carcere? Che so, a La Mecca (l’equivalente di Roma per i cristiani), al Cairo, a Teheran, nei territori palestinesi, perché non lottare per gli omosessuali arabi? E dei matrimoni tra omosessuali cosa ne pensano gli islamici? Avete mai provato a chiederglielo? Noi gli omosessuali dichiarati ce li abbiamo in parlamento e mi sembra giusto: avete conoscenza di qualche omosessuale che sieda in qualche parlamento di un qualsiasi stato islamico? (ma ci sono i parlamenti, lì?) Maometto, secondo la tradizione islamica, condannò l'omosessualità maschile: "Dio maledirà due volte chi commetterà il peccato di Lot". I giuristi più legati alle norme coraniche considerano che la sodomia debba essere trattata come la fornicazione e punita allo stesso modo. In molti paesi arabi è ancora prevista la pena di morte o il carcere per chi è sorpreso in atti omosessuali; in Palestina gli imam spesso emettono sentenze che scagionano un omicida che abbia ucciso un omosessuale. Secondo le antiche interpretazioni giuridiche della legge sacra, gli sposati non schiavi saranno messi a morte per lapidazione, mentre uno scapolo libero riceverà 100 frustate e sarà esiliato per un anno. Nelle sentenze che seguono i processi per sodomia appare tuttavia spesso l'accusa di "matrimonio tra uomini": questo, in riferimento alle antiche norme coraniche pare permetta ai giudici di condannare a morte anche degli omosessuali non sposati.

Quanto al lesbismo, pare che non sia esplicitamente considerato dalla legge islamica: secondo Maarten Schild, autore di "Sessualità ed erotismo maschile nelle società musulmane", il sesso tra donne è considerato in quanto "sesso fuori del matrimonio e quindi paragonabile all'adulterio", la pena tradizionale è sempre quindi la morte o le cento frustate. Abd al-Azim al Mitaani, sceicco e professore all'università religiosa di Al Azhar (Il Cairo), dice in un intervista riportata dal Manifesto del 25 ottobre 2001: "Per quanto riguarda la sodomia, la maggior parte dei dottori dell'Islam considera che sia l'attivo che il passivo devono essere messi a morte”. E precisano anche che se una bestia viene sodomizzata, l'uomo deve essere giustiziato e l'animale abbattuto. L'omosessualità è attualmente illegale in 26 paesi islamici: Afghanistan, Algeria, Bahrain, Bangladesh, Bosnia, Iran, Giordania, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Kuwait, Libano, Libia, Malesia, Mauritania, Marocco, Oman, Pakistan, Qatar, Arabia Saudita, Sudan, Siria, Tajikistan, Tunisia, Turkmenistan, Emirati Arabi uniti e Yemen. Tra questi, l'Iran, la Mauritania, l'Arabia Saudita, il Sudan e lo Yemen prevedono la pena di morte; il Pakistan prevede la fustigazione ed almeno due anni di carcere; in Malesia la pena arriva fino a 20 anni e negli Emirati Arabi fino a 14, mentre in Bangladesh e libia la pena è rispettivamente di 7 e 5 anni di carcere. L'Iran è comunque il paese più zelante nel reprimere l'omosessualità: dal 1980, quando i fondamentalisti hanno preso il potere sotto la guida dell'Ayatollah Khomeini, oltre 4000 gay e lesbiche sono stati giustiziati, stando a quanto riferisce il gruppo in esilio per i diritti dei gay, Homan.

Se questi temi sono di “sinistra”, allora chi nega tutto questo e non solo a parole, ma con la violenza, è di destra? O no? Allora l’Islam è di destra? E di quella peggiore?

A tutti i laici (e io sono tale), a quelli che sostengono che lo Stato e la religione devono restare separati, cosa ne pensate delle teocrazie? La teocrazia è la negazione della democrazia, o no? E’ vero o no che nessun paese islamico ha sottoscritto presso l’ONU la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo? E’ vero o no che nei paesi islamici la Sharia è l’unico riferimento per ciò che riguarda i diritti umani? Avete mai provato a chiedere a un islamico cosa ne pensa, ad esempio, di Dante Alighieri che ha messo Maometto all’inferno, o di Voltaire, o di Darwin e dell’evoluzionismo, o di Freud, o della psicanalisi, ecc.ecc.? Qual è il riferimento massimo, per un laico, che consente una convivenza democratica? Forse la Costituzione? E per un islamico? Forse il Corano e, di conseguenza, la Sharia? Avete mai provato a chiedere ad un islamico:”Ma se dovessi scegliere tra obbedire alla Costituzione del paese che ti ospita o a quello che ti comanda il Corano, come ti comporteresti? In caso di contrasto, a cosa dai la precedenza?” Beh, fatelo, chiedeteglielo!

Ai pacifisti senza ma e senza se, ai sostenitori di una società multiculturale, ai sostenitori dell’integrazione ad ogni costo, chiedo: ma siete sicuri che loro, gli islamici, vogliano integrarsi? Leggete per favore, il Corano punisce l’integrazione: Corano, III Sura: Versetto 12: “Di' ai miscredenti: " Presto sarete sconfitti. Sarete radunati nell'Inferno. Che infame giaciglio!".

Versetto 216: ”Vi è stato ordinato di combattere, anche se non lo gradite. Ebbene, è possibile che abbiate avversione per qualcosa che invece è un bene per voi, e può darsi che amiate una cosa che invece vi è nociva. Allah sa e voi non sapete.”

Sura IV: Versetto 74: ”Combattano dunque sul sentiero di Allah, coloro che barattano la vita terrena con l'altra. A chi combatte per la causa di Allah, sia ucciso o vittorioso ,daremo presto ricompensa immensa.”

Sura V: Versetto 33: ”La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al Suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi, che siano loro tagliate la mano e la gamba da lati opposti o che siano esiliati sulla terra: ecco l'ignominia che li toccherà in questa vita; nell'altra vita avranno castigo immenso”.

Visto che noi italiani abbiamo una crescita demografica pari a zero o poco più, mentre i musulmani che stanno qui si raddoppiano ad ogni generazione (un buon musulmano deve avere almeno 5 figli per moglie) cosa accadrà tra 50-80 anni? Cosa accadrà quando loro saranno il 50% della popolazione o forse di più? A questo, ci avete mai pensato? Cosa accadrà allora? Perché questa non è un’opinione, accadrà perché è una pura e semplice questione matematica. Se la democrazia rappresenta per loro più un mezzo piuttosto che un fine, cosa potrà accadere nel momento in cui saranno (o potranno essere) la maggioranza relativa della popolazione? Volete qualche dato: eccolo! .Considerando i regolari e gli irregolari, il numero di musulmani che vivono in Italia risulta essere stimato oltre il milione. In Europa il loro numero si attesta sui dieci milioni, ed è costantemente in aumento. Infatti, il numero dei neonati musulmani nella Comunità Europea ogni anno è pari al 10%; a Bruxelles arriva al 30% e a Marsiglia tocca il 60%. Sto esagerando? Sono paranoico? L’anno era il 1974, la sede l’Assemblea delle Nazioni Unite, il personaggio l’algerino Boumedienne: cosa disse? Ecco:”Un giorno milioni di uomini abbandoneranno l’emisfero sud per irrompere nell’emisfero nord. E non certo da amici. Perché vi irromperanno per conquistarlo. E lo conquisteranno popolandolo coi loro figli. Sarà il ventre delle nostre donne a darci la vittoria”. Recentemente in parlamento è stata votata una legge sacrosanta che tutela gli animali in quanto esseri “senzienti”, cioè capaci di provare dolore; a prendere a calci un cane si rischia il codice penale. Agli animalisti chiedo: ma la macellazione halal praticata dagli islamici che consiste nello sgozzare l’animale ancora vivo e lasciare che muoia dissanguato in una lenta agonia, vi sembra rispettosa di un essere “senziente”? Non avete nulla da dire? Nulla da obiettare? Cosa dicono i verdi animalisti? Se da un punto di vista antropologico il relativismo culturale è una teoria che ha solide radici teoriche (in pratica dice che ogni cultura elabora modalità diverse per rispondere agli stessi fondamentale bisogni, quindi ogni cultura ha la sua dignità e ogni azione, anche la più orrenda, se inserita nella cultura d’origine assume un suo significato) cosa accade quando una cultura “trasmigra” in un altro territorio dove c’è una cultura diversa? Insomma, semplificando, se ognuno a casa sua è libero di fare ciò che gli pare, cosa accade quando c’è chi lo vorrebbe fare a casa degli altri? Fin dove arriva il confine tra ciò che può concedere l’ospite al suo ospitato? Perché anche per i cannibali mangiare l’uomo è un fatto “culturalmente normale”, ma non per questo permetteremmo ad un cannibale di mangiarsi qualcuno a casa nostra. Il principio di reciprocità (io ti permetto di fare a casa mia ciò che tu mi permetti di fare a casa tua) può essere considerato una forma di valido compromesso? Alla fine ritorno alla domanda iniziale: cosa accomuna un militane della sinistra, un comunista, un ex-comunista, un laico all’Islam? Ad un iman? Ad un ayatollah? Agli ulema? Nulla…sembrerebbe…eppure…Tu l'hai capito perché la sinistra sta dalla parte dell'Islam? “Tu lo hai capito, Lei lo ha capito perché la Sinistra sta dalla parte dell’islam?” E tutti rispondevano:”Chiaro. La Sinistra è terzomondista, antiamericana, antisionista. L’Islam pure. Quindi nell’Islam vede ciò che i brigatisti chiamano il loro naturale alleato”. Oppure:”Semplice. Col crollo dell’URSS e il sorgere del capitalismo in Cina, la Sinistra ha perduto i suoi punti di riferimento. Ergo, si aggrappa all’Islam come a una ciambella di salvataggio”. Oppure:”Ovvio. In Europa il vero proletariato non esiste più, ed una Sinistra senza proletariato è come un bottegaio senza merce. Nel proletariato islamico la Sinistra trova la merce che non ha più, ossia un futuro serbatoio di voti da intascare”. Ma sebbene ogni risposta contenesse un’indiscutibile verità, nessuna teneva conto dei ragionamenti sui quali le mie domande si basavano. Così continuai a tormentarmi, a disperarmi, e ciò durò finché m’accorsi che le mie domande erano sbagliate. Erano sbagliate, anzitutto, perché nascevano da un residuo rispetto per la Sinistra che avevo conosciuto o creduto di conoscere da bambina. la Sinistra dei miei nonni, dei miei genitori, dei miei compagni morti, delle mie utopie infantili. La Sinistra che da mezzo secolo non esiste più. Erano sbagliate, inoltre perché nascevano dalla solitudine politica nella quale avevo sempre vissuto e che invano avevo sperato d’alleggerire cercando d’annaffiare il deserto proprio con chi lo aveva creato. Ma soprattutto erano domande sbagliate perché sbagliati erano  i ragionamenti o meglio i presupposti su cui esse si basavano. Primo presupposto, che la Sinistra fosse laica. No: pur essendo figlia del laicismo partorito dal liberalismo e quindi a lei non consono, la Sinistra non è laica. Sia che si vesta di nero sia che si vesta di rosso o di rosa o di verde o di bianco o d’arcobaleno, la Sinistra è confessionale. Ecclesiastica. Lo è in quanto deriva da un’ideologia che s’appella a Verità Assolute. a una parte il Bene e dall’altra il Male. Da una parte il Sol dell’Avvenir e dall’altra il buio pesto. Da una parte i suoi fedeli e dall’altra gli infedeli anzi i cani-infedeli.

La Sinistra è una Chiesa. E non una Chiesa simile alle Chiese uscite dal cristianesimo quindi in qualche modo aperte al libero arbitrio, bensì una Chiesa simile all’Islam.

Come l’Islam, infatti, si ritiene baciata da un Dio custode del Bene e della Verità.

Come l’Islam non riconosce mai le sue colpe e i suoi errori. Si ritiene infallibile non chiede mai scusa.

Come l‘Islam pretende un mondo a sua immagine e somiglianza, una società costruita sui versetti del suo profeta Karl Marx.

Come l’Islam schiavizza i suoi stessi fedeli, li intimidisce, li rincretinisce anche se sono intelligenti.

Come l’Islam non accetta che tu la pensi in modo diverso e se la pensi in modo diverso ti disprezza. Ti denigra, ti processa, ti punisce, e se il Corano ossia il Partito le ordina di fucilarti ti fucila.

Come l’Islam è illiberale, insomma. Autocratica, totalitaria, anche quando accetta il gioco della democrazia. Non a caso il 95% degli italiani convertiti all’Islam vengono dalla Sinistra o dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il 95% dei musulmani naturalizzati cittadini italiani, idem. (Il mascalzone che non vuole il crocefisso nelle scuole o negli ospedali e che ai suoi confratelli scrive Andate a morire con la Fallaci viene dall’Estrema Sinistra rosso-nera. Il suo compagno è stato addirittura in carcere per sospetta connivenza con le Brigate Rosse).

Come l’Islam, infine, la Sinistra è anti-occidentale. E il motivo per cui è anti-occidentale te lo dico con un brano del saggio che negli Anni Trenta il liberale austriaco Friedrich Hayek scrisse a proposito della Russia bolscevica e della Germania nazionalsocialista.

Ecco qua. “Qui non si abbandonano soltanto i principi di Adam Smith e di Hume, di Locke e di Milton. Qui si abbandonano  le caratteristiche più salde della civiltà sviluppatasi dai greci e dai romani e dal Cristianesimo, ossia della civiltà occidentale. Qui non si rinuncia soltanto al liberalismo del 1700 e del 1800, ossia al liberalismo che ha completato quella civiltà. Qui si rinuncia all’individualismo che grazie a Erasmo da Rotterdam, a Montagne, a Cicerone, a Tacito, a Pericle, a Tucidide, quella civiltà ha ereditato. L’individualismo, il concetto di individualismo, che attraverso gli insegnamenti fornitici dai filosofi dell’antichità classica poi dal Cristianesimo poi dal Rinascimento poi dall’Illuminismo ci ha reso ciò che siamo. Il socialismo si basa sul collettivismo. Il collettivismo nega l’individualismo.  E chiunque neghi l’individualismo nega la civiltà occidentale” Oriana Fallaci, “La forza della ragione” pp.221-225.

Sinistra e musulmani in piazza contro terrorismo e l'islamofobia. Migliaia in piazza Duomo a Milano contro il terrorismo. Ma anche per ribadire opposizione totale a una destra definita "razzista e portatrice di odio". Quasi che la responsabilità degli attentati fosse sua, scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Bandiere della pace, "Bella Ciao", falci e martelli. E poi Emergency, le Acli, No Tav e No Muos, curdi e attivisti pro Palestina. Tra i partecipanti alla manifestazione indetta oggi a Milano per condannare gli attentati contro Charlie Hebdo sfila il classico repertorio di sigle e movimenti della sinistra radical chic. Tra loro, un discreto numero di musulmani, molti giovani, qualche famiglia con bambini. Gli slogan sono quelli di sempre, a favore del multiculturalismo e dell'integrazione, contro la destra italiana definita "xenofoba" e "razzista". Cose già viste e riviste, oggi riproposte per l'ennesima volta in occasione della celebrazione delle vittime di Charlie Hebdo. Due le parole d'ordine: no al terrorismo e no al razzismo. Dei fondamentalisti il primo, della destra il secondo. Due parole d'ordine messe naturalmente in correlazione: il terrorismo che alimenta il razzismo è a sua volta, in parte, il prodotto di una politica intollerante e discriminatoria. Questa è la tesi soprattutto della sinistra, presente al gran completo a partire dagli alti gradi della giunta Pisapia (il sindaco non c'è, ma manda i suoi saluti): "nous sommes Charlie", prima di tutto. E poi passiamo a contrastare il pericolo verde-nero. Più diritti, più integrazione, più moschee: è questa la ricetta proposta per rispondere agli attentati di Parigi. Una ricetta che, per la verità, è la stessa degli ultimi quindici anni. A sinistra, i fatti degli ultimi giorni hanno cambiato poco, in termini di proposte. Più lineare la posizione dei musulmani (non moltissimi tra le migliaia di persone radunatisi all'ombra della Madonnina): i giovani di "Partecipazione e spiritualità musulmana" esibiscono cartelli con l'hashtag "non in mio nome". Rivendicano la differenza tra Islam e terrorismo, ma c'è anche chi non rinuncia all'idea di porre un limite alla satira, "quando offende la libertà e la sensibilità, soprattutto in campo religioso". Per il rappresentante legale del Caim (Coordinamento Associazioni Islamiche Milanesi) Reas Syed l'espressione "terrorismo islamico" è un ossimoro. Syed rivendica il messaggio di pace dell'Islam e ribadisce che le azioni di chi compie attentati in nome di Allah non siano attribuibili all'Islam tout-court. Tra la sinistra radicale, però, c'è anche chi identifica il problema con la destra e l'Islamofobia. "Salvini è la barbarie e questa piazza è la risposta alla barbarie - attacca il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero - La condanna del terrorismo è nettissima e bisogna sapere che chi semina odio lavora ad alimentare queste dinamiche". Parole dure, pronunciate in una piazza dove appena tre mesi fa il leader della Lega radunava centomila persone per dire no all'immigrazione clandestina, in quella che è stata la maggiore manifestazione della destra italiana degli ultimi anni. Ora sotto le guglie del Duomo la sinistra rosso-arancio torna contarsi con gli slogan di sempre. All'indomani delle stragi parigine, le parole più emblematiche sono quelle di Cecilia Strada, presidente di Emergency e figlia di Gino: "No alla violenza e no al terrorismo". Ma anche "No a chi odia e specula sui fatti di sangue per calcolo elettorale". Porte chiuse agli "islamofobi" quindi, anche se i partiti nel mirino rappresentano milioni di italiani. D'altronde in Francia il Front National di Marine Le Pen è stato escluso dalla grande manifestazione nazionale di domani. Anche qui, in gran parte, la piazza sembra approvare. In corteo c'è posto solo per chi condanna il terrorismo. E l'islamofobia.

Così la sinistra con la kefiah ha creato l'Italia saudita. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Per noi italiani è dura renderci conto che siamo, anche noi come i francesi e gli europei tutti, sotto l'attacco di una crociata islamica. Per noi è più dura che per gli altri, visto che veniamo da decenni di andreottismo islamico, un barile di petrolio a me e una licenza d'uccidere a te, che ha sminuzzato e invertito la storia, la geografia, i valori, allevando due generazioni di arraffatori politicamente corretti e ipocriti. Di quell'andreottismo furbo e affarista, sminuzzatore e insabbiatore si è nutrita una sinistra felice di mettersi la kefiah e, quando possibile, passeggiare su e giù a braccetto con Hezbollah. L'Italia è stata la patria degli intrugli più disgustosi fra servizi segreti che hanno coperto stragi senza senso apparente (Ustica? Bologna?) perché loro il senso lo conoscevano benissimo. L'Italia dei killer a caccia di dissidenti, come quelli libici con diritto di uccidere nel 1980, l'Italia di Daniele Pifano con il lanciamissili sul balcone per abbattere un aereo israeliano, l'Italia che lascia ammazzare italiani ebrei alla sinagoga e che subisce senza fiatare l'attacco a Fiumicino; l'Italia con la kefiah arafattiana, in intrallazzo libanese, in affari sottosabbia con emirati e con tiranni di ogni dimensione e sorta, perché gli affari sono affari e con la speranza che così agendo alla fine qualcuno ti è grato e l'immunità si può comperare. Errore. Nella crociata appena scatenata e di cui la Francia vede le prime ferite non si fanno prigionieri, non si scontano cambiali, non esistono club di benemerenza. L'Italia fronteggia la nuova crisi in condizioni molto peggiori della Francia che, con i suoi sei milioni di musulmani registrati e perfino autoctoni, ha almeno consapevolezza del problema. Da noi no. Da noi la crociata che ci viene scagliata contro attraverso la paura (per ora, e tocchiamo ferro) con gli insulti, con le bugie e con un sostanziale antisemitismo strisciante che fa da miccia ai fuochi fatui delle discariche sembra apparentemente lontana: come guardare un cinghiale che ti carica con un binocolo rovesciato. Le carte si sono ormai rovesciate e da crociati che fummo noi europei - noi? e che c'entriamo noi? - ora siamo la Gerusalemme assediata da truppe militari e mediatiche, tagliagole e gente pronta a farsi saltare in aria senza batter ciglio. Ce la può fare l'Italia in mezzo alla tempesta di lava, colma com'è di pregiudizi e di oblio? Abbiamo visto ieri di che cosa si tratta. La crociata che la parte più aggressiva e sincera dell'Islam ha lanciato contro l'Occidente non potrà essere respinta soltanto con i corpi speciali chiamati a recuperare ostaggi e vendicare la libertà di espressione, prima ancora che la libertà di stampa. Che si tratti di una crociata contro di noi è ormai evidente. I nuovi crociati islamici si radunano per vie visibili sentieri militari carsici elettronici, tornano addestrati nelle patrie matrigne in cui sono nati ma che odiano, e assediano la nostra Gerusalemme al cui interno si commettono delitti impronunciabili come la parità dei diritti delle donne, la loro istruzione, la graduale garanzia di una vita sessuale gioiosa nel rispetto dell'età e del libero arbitrio. E poi il più satanico dei nostri peccati: la Storia. Abbiamo incoraggiato la Storia a svolgersi separando idee e secoli, costumi e mode, abbiamo festeggiato le nostre contraddizioni. I crociati islamici chiedono con le armi in pugno che il tempo resti inchiodato su un orologio di legno in cui tutti, sempre, ovunque, vestano, parlino, agiscano, in modo tale da non rendere possibile la distinzione fra un'era e un'altra, un prima e un dopo. I nuovi crociati che ci assediano con le catapulte per rovesciarci fuochi di angoscia e fiumi di sangue nelle nostre redazioni satiriche, nelle nostre scuole, nei luoghi simbolici come le torri di Babele di Manhattan, perché non vogliono che il mondo conosca le rughe del progresso, ma soltanto la levigatezza viscida dell'immobilità. Si legge che i nuovi combattenti giovanissimi dell'Isis, o del Jihad, o di al Quaida sono «entusiasti». Ebbri di entusiasmo, febbricitanti per il desiderio di infliggere la morte, la punizione, la vista orrenda delle decapitazioni, l'immagine dei bambini uccisi uno a uno in ginocchio nelle scuole. La loro adrenalina, quella dei nuovi crociati, scorre felice e divampante nelle loro arterie pulsanti e quell'adrenalina accende la furia della distruzione. Quel che i nuovi crociati islamici vogliono, anelano, sognano, è soltanto la distruzione. Chiamano Califfato la liberazione dalla libertà, la liberazione dalla ricerca scientifica, la liberazione da Mozart, da Michelangelo, da Picasso. La liberazione dalla scienza che produce ricerca e medicine, mentre l'estro dei liberi detta letteratura, musica popolare e poesia. E - i nuovi crociati - odiano più di tutti gli ebrei che originati da Giudea e Samaria, sicché per loro un supermercato kosher è un giusto obiettivo e un bambino ebreo di sei mesi un nemico da catturare. Finora la nostra Gerusalemme assediata ha traccheggiato, finto di non capire, agito con una colpevole lentezza zavorrata dai sensi di colpa che sono il più complicato frutto della civiltà occidentale. I due fratelli Kouachi, carnefici miserabili dei giornalisti armati di sola matita, sono stati uccisi nella tipografia di Dammartin - evidentemente non si poteva far altro - malgrado la raccomandazione di prenderli vivi. Ha prevalso il criterio di salvare le altre vite umane. Ma quanti sono disposti ad ammettere che sarebbe stato etico, giusto, buono e opportuno che i due Kouachi fossero stati interrogati, se presi vivi, con tutta la crudele energia necessaria per far loro dare tutte le informazioni utili per questa guerra? Ma l'Occidente assediato è ipocrita, prova orrore per le sue stesse armi e finge di credere che i nuovi crociati siano vittime, sue vittime, e li assolve in anticipo per ogni mostruoso show in cui si spengono vite. L'Occidente si flagella per le antiche crociate di mille anni fa, ma ignora che l'urbanistica e la paesistica italiana, i paesi arroccati sulle colline difesi da un maniero sono state stravolte dai predatori islamici che per secoli hanno stuprato, schiavizzato, deportato le nostre coste. Può farcela a resistere questo nostro Paese slogato dalla furbizia? Capirà che in modo pacato e sereno, senza furie inutili o grida di guerra, si deve preparare a una guerra, deve combattere e non farsi sopraffare? I nuovi crociati contano sulla nostra storica vocazione a fare il pesce in barile, meno interessato al pesce, molto al barile.

Non siamo tutti Charlie. Siamo politicamente corretti, scrive Francesco Maria Del Vigo su “Il Giornale”. Non siamo tutti Charlie. È inutile ripeterlo ossessivamente e prenderci in giro. Purtroppo, o semplicemente perché siamo diversi. Facciamocene una ragione. Siamo con Charlie Hebdo, ma non siamo Charlie Hebdo. Perché viviamo in un Paese che le vignette le cancella con la gomma dell’insofferenza e dell’arroganza, che incarcera i giornalisti e che detesta la critica. Viviamo in un Paese bigotto che vezzeggia gli islamici e minaccia di incarcerare chi sbeffeggia il capo dello Stato. Figuriamoci quanto sarebbe durato Charlie a queste latitudini; un settimanale che prende di mira Dio, Maometto e il Papa. Giovannino Guareschi è finito in galera per una risata di troppo. Difatti in Italia riviste di satira feroce e corrosiva non ce ne sono. E se ci sono, come il Vernacoliere, si dilettano a punzecchiare gli slombati politici italiani o gli innocui cattolici. Guai a toccare l’Islam. Più che per paura della vendetta dei maomettani (almeno fino a questa settimana) per il timore di finire sotto il tiro dei potenti gendarmi del politicamente corretto. La strage in redazione – in quella redazione – è un simbolo. Una sventagliata di mitra lanciata al sorriso dell’Occidente. Ci hanno buttato giù tutti i denti, ma noi dobbiamo sorridere anche sdentati. Perché quella è la nostra forza, deve essere la forza della nostra cultura. Il sorriso e l’irriverenza. Dobbiamo cercare di essere un po’ Charlie, di avere quello spirito, applicato alle nostre idee.  La solidarietà va bene. Ma togliamoci dalla testa di essere tutti Charlie. Perché dopo che ci hanno bruciato la redazione non so in quanti continueremmo a disegnare con costanza e a testa alta la nostra condanna. Mi viene in mente una frase di Ezra Pound: se un uomo non è disposto a lottare per le sue idee o le sue idee non valgono nulla o non vale niente lui.

Le Pen e Salvini i grandi esclusi. La sinistra non li vuole in piazza. Alla faccia dell'unità nazionale: Front National e Lega restano emarginati. Sono persone non gradite. Li temono più del terrorismo? Scrive Riccardo Pelliccetti su “Il Giornale”. Alla faccia dell'unità nazionale. La minaccia terroristica dovrebbe ricompattare un Paese, senza distinguo. Ma la sinistra, anzi, le sinistre di Francia e Italia fanno comunella e stabiliscono chi possa partecipare o meno alle manifestazioni di solidarietà per le vittime delle stragi jihadiste. Questi prefetti del «buonismo» hanno perciò deciso che le patenti di presentabilità non vanno rilasciate alla Lega e al Front National. Sembra che abbiano più paura di Matteo Salvini e di Marine Le Pen che dei terroristi islamici. Così alla manifestazione di ieri, organizzata dal Pd, Sel, Anpi e compagnia cantante in piazza Duomo a Milano, la Lega non è stata invitata. Stessa musica a Parigi, dove la gauche caviar ha escluso il Front National dalla grande kermesse che si terrà oggi e dove sfileranno, oltre agli esponenti della sinistra francese anche quelli nostrani, con il premier Matteo Renzi in testa. «Mi fa pena pensare che Renzi sfilerà per le strade di Parigi, quando con le sue politiche a favore dell'immigrazione di massa è complice di quello che rischia di accadere in futuro - ha detto il segretario della Lega Salvini - L'islam è pericoloso, nel nome dell'islam ci sono migliaia di persone in giro per il mondo, e anche sui pianerottoli di casa nostra, pronte a sgozzare e a uccidere». Salvini, assieme ai militanti milanesi, ha distribuito ieri le vignette satiriche di Charlie Hebdo nei pressi del Palasharp, area nella quale la giunta rossa di Milano vuole autorizzare la costruzione di una moschea. «Sono preoccupato - ha aggiunto il leader leghista - perché sia il governo Renzi sia la giunta Pisapia non hanno capito cosa stanno facendo. La Lega farà tutto il possibile affinché le moschee non siano aperte, anche con referendum». Che si tratti di temi sensibili, lo ammettono tutti. Ma la sinistra, nonostante l'acclarata emergenza, appare miope, se non cieca. E il minimizzare il pericolo attentati e negare l'evidenza sulla minaccia jihadista, come hanno scelto di fare il presidente socialista François Hollande e la sua corte salottiera, ha fatto abbassare la guardia a un intero Paese, permettendo una strage senza precedenti a Parigi. Il nostro governo vuole copiare gli errori francesi? Ci auguriamo di no. Hollande e il suo esecutivo, come abbiamo già scritto nei giorni scorsi, erano più preoccupati dell'ascesa del Front National che del pericolo islamico incombente. Così hanno messo la sordina a tutti gli episodi premonitori per non portare ulteriori consensi al partito in ascesa della Le Pen. «In Francia, da tempo i presidenti di sinistra hanno paura di essere accusati di razzismo quando attaccano il terrorismo - ha affermato in un'intervista a La Repubblica il tesoriere del Front National, Walleran de Saint Just - E così anche noi veniamo tacciati di xenofobia, in modo vergognoso, solo perché siamo contro i terroristi. Questo atteggiamento deprime i francesi, che si sentono poco protetti. La sinistra ha una grande responsabilità morale e politica». Quindi, in Francia come in Italia, chi denuncia apertamente le minacce del fondamentalismo viene discriminato, isolato, delegittimato. Strategia molto cara ai post comunisti. Ma sono sicuri di essere al riparo facendo gli ignavi? Credono forse che il loro «politicamente corretto» impedisca al jihadista di turno di tagliargli la gola? Poveri illusi, gli integralisti islamici hanno un'unica parola d'ordine: gli infedeli devono essere cancellati. Per questo fanno ridere quando parlano di valori, di Occidente, di unità nazionale e allo stesso tempo discriminano una parte consistente del Paese. «È squallido che con i cadaveri ancora da seppellire ci sia qualcuno che isola altri, come la Lega e la Le Pen - ha spiegato Salvini - Poi saremmo noi a strumentalizzare? Noi rappresentiamo la maggioranza degli italiani». Sì, è davvero squallido attaccare le opinioni di una partito piuttosto che condannare i terroristi islamici.

Vauro Senesi e il "coccodrillo" per Charlie Hebdo: pioggia di insulti sui social. La doppia morale di Vauro Senesi. Va in tv con la maglia "Je suis Charlie", salvo scordarsi le sue feroci critiche alle vignette di "Charb". Su twitter infatti è scoppiata la bufera dopo il coccodrillo in diretta tv del vignettista di Santoro a Sevizio Pubblico dedicato alle vittime del massacro di Charlie Hebdo: "Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo. Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre. Questi mostri li abbiamo creati noi", afferma Vauro da Santoro. Ma dimentica quelle sue parole di qualche tempo fa contro le vignette di Charlie Hebdo: "Questi disegni sono messaggi violenti che provocano reazioni violente". Implacabile la reazione del web: "Vauro sei un paraculo". 

Criticava Charlie, ora lo piange Tutti contro il coccodrillo Vauro. Il vignettista di Santoro indossa la maglietta di solidarietà, ma quando i francesi pubblicarono i disegni anti islam li accusò di provocare "reazioni violente". E il web si scatena: "Che paraculo", scrive Luigi Mascheroni su “Il Giornale”. Sui social, che non sono la rappresentazione del mondo, ma ne incorniciano comunque un pezzo, c'è chi ricorda che le vignette contro i cristiani non hanno mai prodotto vittime, ecco la differenza tra noi e loro: «Bella la vita Vauro, neh!». C'è chi spegne la tv, perché non può sopportare «Vauro, Ruotolo e tutti quei quaquaraquà che ora alzano le matite al cielo, ma fino a ieri invece...». C'è chi non si ricorda, fino l'altro giorno, vignette di Vauro sull'Islam, e chi ricorda invece che Vauro attaccò le vignette danesi anti-Maometto perché, disse, «messaggi violenti provocano reazioni violente». C'è chi ironizza sul fatto che ora «in Italia aspettiamo la risposta di Vauro, che con sprezzo del pericolo farà una vignetta molto aggressiva. Su Berlusconi o Renzi». E chi, esagerando come solo Twitter è capace di esagerare, nel suo micidiale mix di sintesi e cinismo, digrigna la tastiera: «Vauro con la maglietta "Jesuischarlie", lui, amico dei terroristi islamisti...». E in effetti, l'altra sera, in una trasmissione come Servizio Pubblico di Santoro che faticava parecchio, tra distinguo e cautele, tra buonismo e correctness politica, ad avvicinare i termini «terrorismo» e «Islam», faceva impressione (per alcuni pena) vedere Vauro Senesi, in arte Vauro, in pratica un disegnatore con le sue debolezze e i suoi talenti, come tutti noi, indossare a favore di telecamera la t-shirt con la scritta Je suis Charlie . Che, si vedeva, era fuori taglia, e non solo metaforicamente. Perché a Vauro quella maglietta stava strettissima. Piange i colleghi francesi, ma nega che ci sia una guerra in corso. Condanna i terroristi, ma non dice mai «terroristi islamici». Sbuffa: «Parliamo ancora di guerra santa, sembra di essere nel Medioevo, abbiamo fatto passi da gigante indietro nel tempo», ma dimentica che i passi li ha fatti la civiltà cristiana, in avanti: e infatti per quanto ritenga esecrabili le vignette satiriche contro il Papa, Comunione e liberazione non ha mai organizzato una crociata su Parigi. Un po' troppi «ma», quando ci sono persone uccise a colpi di Ak47 in nome di Allah. Ieri, sul Corriere della sera , in un pezzo nascosto a pagina 15, non richiamato in prima né postato sul sito del quotidiano, Pierluigi Battista ha firmato un pezzo dal titolo «Vauro e gli altri che bocciarono quelle vignette "provocatorie"», smascherando l'ipocrisia di chi, come Vauro appunto o come Ruotolo, oggi piangono gli eroici giornalisti di Charlie Hebdo , ma ieri li consideravano irresponsabili, dei provocatori. E Vauro ha subito risposto su Dagospia invocando, per par condicio, la censura subita per una vecchia vignetta su Berlusconi. Perdendo sia il senso della misura sia quello del ridicolo. «Siamo in guerra, ma perché facciamo le guerre - ha detto - Questi mostri li abbiamo creati noi». La colpa, anche se a sparare sono gli «altri», è sempre nostra. Per il resto, quella che ci stanno disegnando davanti agli occhi, è una vignetta già vista tante volte. Dentro ci sono molte matite perfettamente appuntite nell'offendere il sentimento religioso cristiano, più spuntate nel farlo con i simboli musulmani. Un'unica mina, una doppia morale. E non fa ridere.

Quell'odio a ritmo di rap dove "balla" il deputato Pd. Molti dei jihadisti, tra cui uno di quelli di Parigi, cantavano le rime violente in voga nelle comunità islamiche, Italia inclusa. In un video compare l'onorevole Chauki, scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Ormai non si può più. Ora che il video del killer parigino Chérif Kouachi in versione rapper ha fatto il giro del mondo (ma è stato girato nel 2005), è impossibile non riconoscere il fil rouge che collega tanti jihadisti a questa espressione musicale. Dopotutto anche il presunto carnefice dell'ostaggio decapitato James Foley è l'inglese Abdel-Majed Abdel Bary che, prima di sparire, aveva un microscopico seguito londinese come rapper. E pure qui in Italia le rime violente vanno di moda, con varie sfumature. Si va da Amir Issa che nel video Ius Music , (in cui canta «da Palermo a Torino scoppierà un casino»), ha ospitato un deputato Pd di origini marocchine (Khalid Chauki), ai rapper che incitano all'odio mortale come Anas El Abboubi, ora ventenne, arrestato a giugno 2013 per «addestramento finalizzato al terrorismo internazionale» però poi rilasciato dopo pochi giorni: adesso sarebbe ad Aleppo con il nome di Anas Al-Italy e, come si legge sul suo profilo Facebook, di professione «lavora presso la Jihad». Quand'era in Italia, lui di origini marocchine ma arrivato giovanissimo in provincia di Brescia, rappava: «Il martirio mi seduce, voglio morire a mano armata, tengo il bersaglio sulla Crociata». Hai letto bene. Dopo, dalla Siria ha annunciato, keffiah al collo e kalashnikov in mano, di aver abbracciato la sharia con i ribelli siriani. Certo i toni sono diversi, ma sempre aggressivi. Intollerabilmente. Ci sono rapper ultrafamosi come Busta Rhymes, Ice Cube, Nas, Everlast o Jay Z che hanno inserito nelle proprie rime espliciti e tolleranti riferimenti alla fede musulmana. E uno, non proprio famoso per coerenza come Snoop Dogg, si è convertito all'Islam per tre anni dal 2009 prima di passare al Rastafarianesimo. Rap islamico si può ascoltare pure in rete e scaricare in free download e, per quanto aggressivo e colorito, rimane lontano dall'integralismo. Come quello celebrato quattro anni fa a Lignano Sabbiadoro dai Giovani Musulmani d'Italia con il concorso di «anashid islamiyà», ossia canzoni islamiche in arabo. Un altro conto sono le rime che inneggiano alla lotta armata e mortale. Sono un segno di quanto pericolosamente, e nell'indifferenza pressoché totale di quasi tutta la politica e l'informazione, la Jihad abbia fatto propri gli strumenti di comunicazione tipici del mondo giovanile: il rap è il linguaggio musicale più usato dagli under 30 e i terroristi lo hanno capito. Dopo una prima e lunga fase di totale chiusura a forme musicali (ad esempio l'Afghanistan talebano era un paese orfano di ogni tipo di musica) hanno drammaticamente assorbito i linguaggi giovanili occidentali per piegarli alla propria propaganda assassina. Ad aprile il rapper olandese-libanese Hozny ha pubblicato un video che mostrava la macabra messinscena dell'esecuzione del deputato Geert Wilders. E proprio in quei giorni il tedesco Deso Dogg (vero nome Denis Mamadou Cuspert) è morto combattendo con i ribelli dell'Isis in Siria. Follie totali. Ora, anche in questo caso, il rischio emulazione si dilata. E senza dubbio il rap, stile di protesta nato negli anni '70 per cantare il bisogno dei neri americani di uscire dai «ghetti» metropolitani, offre la metrica adatta e soprattutto l'indice di penetrazione popolare più alto in tutto l'Occidente. Quindi non sarà difficile che in un futuro immediato saltino fuori altri esempi di integralismo rap. Mutatis mutandis , il punk o il metal sono stati passioni fugaci di terroristi in epoche non troppo lontane. Ma il segreto per non trasformare le eccezioni in una regola è non generalizzare. Oltre che un errore, l'equazione rap = terrorismo sarebbe un assist imperdonabile alla peggiore delle propagande.

Terrorismo, provate a mettervi nei panni di un musulmano. Khalid Chaouki, parlamentare del Pd, parla a cuore aperto dei fatti di Parigi e delle colpe dell'Islam, scrive Carmelo Abbate su “Panorama”. Khalid Chaouki è nato a Casablanca, in Marocco. Ha 32 anni, è arrivato in Italia da bambino, è cresciuto tra Parma e Reggio Emilia. È tra i fondatori dell’associazione “Giovani musulmani d’Italia”, della quale è diventato presidente, siede nella consulta per l’islam istituita al ministero dell’Interno, da ultimo è stato eletto alla Camera dei deputati nelle file del Partito Democratico.

Come vive un musulmano quello che sta succedendo a Parigi?

«Con grande tensione, paura e sconcerto. Con la consapevolezza che bisogna tradurre in azione concreta e positiva le sensazioni che affollano la nostra mente».

Proprio in questo momento leggiamo che i terroristi sono rimasti uccisi durante le irruzioni delle forze speciali, ma tra i morti ci sarebbero anche alcuni ostaggi.

«Altri morti innocenti. Spero almeno sia la fine di un incubo, spero che le prossime ore siano di silenzio e raccoglimento».

Torniamo a voi musulmani.

«I fatti di questi giorni impongono una riflessione a tutti noi musulmani, ci dobbiamo guardare dentro, aprire una riflessione e interrogare sul ruolo che vogliamo avere nella società del futuro. Una riflessione che deve essere trasparente, visibile, alla luce del sole».

Cosa c’è dentro il cuore di un musulmano?

«C’è grande dispiacere. C’è angoscia, per l’immagine e l’utilizzo che viene fatto della tua religione. C’è vergogna, nel vedere la tua fede che viene associata alla morte. C’è un dolore profondo, che non viene percepito dall’esterno».

Basta manifestarlo, urlare se serve.

«Infatti, io credo che noi musulmani proprio in queste ore dobbiamo fare un passo avanti, andare oltre e costruire le basi di quello che sarà il modello di convivenza nel futuro».

Trasformare questi eventi tragici in occasione positiva?

«Nella loro tragicità, i fatti di Parigi ci offrono l’opportunità per toglierci di dosso il peso che noi musulmani ci portiamo dietro dall’11 settembre. È arrivato il momento di urlare al mondo la nostra rabbia per il modo in cui viene sottomessa e manipolata la nostra religione».

La moschea in Italia viene considerata come una sorta di Rubicone, la linea che non bisogna attraversare, la bandierina che non bisogna issare sul nostro territorio. Alla luce di quello che sta succedendo in Francia e nel mondo, non pensa che sia una scelta controproducente? Non pensa che sarebbe più facile la prevenzione contro i cosiddetti cani sciolti se ci fossero dei luoghi di aggregazione e preghiera con regole chiare e accettate da tutti? E con possibilità di controllo maggiore da parte delle autorità?

«Sarebbe tutto molto più semplice. Purtroppo l’Italia ha sprecato troppi anni in balia della propaganda, senza ragionare da paese serio. Il diritto al culto va regolamentato, e la moschea può diventare una occasione per isolare chi si nasconde e fa proselitismo dentro gli scantinati».

I fatti a cui assistiamo in diretta televisiva dalla Francia, lei come li giudica, atti di terrorismo o guerra?

«Si tratta di guerra, una guerra asimmetrica che va combattuta con una forte controffensiva culturale da parte di tutti, con il mondo musulmano che deve diventare il nostro principale alleato».

Cosa rimprovera al mondo musulmano?

«Il tentativo di etichettare questi fatti come la deriva violenta di un piccolo gruppo criminale. Non è così. La questione è molto più ampia e ci investe nel profondo. Nel mondo musulmano c’è un problema di reinterpretazione dei testi sacri alla luce della modernità, va sancito in modo solenne il rapporto pacifico con l’Occidente. Ci sono nodi teologici irrisolti che poi portano a gesti criminali».

C’è il pericolo di gesti inconsulti nei confronti delle comunità musulmane?

«Sta già accadendo in Svezia e in Francia, sono state lanciate molotov contro moschee. Serve un senso di unità molto forte, serve lo sforzo di tutti, come sta avvenendo in Francia, con i musulmani che si stanno riversando sulle strade per manifestare sgomento, indignazione e condanna».

Lei è oggetto di insulti sui social network, come li vive, come li sopporta?

«Il mio impegno civile è sempre stato di frontiera, vengo criticato anche da molti islamici che mi accusano di essere troppo moderato».

Non ha paura?

«A volte fa male, a volte fa paura. Ma se accetti una sfera pubblica e ti impegni per un’Italia migliore, allora devi essere preparato a fare i conti con una società impaurita dai fomentatori di odio professionisti».

Cosa le fa più male delle immagini che ci arrivano da Parigi?

«Il senso di impotenza che sta vivendo un grande paese come la Francia. Il totale black-out di una città meravigliosa come Parigi, che adoro e che ho visitato con mia moglie. Le fotografie di una Parigi deserta ci sbattono in faccia il fallimento di tutti noi».

Un divario destinato a diventare voragine. Il divario con la cultura occidentale è destinato a diventare una voragine. Gli ospiti devono osservare le nostre regole, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. I fatti tragici di Francia sono l'ennesima conferma che esiste un abisso tra la cultura occidentale e quella di stampo islamico, che è sostanzialmente rimasta al Medioevo e non accenna a evolversi, anzi sta assumendo sempre di più i caratteri del fondamentalismo. Anche gli islamici immigrati da decenni si sono guardati dall'integrarsi nella nostra società e hanno conservato gelosamente abitudini e costumi atavici della loro terra, trasmettendo ai figli e ai nipoti tradizioni che collidono con le nostre. Altrimenti non si giustificherebbe che molti giovani della seconda e terza generazione, allevati e cresciuti in Europa, siano reclutati da gruppi terroristici animati dal desiderio di combattere contro le nazioni che li accolgono e che hanno concesso loro la cittadinanza con ogni diritto connesso. Non è il caso di dire che la nostra civiltà è superiore, ma non vi è dubbio che sia assai diversa e non si concili con quella improntata agli insegnamenti coranici, spesso interpretati arbitrariamente e/o pedestremente allo scopo di piegarli a scopi politici o bellici. La Bibbia contiene numerosi versi che incitano alla violenza simili a quelli del Corano, ma è indubbio che i cristiani ne abbiano offuscato il significato letterale: ora si attengono al Vangelo, considerando l'antico Testamento una sorta di libro mitologico. È altresì vero che nel secolo scorso, quindi abbastanza recentemente, la cultura occidentale ha espresso mostruosità attraverso regimi totalitari e sanguinari, il nazifascismo e il comunismo, ma è un dato che essi sono stati abbattuti o sono implosi sotto la spinta di movimenti democratici maggioritari. Non si può infine negare che dalle nostre parti abbia avuto il sopravvento l'Illuminismo, cui si deve la prevalenza dell'intelligenza personale sui dogmi religiosi, e ciò ha favorito una distinzione netta fra etica sacra e etica civile, la cui convivenza è realizzabile a condizione che non si sovrappongano, a rischio che una di esse sia annullata. Per noi occidentali sono inconcepibili sia lo Stato etico sia la teocrazia, che, invece, dominano nei Paesi dove gli islamici hanno trasformato in leggi i propri principi. Va da sé che teocrazia e democrazia sono antitetiche e, pertanto, incompatibili. I musulmani del resto, quelli immigrati nelle nazioni politicamente evolute, difficilmente riconoscono il primato dei codici democratici e obbediscono piuttosto ai precetti coranici, tramandati di padre in figlio, che stridono con il laicismo, accettato di buon grado perfino dagli italiani, per secoli succubi di un cattolicesimo oscurantista. I contrasti fra le due civiltà sono insanabili, e sembrano addirittura destinati ad accentuarsi: mentre l'Occidente progredisce anche sul piano dei diritti umani e civili, il Medio Oriente rimane fermo, ingessato nei pregiudizi. Tutto questo non significa che i cristiani europei e americani abbiano tutte le ragioni e nessun torto. Il terrorismo è un fenomeno relativamente nuovo e cominciato per ritorsione contro di noi, autori di autentiche invasioni militari in Irak, Kuwait e Afghanistan (per citarne alcune) che hanno inasprito i rapporti, esasperato gli animi e provocato centinaia di migliaia di vittime che hanno acceso lo spirito di vendetta nelle popolazioni aggredite. Sappiamo che certe iniziative belliche sono state assunte dagli Stati Uniti e alleati non con finalità umanitarie, bensì economiche: per vari lustri l'obiettivo non era liberare popoli oppressi da satrapie ed esportare la democrazia tra gente che non sa nemmeno cosa essa sia, bensì per succhiare petrolio e controllare (male) il mondo. Anche di questo bisogna tenere conto se intendiamo capire: ciò che accade oggi è la conseguenza anche di quanto accaduto in passato. Dopo di che è buona cosa persuadersi che andare d'accordo si può, ma con metodi diversi da quelli adottati sino ad ora. Il terrorismo si vince concedendo a tutti piena libertà, ma ciascuno a casa propria e non in quella di altri. E gli ospiti si comportino da ospiti e non da contestatori: si adattino allo stile di chi li ha invitati o tornino in patria. La base del rispetto è non intromettersi nelle vicende che non ci riguardano. A ogni Paese va data la facoltà di trovare al proprio interno il modo di risolvere i propri problemi, anche mediante la guerra civile. E gli Stati Uniti si mobilitino soltanto su gentile richiesta e non per ristabilire l'ordine a essi caro, ma sgradito a chi lo subisce. Viceversa saremo sempre in guerra.

Perugia, gruppo di stranieri profana una statua della Madonna. Un gruppetto di immigrati ha distrutto una statua della Vergine e ci ha urinato sopra. Ma il vescovo ammonisce: "Non è un atto di odio religioso", scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Una profanazione rivoltante, che ha offeso la sensibilità di tutta Perugia. Una statua della Madonna distrutta e presa a calci da un gruppo di vandali stranieri, che sopra l'immagine sacra avrebbe anche orinato. Un uomo stava pregando davanti alla Madonnina di via Tilli, inginocchiato con la fotografia di una persona cara in mano, quando è stato aggredito da un gruppo di stranieri che lo hanno insultato e gli hanno strappato la foto dalle mani. Quindi si sono accaniti contro la statua della Vergine, scaraventandola giù dall'edicola e spezzandola in due. Quindi, racconta la Nazione, hanno aggravato l'oltraggio spingendosi fino ad orinarci sopra. Venerdì, fortunatamente, la statua è stata ricollocata nella sua collocazione originaria e sul luogo della profanazione è stato recitato un Santo Rosario di riparazione. Dalla Diocesi è arrivata una ferma condanna dell'atto sacrilego, ma anche un invito a "non attribuire questo episodio a un gesto di odio religioso". "Per l'Islam la figura di Maria è molto importante: è la Madre del profeta Gesù concepito nella verginità e la Beata Vergine è la donna più santa - ha commentato il vescovo ausiliare di Perugia-Città della Pieve, mons. Paolo Giulietti - Molti musulmani vengono in preghiera nei santuari mariani del Medio Oriente. Non si può attribuire questo gesto di vandalismo, che come ho detto va condannato in ogni senso, ad un episodio di odio religioso. E' importante non alimentare la diffidenza reciproca soprattutto in questo momento."

Complotti e teoremi: imbecilli scatenati sul web. I dietrologi sono scatenati, negano persino l'esecuzione del poliziotto: "Poco sangue", scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Un partito dell'imbecillità politicamente connotato a sinistra. È quello che sta emergendo, soprattutto sui social network, in questi giorni successivi agli attentati terroristici di Parigi. Un partito transnazionale che ha le sue propaggini nel nostro Paese e che ha una sua precisa carta d'identità «ideologica»: cercare di difendere l'Islam in quanto alternativo all'Occidente e agli Stati Uniti. Parlare di America non è un caso. Come dopo l'11 settembre anche in questi giorni su Facebook e Twitter spuntano strane manifestazioni che mettono in dubbio la veridicità dei fatti. In particolar modo, ha suscitato molti dubbi l'uccisione del poliziotto Ahmed Merabet: «Non si vede il bossolo» e «c'è poco sangue» sono i capisaldi dei complottisti. Che sono sicuri della volontà della Cia o del Mossad di creare un nemico in realtà inesistente. Certo, vista la commozione suscitata dai massacri molti tendono a frenarsi, ma alcuni non ci riescono proprio. Il caso più eclatante in Italia è stato quello del Movimento 5 Stelle: il blog di Grillo ha lasciato spazio a una considerazione del professor Aldo Giannuli che non ha messo in dubbi che la strage sia stata di matrice islamica, ma che gli attentatori siano stati «lasciati fare» da qualcuno. E fin qui siamo nella classica dietrologia all'italiana. Poi, che deputati grillini come Bernini o Sibilia (quello dei microchip) abbiano dato corda a queste tesi, enfatizzando l'omicidio dell'economista antieuro Bernard Maris nella sede di Charlie Hebdo , è un altro paio di maniche. Anche il rigoroso Fatto Quotidiano tra i blog del proprio sito internet ha ospitato l'intervento di una giornalista, Ludovica Amici, che ha scritto: «Chi paga questi jihadisti, chi li addestra e chi li arma, considerato che giravano con dei kalashnikov? I due fratelli potrebbero aver combattuto in Siria con armi fornite loro dal governo francese». Insomma, la verità sembra sempre accertata, ma potrebbe anche essere differente da quella che tutti sembrano osservare. Un po' come Piazza Fontana: dietro c'è sempre un «grande capo» che ha orchestrato tutto. Oppure, ci sono Paesi che in qualche modo si sentono discriminati, a torto o a ragione, che ne approfittano per fare propaganda. Ad esempio, una televisione russa ha sostenuto che gli attentati siano stati organizzati ad hoc per aumentare la pressione contro Mosca. Stesso discorso in Turchia dove la laicità dello Stato viene da più parti messa in discussione. Dietro la strage ci sarebbero servizi segreti deviati con lo scopo di «far crescere l'islamofobia», ha scritto il quotidiano Yeni Safak . Sempre in Turchia c'è chi vede il dittatore siriano Bashar al-Assad, nemico dichiarato dell'Isis, come ispiratore del clima da guerra fredda. E anche in Paesi moderati come la Georgia è stato hackerato il sito della catena francese di supermercati Carrefour con un messaggio eloquente: «Siamo musulmani, il Corano è il nostro libro, crediamo e lavoriamo per Dio, maledetto sia Charlie Hebdo !». Non è un caso: dappertutto l'Islam è l'ultima ancora di salvezza contro il capitalismo americano dopo il crollo dell'Urss. E torniamo così al grillino Bernini. «Non a caso tutte le guerre moderne dell'America nascono da una menzogna!», ha scritto. Come volevasi dimostrare.

La nostra lotta al terrorismo? I giudici condannano Allam. Il verdetto contro il giornalista a Milano, nei giorni degli attentati in Francia. Per le toghe ha offeso i musulmani, ma nel 2007 aveva solo predetto: "Tentano di imporci lo stato islamico", scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Siamo tutti Charlie Hebdo. Però l'asticella della libertà di parola non è fissata una volta per tutte. Oscilla, può salire ma può anche scendere ed essere compressa quando le parole sono un atto d'accusa. Capita, è capitato in questi giorni drammatici innescando un cortocircuito inquietante fra la tragedia di Parigi e il palazzo di giustizia di Milano. Dove Magdi Cristiano Allam, giornalista e scrittore, è stato bacchettato per il suo j'accuse contro l'Ucoii, l'Unione delle Comunità islamiche italiane. Nessun legame diretto, ci mancherebbe, fra l'Italia e la Francia, però una vicenda su cui riflettere. Dunque, Allam, oggi editorialista del Giornale e in passato vicedirettore del Corriere della sera , viene condannato per un articolo in cui attacca il volto più importante dell'Islam italiano. In primo grado Allam era stato assolto: i giudici del tribunale civile di Milano gli avevano fatto scudo dietro il principio della libertà di critica. Oggi quella protezione viene tolta dalla corte d'appello che capovolge il verdetto e condanna Allam a risarcire l'Ucoii. Un dietrofront clamoroso, proprio nelle ore in cui la Francia e l'Occidente vivono una delle pagine più buie della loro storia e il mondo intero si interroga sulle ambiguità dell'Islam e si chiede dove passi il confine fra l'Islam cosiddetto moderato e quello più radicale. Nel pezzo pubblicato il 4 settembre 2007 Allam racconta la storia di Dounia Ettaib, allora vicepresidente dell'Associazione donne marocchine, aggredita da alcuni connazionali vicino alla moschea di viale Jenner a Milano. Un grave episodio di intimidazione, ancora più grave perché accaduto nelle nostre strade. Allam definisce «tutti noi italiani vittime, inconsapevoli o irresponsabili, pavidi o ideologicamente collusi, che non vogliamo guardare in faccia la realtà, che temiamo al punto di essere sottomessi all'arbitrio o alla violenza di chi sta imponendo uno stato islamico all'interno del nostro traballante stato sovrano». Parole, come si vede, attuali che paiono scritte dopo la tragedia del giornale satirico francese. Parole che in primo grado i giudici avevano ritenuto non censurabili perché frutto delle legittime opinioni di Allam. Ora il giudizio cambia e arriva la condanna. Nel pezzo Allam faceva anche i nomi e i cognomi di chi sosteneva le tesi dell'Islam più radicale e aveva chiamato in causa l'Ucoii: non c'è «alcun dubbio che nelle moschee e nei siti islamici dell'Ucoii e di altri gruppi islamici radicali si legittimi la condanna a morte degli apostati e dei nemici dell'Islam». Sarebbe questo il punto controverso che avrebbe portato alla condanna di Allam: per i magistrati non si tratterebbe di libertà di critica ma di diffamazione. «La verità - spiega al Giornale l'avvocato Luca Bauccio, legale dell'Ucoii- è che Allam ha scritto il falso. Non è vero che l'Ucoii dia una qualche forma di copertura alle tesi dell'Islam più violento. Anzi, l'Ucoii è l'unica associazione di matrice islamica che abbia firmato la Carta dei valori e ammessa alla Consulta dell'Islam». Il tema è difficile e scivoloso, ma certo Allam è uno degli opinionisti più acuti e duri nei confronti dell'Islam. E della minaccia che oggi le schegge militarizzate del jihidaismo rappresentano per l'Italia. L'articolo incriminato si concludeva con una domanda angosciante che otto anni dopo è ancora lì, pesante come un macigno: «Continueremo a imitare lo struzzo votato al suicidio nell'attesa che i terroristi islamici attuino la loro giustizia qui a casa nostra?» Un quesito che Allam rilancia oggi: «Io racconto la realtà dell'Islam che i tanti commentatori politically correct non vogliono sentire: l'Islam è incompatibile con la nostra democrazia e la nostra civiltà. In gioco non c'è solo la mia libertà di parola, ma quella di tutti noi».

L’urlo di Khomeini: «L’Islam è tutto, la democrazia no». La scrittrice intervistò il leader della rivoluzione iraniana nel 1979. Indossava il chador. Ma alla fine dell’incontro se lo tolse. L’ayatollah scavalcò il velo e sparì. Scrive Oriana Fallaci su “Il Corriere della Sera”. Oriana Fallaci, il terrorismo, il rapporto dell’Occidente con il mondo islamico. La grande giornalista ha affrontato questi temi molte volte nei suoi articoli e nelle sue interviste. Con l’iniziativa «Le parole di Oriana» abbiamo scelto di ripubblicare alcuni di questi suoi interventi, che mantengono - a distanza di molti anni - una forza, un valore e un fascino straordinari. Ecco l’intervista all’ayatollah Khomeini, uscita per il «Corriere della Sera» il 26 settembre 1979. Nella stanzaccia, assiso con le gambe incrociate sul tappetino bianco e blu, immobile come una statua e coperto da una tunica di lana marrone, stava il padrone dell’Iran, il gran condottiero dell’Islam: Sua Eccellenza Santissima e Reverendissima Ruhollah Khomeini. Era un vecchio molto vecchio. E appariva così remoto dietro la superbia, così vulnerabile, insieme solenne, da farti dubitare che avesse soltanto gli ottant’anni dichiarati secondo un calcolo approssimativo, comunque ipotetico, visto che lui stesso ignorava la sua data di nascita. Era anche il più bel vecchio che avessi mai incontrato. Volto intenso, scolpito ad arte, con quelle rughe che lo incidevano a colpi d’ascia in solchi legnosi, quella fronte altissima sul naso importante e ben disegnato, quelle labbra sensuali e imbronciate da maschio che ha molto sofferto a reprimere le tentazioni della carne o forse non le ha represse mai. E quella barba candida, compatta, davvero michelangiolesca. Quelle sopracciglia severe, di marmo, sotto le quali cercavi i suoi occhi con una specie di ansia. Gli occhi infatti non si vedevano perché teneva le palpebre semiabbassate, lo sguardo ostentatamente fisso sul tappetino, quasi volesse dirmi che non meritavo nessuna attenzione. O quasi che dedicarmi attenzione offendesse il suo orgoglio, la sua dignità. Traboccava dignità, questo è certo. Non potevi immaginarlo in mutande, attribuirgli il ridicolo che caratterizza i dittatori. Anzi, al posto di esso coglievi una misteriosa tristezza, un misterioso scontento che lo consumava come una malattia. E in tale scoperta registravi sbalordito i sentimenti che suscitava a osservarlo: un rispetto ineluttabile, una tenerezza inspiegabile, una scandalosa attrazione di cui provavi invano vergogna. Lo aveva scritto proprio lui il Libro Azzurro? Era stato proprio lui a scaraventare tutti nella catastrofe, dipendevano proprio da lui tante infamie, tanti obbrobri? Sì, e che non me ne dimenticassi. Che non mi lasciassi distrarre dal suo enigmatico carisma, sedurre dal suo fascino di antico patriarca. E mentre Bani Sadr si insediava al suo fianco, Salami si sistemava a riguardosa distanza, mi accucciai dinanzi al nemico: decisa ad attaccarlo subito, ignara dell’altrui viltà che all’inizio avrebbe turbato il progetto.

Imam Khomeini, l’intero paese è nelle sue mani. Ogni sua decisione, ogni suo desiderio è un ordine. E sono molti ha portato la libertà, semmai ha finito di ucciderla. Rimase con le palpebre semiabbassate, lo sguardo fisso sul tappetino, e con voce talmente fioca da sembrare l’eco di un sussurro compilò una risposta che Bani Sadr riferì in preda a uno strano imbarazzo. «Conosciamo il suo lavoro e il suo nome. Sappiamo che lei ha viaggiato per molti Paesi e molte genti vedendo guerre, interrogando uomini forti. La ringraziamo dunque degli omaggi che ci porge e delle sue condoglianze per la scomparsa dell’ayatollah Talegani.» Stava prendendomi in giro oppure Bani Sadr non gli aveva tradotto la mia domanda? Mi rivolsi smarrita a Salami. Con un lieve cenno della testa, Salami mi fece capire che il vigliacco non aveva tradotto la domanda. «Traducila tu!» La tradusse, sia pure impallidendo. Ma le palpebre rimasero semiabbassate, le invisibili pupille continuarono a fissare il tappetino, e non un cenno di emozione incrinò la voce fioca che centellinava ogni parola. «L’Iran non è nelle mie mani. L’Iran è nelle mani del popolo. Perché è stato il popolo a consegnare il paese al suo servitore, a colui che vuole il suo bene. Lei ha ben visto che dopo la morte dell’ayatollah Talegani la gente s’è riversata nelle strade a milioni e senza la minaccia delle baionette. E questo significa che in Iran c’è libertà, che il popolo segue gli uomini di Dio. E questo è simbolo di libertà.» Bè, sapeva difendersi. Aveva perfino neutralizzato possibili provocazioni sulla natura di quella morte facendo per primo il nome di Talegani, quindi impedendo su tal soggetto un colpo alla mascella. Lanciai un’occhiataccia a Bani Sadr per avvertirlo di non combinare altri scherzi e continuai.

No, Imam Khomeini: forse non mi sono spiegata bene. Mi permetta di insistere. Volevo dire che siamo in molti, in Iran e fuori, a definirla un dittatore. Anzi il nuovo dittatore, il nuovo tiranno, il nuovo scià della Persia. Ma dalla risposta che Bani Sadr mi dette fu chiaro che anche stavolta aveva inventato una domanda innocua, e per questo era venuto a Qom, s’era imposto come traduttore: per manipolar l’intervista e non correre rischi. «Sì, la sconfitta del tiranno ci ha portato un’epoca densa di valori e di moralità. Noi ce ne rallegriamo e ci sentiamo onorati di interpretar quei valori e tale moralità. Apprezziamo dunque la seconda domanda e...» «Stop!» Zittii Bani Sadr e di nuovo mi rivolsi a Salami che di nuovo confermò il tradimento con un lieve cenno della testa. Allora mi chinai su Khomeini cercando di farmi capire in qualche lingua al di fuori del farsi. «No, Imam, no! Il signor Bani Sadr non mi traduce. Il ne me traduit pas. He does not translate me. Understand, comprì? Ho detto che oggi è lei il dittatore, il tiranno, lo scià. Aujourd’hui c’est vous le dictateur, le tyran, le nouvel shah. Vous. Comprì? Today it is you the dictator, the tyrant, the new shah. Understand?» Capì. O almeno intuì. Infatti le sue palpebre si sollevaron di colpo, e mentre un lampo feroce mi trafiggeva con la violenza di una coltellata vidi finalmente i suoi occhi: intelligentissimi, duri, terrificanti. Però fu un attimo, e passato quello tornarono a concentrarsi sul tappetino. Fissando il tappetino sibilò a Bani Sadr qualcosa che doveva esser tremendo perché il visuccio malinconico diventò grigio, i baffetti parvero vibrare di panico, e rivoli di sudore presero a colare giù per le tempie, le guance, il collo. Poi una mano michelangiolesca come la barba si levò con sdegno a indicargli che era destituito dall’incarico e un indice imperioso ordinò a Salami di sedergli accanto per sostituirlo. Tremando d’emozione Salami si alzò e sedette alla sua destra. «Non aver paura, traducigli quello che ho detto. E chiedigli se ciò lo addolora o lo lascia indifferente» lo incoraggiai. Salami tradusse coraggiosamente. Khomeini restò imperterrito. «Da una parte mi addolora, sì, perché chiamarmi dittatore è ingiusto e disumano. Dall’altra invece non me ne importa nulla perché so che certe cattiverie rientrano nel comportamento umano e vengono dai nemici. Con la strada che abbiamo intrapreso, una strada che va contro gli interessi delle superpotenze, è normale che i servi dello straniero mi pungano col loro veleno e mi lancino addosso ogni sorta di calunnie. No, non m’illudo che i paesi abituati a saccheggiarci e divorarci si mettano zitti e tranquilli. Oh, i mercenari dello scià dicono tante cose: anche che Khomeini ha ordinato di tagliare i seni alle donne. Dica, a lei risulta che Khomeini abbia commesso una simile mostruosità, che abbia tagliato i seni alla donne?».

No, non mi risulta, Imam. E io non l’ho accusata di tagliare i seni alle donne. Però anche senza tagliare i seni alle donne lei fa paura. Il suo regime vive sulla paura. Hanno tutti paura e fanno tutti paura. Anche questa folla che la invoca fa paura. La sente? Dalla finestra alle sue spalle giungeva il frastuono degli scalmanati dietro il primo e il secondo posto di blocco. «Zandeh bad, Imam! Payandeh bad!» E spesso soffocava le nostre voci. «Lo sento eccome. Lo sento anche di notte».

E che cosa prova a sentirli gridare così anche di notte? Che cosa prova a sapere che per vederla un istante si farebbero ammazzare? «Ne godo. Non si può non goderne. Sì, godo quando li ascolto e li vedo. Perché il loro grido è lo stesso con cui cacciarono l’usurpatore, perché sono i medesimi che lo cacciarono, e perché è bene che continuino a bollire in quel modo. Finché i nemici interni ed esterni non saranno domati, finché il Paese non si sarà assestato, bisogna che bollano. Devono essere accesi e pronti a marciare quand’è necessario. E poi il loro è amore».

Amore o fascismo, Imam? A me sembra fanatismo, e del genere più pericoloso. Cioè quello fascista. Chi potrebbe negare che oggi esiste in Iran una minaccia fascista? E forse un fascismo s’è già consolidato. «No, il fascismo non c’entra. Il fanatismo non c’entra. Io ripeto che gridano così perché mi amano. E mi amano perché sentono che voglio il loro bene, che agisco per il loro bene, per applicare i comandamenti dell’Islam. L’Islam è giustizia, nell’Islam la dittatura è il più grande dei peccati, quindi fascismo e islamismo sono due contraddizioni inconciliabili».

Forse non ci comprendiamo sulla parola fascismo, Imam. Io parlo del fascismo come fenomeno popolare, per esempio del fascismo che gli italiani avevano al tempo di Mussolini quando le folle applaudivano Mussolini come ora applaudono lei. E gli obbedivano come ora obbediscono a lei.  «No, quel fascismo si verifica da voi in Occidente, non tra i popoli di cultura islamica. Le nostre masse sono masse mussulmane, educate dal clero e cioè da uomini che predicano la spiritualità e la bontà, quindi quel fascismo sarebbe possibile soltanto se tornasse lo scià oppure se venisse il comunismo. Gridare il mio nome non significa esser fascisti, significa amare la libertà». Ora che le mie domande gli venivano riferite, l’attacco era facile. Però a ciascuna si difendeva meglio, con la bravura di un campione che riesce a schivare qualsiasi colpo cattivo o imprevisto, la resistenza di un incassatore che non si piega nemmeno se gli tiri un pugno nel basso ventre, e faceva questo usando due tecniche rare: l’imperturbabilità e la sincerità. Dopo avermi trafitto con quel lampo feroce non aveva più alzato gli occhi e, senza mai staccare lo sguardo dal tappetino, senza mai muovere un dito o un muscolo, senza mai cambiare il tono della sua voce fioca, rispondeva a ogni accusa o insolenza. Non riuscivo a scomporlo. E non ci riuscivo perché, ecco il punto, credeva fermamente in ciò che diceva: credendoci, non aveva bisogno di ricorrere alle furbizie o alle bugie con cui si difendono sempre gli uomini di potere. Quasi ciò non bastasse, gli piaceva il duello con la straniera che aveva viaggiato per molti Paesi e per molte genti ma ora se ne stava ai suoi piedi ingoffata da chili di cenci a lei estranei, e in segreto gioiva dei suoi assalti.

Allora parliamo della libertà, Imam Khomeini. In uno dei suoi primi discorsi lei disse che il nuovo governo avrebbe garantito libertà di pensiero e di espressione. Tuttavia questa promessa non è stata mantenuta e basta che uno vada contro i suoi precetti perché lei lo maledica e punisca. Per esempio, chiama i comunisti Figli di Satana, le minoranze curde Male sulla Terra...«Lei prima afferma e poi pretende che io spieghi le sue affermazioni. Addirittura pretenderebbe che io permettessi i complotti di chi vuol portare il Paese alla corruzione. La libertà di pensare e di esprimersi non significa libertà di congiurare e corrompere. Per più di cinque mesi io ho tollerato coloro che non la pensano come noi, ed essi sono stati liberi di fare ciò che volevano, ciò che gli concedevo. Attraverso il signor Bani Sadr qui presente ho perfino invitato i comunisti a dialogare con noi. E in risposta essi hanno bruciato i raccolti di grano, hanno dato fuoco alle urne elettorali, hanno reagito con armi e fucili, riesumato il problema dei curdi. Così quando abbiamo capito che approfittavano della nostra tolleranza per sabotarci, quando abbiamo scoperto che erano nostalgici dello scià, ispirati dall’ex regime nonché dalle forze straniere che mirano alla nostra distruzione, li abbiamo messi a tacere.»

Imam Khomeini, ma come può definire nostalgici dello scià uomini che contro lo scià si sono battuti, che dallo scià sono stati perseguitati e arrestati e torturati, che insomma hanno tanto contribuito alla sua caduta? I vivi e i morti a sinistra, dunque, non contano nulla? «Non contano nulla perché non hanno contribuito a nulla, non hanno servito in nessun senso la rivoluzione. Non hanno né combattuto né sofferto, semmai hanno lottato per le loro idee e basta, i loro scopi e basta, i loro interessi e basta. Non hanno pesato per niente sulla nostra vittoria, non hanno avuto nessun rapporto col movimento islamico, non hanno esercitato alcuna influenza su di esso. Anzi, gli hanno messo i bastoni fra le ruote. Durante il regime dello scià erano contro di noi quanto lo sono ora, e ci odiavano più dello scià. Non a caso l’attuale complotto ci viene da loro e il mio punto di vista è che non si tratti nemmeno di una vera sinistra ma di una sinistra artificiale, partorita e allattata dagli americani per lanciare calunnie contro di noi e per distruggerci».

In altre parole, quando parla di popolo, lei si riferisce soltanto ai suoi fedeli. E secondo lei questa gente s’è fatta ammazzare per l’Islam, non per avere un po’ di libertà. «Per l’Islam. Il popolo s’è battuto per l’Islam. E l’Islam significa tutto, anche ciò che nel suo mondo viene chiamato libertà e democrazia. Sì, l’Islam contiene tutto, l’Islam ingloba tutto, l’Islam è tutto».

Non capisco. Mi aiuti a capire. Che cosa intende per libertà? «La libertà... Non è facile definire questo concetto. Diciamo che la libertà è quando si può scegliere le proprie idee e pensarle quanto si vuole senza essere costretti a pensarne altre... E anche alloggiare dove si vuole... Esercitare il mestiere che si vuole...». Bè, incominciava a barcollare e con un po’ di sforzo si poteva forse colpirlo alla mascella.

Alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e nient’altro. Pensare quanto si vuole ma non esprimere e materializzare quello che si pensa. Ora capisco meglio, Imam. E per democrazia cosa intende? Perché, se non sbaglio, indicendo il referendum per la repubblica lei ha proibito l’espressione Repubblica Democratica Islamica. Ha cancellato l’aggettivo Democratica, ha ridotto l’espressione a Repubblica Islamica, e ha detto: “Non una parola di più, non una di meno”. Si riprese subito. «Per incominciare, la parola Islam non ha bisogno di aggettivi. Come ho appena spiegato, l’Islam è tutto: vuol dire tutto. Per noi è triste mettere un’altra parola accanto alla parola Islam che è completa e perfetta. Se vogliamo l’Islam, che bisogno c’è di aggiungere che vogliamo la democrazia? Sarebbe come dire che vogliamo l’Islam e che bisogna credere in Dio. Poi questa democrazia a lei tanto cara e secondo lei tanto preziosa non ha un significato preciso. La democrazia di Aristotele è una cosa, quella dei sovietici è un’altra, quella dei capitalisti un’altra ancora. Non potevamo quindi permetterci di infilare nella nostra Costituzione un concetto così equivoco. Poi per democrazia intendo quella che intendeva Alì. Quando Alì divenne successore del Profeta e capo dello Stato Islamico, e il suo regno andava dall’Arabia Saudita all’Egitto, e comprendeva gran parte dell’Asia e anche dell’Europa, e questa confederazione aveva ogni tipo di potere, egli ebbe una divergenza con un ebreo. E l’ebreo lo fece chiamare dal giudice. E Alì accettò la chiamata del giudice. E andò, e vedendolo entrare il giudice si alzò in piedi. Ma Alì gli disse, adirato: “Perché ti alzi quando io entro e non quando entra l’ebreo? Davanti al giudice i due contendenti devono essere trattati nel medesimo modo”. Poi si sottomise alla sentenza che gli fu contraria. Chiedo a lei che ha viaggiato per molti Paesi e per molte genti: può fornirmi un esempio di democrazia migliore?».

Sì. Quella che permette qualcosa di più che alloggiare dove si vuole, fare il mestiere che si vuole, e pensare senza esprimere ciò che si pensa. E questo lo dicono anche gli iraniani che, come noi stranieri, non hanno capito dove vada a parare la sua Repubblica Islamica. «Se non lo capiscono certi iraniani, peggio per loro. Significa che non hanno capito l’Islam. Se non lo capite voi stranieri, non ha importanza. Tanto la cosa non vi riguarda. Non avete nulla a che fare con le nostre scelte.» Menomale: l’atmosfera incominciava a riscaldarsi. Quindi non era impossibile fargli perder le staffe. Bastava tener testa alla sua resistenza di incassatore. Rincarai la dose.

Forse la cosa non ci riguarda, Imam, però il dispotismo che oggi viene esercitato dal clero riguarda gli iraniani. E, visto che siamo qui per parlare di loro, vuol spiegarmi il principio secondo cui il capo del Paese dev’essere la suprema autorità religiosa e cioè lei? Vuol spiegarmi perché le decisioni politiche devono esser prese soltanto da coloro che conoscono bene il Corano e cioè da voi preti?. «Il Quinto Principio sancito dall’Assemblea degli Esperti nella stesura della Costituzione stabilisce ciò che lei ha detto e non è in contrasto col concetto di democrazia. Poiché il popolo ama il clero, ha fiducia nel clero, vuol essere guidato dal clero, è giusto che la massima autorità religiosa sovrintenda l’operato del primo ministro e del futuro presidente della Repubblica. Se io non esercitassi tale sovrintendenza, essi potrebbero sbagliare o andare contro la legge cioè contro il Corano. Io oppure un gruppo rappresentativo del clero, ad esempio cinque saggi capaci di amministrare la giustizia secondo l’Islam».

Ah, sì? Allora occupiamoci della giustizia amministrata da voi del clero, Imam. Cominciamo con le cinquecento fucilazioni che in questi pochi mesi sono state eseguite in Iran. Mi dica se lei approva il modo sommario con cui vengono celebrati questi processi senza avvocato e senza appello. «Evidentemente voi occidentali ignorate chi erano coloro che sono stati fucilati. O fingete di ignorarlo. Si trattava di persone che avevano partecipato ai massacri, oppure di persone che avevano ordinato i massacri. Gente che aveva bruciato le case, torturato i prigionieri segandogli le braccia e le gambe, friggendoli vivi su griglie di ferro. Avremmo dovuto forse perdonarli, lasciarli andare? Quanto al permesso di rispondere alle accuse e difendersi, glielo abbiamo concesso: potevano replicare ciò che volevano. Una volta accertata la loro colpevolezza, però, che bisogno c’era dell’avvocato e dell’appello? Scriva il contrario, se vuole: la penna ce l’ha in mano lei. Si ponga le domande che desidera: il mio popolo non se le pone. E aggiungo: se non avessimo ordinato quelle fucilazioni, la vendetta popolare si sarebbe scatenata senza controllo. E i morti, anziché cinquecento, sarebbero stati migliaia».

Lo saranno, di questo passo, Imam. E comunque io non mi riferivo ai torturatori e agli assassini della Savak. Mi riferivo alle vittime che con le colpe del passato regime non avevano nulla a che fare. Insomma, le creature che ancora oggi vengono giustiziate per adulterio o prostituzione o omosessualità. È giustizia, secondo lei, fucilare una povera prostituta o una donna che tradisce il marito o un uomo che ama un altro uomo? «Se un dito va in cancrena, che cosa si deve fare? Lasciare che vada in cancrena tutta la mano e poi tutto il corpo, oppure tagliare il dito? Le cose che portano corruzione a un popolo devono essere sradicate come erbe cattive che infestano un campo di grano. Lo so, vi sono società che permettono alle donne di regalarsi in godimento a uomini che non sono loro mariti, e agli uomini di regalarsi in godimento ad altri uomini. Ma la società che noi vogliamo costruire non lo permette. Nell’Islam noi vogliamo condurre una politica che purifichi. E affinché questo avvenga bisogna punire coloro che portano il male corrompendo la nostra gioventù. Che a voi occidentali piaccia o non piaccia, non possiamo permettere che i cattivi diffondano la loro cattiveria. Del resto voi occidentali non fate lo stesso? Quando un ladro ruba, non lo mettete in prigione? In molti Paesi, non giustiziate forse gli assassini? Non lo fate perché, se restano liberi e vivi, infettano gli altri e allargan la macchia della malvagità? Sì, i malvagi vanno eliminati: estirpati come le erbacce». Aveva detto questo con la solita imperturbabilità. Era venuta anche una mosca, mentre parlava, ed era andata a posarsi sulla sua mano sinistra: grattandosi il capino con le zampette e abbandonandosi a ogni sorta di capriole e di danze. Ma lui non aveva neanche fatto il gesto di liberarsene, le aveva addirittura permesso di salire fino alla sua barba dove ora giocava tutta contenta fra i peli bianchi. E mi faceva impazzire perché mi distraeva e perché stava diventando il simbolo della mia impotenza. Possibile che non barcollasse almeno un poco, che non si arrabbiasse almeno per un secondo? L’unico segno di cedimento era il respiro che di risposta in risposta diventava più fievole denunciando la debolezza del vecchio che ogni tanto ha bisogno di un sonnellino. Sicché, oltre all’irritazione, c’era l’angoscia che mi si addormentasse sotto il turbante. Bisognava impedirlo.

«Imam Khomeini, come osa mettere sullo stesso piano una belva della Savak e un cittadino che esercita la sua libertà sessuale? Prenda il caso del giovanotto che ieri è stato fucilato per pederastia...» «Corruzione, corruzione. Bisogna eliminare la corruzione».

Prenda il caso della diciottenne incinta che poche settimane fa è stata fucilata per adulterio. «Bugie, bugie. Bugie come quelle dei seni tagliati alle donne. Nell’Islam non accadono queste cose, non si fucilano le donne incinte».

Non sono bugie, Imam. Tutti i giornali iraniani hanno parlato di quella ragazza incinta e fucilata per adulterio. Alla televisione c’è stato anche un dibattito sul fatto che al suo amante fosse stata inflitta soltanto una pena di cento frustate sulla schiena. «Se a lui hanno dato cento frustate e basta, vuol dire che meritava le frustate e basta. Se a lei hanno dato la pena di morte, vuol dire che meritava la pena di morte. Io che ne so. Lo chieda al tribunale che l’ha condannata. E poi basta parlare di queste cose: libertà sessuale eccetera. Non sono cose importanti. Uhm! Libertà sessuale. Che cosa significa libertà sessuale. Tutto questo mi stanca. Basta!» Ecco, succedeva. Si addormentava.

Allora parliamo dei curdi che vengono fucilati perché vogliono l’autonomia, Imam. Parliamo...«Quei curdi non sono il popolo curdo. Sono sovversivi che agiscono contro il popolo come quello che ieri ha ammazzato tredici soldati. Io quando li catturano e li fucilano ne provo un gran piacere. Basta. Non voglio parlare neanche di questo, basta. Sono stanco. Voglio riposare». Intervenne Ahmed, con l’aria del principe ereditario cui spetta applicare i desideri del re. «L’Imam ha ripetuto basta. L’Imam è stanco e vuole riposare. L’Imam non vuole più parlare di queste cose». «Allora parliamo dello scià». «No, deve salutarlo e lasciar che riposi. L’ora è passata da almeno mezz’ora. Lo saluti e se ne vada». Ma la parola «scià» era giunta ai divini orecchi. E aveva ottenuto quello che neanche la mosca sulla mano poi sulla barba era riuscita a ottenere con le sue danze e le sue capriole. Inaspettatamente l’immobile turbante si mosse e gli immobili occhi dimenticarono il tappetino per posarsi su Salami. «Ha detto scià?». «Sì, Eccellenza Santissima e Reverendissima». «Che cosa vuol sapere dello scià?». «Ha chiesto che cosa vuoi sapere dello scià» sospirò Salami con espressione preoccupata.

Questo, Imam. Qualcuno ha ordinato di ammazzare lo scià all’estero e ha chiarito che il giustiziere verrà considerato un eroe. Se poi morirà nell’azione, andrà in Paradiso. È lei quel qualcuno? «No! Io non voglio che sia giustiziato all’estero. Io voglio che sia catturato e riportato in Iran e processato in pubblico per cinquant’anni di reati contro il popolo, inclusi i reati di tradimento e di furto. Furto di capitali. Se muore all’estero, quel denaro va perduto. Se lo processiamo qui, ce lo riprendiamo. No, no: io lo voglio qui. Qui! Lo voglio tanto che prego per la sua salute come l’ayatollah Modarres pregava per la salute dell’altro Pahlavi, il padre di questo Pahlavi che era fuggito anche lui portandosi dietro un mucchio di soldi. So che è malato. Me ne dispiace perché potrebbe morire di malattia. Guai se morisse di malattia e mentre sta all’estero».

Ma se vi desse quei soldi, lei smetterebbe di pregare per la sua salute? «Se ci restituisse il denaro, quella parte del conto sarebbe saldata. Ma resterebbe il tradimento che egli ha commesso contro l’Islam e contro il suo Paese. Resterebbe il massacro del Venerdì Nero, il massacro del 15 Kordat cioè di sedici anni fa, e non si può perdonargli i morti che ha lasciato dietro di sé. Soltanto se i morti resuscitassero io mi accontenterei di riavere il denaro che lui e la sua famiglia hanno rubato».

Intende dire che l’ordine di catturarlo e riportarlo in Iran vale anche per la sua famiglia? «Colpevole è colui che ha commesso il reato. Se la famiglia non ha commesso reati, non vedo perché dovrebb’essere condannata. Appartenere alla famiglia dello scià non è un crimine. Non mi risulta ad esempio che il figlio Reza si sia macchiato di colpe verso il popolo, quindi non ho nulla contro di lui. Può rientrare in Persia quando vuole e viverci come un normale cittadino. Che venga».

«Io dico che non viene». «Se non vuol venire, non venga».

E Farah Diba? «Per lei deciderà il tribunale».

E Ashraf? «Ashraf è la gemellaccia dello scià, ladra e traditrice come lui. Per i crimini che ha commesso dev’essere processata e condannata come lui. Sì, voglio anche la gemellaccia».

E l’ex primo ministro Bakhtiar? Bakhtiar dice che ha già pronto un governo per sostituire il governo di Bazargan. E aggiunge che presto tornerà. «Che torni, che torni. Magari a braccetto del suo scià. Così in tribunale ci vanno insieme. Se Bakhtiar dev’essere fucilato o no, ancora non posso dirlo. Però so che dev’essere processato, e devo ammettere che mi piacerebbe molto vedermelo riportare insieme allo scià, mano nella mano. Lo aspetto».

A morte anche Bakhtiar, dunque. A morte Ashraf la gemellaccia, a morte Farah Diba, a morte tutti. Imam Khomeini mi permetta una domanda che naturalmente esula dalla morale di una rivoluzione: è noto che le rivoluzioni non perdonano, non conoscono la pietà. Lei come uomo, anzi come prete, ha mai perdonato nessuno? Ha mai provato pietà, comprensione per un nemico? «Che cosa, che cosa?»

Ho chiesto se sa perdonare, provar pietà, comprensione. E, visto che ci siamo, le chiedo anche questo: ha mai pianto? «Io piango, rido, soffro. Sono un essere umano. O crede che non lo sia? Quanto al perdono, ho perdonato la maggior parte di coloro che ci hanno fatto del male. E quanto alla pietà, ho concesso l’amnistia ai poliziotti che non avevano torturato, ai gendarmi che non s’eran resi colpevoli di abusi troppo gravi, ai curdi che hanno promesso di non attaccarci più. Ma per coloro di cui abbiamo parlato non c’è perdono, non c’è pietà, non c’è comprensione. Ora basta. Sono stanco. Basta». Sembrava irritato, e davvero deciso a congedarmi. Tentai di trattenerlo.

La prego, Imam. Ho ancora molte cose da domandarle. Su questo chador, per esempio, che lei impone alle donne e che mi hanno messo addosso per venire a Qom. Perché le costringe a nascondersi sotto un indumento così scomodo e assurdo, sotto un lenzuolo con cui non si può muoversi, neanche soffiarsi il naso? Ho saputo che anche per fare il bagno quelle poverette devono portare il chador. Ma come si fa a nuotare con il chador? E allora i terribili occhi che fino a quel momento mi avevano ignorato come un oggetto che non merita alcuna curiosità, si levarono su di me. E mi buttarono addosso uno sguardo molto più cattivo di quello che m’aveva trafitto all’inizio. E la voce che per tutto quel tempo era rimasta fioca, quasi l’eco di un sussurro, divenne sonora. Squillante. «Tutto questo non la riguarda. I nostri costumi non riguardano voi occidentali. Se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene.»

Prego? Credevo d’aver capito male. Invece avevo capito benissimo. «Ho detto: se la veste islamica non le piace, non è obbligata a portarla. Il chador è per le donne giovani e perbene». Poi rise. Una risata chioccia, da vecchio. E rise Ahmed. Rise Bani Sadr. Risero, uno a uno, i bruti con la barba: sussultando contenti, sguaiati. E fu peggio che consegnarmi a Khalkhali perché subito i tormenti e le umiliazioni e gli insulti che m’avevan ferito in quei giorni vennero a galla per aggrovigliarsi in un nodo che comprendeva tutto: la birra negata, il dramma del parrucchiere, la via crucis di Maria Vergine che cerca con san Giuseppe un albergo, una stalla dove partorire, fino alla carognata del mullah che m’aveva costretto a firmare un matrimonio a scadenza. E il nodo mi strozzò in un’ira sorda, gonfia di sdegno. «Grazie, signor Khomeini. Lei è molto educato, un vero gentiluomo. La accontento sui due piedi. Me lo tolgo immediatamente questo stupido cencio da medioevo». E con una spallata lasciai andare il chador che si afflosciò sul pavimento in una macchia oscena di nero. Quel che accadde dopo resta nella mia memoria come l’ombra di un gatto che prima se ne stava appisolato a ronfare e d’un tratto balza in avanti per divorare un topo. Si alzò con uno scatto così svelto, così improvviso, che per un istante credetti d’esser stata investita da un colpo di vento. Poi, con un salto altrettanto felino, scavalcò il chador e sparì.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”contro Travaglio e Luttazzi: che c'entra l'editto islamico con quello bulgaro? Bene, ora spiegaci che c’entra l’editto islamico con l’editto bulgaro, spiegaci che cosa c’entra - caro Marco-senza-vergogna-Travaglio - la vostra industrietta macinasoldi con la satira vera, quella degli ammazzati di Parigi che graffiavano nella carne viva del pianeta: la religione, l’islam, l’ebraismo, l’Occidente, la crisi. Spiegaci che cosa cazzo c’entra (scusa la parola cazzo, ma fa sempre satira) con le vostre cazzate dove il rischio massimo era una reprimenda di Sandro Bondi; che cosa c’entra cioè il martirio vero (inteso come pericolo di vita) con il martirio finto (inteso come requisito di carriera). La rivista Charlie Hebdo rischiava la pelle ogni giorno senza guadagnarci granché, si faceva il mazzo per sopravvivere sul mercato: non pretendeva d’essere inserita d’ufficio nella tv di Stato con programmi scadenti, roba che poi moriva da sola anche nella tv privata (come a La7) perché semplicemente non faceva ascolti: vero Luttazzi?, vero Guzzanti?, vero Dandini?, eccetera. Le vignette danesi riprese dai francesi giocavano in un altro campionato, non erano le mutande di Anna Falchi o le cacche di Daniele Luttazzi o il Papa sodomizzato all’Inferno che tanto piaceva a Sabina Guzzanti, non erano le barzellette sporche per le quali voi presunti satiri scomodavate Senofonte e l’articolo 21 della Costituzione, ergendovi a oppressi. Gli ammazzati di Hebdo non facevano comizi a manifestazioni di capi-partito come Grillo o Di Pietro, non andavano in vacanza con fonti univoche e poi politiche come Ingroia, non facevano spettacolini teatrali e libri e dvd e pseudo-lezioni universitarie e monologhi in prima serata da Santoro: facevano satira per davvero e li ricorderemo come esempio coraggioso di libertà di opinione, non li ricorderemo per “l’odore dei soldi” di cui non è rimasto nulla se non i soldi (tuoi) e l’odore (vostro). Gli ammazzati di Hebdo non pretendevano immunità giudiziarie e civili per autoproclamazione, non pretendevano di poter dire tutto quello che volevano su chi volevano e come volevano: senza mai pagarne un prezzo, perché “la satira non si processa”. Non evocavano di continuo il regime e la censura, non pretendevano di essere intoccabili persino da una magistratura peraltro acclamata, insomma: non avevano bisogno di pararsi il sedere col diritto di satira ogni volta che gli scappava una cazzata. Perché loro, la satira, non la facevano su Ruby e sulla Carfagna, non la facevano dicendo nano e ciccione o piegandosi su cartacce giudiziarie d’accatto: loro la facevano sulle libertà individuali e collettive sin dagli anni Sessanta, mica su Berlusconi per vent’anni di fila. E ora tu, macchietta rinsecchita e senza sorriso, a sangue caldo torni a romperci le palle coi tuoi ciclostile sul regime, e a pagina 22 del Fatto Quotidiano ospiti pure l’equilibrato Luttazzi che si paragona ai francesi e scrive testualmente che «non c’è bisogno di trasferirsi nei Paesi arabi per trovare resistenze alla satira sulla religione», rivelandoci di aver ricevuto minacce di morte e d’esser stato costretto a mesi sotto scorta. Ma certo, è un paragone calzante, dietro casa di Luttazzi erano pronti Ferrara e la Santanché coi kalashnikov, c’era anche un piano per prendere ostaggi nel fortino clandestino della Raidue targata Freccero. O forse no, Travaglio e Luttazzi non dicevano sul serio. Forse era satira anche quella, dev’essere così. Comunque occhio: i tre terroristi francesi li hanno seccati, Ferrara e la Santanchè e Berlusconi sono ancora in giro.

Marco Travaglio, travaso di bile: insulta Filippo Facci (e si auto-smentisce), scrive “Libero Quotidiano”. Filippo Facci attacca la "macchietta rinsecchita" Marco Travaglio, e la "macchietta rinsecchita" perde la testa. La firma di Libero ha accusato il vicedirettore del Fatto Quotidiano per l'improvvido paragone tra "editto islamico" in riferimento alle stragi parigine e l'editto "bulgaro" di berlusconiana memoria, ricordandogli che i redattori di Charlie Hebdo si guadagnavano da vivere rischiando (davvero) la vita, mentre Travaglio si guadagna da vivere recitando lo stesso copione, trito e ritrito e stratrito, ormai da vent'anni. Apriti cielo, Marco Manetta ha dato di matto. La livorosa risposta è arrivata sulla prima pagina del Fatto Quotidiano, in cui dà a Facci del "poveretto con le mèches" per poi aggiungere: "Se ogni tanto capisse ciò che legge e ascolta, il tapino scoprirebbe che non ho fatto alcun paragone". Peccato che il paragone lo ricordi proprio Travaglio nella riga successiva, in cui in preda all'abitudinario travaso di bile ricorda che lui ha scritto: "Quella di Parigi è una tragedia, in Italia siamo sempre alla farsa". Dunque, continua, "ho semplicemente sbeffeggiato l'ipocrisia di una classe politica e giornalistica", e dunque, aggiungiamo noi, ha fatto quel paragone insensato che sta cercando di negare.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: il maestrino Marco Travaglio trafitto dai suoi stessi forconi. Marco Travaglio ha fatto bene a lasciare lo studio di Servizio Pubblico giovedì sera: anche se l’ha fatto senza calcoli e solo per un’alterigia da lesa maestà, per cedimento. In questo modo l’attenzione è finita sul suo delimitato scazzo con Michele Santoro e non su come ci si era arrivati: non su un’intera puntata, cioè, che aveva logorato Travaglio minuto dopo minuto e aveva alluvionato un modo di fare giornalismo e opposizione, se c’è differenza. Tutt’altro discorso meriterà un giorno Michele Santoro, che per anni si è portato la bestia in casa - accudito e viziato come un gatto siamese cui tutto è concesso - salvo accorgersi, in un momento di resipiscenza dettata dai tempi, che una bestia restava: anche quando non serve, anche quando la ragionevolezza sta palesemente da un’altra parte, anche quando, soprattutto, non è chiaro se esista ancora un pubblico (una piazza) a cui rivolgersi senza sfasciare veramente tutto. Hai voglia a dire a Travaglio - come ha fatto Santoro - che anche lui deve rispettare le regole: quali? Le regole erano che Travaglio poteva miagolare a piacimento, poteva graffiare anche le tende e il divano, tanto il padroncino alla fine lo coccolava. Se poi i tempi ora esigono un’altra sensibilità, intesa come variante dell’intelligenza, beh, giovedì sera era inutile chiederla a Travaglio: lui ha un format solo, ed è la sua egolatria. Nel rivedere l’episodio solo via internet, come avrà fatto la maggioranza, si potrebbe anche pensare a una trascurabile scossa umorale e magari funzionale agli ascolti, anche se giunta fuori tempo massimo. Non è così. L’onnipotenza del monologante è andata in crisi progressivamente, man mano che la pacatezza imbolsita del governatore Claudio Burlando distillava graniti argomentativi poggiati via via su interventi di altri, e applausini, puntualizzazioni di Santoro, battute sulla figuraccia genovese di Grillo, soprattutto il candore dei ragazzi seduti in trasmissione, quegli «angeli del fango» che hanno trafitto Travaglio coi suoi stessi forconi. Travaglio ha avuto più spazio di chiunque, non escluso il suo monologo di quasi undici minuti che al solito ha spazzolato in superficie l’universo mondo: da Renzi ai giudici in ferie, da Burlando al Mose, da Scajola alla Protezione Civile, pretesti per battutoni che Maurizio Crozza, in confronto, pare Oscar Wilde. Ma, blocco dopo blocco, tirava un’aria che lo lasciava lì come un coglione. Intanto Burlando, accusato genericamente di essere un cementificatore, convinceva con la sua aria dimessa e con un’immagine di politica intesa come arte del possibile: «Noi possiamo aggiustare quello che in passato si è fatto male, dobbiamo fare cose realistiche... La differenza tra chi fa un discorso e prende applausi, e chi governa a lungo perché ha preso voti, è questa qui: noi dobbiamo fare cose realistiche, e voi - rivolto a Travaglio - potete anche dire cose che realistiche non sono». E fin qui ci poteva anche stare. Infatti a indebolire i nervi di Travaglio è stato il successivo intervento di Stefano, un cosiddetto angelo del fango che in pratica ha difeso tecnicamente gli argomenti di Burlando. E la critica di un ragazzino pesa a Travaglio più di qualsiasi altra, perché sale dalla stessa Piazza Tahrir in cui pescano lui e Grillo. «Travaglio ha fatto un discorso che forse non vede completamente la realtà», ha detto il ragazzo, che peraltro abita dove il fiume è esondato e conosce bene il quartiere. Travaglio intanto restava lì coi suoi appuntini, il quadernino, la lezioncina imparata per l’occasione. Poi Santoro è intervenuto a difesa del ragazzo ed è pure partito l’applauso, come è meglio spiegato nel dialogo riportato in questa pagina. Burlando a un certo punto ha pure detto: «Lei, Travaglio, non è informato». E Travaglio: «Sono informatissimo». Ma era sempre più chiaro che non era vero. Travaglio era lì per fare le veci di Ferruccio Sansa, campioncino di contraddizioni diciamo così, ineleganti: difende in tv l’ex sindaco Adriano Sansa anche perché è suo figlio, ne scrive sul Fatto Quotidiano, attacca Burlando che ha attaccato suo padre, inoltre scrive anche di Grillo dopo aver arringato le genti a un V-day e dopo aver collaborato con Grillo e, peraltro, abitando affianco a Grillo, sulle colline di Sant’Ilario. Ma una parte della realtà, giovedì sera, è venuta fuori lo stesso. L’ex sindaco Adriano Sansa, negli anni Novanta, si limitò a un’opera di pulizia dei corsi d’acqua ma non proseguì i lavori anti-alluvione cominciati in precedenza da Burlando. È solo una parte della realtà, ma questo è venuto fuori durante la puntata di Servizio Pubblico. E quindi è vero.

SINISTRA E MAGISTRATI. LA GIUSTIZIA CHE UCCIDE L'ECONOMIA.

Lettera di Buzzi al Garantista: «Sono innocente». Caro Sansonetti, sono il famigerato Salvatore Buzzi, arrestato il 2 dicembre nell’inchiesta Mafia Capitale, che ti scrive la notte di Natale per chiederti di darmi un attimo del tuo tempo. Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi. E la gloriosa cooperativa 29 giugno, ove lavoravano 1254 persone, è stata commissariata e nessuno ha ricevuto né stipendio né tredicesima, causando gravi disagi a tutti i lavoratori, in gran parte svantaggiati. Sono stato condannato a mezzo stampa e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me? Io mi reputo una persona seria e onesta, che ha lavorato tanto per creare un gruppo cooperativo ove lavorano migliaia di persone e che non ha mai rubato nulla alle aziende che amministra. Conosco Carminati da oltre 30 anni e l’ho frequentato dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze; non ho mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne! I miei rapporti con lui sono sempre stati alla luce del sole e non ho mai nascosto la sua frequentazione, era lui il maniaco della sicurezza, ma constato che è servita a poco. Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici; casomai sono io che ho subìto qualche “delicata estorsione” da qualche solerte funzionario e/o dirigente. Sto provando a far uscire le mie ragioni e ho scritto una lunga lettera al mio avvocato, articolata sui punti più controversi, per farla avere a Rosi Bindi nella sua funzione di presidente della Commissione Antimafia della Camera. La lettera spiega analiticamente molti episodi che mi sono contestati. Non ti chiedo di credermi a priori, ma ti chiedo di chiamare il mio avvocato e documentarti anche sulle fonti della difesa, e se ti convinco anche un po’, aiutami nella mia solitaria battaglia per far valere le mie ragioni e riconquistare l’onore perduto. Certo ho detto tante parole in libertà, ma sfido chiunque nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso: e io ho avuto le microspie in ufficio e in auto per due anni. La Procura, inoltre, censura con aggettivi dispregiativi la semplice attività di lobbing, del tutto legittima. Siamo in uno Stato di diritto e non in uno Stato etico. Non voglio rubarti ancora tempo, ti chiedo solo di documentarti sulle ragioni della difesa con la serietà che ti contraddistingue. Augurandoti buone feste ti porgo i miei più cordiali saluti.

«Buzzi in galera sulla base di chiacchiere», scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”. All’indomani della lettera che Salvatore Buzzi ha indirizzato dal carcere di Nuoro al nostro direttore, ci è sembrato opportuno, visto che le ragioni dell’accusa sono stranote e mediaticamente avvincenti, cercare di comprendere anche le istanze della difesa, ad oggi poco esplorate, per usare un eufemismo.

«Buzzi resta in galera – ci spiega il suo legale Alessandro Diddi – sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare le esultanze proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica sui conti correnti. È in galera sulla base di chiacchiere».

«Sono accusato di essere un mostro, un mafioso, un corruttore e non ho alcuna possibilità di difendermi», scrive Salvatore Buzzi in una lettera scritta a mano la notte di Natale dal carcere di Nuoro che è giunta al Garantista soltanto ieri «Sono stato condannato a mezzo stampa – spiega il patron della Cooperativa 29 giugno a Piero Sansonetti – e solo tu, Bordin e Ferrara avete un minimo provato a prendere le distanze dall’inchiesta; ma la presunzione di innocenza non dovrebbe valere anche per me?».

Difficile, visto il clima di gogna mediatica venutosi a creare, ignorare anche solo parte delle accuse rivolte a Buzzi da tribune e talk di ogni genere. E ancor più difficile, dato il visibilio scandalistico suscitato da ”Mafia capitale”, porsi semplici domande come ”E se fosse tutta una montatura?”, oppure, “Ma Salvatore Buzzi che cosa ne pensa di questa inchiesta? E se ha intenzione di difendersi, su quali basi?”. Temi di questo genere sono piuttosto invisi, e suonano quasi come sacrileghi. Ma modestamente confortati dalla Costituzione, ci è parso doveroso parlare della vicenda Buzzi, con Alessandro Diddi, il legale che lo rappresenta.

Avvocato, Buzzi è attualmente detenuto nel carcere di Nuoro ed è stata respinta l’istanza di scarcerazione. Su quali basi il suo cliente resta in cella?

«Salvatore Buzzi resta in galera sulla base di semplici indizi: di intercettazioni telefoniche alle quali non hanno fatto seguito accertamenti che potessero confortare affermazioni ed esclamazioni proprie delle sue chiacchierate al telefono. Non c’è stata nessuna verifica amministrativa. Non ci sono state acquisizioni documentali, nessuna verifica su conti correnti e libri mastri. È in galera sulla base di chiacchiere».

Ma quali sono dunque i gravi e sufficienti indizi di colpevolezza che dovrebbero trattenerlo in carcere?

«Ogni volta che Buzzi diceva al telefono ”Abbiamo vinto!”, il carabiniere all’ascolto ne deduceva che aveva vinto grazie a una turbativa d’asta. A nessuno è venuto in mente di verificare se dalle carte risultassero irregolarità».

In assenza dei verbali di aggiudicazione, si presume che gli appalti che si è assicurato Buzzi sono frutto di azioni delittuose.

«Gioire per una gara vinta, non è la stessa cosa che gioire perché un piano criminale è andato a compimento. Le gare possono essere vinte legittimamente, e dai miei riscontri stanno emergendo numerose assurdità in proposito».

A che cosa si riferisce?

«Intrapreso lo studio dei fatti contestati, ed avuto accesso alle relative carte, mi sono imbattuto in gare d’appalto nelle quali le cooperative di Buzzi erano l’unico concorrente in lizza. Mi spiega quale utilità avrebbe il pagamento di una tangente, per una gara alla quale partecipa un solo concorrente? E in secondo luogo faccio un’altra rivelazione. Si parla di corruzione per alcune gare che, dati alla mano, non sono state vinte dalla cooperativa di Buzzi. Ma allora a che cosa sarebbe servito elargire mance così generose e tessere trame tanto diaboliche?»

Nella lettera che ci ha inviato, Buzzi ammette di aver detto “tante parole in libertà”. “Ma sfido chiunque – ha scritto nell’intimità, se registrato, a non doversi poi scusare per qualche giudizio avventato espresso”. Soltanto eccessi verbali, dunque? È questa la colpa del suo cliente?

«Chi è di Roma, o ci vive da molto tempo, sa molto bene che in questa città vige una “romanitas” del tutto dissimile da quella augustea. Il linguaggio in voga, in pressoché ogni ambiente, è sempre molto colorito e guascone. Si tende a dar vita a dialoghi intercalati da eccessi caricaturali, spavalderie assortite, battutacce a volte esilaranti. E talvolta ci scappano anche improperi e si fa la voce grossa, per darsi l’aria da rodomonte. È questo che fa delle intercettazioni uno strumento talvolta pericoloso: l’interpretazione letterale di parole in libertà come tante ne diciamo tutti noi nelle conversazioni private di ogni giorno».

E ritorniamo alla domanda di prima: reputa fondata la carcerazione preventiva?

«In qualità di docente universitario, e non come suo avvocato, la reputo una scelta irragionevole. Pericolo di fuga? Non ce n’è, Buzzi è da due mesi un sorvegliato speciale. Reiterazione del reato? Un po’ complesso, visto quello che Buzzi ormai rappresenta per l’opinione pubblica. Inquinamento delle prove? Proprio no, perché tutto è stato sequestrato».

E in qualità di avvocato?

«In qualità di avvocato non posso che constatare come la nostra giurisprudenza abbia intrapreso da qualche tempo una bruttissima china. L’idea di trattenere in carcere qualcuno sulla base dei “gravi indizi di colpevolezza” è diventata piuttosto desueta. Sempre più spesso si fa strame delle garanzie che normano le esigenze cautelari. Con il risultato che noi tutti siamo meno a piede libero di quanto possiamo immaginare. Finire in prigione, è diventato più semplice di quanto ciascuno di noi si aspetta».

A un certo punto Buzzi ci scrive: «Non ho mai corrotto un politico, ma ho finanziato legalmente moltissimi esponenti politici». Che cosa può dirci di questi rapporti intrattenuti con la politica?

«Buzzi ha fatto versamenti legittimi e documentati a fondazioni politiche che ne hanno sostenuto le istanze. Sono state considerate erogazioni illecite e invece ce n’è regolare traccia. Buzzi ha sostenuto candidature, ha pagato eventi e manifestazioni».

Buzzi dice peraltro di non aver mai sottratto un euro dalle aziende che amministra. Nessun contraccambio da queste attività?

«Buzzi non è l’inventore geniale di un business fatto sulla pelle delle persone disagiate. Le cooperative come quelle di Buzzi lavorano nel sociale, e hanno bisogno dell’aiuto dello Stato che le finanzia nel tentativo di colmare il gap tra un libero cittadino e uno svantaggiato. Chi darebbe lavoro a ex carcerati come quelli cui Buzzi ha dato un orizzonte di vita nuova e dignitosa? È del tutto evidente che il fondatore di una cooperativa esprima la propria predilezione per questo o quel candidato più sensibile ai temi sociali. E del tutto legittimo che possa scegliere di sostenere questa persona o quell’altra. Questa si chiama democrazia, non corruzione. Siamo un Paese di grandi ipocriti».

Ci ha colpito molto un altro passaggio della lettera. Buzzi dice che non solo non ha mai corrotto, e che casomai è stato lui ”a subire qualche delicata estorsione da qualche solerte funzionario e/o dirigente”. Ne parliamo?

«Su questo aspetto devo attenermi al momento al segreto professionale. Mi limito a ricordare su tutti la vicenda dell’appalto per il Cara di Castelnuovo di Porto. Il giudice del Tar Linda Sandulli sospese l’assegnazione dell’appalto a Buzzi: deteneva quote in una società che faceva manutenzione nello stesso centro».

Lui di sinistra, Carminati di destra: quanto appeal mediatico ha avuto l’idea di larghe intese delinquenziali in questo caso?

«Buzzi è sempre stato e resta un comunista. La conoscenza di Carminati l’ha fatta in carcere trent’anni fa. Ma Buzzi lo ha frequentato solo a partire dal 2012, quando era un uomo libero e senza pendenze».

Il suo cliente tiene a precisare che non ha «mai commesso reati con lui né, tanto meno, l’ho visto commetterne».

«Tutta la vicenda si è innescata nel 2010, perché Carminati venne sospettato di aver avuto un ruolo nella rapina di un caveau. Da allora si cominciarono a conoscere vita, morte e miracoli di quest’uomo, sebbene venne riconosciuto del tutto estraneo al delitto per il quale partì la sua ”marcatura a uomo”. Intercettazione dopo intercettazione, venne il momento dell’incontro tra Buzzi e Carminati in un bar. Carminati si offrì di mediare per un credito che Buzzi doveva riscuotere. E da lì, successe il pandemonio. Se Carminati non avesse fatto capitolino in questa vicenda, altro che mafia capitale. Salvatore Buzzi avrebbe continuato a godere della fama di uomo buono, intelligente, e impegnato».

Caro Buzzi, assurdo accusarti di essere un mafioso, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Se Salvatore Buzzi fosse milanese, probabilmente lo conoscerei. Sarebbe uno dei tanti ex detenuti con cui avrei avuto contatti e collaborazione in qualche mia veste istituzionale. E la Cooperativa 29 giugno sarebbe stata una di quelle con cui avrei organizzato il lavoro, interno e esterno alle carceri milanesi di S. Vittore, Opera e Bollate, come la Cooperativa Alice e le altre. L’avrei frequentato, sarei andata a qualche pranzo come quello della famosa fotografia cui partecipò anche l’attuale ministro Poletti, magari sarei diventata sua amica, sapendo benissimo che non stavo frequentando l’oratorio della mia parrocchia. Perché i casi sono due: o si crede nella Costituzione e in tutte le leggi che predicano il reinserimento dei detenuti o non ci si crede. Nel primo caso, bisogna sapere quanto sia fondamentale il lavoro per dare speranza non solo a chi esce dal carcere di poter fare una vita normale, ma anche a tutti noi, perché sappiamo che quell’ex detenuto difficilmente commetterà ancora reati. Ben vengano quindi quelli come Buzzi cha hanno la capacità di mettere in piedi una cooperativa che dà lavoro a 1254 persone. E male, anzi malissimo fa il governo se cerca, come sta facendo, di intralciare in qualche modo questo tipo di attività. La lettera di Buzzi mi colpisce prima di tutto per questo aspetto della vicenda, perché conosco tanti “Buzzi”, ogni tanto “sfrutto” le loro capacità professionali e manuali dando loro qualche lavoretto in più, qualche aiuto a muover le mani nella direzione giusta. Ma la lettera di Salvatore Buzzi pone anche ben altri problemi: mostro, mafioso, corruttore. Questa è oggi la sua fotografia, questo sono le sue impronte digitali, il suo dna. Mostro per il solito circo mediatico-giudiziario messo in piedi da magistrati esibizionisti e giornalisti in toga. Su questo punto, caro Salvatore, non c’è speranza. Tu stesso ti sei domandato, quando eri ancora libero e rispettato, come mai sia stato arrestato Claudio Scajola per quella vicenda assurda che ha riguardato un altro mio ex collega parlamentare, Amadeo Matacena. Neanche io ho capito perché, e posso dare una sola spiegazione: se arresti, conquisti qualche titolo e qualche foto sui giornali. Altrimenti, poche righe in cronaca. Ma neanche mi convince l’incriminazione di Matacena, visto che anch’io, insieme a Vittorio Sgarbi, fui indagata per otto mesi per lo stesso reato, “concorso esterno in associazione mafiosa”. E so che è un reato inesistente. Come lo so io, lo sanno e lo dicono in tanti, così come in tanti, quelli che lo conoscono, sanno bene che Buzzi non è un mafioso. Dove sono i tartarughini, con la testa nascosta, i garantisti del Pd? Se la loro identità politica non è più quella del giustizialismo, come vent’anni fa, si facciano sentire. Se devono “far pulizia” nel Pd romano, la facciano, problema loro. Ma alzino la voce per dire che non si deve più confondere la giustizia con la morale e che vogliono uno Stato di diritto laico e rispettoso nei confronti del “signor chiunque”. Le mie esperienze, sia giudiziarie che politiche, mi hanno reso non solo sensibile, ma anche molto diffidente nei confronti delle Grandi Inchieste, soprattutto se basate sulla contestazione del reato associativo, come contenitore che tutto comprende e tutto giustifica. E mi sta molto sulle scatole un Procuratore (che non conosco ) che fa conferenze stampa e che crea un nuovo reato, l’associazione mafiosa in salsa romana, solo per poter usare tutti gli strumenti, anche persecutori, consentiti per i reati più gravi, come il 416-bis. E altrettanto non apprezzo un ministro che applica l’articolo 41-bis dell’ordinamento penitenziario (che andrebbe abolito subito) a indagati che non sono neppure accusati di omicidi e stragi. Si vogliono forse creare nuovi “pentiti” come Scarantino? Purtroppo la storia giudiziaria di questo paese, se e quando fa giustizia, la fa molti anni dopo, quando la reputazione e la vita di tanti sono ormai rovinate. Ma so per esperienza che far uscire qualche voce dal silenzio e dal vocio urlante del consueto circo a volte a qualcosa serve ed è giusto farlo. Io so che Salvatore Buzzi non è un mostro e non è un mafioso. Non so se sia solo un lobbista, come lui dice, o anche un corruttore o un concusso. Questo, ma solo questo, lasciamolo alla magistratura. Ma, si spera, a una magistratura requirente normale, senza elmetto e senza selfie.

PROCESSATE BOSSI ED I LEGHISTI.

Umberto Bossi: "Processatemi a Roma", scrive “Libero Quotidiano”. Un tempo "Roma ladrona". Oggi "processatemi a Roma". Protagonista della peculiare parabola è il Senatùr per eccellenza, Umberto Bossi, che attende di essere giudicato nel caso legato a Francesco Belisto, il tesoriere truffaldino della Lega Nord, la vicenda in cui è invischiato anche il Trota, il figlio Renzo Bossi. E' successo, infatti, che gli avvocati di Bossi (padre) abbiano presentato un'istanza per spostare nella capitale le cause pendenti tra Milano e Genova (il 29 ottobre scorso è stato deciso che per il reato di appropriazione indebita ipotizzato sia competente il tribunale di Genova). Insomma, oggi, il Senatùr chiede che a restituirgli l'onore sia il tribunale di Roma.

La Lega Nord accusata di "banda armata": 18 anni dopo, le Camicie verdi a processo, scrive “Libero Quotidiano”. A processo, diciotto anni dopo. Si tratta della paradossale vicenda che riguarda le 34 "camicie verdi" della Lega Nord per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio per banda armata dalla procura di Bergamo per aver "promosso, costituito, organizzato o diretto un'associazione di carattere militari". Per inciso, le Camicie verdi erano quelle che si definivano "un servizio d'ordine organizzato nell'ambito dei territori della Padania". Ora, se il gip accoglierà la richiesta, partirà il processo. L'inchiesta - Nel frattempo il leader del Carroccio, Matteo Salvini, ha detto che chiederà il risarcimento dei danni per "un processo senza senso", anche perché per la stessa imputazione stato già assolto un gran numero di leghisti, da Umberto Bossi e fino a Maroni e Calderoli. Per altri leghisti il procedimento era stato sospeso parecchie volte in attesa di responsi della Consulta. L'inchiesta era stata avviata nel 1996 dal procuratore di Verona Guido Papalia perché la maggior parte degli indagati proveniva da quella provincia. Successivamente la maggior parte dei magistrati avevano accolto l'eccezione di competenza territoriale, infatti le Camicie verdi furono fondate il 2 giugno 1996 a Pontida, in provincia di Bergamo. E dunque è là che ora il processo, dopo quasi due decenni, dovrebbe ripartire.

Lega, il processo da rifare dopo 18 anni, scrive Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Procuratore di Verona Guido Papalia aveva diritto di indagare sulle Camicie Verdi più o meno quanto il sottoscritto ha diritto di presiedere l’assemblea dell’Onu. Cioè, nulla. Per fortuna ce ne siamo accorti in fretta: ci abbiamo messo solo 18 anni. L’inchiesta sui leghisti responsabili di «associazione militare con scopi politici»,infatti, era nata il 1996. Al Quirinale, tanto per dire, c'era Scalfaro. Nel 1996 si disputavano le Olimpiadi di Atlanta, l’inventore di Facebook Mark Zuckenberg era appena uscito dall’asilo, gli sms erano scambiati solo da pochi adepti e i telefoni cellulari erano così poco diffusi che le intercettazioni di quell’inchiesta vennero fatte tutte su telefoni fissi. Uno degli indagati, Matteo Bragantini, a quel tempo era un giovane studentello con i capelli lunghi. Oggi è un parlamentare di lungo corso con i primi segni dell’incanutimento e un po’ di pancetta. Però gli è andata meglio che a un altro dei 36 indagati, classe 1925, che nel frattempo è morto, senza nemmeno aver potuto scoprire che Papalia non aveva alcun diritto di perseguitarlo. Però adesso non prendetevela con la giustizia: per capire se un procuratore può indagare o no su un fatto ci vorrà il suo tempo, no? Bisogna esaminare le carte con attenzione, magari serve anche un sussidiario di geografia per capire i confini delle province di Verona e Bergamo. Non è che si possa far tutto semplice. E poi che volete? Diciotto anni e ci arrivano anche loro. Non lo fanno apposta a tirarla per le lunghe: lo dimostra il fatto che, appena si sono accorti che le Camicie Verdi erano state costituite a Pontida e accertato che Pontida non è provincia di Verona (promossi!), hanno predisposto il trasferimento «immediato» del fascicolo a Bergamo. Immediato, proprio così. 18 anni dopo, ma immediato. Nei tribunali mica si perde tempo. Peccato solo che in questi 18 anni, nel frattempo, sia successo di tutto. Ricorderete: udienze, ispezioni della Digos in via Bellerio, scontri con la polizia, Maroni in barella, dibattiti in Parlamento, giornali scatenati. Sull’inchiesta di Papalia (che non doveva nemmeno cominciare) è stata scritta la qualunque, compresi gli indimenticabili titoli sui «Terroristi in Camicia Verde», «Secessione a Padania armata», «Organizzazioni militari leghiste», «Verde scuro tendente al nero» intere trasmissioni di Santoro, paginate indignate dei commentatori intelligenti. Ecco: scusate, ma ci siamo sbagliati. È nato tutto da un equivoco. Anzi, da un errore. Non se n’è accorta nemmeno la Corte Costituzionale: coinvolta per cinque volte nella vicenda, per cinque volte ha rimandato il fascicolo a Verona. Cioè nel posto sbagliato. Anche alla Consulta, evidentemente, ci sono problemi con la geografia. Adesso ricomincia tutto da Bergamo. E ricomincia da zero. Dispiace un po’ per Papalia, che tutte le inchieste si porta via: nel frattempo è andato in pensione, ma il suo lavoro è stato inutile. O meglio: è stato utile solo a lui. Gli è servito a farsi un po’ di pubblicità, che fa sempre bene, e forse un po’ di carriera, arrivando a farsi nominare Procuratore Capo a Brescia. «Terun de la madonna, vuol arrestare il Va’ Pensiero», lo apostrofò Bossi. Del resto la giustizia italiana è fatta così: il procuratore di Trani mette sotto inchiesta Moody’s e Standard's&Poor, Henry John Woodcock fa sfilare a Potenza Savoia e showgirl, Raffaele Guariniello convocherebbe a Torino pure San Gennaro se solo potesse. Basta che un magistrato intravveda la possibilità di avere l’attenzione dell’opinione pubblica e zac, l’inchiesta è aperta. Tanto che problema c’è? Al massimo finisce tutto in nulla. O peggio: 18 anni dopo si scopre che l’indagine non doveva nemmeno cominciare perché Bergamo non è Verona. Che importa? Le telecamere ormai sono lontane. E gli errori della giustizia, si sa, non li paga nessuno.

Papalia e le camicie verdi: «Così non è giustizia diciotto anni sono troppi», scrive Cremonesi Marco su “Il Corriere della Sera”. «Non c'è il minimo dubbio. Una giustizia così lenta non è più giustizia». Guido Papalia è in pensione da circa un anno. Ma nel 1996, diciotto anni fa, fu lui ad avviare, da procuratore di Verona, il procedimento contro la «Guardia nazionale padana», le cosiddette Camicie verdi. Secondo i leghisti, un servizio d'ordine. Secondo varie procure, un'associazione militare. Il processo, però, non è partito: la procura di Bergamo (oggi competente sulla vecchia indagine) ha chiesto sabato al gip il rinvio a giudizio di 34 militanti di allora. Procuratore, lo avvierebbe ancora quel procedimento? «Ah, non c?è dubbio. Tra l'altro, l'ho avviato io a Verona dopo una riunione con diverse procure che si svolse a Mantova. Fu lì che si decise che il procedimento si sarebbe dovuto svolgere a Verona. Ma sul fatto che fosse motivato, dubbi non ce n'erano da parte di nessuna delle procure. E io, di dubbi, continuo a non averne: la costituzione di associazione militare, sulla base della legge del 1948, c'è in pieno».Per quei fatti, buona parte dei capi leghisti non sono stati processati in quanto parlamentari. Non è stridente?«Certo, ma fu una decisione del Parlamento italiano, che considerò quei fatti come opinioni degli eletti, libera espressione di pensiero. Ma badi che, invece, il Parlamento europeo a suo tempo sancì che i responsabili andassero processati».Molti di quei militanti oggi sono magari tranquilli padri di famiglia.«Credo anch'io. Certamente non esistono più le camicie verdi di allora. Però, le persone sono coinvolte per quei fatti di allora, sulla base di una legge vigente. Per dire: noi a suo tempo avevamo contestato anche l?attentato alla Costituzione e all'integrità dello Stato. Poi, però, la legge fu modificata e quei capi di imputazione sarebbero stati insussistenti. Ma la legge che c'è, va rispettata». La lunghezza del procedimento era inevitabile? «I processi non possono durare tanto, ce lo diciamo tutti. E non dovrebbero esistere meccanismi tanto dilatori. Però, qui non parliamo di cavilli, ma di momenti processuali che hanno determinato una stasi inevitabile, come le eccezioni di costituzionalità. Che dovrebbero essere decise immediatamente, e non dopo tre o quattro anni». E dunque, si può essere processati per fatti di quasi vent'anni fa che peraltro non hanno portato ad altri reati specifici.«Sì. Ma io credo che quando si tratterà di decidere, si terrà conto della situazione attuale. Anche psicologicamente, credo se ne terrà conto».

Lega Nord, Rosi Mauro assolta: non prese i soldi del partito. Lei attacca: "Maroni e Salvini, la pulizia non c'è stata", scrive “Libero Quotidiano”. "Altro che scope, nella Lega la pulizia non c'è stata". Sono i giorni della rivincita per Rosi Mauro: l'ex vicepresidente del Senato della Lega Nord, fedelissima di Umberto Bossi, è stata assolta dall'accusa di essersi intascata 100mila euro del partito. Peccato che prima del processo sia stata la Lega stessa a "epurarla", sull'onda dello scandalo della gestione dei soldi del partito. Prima di lei, sul patibolo, erano già saliti l'ex tesoriere Francesco Belsito e, di fatto, il fondatore e leader storico dei padani, Umberto Bossi. "La verità deve ancora venire fuori - si sfoga la Mauro sul Giornale -, ma è chiaro che un un complotto, colpirono me per affossare Bossi, per farlo fuori". Era l'aprile del 2012, la Lega stava cercando di uscire faticosamente dagli scandali giudiziari e finanziari. Bobo Maroni aveva preso in mano il partito e la prima operazione fu soprattutto mediatica: cacciare la vecchia guardia, il cerchio magico di Bossi e sostituirla con volti nuovi e puliti, tra cui quello di Matteo Salvini. Nella famosa serata delle ramazze, a Bergamo, c'erano tanti leghisti arrabbiatissimi con i "traditori" e con lei, la Mauro, salutata con cori tipo "terrona" e "Rosi p... l'hai fatto per la grana". Quella classe dirigente fu spazzata via a suon di insulti. "Mettiamola così - spiega la Mauro -, mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passio indietro e io rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?. Lui mi rispose che era una questione di opportunità politica". Da due anni con la nuova nomenklatura leghista l'ex "badante" del Senatùr non ha più rapporti: "E nessuno si è fatto vivo" per complimentarsi per l'assoluzione. E Salvini? "Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me".

Rosi Mauro: "Io assolta. E la pulizia nella Lega non c'è stata". La serata delle scope non è servita. Sono stata giustiziata per far fuori Bossi, ma molti restano al loro posto, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”.

«Me la ricordo la serata delle scope, eccome. Ecco, a Roberto Maroni direi che quello spettacolo non è servito a nulla. Io non ci sono più, ma molti di quelli che dovevano essere spazzati via sono ancora al loro posto».

Per una che è stata dipinta come la «strega nera» del Carroccio, la reazione è assai misurata. Ma lei, Rosi Mauro, ora è semplicemente «contenta».

«Contenta di una cosa che in cuor mio già sapevo».

Ovvero, che con l'uso spregiudicato dei fondi della Lega non aveva nulla a che fare. Per questo, ieri, l'ex vicepresidente del Senato è stata prosciolta dal gip di Milano. E dopo essere stata silurata dal partito senza processo e prima del processo, dopo essersi presa gli insulti dai colleghi lumbard e da una parte della platea leghista - «terrona» era il meno, qualcuno gridava «Rosi p..., l'hai fatto per la grana» - ora può voltare pagina.

Rosi Mauro, due anni fa venne «giustiziata» dal triumvirato Maroni-Calderoli-Dal Lago.

«Mettiamola così: mi sono fatta cacciare. Mi dissero di fare un passo indietro e io mi rifiutai. Chiesi a Maroni: Perché dovrei farlo se non ho commesso alcun reato?».

E cosa le venne risposto?

«Che era una questione di opportunità politica».

Ne fu convinta?

«Ma figuriamoci!».

E allora qual è la verità?

«La verità deve ancora venire fuori, ma è chiaro che fu un complotto. Colpirono me per affossare qualcun altro».

La butto lì: Umberto Bossi.

«Certo! È stato un complotto per fare fuori Bossi».

Ordito da chi?

«I responsabili sono sotto gli occhi di tutti. Quello che mi consola è che la nostra gente l'ha capito».

Ne è sicura?

«Tutte le persone del movimento che ho incontrato in quel periodo me lo dicevano: Rosi, non mollare e vai avanti».

A due anni di distanza, pensa a qualche rivalsa nei confronti del partito o delle persone che l'hanno affondata?

«Qualche querela è già partita, vedremo come andrà a finire. Altre potrebbero partire. Ma non c'è fretta, di pazienza ne ho molta».

Facile immaginare che ce ne sia voluta parecchia in questi due anni.

«Da quando è scoppiato il caso ne ho viste di cotte e di crude. Quello che mi ha fatto più male sono le cose che sono state scritte su di me. Sono finita in prima pagina, leggevo notizie incredibili che sapevo essere false. La verità è che io sono entrata nella Lega nel 1987, e non ho mai tentato di fare le scarpe a nessuno».

Oggi il giudice di Milano l'ha assolta dall'accusa di essersi intascata quasi 100mila euro del partito. Qualcuno da via Bellerio l'ha chiamata?

«Nessuno della nomenklatura si è fatto vivo. Ma non mi aspettavo diversamente, anche perché è da due anni che con queste persone ho interrotto i rapporti. Invece, con molte delle seconde linee continuiamo a sentirci. E ovviamente oggi mi hanno chiamata».

A distanza di due anni, cosa direbbe a Roberto Maroni?

«Che la famosa serata delle scope non è servita a nulla. Che quelle scope hanno funzionato male, perché la pulizia vera non c'è stata».

E al segretario Matteo Salvini? Anche lui, con toni più morbidi, chiese la sua testa.

«Con Matteo ho condiviso un lungo percorso nella Lega. Penso che anche lui, come altri, in quel momento sia stato travolto dalla furia dell'attacco mediatico contro di me».

Ora che questa vicenda si è chiusa, cosa farà?

«Ancora non lo so. Ma di sicuro, questo sarà un bel Natale».

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

Ma la gente sa cosa succede nei tribunali?

Giornata di ordinaria follia al tribunale di Roma tra prostitute, burini e magistrati oberati dall’obbligo penale. Luglio 14, 2014, scrive Luigi Amicone su “Tempi”. Basta passare un giorno in aula giudiziaria per capire quanti oneri assurdi e pretese inverosimili gravano sulle spalle di pm e giudici. Come mai nel repertorio dei suoi elettrizzanti tweet Matteo Renzi sfiora appena quel filo che porta dritto al circuito mediatico-giudiziario? “Riforma della giustizia in 12 punti”. Così ha promesso il nostro ganzo leader. Se ne riparlerà in autunno. Ma intanto che ciofeca di hashtag è per un guascone che prende l’Europa con un «se si facesse un selfie sarebbe il ritratto della noia»? Paura di rimanere attaccato al filo, folgorato dal circuito? Sia come sia, può capitare anche al nostro simpatico incantatore di serpenti di ritrovarsi per caso, come è capitato alla canaglia che scrive, dentro l’iCloud del sistema giudiziario disegnato dalla più bella costituzione del mondo. Grazie a Dio, se sei solo un testimone (ma stai alla larga dai processi a Berlusconi), una volta di difesa, l’altra di accusa, puoi stare tranquillo: non corri alcun rischio di finire metamorfizzato in un insetto da espellere dalla società. Certo. Ricoprire ruoli opposti nel giro di qualche giorno, fa un bell’effetto. Specie se ti ritrovi rimbalzato tra Roma e Milano. In tribunali di due pianeti diversi. Come testi della difesa siamo stati convocati a Milano. Dove a dispetto dell’architettura fascista, l’amministrazione della giustizia sembra ispirarsi a una efficienza da tecnicalità ospedaliera. Entri al palazzaccio e, al di là dell’odore e sudore di carte, la sensazione è quella che puoi aver provato in un reparto di terapia intensiva. Convocazione alle 9 del mattino. Minuti di attesa in compagnia di persone stranamente in angoscia per essere testimoni della difesa. C’è un direttore di carcere («perché mi hanno convocato? Cosa ho fatto?») e c’è il pannelliano insolente («questi non sanno neanche chi è Beccaria, desolante che se ne siano impipati dell’amnistia»). Poi, come una botola, si apre la porticina dell’aula dell’udienza. L’impiegata fa l’appello, stila l’ordine di comparizione testi, prende nota di eventuali richieste. Arriva il tuo turno. Reciti l’orazione secondo verità, declini le generalità, rispondi ad avvocati e pm. Il giudice tace, non tradisce emozioni, ascolta. Incombe un silenzio da sala operatoria. Sbrigata la deposizione, vieni gentilmente accomiatato. «Si può accomodare». E sei messo alla porta con neanche una mosca che vola. Seicento chilometri più a sud è tutta un’altra musica. A Roma ci arrivi la sera prima. Pernotti. Non puoi fare altrimenti. L’udienza è fissata alla stessa ora, sullo stesso fuso orario della giustizia ambrosiana. Insomma, sono le 9 del mattino e nell’aula della cittadella giudiziaria capitolina non c’è anima viva. Passa un quarto d’ora e arriva un tizio che ha l’aria del mio pony fornitore di giornali. Ha una sua grazia nella strampalata t-shirt che indossa e nel trasportare una pila di fascicoli che finirà sulla scrivania della corte in un bel tonfo rimbombante per tutta l’aula. Verso le 9.30 si appalesano avvocati e altri tizi, seguiti da cai e semproni. In piedi, salutiamo la messa in moto della macchina giudiziaria: entra il giudice monocratico. Breve conciliabolo con il cancelliere. Partono le udienze. E il giudice sale in cattedra. Dirige il traffico delle domande dell’avvocatura. Azzittisce chi chiacchiera. Interroga i testi con puntiglio e vivacità oratoria. Giganteggia per autorità e competenza. Si avverte in lui addirittura un tocco di umanità e l’acume di non dare per scontato alcun elemento istruttorio. Insomma, ha un impianto da persona non supponente, cerca di capire, entra nei dettagli. Il problema è quella pila lì. Fascicoli che si affastellano sul suo tavolo senza una apparente logica. Delitti gravi e reati bagatellari sono sullo stesso piano e finiscono nello stesso ingorgo. È sufficiente lo spettacolo di una mattina di udienze romane per avere la fotografia della giustizia italiana. Che in virtù dell’obbligo dell’azione penale è come un gigante a cui è stato assegnato l’impossibile compito di risolvere tutti i conflitti e lenire tutte le disgrazie in seno alla vita di un popolo. E in più con un assurdo peso sulle spalle, gravando sul gigante-magistrato pure la faticaccia di traversare le sabbie mobili del giudizio alla luce abbacinante dei media. Che, inevitabilmente, heideggerianamente, invariabilmente, invece della trasparenza realizzano il rumore e l’oscuramento di tutto. Colpisce vedere un pubblico ministero caricato dell’intera casistica che passerà al vaglio della corte nel corso di questa giornata di prima estate. Come farà a studiarsi i contenuti della quotidiana pila di fascicoli e presentarsi a dibattimento in aula sapendo quello che fa, quello che dice, quello che chiede come sentenza? Quanto alla spicciolata di cause che scorrono sotto i nostri sensi, si comincia da una denuncia per violenza privata, rissa, danni per traumi fisici, psicologici, morali eccetera. La montagna si rivelerà il topolino di una baruffa chiozzotta tra donne. Con tre-quattro equipaggi di volanti intervenuti su segnalazione della titolare di una macelleria che testimoniano cose al limite dell’ilarità. A un certo punto spunta il mancato pagamento di una “prestazione”. «Scusi – fa il giudice al poliziotto – che genere di prestazioni?». «Beh, pare che una signora non avesse pagato la parrucchiera». «Ah, la parrucchiera. Ma che c’entra la macelleria?». «C’entra perché l’altra signora è l’esercente di carni e la rissa è avvenuta proprio davanti al suo negozio». «Ma ci sono stati feriti?», chiede il giudice a un altro poliziotto di una seconda volante presente sulla scena del delitto. «No». «Ah – riprende il giudice – non ci sono stati feriti… Dunque si è trattato di un alterco. È così?». «No – interviene il pm – è stato infranto un vetro e distrutto un telefono…». «Quale vetro e quale telefono?», incalza il giudice. In breve, dopo la sfilata delle volanti, l’assenza di feriti e nessun bollettino medico, si viene a sapere che il vetro infranto è in realtà un vetro scheggiato e il telefono di cui nessuno dei testi ricorda la tipologia è un cordless della macellaia che nella concitazione – non si è capito per colpa di chi e perché – è stato raccolto in pezzi a terra. L’udienza viene aggiornata a novembre. Sempre con lo stesso pm, ma con un diverso avvocato d’ufficio, segue il caso di una donna di colore che ha rubato due camicette in un grande magazzino. Di nuovo, sporta denuncia da parte del direttore del negozio, «anche se la signora si è mostrata collaborativa quando è stata scoperta e fermata dalla guardia privata», il pm non può far altro che rappresentare l’obbligo dello Stato a perseguire il reato. Risultato? Sentenza costituzionalmente ineccepibile e umanamente abominevole. La povera incensurata si becca sei mesi di carcere e 800 euro di multa. Segue vicenda notte magica italiana. Una bella, giovanissima e molto ben equipaggiata brasiliana è testimone d’accusa e parte lesa in una movimentata avventura notturna avuta con un giovanotto, iniziata in discoteca e finita prima a letto e poi a botte. Due sono le versioni. La bella sostiene che dopo essere stata convinta dal giovanotto a passare la notte con lui in cambio di un “regalo” (mille euro), già ubriaca di beveroni e dopo essersi fatta convincere a strafarsi anche di cocaina, al settimo rapporto sessuale ha detto basta, sono stanca, non ce la faccio più. Il giovanotto a quel punto, per non sapere né leggere né scrivere, avrebbe preteso la restituzione del “regalo” e pure le chiavi dell’automobile di lei». La bella descrive tutto nei minimi particolari. In estrema sintesi: «Intorno all’una di notte il tale mi ha avvicinato in discoteca e mi ha offerto il “regalo” in cambio della notte insieme. Saremo arrivati a casa mia alle tre, alle sei mi ha menata, è scesa la mia amica, gli ha spruzzato lo spray al peperoncino, lui è scappato, poi però mi ha chiesto scusa e mi ha restituito il regalo e le chiavi. Mi chiedeva di perdonarlo perché stava fuori di testa (“ho moglie e figlio”, diceva), poi la polizia se l’è portato via e io sono andata con la mia amica al pronto soccorso. Perdevo sangue dal naso. Avevo paura». Domanda il giudice: «E al pronto soccorso cosa le hanno detto? Dico, le hanno riscontrato ferite? Ha detto di essere stata presa a calci in faccia, è così?». «Sì, è così, ma il naso non era rotto e il medico mi ha dato una settimana di riposo». Versione della bestia (presunta). Ammette la nottata folle. Ma smentisce che abbia preso a calci la bella («che sennò cor peso che c’ho ’a sdrumavo»), la circostanza dei sette rapporti sessuali («ecche so’ Tarzan?!»), l’ora del fattaccio («ma quali tre de mattina, sarò arivato a’e cinque»). Poi si rivolge al pubblico forse cercando gli occhi della bella: «Aò, ma se stavo nudo sur letto, strafatto, t’ho visto che me rubbavi nei pantaloni…». Ma non fa in tempo a finire la frase che il giudice lo richiama: «Scusi, forse non ha capito, deve rivolgersi alla corte, non all’uditorio». Il ragazzotto cerca di biascicare una replica e il giudice stavolta si incazza: «E non mi dia sulla voce! Si limiti a rispondere alle domande! Ha capito?». L’imputato si stremisce e tace. «Le ho chiesto se ha capito. Ha capito?» «Sì, sì, signor giudice, me scusi…». Ed è come un pallone sgonfio che per un po’ risponde solo a monosillabi. «Sì, no, no, sì, sì, sì…». Ma toccato sul soldo arriva la scarica di adrenalina: «Eh no, giudice, ma quali mill’euri! So’ arivato da lei a’e cinque: e che je davo, mill’euri pe’ du ore? J’avrò dato trescento… mannò, che dico, saranno stati duscento ar massimo. Poi quann’ho visto ’a mano ’nfilata nella tasca dei pantaloni nun c’ho visto più: aò, j’ho detto, ma che stai affà?! E j’ho dato ’no schiaffo. E l’ammetto: pure ’no spintone, ma carci no». «Prosegua», fa il giudice un po’ scettico. «E che je devo dì? So passato prima da un amico a prenne i sordi». «Ma scusi, non aveva già con sé i mille euro del “regalo”?». «Vabbè, mica potevo annà ’ngiro senza sordi». «Ah, “in giro senza soldi”, dice lei», ironizza il giudice. «Sì vabbè, c’avevo questi mille, che poi duscento l’ho dati a lei, ma poi dar mio amico ne ho presi artri cinque-seicento e…». «Dunque, dopo che alla signorina ha restituito il “regalo”, aveva con sé altri cinque-seicento euro. Soldi che le servivano per cosa?». «Ma quali sordi? Quella nun m’ha ridato niente, so’ scese queste cor peperoncino, nun c’ho capito più niente, è arrivata ’a polizia e m’ha portato ar gabbio». «Ci sta dicendo che i soldi li ha lasciati nell’appartamento della signorina?». «Embè, io quelli nun l’ho più rivisti, là li ho lasciati, che tra peperoncino e strafatto di alcol e cocaina com’ero nun c’ho capito più niente». L’udienza viene aggiornata al 2015. Causa quarta e testimone d’accusa un’istruttrice di polizia. Il caso riguarda un automobilista fermato senza Rc auto. Seguiva verbale di sequestro dell’auto, apposizione dei sigilli, intervento del carro attrezzi, trasferimento del veicolo medesimo presso un box indicato dal proprietario dell’auto. Fatto avvenuto nel 2010. «L’anno seguente – prosegue il teste della polizia – nel corso di un sopralluogo constatiamo che all’indirizzo indicato non c’è alcun box e neanche il veicolo». Ennesimo obbligo di legge, scattano denuncia e processo a carico del proprietario. Processo che si attorciglia su carte, verbali, carri attrezzi e su chi ha firmato cosa e per conto di chi. La sostanza è che l’auto è sparita. Il pm conclude la sua breve requisitoria con una richiesta di assoluzione perché «non sappiamo dove è stato portato il veicolo, il box non è mai esistito, il bene è scomparso». Camera di consiglio: l’imputato è assolto. Siamo solo a metà mattina. Sotto i nostri occhi scorre la povera Italia. E potrebbe essere chiunque incappi in un colpo di testa, una disgrazia, nell’irruzione del male o del burocratese. C’è il marito che picchia la moglie un giorno sì e l’altro pure. C’è la vertenza per danni patrimoniali tra soci di una srl. Una per diffamazione a mezzo stampa e un’altra che non inizia nemmeno causa vizio di notifica. La giornata del giudice, del cancelliere, degli avvocati, dei testi e degli imputati, non è ancora finita quando lasciamo l’aula. Roma ci ha riconciliati con la legge. Roma non è il porto delle nebbie. Roma è la luce abbagliante sulla guida a fari spenti nella notte della giustizia italiana.

E poi ci meravigliamo della realtà che ci circonda, aliena ai controlli.

Mafia Capitale: “tra fascisti e ladroni”, scrivono quelli di sinistra. Sì, proprio quelli che indicano la pagliuzza negli occhi altrui e non la trave nei propri occhi. In un mondo di sopra, di sotto, di mezzo, nessuno si salva: cittadini ed istituzioni.

Dopo gli arresti di ex terroristi neri e affaristi che tenevano in pugno la Roma di Alemanno, è caccia al tesoro della banda. Ecco la storia dell’inchiesta , al loro dire profetica, condotta da "l'Espresso", scrive Lirio Abbate.

Quella scattata martedì 2 dicembre 2014 è solo la prima ondata di uno tsunami giudiziario che ribalterà il ventre di Roma. Una metropoli finita nelle mani della “ Mafia Capitale ”, l’organizzazione guidata da Massimo Carminati, “er Cecato”: una leggenda nera costruita in quarant’anni di crimini dal terrorismo di destra all’epopea della Magliana, rimasti quasi sempre senza conseguenze giudiziarie. «Un bandito ricco», talmente ricco da faticare per nascondere i soldi che ha accumulato con i suoi traffici. Un manager che ha costruito il suo potere dominando quello che chiamava «il mondo di mezzo»: la sterminata zona grigia che unisce il Palazzo alla strada, quella dove - si vantava - comandava lui. L'azione in cui è stato fermato sulla sua Smart in via Monte Cappelletto, una stradina di campagna a Sacrofano, poco lontano dalla sua abitazione, l'ex terrorista dei Nar al centro dell'inchiesta Mafia Capitale. Il boss era pronto a darsi alla fuga e per la cattura i carabinieri del Ros hanno chiesto la collaborazione del nucleo "cacciatori" dell'Arma di Roma. Carminati si compiaceva del suo ruolo. Anche quando l’inchiesta de “l’Espresso” nel dicembre 2012 svela per la prima volta la sua rete criminale, si mostra spavaldo, convinto di sapere sfruttare la fama criminale per moltiplicare gli affari senza bisogno di minacce. Ma sono proprio quelle parole registrate dalle microspie a fornire l’ossatura giuridica per l’inchiesta che adesso lo ha travolto. Nonostante contromisure ad alta tecnologia, come i jammer per disturbare gli apparati d’ascolto, i carabinieri del Ros del generale Mario Parente sono riusciti a intercettarlo mentre istruiva i suoi “soldati” e illustrava la sua strategia mafiosa, indicando i politici collusi, e i pubblici ufficiali corrotti, e il canale migliore per investire all’estero. Quelle lunghe conversazioni, spesso captate nella stazione di servizio di Corso Francia che aveva trasformato in ufficio a cielo aperto, offrono l’affresco cupissimo della devastazione morale di una capitale: un sacco proseguito per anni che ricorda quello storico dei Lanzichenecchi. Come tutte le mafie anche questa ha la sua trasversalità politica. Il nucleo sono i vecchi camerati, che adesso hanno messo giacca e cravatta come l’ex sindaco Gianni Alemanno, indagato. Ma la rete poi si è estesa a tutti i partiti, mettendo letteralmente a libro paga esponenti di destra, sinistra e centro. «Se Carminati, il capo dell’organizzazione viene dall’eversione dell’estrema destra romana, il suo braccio destro Salvatore Buzzi, ha un passato nell’estrema sinistra già condannato in maniera definitiva per un omicidio del 1980. Buzzi è oggi al comando di una serie di cooperative composte da ex detenuti che operano nel sociale e gestiva per l’organizzazione criminale appalti nelle aziende municipalizzate e del Comune di Roma», spiega il procuratore Giuseppe Pignatone. Ma come dice Buzzi in una intercettazione «la politica è una cosa, gli affari sò affari». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Massimo Carminati. E che affari. Gli investigatori hanno sequestrato beni e depositi per un valore di duecentodieci milioni di euro. Ma sanno che c’è molto di più e puntano sul cuore del tesoro. Vogliono trovare le cassaforti e gli investimenti in cui i fascioladroni facevano fruttare i proventi del loro impero. Tutte le tracce portano a Londra, dove sono “rifugiati” molti ex dell’eversione nera e dove Carminati ha molti amici, che nell’ultimo anno si sono presi cura anche del figlio de “er Cecato” spedito lì in fretta e furia. Dopo aver trafficato in pietre preziose e in oro dall’Africa, il boss del “mondo di mezzo” potrebbe aver nascosto in Inghilterra il suo forziere. Nella City ha fatto tanti investimenti immobiliari, a partire da Notthing Hill dove ha acquistato di recente appartamenti. Operazioni confessate, sempre a sua insaputa, davanti alle microspie. Lui che ammette di essere ricco sfondato, di avere tanti milioni ma deve nascondere bene il patrimonio: ufficialmente è nullatenente, non può giustificare un tesoro così grande. Per questo ha scelto la strada di Londra, dove vorrebbe far trasferire definitivamente il figlio. «Ho pensato, apro una o due attività. Andrea sta lì. Anche se fa un altro lavoro però controlla. A questo punto ha un reddito», dice “er Cecato” che accenna a tante conoscenze nella City. «Avrebbe il mondo lì...», facendo comprendere che pure in Gran Bretagna ci sono molte persone a sua disposizione. "Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros. Per gli investigatori i contatti londinesi gli sono stati garantiti dal latitante Vittorio Spadavecchia, un veterano della comunità neofascista di Londra. Spadavecchia ha un passato nei Nuclei armati rivoluzionari, è arrivato in Inghilterra nel 1982, costretto alla latitanza dalle condanne per gli omicidi del commissario della Digos romana, Franco Straullu, e di altri poliziotti. È stato condannato pure per numerose rapine messe a segno per finanziare il terrorismo nero. Secondo le indagini, è con lui che uno dei complici di Carminati, Fabrizio Testa, pianifica assieme al rampollo del capo investimenti economici «di varia natura», come l’acquisto a Londra di un immobile e l’apertura di un ristorante: il primo passo per creare una catena di locali. Una holding che potrebbe venire decifrata mettendo le mani sul “libro nero”, il registro occulto custodito dalla “cassiera” del clan, Nadia Cerrito «che contiene una vera partita doppia del dare e avere illecito, dei destinatari delle tangenti - uno dei costi illegali sostenuti dall’organizzazione per il raggiungimento del suo scopo nel settore economico-istituzionale; che contiene l’indicazione dei soggetti cui vengono veicolati i profitti, come Carminati, shareolder ed esponente apicale dell’organizzazione illecita o come Testa, testa di ponte di mafia capitale verso la politica e la pubblica amministrazione; che contiene una rappresentazione del conto economico illecito dell’organizzazione, con una specifica rappresentazione delle relative disponibilità extracontabili». Non bastano i soldi però per impadronirsi di una metropoli. Perché un uomo al di sotto di ogni sospetto come Carminati riesca ad assemblare una simile macchina di potere e farla marciare indisturbata per anni servono coperture che vanno più in alto. Nell’atto d’accusa dei magistrati si fa riferimento a questo “terzo livello”, citando rapporti con istituzioni statali, forze dell’ordine e servizi segreti. L’altro fronte dell’inchiesta, che deve decifrare quanto il sistema criminale fosse affondato nel cuore dello Stato. Ma c’è pure una dimensione orizzontale della collusione, un magma di complicità minute, dai medici ai commercialisti, dai palazzinari ai burocrati, che hanno garantito la prosperità della rete. Il rapporto che Carminati aveva creato con gli imprenditori viene spiegato dal procuratore aggiunto Michele Prestipino: «Le indagini hanno consegnato una fotografia preoccupante, perché sovrapponibile al modus operandi delle mafie tradizionali nel rapporto con gli imprenditori, che si rivolgono all’organizzazione per avere protezione dall’aggressione della malavita predatoria. Di fronte a questa richiesta scatta la tutela dell’organizzazione mafiosa e, a fronte della protezione accordata, l’organizzazione non chiede soldi, ma di entrare in affari con l’impresa. E ci riesce ottenendo un punto di riferimento imprenditoriale, facce pulite attraverso cui realizzare i propri interessi criminali». E poi aggiunge: «Carminati spiega così il suo approccio con gli imprenditori: “l’obiettivo è entrare in affari, instaurare un rapporto di tipo paritario che garantisce vantaggi reciproci. Mi puoi anche dire che mi dai un milione per guardarti le spalle, ma dall’amicizia nasce un discorso che facciamo affari insieme. Io ho fatto questo discorso a tutti, devono essere nostri esecutori, devono lavorare per noi. Gli faccio guadagnare un sacco di soldi”. L’obiettivo è dunque acquisire attività economiche che significa avere appalti e servizi, soprattutto verso le pubbliche amministrazioni». Quelle romane erano cosa loro. Al Comune negli anni di Alemanno avevano trovato sempre le porte aperte, inserendo uomini di provata fedeltà in strutture chiave come l’Ama, la municipalizzata dei rifiuti, o l’Ente Eur, di cui era amministratore delegato Riccardo Mancini (arrestato). Ma anche il cambio di giunta e l’arrivo della sinistra del sindaco Ignazio Marino non intacca i loro business. Buzzi si vanta di potere contare su sei dei nove assessori designati. Ora l’assessore Daniele Ozzimo e il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, entrambi del Pd, sono finiti sotto inchiesta e si sono dimessi. Il partner di Carminati sostiene di non avere problemi neppure con la Regione Lazio, dove ha chi gli tiene i rapporti con il governo di Nicola Zingaretti. E poi c’è Luca Odevaine, un tempo braccio destro di Walter Veltroni al Campidoglio e ora fondamentale per fare affluire nelle cooperative dei fascio-ladroni quei profughi che «valgono più della droga». Ma oltre ai politici stipendiati con un mensile fisso ci sono quelli pagati a prestazione: una percentuale per ogni appalto. Nomi e cifre censite proprio nel «libro nero» che adesso tutti vogliono recuperare.

Mafia Capitale: Da "Er Cecato" a "o Pazzo" L'alleanza che detta legge nella Capitale. Il clan fascio mafioso di Carminati e la camorra napoletana di Michele Senese detto "O Pazzo" che a Roma Nord ha investito in ristoranti e locali. E al suo servizio ha "La batteria di picchiatori di Ponte Milvio" con a capo Diabolik. Il leader degli Irriducibili della Lazio, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. Roma Nord. Ponte Milvio. La zona diventata famosa dopo il film “Tre metri sopra il cielo” diventata il luogo simbolo della Capitale per gli innamorati di tutto il mondo, che qui facevano la fila per attaccare il loro lucchetto in segno di amore eterno. Poi il XX municipio ha deciso, all'unanimità, la rimozione dei lucchetti «per motivi di sicurezza e decoro». Però a Ponte Milvio negli stessi anni, e ancora oggi, scorrazza una banda ben più pericolosa dei gruppi organizzati di innamorati che si spingevano fin qui per legare alle ringhiere la loro promessa di fedeltà. Questa zona chic di Roma, infatti, è sotto l'influenza della  Mafia Capitale di Massimo Carminati detto “Er cecato”, finita sotto inchiesta dalla procura antimafia di Roma che ha iscritto cento persone nel registro degli indagati, tra cui l'ex sindaco Gianni Alemanno, e ha arrestato 37 persone. Una cosca fatta da manager, vecchi terroristi neri, imprenditori rossi, politici e reduci della Magliana. Un ibrido criminale la cui scoperta sta rivoltando dall'interno il potere romano. Ma Carminati non è solo su quel territorio. Da lui dipendono altri boss. In particolare gli uomini di Michele Senese detto "o Pazzo". Nei rapporti degli investigatori vengono descritti questi equilibri criminali di Roma Nord. I detective la chiamano la “Batteria di Ponte Milvio”. Particolarmente agguerrita e pericolosa con a capo, scrivono gli inquirenti, Fabrizio Piscitelli, conosciuto con il soprannome di Diabolik e noto per essere il capo ultras degli Irriducibili della Lazio. Da settembre scorso è in carcere per traffico di droga. Non solo, la guardia di finanza gli ha sequestrato pure oltre 2 milioni di euro di beni. E scoperto che aveva in mano la commercializzazione dei gadget della sua squadra del cuore. Ai suoi ordini uno stuolo di picchiatori stranieri, albanesi e rumeni. Ma non finisce qui. L'analisi dei carabinieri del Ros va in profondità e scopre che la Batteria Diabolik è al servizio dei «napoletani insediati a Roma nord tra cui i fratelli Genny e Salvatore Esposito che fanno capo a Michele Senese». “O Pazzo” è considerato dagli inquirenti uno dei quattro Re della Roma criminale così come aveva anticipato “l'Espresso” nell'inchiesta del 2012 sui sovrani della mala capitolina. Il gruppo legato a Senese, scrivono gli inquirenti, controlla diversi locali commerciali nella zona: «tra cui il pub Coco Loco, loro abituale luogo di ritrovo». Il boss Senese è considerato un camorrista a tutti gli effetti. La sua carriere inizia nella formazione del padrino Carmine Alfieri. Contrapposti alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. E proprio negli anni della guerra tra i due clan che Senese sceglie Roma come base logistica per i traffici e gli investimenti. “Er Cecato” Carminati e “O Pazzo” Senese hanno rapporti cordiali. E soprattutto interessi in comune. Si sono incontrati spesso e anche dopo l'arresto di Senese sono stati registrati ulteriori contatti tra i due clan. Ora pure Carminati è in carcere. Ma il loro regno non è ancora al tramonto.

Eppure la storia racconta un’altra cosa.

Scandalo di Capodanno 2015: Vigili assenteisti dagli a Marino, scrive Aurelio Mancuso su “Il Garantista”. Il diluvio di certificati medici giunti il 31 dicembre, insieme a permessi per donazione di sangue, assistenza parenti o per gravi motivi, per cui l’83,5% dei vigili urbani dell’urbe ha marcato visita, è un altro grave segnale che si abbatte su una città colpita già dalle inchieste su mafia capitale. Non sfugge a molti osservatori, che sia in atto un tentativo, perlomeno varie azioni anche indipendenti tra loro, di disarcionare un sindaco ritenuto scomodo, non compatibile rispetto a comportamenti, abitudini che si sono sedimentate. Si percepisce che la “casta” compiacente, o peggio che si faceva corrompere o si associava ai progetti criminali sugli appalti, sulla povera gente, sia la parte più esposta di un andazzo generale coerente con la volontà di aggirare le regole, di utilizzarle per condizionare la politica, per mantenere sempre un clima di emergenza. Di tutto questo si avvantaggia sicuramente Matteo Renzi, che ha buon gioco a scrivere su twitter: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano ”per malattia il 31dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole del pubblico impiego. #Buon2015». Così un episodio gravissimo, collegato anche all’atteggiamento degli autisti della metro A che solo in sette su ventiquattro si son presentati la sera di Capodanno, diventa immediatamente questione nazionale, rende “inevitabile” l’intervento del governo, per correggere le storture come quelle emerse a Roma. I vigili non vogliono che parta la rotazione prevista dalla riforma varata dal comandante e appoggiata convintamente da Marino e, avevano minacciato un’assemblea sindacale proprio nella notte di San Silvestro, gesto poi rientrato, che però in molti sospettano sia stato trasformato in quello che è avvenuto: uno pseudo sciopero. La prima reazione del Campidoglio non lascia dubbi su come la pensa Marino: «Stigmatizza l’atteggiamento di quanti hanno cercato di sabotare i festeggiamenti del Capodanno con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata». Lo staff del sindaco accusa che le divergenze sorte nelle ultime settimane sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio: «Sono state prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri. Perciò sarà rigorosamente ricostruita l’intera vicenda a favore dell’autorità giudiziaria e di garanzia. Ogni condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente». Le opposizioni se la prendono però con il sindaco. Giovanni Toti consigliere politico di Fi denuncia: «Roma città fuori controllo: 83,5% dei vigili assenti a Capodanno. Macchina amministrativa bloccata e il Pd non vuole votare». Gli fa eco Matteo Salvini, segretario della Lega: «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema della città: il sindaco Marino». Ogni occasione è buona per contestare il sindaco chirurgo, però nessun esponente della passata maggioranza di centro destra che ha amministrato la capitale, riconosce ciò che ai cittadini romani appare lampante: negli scorsi anni la macchina comunale è stata abbandonata e questo ha determinato un generale abbassamento del rispetto delle regole, ma soprattutto degli utenti che ogni giorno subiscono un generalizzato disservizio. Marino non ci sta e anche lui su facebook lapidario scrive: «Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità». E’ probabile che molti impiegati pubblici non abbiano compreso che dall’emersione dello scandalo “mondo di mezzo”, Roma è diventata il luogo su cui si giocherà la credibilità non tanto del primo cittadino ma del presidente del Consiglio, intenzionato, come segretario del Pd, attraverso il commissariamento di rivoltare come un calzino il partito locale e, con azioni dell’esecutivo, tra cui la riforma Madia in discussione al Senato, di rimuovere tutte le posizioni di rendita, privilegi, comportamenti lassisti. Per chi ancora avesse dubbi è lo stesso sindaco a chiarire: «Ringrazio il premier Renzi e il ministro Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa. Chi ha finto di essere malato, chi ha inventato scuse ne dovrà rendere atto nei modi previsti dalla legge e assumersi le propria responsabilità. A chi ha lavorato e lavora per la città vogliamo ribadire la nostra gratitudine e quella dei romani». I sindacati confederali dopo un giorno di silenzio, ieri hanno emanato un comunicato stampa: «Stigmatizziamo con forza i disagi che si sono verificati nella notte di capodanno, è nostra opinione che le responsabilità di quanto successo vadano ricercate comunque a 360 gradi, e gli abusi se accertati, puniti. Anche questa volta non abbiamo in nessun modo dato indicazioni ai lavoratori difformi da quanto previsto dalle norme, contratti e regolamenti». La premessa, che serve a chiamarsi fuori da ogni responsabilità, però è più chiara quando lascia il posto alla risposta politica: «Pretendiamo che sulla vicenda si faccia totale chiarezza. Anche perché le dichiarazioni di queste ore da parte di amministrazione e governo che sparano nel mucchio finiscono per alimentare polemiche dannose e strumentali che non risolvono i problemi. Quanto sta accadendo non fermerà le nostre rivendicazioni, invece dimostra come sia indispensabile per cambiare le cose ricercare soluzioni condivise con il coinvolgimento dei lavoratori». Il Garante per gli scioperi e persino la magistratura valuteranno l’accaduto, rimane che, i sindacati scrivono: “Bisogna interrogarsi sul clima di esasperazione”, rischiando di fornire un lasciapassare culturale a chi ha utilizzato giuste tutele per scopi non nobili. Alcuni però, vigili interpellati dalle agenzie si sono difesi: «Non possono obbligarci a farlo. Alle 19 del 31 hanno fatto scattare la reperibilità. Non c’era nessun motivo. La reperibilità si fa per motivi di emergenza, come la neve, alluvioni, terremoti o altre calamità. Solitamente la notte di Capodanno lavoravamo in 700 in straordinario. L’anno scorso ce ne sono stati 450. Quest’anno era in strada solo chi aveva il turno. Niente straordinari. Quindi tutto è in regola».

Capodanno 2015 a Roma, l'83,5% dei vigili in turno si dà malato. Il comandante: "Diserzione che infanga l'intero corpo". Polemiche per l'incredibile numero di certificati per malattia, donazione sangue e disabilità giunti. Sullo sfondo lo scontro sul contratto decentrato. Il Campidoglio: "Tutto è andato bene grazie ai sostituti reperibili". Ma il vicesindaco accusa: "Un dato inaccettabile, a rischio la sicurezza dei cittadini". Ritardi anche nella metro e Atac ammette: "A San Silvestro, presenti solo 7 autisti su 24", scrive “la Repubblica”. Per la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili che dovevano lavorare era assente per malattia, donazione sangue, disabilità. A renderlo noto è il Campidoglio. "La serata e la nottata si sono svolte senza intoppi per la mobilità e la sicurezza delle 600 mila persone che hanno festeggiato l'arrivo del 2015 nelle strade della Capitale, a via dei Fori Imperiali e al Circo Massimo. Il servizio degli agenti della Polizia locale di Roma Capitale è stato garantito grazie al previdente ricorso all'istituto della pronta reperibilità, affinché si potesse disporre di un numero sufficiente di personale da impiegare nei servizi di viabilità finalizzati alla sicurezza stradale. Sono state impiegate circa 470 unità, 240 dalle ore 18.00/19.00 (75 di reperibilità) e circa 230 dalle ore 24.00 (45 di reperibilità). Inizialmente, i servizi di Capodanno prevedevano di impiegare circa 700 unità, come nei precedenti anni, in turno straordinario. Ma la mancata adesione allo straordinario aveva indotto il comando del corpo a disporre una ridistribuzione di tutto il personale". Il comunicato del Campidoglio fa riferimento alla dura battaglia dei giorni scorsi, con i vigili che avevano deciso di riunirsi in assemblea e il Prefetto che li aveva richiamati perchè lavorassero. "Dopo il differimento dell'assemblea sindacale dei giorni scorsi, prevista proprio per il 31 dicembre a ridosso della mezzanotte, già ieri pomeriggio era apparso chiaro che, a fronte della iniziale disponibilità di 1000 agenti (in servizio ordinario per il turno di seminotte) si sarebbe giunti progressivamente a 165 unità, per un totale di 835 assenze dell'ultima ora (-83,5%), motivate da malattia, donazione sangue, legge 104, legge 53 art. 19 ecc.. Inoltre, per il turno di notte dal numero iniziale di 300 unità previste si sarebbe arrivati a 185 unità, con 115 assenze riconducibili alle medesime  motivazioni (percentuale di assenza del 38%). Ciononostante, proprio grazie alla reperibilità, è stato possibile garantire tutte le chiusure stradali, nonché governare l'afflusso e il deflusso dei tantissimi cittadini e turisti in strada a festeggiare". "Il dato delle assenze per malattia e altre motivazioni, pari all'83,5% è talmente rilevante numericamente da essere inequivocabile e inaccettabile. E poteva essere molto grave per la città di Roma. Tanto più perché arriva nel momento in cui, per altri versi, stiamo cercando un terreno comune di confronto, per concludere positivamente la questione sul contratto decentrato", commenta in una nota il vicesindaco Luigi Nieri. "Nessuno mai, e io per primo, mette in dubbio il legittimo diritto di sciopero per i lavoratori, o il duro ma leale dialogo con l'amministrazione sulle questioni sindacali. Altro - prosegue Nieri - è la mancata assunzione di responsabilità di fronte alla città e ai romani, in occasione di un appuntamento fisso, popolare e seguitissimo, che ieri ha portato in strada a festeggiare il nuovo anno oltre 600mila persone. Il mio più sincero ringraziamento va invece a tutti gli agenti che ieri sera sono scesi in strada per lavorare, con senso di responsabilità e del dovere, per permettere al resto dei cittadini di divertirsi". Parla anche il comandante generale della polizia locale Raffaele Clemente: "Gli agenti che hanno lavorato ieri sera e ieri notte hanno compiuto un eccellente lavoro e per questo li ringrazio, a nome dell'amministrazione, della città e mio personale. Diversamente, non posso che stigmatizzare l'atteggiamento di quanti, tra i miei colleghi, hanno cercato di sabotare, con una diserzione numerica assolutamente ingiustificata, la festa popolare del Capodanno, cercando di mettere a repentaglio la sicurezza dei cittadini ma anche il buon nome dell'intero Corpo degli agenti della Polizia locale e della città di Roma. Le divergenze sorte nelle ultime settimane o mesi, sul fronte della rotazione degli agenti o sulla definizione del salario accessorio  -  conclude Clemente- non dovrebbero essere prese a pretesto per venir meno alla propria professionalità e ai propri doveri . Per questa ragione, per un evidente bisogno di equità nei confronti di quanti ieri hanno prestato il proprio dovere con professionalità e spirito di abnegazione sarà rigorosamente ricostruita l'intera vicenda a favore delle autorità giudiziaria o di garanzia. Ogni eventuale condotta illecita sarà sanzionata amministrativamente".

L'ATAC. E nella notte di San Silvestro, rallentamenti fino a 20-25 minuti d'attesa sulla metropolitana A, secondo quanto sostiene la stessa azienda che parla di corse più lente a causa dell'assenza di conducenti nel turno straordinario 23.30-2.30, cioè quello oltre l'ordinario orario di chiusura del servizio metropolitano, organizzato in occasione della notte di San Silvestro. Nello specifico, sui convogli della linea A della metro - dove sono in totale 150 i macchinisti in servizio - erano disponibili solo 7 conducenti sui 24 che sarebbero stati necessari a garantire la regolarità del servizio. Per questo, fanno sapere dall'azienda, le corse sono state più lente dalle 23.30 fino a fine servizio, "circa 10-15 minuti di attesa a fronte di 5". "E' stato invece regolare il servizio sulla linea B", garantiscono dall'Atac.

Vigili malati, «azioni disciplinari». E il comandante va in procura. Madia: «Attivato l’ispettorato». Indagine interna in Campidoglio, all’esito della quale gli atti potrebbero essere inviati alla magistratura. Anche l’Autorità di garanzia sugli scioperi apre un procedimento, scrive Lavinia Di Gianvito su “Il Corriere della Sera”.  Più di otto vigili su dieci in malattia e solo sette macchinisti su 24 alla guida dei treni della metro A: smaltiti i brindisi e i fuochi d’artificio, è bufera sull’astensione di massa della notte di Capodanno. Il primo a intervenire è il premier Matteo Renzi, che su Twitter scrive: «Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dicembre. Ecco perché nel 2015 cambiamo le regole del pubblico impiego #Buon2015». Poco dopo il commento del presidente del Consiglio, ecco l’affondo del ministro Marianna Madia: «Ispettorato ministero Funzione pubblica subito attivato per accertamenti violazioni e sollecito azioni disciplinari» assicura in un tweet la titolare della Pubblica amministrazione. E nel pomeriggio il comandante dei vigili, Raffaele Clemente affida l’indagine interna alla sua vice Raffaella Modafferi: dovrà portare alla luce la verità e metterla a conoscenza delle autorità interessate: quella giudiziaria (nel caso si ravvisassero reati penali), quella amministrativa (per uso e valutazioni interne) e, infine, quella di garanzia (Garante degli scioperi). Poi nella serata del 2 gennaio il premier Renzi è tornato sulla vicenda con un post su Facebook: «Il 2015 sarà l’anno della riforma costituzionale e della nuova legge elettorale. Ci occuperemo di cultura, scuola, Rai, green-act, lavoro. Di pubblico impiego, di modo che non accadano più vicende come quella di Roma dove la notte del 31 dicembre l’83% dei vigili urbani è rimasto a casa per malattia o donazione sangue». La linea dura di Palazzo Chigi è condivisa dal Campidoglio, il vice sindaco Luigi Nieri aveva annunciato in mattina dell’avvio dell’indagine interna aggiungendo: «In tempi rapidi si avranno dei risultati, in base a questi si deciderà se interessare la magistratura». Su Facebook il sindaco Ignazio Marino da un lato esulta per la notte di festa filata liscia anche senza municipale, dall’altro avverte che la «fuga» dalle strade avrà conseguenze:«Non sono riusciti a guastare la festa. In 600 mila abbiamo passato il Capodanno in piazza. Ma chi ha provato con assenze ingiustificate e ingiustificabili a far saltare tutto ne deve rendere conto. Stiamo facendo tutte le verifiche per accertare le responsabilità. Ringrazio il premier Matteo Renzi e il ministro Marianna Madia per il sostegno che stanno dando alla nostra iniziativa». «A Roma vigili e autisti di autobus protestano. Invece di prendersela con loro, Renzi licenzi il primo problema di Roma: il sindaco Marino!». ha commentato su Facebook il segretario della Lega, Matteo Salvini. E contro il sindaco, su questa vicenda, si sono schierati numerosi esponenti di centrodestra: da Alfio Marchini («città paralizzata dall’incapacità amministrativa del sindaco») a Giorgia Meloni, Fratelli di Italia («Roma non merita un sindaco che non ha neanche il controllo del suo personale»). In realtà per «interessare la magistratura» (sono le parole di Nieri) non si attende la fine dell’indagine interna. Già a fine mattinata il comandante dei vigili, Raffaele Clemente, viene notato nei corridoi di piazzale Clodio. Al primo piano del palazzo di giustizia infatti incontra il procuratore aggiunto Maria Monteleone: l’accordo è che per ora la magistratura resta in stand by, in attesa dell’esito dell’ispezione avviata dal Comando generale della polizia municipale. Questa durerà alcuni giorni e al termine, se emergeranno indizi di reati, gli atti verranno inviati alla procura. E non solo il governo. Anche l’Autorità di garanzia per gli scioperi avverte che aprirà un procedimento di valutazione sull’«epidemia» della notte di San Silvestro. Al termine delle verifiche, potrebbero essere adottate le sanzioni previste dalla legge, perché lo sciopero nei servizi pubblici essenziali è possibile - ricorda il garante - solo all’interno delle regole della 146 del ‘90. Sul fronte politico, mentre il Pd prende le distanze dall’astensione di massa della municipale, Forza Italia ne approfitta per attaccare Palazzo Chigi sul Jobs act. «Pur potendo accampare altrettante rivendicazioni - osserva il capogruppo democratico in Campidoglio Fabrizio Panecaldo - non per questo poliziotti, carabinieri, vigili del fuoco, medici, infermieri, fornai, trasportatori, operai, volontari, assistenti sociali si sono dati malati in massa abbandonando la comunità a se stessa. Su questa vicenda si deve andare fino in fondo». Alessandro Cattaneo, di FI, sottolinea che se da una parte «non si possono legittimare certi comportamenti», dall’altra i vigili «possono dormire sonni tranquilli, grazie a un Jobs act che non ha toccato minimamente la pubblica amministrazione». Anche l’Udc, attraverso il vicesegretario vicario Antonio De Poli, vuole punire la municipale: «Contro i fannulloni serve una linea dura. Vanno individuati i responsabili che hanno permesso una situazione così grave e anomala». Nè la polizia municipale trova un qualche sostegno nelle associazioni dei consumatori. È drastica l’Aduc, che propone di ricominciare da zero: «Se per il Capodanno di Roma Caput Mundi si presentano 165 vigili sui 900 previsti, vuol dire che occorre sciogliere il Corpo e definire nuovi assetti. Stessa sorte dovrebbe toccare all’Atac, che con sette autisti presenti su 24 sulla linea A della metro ha creato non pochi disservizi». A difendere la municipale, insomma, restano solo (alcuni) sindacati, che giustificano i vigili assenti con motivazioni diverse. Per Franco Cirulli, della Uil, «la maggior parte ha donato il sangue e, come previsto dal contratto collettivo nazionale di lavoro degli enti locali, era esentata dal servizio». Il segretario del Sulpl Stefano Giannini sostiene invece: «La maggior parte delle assenze non è stata per malattia, ma per ferie. La verità è che è stato tenuto in servizio un numero di agenti non in grado di coprire l’ordinario. C’è stato un errore di valutazione». E Stefano Lulli, dell’Ospol, precisa: «Il dato delle malattie, a quanto ci risulta, è stato di meno del 50%. Considerati gli agenti malati da giorni, il numero relativo al solo 31 dicembre si abbassa ulteriormente. I medici, poi, le hanno certificate». Anche secondo Lulli c’è stato «un problema di disorganizzazione del comando. In tanti stavolta non hanno aderito volontariamente allo straordinario e questo non è stato calcolato. Il tutto in un Corpo che ha 2.500 agenti in meno rispetto a quelli che dovrebbe avere».

Vigili assenti a Roma la notte di Capodanno, ennesima figuraccia "capitale". La ripicca sindacale dei caschi bianchi che non vogliono accettare le nuove regole, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. L'unica vera malattia che può aver tenuto a casa l'83% dei vigili urbani di Roma la sera di Capodanno si chiama “ricatto”. Da mesi infatti i caschi bianchi sono sulle barricate contro l'introduzione del contratto decentrato (che interviene anche sul salario accessorio) e il piano anti-corruzione che, tra le altre cose, prevede la rotazione degli agenti sui territori. Così, quando il Prefetto ha vietato che si riunissero in assemblea a ridosso della mezzanotte del 31 dicembre, improvvisamente loro si sono ammalati, hanno dovuto prestare assistenza a parenti disabili o sono stati colti da un irrefrenabile slancio di generosità e sono andati a donare il proprio sangue. L'ultima notte dell'anno, mentre per le strade del centro di Roma, tra via dei Fori Imperiali e il Circo Massimo, c'erano 600mila persone che festeggiavano l'anno nuovo. Con i rischi per la sicurezza che si corrono ogni volta che tanta gente si concentra in uno spazio limitato. Tutto è andato bene solo perché era stato disposto l'istituto della pronta reperibilità proprio per far fronte al forfait rifilato non tanto ai propri superiori, ma alla città stessa, dalla stragrande maggioranza dei 700 caschi bianchi cui era stata chiesta la disponibilità a fare un turno straordinario. Ma è stata, lo stesso, l'ennesima figuraccia “capitale. Il comandante Raffaele Clemente ha parlato senza mezzi termini di tentativo di sabotaggio, di una “diserzione che infanga l'intero corpo. Il sindaco Ignazio Marino ha accusato i vigili assenti di essere “ingiustificabili”. Il vicesindaco Luigi Nieri ha definito le assenze “inequivocabili e inaccettabili” e fatto sapere che è stata aperta un'indagine. A livello nazionale il ministro della Pubblica amministrazione Marianna Madia ha annunciato l'invio di ispettori e sollecitato azioni disciplinari. Il premier Matteo Renzi ha twittato: “Leggo di 83 vigili su 100 a Roma che non lavorano “per malattia” il 31 dic. Ecco perché nel 2015 cambiamo regole pubblico impiego”. Il sindacato Sulpl ha giustificato gli agenti con la scusa del “piano ferie sbagliate” mentre il Garante sugli scioperi ha fatto sapere che sarà aperto un procedimento di valutazione. I romani, nel frattempo, hanno già fatto le loro. Quella dei vigili urbani è sempre stata tra le categorie meno amate. E non solo per la raffica di multe che in una città caotica e indisciplinata come Roma è facilissimo prendere. Ma soprattutto per i tanti casi di corruzione, minacce, estorsioni a loro carico svelati da inchieste giudiziarie più o meno recenti che hanno travolto non solo i semplici dipendenti ma addirittura i massimi vertici. Adesso sarà anche peggio. Perché venendo meno - è il giudizio dei più - a senso del dovere e responsabilità, hanno dimostrato di guardare solo al proprio giardino. Il loro egoismo li sta già esponendo – basta dare un'occhiata ai social network - a critiche ancora più dure da parte di chi li considera dei super garantiti che piantano grane se vengono spostati da una parte all'altra della città per evitare insani radicamenti. La loro autorevolezza è sotto zero. Nessuno ci sta a subire ripicche. Soprattutto non ci sta una città che ambisce oggi a ospitare un evento internazionale come i Giochi olimpici. E che invece si ritrova puntualmente ostaggio una volta dei tassisti, l'altra dei bancarellari abusivi, un'altra ancora dai ristoratori e baristi del centro. O rallentata da quei 17 macchinisti della metro che, sui 24 necessari, non erano in servizio la notte di Capodanno. O addirittura messa sotto scacco proprio da chi, per la divisa che veste, dovrebbe invece garantirne la sicurezza, l'ordine, il decoro.

"I vigili assenteisti non sono una sorpresa. Da anni raccontiamo lo sfascio di Roma". Parla il fondatore di "Roma fa schifo", uno dei blog più letti della capitale, in prima linea nel contrasto al degrado. "La loro è un'opera di sabotaggio. Speravano ci scappasse il morto?" Scrive Daniele Castellani Perelli su “L’Espresso”. «I vigili urbani volevano che ci scappasse il morto», dice il fondatore del blog “Roma fa schifo”: «Bastava leggere le pagine Facebook loro e dei loro sindacati per capire che si preparavano a un sabotaggio, per protesta contro la rotazione del personale e la riforma dello stipendio accessorio. I vigili urbani si occupano della sicurezza, e sabotarla significa sperare che ci scappi il morto. È gravissimo, come se avessero scioperato i medici del pronto soccorso». A Roma, la notte di Capodanno, l'83,5 per cento dei vigili era assente per malattia, donazione sangue o disabilità. E sulla linea A della metro erano disponibili solo 7 conducenti su 24, con i passeggeri che hanno atteso i treni anche per 20-25 minuti. Una figuraccia di cui parla tutta Italia, ma che sicuramente non ha sorpreso gli autori del blog più letto dai romani, “Roma fa schifo”, che da anni attacca il malcostume degli impiegati pubblici come una delle tante varianti del degrado della Capitale. Ma chi c'è dietro questo discusso sito? C'è Massimiliano Tonelli. Romano, 36 anni, cresciuto tra Montesacro e San Giovanni, si è laureato in scienze delle comunicazioni a Siena. In questa intervista si racconta per la prima volta, e sul caso dei vigili dice come al solito parole forti e chiare: «È un problema locale, perché a Torino ci si vergognerebbe di “buttarsi malati”, mentre a Roma ce ne si vanta al bar. Ma è anche un problema nazionale, di leggi sul pubblico impiego, e quindi è un autogol pazzesco, che consentirà al governo, speriamo, di mettere finalmente mano a una riforma». Tonelli è cofondatore e anima di un network di blog che fustiga Roma e i costumi dei romani: Degrado Esquilino, Cartellopoli, Pro Pup Roma (a favore dei parcheggi sotterranei), Bike-Sharing Roma. Ma il più famoso di tutti è appunto Romafaschifo.com (sottotestata: chi ha ridotto così la città più bella del mondo?), un blog in cui i cittadini raccontano e fotografano la decadenza della città, dalle piccole illegalità alle varie mafie, e che Marino stesso un anno fa ammise di leggere con grande attenzione. Ci lavorano, racconta Tonelli, «4-5 persone, più centinaia, anzi migliaia di potenziali reporter, cittadini comuni che ogni giorno ci mandano circa 150 tra foto e segnalazioni su tutto ciò che non va, sono loro i veri padroni del sito, su cui infatti non trovi il mio nome da nessuna parte». È un blog anche discusso, per i toni usati dagli utenti e dagli stessi gestori. Ma è un simbolo di una città stanca, un vero fenomeno per chi vive nella capitale e non solo, visto che Tonelli ultimamente ha attirato l'attenzione della grande stampa internazionale, da “Der Spiegel” a “Business Week”, dalla “Bbc” alla tv pubblica tedesca, che gli sta dedicando un documentario. E il tutto è tanto più sorprendente se si pensa che Tonelli di lavoro fa altro, ovvero gestisce il sito del Gambero Rosso e, dopo aver lasciato Exibart.com, nel 2011 ha fondato la rivista online Artribune.com.

Come è iniziato il progetto di Roma fa schifo?

«L'idea ci è venuta a fine 2007, in piena epoca Veltroni. All'inizio era uno dei siti del nostro network, ma con il tempo ha acquisito un'importanza particolare. Merito della giunta Alemanno, che diciamo ci ha dato molto materiale. Siamo partiti dalla “teoria delle finestre rotte”, che ha ispirato quello che forse è il nostro unico mito, ovvero il sindaco di New York Rudolph Giuliani, capace di risollevare una New York che stava messa persino peggio della Roma di oggi. Se c'è una finestra rotta, va subito riparata, altrimenti presto verranno rotte altre finestre, e in quell'area arriveranno graffitari, gang, prostitute e scippatori. Insomma, bisogna partire dalle piccole cose, da piccoli comportamenti asociali come chi urina per strada o chi non paga il biglietto sui mezzi di trasporto».

Quando è arrivato il salto di qualità?

«Prima con l'apertura del profilo Facebook, che oggi ha 70mila fan, e con l'account Twitter, che hanno avuto un effetto moltiplicatore sul nostro successo. Ma il vero boom lo abbiamo registrato nell'ultimo mese. Siamo passati da 35-40 mila a 440 mila utenti unici al giorno prima con la pubblicazione delle foto della “fellatio di Castel Sant'Angelo”, un rapporto orale fotografato in pieno giorno sul Lungotevere, ennesima dimostrazione del degrado della città. E poi con un articolo sul sindaco Marino. Picchi che hanno fatto interessare al nostro progetto anche grandi gruppi editoriali, anche se, lo dico subito, non siamo in vendita, continueremo a finanziarci con i banner di Google AdSense. Tuttavia è chiaro che, se avessi altro personale, farei riprendere con più continuità le nostre continue campagne, da quella per lo scuolabus all'aumento delle strisce blu fino allo spazzamento meccanico delle strade».

Se dovesse scegliere tra le tante, quali direbbe che sono le vostre battaglie?

«I cartelloni abusivi, la lotta contro i camion-bar, la sosta selvaggia. Tutti temi su cui i grandi nemici sono il benaltrismo e chi dice «poracci, lasciateli lavora'». Ecco, quello è il segnale. Quando qualcuno dice «ben altri sono i problemi» significa che stiamo toccando un nervo scoperto e dobbiamo picchiare duro. Oggi comunque la situazione più esplosiva sono gli scippi sotto la metro da parte delle gang di minorenni».

Vi siete fatti un bel po' di nemici. In generale più di destra o di sinistra?

«I più accesi sono gli estremi, di entrambi i campi. Da un lato gli antagonisti, i centri sociali, che difendono le occupazioni e ci danno dei palazzinari perché siamo a favore di una trasformazione edilizia intelligente. Pensano che siamo fascisti, ma i veri fascisti sono loro, con i loro slogan vecchi di 40 anni sulle “colate di cemento”. Il loro “poraccismo” è nemico dello sviluppo di Roma, perché le grandi aree urbane, come Parigi, sono le uniche a veder crescere il Pil, e invece a Roma nessuno investe. Dall'altra parte c'è Casa Pound, che ci ha denunciato per diffamazione».

Mai ricevuto minacce serie?

«Solo dai writer, che mi telefonano di notte o scrivono sotto casa. Una cosa non molto simpatica, soprattutto per mia moglie e mia figlia. Veniamo alle note dolenti, come il linguaggio spesso violento che usate verso chi vi critica. O il fatto che sembrate giustificare certe reazioni dei cittadini, come chi, tanto per fare un esempio recente, riga le auto parcheggiate sulle strisce pedonali. Il nostro tono volutamente sprezzante fa parte di un'operazione di comunicazione. È un lavoro giornalistico aggressivo, sì. Vogliamo svegliare la gente di questa città prepotente e ignorante, far capire loro che le buche, i manifesti abusivi, i parcheggi in doppia fila sono l'illegalità, non devono più essere la normalità».

Il vostro linguaggio è sprezzante anche verso gli immigrati. Parlate di “vu cumprà”...

«Un'espressione che continueremo a usare».

...e date voce a cittadini che, soprattutto quando si parla di rom, non usano mezze misure.

«Ascolti, la nostra posizione sugli immigrati è questa. Sono una grande opportunità, specialmente economica, come dimostra il Pil che riescono a generare. Poi, è vero, ci sono stranieri che creano problemi, ma mai quanti ne creano i romani. Diro di più, e l'abbiamo scritto pochi giorni fa a proposito dei rom: noi non siamo capaci di accoglierli. Tanti rom sanno benissimo che qui non c'è certezza della pena, e ci sono leggi per cui se sei una minorenne incinta nessuno ti può toccare. I rom ci sono in tutta Europa, ma solo in Italia ripuliscono i turisti in metropolitana. È lo stesso motivo per cui gli immigrati del Bangladesh, se sono ingegneri, vanno a Londra, e se non hanno qualifiche finiscono per vendere i fiori a Roma. Non sappiamo attrarre immigrazione qualificata».

Prima che scoppiasse il caso di Mafia Capitale, il sindaco Marino era nell'occhio del ciclone per la vicenda delle multe non pagate per la sua Panda. Voi, controcorrente e anche un po' a sorpresa, scriveste un post in sua difesa, che ricevette 34mila condivisioni su Facebook. Lo definiste “sindaco marziano” lodando le sue 10 discontinuità, che i poteri romani, Pd incluso, non gli avevano perdonato: la chiusura della discarica di Malagrotta, i camion-bar via dal centro, l'aumento delle strisce blu, le pedonalizzazioni, la battaglia contro i cartelloni abusivi, la pulizia nelle municipalizzate, i soldi tolti ai consiglieri comunali per la "manovra d'aula", le unioni civili, i risparmi per le forniture, la rotazione dei vigili urbani sul territorio.

«Non era una difesa, perché all'inizio di quell'articolo scrivevamo che forse neanche si era reso conto quali poteri avesse sfidato... Abbiamo voluto solo dire: attenzione, chi vuole la testa di Marino vuole la conservazione. A cominciare dal Pd locale, che è un grandissimo problema per questa città, dalla questione dei cartelloni ai lavori pubblici».

E le altre forze politiche?

«Forza Italia è uguale al Pd, ma meno elegante nelle sue “zozzate”. I grillini, poverini, sono completamente inutili. Per questo dico che, se vogliono dimostrare di servire a qualcosa, dovrebbero entrare in maggioranza, chiedere un assessorato, magari sulla scorta dei 10 punti che abbiamo segnalato sul nostro sito».

Pensa che il vostro sito abbia aiutato a cambiare i romani?

«Sì, a quel 10 per cento che ci scrive: «Prima di conoscervi non vedevo certe cose». È solo una minoranza, ma non fa più finta di niente e si ribella a una grande brutalità, quella dell'abitudine al degrado. D'altronde la “Ryan Air generation” è stato un dramma per i politici italiani. Chiunque con pochi euro può andare a Londra, Parigi o Madrid e vedere che, nonostante la crisi, le altre città europee funzionano».

Ha votato più a destra o a sinistra?

«Sono tanti anni che non voto. Direi mai a destra. Forse l'ultima volta avrò votato qualcosa tipo la Lista Dini».

Il sindaco migliore chi è stato?

«C'è poco da scegliere. Sono anche contro il mito di Petroselli e Argan, che non ci hanno certo lasciato in eredità una città europea. Potrei salvare un po' il primo Rutelli».

Alfio Marchini le piace?

«Mi sembra un populista, che cerca gli applausi. A Roma serve un sindaco che cerchi i fischi, se vuole davvero cambiare la situazione».

A luglio un deputato del Pd, Michele Anzaldi, l'ha proposta come assessore alla cultura.

«Non mi interessa scendere in politica, anche se un po' tutti i partiti, in privato, mi chiedono consigli, perché ho il polso del territorio».

Però Roma non fa solo schifo, su. Ci dica una cosa bella di questa città.

«Non è una città provinciale, né razzista, né chiusa. Può essere una piattaforma interessante anche a livello culturale, se venisse dotata di una informazione adeguata. E poi questo è un momento eccezionale per il cibo a Roma, c'è una bella scena enogastronomica. Lo dice uno che lavora per il Gambero Rosso».

Quanto sei sporca Roma: il malaffare dell'Ama e l'emergenza immondizia. L'azienda rifiuti, l'Ama, spreca fiumi di milioni senza pulire. E senza multare chi insudicia la città. Un disservizio che lede ulteriormente l'immagine della Città eterna. E Che viene denunciato da tempo. Senza risultati, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Un cassonetto ingombro di rifiuti nel centro di Roma Là dentro, in una stanza ad alto isolamento dell’istituto Spallanzani, il medico di Emergency contagiato dal virus sta lottando contro Ebola. Qua fuori, vicino all’ingresso dell’ospedale al numero 292 di via Portuense a Roma, i netturbini dell’Ama hanno abbandonato due camioncini pieni di rifiuti. Le portiere sono aperte, non le hanno nemmeno chiuse a chiave. La Grande Tristezza ti colpisce ovunque. Non c’è bisogno di dritte e soffiate. Se cerchi, trovi. Piazza di Santa Maria Maggiore è una rassegna di cassonetti, rifiuti abbandonati, un cartello divelto, bottiglie lasciate sui gradini. Non appena se ne vanno i turisti, davanti alla basilica e intorno alla fontana comincia il balletto dei ratti. Grandi e piccini. Corrono, raccolgono tra i rifiuti scarti di cibo, si arrampicano a beretti. Chissà quale malsano protocollo prevede che carichi di immondizia maleodorante siano parcheggiati per tutto il weekend proprio davanti a uno dei centri europei più importanti per la cura delle malattie infettive. O forse sì, la risposta è chiara. Basta scorrere l’elenco degli arrestati nell’operazione antimafia che in queste ore ha coinvolto Gianni Alemanno, l’ex sindaco della capitale ed ex ministro Pdl. Franco Panzironi da esperto in incremento delle razze equine è stato amministratore delegato dell’Ama, l’azienda municipale dei rifiuti. Giovanni Fiscon con 220 mila euro di stipendio record è l’attuale direttore generale dell’azienda e in Ama può contare sulla moglie. Tutti amici degli amici di Alemanno, dicono le ultime inchieste: da quella sugli sprechi di parentopoli all’ultima sul boss neofascista Massimo Carminati. Panzironi e Fiscon ovviamente sono innocenti fino al terzo grado di giudizio. Ma in questo clima di allegra famiglia in camicia nera, qualche furgone, qualche cassonetto, qualche sacco può sfuggire al controllo. E continua a sfuggire. Magari vi sarà capitato di vedere sacchetti o rifiuti ingombranti abbandonati per strada, perfino in pieno centro: non è difficile a Roma. Sapete quante multe sono state date per questa sciagurata abitudine? Venticinque in tutto il 2014, da gennaio a ottobre. E se avete pestato una cacca sul marciapiede, in attesa che vi porti fortuna, forse vi incuriosisce conoscere quanti siano i proprietari di cani multati nell’ultimo anno: zero. Perché stupirsi? Se proprio volete chiamare i vigili, provate a cercarli al bar in piazza di Santa Maria Maggiore all’Esquilino: la notte tra il 23 e il 24 novembre ce n’erano addirittura sei in piacevole servizio in divisa per un’ora. Ma il diario di viaggio dell’ultima settimana nel cuore della Grande Tristezza va ben oltre il malcostume. Le pagine romane da martedì raccolgono anche ritagli di cronaca nera: criminalità, politica, appalti e i neofascisti della banda della Magliana ancora lì, in cima alla piramide a muovere soldi e burattini. Turno di notte: sei vigili, due auto, un'ora al bar. Dalle 00.20 all'1.19 sei agenti della Municipale in divisa, tra cui due graduati, con due macchine di istituto hanno chiacchierato al bar-gelateria davanti alla Basilica di Santa Maria Maggiore. Dopo un'ora sono stati avvicinati da un passante infuriato perché era stato appena aggredito dietro l'angolo da due persone. A quel punto i vigili sono saliti in auto e se ne sono andati, però nella direzione opposta rispetto a quella indicata Il premier Matteo Renzi ha detto e ripetuto di aspettare il 15 dicembre, giorno della consegna dei collari d’oro agli italiani che si sono distinti nello sport, per annunciare la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Sull’immagine della capitale nel mondo, però, prima dei collari sono arrivate le manette. Spese fuori controllo per centinaia di milioni. Manager incompetenti. Roma e i romani spremuti. E le casse portate al default. La mafia non è mai stata dalla parte della gente. Né della buona amministrazione. Qualcuno lo segnalava da anni, confrontando la spesa corrente con la totale mancanza di piani per il futuro. Sono i ricercatori dell’Agenzia per il controllo e la qualità dei servizi pubblici locali di Roma Capitale, istituita dodici anni fa dal consiglio comunale. Anche quest’anno, cinque analisti e un direttore tecnico hanno lavorato per oltre tre mesi. Dal loro rapporto sul 2014, pubblicato il 24 novembre, non si salva nessuno. Sentite qua: «Nonostante una specifica previsione del regolamento del consiglio comunale, sin dal 2002 non si è mai svolta un’apposita seduta per l’esame e la discussione della relazione annuale». Fantastico: dal 2002 cinque analisti e un direttore tecnico vengono pagati dal Comune e il loro prezioso lavoro da dodici anni viene puntualmente infilato in un cassetto o buttato nel cestino. Non bisogna però essere pessimisti: «La sensibilità e l’attenzione dimostrata dal presidente Coratti nei confronti dell’attività dell’agenzia sicuramente farà sì che tale mancanza venga sanata, dando l’opportunità all’Assemblea capitolina di confrontarsi sull’intero assetto dei servizi pubblici locali». Complimenti all’onorevole Mirko Coratti, presidente Pd dell’Assemblea capitolina, il consiglio comunale romano. Cioè no, un momento: Coratti è tra gli indagati in Comune, corruzione aggravata e finanziamento illecito. Martedì i carabinieri gli hanno perquisito l’ufficio e si è subito dimesso. Anche lui ovviamente è innocente fino a prova contraria. Ma con l’aria che tira, la qualità dei servizi pubblici rischia di non essere più in cima all’agenda. E quando mai lo è stata? È duro il lavoro dell’analista a Roma se oggetto dell’indagine è la pubblica amministrazione: «L’aspetto relativo ai poteri di accesso e di acquisizione della documentazione e delle notizie utili nei confronti dei soggetti gestori e degli uffici di Roma Capitale», denuncia l’agenzia, «dovrà a nostro avviso essere oggetto di uno specifico atto di indirizzo da parte dell’assessore e del segretario-direttore generale, viste le difficoltà, i ritardi e talvolta forse una certa ritrosia a voler mettere tempestivamente a nostra disposizione i dati e le informazioni richieste». Se non ci riescono loro, che sono stati incaricati dal Comune, figuriamoci cosa può succedere a un cittadino qualunque quando va a protestare agli sportelli. Eppure, calcolando le spese e il personale apparentemente sulle strade, la Grande Tristezza dovrebbe essere lucida come il marmo della Pietà di Michelangelo. Sulla pulizia non sorveglia soltanto la polizia municipale. Ai vigili si aggiungono agenti del “Nucleo decoro urbano di Roma Capitale” e gli ispettori dell’Ama, appositamente formati tra gli ottomila dipendenti dell’azienda pubblica. Negli ultimi mesi sono addirittura aumentati. Meno male. Nel 2014 la violazione contestata con maggiore frequenza dagli agenti accertatori dell’Ama, così vengono chiamati, è quella dell’uso scorretto dei bidoncini condominiali, nelle zone dove la raccolta dell’immondizia viene fatta porta a porta: 6 multe al giorno. E quante volte succede che i camion dell’Ama non riescano a svuotare i cassonetti, perché sono circondati da auto in sosta selvaggia? Vigili, agenti del decoro, accertatori dell’Ama sono rigorosissimi: due multe al giorno in una metropoli di due milioni e 889 mila abitanti. È una media: a volte sono quattro, a volte zero. E nascondere rifiuti nel cassonetto non corrispondente? Una multa al giorno. Lavoro durissimo. Forse è per questo che nell’ultimo anno si è rinunciato a punire chi non raccoglie le cacche dei cani da parchi e marciapiedi e chi getta rifiuti per strada: zero contravvenzioni. «Dato che le strade di Roma sono tutt’altro che pulite né sono prive di escrementi di cani sui marciapiedi, il fatto che non siano state fatte multe... assume una connotazione sociale assolutamente negativa», scrivono gli analisti nella relazione che il consiglio comunale non ha mai esaminato, «in quanto avalla comportamenti collettivi incivili e individualisti che danneggiano direttamente e indirettamente l’immagine della città e della popolazione romana, creando inoltre un danno economico: quantificabile nelle maggiori spese di pulizia a carico di tutti i cittadini». Dal 2009 al 2013 l’attività di vigili, agenti e accertatori per difendere il pubblico decoro è comunque aumentata toccando la ragguardevole produzione di 39 verbali al giorno: suddivisi per municipio sono due verbali al giorno, un record per i quartieri di Roma. Soddisfatti del risultato ottenuto, nel primo semestre del 2014 i controlli sono crollati a otto sanzioni al giorno, una ogni due municipi. Poche? Tante? Nei primi dieci mesi del 2013 l’Amsa di Milano ha emesso 49.769 multe per violazione del regolamento dei rifiuti, 170 al giorno, di cui 2.000 solo per il decoro urbano: «Mentre a Roma veniva elevata una sanzione ogni 263 abitanti, a Milano ne veniva emessa una ogni 25: anche se la città lombarda non si può certo definire dieci volte più sporca della capitale», è scritto nella relazione dell’agenzia inutilmente consegnata al consiglio comunale. Mantenere la città pulita costa meno che pulirla spesso. Sanzionare i cittadini incivili è più corretto che far pagare tutti. Intanto pagano tutti. Soltanto per il lavaggio e la pulizia delle strade il piano finanziario 2014 prevede l’impiego di 171 milioni: cioè 60 euro per ciascuno dei residenti romani, neonati inclusi, con un aumento del 60 per cento in dieci anni per le pulizie e del 138 per cento per la rimozione dei rifiuti abbandonati. E i risultati non si vedono. Ma pagano anche gli italiani. A Roma la raccolta differenziata nel 2013 si è fermata al 31 per cento e l’immondizia continua a finire in discarica, violazione che non riguarda soltanto la capitale: per questo, la Corte europea di Giustizia pochi giorni fa ha condannato l’Italia a 40 milioni di multa una tantum e 42,8 milioni per ogni semestre di ritardo nell’attuazione delle misure obbligatorie. Altri soldi che saranno sottratti agli investimenti, alla città. Che però si trasformavano in ricchezza per i nuovi boss, intercettati mentre mettevano le mani sui contratti milionari per la differenziata e per la raccolta delle foglie. Perfino gli appalti per la manutenzione del verde sono un enigma a carico dei romani. Da Monte Sacro alla periferia Nord-Est costano 0,38 euro al metro quadro, a Nord-Ovest appena al di là del Tevere li pagano 250 euro al metro: il 6.578 per cento in più. E i cartelloni? La selva pubblicitaria che accompagna i turisti da Fiumicino e Ciampino e nel resto della capitale ha reso al Comune appena 265 mila euro in tutto il 2013. A Genova, la città del sindaco Ignazio Marino, su una superficie molto più piccola sempre nel 2013 hanno incassato un milione e 60 mila euro. Certo, sono genovesi. Ma a Roma non resta nulla: si spendono 900 mila euro all’anno per la rimozione dei cartelli abusivi. Allora, chi è il regista della Grande Tristezza? Gianni Alemanno? Il salotto dei suoi uomini manager? Massimo Carminati? Una capitale cresciuta a immagine e somiglianza di un boss non ha futuro se perfino il consiglio comunale da dodici anni se ne frega della qualità dei servizi. Nel frattempo chissà se l’ex sindaco indagato, la sua alleata Giorgia Meloni e quelli di Casa Pound avranno l’onestà di tornare in piazza: «Porteremo il tema della sicurezza in Assemblea capitolina», ha scritto Alemanno sul suo blog il 17 novembre. Ora che è evidente quanto la mafia sia salita in alto, ha ragione: Roma non è mai stata così insicura.

Vigili: gag, disavventure e scandali. I retroscena dello scontro con Marino. I vigili romani sono il doppio dei milanesi e fanno un terzo delle multe. L’intervento di Cantone, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Scherzi del destino. Per aver osato scrivere che dei vigili urbani a Roma si nota soprattutto l’assenza, il giornalista del Corriere Maurizio Fortuna è stato querelato da ventotto di loro. Pochi giorni dopo il recapito della citazione, ecco la notizia che la sera di San Silvestro l’83,5% degli agenti in servizio era scomparso. Chi si dava malato, chi donava il sangue, chi stava con la mamma inferma... Questa «diserzione di massa», per dirla con il comandante Raffaele Clemente, è l’ennesimo episodio della guerra dichiarata a Ignazio Marino. Certo non per la bacchettata a un agente troppo galante con una bella automobilista senza patente, come quella appioppata nel film «Il vigile» al pizzardone motociclista Otello Celletti, alias Alberto Sordi, dal sindaco Vittorio De Sica: prontamente ricambiato con una multa per eccesso di velocità. Qui il conflitto è di ben altre proporzioni. E c’è da augurarsi che non vada a finire allo stesso modo, con la macchina del sindaco nella scarpata e il vigile che lo scorta all’ospedale. Il culmine dello scontro, a novembre: quando Marino e Clemente hanno deciso la rotazione degli incarichi. L’iniziativa, senza precedenti, ha scatenato una rivolta. Capitolo chiuso con l’Autorità anticorruzione di Raffaele Cantone che ha definito la rotazione non solo «legittima», ma «un meccanismo a tutela delle persone per bene». Però gli animi non si sono placati affatto. Il rapporto fra i vigili e Marino è sempre stato turbolento. Un mese dopo il suo insediamento il loro capo Carlo Buttarelli, messo lì da Gianni Alemanno, se n’è andato sbattendo la porta. Al suo posto è stato chiamato un colonnello dei carabinieri selezionato con procedura pubblica. Nonostante tre lauree, però, Oreste Liporace non aveva tutti i requisiti previsti e ha dovuto gettare la spugna. Allora è arrivato un poliziotto della squadra anticrimine della Questura di Roma: Clemente, appunto. Senza provocare, anche in questo caso, manifestazioni di giubilo da parte di quanti hanno interpretato tale nomina, al pari di quella tentata in precedenza, come un gesto di aperta sfiducia verso la polizia municipale. Il cui capo proveniva di regola dai ranghi interni. Anche se poi non sempre tutto filava liscio. Dicono tutto le disavventure del predecessore di Buttarelli, il comandante dei vigili urbani Angelo Giuliani incaricato di sostituire quel Giovanni Catanzaro pizzicato dal Messaggero a parcheggiare la sua Alfa Romeo in una zona off-limits vicino a piazza di Spagna: sul cruscotto un permesso per disabili. Rimosso da Walter Veltroni, Catanzaro sfiora nel 2008 la candidatura al consiglio comunale con l’Udc. Dieci mesi fa Giuliani viene arrestato con l’accusa di corruzione. Dicono i giudici che prendeva tangenti dalla società incaricata di ripulire l’asfalto dopo gli incidenti stradali. Lui si proclama estraneo: «Sono sempre stato ligio ai miei doveri». Mesi prima, un’altra disavventura. Lo scenario, questa volta, un concorso per 300 aspiranti vigili. Giuliani presiede la commissione d’esame quando parte un’inchiesta della Procura di Roma nella quale si ipotizza il reato di falso ideologico. Alemanno revoca tutti e comincia un autentico Calvario. Da allora si sono alternate ben tre commissioni ma i risultati del concorso, bandito ormai cinque anni fa, non ci sono ancora. Le indagini che riguardano Giuliani, invece, si stanno per chiudere. Nemmeno il rapporto degli ispettori inviati dal Tesoro a verificare i conti della capitale è tenero nei giudizi. Sostiene per esempio che dal 2010 al 2013 siano state erogate ai vigili indennità di responsabilità per quasi 23 milioni in eccesso rispetto ai livelli considerati legittimi. Segnalando anche una serie di anomalie come la maggiorazione notturna concessa per le fasce orarie 16-23 e 17-24, nonostante i contratti nazionali la prevedano solo dalle 22 alle 6 del mattino. A Roma i vigili sono potentissimi: addirittura più del sindaco, si è sempre detto. Se ne contano 6.077. Tuttavia ce ne sono costantemente in giro per la città che ha il più alto numero al mondo di auto (oltre 70 ogni cento abitanti) da un minimo di 105, la sera, a un massimo di 993, la mattina. Ovvero, dall’1,7 al 16,3% della forza complessiva. Il tutto fra strade disseminate di vetture in seconda fila e mai una contravvenzione sotto il tergicristallo, neppure davanti a un comando della polizia municipale. E la produttività? Spiega molte cose il confronto con Milano contenuto nello studio Sose-Ifel sui costi standard. Mentre Roma spendeva per gli stipendi dei vigili il 14,5% più del «fabbisogno standard», Milano risparmiava il 38,3%. Con 154 multe mediamente a testa fatte a Roma contro le 370 di Milano. E le 27.990 sanzioni di altro genere elevate dai seimila vigili romani contro le 79.870 dei poco più di tremila loro colleghi milanesi. Talvolta, dobbiamo riconoscerlo, le condizioni non sono facili. Come capita a chi deve misurarsi con un infernale caos di lamiere: ricorrendo a gesti e movenze tanto eleganti da affascinare perfino Woody Allen. Che nel suo film «To Rome with love» ha immortalato la scena del bravissimo vigile Pierluigi Marchionne sulla pedana di piazza Venezia mentre dirige il traffico, nemmeno fosse un direttore d’orchestra. Proprio lì, dove una volta il giorno della Befana si portavano regali ai pizzardoni in segno di riconoscenza. Altri tempi...

In un giorno 393 assunzioni. Quel rapporto del Tesoro su Roma. Dal 2000 al 2012, quasi 95 mila aumenti. Solo tra il 2008 e il 2012 sono stati impegnati per il salario accessorio dei dipendenti comunali 340 milioni di euro, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Davvero un mercoledì da leoni, quel 25 novembre del 2009, per 393 vigili urbani con contratto a termine. Nel giro di una mattinata presentavano domanda di assunzione a tempo indeterminato, l’ufficio del personale verificava simultaneamente il possesso dei requisiti e il Comune di Roma sfornava istantaneamente il provvedimento di stabilizzazione. Firmato: Mauro Cutrufo, senatore del Pdl e vicesindaco. Peccato che la rapidità da salto nell’iperspazio di questa apparentemente complessa procedura faccia a pugni con quanto affermato nell’ormai arcinoto rapporto degli ispettori del Tesoro sui conti della Capitale. Cioè che in base alle norme allora vigenti quelle stabilizzazioni erano illegittime. Giudizio estendibile a tutte le 2.781 pratiche del genere, di cui ben 500 relative ai vigili urbani, concluse fra il 2007 e il 2010. Che nella gestione del personale il Comune di Roma non rappresentasse il top del rigore, era risaputo. Ma lo scenario delineato in quel rapporto, soprattutto per gli anni che hanno preceduto l’attuale amministrazione, va oltre ogni immaginazione. E ben si comprende il sindaco Ignazio Marino, che descrive l’inqualificabile diserzione dei vigili la sera di San Silvestro come «una ritorsione» per aver lui voluto cambiare certe regole inconcepibili, quali per esempio quelle che garantiscono una valanga di indennità: le più assurde. Perché a toccarle, tutti i 26 mila dipendenti del Comune, tanti quanti i lavoratori della Fiat in Italia, ci rimetterebbero qualcosa. A cominciare da quel salario accessorio che dovrebbe essere collegato a mansioni specifiche ed è sempre stato invece distribuito a chiunque senza particolari motivi. Una pioggerellina fitta e incessante che ha innaffiato tutti dal 2008 al 2012 con oltre 340 milioni di euro. Del resto, che il merito sia sempre stato una variabile ininfluente nel folle panorama retributivo del Comune di Roma lo dimostra una nota del Dipartimento risorse umane del dicembre 2011, nella quale si precisa che per non intascare il compenso di produttività bisogna «aver riportato una valutazione inferiore a 66 punti» e «aver lavorato un numero di giornate inferiore a 110». Cioè, essersi presentati sul posto di lavoro meno della metà del tempo stabilito per contratto. Regole, dunque, che giustificano l’assenteismo e il lassismo. Tanto più, notano gli ispettori, che non è prevista alcuna differenza nella somma corrisposta a chi viene valutato 66 e chi invece prende 100. Ma chi bada mai a una simile inezia, quando la pioggerellina è studiata apposta per bagnare indistintamente ognuno? Prendete le «progressioni orizzontali», termine che definisce i semplici aumenti di stipendio. Dal 2000 al 2012 sono state distribuite ben 5 volte, per un totale di 94.994 gratifiche: effetto di 94.994 valutazioni positive sul rendimento individuale. Quelle negative, 15. E sarebbe interessante sapere che cosa avevano combinato per meritarsele. Sputato in faccia al direttore? Mai andati a lavorare? Rubato? Spesa complessiva, 245,8 milioni fra il 2008 e il 2012. Alla quale si deve sommare quella per un’altra pioggerellina altrettanto stupefacente e copiosa per il capitolo delle indennità. Spesso e prelibato come un millefoglie. Indennità legata all’effettiva presenza in servizio, ovvero una somma erogata in più oltre allo stipendio per il semplice fatto di andare a lavorare. Indennità manutenzione uniforme. Indennità per l’attività di sportello al pubblico. Indennità oraria pomeridiana. Indennità annonaria. Indennità decoro urbano. Indennità di disagio: anche se non si capisce, sottolinea il rapporto, di quale disagio si tratti. E le promozioni, usate esclusivamente «per aumentare la retribuzione ordinariamente corrisposta ai dipendenti». Una slavina, a dire degli ispettori, non proprio legittima: 2.721, nei soli anni 2010 e 2011. E le assunzioni a tempo determinato fatte «intuitu personae» anche quando non riguardavano solo lo staff di fiducia dei politici. E le retribuzioni accessorie dei dirigenti, andate in orbita fra il 2001 e il 2012 passando in media da 45.640 a 88.707 euro l’anno procapite con una impennata del 94,3%. Premiando, per giunta, pure chi avrebbe dovuto essere sanzionato: «Non risulta», sostiene il rapporto, «che a nessun dirigente sia stata negata l’erogazione della retribuzione di risultato». Qualche papavero comunale, poi, prendeva pure compensi dalle società municipalizzate che si andavano ad aggiungere a uno stipendio già non particolarmente modesto. Il che prefigura, dicono gli ispettori, la violazione del principio «di onnicomprensività della retribuzione». Un caso? Il rapporto cita la partecipazione alla Commissione di accordo bonario di Roma metropolitane, la società incaricata di tenere i rapporti con il general contractor della Metro C, del capo dell’Avvocatura comunale Andrea Manganelli. Il quale «nel solo 2013 avrebbe percepito la somma di 53.614 euro e 14 centesimi», anche se «la natura di società in house di Roma metropolitane», stigmatizza il documento del Tesoro, «non sembrerebbe consentire la corresponsione di simili compensi». Fatti singolari. Come «singolare» viene giudicato l’aumento di 1,7 milioni del fondo per gli incentivi economici dei dirigenti, per di più «proprio nell’anno, il 2008, in cui lo Stato si è accollato il debito del Comune di Roma». Una goccia nel mare, in grado però di spiegare molte cose. Per esempio, come sia stato possibile che nel 2012 la spesa corrente di Roma capitale fosse superiore «di circa 900 milioni», per gli ispettori, a quella del 2007. Mentre sull’efficienza delle strutture comunali e la qualità dei servizi offerti ai cittadini, per carità di Patria, forse è meglio sorvolare.

I «pizzardoni» romani: assenteisti, scansafatiche e pure saccenti. La Capitale è tornata al vigile approfittatore in stile Alberto Sordi, scrive Aldo Grasso su “Il Corriere della Sera”. «Ahò, signori onorevoli assessori della giunta comunale! Ahò, signori industriali! Ahò, signor sindaco! Io qui faccio crollare il governo!». In un batter d’occhio, il pizzardone Otello Celletti (l’Alberto Sordi de Il vigile di Luigi Zampa, 1960) è diventato il simbolo della notte degli assenteisti, dei vigili romani che a Capodanno hanno marcato visita. Celletti, impettito nella sua divisa da vigile motociclista, è uno e trino. Scansafatiche mammone, un approfittatore che dispensa giudizi a destra e a manca: «Er pennello deve passà prima orizzontale e poi verticale, sennò ce lasci ‘a striscia...». Non appena indossa la divisa, da raccomandato, diventa un fustigatore di costumi, persino nei confronti delle autorità. Ha un solo cedimento verso Sylva Koscina. Alla fine (terza identità), impara con chi essere severo e con chi no. La vicenda degli assenteisti finirà forse nel nulla, all’indignazione seguirà la rassegnazione. È la Roma statale e parastatale, con i suoi privilegi quasi intoccabili, difesi dalla compiacenza dei sindaci e dalla complicità dei sindacati. È la «Roma di mezzo», la Roma della mezza-porzione, la Roma dove persino la criminalità organizzata pare cialtrona e millantatrice. È Roma-Italia mezza «ladrona». Otello non farà crollare nessuno. Dovrà solo decidersi, «tra una guera e n’antra, de fà quarcosa ». Anche solo assentarsi dal lavoro.

La bandiera del certificato, scrive Francesco Merlo su “La Repubblica”. Al Sindaco De Blasio, che è il loro capo, i poliziotti di New York hanno mostrato le terga. Al sindaco Marino, che è il loro capo, i vigili di Roma hanno mostrato il certificato. Esporre mille terga, per quanto possa apparire paradossale, significa metterci la faccia. Procurarsi mille certificati falsi significa al contrario nascondere la faccia, imbrogliare e degradarsi. Da un lato c'è il coraggio sfrontato della ribellione, fosse pure per ragioni non condivisibili, dall'altro lato c'è la viltà stracciona, fosse pure per ragioni condivisibili. Qui poi non c'è neppure l'assenteismo dei fannulloni, non c'è l'accidia del travet che Brunetta perseguitava come il pelandrone assistito. Questi sono i ceffi di Stato che usano la truffa del certificato-patacca come lotta sindacale, sino all'odioso ricorso, per disertare, alla donazione del sangue e, peggio, all'assistenza retribuita dei familiari disabili (legge 104), atti generosi ridotti a trucchi pelosi, norme di civiltà usate come forconi, la libbra di carne di Shylock il mercante di Shakespeare. E la regia sindacale, che a New York rimanda alla ribellione ostentata dei simboli e mai all'insubordinazione agli ordini, a Roma rimanda al reato associativo che è molto alla moda nella capitale come ha denunziato anche il Capo dello Stato nel messaggio di fine anno. Ed è drammatico che a questo reato di falso, commesso insieme ai medici di famiglia, concorrano tutti i sindacati, per una volta uniti nella difesa della malattia simulata e spacciata per diritto alla protesta. Siamo ben al di là delle già ridicole indennità, da quella per tenere pulita e in ordine la divisa a quella per il servizio in strada (e dove, se no?), sino alla bizzarria poetica della "seminotte", l'invenzione più creativa del contratto integrativo dei vigili, con inizio (non è uno scherzo) alla 15,48 che è, come dire, due minuti prima delle quattro meno dieci, un orario che evoca il binario 9¾ della stazione di Harry Potter dove si respirava corno di bicorno in polvere e tritato di unghie di cavallo. È un pentagramma di comicità corporativa che sicuramente sta facendo schiattare di invidia gli orchestrali e i coristi dell'Opera di Roma che l'umidità retribuita la subiscono soltanto al calar del sole e non al suo semicalar. A New York, secondo il sindacato dei poliziotti, de Blasio ha offeso la dignità degli agenti perché ha consigliato al proprio figlio (Dante, di origine afro-italiana) di "stare attento alla polizia". A Roma, secondo il sindacato della polizia municipale, Ignazio Marino e il comandante Raffaele Clemente, da lui nominato, hanno offeso la dignità dei vigili perché li hanno obbligati alla rotazione nei quartieri trasformandoli così in presunti corrotti, senza più distinzione tra onesti e disonesti. Ma cosa c'è di più disonesto di 835 certificati falsi? E come può un vigile restare legittimato come controllore delle regole se è il primo che le viola, e per di più in questo modo così meschino e cacasotto? Chi sceglie la ribellione deve pagarne il prezzo e non rifugiarsi nella miseria del certificatuzzo del dottorino di famiglia connivente e correo. E non sto parlando della ribellione del pugno chiuso alla Tommie Smith alle Olimpiadi del 1968, ma soltanto di chi fa sciopero sapendo che perderà il salario. Chi si ammala invece lo conserva. E addirittura lo ruba chi fa finta di ammalarsi. E va bene che la medicina è una scienza incerta, duttile e spaziosa, ma la flogosi che subisce l'influsso sindacale, l'agente patogeno che si scatena in un intero Corpo, imprevedibile, imprendibile e inqualificabile come un pirata della strada, è una deriva triste dell'Italia del certificato, quella della visita fiscale che non sgama più nessuno, e non solo perché avviene in fasce orarie governabili dal finto malato ma anche perché costa troppo alle strematissime amministrazioni. Punito con pene irrisorie, quasi sempre con la multa, e in attesa di depenalizzazione, il falso certificato medico chiama, suscita e raduna tutti i fantasmi dell'Italia rancida dell'inguacchio, del disertore vile, del pavido che si rintana in un letto. Ma attenti a riderne e a evocare il solito Alberto Sordi e la commedia all'italiana, il paese degli assenteisti, dei sempre stanchi, degli sfaticati, del "dottore è fuori stanza", della pubblica amministrazione che tutti vorrebbero giustamente riformare e qualcuno sogna di punire. La verità è che, morta ormai la faccia bonaria di Roma e persino della piccola corruzione tollerata, anche il poliziotto municipale si rivela più fellone dell'ultimo degli automobilisti che supera la fila invadendo la corsia d'emergenza. E il trucco della malattia non è più la risorsa dello studente pelandrone che, per marinare la scuola, alza il mercurio al caldo di un termosifone, o della recluta che si infilava il mezzo toscano sotto l'ascella, o ancora del coscritto che si infliggeva ferite di ogni genere sino al taglio di un dito e alla simulazione della pazzia. Qui è persino più deludente del Badoglio di Tutti a casa il sindacato che mette il falso certificato al posto del riscatto sociale di Di Vittorio e della concertazione di Luciano Lama. C'è anche, nell'epidemia di finti malati, l'ennesima prova dell'inutilità dell'Ordine dei medici che non è intervenuto, non ha represso, non ha intimidito, non ha sospeso, e non ha neppure aperto un'indagine. Tutti ci aspettiamo che Marino licenzi, che il comandate Clemente punisca, che la magistratura metta sotto accusa e nessuno si domanda cosa pensano dei certificati bugiardi i presidenti dell'Ordine di Roma, Roberto Lala, e dell'Ordine nazionale, Amedeo Bianco, anche loro assenti ingiustificati in uno scandalo che dissolve nella nostalgia pure i versi di Gianni Rodari: "Chi è più forte del vigile urbano? / Ferma i tram con una mano. / Con un dito, calmo e sereno, /tiene indietro un autotreno: / cento motori scalpitanti / li mette a cuccia alzando i guanti. / Sempre in croce in mezzo al baccano: / chi è più paziente del vigile urbano?".

Vigliacchi di Stato. I complici sono i sindacati che li proteggono e il governo che ha salvato i dipendenti pubblici dal jobs act, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Penso a un amico imprenditore che un anno fa ha dovuto chiudere l'azienda e oggi lotta contro una depressione che non gli dà tregua. Penso ai cassintegrati che dopo aver perso il lavoro stanno perdendo anche la speranza di ritrovarlo. E, senza andare lontano, penso ai tanti colleghi rimasti a casa per i tagli nell'editoria che vagano per le redazioni superstiti a caccia di una collaborazione, anche sottopagata. E poi penso ai vigili urbani di Roma che la notte del 31 si sono dati in massa malati per festeggiare in famiglia o perché arrabbiati con il sindaco Marino in quanto «pagati male». Penso queste cose e provo rabbia e vergogna. Comodo non lavorare avendo garantito a vita il posto di lavoro. Facile protestare per avere più soldi sapendo che comunque vada non perderai un centesimo. Da vigliacchi è poi farlo mettendo a rischio la sicurezza dei cittadini in una notte cruciale per la sicurezza. Manifestato tutto il disprezzo possibile per questi incoscienti, è ora di smascherare i protettori degli statali fannulloni e furbetti. I sindacati, ovviamente, complici dello sfascio strutturale e morale del pubblico impiego. Ma anche una certa politica che non ha mai avuto il coraggio di mettere in riga gli oltre tre milioni di italiani con il posto di lavoro garantito a vita. Parliamo di un esercito di elettori che fa paura anche a Matteo Renzi. Il quale ieri si è detto indignato per i fatti di Roma e ha annunciato misure severe. E pensare che solo pochi giorni fa ha graziato gli statali stralciando di suo pugno la loro posizione dalla nuova legge sul lavoro che prevede il licenziamento in tronco per fannulloni, imbroglioni e incapaci. Senza quell'intervento salvifico, oggi si potrebbero cacciare i vigili di Roma che si sono inventati malattie inesistenti. Questi signori a Renzi devono fargli un monumento, ma se fossi nei panni del premier non ne andrei fiero. A fare il duro con i lavoratori dipendenti, le partite Iva e gli artigiani per poi calare le brache con una massa di privilegiati non si va lontano. E se poi quei privilegiati vestono pure una divisa, l'indignazione per noi comuni mortali è ancora più forte. Nei loro confronti e verso il malato vero, che è chi ci sta governando in questo modo assurdo.

Vittorio Feltri parla dei vigili assenteisti, scrive “Libero Quotidiano”. Nel suo editoriale Il Giornale, prende spunto dalla vicenda di Roma per spiegare come la colpa di tale lassismo sia dei vigili solo a metà e spiega come a partire dagli anni Settanta "il sindacalismo sfrenato prese il sopravvento sul senso del dovere". Parla, anzi scrive, con cognizione di causa perché racconta di quando lui stesso, poco più che ventenne, fu assunto in un'amministrazione provinciale. Era stato assunto come impiegato. Guadagnava 100mila lire al mese "in un'epoca in cui con 500mila compravi un'utilitaria". Ricorda come tutti si dessero da fare, forse perchè controllati ma lui invece non riusciva a stare seduto alla scrivania per più di dieci minuti. "Benché fossi pigro e svogliato non fui cacciato. Ero intoccabile come tutti i colleghi. I quali tuttavia non mi somigliavano, alcuni erano fulmini di guerra e coprivano le mie manchevolezze con santa rassegnazione giudicandomi probabilmente inabile". Feltri ricorda l'attivismo, la voglia di fare che regnava negli uffici, il rispetto che avevano  verso il cittadino. E ammette: "Li guardavo mentre smantettavano sulla macchina meccanografica e pensavo: questi sono scemi, chi glielo fa fare di ammazzarsi di lavoro? In realtà lo scemo ero io. Tant'è che nel giro di due o tre anni mi trasferirono di qua e di là nel tentativo di trovarmi una collocazione giusta affinché rendessi quanto gli altri. Alla fine andai in cerca di fortuna e mi è andato di lusso". 

Tutti uniti, anche Cantone: «Linciamo i vigili, sono fannulloni!», scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Ogni tanto l’Italia, che è un paese diviso – su tutti i piani – trova dei punti in comune e si unisce. Si riscopre, come dire?, Nazione. Da un po’ di tempo il nemico comune era il ceto politico, ribattezzato ”La Casta” dai giornalisti. I giornalisti hanno la specialità di trovarsi sempre alla testa di questi rari fenomeni di riunificazione nazionale. Ora però sembra che l’odio contro i politici non sia più sufficiente. Perché è diventato troppo universale, troppo scontato. Ormai persino i politici hanno accettato l’idea che il male dell’Italia siano i politici, e dunque diventa persino inutile bastonarli. E’ sufficiente che essi riconoscano la superiorità morale e il dritto al comando della magistratura ( e degli stessi giornalisti), cosa che fanno, di buon grado, quasi tutti. Allora occorre trovare un nemico nuovo, che sia davvero il simbolo dei mali dell’Italia, della sua stoltezza, dell’infigardaggine, dei privilegi. In queste feste natalizie si è trovato il nemico nella figura del ”vigile urbano di Roma”. Bersaglio perfetto. Ha due caratteristiche che difficilmente si trovano nella stessa persona: è ”antipatico” al popolo, perché fa le multe. E al tempo stesso é popolo. Il vigile è un lavoratore, che sgobba e ha uno stipendio piccolino. E dunque può perfettamente diventare il simbolo del male, con una specie di ”transfert”, che serve a linciare un personaggio ”antipatico” e indicare contemporaneamente nel ”lavoratore” il colpevole dei mali della nostra economia. E dunque sul vigile urbano, sull’odio per lui e per il suo essere fannullone, può benissimo unificarsi la rabbia popolare, sollevata dai giornalisti, e l’intransigenza del potere, dell’establishment, che ha bisogno assoluto di ”criminalizzare” una figura tipica di lavoratore per affermare, nel senso comune, che il problema dell’Italia sta nella scarsa produttività e nei costi eccessivi del lavoro. Cosa è successo a Roma nella notte di Capodano? Niente di grave, sembrerebbe, perché non pare che ci siano stati seri inconvenienti nella gestione del traffico. Però si è scoperto che una gran quantità di vigili urbani che avrebbe dovuto essere in servizio, o reperibile, aveva presentato certificato medico per starsene a casa. Intendiamoci bene: questi vigili non si sono sottratti al normale orario di lavoro, ma semplicemente allo straordinario. Per svariate ragioni, tra le quali la loro contestazione a una serie di norme varate recentemente dal comando dei vigili, che riguardano proprio la regolamentazione dello straordinario. La massiccia astensione dal lavoro è un atto che sta a metà tra la scelta personale e la protesta. Naturalmente si può dire: ma l’assenteismo non è una forma di protesta, le proteste devono svolgersi dentro le regole stabilite dalla legge e organizzate dai sindacati. Forse però, se si dice così, non si capisce che la crisi, la recessione, e in parallelo la morte dei partiti politici e l’epocale indebolimento dei sindacati, rendono inevitabile il nascere di forme di ribellione nuove, e anche fantasiose. E’ assurdo considerare l’assenteismo contro gli straordinari un semplice atto di vigliaccheria e di irresponsabilità: è in modo limpido un atto di lotta. Poi ciascuno è autorizzato a dire che è una lotta sbagliata, che i metodi sono illegittimi, che questi fenomeni vanno fronteggiati e vinti – così come tante volte si dicono queste cose anche delle più legalitarie battaglie dei sindacati – però bisognerà capire che i ”ribelli” non resteranno fermi ad aspettare gli schiaffoni e rimbrotti del potere, si muoveranno, cercheranno di resistere, di spuntarla. Il conflitto, lo scontro sociale, non è solo una affermazione teorica: è esattamente questa roba qui, questi atti di indisciplina di massa. Il problema vero è la debolezza oggettiva dei ”ribelli”. Sono isolati in modo totale. Persino la Cgil ha paura di difenderli, intimidita, impaurita dalla furia della ”politica per bene” – di destra o di sinistra, leghista o grillista – e dei grandi giornali. Non c’è una sola voce che si leva in loro difesa. Nessuno che avanza un dubbio sulla necessità di linciarli, di preparare subito delle leggi speciali contro di loro, magari – chessò – di dare anche a loro il 416 bis (associazione mafiosa…)!. Non lo dico solo per scherzo: mi ha colpito il fatto che contro i vigili, in questa crociata anti-lavoratori, si è gettato a capofitto anche Cantone, il mitico commissario anticorruzione voluto da Renzi e applaudito dai magistrati. Che cavolo c’entra Cantone con l’astensione dal lavoro dei vigili urbani? C’entra, c’entra, perché il cerchio deve chiudersi: lotta alla corruzione, lotta ai lavoratori, lotta all’articolo 18, potere ai ”giusti”, ai giudici, ai giornalisti, ai saggi, a i tecnocrati, agli imprenditori, agli eletti…Sapete come dicevano i greci? Agli ”aristos”.

E su di questo passo. E poi il paradosso. «Quella bambina di 14 anni è un capomafia», scrive Francesco Altomonte su “Il Garantista”. Mancano sei mesi al compimento dei suoi 17 anni, ma leggendo i capi di imputazione riportati nell’avviso di conclusioni delle indagini preliminari sembra di avere a che fare con un boss di lunga data, di un criminale incallito che ha dedicato la sua vita a “mamma ‘ndrangheta”. Lei (sì, stiamo parlando di una ragazzina), figlia di uno dei personaggi di primo piano della potente cosca Gallico di Palmi, nel Reggino, risulta ancora incensurata, benché la procura dei minorenni di Reggio Calabria l’accusi non solo di associazione mafiosa, ma anche di essere un capo promotore del clan (armato) di riferimento dei suoi genitori. Il primo pensiero che passa nella mente del cronista (o perlomeno dovrebbe passare) è: ma un ragazzina che all’epoca dei fatti non aveva compiuto 14 anni, è imputabile? La risposta è, anzi dovrebbe essere no, ma la data posta in calce al documento che decreta la fine delle indagini preliminari dissiperebbe i dubbi: «Accertato in Palmi e territori limitrofi in epoca successiva al 12.05.2011». Nel giugno di quell’anno (il 2011), infatti, la ragazzina avrebbe compiuto 14 anni, quindi poteva essere perseguita per il delitto associativo. Alcuni fatti che le vengono contestati, infatti, risulterebbero compiuti nei mesi successivi. Da qui, la possibilità da parte della procura dei minori di poterla accusare di associazione mafiosa. La ragazza, che dall’inizio del 2014 è ospite di una famiglia nel nord Italia, entra in una delle tante inchieste che hanno permesso di decapitare il clan Gallico, in particolare quella in cui viene colpita una presunta rete di fiancheggiatori della cosca dedita alle estorsioni. Suo padre e sua madre sono in carcere, lei vive in casa con dei partenti. Gli uomini della squadra mobile di Reggio Calabria e del commissariato di Palmi, che stanno conducendo le indagini, hanno piazzato delle microspie in quella casa e a metà del 2011 intercettano una conversazione nella quale alcuni indagati parlano di soldi e di qualcosa nascosto all’interno di quella abitazione. Tra i partecipanti alla discussione c’è anche l’allora tredicenne. La ragazza dopo alcuni minuti lascia la casa insieme a una donna finita in carcere alla fine del 2011, Loredana Rao, salendo in auto con lei. Gli investigatori, per capire dove e cosa trasportassero nell’autovettura, piazzano un posto di blocco appena fuori la città. Le due donne pochi minuti dopo intravedono la volante della polizia, fermano la macchina e fanno marcia indietro. Quella è la prova per i poliziotti che qualcosa non quadra. Partono all’inseguimento e bloccano non solo la macchina nella quale viaggiavano la Rao e la ragazzina, ma anche un’altra autovettura con a bordo alcuni uomini della famiglia. La mossa conseguente è il trasferimento di tutti in commissariato per la perquisizione. Per evitare fughe o altri problemi, due poliziotti salgono a bordo delle due macchine. Un agente, si legge nell’informativa redatta dagli uomini della Mobile, durante il tragitto nota che la ragazzina cercava di sistemare qualcosa che aveva nascosto all’altezza dell’inguine. Appena giunti in commissariato chiedono se vogliono essere assistiti da un legale, soprattutto lei che ancora non ha compiuto 14 anni, ma tutti declinano l’invito. La ragazza, però, non si fa neanche perquisire perché spontaneamente consegna alla poliziotta un foglietto contenuto all’interno dello slip. Si scoprirà nel novembre 2011 di cosa si tratta, quando la procura antimafia di Reggio Calabria emette un decreto di fermo con il quale finisce in carcere l’intera rete di presunti estortori. Si trattava di un foglio di calendario sul quale erano state annotate date e cifre. Per gli inquirenti quei dati parlano chiaro: sono appunti per la riscossione del pizzo imposto dal clan Gallico agli imprenditori e commercianti della città. Alcuni di loro, per inciso, collaboreranno alle indagini confermando quanto ricostruito dalle forze dell’ordine. All’interno di un’altra informativa, la ragazzina viene intercettata con il fratello. Per gli inquirenti il parente le starebbe impartendo degli ordini per andare a ritirare delle estorsioni, o per intimarne in pagamento. Siamo nel 2012 e, quindi, per la legge italiana la 14enne è perseguibile e può essere incriminata. L’equazione sembrerebbe questa: siccome tutti i suoi parenti e membri del clan sono dietro le sbarre, dai mammasantissima fino ai fiancheggiatori, l’allora 14enne svolgerebbe il compito di “reggente” della cosca, anello di congiunzione con i detenuti e figura “visibile” della famiglia sul territorio. La ragazzina, intanto, dopo l’arresto di tutti i suoi parenti, compreso suo fratello ancora minorenne, viene data in affidamento a una famiglia del nord Italia dalla quale la giovane, secondo quanto appreso, fugge con regolarità per ritornare a casa. Con altrettanta regolarità viene ripresa e riportata indietro. Secondo quanto saputo nella giornata di ieri, pare che solo ad agosto scorso, il Tribunale dei minori le abbia concesso la possibilità di visitare suo padre in carcere.

De Cataldo: "Giustizia, un'utopia da difendere". E' un’aspirazione che spesso non si realizza, ma bisogna continuare a lottare per vederla trionfare. Anche se la crisi economica ha inciso profondamente sui diritti e rimesso in discussione molte conquiste sociali. Il commento dello scrittore, scrive Giancarlo De Cataldo su “L’Espresso”. “Processo e giudizio sono atti senza scopo, i soli atti della vita che non hanno uno scopo”. La citazione non appartiene a un nichilista dell’Ottocento, ma al grande giurista Salvatore Satta. Intende, Satta, che il processo è un mistero. Come la vita, aggiunge: il mistero del processo, il mistero della vita. Sublime astrattezza di un Maestro: ma realmente la giustizia è, o può essere considerata, un mistero? Nella percezione di grandi artisti e narratori sembrano prevalere altri sentimenti. Prendiamo il giudice Briglialoca, immortalato cinque secoli fa da François Rabelais. Per decidere le cause che gli sono affidate, questo onesto e stimato magistrato si affida al lancio dei dadi. Vince colui «che per primo arriva al numero di punti richiesto dalla sorte giudiziaria, tribuniana, pretoriale». Però, almeno una volta, Briglialoca sbaglia, e scrive una sentenza “ingiusta”. E finisce sotto processo. Assolvetemi, invoca l’anziano e stimato giudice, se ho sbagliato è stato per colpa della vecchiaia: la vista è debole, leggendo i dadi ho preso un “4” per un “5”. Nell’episodio del processo a Briglialoca, il genio ribaldo di François Rabelais coglieva il senso di sbigottito sgomento che, al suo tempo, segnava il rapporto fra l’esercizio della giustizia e la sua percezione diffusa. La giustizia. Una partita che si gioca fra misticismo e gnosi. Una tenebrosa palude avvolta dalle nebbie di un linguaggio iniziatico, un viaggio interminabile nelle lungaggini di un formalismo astruso. E, alla fine, l’inganno di un lanciatore di dadi, per giunta dalla vista debole. Come se la dea della bilancia e della spada del mito fosse destinata a trasformarsi, ironicamente, nell’altra sua sorella, la Fortuna dagli occhi bendati che premia o punisce a caso. Sentimento di ingiustizia, indignazione venata di umorismo per le alchimie dei chierici e sarcasmo per l’uso “casuale” della legge. Questo troviamo in Rabelais: razionalità, più che mistero. E l’elogio della durata del processo che fa Briglialoca non si comprende se non si ricorda che, per antica prassi, ai giudici si donavano “sportule”, cioè bustarelle, tanto più ricche quanto più sottili erano le questioni da affrontare: come dire, più la tiri per le lunghe, e più guadagni. Nei secoli a venire, molti altri grandi spiriti ci hanno fornito rappresentazioni ironiche, amare, disperate, ilari della giustizia. Si pensi all’Azzeccagarbugli che tramortisce il povero Renzo a colpi di latinorum; al giudice di Collodi che condanna Pinocchio proprio perché innocente; al corrotto ubriacone Azdak che nel “Cerchio di gesso del Caucaso” di Bertolt Brecht fa la scelta giusta perché risponde alla morale della strada infischiandosene del diritto; al cupo guardiano delle leggi del “Processo” kafkiano; agli eroi dei romanzi di John Grisham alle prese con le storture, spesso atroci, del sistema giudiziario dell’Impero Americano. La giustizia, in tutte queste narrazioni, o non è definita affatto, o lo è in negativo. Ciò che affiora, accanto allo sbigottimento e alla critica, è qualcosa di molto diverso dal mistero. È la tensione verso un oggetto indefinibile: sappiamo confusamente ciò che è giustizia, ma non vediamo mai attuato questo nostro ideale. Tutto ciò si può definire aspirazione. Un’aspirazione che, a guardare alla Storia, fende realmente i secoli e i millenni come la spada fiammeggiante delle antiche icone. Se per Satta il giudizio finale, l’unico che abbia veramente un senso, è rimesso all’Uno che non ha bisogno di punire, perché gli basta giudicare, l’uomo pratico coglie, nella rappresentazione degli artisti, la dialettica continua fra la tensione verso il giusto e i limiti della Storia. E solo trascinata nell’aula della Storia la giustizia accantona l’alone metafisico del mistero per farsi esperienza concreta, vicenda dialettica, dialogo continuo fra luce e oscurità. Nel nome di ciò che è giusto donne e uomini, in tutte le terre conosciute, hanno conosciuto l’ostracismo, la repressione, il martirio. E giusto, peraltro, non necessariamente coincide con legale. Il codice di Hammurabi legittimava il padrone a uccidere il proprio schiavo e l’altrui: in questo caso, l’omicida se la cavava con una modesta multa. Le leggi razziali di Mussolini, inique e ingiuste, erano leggi, pertanto legali. Oggi la schiavitù è un crimine represso dalle convenzioni internazionali. E la nostra Costituzione vieta il razzismo. Ciò che all’antico re babilonese e al dittatore di Predappio appariva giusto e legale oggi è universalmente ritenuto ingiusto e illegale. Quando parliamo oggi di giustizia, dunque, parliamo, in termini storici, dell’ultimo segmento (in ordine di tempo) di un lunghissimo percorso costellato di lotte, contese, guerre e massacri. E in termini oggettivi siamo autorizzati a spendere la parola progresso. Poiché la maggior parte di noi, almeno nei paesi occidentali, vive in regimi democratici, sicuramente preferibili ai regni assolutistici dominati dall’arbitrio. Le Corti internazionali giudicano dei crimini contro l’umanità commessi da individui che, un tempo, furono condottieri e capi di Stato riveriti e acclamati: e anche questo, sino a pochi anni fa, sarebbe stato impensabile. Con il passare del tempo, l’aspirazione generica e indeterminata alla giustizia cresce e si fa sempre più concreta. Abbraccia la legittima pretesa di diritti che si vanno affermando sull’onda di un altro progresso, quello scientifico, e di un’accresciuta sensibilità sociale: il diritto alla salute, al lavoro, all’ambiente. Tuttavia, la stessa Storia che induce a un cauto ottimismo impone un diverso ordine di riflessioni. Le Corti internazionali non sono riconosciute da alcune grandi nazioni, che si rifiutano di aderirvi. E se operano è perché appena vent’anni fa, nel Mediterraneo, a poche miglia dalle nostre coste, nell’ex-Jugoslavia si perpetravano il genocidio e lo stupro etnico. La giustizia, per chi era internato in un campo “etnico” non poteva che essere un’aspirazione: e ancora oggi lo è per i tanti afroamericani che protestano contro le violenze poliziesche o per le donne soggiogate dai regimi sessuofobici, e di esempi se ne potrebbero citare a dozzine. Dopo l’11 settembre, come rivela l’agghiacciante rapporto del Senato statunitense, la prima democrazia al mondo ha praticato la tortura. La crisi economica che stiamo attraversando ha inciso profondamente sui diritti dei lavoratori. Molte delle conquiste sociali degli anni passati sono rimesse in discussione. Lo Statuto dei lavoratori è un ferrovecchio. Il sindacato un inutile orpello. Il welfare è sul banco degli imputati. Mentre l’aspirazione alla giustizia non cessa di crescere, si fa strada nella collettività un crescente senso di sfiducia e disaffezione verso le istituzioni. Gli elementi di ottimismo e di pessimismo si bilanciano, rianimando, sotto diverse spoglie, il costante e irrisolto rapporto dialettico fra la giustizia a cui si aspira e quella che si vede realizzata. È vero che dai tempi di Hammurabi molto è cambiato: ma se possiamo accettare di definire la giustizia come un’aspirazione, non possiamo parlarne in termini di conquista irreversibile. Non c’è niente di irreversibile in questa storia millenaria. La tensione fra lo schiavo e il padrone è il nodo centrale intorno al quale ruota la vicenda della giustizia come aspirazione. In questa corrente dialettica il progresso non può che stare dalla parte dello schiavo. O per meglio dire, delle molteplici maschere che lo schiavo assume nel corso del tempo: il combattente per la libertà di opinione, la donna violata, il profugo in fuga dalla guerra, la vittima della mafia, il minore abusato, il precario senza diritti, il condannato che espia la pena e cerca di reinserirsi. Un’aspirazione che dobbiamo tenerci ben stretta, e per la quale bisognerà ancora e ancora combattere.

Che volete che sia. Con questi italiani!

Palazzo, le sparate dei politici non fanno ferie. Dagli insulti di Gasparri alla crisi Pascale-Silvio. E la cagnolina della Biancofiore, i selfie di Renzi, le analisi economiche di Belen e il mutuo di Razzi. Tra panettoni e cotechino, i politici non hanno mancato di rilasciare dichiarazioni surreali anche sotto l'albero. Ecco le peggiori, scrive Wil Nonleggerlo su “L’Espresso”.

Michaela Biancofiore, onorevole di Forza Italia: "Non partirò mai per le festività natalizie senza la mia cagnolina, la carlina Puggy. Vive in simbiosi con me, ne soffrirebbe troppo" (19 dicembre 2014)

Matteo Renzi, ospite di Antonella Clerici e Bruno Vespa, nel salotto di “Un mondo da amare” (Raiuno): "È come se l’Italia non sapesse farsi i selfie..." (19 dicembre 2014)

Antonio Razzi, la vita grama del senatore berlusconiano (La Zanzara): "Ammé dello stipentio di parlamentare non me rimane niente. Non posso manco aiutare i miei due figli operai. Non è che ti restano in tasca 12mila euro al mese, ci sta da pagare la quota al partito, ci stanno da pagare i collaboratori, alla fine devi stare attento a non finire a mangiare sagne e facioli..." (19 dicembre 2014)

Silvio Berlusconi, su Twitter: "Tutti mi chiedono come sto. E come volete che stia? In libertà condizionata" (22 dicembre 2014)

Matteo Salvini, il grande quesito della Vigilia, su Facebook: "Amici, una curiosità: ma voi ci credete agli Oroscopi?" (24 dicembre 2014)

Barbara Mannucci, ex deputata Pdl, ora stregata da Matteo Salvini: "Salvini è la nostra ultima spiaggia. Che uomo coraggioso. Che energia. O ci salva lui, oppure non abbiamo speranza. Salvini è come Berlusconi nel '94 , è da allora che non sento tanto calore". (Nel 2011 diceva: "Berlusconi è la luce, resterò con lui fino alla fine. Sarò la sua Claretta Petacci") (20 dicembre 2014)

Andrea Orlando, ministro della Giustizia, intervistato da Libero: "Mi mancano pochi esami per laurearmi in Giurisprudenza. Interruppi gli studi per andare a lavorare..." 21 dicembre 2014)

Don Ferdinando, parroco di Villasanta, comune alle porte di Monza, durante la messa della Vigilia di Natale: "Babbo Natale è solo un ciccione ubriacone, inventato dalla Coca-Cola per simboleggiare il consumismo..." (24 dicembre 2014)

Il Mago Otelma, intervistato da Libero: "Simpatie grilline? Le nostre simpatie vanno a tutti coloro che difendono la libertà dei cittadini e tutelano la legalità democratica. Noi leggiamo nella mente del 'duce invitto' (Renzi) una smodata ambizione, una protervia lancinante, una ebbrezza superumana che bene riecheggia Zarathustra... La sua è stata abile propaganda, sapiente utilizzo dei media asserviti e ruffiani, disinvolto impiego di una retorica laurina..." (30 dicembre 2014)

Silvio Berlusconi, dal messaggio di auguri pubblicato sul proprio profilo Facebook: "… Il programma che noi metteremo in pratica, ove avessimo responsabilità di governo, è la formula liberale del benessere e della crescita che ha funzionato sempre e dovunque sia stata realizzata. È un programma in tre punti. Il primo punto: meno tasse. Il secondo punto: meno tasse. Il terzo punto: ancora meno tasse" (24 dicembre 2014)

Beppe Grillo, in passato il leader 5 Stelle aveva elogiato il "modello" Argentina, ora è il turno della Russia: "Fare la fine del Rublo se usciamo dall'Euro? Magari!" (27 dicembre 2014)

Roberta Pinotti, ministro della Difesa, in un'intervista rilasciata a Tv2000, la tv della Cei: "Mi sono iscritta al Pci nell’89, l’anno della svolta di Occhetto che chiamò a raccolta anche Acli e Caritas. Votavo Pci, lo sentivo il partito più attento a quelli che ritenevo gli ultimi, secondo una mia lettura del Vangelo" (27 dicembre 2014)

Mario Borghezio, l'eurodeputato leghista dice la sua sul rinvio a giudizio di 34 “guardie padane” (Il Giornale): "Si figuri che il capo delle famigerate camicie verdi era il generale Pollini. Di professione faceva il guaritore. Credo che imponesse le mani... Fra l’altro il nocciolo duro dell’organizzazione era composto da ex alpini con i capelli bianchi e una discreta propensione all’alcol" (29 dicembre 2014)

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante la conferenza stampa di fine anno ha fatto riferimento a ''Ogni maledetta domenica'', il film in cui Al Pacino interpreta il ruolo di un allenatore di football americano che riesce a condurre la squadra alle finali del campionato. Matteo Renzi, durante la conferenza stampa di fine anno: "Mi sento un po' come Al Pacino in Ogni maledetta domenica, un coach che dice ai suoi che ce la possono fare" (29 dicembre 2014)

Maurizio Gasparri, il vicepresidente del Senato scatenato su Twitter, anche durante le festività natalizie: "Il Liverpool scarica Balotelli? Un vu gioca' del pallone". "Non vado pazzo per i sanpietrini, ma l'idea di venderli è così da deficiente che meriteresti che te li tirassero in fronte Ignazio Marino". "Sei proprio un deficiente Ignazio Marino". Ad un utente: "Te nu spreca' la corda chiudi l'hanno in bellezza, buttate!". Rispondendo a NaOh: "Io capodanno da solo? Ora vado dagli amici e tu stasera stai a casa, la vita da Rom è dura". Rispondendo a Maria Teresa, che lo critica tirando in ballo la "Repubblica delle banane": "Lei è una nota esperta di banane a giudicare dalle foto, addio" (29 dicembre 2014)

Giuseppe Pecoraro, prefetto di Roma, intervistato da Repubblica in merito all'inchiesta su Mafia Capitale: "A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato, Gianni Letta. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza" (30 dicembre 2014)

Francesca Pascale, la fidanzata di Silvio Berlusconi spegne sul nascere le voci di una possibile crisi di coppia: "Crisi? Ma quale crisi? Io e il presidente Berlusconi siamo sempre una coppia quasi normale. Una coppia in cui quel 'quasi' c’è sempre stato, e riguarda la differenza d’età. E chi si scolla da lui?". "Non ero a Madrid, vuole che le mandi le mie coordinate geografiche via WhatsApp? Sono ad Arcore, con 'lui', certo. L'unica emergenza è un'altra: mancano gli struffoli". "E a chi si dava pensiero anche di sapere come stessero i miei cagnolini, annuncio che si preparano a festeggiare con noi. Dudù è in ottima forma, e Dudina... non so se posso dirlo... diciamo che è entrata nell’età adulta" (31 dicembre 2014)

Antonio Razzi, l'incredibile ammissione del senatore di Forza Italia, come se nulla fosse... (Repubblica.it): "Io avrei ottenuto qualcosa per passare con Berlusconi? Magari! Non volevo perdere il posto di lavoro. Io volevo rimanere alla Camera perché volevo pagarmi il mutuo. È stato un atto di salvarmi la mia paca... Chi è quel lavoratore che non si salva la sua paca? Era un modo per difendere i miei diritti. Mi mancava tre anni per la penzione svizzera. E così ho detto, se salvo il governo io mi salvo tutto e almeno pago il mutuo. Sennò chi lo paga il mutuo? Lei?" (22 dicembre 2014)

Brunetta: "La legge c'è, basta applicare la mia riforma". L'ex ministro della Pa: "Ridicolo nascondersi dietro il ddl Madia", scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”.

Onorevole Brunetta, lei è stato per anni simbolo della lotta ai «fannulloni» nella Pa. Cosa pensa dell'episodio romano?

«È un episodio grave che rischia di tramutarsi in un boomerang per chi se ne è reso responsabile. Ma certo colpisce che la sinistra dopo aver combattuto le mie leggi oggi scopra che esistono fannulloni e assenteisti. Quando lo dicevo io mi insultavano».

Renzi invoca nuove regole per il 2015.

«Nascondersi dietro il disegno di legge Madia è ridicolo. Le regole per combattere fannulloni e assenteisti ci sono già e portano il mio nome. Vanno applicate subito, senza scuse, e vanno stigmatizzati certi comportamenti sempre, non solo quando c'è il caso mediatico. È stata la sinistra, è stata la Cgil a combatterle. Sono stati i governi Monti, Letta, e anche il governo Renzi, da oltre 10 mesi, a non applicare queste regole».

In concreto come sono state disattese?

«Proprio sull'assenteismo dei dipendenti. Io pubblicavo i dati delle assenze di tutti i dipendenti della Pa, mensilmente e nel dettaglio. Con la fine del governo Berlusconi questo non è più accaduto. Avevamo ottenuto risultati importantissimi. Ad esempio l'obbligo dei certificati medici online sia del pubblico che del privato con la trasmissione in tempo reale all'Inps. Se vogliono sapere quali medici hanno fatto i certificati, possono farlo in un attimo».

Contro la sua riforma ci furono ribellioni da parte dei dipendenti pubblici?

«No, anzi, la Cgil mise in campo 13 scioperi, tutti falliti, tutti con una partecipazione media del 4%. Il consenso nella Pa era alto, tranne nel Pci-Pds-Ds-Pd, tranne nella Cgil, tranne tra gli intellettuali come Scalfari o Merlo, tranne i cantanti, gli attori e i comici».

Renzi da amministratore locale come si pose rispetto alla sua riforma?

«La applicava salvo dire: "Ma non sono mica Brunetta". Quando era presidente della Provincia di Firenze gli proposi una scommessa: se con la mia riforma tra i tuoi dipendenti l'assenteismo si riduce più del 40% mi regali una Montblanc; se meno del 40% te la regalo io. Vinsi la scommessa, ma la Montblanc non me l'ha mai regalata».

In malattia per cento milioni di giorni all’anno. Non solo per motivi di salute: le assenze dei dipendenti toccano il 20% nel settore pubblico e il 13% nel privato. Brunetta stimò un costo annuo per la PA di 6,5 miliardi, anche se il fenomeno è in calo. Sono tutte giustificate? Scrive Paolo Baroni su “La Stampa”. Solo a causa delle malattie in un anno, il 2013, l’ultimo censito dall’Inps, vanno in fumo oltre 108 milioni di giornate di lavoro: 77,6 nel settore privato e 30,8 nel settore pubblico, dove si registra un totale di 4.838.767 «eventi». In pratica l’altro anno ognuno dei 3 milioni e trecento mila travet si è ammalato una volta e mezzo nel giro di 12 mesi. In media, ferie comprese, le assenze dal lavoro toccano il 20% nel settore pubblico ed il 13 in quello privato. Ma le motivazioni, come insegna la vicenda dei vigili romani, non si limitano alle sole malattie, ci sono infatti permessi di vario tipo ed i giorni concessi dalla legge 104 per l’assistenza ai disabili. Un «danno», per la pubblica amministrazione, che qualche anno fa, quando Brunetta lanciò la sua crociata contro i «fannulloni», venne stimato in 6,5 miliardi di euro l’ anno. L’ultimo monitoraggio della Funzione pubblica, che però si ferma ad agosto 2014, calcola che su 4705 amministrazioni prese in esame, in media ogni dipendente si è assentato per 0,558 giorni per cause di malattia (con ministeri e agenzie fiscali che arrivano a 0,987 e le università che si fermano a 0,218). Con picchi particolarmente alti al ministero della Giustizia (1,827 giorni/dipendente) e alla Difesa (1,218). Per lo più si tratta sempre di malattie di breve durata: gli eventi che comportano assenze superiori ai 10 i giorni, infatti, pesano appena per 0,023 giorni per ogni dipendente. Gli «altri motivi», ovvero le varie tipologie di permesso, pesano molto di più: la media per dipendente è infatti pari a 1,001 giornate perse al mese (1,804 nelle comunità montane e 1,739 nelle università). A livello regionale ci si ammala molto di più al centro (0,725 giorni/dipendenti) ed al Sud (0,607) che nel Nord est (0,386) e nel Nord Ovest (0,403). Dal ministero assicurano che i dati sulle assenze dei dipendenti pubblici saranno aggiornati nei prossimi giorni. Per ora questo ultimo monitoraggio ci dice che rispetto all’anno precedente le assenze di malattia sono scese del 9% e quelle per «altri motivi» del 15,3%. Nulla rispetto ai picchi fatti segnare all’avvio della riforma Brunetta, quando nel giro di pochi mesi si registrò un crollo del 36% delle assenze coi giorni di malattia pro-capite scesi da 1,04 a 0,64. «Da Monti in poi - denuncia oggi l’ex ministro di Fi - i governi di turno non hanno più creduto in questa operazione. I dati non vengono più pubblicizzati e in pratica la lotta all’assenteismo è stata abbandonata. Peccato perché ora con certificati medici e ricette on line la Pa avrebbe nuovi importanti strumenti che potrebbe utilizzare». La pubblicità dei dati, dettagliati per tipologia di amministrazione e territori, in effetti, è lo strumento più efficace per contrastare questi fenomeni. Per legge tutto è infatti on line e pubblico: basta accedere ai vari siti e cercare il link «amministrazione trasparente». E così facendo, ad esempio, si scopre che al Comune di Roma (nel terzo trimestre 2014) i tassi di assenza, ferie comprese, oscillano tra il 25 ed un pericoloso 42%, con una quota che spesso supera il 10% tra malattie e permessi. Quanto ai vigili urbani già a fine 2013 facevano segnare picchi significativi di malattia (7,4% il gruppo di Montemario), di permessi legge 104 (3,01% al Tuscolano) e di permessi «vari» (5,95% al Prenestino). Ma del resto se anche alla Corte dei Conti, dove operano i nostri censori degli sprechi, in un terzo degli uffici si sfora il 30% di assenze, si capisce bene come l’assenteismo sia ancora una malattia nazionale. 

Da sinistra si grida al lupo nero, indicando la pagliuzza nell’occhio altrui.

Padrini, terroristi, servizi segreti e massoni: così dalla Magliana è nata mafia Capitale. Quarant'anni fa i capi di 'ndrangheta e banda della Magliana si riunivano al Fungo. Lo stesso luogo dove è cresciuto Massimo Carminati. E che ritorna nell'inchiesta su Mafia Capitale. Che sembra sempre più l'evoluzione criminale della vecchia banda di Romanzo Criminale, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. C'è un filo nero che attraversa gli ultimi decenni della storia criminale italiana. È un cordone che unisce l'Italia: da Reggio Calabria a Roma. Dalla 'ndrangheta a Mafia Capitale, passando per la banda della Magliana, terrorismo nero, servizi segreti e massoneria. Con un luogo che ritorna oggi come ieri: il Fungo, zona Eur, Roma. «Con Mancini (Riccardo, l'ex numero uno di Euro Spa inquisito nell'inchiesta su Mafia Capitale ndr) abbiamo fatto dieci processi quando eravamo ragazzini... stavamo al Fungo insieme... cioè... ma... con tante altre persone... che magari hanno fatto carriera... che in questo momento magari non sono indagate». Massimo Carminati rievoca il passato dei “neri” di Roma. Lui racconta e intanto le cimici piazzate dagli investigatori del Ros dei carabinieri intercettano. Carminati ricorda gli anni '70, gli anni di piombo, quando la gioventù neofascista della Capitale si incontrava in un luogo simbolo, che ritorna anche nell'inchiesta Mafia Capitale. Il punto di ritrovo di cui parla “er Cecato” è il Fungo. Un acquedotto costruito negli anni '60 all'Eur, a pochi chilometri dalla Magliana. Sotto questa struttura di cemento armato che assomiglia a un enorme fungo si ritrovavano i giovani della destra radicale, molti dei quali sono poi finiti nei nuclei armati rivoluzionari. L'ala più feroce dell'eversione di destra. Ma all'ombra del Fungo, nel ristorante panoramico all'ultimo piano della torre, si sono incontrati pure altri personaggi da romanzo criminale. Alcuni dei quali condividono con il boss di Mafia Capitale il credo fascista e il fiuto per gli affari, di qualunque colore essi siano. È una storia che comincia quarant'anni fa. Nel 1975. In un 'Italia stremata dalla tensione sociale e politica provocata dalle bombe, dal lavoro sporco dei servizi deviati e dagli accordi sottobanco tra organizzazioni mafiose, estremisti neri e 007. Il Paese era terrorizzato. E il peggio doveva ancora arrivare. Solo un anno prima c'era stata la strage dell'Italicus, sei anni prima il massacro di piazza Fontana a cui seguì, l'anno dopo, la bomba che fece deragliare il treno a Gioia Tauro. È in questo contesto di terrore e tritolo che il 18 ottobre '75 allo stesso tavolo siedono tre capi 'ndrangheta tra i più influenti nell'organizzazione calabrese e alcuni esponenti della banda della Magliana. Il summit si è tenuto proprio al Fungo. E qui che la polizia di Stato interviene e arresta Paolo De Stefano, don Peppe Piromalli, Pasquale Condello, Gianfranco Urbani e Manlio Vitale. «Tale riunione, lungi dall'essere una mera riunione conviviale costituiva invece una vera e propria riunione mafiosa ad alto livello» si legge nelle informative dell'epoca. Paolo De Stefano verrà ucciso dieci anni dopo. L'agguato che gli costò la vita diede il via alla seconda guerra di mafia a Reggio Calabria. Il clan De Stefano però è tuttora il più potente della città. E nell'organizzazione calabrese è la famiglia che conta di più, quella che negli anni ha saputo creare relazioni più solide con il potere: hanno protetto la latitanza del terrorista neofascista Franco Freda; hanno giocato un ruolo importante nella rivolta dei Boia chi molla per Reggio capoluogo; l'avvocato Giorgio De Stefano, ucciso nel '77, è stato, secondo alcuni pentiti, il contatto tra 'ndrangheta e servizi segreti. Tra spioni ed estrema destra, i De Stefano sono cresciuti e dal poverissimo quartiere Archi dove hanno mosso i primi passi, hanno allungato i tentacoli fino in Francia, radicando i propri affari a Roma e Milano. E proprio nel capoluogo lombardo, stando alle recenti indagini dell'antimafia reggina, ha sede il cuore finanziario del clan. L'indagine Breakfast sta scavando nei segreti societari della 'ndrangheta governata dalla famiglia De Stefano, e ha scoperto complicità nella Lega Nord, con l'ex tesoriere Francesco Belsito, e con uomini un tempo dell'avanguardia armata nera, come Lino Guaglianone, anche lui come Massimo Carminati, ex Nar, e precisamente ex tesoriere del nuclei armati rivoluzionari. Non solo, ma nei rapporti investigativi gli inquirenti segnalano più volte la vicinanza dei De Stefano alla banda della Magliana, «di cui sono noti i collegamenti con la destra eversiva e i servizi segreti». Al Fungo c'era anche Pasquale Condello, detto “il Supremo”. Come i De Stefano è cresciuto nel quartiere Archi. Insieme hanno conquistato Reggio, salvo poi dividersi in una guerra durata sei anni e con mille morti ammazzati. Dopo il sangue è tornata l'armonia e la città è stata divisa equamente. Ancora oggi è pax mafiosa. Il profilo di Giuseppe Piromalli detto “Mussu stortu” è simile a quello di don Paolino De Stefano. Le loro famiglie si uniscono alla fine degli anni 70' per fondare una 'ndrangheta più moderna. Sono i precursori della strategia delle alleanze trasversali con pezzi delle istituzioni e di altri gruppi mafiosi. E sono i promotori dei grandi business con la droga. Per farlo hanno dovuto annientare i vecchi capi bastone. Una volta eliminati è iniziata la loro ascesa criminale. Peppe Piromalli trascorreva molto tempo nella Capitale. L'interesse della 'ndrina di Gioa Tauro era quello di allargare la zona di influenza. Un particolare che verrà confermato dal pentito della banda della Magliana Antonio Mancini, “l'Accattone”. I Piromalli ritornano nell'indagine della procura antimafia di Roma su Mafia Capitale. I pm e i militari del Ros hanno infatti scoperto come la banda de “er Cecato” avesse stretto un patto con i clan calabresi, in particolare con i Mancuso, attraverso però un parente del boss Piromalli, dipendente delle cooperative del braccio destro di Carminati, Salvatore Buzzi. Quel giorno di quarant'anni fa al Fungo accanto ai mammasantissima della 'ndrangheta c'erano “er Gnappa” Manlio Vitale e “er Pantera” Gianfranco Urbani. Personaggi di spicco della Magliana. Manlio Vitale con Massimo Carminati ha condiviso più di qualche avventura malavitosa. Nel 2000 sono stati indagati per il furto nel caveu all'interno del Palazzo di giustizia. E nella sentenza sulla banda della Magliana i loro nomi vengono accostati spesso. Vitale come Carminati frequentava il Fungo. D'altronde era zona loro. Per questo gli 'ndranghetisti sono stati invitati  in quel ristorante. Non solo. Il nome de “er Gnappa” spunta negli atti di Mafia Capitale. Fino a qualche anno fa, almeno da quel che risulta agli investigatori, frequentava Riccardo Brugia, «compare e braccio destro di Carminati». Brugia secondo gli inquirenti è «dotato di una rilevante storia criminale personale e legato al Carminati da una profonda amicizia e dalla comune militanza nei gruppi eversivi dell’estrema destra». «Er Pantera» invece è morto qualche mese fa. Nella banda, alcuni collaboratori di giustizia, lo indicavano come il manager delle relazioni con le altre organizzazioni. Con la 'ndrangheta ma anche con i clan catanesi, in particolare con la cosca di Nitto Santapaola (famiglia alleata con Piromalli e De Stefano). Fu lui, dicono i testimoni, a tenere i contatti con le 'ndrine di Reggio Calabria e a instaurare il traffico di eroina con la Tailandia. Ora che molti dei protagonisti della riunione del Fungo non ci sono più, l'eredità di quei rapporti è passata di mano. A Roma comanda Mafia Capitale e le sue alleate. Una in particolare, la 'ndrangheta. In fin dei conti, quindi, poco è cambiato. Se non il clima. Per questo l'organizzazione guidata da “er Cecato” in un certo senso sembra l'evoluzione criminale della banda dei testaccini, l'anima più borghese del gruppo della Magliana. Un salto di qualità obbligato. Lo stesso passaggio che hanno dovuto mettere in atto le altre mafie. In questo nuovo contesto rapinatori e i killer hanno sempre meno spazio. Ciò che non muta sono le alleanze di un tempo. E spesso ritornano gli stessi cognomi, gli stessi personaggi. Segno che il capitale di relazioni e conoscenze accumulato negli anni passati frutta ancora oggi. E che la mafia più che rottamare riadatta al nuovo corso i vecchi arnesi.

L’altra faccia della medaglia, invece, è la trave nascosta negli occhi della sinistra.

Lo scandalo dei falsi iscritti Pd: "Tesserate persone inesistenti". Una giornalista della Stampa ha ottenuto una tessera dei dem fornendo false generalità: nessun controllo, nessuna richiesta di documenti. Si paga, si firma e si ottiene la tessera, scrive Ivan Francese su “Il Giornale”. Iscriversi al Pd romano è facile. Facilissimo. Tanto facile che basta scrivere un nome falso e un indirizzo mail di fantasia, pagare la quota di iscrizione e la tessera salta fuori senza alcun controllo. Nessuna richiesta di documenti, carta d'identità, patente, codice fiscale: niente di niente. Questa la clamorosa scoperta della cronista de La Stampa Flavia Amabile, che è riuscita ad iscriversi ad una sezione capitolina del Partito democratico fornendo generalità inventate ed ottenendo la tessera del partito senza problemi. Quello delle tessere è stato a lungo un grosso problema per il Pd nazionale, con il numero degli iscritti soggetto a cali di centinaia di migliaia di persone da un anno con l'altro. In Piemonte si sono registrati casi di anziani pagati per iscriversi al partito e votare, in Puglia è stato segnalato un numero di tessere triplo rispetto a quello degli iscritti. Proprio a Roma, alle primarie per il sindaco della primavera 2013, si erano viste file di rom fuori dai seggi, con conseguenti polemiche sulla regolarità del voto. Ora, anche in seguito allo scandalo di Mafia Capitale, il presidente del partito Matteo Orfini, aveva annunciato di voler fare "pulizia" nel Pd romano, passando ai raggi x gli ottomila iscritti della capitale. Sempre su La Stampa, l'esponente democratico ammette di "non essere sorpreso" per la facilità con cui si possono ottenere tessere false, ma chiede anche di "non crocifiggere nessuno" in attesa che "ci si abitui al rispetto delle regole". Iscriversi agli altri partiti, chiosa la Amabile, non è però così semplice. Complice anche una situazione finanziaria che non permette strutture sul territorio articolate come quelle del Pd, spesso l'iscrizione alle formazioni politiche richiede la compilazione di formulari online oppure all'interno di circoli dove i nuovi arrivati vengono "esaminati" più attentamente. Solo a Sel, scrive la cronista del foglio torinese, "nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento".

Venti euro e zero controlli per una tessera falsa del Pd. Nome di fantasia, niente documenti né codice fiscale: il numero di finti iscritti può crescere anche in questo modo. La tessera finta e la ricevuta del versamento con cui la nostra cronista si è iscritta con nome falso al Pd, scrive Flavia Amabile su La Stampa. Da cinque giorni ho in tasca una tessera del Pd totalmente falsa. Non è stato poi troppo difficile ottenerla, mi è bastato dare il primo nome che mi è venuto in mente. Nessuno mi ha chiesto né una carta d’identità né una patente. Mi è stato specificato che anche il codice fiscale non è importante: conta solo versare i 20 euro necessari. Vuol dire che due anni sono stati presi e buttati via. Era l’aprile del 2013 quando esplosero le polemiche intorno alle primarie per il sindaco di Roma con le file di rom fuori dai seggi denunciate da Cristiana Alicata - allora dirigente del partito nel Lazio - e ignorate. E poi lo scandalo delle tessere gonfiate, le rivelazioni dell’inchiesta Mafia Capitale e il commissariamento. Tutto questo non sembra aver ancora insegnato nulla al Pd romano. Matteo Orfini, il presidente del partito mandato dal segretario Matteo Renzi a fare pulizia tra i circoli della capitale, dieci giorni fa aveva annunciato di voler iniziare il suo lavoro dagli 8mila iscritti nella capitale per passare le loro tessere ai raggi X. Ha ragione perché iscriversi al Pd in alcuni casi è davvero troppo semplice. Molto dipende dal fatto che è l’ultimo partito ad avere una presenza davvero capillare sul territorio, oltre 6mila circoli, un punto di forza dal punto di vista elettorale ma anche un’opportunità per chi abbia voglia di sottrarsi ai controlli centrali e usare partito e tessere per i propri interessi. La lista completa dei circoli non è semplice da trovare, sul sito del Pd c’è una mappa 2.0 molto bella ed avanzata con le regioni da cliccare. Peccato che non funzioni. Per trovare l’elenco dei circoli della capitale è più utile andare a cercare sul sito del Pd Roma. Nella mia zona di residenza ne sono indicati almeno sei. Due sono semichiusi perché, fatta eccezione per i circoli storici, gli altri si appoggiano a strutture dove affittano spazi per poche ore a settimana: trovarli aperti al primo colpo è difficile. Il terzo tentativo è in via Galilei 57, un enorme locale al piano terra gestito da diverse associazioni. Per il Pd devo tornare di giovedì, dopo le 18. Giovedì 18 dicembre alle sei sono lì, accolta con incredulità e una certa emozione da un giovane pieddino: deve essere trascorso molto tempo dall’ultimo nuovo tesserato arrivato a sostenere il partito. Mi fa entrare nella stanza a disposizione del partito una volta a settimana, racconta che pagano 400 euro al mese per averla e che 15 dei 20 euro della mia futura tessera andranno al circolo, gli altri 5 alla federazione. Mi spiega che è in corso l’ultimissima fase del tesseramento 2014 ma che per avere la tessera del 2015 bisognerà aspettare almeno sei mesi. Lo rassicuro, voglio sostenere il Pd, verserò la mia quota comunque e inizio a compilare i moduli. Invento un nome, lo scrivo. Invento un numero di telefono, lo scrivo. Sbaglio il codice fiscale, sto per scriverlo di nuovo in base al nome che ho inventato ma il giovane mi spiega che non è necessario, a loro non serve. Scrivo di essere disoccupata, invento una mail che sarà uno scherzo aprire al ritorno a casa per ricevere le comunicazioni, firmo, pago, ringrazio, saluto, vado via. Flavia Alessi è iscritta: non una parola su di me, sui motivi che mi hanno portata a scegliere all’improvviso il Pd. Quando il giorno dopo Flavia Alessi prova a forzare ancora di più il gioco iscrivendosi anche agli altri partiti si trova di fronte ad un’atmosfera molto diversa. Nessuno ha più soldi a sufficienza per tenere aperte tante strutture, i tesseramenti avvengono esclusivamente online oppure all’interno di circoli dove si è talmente pochi che tutti si conoscono e i nuovi arrivati vengono osservati con attenzione. Resta una possibilità aperta solo con Sel: nel tesseramento online non è richiesto alcun tipo di documento. Ma è più facile che in questo momento faccia gola un eventuale assalto al Pd che a Sel.

Militante democrat a sua insaputa. Branco mette alle corde i furbetti. L'ex campione del mondo Branco si ritrova tesserato e scrive a Renzi: cancellato, scrive Matteo Basile su “Il Giornale”. Guai a farlo arrabbiare. Non perché sia cattivo o violento, tutt'altro. Ma perché nella sua più che ventennale carriera di pugile, che lo ha portato ad essere l'europeo più titolato di sempre, Silvio Branco ha imparato molte cose. Tra queste a non farsi mettere i piedi in testa e a guardarsi dalle fregature. Figuriamoci se uno così, abituato a combattere per ottenere risultati, si fa prendere in giro da un partito politico. Succede che nella sua Civitavecchia, città dove Branco è un monumento vivente, il pugile, ritirato solo lo scorso anno dall'attività agonistica alla soglia dei 48 anni, si sia di fatto ritrovato iscritto a sua insaputa al Partito democratico. Lo scorso 20 dicembre infatti si è tenuto in città il congresso straordinario del Pd, con la presentazione delle piattaforme politiche e dei candidati alla segreteria. Inevitabile che nei giorni che hanno preceduto il congresso, come da mondo e mondo accade in ogni partito politico prima di ogni convention, sia scattata la corsa al tesseramento, con i vari dirigenti in prima linea per cercare di «accaparrarsi» quanti più delegati possibili. Missione compiuta si penserebbe dando uno sguardo ai dati, ancora ufficiosi. Un boom in controtendenza rispetto al resto d'Italia e altamente discostante rispetto al clima di anti politica che regna nel Paese: secondo il partito sarebbero state sottoscritte ben 700 tessere in più rispetto all'anno precedente, senza contare che c'è tempo per iscriversi ancora fino a domani, 31 dicembre. Branco, in passato delegato allo sport del Comune visto il suo ruolo di «ambasciatore» italiano del pugilato nel mondo, viene a sapere che anche lui risulta essere nell'elenco dei nuovi iscritti. Un colpo basso che non accetta. «Mi è stato detto che ero tesserato ma non avevo fatto nessuna richiesta né firmato nessun documento - racconta il campione al Giornale - Allora ho messo le mani avanti e inviato una lettera diffidando il partito dall'iscrivermi a qualsiasi lista». Una lettera di fuoco inviata da Branco al segretario del partito Matteo Renzi, al presidente Matteo Orfini e alla commissaria di Civitavecchia Michela Califano. E visto che Branco, come detto, non è solo un grandissimo campione ma in città è un'autentica icona, i dirigenti hanno subito pensato di evitare problemi eliminando il nome del pugile. Una figuraccia del genere, con il tesseramento di un volto tanto noto a sua insaputa, non avrebbe certo giovato al Pd. «Quando ho appreso la notizia mi sono molto amareggiato - confessa Branco - Probabilmente fossi stato il fruttivendolo del paese non ci sarebbe stato clamore e sarebbe stato iscritto a sua insaputa. Nulla contro nessuno, sia chiaro, ma certo non mi va di essere preso in giro». Il campione del mondo dei pesi mediomassimi e dei massimi leggeri, ha quindi evitato il finto tesseramento sul nascere ma pare che a Civitavecchia siano stati in molti a diventare militanti del Pd a loro insaputa. Magari non famosi come Branco ma di certo utili, utilissimi a fare numero. Alla faccia della trasparenza e della correttezza.

Il manicheismo assoluto dell’inchiesta Mafia Capitale, scrive Francesco Petrelli, segretario dell’Unione Camere Penali Italiane su, “Il Garantista”. I fatti accadono. Non accadono come risultato di un complotto. Ma non accadono neppure a caso. Proviamo a leggerli nelle loro cadenze più evidenti. Con l’indagine “Mafia Capitale”, esplosa a Roma i primi di dicembre con alcuni arresti per fatti di corruzione e associazione mafiosa che legano criminalità comune e potere politico capitolino, lo sviluppo investigativo impresso dal Capo della Procura romana assume caratteristiche originali. Ciò che emerge con sufficiente chiarezza è la deliberata decifrazione in chiave di mafiosità di tutti i fenomeni criminali, secondo una prassi che porta con sé tutto l’armamentario affinato nell’ambito della pregressa esperienza investigativa mafiosa, siciliana e calabrese, e che trasforma l’art. 416 bis in un indiscriminato strumento di lettura di tutti i fatti delittuosi più o meno ordinari. Così come scriveva Martin Heidegger: “date un martello a un bambino e trasformerà tutto il mondo in un chiodo”: nonostante qualche analogia con Tangentopoli (che si coglie nei proclami reiterati della Procura, nell’enfatizzazione mediatica dell’indagine e dei suoi sviluppi, e in quella telecamera fissa fuori dalla porta carraia di via Varisco …), è questo il tratto distintivo. Là una quasi inaspettata onda di consenso popolare per l’indagine, sulla quale incredule saltano sopra le Procure, cavalcandola sino alle sue estreme conseguenze, qui una scientifica, preventiva e meticolosa articolazione di sofisticati strumenti mediatici messi in mostra senza alcun pudore. L’ingenuo manicheismo che sortiva fuori dall’azione della magistratura milanese come un fenomeno spontaneo e divideva la società civile buona dalla politica corrotta dei partiti, qui diviene il feroce strumento ideologico che giustifica l’affondo sui crimini della capitale, trasformata in una Gotham city in cui domina l’orbo veggente che teorizza di mondi mediani e nella quale loschi passati carcerari incrociano il disinvolto presente dei manager metropolitani. La Procura antimafiosa è il Bene assoluto che ridisegna la storia e riscrive i codici e attraverso la sua azione giudiziaria modella la Verità e la sua virtuosa rappresentazione. Male è la politica che non si piega più ai veti della magistratura e impone norme contrarie ai suoi voleri. Male è il giornalismo che non si piega ai desiderata delle Procure e che offre spazi informativi a chi cerca il senso delle cose al di fuori dell’unico pensiero che tutti i media pontificando avallano (“Mi conferma – chiede al ministro un po’ stizzita la Annunziata, costituzionalmente mal consigliata – che queste nuove norme anticorruzione non si applicheranno ai fatti di Roma?!). Male sono i giudici che assolvono e che prescrivono i reati, da Roma a L’Aquila e fino agli ermellini della Corte Suprema. Male è l’avvocatura. Obliquo ed obsoleto strumento favoreggiatore. Intralcio pericoloso all’accertamento della verità intesa, non come risultato provvisorio e falsificabile, ma come esito del parto gemellare che ha messo al mondo la Verità e l’Indagine al tempo stesso. La storia, come è noto, non si ripete mai uguale a se stessa, e qui le differenze sotto un profilo strutturale appaiono assai qualificanti: Tangentopoli nasceva spontanea e, a guardarla oggi, un po’ naif. Piegava la procedura, ma lo faceva secondo cadenze improvvisate, via via messe a fuoco sulla spinta cinica della necessità. “Mafia Capitale” è invece il manifesto di un Manicheismo assoluto, una macchina ideologicamente spietata, postmoderna, sofisticata, tecnologica, multimediale e perniciosa perché produttiva di irreparabili squilibri. Vediamone alcuni: visto che il legislatore imbelle tentenna ad introdurre norme che consentano di applicare a fenomeni criminali corruttivi le nome antimafia, la Procura romana trasforma con lucida operazione genetica i fenomeni corruttivi in reati di mafia. I giudici lavorano con i fatti e li plasmano sulle norme. Così se le norme non si piegano ai fatti, saranno i fatti a piegarsi alle norme. Le Procure fanno a meno del Legislatore. Le Procure fanno a meno anche della compressione delle garanzie. Scrive il dott. Gratteri su MicroMega, uscendo a ottobre dall’ “ombra del suo ministero”: “con la nostra riforma non arretreremo le garanzie di un millimetro”. Non c’è bisogno infatti. Le garanzie non si abrogano con le leggi ma si elidono nei fatti: la mafiosità postulata impone al processo ritmi e cadenze necessitate dalla gravità del fenomeno: che l’indagato in vincoli venga interrogato a sua garanzia il più presto possibile e subito dopo l’esecuzione della misura e senza che possa leggere granché delle oltre mille pagine dell’ordinanza appena notificatagli. Se poi davvero vi è tanta urgenza di rimescolare le carte di fronte a tanto evidente e corposa fonte di Verità, che l’avvocato insegua l’indagato nelle carceri poste ai confini del regno, dove è stato collocato per ovvi motivi di sicurezza antimafiosa. La politica debole si mette nelle mani della magistratura. Nonostante le denunce del Procuratore di Palermo, la risalente prassi, cresciuta al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, di iniettare magistrati delle procure antimafia direttamente negli assessorati regionali e comunali disastrati, si ripete e si moltiplica, dalla Regione siciliana al Comune di Roma: solo il magistrato antimafia è garanzia di legalità. Anche a Gotham city la politica non si fida più della politica e la Magistratura, che una volta si candidava in libere elezioni per occupare spazi tramite la libera competizione elettorale (come sembrano lontani e ingenui i tempi dei Di Pietro, degli Ingroia e dei De Magistris), ora quegli spazi se li apre di fatto, sull’onda delle sue stesse indagini, per saltum. Con scientifica sapienza postmoderna l’indagine “Mafia Capitale” pone così i nuovi confini del Bene e del Male, impone alle amministrazioni locali i garanti della legalità, impone alla politica le riforme del processo e al tempo stesso dimostra di non aver bisogno di nulla e di nessuno per cambiare il mondo, e di poter fare la Storia da sola, ancora una volta, con un nuovo passo, annunziando la trasformazione con un formidabile trailer nel quale il Male si arrende davanti a tutti alzando le mani…

Quando i magistrati prendevano ordini dalla P2…, scrive Ilario Ammendolia su “Il Garantista”. Non so se in Italia vi sia più corruzione rispetto al passato ma certamente lo scandalo “mafia capitale” non è lontanamente comparabile con quello della Banca di Roma. Carminati non è Giolitti e Buzzi non è Crispi. L’effetto però è stato completamente diverso. In quel caso dinanzi alle accuse del presidente del Banco di Roma Tanlongo che dal carcere aveva fatto i nomi di Giolitti e Crispi, una classe politica, certamente conservatrice, ma dotata di quello che la borghesia ha chiamato per decenni “senso dello Stato” non indietreggiò ma si assunse tutte le responsabilità. Il primo ministro di Rudinì si presentò in parlamento arginando chi avrebbe voluto travolgere la classe politica per prenderne il posto e lo fece con fermezza in nome dei «supremi interessi del Paese e della Patria». Non si comportò diversamente Aldo Moro che, durante lo scandalo Lockheed, dinanzi al Parlamento riunito in seduta congiunta, invitò i parlamentari a guardare alla giustizia «non in senso tecnico-giuridico, ma politico, consapevoli che la valutazione dei fatti.. non riguarda una dichiarazione astratta di giustizia ma un’attuazione concreta di essa». Moro concluse il suo intervento con queste parole «…ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare». Flaminio Piccoli da presidente del consiglio dei ministri, dinanzi all’arbitrario debordare di alcuni magistrati, non esitò ad ammonire «…l’Italia non si farà governare dai pretori». Era un corrotto Aldo Moro? Molti dicono sia stato l’unico statista del dopoguerra a parte De Gasperi. Certamente la statura dello statista la ebbe Antonio Giolitti mentre nessuno dubita dell’onestà di Flaminio Piccoli. C’è un antico detto che predice che il giorno in cui il leone si metterà a belare, gli sciacalli prenderanno il suo posto. Quando si pretende di avere un ruolo dirigente senza essere eletti dal popolo, la democrazia reclina il capo, aprendo le porte all’avventura. Basterebbe riflettere sugli scandali falsi costruiti con la complicità di alcuni magistrati per capire cosa diventerebbe l’Italia qualora non si mettesse un argine alla deriva giustizialista. Cito solo due esempi: Felice Ippolito era uno scienziato autorevole quanto onesto ma venne arrestato con grande clamore sui giornali ed in televisione. Era completamente innocente. Lo scandalo è stato ordito dai petrolieri, per impedire l’uso, su vasta scala, dell’energia nucleare in Italia. La procura fu l’arma per fermarlo. Si può discutere nel merito dell’uso dell’energia nucleare, ma certamente quell’arresto è la dimostrazione di cosa sarebbe l’Italia «governata dai pretori». Non meno grave è il falso scandalo della Banca d’Italia che coinvolse il governatore Baffi ed il suo vice Sarcinelli. A Baffi venne risparmiato l’onta della galera per l’età avanzata mentre Mario Sarcinelli, studioso di chiara fama, venne arrestato e tenuto in carcere. Si scoprì in seguito che la magistratura romana aveva concepito gli arresti su stimoli della P2 indispettita dai controlli che la Banca d’Italia aveva operato su alcuni istituti di credito. Potremmo continuare per così tante pagine da fare un enciclopedia ! Ovviamente, non accuso i magistrati in quanto tali proprio perché sono assolutamente consapevole che non sono né peggiori, né migliori degli altri cittadini. Dinanzi alla corruzione, che deve essere combattuta e sconfitta, una Politica degna di questo nome non balbetta, non piagnucola, non impreca e soprattutto non tenta di gabbare i gonzi, elevando le pene. Con queste misure la corruzione non diminuirà di un solo milionesimo. Conoscete meglio di me le inutili “grida” contro i bravi di cui Manzoni parla nei Promessi Sposi. La corruzione è figlia di questo sistema ammalato dove il 5% della popolazione possiede il 50% della ricchezza. Un sistema in cui il privilegio e le caste calpestano quotidianamente il bisogno. Combattere la corruzione significa mettere in campo un grande progetto politico capace di riaccendere passioni e speranze collettive. Non ha senso essere complici di chi trova comodo mettere l’aureola sulla testa di singoli personaggi filtrati dai media e farne dei numi tutelari e per eludere i problemi reali da cui scaturisce la corruzione. Il caso dell’ex pm Antonio Di Pietro è da manuale ma non è il solo. Il dottor Nicola Gratteri è arrivato a due passi dalla nomina a ministro della Giustizia, l’onorevole Nitto Palma ha tagliato il traguardo, mentre il dottor Pietro Grasso, con un solo salto, è stato “eletto” alla seconda carica dello Stato. Un magistrato al pari di tutti i cittadini può essere eletto a qualsiasi incarico politico senza però, saltare a piè pari la fatica, le umiliazioni, le ansie di chi ha fatto politica tra la gente , si è nutrito delle loro speranze, ha respirato le loro frustrazioni ed i loro bisogni. Le scorciatoie stanno portando verso avventure autoritarie e contro queste occorre resistere con coraggio qualsiasi sarà il prezzo da pagare.

Roma, l’ex pm Sabella in giunta: “Difficile capire chi sono gli onesti”. Dopo il via libera del Csm, il sindaco Marino presenta il nuovo assessore alla legalità. L’attacco dell’Unione camere penali: “Prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia”, scrive Giuseppe Pipitone su “L’OraQuotidiano”. “Quando vivevo a Palermo mi occupavo di ricerca di latitanti, la battuta che mi viene è facile: in quel caso sapevo chi erano i mafiosi ma non sapevo dove stavano, qui probabilmente si sanno dove stanno le persone ma non si sa chi essi siano in realtà”. Con una battuta fulminante, Alfonso Sabella ha esordito come nuovo assessore alla Trasparenza e Legalità del comune di Roma. Nella giornata di ieri il Csm ha infatti dato il via libera all’aspettativa chiesta dal magistrato con quattordici voti a favore, tre  astenuti e otto contrari ( i vertici della Cassazione Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani, più molti membri laici). Stamattina quindi l’ex pm è entrato nella nuova giunta varata dal sindaco Ignazio Marino. “Per me è un grande acquisto per Roma. Un acquisto necessario se si pensa che nei cinque anni precedenti la mafia aveva raggiunto posizioni di vertice. Con la nostra amministrazione non ci è riuscita però aveva tentato in diversi modi. Io credo che la presenza di una personalità come Alfonso Sabella scoraggerà anche i tentativi” ha detto il primo cittadino capitolino, che ha presentato la nuova giunta stamattina in Campidoglio . La nomina dell’ex pm della procura di Palermo arriva dopo il clamore suscitato dall’inchiesta Terra di Mezzo, che ha svelato l’esistenza della Mafia Capitale, l’organizzazione criminale con al vertice l’ex estremista nero Massimo Carminati. L’arrivo nella giunta capitolina di Sabella è stato bacchettato dall’Unione delle camere penali che ha bollato la nomina come “pericolosa per la democrazia“. I penalisti denunciano una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Per l’Unione camere penale “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. Nato a Bivona, piccolo comune in provincia di Agrigento nel 1962, fratello di Marzia, anche lei pm a Palermo, Sabella entra in magistratura nel 1989 e non si iscrive mai ad alcuna corrente delle toghe. All’inizio fa il pm a Termini Imerese, poi nel 1993 viene trasferito a Palermo: sono i mesi successivi alle stragi di Capaci e via d’Amelio e a dirigere la procura del capoluogo è appena arrivato Gian Carlo Caselli. Sabella diventa subito uno dei fedelissimi del magistrato piemontese e inizia a condurre le indagini su decine dei pezzi da novanta di Cosa Nostra, che reggevano l’organizzazione criminale dopo l’arresto di Totò Riina. In breve tempo finiscono in manette a decine:da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca, passando da Pietro Aglieri, Cosimo Lo Nigro e Carlo Greco: l’ala militare dei corleonesi è decimata in pochi mesi. Dopo l’esperienza come dirigente dell’ufficio ispettivo del Dap, Sabella viene trasferito prima a Firenze e poi diventa giudicante a Roma.

Pecoraro e l'incontro con Buzzi: "Mi sento pugnalato alle spalle. A Letta dissi: chi mi hai spedito?". Intervista al prefetto: "L'ho ricevuto in segno di rispetto per l'ex sottosegretario. Gli spiegai che non potevano arrivare altri profughi a Castelnuovo", scrive Mauro Favale su “La Repubblica”. "Quando Salvatore Buzzi andò via, dopo l'incontro con me, telefonai a Gianni Letta e gli dissi: "Gianni, ma chi mi hai mandato?". E lui? "E lui mi risposte: "Non lo farò più". Giuseppe Pecoraro ha festeggiato poche settimane fa il sesto anno da prefetto di Roma. Un anniversario che ha anticipato di poco la bufera su mafia capitale che lo vede primo attore in campo: da un lato sono i suoi uffici che stanno analizzando gli atti del Campidoglio e che dovranno relazionare al Viminale sulle infiltrazioni criminali nel Comune di Roma in vista di un eventuale scioglimento. Dall'altro, proprio in questi giorni, Pecoraro è costretto a difendersi per aver incontrato il 18 marzo scorso, nei suoi uffici, proprio Buzzi, il ras delle cooperative, braccio destro di Massimo Carminati, finito in carcere accusato di associazione mafiosa.

Quello stesso giorno di marzo, prefetto, partì dai suoi uffici una lettera, indirizzata al sindaco di Castelnuovo di Porto e al questore, nella quale si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo. E ora è finito sotto accusa per questa coincidenza temporale.

"Trattare così questa vicenda la giudico una carognata, una pugnalata alle spalle".

L'incontro e la lettera, però, ci sono stati?

"Sì, certo. Ma quella lettera non è l'unica di quel giorno. Sono state inviate a tutti i sindaci e a tutti gli enti con posti disponibili con posti disponibili o del consiglio territoriale per l'immigrazione. E tra queste c'è anche la 29 giugno di Buzzi".

Dalle carte della procura emerge che quel pomeriggio lei ha incontrato il capo della 29 giugno dopo l'interessamento dell'ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta.

"A marzo Buzzi non sapevo neanche chi fosse. Io l'ho ricevuto sulla base del rispetto che ho per la persona che me l'ha mandato. E devo ammettere che avevo pure rimosso quell'incontro. Mi sono ricordato di lui e di averlo ricevuto solo quando ho letto l'ordinanza".

Ma è prassi che un prefetto riceva il rappresentante di una cooperativa e non anche gli altri?

"Vedere i presidenti delle associazioni è una cosa normale, soprattutto se si tratta di presidenti di cooperative che collaborano con la prefettura. Non sa quante volte ho incontrato monsignor Feroci della Caritas, così come molti altri".

E cosa disse a Buzzi?

"Gli dissi che per Castelnuovo non c'erano possibilità e non potevo cambiare idea. Il mio è stato un no motivato perché lì esisteva già il Cara, il centro per richiedenti asilo, e quel Comune non era in grado di ricevere nuovi immigrati. Tra l'altro, anche il sindaco di Castelnuovo si era sempre lamentato dell'alto numero delle persone nel centro".

E allora come si spiega che Buzzi esce dal suo incontro e, al telefono, racconta che era andato tutto bene? Millantava?

"Questo non lo posso sapere. Forse avrà pensato che avrebbe potuto provare a fare pressioni sul sindaco di Castelnuovo o credeva di poter nuovamente passare per Letta".

Cosa che fece?

"No, Letta l'ho sentito io, subito dopo quell'incontro".

E cosa gli disse?

""Ma chi mi hai mandato?"".

E lui?

""Non lo farò più", mi rispose. E, in effetti, né lui né nessun altro mi ha mai più parlato di Buzzi".

Disse così a Letta perché Buzzi non le fece una buona impressione?

"Sì, non mi aveva convinto particolarmente".

La commissione antimafia potrebbe doverla risentire.

"Ho parlato con la presidente Rosy Bindi, le ho dato la mia massima disponibilità. In ogni caso, loro hanno già la documentazione che dimostra come a quella lettera non fu poi dato alcun seguito".

La storia, dunque, è chiusa?

"Per me sì. Ovviamente gli articoli di giornale usciti in questi giorni verranno valutati dai miei avvocati".

Chi è Giuseppe Pecoraro, il prefetto in guerra che bisticcia con Marino e fa il commissario di se stesso. Lo schizzo di fango da “mafia capitale”, il lungo e difficile rapporto con il Comune di Roma, gli scazzi sulla monnezza e l’assenza di “avveduta precauzione” sciasciana, scrive Marianna Rizzini su “Il Foglio”. Prefetto lo è, Giuseppe Pecoraro, burocrate di lunga carriera ma di non evidente propensione a vestire i panni del classico prefetto: l’uomo uguale fra tanti uomini uguali, rassicurante funzionario al servizio dello stato, ventriloquo della direttiva superiore che, quando è eroe (nei film), lo è alla maniera del “prefetto di ferro” di Pasquale Squitieri con Giuliano Gemma: un uomo che per non adeguarsi ai poteri grigi viene infine promosso (e di fatto rimosso). Il prefetto Pecoraro non soltanto è, di questi tempi, necessariamente diverso dai suoi simili che lavorano nell’ombra discreta delle stanze prefettizie, ché lo si trova un giorno sì e l’altro pure sui giornali per una divergenza di opinioni con il sindaco di Roma Ignazio Marino (sulle nozze gay come sulla cosiddetta mafia capitale) o per quella visita che Salvatore Buzzi, presunto co-boss al fianco di Massimo Carminati, tributò proprio al prefetto, a proposito di un centro accoglienza in quel di Castelnuovo di Porto. C’è poi che il prefetto Pecoraro, prima di tutto per fisiognomica, poco si adatta all’immagine di prefetto alla Elio Petri (quello che in “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” si presenta col fazzoletto bianco nel taschino identico a quello degli altri innumerevoli prefetti in fila con abiti indistinguibili). Si dà il caso, infatti, che Pecoraro abbia sembianze e movenze da sceriffo più che da protagonista meticoloso di riti da vecchia provincia – indimenticabile resta il prefetto che non vuole farsi trasferire nonostante la sequela di scocciature in “L’ultima provincia” di Luisa Adorno, libro Sellerio adorato da Leonardo Sciascia, ritratto di prefetto e prefettessa nell’aria immobile di una Toscana-deserto dei tartari, dove il Natale si trasforma in incubo di notabili in visita e teorie di dame relegate nella stanza “a parte”, quella delle donne, a parlare del più e del meno incrociando le piume dei cappelli. “Avveduta precauzione” dei prefetti, la chiamava Sciascia in “Invenzione di una prefettura”, una piccola storia della prefettura di Ragusa, e chissà se Pecoraro, col senno del poi, vorrebbe averla avuta, quella “avveduta precauzione”. Fatto sta che oggi il prefetto dice che sì, Buzzi l’ha ricevuto per rispetto verso l’ex sottosegretario Gianni Letta che gliel’aveva inviato, ma che dopo averlo ricevuto ha prontamente telefonato a Letta per lamentarsene (“chi mi hai spedito?”) e Letta poi se n’è quasi scusato (“non lo farò più”). E dice il prefetto che, dopo la visita di Buzzi, aveva sì inviato una lettera al sindaco di Castelnuovo di Porto in cui si segnalava la disponibilità di una delle coop di Buzzi ad accogliere i richiedenti asilo, ma che “trattare così questa vicenda”, com’è stata trattata in questi giorni sui giornali, con tanto di titoli su di lui, il prefetto, “è una carognata e una pugnalata alle spalle”, perché quella lettera era stata inviata in automatico e ce n’erano altre dello stesso tenore inviate a Guidonia, a Ciampino, a Rocca Priora, ad Anguillara “e, in copia, alla Questura”. Lungi dal risparmiare dalle luci della ribalta il prefetto, figura tradizionalmente destinata alle pur gloriose penombre della burocrazia, ieri il Corriere della Sera, a firma Fiorenza Sarzanini, raccontava della “gara europea bandita dalla prefettura di Roma” nel 2013 e vinta da una delle coop di Buzzi (la Eriches 29) per gestire il centro accoglienza della discordia (quello di Castelnuovo di Porto) e dell’“esposto del prefetto”, così si leggeva sul Corriere, “contro il giudice Tar ‘nemico’ della coop” di Buzzi. Tuttavia non era cosa inconsueta, per Pecoraro, il ritrovarsi alla ribalta. E’ capitato infatti, pochi giorni fa, che Pecoraro comparisse sul Messaggero, intervistato come parte in causa nella infinita querelle con il sindaco Marino (“se non sapeva il prefetto, che ricevette il capo delle coop, come potevo sapere io”?, aveva detto Marino, e Pecoraro avevo risposto senza salamelecchi prefettizi: “Buzzi era estraneo ai miei uffici; nell’amministrazione Marino, invece, ci sono tre indagati”). E non basta: qualche giorno dopo il prefetto, al giornale RadioRai, aveva parlato della commissione d’accesso agli atti del Comune. Scherzo della sorte vuole, infatti, che Pecoraro sia al tempo stesso l’uomo dell’incontro in prefettura con Buzzi ma anche e soprattutto l’uomo che controlla chi con Buzzi avesse a che fare: dalla prefettura provengono i commissari che devono leggere gli atti del Campidoglio in vista della relazione sul tema “infiltrazioni criminali” al Comune di Roma (in teoria anche a rischio scioglimento). E alla radio il prefetto se ne usciva con la profezia che molto faceva indispettire il sindaco: “… Può venire fuori che ci sia la necessità di uno scioglimento…”, diceva Pecoraro; “immagino che il prefetto sappia molte cose e non le possa dire proprio perché fa il prefetto… ”, diceva Marino. E Matteo Orfini, commissario per il Pd romano, su Twitter scriveva che il prefetto gli pareva intento, ultimamente, a “fare più dichiarazioni e interviste di Matteo Salvini”. “Il ministro Alfano venga in Aula a riferire e valuti l’opportunità di avvicendare il prefetto Pecoraro dopo otto anni di permanenza nella capitale”, dicono intanto, da Sel, i deputati Arturo Scotto e Filiberto Zaratti, mentre il consigliere radicale Riccardo Magi fa notare che “alcuni dei fatti più gravi su cui si indaga”, per esempio per quanto riguarda affidamenti e campi rom, “sono avvenuti in regime commissariale per l’emergenza rom. Non è che il commissariamento mette al riparo dall’illegalità”. Nemmeno nei momenti di massima insofferenza per le processioni locali in cui si dovevano fare passettini accanto a preti e autorità “all’andatura del santo”, e lasciare che la banda “rintronasse il cervello”, il prefetto defilato de “L’ultima provincia” avrebbe potuto immaginare di assurgere al livello di visibilità cui è assurto Pecoraro (e non da oggi). Il prefetto, infatti, è già stato, in tempi di governo Berlusconi (ministro dell’Interno Roberto Maroni), “commissario delegato per il superamento dell’emergenza rom” per la regione Lazio e la città di Roma, e commissario all’emergenza rifiuti in tempi di Comune guidato da Gianni Alemanno e di Regione guidata da Renata Polverini. “Prefetto in guerra”, lo chiama Massimiliano Iervolino nel libro “Roma, la guerra dei rifiuti”, in cui si narra la vicenda della tentata “sostituzione” della discarica di Malagrotta e della ricerca di un sito alternativo (molti vip contestarono il prefetto per via dell’ipotesi Corcolle, nei pressi di Villa Adriana. Si mobilitarono Giorgio Albertazzi, Franca Valeri e Urbano Barberini, quest’ultimo al grido di “è come mettere i rifiuti a Luxor o alle Piramidi”). Alla fine il prefetto si dimise da commissario per l’emergenza rifiuti, senza rinunciare a essere prefetto a modo suo. (Intanto dovrà pronunciarsi, dopo aver ricevuto le “memorie” delle aziende coinvolte, sui primi due commissariamenti di appalti decisi da Raffaele Cantone, presidente dell’Authority anti-corruzione).

Manca un progetto. E Totti è l’alibi della grande schifezza, scrive Sandro Medici su “Il Manifesto”. Marino e la nuova giunta di Roma. Non bastano gli assessori-commissari. E il pm Sabella arriva. Il sindaco Ignazio Marino prova a ripartire. Rinnova la sua giunta e tratteggia quel che d’ora in poi dovrebbe connotare la sua amministrazione: impegno a perdifiato e legalità assoluta. Un nuovo inizio. Con cui si tenterà di riprendere quel faticoso cammino che finora non è apparso particolarmente smagliante, e con cui si proverà a bonificare quel grumo politicomafioso che ha insidiato e a tratti aggredito il Campidoglio. I tre nuovi assessori, più gli altri tre subentrati nei mesi scorsi, hanno ridisegnato sensibilmente l’assetto iniziale: e non sfugge che siano l’esito dei tanti tormenti che hanno attraversato la politica comunale. Al di là delle singole soggettività, tutto questo rimescolamento è la rappresentazione di quanto sia ancora precaria e incerta la prospettiva su cui la città dovrebbe ritrovare fiducia e convinzione. Tra annunci e rassicurazioni, sorrisi e pochi applausi, Roma continua a non avere una strategia di sviluppo, un progetto di rilancio, una visione generale sul suo futuro. È doveroso insistere sulla necessità di superare il trauma politico-criminale che ha investito la politica amministrativa. Anzi, è obbligatorio: c’è da recuperare una credibilità infranta e smarrita. Ma è davvero inevitabile affidarsi a una pletora di commissari, tutori, garanti e supervisori? Forse la politica (almeno a Roma) non è più nelle condizioni di reagire e di responsabilizzarsi. Ma allora, viene da chiedersi, cos’è diventata la politica (almeno a Roma)? L’impressione è che, già esile in partenza, l’amministrazione Marino si sia ulteriormente indebolita: sfiorata dalle pratiche corruttive ereditate dal passato, ma anche per limiti propri. Ed è difficile che l’ingresso di un magistrato in giunta possa migliorare l’impronta politica del Campidoglio. Anzi. Non foss’altro perché il neo-assessore alla legalità, oltre a vantare riconosciuti meriti antimafia, viene ricordato anche per la sua “negligenza” in occasione della terrificante repressione nel 2001, durante il G8 a Genova. L’Associazione Giuristi democratici ricorda che Alfonso Sabella era allora il coordinatore delle attività penitenziarie, comprese quelle nel carcere di Bolzaneto, dove ai molti fermati fu riservato un trattamento ai limiti della tortura. Tanto che in un’ordinanza del Tribunale di Genova viene definito «negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo», poiché «non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». Storie vecchie, certo. Ma comunque dolorose. Soprattutto perché rimandano alla contraddittorietà del profilo politico con cui il sindaco Marino connota la sua amministrazione, non senza imbarazzi nei ranghi della sua maggioranza, che tuttavia non provocano particolari sussulti. Una maggioranza che appare sostanzialmente obbligata a sostenere il suo sindaco: per le note vicende giudiziarie, ma anche perché paventa il pericolo che diversamente possa andar peggio. E così, senza dissensi né contrasti, si approvano politiche economiche antipopolari, si persiste nei processi di privatizzazione, si spengono le esperienze culturali indipendenti e diventa anche possibile approvare delibere inguardabili, come quella che l’altro ieri ha sancito l’utilità pubblica dello stadio della Roma. Per quanto si possa “amare” la squadra giallorossa, autorizzare l’edificazione di un milione di metricubi tra funzioni direzionali, commerciali e d’intrattenimento, sol perché neces­ari a realiz­are un impianto sportivo privato, non è precisamente catalogabile come vantaggio sociale o utilità pubblica. Eppure così è andata. Totti è un alibi perfetto per promuovere questa grande schifezza.

L’ombra di Bolzaneto sul nuovo assessore di Roma, scrive Damiano Aliprandi su “Il Garantista”. Gli spettri delle torture subite dai manifestanti contro il G8 a Genova si affacciano sul Campidoglio. E’ arrivato ieri sera l’ok del Csm per l’aspettativa che Alfonso Sabella, giudice presso il tribunale romano, attendeva per poter rispondere positivamente all’offerta di Ignazio Marino, il sindaco di Roma che lo ha voluto come assessore alla Legalità e alla Trasparenza dopo i fatti di Mafia Capitale. La nomina di Sabella viene oggi pesantemente criticata dall’associazione Giuristi Democratici di Roma che rievoca – tramite un comunicato – il ruolo avuto da Sabella durante il G8 di Genova. Il magistrato che a questo punto entrerà nel governo della Capitale della città – si legge nel comunicato dove i giuristi democratici esprimono perplessità riguardo l’idea di nominare Sabella assessore alla legalità- durante i fatti di Bolzaneto era il coordinatore “dell’organizzazione e del controllo su tutte le attività dell’amministrazione penitenziaria”, e dunque era anche deputato a sovrintendere su ciò che accadeva alla caserma Bixio. Per i fatti del G8 Sabella finì a processo e la sua posizione fu archiviata. Tuttavia, scriveva il Tribunale nell’archiviarlo, «il comportamento del dott. Sabella non fu adeguato alle necessità del momento. Egli fu infatti negligente nell’adempiere al proprio obbligo di controllo, imprudente nell’organizzare il servizio (…) imperito nel porre rimedio alle difficoltà manifestatesi»: così i giudici del Tribunale di Genova nella sua ordinanza del 24 gennaio 2007; e ancora: «Alfonso Sabella non adempì con la dovuta scrupolosa diligenza al proprio dovere di controllo e che, pur trovandosi nella speciale posizione di “garante” (…), non impedì il verificarsi di eventi che sarebbe stato suo obbligo evitare». La posizione di Sabella fu stralciata da quella degli altri imputati e per lui venne chiesto il non luogo a procedere. «A Bolzaneto vide che i detenuti erano tenuti in piedi con la faccia contro il muro, ma non fu testimone diretto delle violenze più gravi, né della loro sistematicità, quindi non avrebbe potuto impedirle», scrivevano i Pubblici Ministeri nel richiedere al Gip l’archiviazione per Sabella. Il giudice, dopo l’ordine di un supplemento di indagini a carico del magistrato, e nonostante l’avvocato di Sabella stesso avesse chiesto il processo, dispose l’archiviazione scrivendo nell’ordinanza le parole sopracitate. Ma la dichiarazione di Sabella che fece indignare all’epoca – e che oggi vengono ricordate dai Giuristi Democratici per sollecitare Ignazio Marino affinchè torni sui suoi passi – fu la sua opinione in merito all’operato degli agenti penitenziari durante le giornate terribili del G8 di Genova: secondo il magistrato Sabella il loro comportamento è stato «esemplare». I Giuristi Democratici di Roma infatti scrivono nel comunicato: «Sebbene l’operato del Dr. Sabella non sia stato ritenuto illecito, lo stesso non è stato ritenuto in grado di svolgere i ruoli organizzativi e di controllo sulla commissione di reati affidatigli, avendo per di più creduto alle giustificazioni di chi fu poi condannato per quei fatti gravissimi». E viene anche ricordata la frase di Sabella, pronunciata nel 2001: «Non ho alcuna intenzione di dimettermi. A Genova l’operato degli agenti penitenziari è stato esemplare»; secondo il magistrato, infatti, non sarebbero stati gli agenti penitenziari a picchiare i manifestanti durante il vertice genovese: «Qualcuno è stato. Ma i fermati sono arrivati alla caserma di Bolzaneto già ricoperti di ecchimosi», aggiungeva Sabella, allora, nell’intervista.

Mafia Capitale, penalisti contro assessore-pm Sabella: “Prassi pericolosa”, scrive F. Q. su “Il Fatto Quotidiano”. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al 'prestito' in Campidoglio. Ad avviso dell’Unione delle camere penali "la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa". Da magistrato ha fatto scattare le manette ai polsi di pezzi da novanta di Cosa Nostra: da Leoluca Bagarella fino a Giovanni Brusca eppure la nomina di Alfonso Sabella all’assessorato alla Legalità di Roma viene considerata pericolosa dai penalisti. Oggi per la toga entrata in magistratura nel 1989 è arrivato il via libera dal Consiglio superiore della magistratura al ‘prestito’ in Campidoglio. Secondo l’Unione delle camere penali è una “prassi degenerativa assai pericolosa per gli equilibri democratici ed istituzionali quella dell’assunzione da parte della politica di magistrati antimafia all’interno delle amministrazioni territoriali, approvata dal Csm e sospinta dal favore popolare”. Ad avviso dell’Unione delle camere penali, “da un lato, al di fuori di ogni regolamentazione legislativa, la magistratura si insedia all’interno della politica legittimando se stessa come unica garante della legalità, e dall’altro la politica dimostra con tali scelte di voler delegittimare se stessa affermando la propria inadeguatezza e la propria incapacità di perseguire la legalità con i suoi propri strumenti e con le sue proprie forze”. L’ex sostituto procuratore del pool antimafia di Palermo, guidato da Gian Carlo Caselli, sarà quindi il nuovo assessore alla Legalità della giunta di Ignazio Marino. Una figura di garanzia fortemente voluta dal primo cittadino dopo lo scandalo di Mafia Capitale. Sabella fu pm nel 1993, nel day after delle stragi mafiose che spazzano via Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, senza mai iscriversi ad alcuna corrente della magistratura. Sabella è stato anche al vertice del Dap, dove aveva imposto una regolamentazione feroce delle spese. Il suo incarico dura appena due anni: nel 2001 a dirigere l’amministrazione penitenziaria arriva Giovanni Tinebra, e i due magistrati entrano subito in contrasto. Il risultato è che dopo pochi mesi Sabella viene allontanato su ordine diretto dell’allora Guardasigilli Roberto Castelli. Oggi il plenum del Csm ha dato l’ok a maggioranza al collocamento fuori ruolo con quattordici  voti a favore, otto contrari e 3 gli astenuti. In particolare hanno votato contro molti consiglieri laici e i vertici della Cassazione, il primo presidente Giorgio Santacroce e il procuratore generale Gianfranco Ciani; si sono invece astenuti i togati Ercole Aprile e Maria Rosaria San Giorgio, oltre al consigliere laico Renato Balduzzi. “Ovviamente per me è una notizia molto positiva. Sabella credo abbia una competenza in materia anche amministrativa di appalti e contratti tale da poterci garantire che, ancora più di prima, con la nostra giunta tutto avverrà nella piena legalità e nella trasparenza” ha commentato il sindaco di Roma Ignazio Marino. “Si tratta di un magistrato con una reputazione straordinaria – aggiunge – e che ha lavorato al fianco di Gian Carlo Caselli per molti anni. Ha condotto alcune delle operazioni di contrasto alla mafia più importanti come l’arresto di Brusca”.

Comunque se i politici onesti son questi?

«Pd, rimborsi fasulli per 2,6 milioni» Sotto inchiesta 6 parlamentari laziali. Dopo il clamoroso caso Fiorito (Pdl), anche il centrosinistra colpito dalle indagini sui brogli nel bilanci del Lazio. La Procura di Rieti: ostriche, vecchie multe e olio con i fondi regionali 2010-2012; rimborsi maggiorati su taxi, biglietti ferroviari e aerei, scrivono Alessandro Capponi e Ilaria Sacchettoni su “Il Corriere della Sera”. Olio extravergine d’oliva soprattutto. Che, nel reatino, non sarà come in Liguria, ma è pur sempre d’origine controllata. Ma anche rimborsi per vecchie multe, cesti natalizi e le immancabili cene che (elettorali e no, anche a base di ostriche) sempre figurano in nota spese. Come ricostruito dai finanzieri del Tributario per la procura di Rieti, le «spese pazze» dei consiglieri regionali del Pd, fra il 2010 e il 2012, varrebbero 2 milioni e 600 mila euro. E se per i consiglieri pidiellini della giunta di Renata Polverini - Franco «Batman» Fiorito, il più rappresentativo - sono già scattate le prime condanne (o assoluzioni), ora potrebbe aprirsi il capitolo processuale che riguarda l’allora opposizione del Partito democratico. Perché gli investigatori coordinati dal procuratore Giuseppe Saieva sono prossimi alla notifica delle conclusione delle indagini a diverse persone. Sotto accusa l’intero gruppo Pd in Regione durante la consiliatura Polverini con accuse che vanno dal peculato, alla truffa aggravata, dal finanziamento illecito al falso. Una volta caduta la giunta Polverini, l’allora candidato del centrosinistra Nicola Zingaretti condusse una battaglia col partito per non far ripresentare in Regione neanche uno dei consiglieri uscenti. Così molti di loro, oggi sotto accusa, sono stati candidati direttamente in Parlamento. Fra gli indagati, infatti, ci sono gli attuali senatori Claudio Moscardelli, Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Francesco Scalia e Daniela Valentini. Sotto inchiesta anche il sindaco di Fiumicino, Esterino Montino, il cui nome era affiorato all’avvio delle indagini, così come quelli di Enzo Foschi - già nella segreteria del sindaco di Roma, Ignazio Marino - e del tesoriere Mario Perilli. Indagato anche il deputato Marco Di Stefano, già coinvolto in un’altra vicenda giudiziaria: è accusato di corruzione per fatti che risalgono alla giunta Marrazzo, quando da assessore al Demanio avrebbe intascato una tangente milionaria per alloggiare la società «Lazio Service» nei locali dei costruttori romani Pulcini. Un’inchiesta che ha intersecato anche il giallo della scomparsa del suo ex collaboratore Alfredo Guagnelli. Di Stefano e gli altri saranno ascoltati in Procura per rispondere a una serie di contestazioni. Secondo gli investigatori avrebbero chiesto al partito rimborsi maggiorati su spese ordinarie, da quella per il taxi ai biglietti ferroviari e aerei. In nota al partito anche spese ordinarie, pranzi e cene in ristoranti dal menu a base di pesce. Perfettamente bipartisan le ostriche: contestate ai consiglieri Pdl e ora in conto ai rappresentanti del Pd che le avrebbero mangiate vicino al Pantheon. In qualche caso si mascheravano singole elargizioni attraverso la formula delle collaborazioni occasionali che di fatto, per i pm, non sarebbero mai avvenute. Nel mirino degli investigatori anche rimborsi per murales nel quartiere popolare del Quadraro. Sul conto del partito in Regione sarebbero finiti pure il finanziamento di una serie di sagre paesane, di tornei di calcio e, per l’accusa, di attività non riconducibili alla politica.

Ostriche e fagiani, ecco gli sprechi del Pd. Chiusa l’inchiesta dei pm di Rieti sui rimborsi utilizzati per scopi privati Quarantuno gli indagati. Coinvolti 15 ex consiglieri della Regione Lazio, scrivono Augusto Parboni e Martino Villosio su “Il Tempo”. Pesce crudo e ostriche al Pantheon, tanto per andare sul classico. Ma anche guizzi più fantasiosi, come le battute di caccia e i fagiani gustati al ristorante, le sagre di provincia finanziate con i soldi dei rimborsi, lo sfizio di pubblicare la propria autobiografia messo in conto al Gruppo. Il campionario delle prodezze compiute con i soldi pubblici dai consiglieri regionali si aggiorna e impreziosisce di nuovi spunti, e stavolta il «merito» - in base alle accuse della procura di Rieti - è tutto del Gruppo Pd protagonista al consiglio regionale del Lazio nel triennio 2010-2012. Fiorito impazzava, la procura di Roma setacciava gli scontrini del gruppo Pdl alla Pisana, l’opposizione Pd guidata da Esterino Montino fremeva d’indignazione e chiedeva le dimissioni della giunta Polverini. Adesso però i magistrati di Rieti, partiti un anno e mezzo fa dalla denuncia di un blogger locale, hanno chiuso un’indagine corposissima, di cui nei mesi scorsi aveva parlato Il Tempo . E nelle loro carte, c’è l’epicentro di un nuovo devastante terremoto per l’immagine del Partito Democratico non solo a livello locale. L’elenco delle spese contestate ai 15 ex consiglieri regionali Pd indagati, cinque dei quali nel frattempo diventati senatori e due nel frattempo deceduti, è sterminato e imbarazzante. Ci sono i pranzi e le cene offerti ad amici e simpatizzanti, a colpi di otto, dieci e ventimila euro, certo. Ma anche, incredibile eppure vero, le battute di caccia a Fiumicino, dove c’è chi si fa fa mettere in conto perfino i 25 fagiani centrati dalle proprie doppiette e poi serviti in tavola, totale 50 coperti. Il direttore del circolo che ospitò il banchetto racconta alla Guardia di Finanza quella fondamentale riunione di partito: a un certo punto qualcuno si sarebbe alzato, avrebbe fatto un discorsetto elogiativo sul Pd, per poi rimettersi serenamente a mangiare. Col denaro altrui vengono pagate le multe della macchina, i biglietti per i viaggi personali in treno e in aereo, gli omaggi enogastronomici per le festività, gli addobbi per l’albero di Natale, l’olio extrovergine per cucinare a casa, financo la bottiglietta d’acqua da 0,45 centesimi. Vengono retribuiti soggetti incaricati di gestire i profili dei consiglieri sui social nerwork, si assumono familiari e conoscenti come portaborse violando ogni normativa vigente e pagando alcuni di loro senza che abbiano lavorato un solo giorno. C’è chi invece avrebbe sovvenzionato una sagra del tartufo con 5000 euro scrivendo sulla fattura «convegno». Chi è accusato di aver dato 8.000 euro per finanziare i graffiti del museo del Quadraro, a Roma. Una suora di Fara in Sabina chiede un contributo per gli immigrati e lo riceve segnando su un pezzo di carta «prestazione occasionale». Il tentativo di rinascita di Paese Sera, nel 2011, è finanziato con 26 mila euro senza uno straccio di contratto. Alcuni imprenditori emettono inoltre fatture per operazioni inesistenti o fatture gonfiatissime, per poi dividere con il consigliere amico. Mentre il sindaco di Rieti Simone Petrangeli, anche lui indagato, si sarebbe fatto regalare video e manifesti per la campagna elettorale. I 15 ex consiglieri avrebbero distratto con «spese non inerenti i fini istituzionali» 2 milioni e 600 mila euro, la metà dei fondi che la Regione ha versato al gruppo per quei 3 anni. Dopo 200 controlli incrociati e 300 testimoni ascoltati, i 13 rischiano il processo. Cinque sono oggi senatori: Bruno Astorre, Carlo Lucherini, Claudio Moscardelli, Francesco Scalia, Daniela Valentini. Spicca poi nel lungo elenco di questa chiusura indagini il nome di Marco Di Stefano, oggi deputato Pd già sulla graticola perché accusato di corruzione e altro dalla procura di Roma nell’inchiesta su Enpam. Avrebbe speso 36 mila euro per pubblicare 25 mila copie della sua autobiografia. L’ex tesoriere del gruppo, il reatino Mario Perilli (fulcro dell’inchiesta) avrebbe invece sovvenzionato la «famosa» sagra del tartufo con 5000 euro, L’ex capo segreteria del sindaco di Roma Marino, Enzo Foschi, i graffiti del Quadraro. Non manca il nome di Esterino Montino, grande fustigatore all’epoca dello scandalo Fiorito dai banchi del gruppo Pd alla Pisana, oggi sindaco di Fiumicino. Più o meno le accuse sono le stesse accuse per tutti, peculato, truffa aggravata, fatture false, illecito finanziamento. Gli indagati in totale sono 41, tra cui 23 collaboratori dei consiglieri Pd, mentre 16 persone sono state segnalate alla procura. Ci sono anche accertamenti in corso su 27 presunti evasori totali. Nell’inchiesta ci sono anche altri esponenti del Pd del Lazio, imprenditori, professionisti, fornitori, collaboratori. E non finisce qui, gli occhi della procura e della Guardia di Finanza di Rieti sono già puntati sulle spese di altri gruppi protagonisti della precedente consiliatura.

Chi ha paura di chiamarla mafia, scrive Francesco Merlo su “la Repubblica”. Il famoso "la mafia non esiste" si è trasformato in "la vera mafia sta altrove", ma negare la mafia rimane tipico della mafia, la prima prova a carico per applicare il 416 bis. Intanto perché i boss babbìano sempre. Dagli antenati don Calò e Genco Russo  -  "noi la chiamiamo amicizia"  - sino ai nipotini Carminati e Diotallevi: "Eravamo degli straccioni, solo un gruppo di cani sciolti". E poco importa se il loro babbìo negazionista non si conclude con "baciamo le mani" ma con "li mortacci tua". Nell'idea che "questa non è mafia " c'è anche, e forse soprattutto, l'autodifesa di un mondo (di mezzo?) che non vuole scoprirsi e accettarsi come complice. "La mafia è diventata policentrica", disse il generale Dalla Chiesa a Giorgio Bocca e stava parlando di Catania, che a quell'epoca reagiva negando, formando comitati di difesa e contrapponendo l'antropologia levantina a quella araba, i carusi chiacchieroni e senza mistero "che uccidono con la risata" ai picciotti di panza e sottopanza con i piedi incretati, l'innocenza della truffa d'Oriente alla precisione della lupara d'Occidente. E poi Siracusa e Messina non potevano essere mafiose perché erano provincia babba. E a Reggio Calabria erano invece troppo anarchici, troppo Ciccio Franco, troppo umore di terremoto che non sopporta disciplina: feroci sì, ma di natura sregolati e strafottenti. E così via distinguendo sino a Roma appunto dove è subito arrivata, con la mafia, la disputa linguistica e storica sulla parola mafia perché, come insegna la teologia, la suprema astuzia del diavolo è far credere che non esiste. È vero che c'è una profondità di differenza, anche in termini di fuoco e di simboli, perché all'Atac non sono trovate teste di capretto mozzate né è stato usato il tritolo nella sede dell'Ama. Ma anche le diversità fanno mafia alimentando e non impoverendo la ricchezza del fenomeno criminale e dunque dei futuri studi comparati. Infatti sono già all'opera gli esperti che, a partire dall'oziosa ovvietà che Roma non è Palermo, stanno mettendo a confronto codici e grammatiche. E forse la prima grande novità è che Mafia Capitale non è la sciasciana linea della palma che sale verso Nord, ma è la geografia che scende. È Roma che, smottando verso Sud, è ormai diventata Mezzogiorno di suk e di illegalità. L'abusivismo di piazza Navona, la sporcizia per le strade, le buche, il centro storico assediato, le "croste" dei parcheggi in terza fila, la metropolitana senza decoro, i lavori pubblici eternamente incompiuti, la cultura come enorme baraccone di incompetenze, le esecuzioni per strada ... ... sono già identità meridionale e scenografia di mafia anche se l'Opera di Roma è al tempo stesso uguale e distinta dal Massimo di Palermo, e il Corviale è diversamente Zen, e Tor Sapienza (non) è Librino così come Carminati (non) è Matteo Messina Denaro ... Insomma la geografia non è filosofia e non si accontenta di surrogati, ma propone scenari nuovi. Il potere a Roma è relazione gnam gnam, e a Palermo è oppressione bum bum. A Roma l'affare si imbroglia e a Palermo si sbroglia. I circoli sul Tevere non sono cupi come le concessionarie d'auto di Santapaola ma anche a Catania, come adesso a Roma, i distributori di benzina (ricordate Calderone?) sono stati le scuole-quadri della mafia. A Roma i covi sono i bar, e la buvette del Campidoglio ha il ruolo che a Trapani ebbero le cliniche private di Aiello e Cuffaro. Certo, l'innocente e brava Serena Dandini, sponsorizzata dalla cooperativa di Buzzi, non ha lo stesso ruolo che i neomelodici hanno a Napoli, ma nella Roma delle relazioni la Melandri ha lavorato per 15 anni con l'amico commercialista Stefano Bravo che riciclava i soldi di Buzzi e Carminati. E Odevaine, prima ancora di diventare capo di gabinetto di Veltroni, era con lei in Legambiente. Ed è vero che il sindaco Marino non poteva sapere che la cooperativa di Buzzi era criminale. Ma perché ha accettato finanziamenti da un'azienda che faceva affari con il comune di Roma e a cui il Comune, dopo l'elezione, concesse a prezzi d'affitto stracciati i locali di Via Pomona? A Roma sono tutti "amici", ma non nel senso dell'omertà palermitana. Fra sacrestie e conferenze, Andreotti andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa. E intanto frequentava la segreteria di Stato di Pio XII. Nella Roma dei ponti, "il ponte Andreotti" congiungeva il Vaticano e Botteghe Oscure. C'era di tutto in quel pezzo di storia contemporanea ma non c'era la mafia. C'era l'assassinio di Pecorelli, di cui furono accusati e poi assolti  -  guarda caso  -  Andreotti e Carminati. Ma non era ancora mafia. Tutto questo solo ora è diventato quel pasticcio meridionale che anima la terribile degradazione della politica, la sua resa alla mafia. Quel Pd criminale che ieri su Repubblica ci ha raccontato Giovanna Vitale è l'erede del partito comunista di Maurizio Ferrara, di Antonello Trombadori, di Giancarlo Pajetta, sino agli eroi della Resistenza e delle Fosse Ardeatine. Come può rassegnarsi alla mafia chi li ha conosciuti, chi ci credeva? Anche io, se fossi per famiglia, per amicizie o per storia, il custode di quel mondo negherei con sarcasmo che quell'apostolato civile possa essere diventato mafia. Buzzi, nell'intervista a Report del 2007, aveva il Quarto Stato dietro la scrivania perché la sua cooperativa, dove si incontravano i redenti e i dannati, è la degenerazione del cattocomunismo romano, della carità coniugata con la solidarietà di classe, della pietà e della mano tesa alla schiuma della terra. Come è possibile che il vecchio segretario di sezione di quel partito sia stato sostituito dal monatto manzoniano? Com'è possibile che il funzionario del sol dell'avvenire sia diventato il Caron Dimonio che traghetta e deruba le anime in pena verso la speranza? Credevano, quegli uomini, che i banditi fossero i ribelli primitivi da trasformare in rivoluzionari o in santi grazie al catechismo di Marx o al Vangelo di Gesù. Come si può accettare che, nel loro nome, i naufraghi siano oggi il pretesto per i più sordidi affaracci mafiosi? E sono paradigmi depistati persino quelli tolkieniani e dei Nar che, sebbene malviventi e fascisti, avevano comunque in testa un progetto di società, un brandello di idealismo, una distopia più che un'utopia. Quella spada giapponese di Carminati, per esempio, è tutto quel che gli resta dello squinternato armamentario culturale, da Evola a Guénon all'antimodernità del Samurai di Mishima con l'arma bianca, feticci anche per Alemanno che fu l'orsuto attor giovane del rautismo. Quel confuso ragazzo pugliese con il mito della romanità, che posava a ideologo, è il primo responsabile politico della Mafia Capitale, una sorta di Ciancimino de Roma, non si sa quanto consapevole. Come reagirebbe Almirante e cosa direbbe il pittoresco Teodoro Buontempo che dormiva in una Cinquecento? La destra degenerata in mafia è una triste novità romana che a Palermo non si era mai vista e che seppellisce tutto il mondo degli ex camerati e fa deragliare anche il sogno di Giorgia Meloni, la reginetta di Coattonia, candidata sindaco dalla nuova Lega di Salvini. A Roma i fascisti a non sono più fascisti, sono mafiosi. Come si vede, a Roma anche la resistenza alla parola mafia è trasversale, è una larga intesa. A New York, prima di battezzare "mafia" la mafia la chiamavano "la mano nera". La mafia infatti non è mai un trapianto, non è un'emigrazione. E adesso è "romana de Roma", cioè una gran confusione circondata dalla storia come dal mare, uno stridio di uomini e un definitivo pervertimento di ideali apparentemente inconciliabili, un pascolo immenso sul quale non si ancora chi davvero ha regnato e chi regnerà. Ed è un melting pot che si preannuncia longevo e solido perché è vero che "natura non facit saltus", ma Roma lo ha fatto. La sua umanità bonaria e cinica ha preso la durezza e la violenza della mafia, ma in un'eternità di foresta.

Così Mafia Capitale voleva conquistare l'Italia. Tra tangenti, appalti e grazie a politici amici. Il clan di Massimo Carminati aveva il progetto di allargare i suoi interessi criminali all’intera Penisola, senza fermarsi alla città di Roma. Ecco 
attraverso quali personaggi e con quali alleanze puntava a "scalare" il Paese, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Sognavano di costruire un impero. Tra tangenti, ricatti e minacce, la “mafia Capitale” si sentiva in grado di arrivare ovunque. Continuava a impadronirsi di imprese, puntava agli appalti miliardari nel Lazio e in tutta Italia, mettendo a libro paga altri politici, altri burocrati, altri professionisti, altri dirigenti pubblici. Fino a tentare persino la scalata al Viminale. Ogni emergenza per loro si trasformava in denaro sonante. Emergenza neve, emergenza abitativa e soprattutto emergenza immigrati erano parole magiche, capaci di farli “spiottare”, ossia incassare subito milioni. Ma soprattutto di costruire altre alleanze oscure: nuovi ponti tra il “Mondo di Mezzo” e i piani alti del potere. Massimo Carminati è solo il vertice di questa piramide criminale, una vera associazione mafiosa nata e cresciuta nel cuore di Roma. Nell’ultimo decennio il “Nero” è riuscito a tra sformare una banda di eversori e rapinatori in una potente organizzazione che mostra sul territorio la capacità effettiva di incutere timore e soggezione attorno a sé, e in molti casi ha usato la forza dell’intimidazione per piegare uomini dei partiti, dello Stato e delle imprese. Ma l’arresto dell’estremista di destra e di altre 36 persone è solo la prima scossa di un terremoto che avrà ripercussioni per molti mesi. I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone e dall’aggiunto Michele Prestipino hanno iscritto su l registro degli indagati un centinaio di persone per reati collegati alla mafia, fra loro anche l’ex sindaco Gianni Alemanno. La trascrizione di un anno e mezzo di intercettazioni mostra uno spaccato del malaffare romano che va oltre, mostrando rapporti incredibili tra grandi imprenditori e boss della strada, tra politici e pregiudicati. È Roma Capoccia, che non ammette presenze meridionali: nessun emissario di ’ndrangheta, camorra o Cosa nostra era ammesso. Per entrare nel loro territorio i padrini dovevano venire a patti, con accordi che saranno oggetto delle prossime fasi dell’inchiesta. Il lavoro dei pm Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli è solo all’inizio. Ci sono ancora altri complici imprenditoriali e criminali nella rete di Carminati su cui si indaga. E c’è un tesoro da recuperare in giro per i continenti. Il boss si vantava di mettere da parte un milione l’anno (ma gli investigatori pensano che siano decine all’anno), denaro investito soprattutto all’estero per non creare sospetti: è l’oro di Roma sulle cui tracce si sono messi gli uomini del Ros dei Carabinieri e della Guardia di finanza. In questa storia di mafia non ci sono coppole e lupare, ma una schiera di persone perbene che consapevolmente si mettono al servizio della rete di Carminati. La figura forse più inquietante è quella di Luca Odevaine, 58 anni: dal 2001 vice capo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, poi nominato da Nicola Zingaretti direttore di polizia e protezione civile della provincia di Roma. Siede nei comitati nazionali che devono trovare una sistemazione per i profughi che attraversano il Mediterraneo. L’affare più ricco, perché come dice Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno” e braccio destro di Carminati, «con gli immigrati si guadagna più del traffico di droga». Odevaine viene chiamato «il Padrone» per la sua capacità di influire sullo smistamento dei profughi e sull’accreditamento dei centri di accoglienza. Più ne sbarcano, più strutture servono e ogni persona vale 35 euro al giorno. Con l’operazione Mare Nostrum il ritmo diventa frenetico: i centri vengono riempiti nel giro di pochi giorni. È una miniera d’oro: 150 milioni di euro da incassare, praticamente senza controlli. Odevaine sostiene di avere convinto il prefetto Morcone - con cui dice di avere preso appuntamento tramite Veltroni - a concentrare i flussi sulle regioni centro-meridionali «tanto al Nord non li vogliono». E spinge Buzzi ad aprire altre strutture di accoglienza in Sicilia, Lazio, Campania. Al telefono se ne citano almeno sette gestite dagli accoliti di Mafia Capitale. Creano un accordo con la più potente arciconfraternita religiosa impegnata nell’assistenza, spartendosi alcuni contratti e ipotizzando interventi del Vicariato di Roma su Alfano per smuovere altre commesse. Odevaine invece grazie al suo ruolo parla con tutti i responsabili del Viminale. È esperto, si mostra efficiente: offre soluzioni ai dirigenti del ministero, ai sindaci e alle imprese. E intasca soldi nella sede della sua fondazione personale. Nelle indagini è stata filmata anche la consegna di una misteriosa busta da parte di un alto dirigente de La Cascina, azienda legata alla Compagnia delle Opere ciellina. Una relazione preziosa, che sembra aprire le porte per altri business. Come i subappalti dell’Expo milanese. E soprattutto gli appalti negli ospedali della Regione Lazio: un contratto colossale, quasi 200 milioni. Si discute di entrare nella partita grazie all’accordo tra Compagnia delle Opere e coop rosse, cavalcando il feeling politico tra Pd e Ncd che ispira il governo nazionale, dove il consorzio ciellino poteva contare sulla benevolenza dei ministri Alfano e Lupi. I soci di Carminati dovevano garantire l’operatività su Roma. E il boss parla del modo di arrivare a Nicola Zingaretti e al suo staff per accaparrarsi l’affare. Puntano pure sul premier Renzi, senza riuscire ad avvicinarlo. Ma Buzzi comunque contribuisce alla cena di finanziamento capitolina del presidente del Consiglio: un evento tenuto all’Eur, poco lontano da quel fungo di cemento dove trent’anni fa nacque il gruppo neofascista che ancora domina la capitale. Odevaine fa le cose in grande. Ed è lui a spiegare che per il salto di qualità la rete romana deve trovare alleati imprenditoriali. Discute di contratti enormi, che finora non sono stati oggetto di indagine, come quello per il centro immigrati di Mineo, il più grande di tutti. «I Pizzarotti sono impresa importante di Parma, molto amici di Gianni Letta, di Berlusconi. Da quello che ho capito hanno fatto un accordo perché Lupi, il ministro Lupi gli ha sbloccato due o tre appalti grossi…». Valuta in parecchi milioni il vantaggio ottenuto dall’azienda parmense. Poi su un’altra gara per i rifugiati Odevaine assicura: «Il presidente della Commissione lo faccio io… è una gara finta». Mafia Capitale, come in precedenza la banda della Magliana, ha continuato ad avere rapporti con Cosa nostra, ’ndrangheta e camorra. Gli investigatori del Ros lo scrivono nelle loro informative ai pm: «le altre organizzazioni criminali presenti nel territorio riconoscevano la forza del sodalizio diretto da Carminati». Chiunque volesse fare affari all’interno del grande raccordo anulare, doveva chiedere il permesso al “Cecato”. Perché qui è lui che comanda. E si scopre che il referente di Cosa nostra a Roma è il vecchio Ernesto Diotallevi, che si definisce in una intercettazione il «capo dei capi». Lui è legato a Riina e ai mafiosi siciliani fin dai tempi di Pippo Calò. Anche lui pare in grado di arrivare a chiunque. Mario Diotallevi, figlio del boss, intercettato lo scorso anno mentre parla con il padre, gli riferisce che avrebbe avuto un appuntamento con Aurelio De Laurentiis «al quale avrebbe proposto di acquistare la villa di Cavallo da destinare ad un giocatore del Napoli calcio».Cosa nostra è ben rappresentata da boss palermitani che hanno lasciato l’isola e si sono trasferiti all’ombra del Colosseo. I siciliani avrebbero fornito a Carminati sicari per commettere omicidi, ma anche appoggio “logistico”: se servivano armi i picciotti sapevano a quale porta bussare. Racconta un collaboratore di giustizia che il gruppo del siciliano Benedetto Spataro aveva anche effettuato “lavori” per conto di Carminati che, in una circostanza, aveva anche venduto ai catanesi delle armi. «Benedetto le ha prese da Carminati qui a Roma e le ha portate in Sicilia», ha dichiarato il pentito Sebastiano Cassia. I legami dell’ex Nar arrivano anche in Campania. A Michele Senese e a tutta la galassia a lui riconducibile. Ci sono legami con i fratelli Esposito, Salvatore e Genny, e con il figlio di quest’ultimo, Luigi, alias “Gigino a’ Nacchella”. Tutti e tre esponenti di spicco del clan camorristico facente capo alla famiglia Licciardi, già parte della “alleanza di Secondigliano”, e legatissima a Senese. Con loro la banda di Carminati faceva affari di piccolo calibro, ma vigeva un rapporto di mutuo soccorso. Non si pestavano i piedi, anzi, spesso si trovavano a condividere le stesse zone di influenza e a darsi una mano. Il 23 gennaio scorso i carabinieri del Ros registrano una conversazione nell’ufficio di una coop di Buzzi. Quest’ultimo racconta a Carminati un episodio che collega i romani con i calabresi e la ’ndrangheta. Buzzi, riferendosi ad un uomo della sua cooperativa, con orgoglio dice al “Cecato”: «... è tremendo.. gli ho visto fare una volta una trattativa con la ’ndrangheta... ce fai sparà gl’ ho detto.. a trattà su 5 lire … gl’ho detto scusa “e questo rompeva il cazzo” ce sparano sto giro... in piena Calabria!». Investigatori e magistrati evidenziano come in passato Carminati ha goduto della protezione «derivante da legami occulti con apparati istituzionali». I camerati di un tempo adesso hanno fatto carriera e sono diventati «rappresentanti politici o manager di enti pubblici economici». Lo spiega lo stesso boss in un’intercettazione: «Io a loro li conosco... c’ho fatto politica... ma poi ognuno ha preso la sua strada. Chi è diventato un bandito da strada, chi si è laureato... A quei tempi ci stava gente che adesso sta nell’ufficio studi della Banca d’Italia, ci sta Fabio Panetta che è il numero tre della Bce. L’unico della Banca d’Italia che si è portato Draghi. Io ci ho fatto le vacanze insieme per tutta la vita è uno dei miei migliori amici, ogni tanto mi chiama... mi ha chiamato proprio dopo l’articolo (de “l’Espresso” ndr), mi ha detto “a Ma’ sei sempre rimasto il solito bandito da strada”, mi ha detto. Gli ho detto “sì, tu sei sempre rimasto il solito stronzo che stai lì a leccare il culo alla Bce”». Panetta ha smentito rapporti recenti con “il Nero”. Ma le parole sono indicative delle relazioni che Carminati può vantare. «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile?» dice in una telefonata alla compagna Salvatore Buzzi, «perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica! Bustoni di soldi! A tutti li ha portati Massimo!». Alla sua compagna Alessandra Garrone, che come lui è stata arrestata, Buzzi racconta: «Massimo non mi dice i nomi perché non me li dice… Tutti! Finmeccanica! Ecco perché ogni tanto adesso… Quattro milioni dentro le buste! Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l’ho portati a tutti!’ tutti!”». La Garrone lo interrompe: «A tutto il Parlamento!». E lui precisa: «Pure a Rifondazione». Carminati si interessa molto alle vicende del gruppo statale. Disprezza Lorenzo Cola, il faccendiere legato ai vertici di Finmeccanica, per la collaborazione con i magistrati che ha fatto finire in cella il commercialista Iannilli, nella cui villa ha abitato fino all’ultimo. In occasione dell’arresto, è preoccupato che la moglie di Iannilli possa parlare con gli investigatori. E in effetti una relazione dei carabinieri riporta le confidenze fatte dalla donna. Al militare parla di come Lorenzo Cola avrebbe fatto consegnare somme di denaro all’amministratore delegato di Alenia. La moglie del commercialista svela che esiste una organizzazione che ha forma piramidale «a tre livelli: al vertice ci sarebbe Lorenzo Cola, al secondo livello ci sarebbero i “controllori”, non meglio identificati, al terzo livello ci sarebbe “l’esercito”, ovvero le persone come Iannilli. Cola, che avrebbe sempre utilizzato Iannilli come un bancomat, sarebbe arrivato ad estorcergli troppo denaro». E suo marito «nel corso degli anni è stato molto “generoso”, tanto che non avrebbe potuto più far fronte alle pretese di Cola e quindi si sarebbe rivolto a Massimo Carminati per ricevere protezione. Quest’ultimo si sarebbe presentato a Cola intimandogli di desistere dalle sue intenzioni». La donna ha dipinto Carminati «come un uomo che ha aiutato lei e la sua famiglia in un momento di grande difficoltà, affermando che non è un “bandito di strada”, è “omologo” di La Russa ed Alemanno, avendo scelto “la strada anziché il Parlamento, ma che “... è uno di loro...”». Ecco, il Mondo di Mezzo, appunto.

Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive Sabino Labia su “Panorama”. In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma.

Il furton al caveau della Banca di Roma del Tribunale. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.

Il Guercio nella terra dei ciechi e tutte le storie di Mafia Capitale, scrive Mariagrazia Gerina su “Internazionale”. Roma sotto inchiesta per mafia. Non più capitale ma “mondo di mezzo”, dove tutto si rimescola: affari, criminalità e politica. La procura di Roma che un tempo era definita il “porto delle nebbie” ha deciso di riscrivere la storia della città. Cento indagati, i palazzi della politica perquisiti, mille e centoventitré pagine fitte di intercettazioni, di nomi, di mazzette. Da cinque giorni, tutti le compulsano ossessivamente. Sono pagine che fanno a pezzi la politica romana, rischiano di distruggerne la credibilità. Hanno provocato finora reazioni scomposte, dichiarazioni d’innocenza anche da parte di chi non era indagato, dimissioni. La confusione regna. Il Partito democratico (Pd) di Roma è stato commissariato, la regione Lazio ha bloccato tutte le gare d’appalto, in Campidoglio si pensa a una giunta d’emergenza “capitale” con dentro il Movimento 5 stelle per allontanare il rischio di scioglimento del comune. Il presidente del consiglio, Matteo Renzi, invoca: processi subito. Già perché in quel migliaio e passa di pagine c’è di tutto, ma non ci sono ancora condanne o assoluzioni. Eppure da lì bisogna ripartire per diradare le nebbie del mondo di mezzo. Dai nomi, dai soldi, dalle intercettazioni. E da quello che di questa inchiesta, fin qui, è stato scritto. Nel film Johnny Stecchino (1991), il comico toscano Roberto Benigni raccontava la mafia con una battuta: “La piaga di Palermo è il traffico”. Adesso finalmente è chiaro che anche a Roma il problema non sono i varchi elettronici e le multe. C’è voluta una corposissima ordinanza con i suoi 100 indagati e 37 arresti, perché tutti si svegliassero una mattina, il 2 dicembre, per leggere nero su bianco: a Roma c’è la mafia. Ed è arrivata fino al Campidoglio.  Qualche anno fa, sembrava quasi sconveniente nominarla. Si cominciò a parlare di “Quinta mafia” a metà degli anni duemila per il basso Lazio. Mentre a Roma si era già diffuso il contagio. Adesso bisogna fare i conti con la “Mafia Capitale”. Una mafia “originale” e “originaria”, perché nasce a Roma ed è diversa da tutte le altre. Ha dalla sua la fluidità della criminalità romana: armata e per questo temibile. Così la descrive Flavia Costantini, il giudice per le indagini preliminari, che ha dato questo nome alla nuova organizzazione. In cima, Massimo Carminati, il primo nella lista degli arresti, er Cecato o anche il Pirata (per la ferita all’occhio), l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari, che aggiorna antichi rapporti per tenere in pugno il Campidoglio. Negli anni settanta si muoveva con scaltrezza tra l’estrema destra armata e la banda della Magliana, negli anni duemila è il “Re di Roma”, come lo definisce il giornalista dell’Espresso Lirio Abbate, capace di mettere d’accordo i clan, ma anche di ottenere informazioni da poliziotti infedeli. È lui, secondo Flavia Costantini, il “capo indiscusso di Mafia Capitale”. Carminati può disporre direttamente anche di alcuni dei più stretti collaboratori del sindaco Alemanno, controlla politici e imprenditori, estorsioni e appalti comunali. La storia della nuova consorteria tracciata dal giudice Flavia Costantini coincide con la sua biografia criminale, mutua le sue principali caratteristiche organizzative dalla banda della Magliana, ma “ha avuto la capacità di adattarsi alla particolarità delle condizioni storiche, politiche e istituzionali della città di Roma”. Dietro, c’è perfino una filosofia criminale. Quella ormai nota del “Mondo di mezzo”, da cui prende nome l’inchiesta condotta da Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, coordinata dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dallo stesso procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone. Copyright di Massimo Carminati: “È la teoria del mondo di mezzo compà”, spiega l’ex terrorista in un monologo interrotto appena dagli “embè” e i “certo” dei suoi collaboratori: Ci stanno… come si dice… i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello… come è possibile che ne so che un domani io posso stare a cena con Berlusconi… cazzo è impossibile… capito come idea? … è quella che il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra… si incontrano tutti là… allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno… e tutto si mischia… Quando la procura di Roma la intercetta, Mafia Capitale è già approdata alla “fase matura” e ha rimestato parecchio nel mondo di mezzo. A Roma, dal 2008, governa Gianni Alemanno, il primo sindaco della capitale che viene dall’estrema destra. Indagato, assicura di non aver mai conosciuto Carminati. Le intercettazioni raccontano invece i rapporti diretti del Pirata con alcuni dei suoi uomini di fiducia. Con il capo della sua segreteria, Antonio Lucarelli, ex Forza nuova. Con Luca Gramazio, allora capogruppo del Popolo della libertà. Lui e suo padre, Domenico Gramazio, vengono avvistati insieme a Carminati a piazza Tuscolo, alla fine del 2012. Discutono del bilancio comunale, ipotizzano gli inquirenti. Nel luglio del 2013 di nuovo tutti e tre sono a cena dar Bruttone. Un’altra volta è Luca Gramazio da solo a incontrare Carminati, che gli passa della documentazione. Sul campo rom di Castel Romano, ipotizzano i magistrati. Il rapporto più stretto der Cecato è con Riccardo Mancini, un passato di militanza nell’estrema destra, fino al 2012 amministratore delegato dell’azienda che gestisce i beni immobiliari dell’Eur, plenipotenziario del sindaco per i rapporti con gli imprenditori e della sua campagna elettorale nel 2008. “È lui che ce sta a passà i lavori buoni perché funzioni questa cosa”, confida Carminati a un uomo di fiducia. Il “grassottello”, lo apostrofa Carminati. Qualche volta non si comporta bene agli occhi dell’associazione: “Lo so, ma poi… io… gli ho menato, eh?”, rivendica con toni da boss. E se rinvia i pagamenti: “Mo’ ‘o famo strillà come un’aquila sgozzata”. Quando sa che sta per essere arrestato per la presunta tangente su un appalto del trasporto pubblico da 600mila euro, Carminati fa in modo di assicurarsi che non parli: “Se deve tenè er cecio ar culo”. Nel mondo di mezzo tra affari, criminalità e politica non c’è alcuna differenza di stato. Ed è da questa incredibile terza dimensione che spunta l’altro protagonista di Mafia Capitale, Salvatore Buzzi, l’uomo delle cooperative rosse romane che diventa sodale del Pirata. Una parabola quasi più sorprendente di quella di Carminati. La sua storia e quella della cooperativa di ex detenuti da lui fondata tocca il cuore della sinistra romana, prima ancora di arrivare a riempire il portafoglio di alcuni esponenti dell’attuale Partito democratico. La cooperativa 29 giugno, oggi una rete di cooperative che conta più di mille dipendenti, prende nome da un convegno sulle misure alternative al carcere che si tenne a Rebibbia nel 1984. Condannato per omicidio all’inizio degli anni ottanta, a Rebibbia Buzzi mette in scena con altri detenuti uno spettacolo, Antigone (“le leggi degli dèi sono più importanti delle leggi degli uomini…”), si lancia in una piccola impresa di imballaggio di pomodori, insomma, si comporta da “detenuto modello”, sotto gli auspici di Miriam Mafai, Laura Lombardo Radice e Pietro Ingrao, che ai pomodori di Rebibbia dedica addirittura un articolo sull’Unità. Uscito dal carcere, fonda la 29 giugno e grazie ad Angiolo Marroni – ala migliorista del partito romano e assessore al bilancio della provincia, suo vero mentore fin dal periodo del carcere – ottiene il primo appalto assegnato con grande urgenza per il taglio dell’erba sulla via Tiberina. Quasi trent’anni dopo, lo ritroviamo mattatore della scena. A capo di una “holding” che dà lavoro a 1.200 persone e fattura 59 milioni di euro. In queste ore spunta anche la sua presenza, poche settimane fa, alla cena romana di finanziamento del Partito democratico, con il segretario Matteo Renzi. Ma nell’inchiesta c’è la foto di un’altra cena, organizzata da Buzzi nel 2010: al suo tavolo siedono il presidente della Legacoop e futuro ministro Giuliano Poletti; il sindaco di Roma Gianni Alemanno; Franco Panzironi, al vertice della municipalizzata dei rifiuti; Luciano Casamonica; il futuro assessore alla casa della giunta guidata da Ignazio Marino, Daniele Ozzimo; e c’è, immancabile, Angiolo Marroni, diventato nel frattempo garante dei detenuti del Lazio, insieme al figlio Umberto, oggi deputato, all’epoca capogruppo dei democratici in Campidoglio. Buzzi ne ha fatta di strada. E ha un nuovo sodale che sa aprirgli, nella Roma governata da Alemanno, anche le porte per lui ancora chiuse. Si chiama Massimo Carminati, il “Re di Roma”. Per Buzzi: l’uomo che portava “i bustoni di soldi a Finmeccanica”. Buzzi ha difficoltà a parlare con il capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per farsi sbloccare un pagamento? “Allora chiamiamo Massimo”, racconta lo stesso Buzzi, “e faccio: ‘Guarda che qui c’ho difficoltà a farmi fa’… i trecentomila euro’”. A quel punto – prosegue il racconto, con tanto di dialoghi mimati – Carminati gli dice: “Va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene parlare con te”. “Aò”, chiosa Buzzi, “alle tre meno cinque scende, dice ‘con Massimo, tutto a posto domani vai…’”. “Io c’ho i soldi suoi”, confida in un’altra intercettazione. “I soldi suoi, lui sai, m’ha detto quando… c’aveva paura che l’arrestavano perché se l’arrestava… se parlava quello il prossimo era lui poi…”. E ancora racconta che Carminati gli avrebbe detto: “Guarda qualunque cosa succede ce l’hai te, li tieni te e li gestisci te, non li devi dà a nessuno, a chiunque venisse qui da te… nemmeno mia moglie”. E aggiunge: “Non so’ soddisfazioni?”. Il ruolo che gli inquirenti assegnano a Buzzi nell’associazione guidata da Carminati è quello di organizzatore: “Gestisce, per il tramite di una rete di cooperative, le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico e negli altri settori oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo, si occupa della gestione della contabilità occulta della associazione e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti”. Le cooperative nate all’ombra del Partito comunista al servizio della Mafia Capitale. Ma la scoperta più inquietante dell’inchiesta è quella del “libro mastro” ritrovato in casa della segretaria personale di Buzzi, Nadia Cerrito, che, arrestata, ha già cominciato a parlare. Un libro nero dove Buzzi tiene con precisione la contabilità occulta delle somme pagate e delle persone a cui sono destinate. Argomento da cui il fondatore della 29 giugno sembra ossessionato. Le intercettazioni sono piene di nomi accompagnati da cifre. Pesci grandi e piccoli della politica romana, ma anche funzionari e dirigenti comunali (in casa di un funzionario dell’ufficio giardini sono stati trovati 572mila euro). È in questa contabilità orale che tutto davvero si rimescola. E che Buzzi millanta rapporti anche con molti nomi del Partito democratico. Quello del presidente del consiglio comunale Mirko Coratti, che, indagato, si è dimesso il giorno degli arresti. “Me so’ comprato Coratti”, annuncia Buzzi all’inizio del 2014, che parla di 150mila euro promessi per sbloccare un pagamento relativo al “sociale”. Per incontrarlo si serve del suo capo segreteria, Franco Figurelli: “Gli diamo mille euro al mese”. Altro nome del Partito democratico è quello del consigliere regionale Eugenio Patanè. “Voleva 120mila a lordo”, sostiene Buzzi (siamo a maggio di quest’anno), richiesta che spiega di aver ricevuto per conto suo da un intermediario. “Gli abbiamo dato diecimila per… per carinerie, e finisce lì, non gli diamo più una lira”, chiosa in una successiva conversazione. È seccato Buzzi quando i conti non gli tornano: “A Panzironi che comandava gli avemo dato il 2 virgola 5 per cento, 120 mila euro su 5 milioni… mo’ damo tutti ’sti soldi a questo?”. Parlano di un appalto per la raccolta dei rifiuti. Franco Panzironi, a cui Buzzi paga 15mila euro ogni mese (“l’ho messo a 15 al mese”), è l’ex amministratore delegato dell’azienda per i rifiuti. Altro fedelissimo di Alemanno, finito agli arresti. Socio fondatore della sua fondazione, la Nuova Italia. Sulla fondazione del sindaco Alemanno piovono bonifici. Nel novembre del 2012, in particolare, arrivano 30mila euro dalle cooperative di Buzzi, proprio nel momento in cui il comune approva i provvedimenti di bilancio. In ballo ci sono i soldi per le aree verdi, per i campi rom e per i minori dell’emergenza in Nordafrica. Smista soldi Salvatore Buzzi. E smista anche i voti. L’11 maggio 2013, a pochi giorni dalle elezioni amministrative per il rinnovo del consiglio comunale, Buzzi parla con Gianni Alemanno al telefono. “Allora? Ma è vera ’sta storia del disgiunto?”, s’informa il sindaco uscente. “Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo e Alemanno”, conferma Buzzi e ride. “Eh, questo… questo mi onora molto”, replica il sindaco. E Buzzi, ridendo: “Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh!”. Daniele Ozzimo, eletto con 5.317 preferenze, diventa l’assessore alla casa nella giunta guidata da Ignazio Marino. Si è dimesso anche lui, come Coratti. Nelle intercettazioni, un sms della sua ex moglie, Micaela Campana, responsabile welfare nella segreteria di Matteo Renzi, al presidente della 29 giugno: “Bacio, grande Capo”. In realtà Buzzi, qualche mese prima, sembrerebbe essersi entusiasmato a un altro scenario: “Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco, eh!”. Poi la storia va diversamente e Umberto Marroni si candida alla camera. Ma il fondatore della 29 giugno è uomo dalle strategie larghe: “Mo’ c’ho quattro… quattro cavalli che corrono… col Pd, poi con la Pdl ce ne ho tre e con Marchini c’è…”. Qualche differenza c’è: “I nostri sono molto meno ladri di quelli della Pdl”, confida. Comunque rassicura: “Io pago tutti… finanzio giornali, faccio pubblicità, finanzio eventi, pago segretaria, pago cena, pago manifesti”. Specie quando c’è la campagna elettorale per le comunali: “Questo è il momento che pago di più…”. Quando Alemanno viene battuto da Ignazio Marino (sui giornali è spuntato un finanziamento anche alla sua campagna elettorale), non si arrende: di amici in giunta ne conta sei su nove, ma non fa i nomi. “Dacce ’na mano perché siamo messi veramente male con la Cutini”, si lamenta dell’assessore alle politiche sociali (quota Sant’Egidio) con il vicesindaco Luigi Nieri, di Sinistra ecologia libertà, con cui invece mostra un buon rapporto. Mentre l’ex segretario del Partito democratico romano, ora commissariato da Matteo Orfini, Lionello Cosentino lo considera “proprio un amico nostro”. In Campidoglio Buzzi cerca incontri, sponsorizza nomine (come quella di Walter Politano, che Marino ha subito rimosso da responsabile della trasparenza). E s’interroga anche su come “legare a sé” il giovane di punta nel gabinetto del sindaco, Mattia Stella (che non è indagato), già segretario del presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro. Sono giorni frenetici, in cui tentare di tessere una nuova tela: “Bisogna vendersi come le puttane”, gli suggerisce Massimo Carminati, il mondo di mezzo. Buzzi da una parte, Carminati dall’altra. In mezzo i politici che si mettono al loro servizio. A leggersi le pagine dell’ordinanza, sembra proprio che Mafia Capitale voglia prendersi tutto: la gara d’appalto per la raccolta differenziata, quella per la manutenzione delle piste ciclabili, la nevicata del 2012, che mise in ginocchio la città governata da Alemanno, e la raccolta delle foglie. Ma anche cemento, affari nell’edilizia. A Roma, in questa città dove niente funziona, dopo la lettura di “Mondo di mezzo”, niente è più come prima. Neppure le foglie che ostruiscono i tombini. Certo, sotto tutta un’altra luce rispetto alle manifestazioni delle scorse settimane, si legge la vicenda dell’accoglienza dei migranti e dei campi rom nella capitale. Due settori su cui l’associazione punta molto. Nelle intercettazioni si parla in particolare del campo rom di Castel Romano, che è stato già costruito, in un mese e mezzo. “A me ’na grande mano per quel campo nomadi me l’ha data Massimo perché un milione e due, seicento per uno, chi cazzo ce l’ha”, rivela Buzzi. Che poi briga perché i fondi siano previsti nell’assestamento di bilancio. Ma è sulla vicenda dei migranti che Buzzi punta ancora di più. Detto con le parole del presidente della 29 giugno: “Tu c’hai un’idea di quanto ce guadagno con gli immigrati? Il traffico di droga rende meno”. E il suo “socio”, Sandro Coltellacci, presidente della cooperativa Formula sociale: “Qui stiamo a parlà della cooperazione sociale a Roma”. Ed è a proposito di immigrati che spunta la figura di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto quando il sindaco era Walter Veltroni. Odevaine è uno dei nomi più sorprendenti dell’inchiesta Mondo di mezzo. L’uomo a cui Veltroni aveva affidato tutta l’area della sicurezza, dalle occupazioni delle case ai campi rom, chiamato poi da Nicola Zingaretti a coordinare la polizia e la protezione civile della provincia. Anni dopo lo ritroviamo al fianco di Salvatore Buzzi, che lo vorrebbe capo di gabinetto del sindaco Marino: “Lo sai a Luca quanto gli do? Cinquemila euro al mese… ogni mese…”. L’interesse di Buzzi è legato all’incarico che Odevaine, consulente anche del consorzio che gestisce il Cara di Mineo, ricopre presso il Tavolo di coordinamento nazionale sull’accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale, come rappresentante dell’Unione delle province italiane. Gli inquirenti parlano addirittura di un “sistema Odevaine”. “Cioè chiaramente stando a questo tavolo nazionale… e avendo questa relazione continua con il ministero… sono in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… da Mineo… vengono smistati in giro per l’Italia…”, spiega Odevaine al telefono. “Se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a tavoli per l’accoglienza… da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro”. Ora le gare e gli appalti si fermano. In Campidoglio, come in regione (anche lì, Buzzi millanta contatti e un uomo a busta paga per tenere i rapporti con il presidente Nicola Zingaretti). Il mondo di sopra è congelato. Il mondo di sotto, in carcere. Quello delle cooperative pulite è sconvolto. Nella politica romana, sono in tanti a tremare. Alle volte Carminati sembra proprio il Guercio in una terra di ciechi.

Mariagrazia Gerina è una giornalista freelance. Scrive per l’Espresso e per il Fatto Quotidiano. Ha lavorato per molti anni all’Unità, occupandosi soprattutto di Roma e di Campidoglio. Con Marco Damilano e Fabio Martini ha scritto Walter Veltroni. Il piccolo principe (Sperling & Kupfer 2007).

Mafia Capitale. La lunga scia di sangue e affari sporchi che avvolge Roma da 60 anni, scrive Gianni Rossi su “Articolo 21”. La Casta politica italiana non vuole proprio fare i conti con la storia patria. Dall’analisi del substrato capitolino, a partire dal Dopoguerra ad oggi, si possono capire le origini di “Mafia capitale” e il perché  dell’improntitudine e dell’incapacità della classe politica di qualsiasi colore di sottrarsi all’abbraccio tentacolare della Piovra.

Roma “Capitale corrotta = Italia nazione infetta”. A 60 anni di distanza dalla prima grande inchiesta giornalistica sulla speculazione edilizia a Roma e gli intrecci con la finanza vaticana e il “generone capitolino” (pubblicata sull’Espresso l’11 dicembre 1955, a firma di Manlio Cancogni), siamo ancora ad interrogarci sulle cause e la diffusione di quel virus che ha nel suo DNA un intreccio perverso tra malaffare, politica e “poteri forti” dello stato. Quel “generume”, come lo ribattezzò il grande Giorgio Bocca, che viveva e vive all’ombra del Cupolone, che si ritrova in circoli esclusivi, che frequenta salotti di anziane “signore” vedove di esponenti della destra romana, che si genuflette nelle ovattate stanze vaticane, che sfoggia abbigliamenti d’altri tempi per omaggiare gli ospiti illustri nei cortili vaticani come “maggiordomi d’ancien regime”, che si divide solo allo stadio Olimpico  tra le due opposte tifoserie, che sopravvive alle intemperie economico-politiche e ai rivolgimenti delle amministrazioni capitoline, continuando a mungere  affari e stringere alleanze. Quel generone  comprendeva un tempo i rampolli della nobiltà decaduta, “papalina e nera”, esponenti di primo piano del mondo politico e governativo, specie democristiano, massoni più o meno “coperti”, ecclesiasti di peso nella Curia, alti ufficiali, dirigenti dei servizi segreti, palazzinari, vertici di alcuni quotidiani. Erano gli anni del “Sacco di Roma”, quando i politici del centrosinistra di allora e gli affaristi in corsa per cementificare ovunque, in barba alle leggi urbanistiche, dovevano comunque passare per le stanze cardinalizie della Società Generale Immobiliare, il nucleo dorato della finanza vaticana, che negli anni Settanta passò nelle grinfie di Michele Sindona. A quel generone, dalla fine degli anni Settanta si è aggiunta una “Cupola” criminale, dalle fattezze mafiose, ma che ha tratto spunto nei modi di operare dai primi e vi ha aggiunto una spregiudicatezza e una efferatezza sconosciuta. Una Cupola che ha di fatto soppiantato i modi felpati di un tempo con l’arroganza e la violenza da “Romanzo criminale”. Ma a bloccare ogni indagine giornalistica e a stroncare qualsiasi denuncia c’era allora la Casta giudiziaria raccolta nel “Porto delle nebbie” del Palazzaccio, che veniva in soccorso alla classe politica e affaristica del momento, “sopendo e troncando”, fino alle avocazioni e ai trasferimenti in procure minori.

1978 – 1979: gli anni della “svolta”. Un giorno forse si scopriranno i fili che tennero insieme nel ‘78 personaggi delle Brigate Rosse, esponenti della Banda della Magliana, apparati deviati dei servizi e massoni “piduisti” durante e dopo il rapimento e l’uccisione del presidente della DC, Aldo Moro, l’uomo dell’apertura governativa al PCI. Una brutta fine la fece anche il giornalista Mino Pecorelli, perché si vantava si saperne molto e di rivelare nomi e cifre, che avrebbero squarciato il velo dell’ipocrisia che coprivano gli intrecci perversi. Moro e Pecorelli furono dunque le vittime ancestrali che segnano il confine della “Terra di mezzo”: il punto di convergenza e di non ritorno tra malavita organizzata, ambienti dell’estrema destra terroristica e del brigatismo rosso, settori dei servizi deviati, massoneria coperta, mondo degli affari e della politica che conta. Qualcuno che ne sapeva più degli altri è purtroppo morto, portando con sé i segreti inconfessabili di quel “delitto di stato”. Si era battuto per liberazione di Moro, aveva perso e si era dimesso dal governo. Più tardi salì al Colle, con un accordo bipartisan e un’unanimità mai più ripetuta. Le sue carte e le sue registrazioni non sono mai state ancora lette né decifrate. E forse non sarà sufficiente neppure aprire gli “armadi della vergogna” di Forte Braschi per decrittarne i segreti tra gli impolverati faldoni. Ma una concomitanza salta agli occhi: da quel periodo, i reduci della Banda della Magliana estendono i loro tentacoli mafiosi e, nonostante sanguinarie vendette personali ed alcune coraggiose indagini, il sistema di quei balordi si è andato affermandosi e incuneandosi negli sulla vita politica e affaristica della Capitale. Durante il periodo epico e di rottura col passato della seconda metà degli anni Settanta, grazie alla Rinascita democratica, sociale e culturale avviata dalle “amministrazioni rosse” con i sindaci comunisti (Argan, Petroselli e Vetere), Roma sembrava aver chiuso per sempre con l’epoca dei palazzinari, con le periferie “accattone” (850 mila abitanti reclusi in quartieri fuorilegge per il Piano Regolatore, senza servizi primari e trasporti), con la malavita rozza e “pastasciuttara”. La città fu restituita ai suoi abitanti, le periferie divennero parte integrante del sistema urbanistico, l’integrazione generò un circuito virtuoso di convivenza e di drastica diminuzione dell’allarme sociale e criminale. Ma sotto, sotto, covavano i prodromi degli epigoni del “Signore degli anelli”.  In realtà i “Signori delle tenebre”  cominciavano ad uscire dal mondo dei morti per conquistare la “Terra di mezzo” e volare verso le vette rarefatte di Valinor, utilizzando i mostri della “Terra di sotto” per stroncare qualsiasi opposizione. Una mitologia, creata dallo scrittore inglese Tolkien, cara ai giovani della destra più nostalgica e violenta che, abbandonati i pestaggi  e gli assalti ai “rossi”, negli anni Ottanta s’infilano i golfini di cachemire, indossano cappotti loden e si introducono negli ambienti del generone romano.

Dalla “corruzione partitica a quella parcellizzata”.Con gli anni Ottanta, la rottura della non-belligeranza tra il PSI e il PCI, l’ascesa di Craxi e l’arrivo sulla scena affaristico-politica dei nuovi “cavalieri bianchi”, si apre la voragine di Tangentopoli, che poi passerà dai finanziamenti occulti ai partiti, a quelli ben più disseminati dei singoli esponenti. E qui trovano spazio anche le “larghe intese” tra destra e sinistra: tutti cercano di guadagnarci qualcosa, perché “tengono famiglia” e perché hanno come mito di riferimento il mondo virtuale creato dai media berlusconiani e dall’affermarsi di valori consumistici decadenti. I partiti tradizionali “ di massa”, con la cosiddetta crisi delle ideologie (in realtà con l’affermarsi dell’unica ideologia dominante, questa capitalista- liberista) si riducono in partiti elettoralistici, buoni per condurre le campagne di propaganda al servizio di leader “padri padroni”. Scompare la selezione dei quadri intermedi, la lunga trafila interna, per immettere personale politico adeguato ai ruoli e agli incarichi istituzionali, locali e nazionali. L’importante è conquistare gruppi di voti nei settori più “sensibili”, grazie alle amicizie inconfessabili, ai finanziamenti sottotraccia, alle tessere gonfiate. Non importa con chi e in che modo allearsi in questo pantano melmoso, basta far eleggere uomini e donne “capaci a disobbligarsi” con i veri padroni della città. Si privilegiano i legami familiari, i circoli e i salotti che contano, alcune categorie lavorative e imprenditoriali, si ricorre al voto di scambio/posti di lavoro nei servizi pubblici, alle promesse di nuovi appalti sempre più gonfiati. Le Primarie e le Parlamentarie del PD sono state le occasioni per imporsi da parte di questo sistema melmoso negli ultimi anni: personaggi politici quasi sconosciuti agli elettori ai vari circoli, che venivano “bloccati” e posizionati ai primi posti, a danno di esponenti noti da tempo e dal passato trasparente; carriere politiche inventate all’ultimo minuto, per arricchire curricula inconsistenti; trascorsi inconfessabili cancellati, di chi nel volgere di pochi anni era passato dalla destra finiana, a quella berlusconiana, per poi entrare nel PD. Alle forti ascendenze di Walter Veltroni e Goffredo Bettini, da una parte, e Massimo D’Alema, dall’altra, che per decenni hanno scelto e imposto i loro candidati sia dentro il partito che nelle amministrazioni locali, si sono affiancati i “nuovi padroni” di Roma, che hanno generato i “mostri” della sinistra che potevano gemellarsi con i “mostri” della destra. Nel frattempo però, qualcosa di importante era cambiato a Roma: il vecchio “Porto delle Nebbie”, il fortilizio di Piazzale Clodio si era come aperto alla luce del sole. Aria nuova stava entrando tra gli uffici tetri del Palazzaccio, proprio sotto la “collina del disonore”, quella di Monte Mario, simbolo negli anni Cinquanta/Sessanta della prima inchiesta giornalistica scandalistica dell’Espresso sulle speculazioni edilizie. E’ come se il cerchio si chiudesse attorno al “Mondo di Mezzo”, grazie ad un pool di giudici, guidati da un binomio esperto nella lotta alla mafia e alla ‘ndrangheta, impersonato dal Procuratore Capo Giuseppe Pignatone e dal suo Aggiunto Michele Prestipino. Se l’opinione pubblica, i media e i corpi intermedi della società sapranno creare attorno a loro una rete di protezione, forse allora per la prima volta, anche la Casta dovrà operare per “purificarsi”. Ma se ai primi segnali di qualche errore giudiziario, più o meno formale, ci si trovasse di fronte al solito coro mediatico del “garantismo” ad oltranza, che già fece arenare l’inchiesta di Mani Pulite, allora i “Pupari” della Terra di Mezzo e gran parte della Casta potranno cantare vittoria: autoassolversi. E l’Italia sprofonderà ancora di più non solo nelle classifiche di Transparency International (oggi al 69° posto su 177 con 43 punti su 100), ultima tra i 28 paesi dell’UE con la Romania, e tra gli ultimi paesi del club esclusivo del G20. Ma soprattutto saranno i mercati finanziari internazionali e le maggiori cancellerie del mondo a condannarci alla decadenza, a causa proprio della corruzione politica, del finanziamento occulto dei partiti, il controllo sui grandi appalti pubblici e il carsico fenomeno dell’evasione fiscale.

Mafia Capitale, Ancora una volta la magistratura commissaria la politica italiana, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”. Se restiamo inchiodati a discutere di 416 bis, a proposito dell’ordinanza “Mafia Capitale” che ha letteralmente sconquassato la vita politica e amministrativa di Roma e del Lazio, cioè se la fattispecie dell’associazione di tipo mafioso contestata dalla procura di Roma sia corrispondente o no al vasto fenomeno di corruzione che ha provocato arresti, indagini e dimissioni a catena, non ne usciamo vivi, schierati in trincea di opinione da una parte o dall’altra. Certo, è una battaglia di garanzia e di diritti, ma questo non è tutto. Non ci vuole la zingara per immaginare – come ha già scritto il direttore di questo giornale – che i pubblici ministeri e il procuratore capo Pignatone sapessero benissimo quale valanga stessero provocando. Quale valanga politica. Non solo l’evidente questione se il Comune di Roma vada sciolto e commissariato, dato che è “quasi giurisprudenza” – quanto meno è la teoria di Gratteri, procuratore di Reggio Calabria, non proprio l’ultimo in merito – che basti anche solo la “infiltrazione mafiosa” di un assessore perché tutto il consiglio vada sciolto. E dato che questa teoria è stata largamente applicata, al Sud almeno, non si capisce perché Roma dovrebbe godere di uno statuto privilegiato. E l’altro versante, quello che lambisce il ministro Poletti, in quanto già capo della Lega delle coop, anche se non c’è alcuna sussistenza di reato né tanto meno alcuna indagine in merito, non è un effetto collaterale da meno. Sarà un effetto mediatico, ma di questo campa la politica. D’altronde, ci si obietterà, non ci più sono “santuari” inaccessibili e il tribunale di Roma, come altri, non è più un “porto delle nebbie” dove tutto si insabbia, e è meglio così. Il punto perciò è che l’indagine “Mafia Capitale”, al di là degli aspetti folckloristici sul “Pirata o “er Cecato” Carminati e su tutta la mole di intercettazioni che lasciano trapelare avidità e pochezza nel mondo dell’amministrazione della cosa pubblica, è soprattutto una “cosa politica”. L’indagine “Mafia Capitale” è una questione squisitamente politica. Era il 17 febbraio 1992 quando arrestarono Mario Chiesa, socialista, che ricopriva la carica di presidente del Pio Albergo Trivulzio a Milano, e che venne colto in flagrante mentre accettava una tangente di sette milioni di lire. Era l’inizio di Tangentopoli. Il “mariuolo” – come lo definì Bettino Craxi – Mario Chiesa sarà il primo tassello di un domino che getterà giù l’impianto politico della Prima repubblica. È una storia che tutti sanno. Si ricordano meno alcuni caratteri della vita politica di allora, in senso sociale, ampio, di partecipazione. Alle elezioni politiche del 5 aprile 1992 – poco dopo l’arresto di Chiesa, perciò – votarono per la Camera in 41 milioni 479.764, cioè l’87,35 per cento degli italiani; e per il Senato, in 35 milioni 633.367, cioè l’86,80 per cento. Alle elezioni politiche del 1994, quando ormai Tangentopoli era un diluvio, un giudizio universale, e Berlusconi era sceso in campo votarono per la Camera in 41 milioni 546.290, cioè l’85,83 per cento; e per il Senato, votarono in 35 milioni 873.375, cioè l’85,83 per cento. Sono dati dell’archivio del ministero dell’Interno, e sono numeri incommensurabili rispetto la partecipazione attuale al voto. Il sindaco Marino, per dire, che di questo stiamo parlando, è stato eletto con il 45,05 per cento degli aventi diritto di voto. Meno di uno su due romani andò a votare. Lo sconquasso politico di Tangentopoli non provocò il vuoto, o quanto meno il vuoto della po-itica che non esiste in natura fu colmato da Berlusconi e dalla Lega, mentre i grandi partiti di massa ancora tenevano. Aggiungo un paio di dati: nel 1991 gli iscritti al Pci/Pds sono 989.708, quasi un milione; l’anno prima ne aveva un milione 264.790 e nel 1987 un milione e mezzo. Insomma, siamo dopo la caduta del muro di Berlino e c’è sconcerto, ma il “partito comunista più forte dell’occidente” tiene ancora botta. Se li confrontiamo, questi numeri – tratti dalle ricerche dell’istituto Cattaneo – con la sconfortantissima polemica tutta intestina sugli iscritti attuali del Pd, che non arrivano nemmeno ai trecentomila, si capisce di costa sto parlando. E gli iscritti alla Democrazia cristiana, sempre nel 1991, erano un milione 390.918, mentre l’anno prima ne aveva sopra i due milioni. Ora, la differenza evidente tra l’indagine “Mafia Capitale” con altri episodi di corruzione della cosa pubblica, tanto per dire il “caso Fiorito” che pure portò alle dimissioni della giunta Polverini, con il suo contorno di feste da Trimalcione e sprechi privati giustificati da pizzini volanti, sta nel carattere di “sistema”: mentre il caso Fiorito, che pure riguardava una pletora di consiglieri che allegramente spendevano i lauti soldi dei loro stipendi ha aspetti erratici e casuali – e peraltro molti si appellavano alle larghe maglie di discrezionalità che la legge offriva loro –, quello che risulta e risalta dall’indagine della procura di Roma è un “sistema” di gestione di flussi finanziari, con la triangolazione tra soggetti pubblici, soggetti privati, cooperative sociali. È qualcosa, insomma, che somiglia molto più a una Tangentopoli che a una Parentopoli. L’anomalia, insomma, è quel signore che teneva in casa centinaia di migliaia di euro “bloccati”: gli altri spendevano, compravano case, automobili, affittavano ville, insomma alimentavano e drogavano il Pil della città, con l’economia criminale. Certo, Tangentopoli era il “sistema Italia” e qui parliamo di un “sistema Roma”. Però, la valenza politica di Roma Capitale è sempre stata tale da avere un risvolto nazionale. Che sia implicato o meno un ministro. La differenza tutta politica tra il 1992 e adesso sta nei numeri che ho dato prima. Il sistema politico è esangue. E neppure il grillismo è riuscito a trasfondervi qualcosa. Il sistema politico è stretto nella tenaglia tra il renzismo (che, va ricordato, non ha mai avuto alcun suffragio elettorale) e l’astensionismo ormai dilagante. Paragonate l’affluenza in Emilia Romagna nel 1992 (per la Camera, Circoscrizione Bologna-Ferrara-Ravenna-Forlì: 94,44 per cento; Circoscrizione Parma-Modena-Piacenza-Reggio Emilia: 92, 99 per cento) con il misero 37,7 per cento delle regionali di qualche giorno fa, e si capisce di cosa stia parlando. Il professor De Rita è intervenuto più volte recentemente a proposito del declino dei “corpi intermedi” – della politica, delle istituzioni – e della fragilità complessiva che questo comporterebbe nel sistema Paese, un vuoto non sostituibile con il verticismo e l’avocazione verso il centro che il presidente del Consiglio sembra privilegiare. Il fatto è che il renzismo non sembra coprire il vuoto della partecipazione politica, anzi all’opposto sembra incassarne gli effetti. Non è solo una caduta di stile la battuta arrogante di indifferenza rispetto la scarsa affluenza alle urne. Forse è vero che la magistratura vuole mostrare di poter tenere sempre sotto schiaffo la politica, qualsiasi. O forse, in un certo senso l’indagine della procura di Roma di Pignatone sembra dare una mano al renzismo. È un’indagine rottamatoria. E di lunga durata. E in quanto tale ne prolunga la vita, lo rende ineluttabile. Proprio l’opposto di Tangentopoli. E la risposta politica è: si commissaria il partito, si avocano a sé le decisioni. Se sarà il caso, si procede anche sfidando le urne a livello locale: si può vincere anche con il trenta per cento di voti, o pure meno. Forse, non è di questo che ha bisogno Roma. E neppure il Paese…

Bentornati nel “porto delle nebbie”, scriveva già Ferruccio Sansa su Il Fatto Quotidiano del 13 agosto 2011. Il “porto delle nebbie”. Il Tribunale di Roma si porta addosso il titolo conquistato tra gli anni ’70 e ‘90. Sospetti, indagini contese con altri tribunali, dalle schedature Fiat allo scandalo dei petroli, passando per i fondi neri Iri e la Loggia P2. Un elenco che tocca anche Tangentopoli, con le inchieste romane che, per usare un eufemismo, non produssero gli effetti di quelle milanesi. I magistrati romani oggi ripetono: “Non siamo più il porto delle nebbie”. E, però, ecco il procuratore aggiunto Achille Toro (ormai ex), che patteggia una condanna a 8 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio per l’inchiesta G8. Ecco il procuratore Giancarlo Capaldo sotto inchiesta del Csm per la cena con il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, e il suo braccio destro Marco Milanese, all’epoca indagato a Napoli. Così a qualcuno tornano in mente inchieste approdate a Roma per finire archiviate o apparentemente dimenticate. Pare finita nel nulla l’inchiesta arrivata nella Capitale su Alfonso Pecoraro Scanio, ministro delle Politiche agricole nel governo Amato e dell’Ambiente nell’ultimo Prodi. La Camera ha negato al tribunale dei ministri l’utilizzo delle intercettazioni del pm Henry John Woodcock. Eppure nella richiesta del Tribunale dei ministri si legge: “Dalle intercettazioni emerge che l’imprenditore Mattia Fella si è interessato al reperimento di una sede per una fondazione che sarebbe stata intitolata al ministro nonché all’acquisto per conto del ministro, di un terreno nei pressi di Bolsena dove quest’ultimo avrebbe dovuto realizzare un complesso agrituristico dotato di piscina ed eliporto. Infine, dalle telefonate risulta che il ministro ha sempre manifestato disponibilità a esaudire le richieste del Fella”. Fella ambiva a stipulare convenzioni con il ministero e con l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e alla nomina del fratello Stanislao in una commissione ministeriale, il ministro in cambio avrebbe ottenuto “numerosi spostamenti con un elicottero pagato da Fella per 120 mila euro; numerosi viaggi-soggiorno in Italia e all’estero per decine di migliaia di euro; l’acquisto di un terreno – pagato 265 mila euro da Fella – per l’edificazione di un agriturismo biologico e di una villa con piscina ed eliporto, destinato al ministro”. Pecoraro Scanio ha sempre negato ogni addebito. Archiviato anche il fascicolo sugli appalti per i centri di accoglienza che vedeva tra gli indagati Gianni Letta, accusato di abuso d’ufficio, turbativa d’asta e truffa aggravata per aver favorito, questa la tesi dei pm, imprese legate al gruppo “La Cascina” vicino a Cl, a Giulio Andreotti e al segretario di Stato vaticano, Tarcisio Bertone. L’indagine parte da Potenza: Woodcock lavora su una presunta organizzazione specializzata nell’aggiudicarsi commesse pubbliche truccando le gare. Il 6 agosto 2008 Angelo Chiorazzo (dirigente Cascina) è a Palazzo Chigi. Letta chiama il capo dell’immigrazione al ministero, il prefetto Morcone. Due giorni dopo Chiorazzo torna alla carica. Dopo il secondo incontro, Letta richiama Chiorazzo: “Il prefetto di Crotone mi dice che vuole che lei vada o lunedì o martedì… perché poi lui va a Cosenza dove è stato trasferito e dice: "E’ meglio che lascio le cose fatte". Allora, la aspetta in Prefettura… eh… a nome mio”. Ma l’inchiesta si concentra anche su altri appalti, come quello da un milione e 170mila euro per il Cara di Policoro (Matera), aperto a tempo di record e affidato a società legate ai Chiorazzo. Secondo la Procura di Roma, però, in questa vicenda non ci sarebbe nulla di penalmente rilevante. Il pm Sergio Colaiocco nell’aprile 2009 ha fatto archiviare l’accusa di associazione per delinquere contro Letta e Morcone. A suo avviso, lo stato d’emergenza legittimava tutto, quindi anche le altre accuse dovevano cadere. Secondo Woodcock, invece, l’emergenza non farebbe venir meno l’obbligo di chiedere 5 preventivi prima di assegnare un appalto milionario con un paio di telefonate. Ma alla fine anche il pm di Lagonegro, cui l’inchiesta era stata affidata per competenza, archivia. Nel dimenticatoio pare finita anche la vicenda in cui era indagata Daniela Di Sotto, all’epoca signora Fini. Cioè moglie del vice-premier Gianfranco. È il 19 aprile 2005 quando gli investigatori della Procura di Potenza registrano una telefonata imbarazzante: “Io sono andata a sbattermi il culo con Storace”, allora presidente della Regione Lazio. A parlare era appunto Daniela Fini. Il suo interlocutore era l’allora segretario di suo marito Francesco Proietti, poi divenuto deputato. Lo “sbattimento” di Daniela con Storace secondo l’accusa avrebbe prodotto risultati. Scrive Woodcock: “Proietti e Di Sotto fanno esplicitamente cenno all’interessamento profuso dalla donna presso Storace affinché la clinica Panigea – di cui Di Sotto era socia – operasse in regime di convenzione l’esecuzione di esami costosi”. La richiesta della Panigea è dell’11 febbraio, il parere favorevole Asl è del 14, la delibera della giunta è del 18. Basta una settimana. Ma a beneficiare della convenzione non saranno Di Sotto e Proietti, bensì la loro socia Patrizia Pescatori. Cognata di Gianfranco Fini. Il pm Sergio Colaiocco ha anche archiviato un’inchiesta (partita da De Magistris, prima di approdare a Roma) sull’allora ministro della Giustizia, Clemente Mastella. Al centro dell’indagine i rapporti tra l’esponente politico e l’imprenditore Antonio Saladino. Ma la Procura di Roma non condivide le accuse: Mastella non avrebbe compiuto i reati contestati nell’inchiesta Why Not almeno nel periodo in cui era ministro. Non emergono, secondo il pm, “elementi diversi dall’asserita esistenza di rapporti di amicizia tra Saladino e Mastella” e quindi si esclude che vi siano “fonti di prova che depongano per la sussistenza di reati commessi a Roma”.

Procura romana porto delle nebbie. Mele: "parlarne male è una moda", scriveva Nese Marco su Corriere della Sera (25 settembre 1992). Dicono che nel "manuale Cencelli" (la guida pratica per la spartizione dei posti di potere) l'incarico di capo della Procura di Roma equivalga a due ministeri. E si può ben capire. Il più importante ufficio italiano della pubblica accusa ha gli occhi direttamente puntati sul "Palazzo". Dicono che talvolta i suoi sguardi verso i potenti siano troppo benevoli. I maligni insinuano che proprio adesso ne abbiamo una prova sotto gli occhi. I giudici milanesi hanno fatto arrestare sette alti papaveri romani. Dovevano muoversi quelli di Milano? A Roma non si erano accorti di nulla? Domande più che legittime. Però, almeno stavolta, non si può dare la croce addosso ai magistrati della capitale. La loro parte contro i pubblici amministratori corrotti la stanno facendo. Hanno messo dentro assessori, industriali, personaggi di grosso calibro. La "Tangentopoli" romana coinvolge finora almeno ottanta inquisiti. "Facciamo meno chiasso dei milanesi, ironizza un sostituto procuratore, per questo le nostre inchieste passano inosservate". C'è anche chi polemizza per i sette arresti ordinati da Milano. "Vedremo, dicono alla Procura, se gli episodi contestati si sono svolti al Nord o nella capitale. Se la corruzione e il versamento delle mazzette sono avvenute a Roma, i milanesi dovevano semplicemente passarci le carte per una questione di competenza". Accetta di parlare anche il capo della Procura, Vittorio Mele, che si è insediato da quasi tre mesi. "Non abbiamo riguardi per nessuno. Bisogna considerare, però, che in materia di pubblica amministrazione le indagini non sono semplici. Ci vuole un episodio. Come è capitato a Di Pietro con Mario Chiesa. Quando mi sento dire: voi che fate, non vi muovete?, mi viene da considerare che gli episodi su cui indagano i colleghi milanesi si riferiscono agli anni Ottanta. Allora potrei dire: cosa facevano loro mentre la corruzione si diffondeva, e cosa facevano gli imprenditori? Non lo dico in tono polemico, ma solo per spiegare che non è facile smascherare i corrotti. Soprattutto se non si ha la fortuna di trovare persone disposte a parlare". A Milano questa fortuna l'hanno avuta. "Ne sono felice per loro, dice Mele, ma anche noi stiamo facendo la nostra parte. Io sono arrivato qui da poco, ma in passato, ricordo che un'inchiesta della Procura romana ha fatto cadere la giunta del sindaco Signorello. E oggi, per citare solo alcuni casi, abbiamo in piedi inchieste sugli assessori Lamberto Mancini, Arnaldo Lucari, Carlo Pelonzi. Ma io voglio perfezionare le indagini. Sto pensando a un pool di sostituti solo per le inchieste sulla pubblica amministrazione". Il nuovo Procuratore vuole cancellare anche la brutta nomea di Roma affossatrice di scandali. Alla richiesta di strappare l'inchiesta sugli ex ministri Bernini e De Michelis ai magistrati veneziani ha risposto no. Ha rinunciato a sollevare conflitto di competenza. "Non volevo che domani mi potessero accusare, dice Mele, di essermi intromesso allo scopo di insabbiare. Eppure, a ogni occasione rispunta la storia della Procura romana che è un porto delle nebbie. La verità è che parlare male di questo ufficio è una moda". Adesso, forse, le cose sono cambiate. Ma in passato le accuse alla Procura romana non erano fantasie. E' successo di tutto in quei piccoli uffici male illuminati. All'inizio degli anni Settanta erano state registrate le conversazioni telefoniche tra il boss mafioso Frank Coppola e Natale Rimi, figlio di un capomafia, che si era inserito alla Regione Lazio. Quando gli inquirenti andarono ad ascoltare i nastri, scoprirono che erano stati manomessi, tagliati e ricuciti. Poi cominciò l'epoca dei processi strappati ad altre città. Il primo fu quello per la strage di piazza Fontana, fatto spostare a Roma perchè nello stesso giorno erano esplose bombe anche nella capitale e questo doveva considerarsi il segno di un unico disegno eversivo. Stessa sorte subì l'inchiesta sui petroli. Quella avviata a Genova. La conducevano tre giovani pretori che vennero definiti "d'assalto" perchè avevano osato mettere sotto torchio alcuni personaggi importanti. Anche nelle inchieste sul terrorismo Roma fece la parte dell'arraffatutto. A Milano avevano ordinato l'arresto di Franco Piperno. A Roma fecero altrettanto, contestando però un reato più grave, il delitto Moro. Fra mille polemiche, l'inchiesta passò a Roma, ma le accuse vennero subito smontate. Ci fu un tempo in cui i Procuratori della capitale lasciavano il loro ufficio con un marchio indelebile. A Giovanni De Matteo è rimasta la brutta fama di aver favorito i fratelli Caltagirone, palazzinari legati ad Andreotti. Il suo successore, Achille Gallucci, è passato alla storia per il caso dei cappuccini. A suo avviso, ne bevevano troppi al Consiglio superiore della magistratura, un segno di spreco, che Gallucci bollò come peculato. I maligni dissero che lo scopo di Gallucci era solo quello di far cadere il Csm. E tutte le forze politiche ammisero che si trattava di uno scontro a carattere istituzionale. Un'operazione oscura, mentre divampava lo scandalo P2. Gallucci è stato forse il più chiacchierato Procuratore. Non c'è caso scottante, non c'è scandalo politico-finanziario che non sia passato per le mani di Gallucci, dai fondi neri Montedison, all'Italcasse, alla Sir, alla Rosa dei Venti, alle banche, al caso Calvi. Tutti gli episodi più infelici e sinistri della nostra storia recente.

Mafia Capitale, parlano 2 sbirri: “Nel 2003 avevamo scoperto tutto ma siamo stati bloccati.” Da chi? Si chiede Infiltrato.it. Ieri sera, 4 dicembre 2014, ad Anno Uno, è andato in onda una clamorosa video-denuncia, in cui 2 ex poliziotti della Mobile di Roma ha raccontato la loro assurda vicenda: “Nel 2003 avevamo già scoperto e denunciato Mafia Capitale. Ma siamo stati bloccati.” Da chi?, chiede il cronista. Ecco la risposta, che lascia a bocca aperta. Stefano Bianchi ha incontrato ad Ostia Gaetano Pascale e Piero Fierro, ex poliziotti della squadra mobile di Roma. I due agenti già lo scorso anno avevano rivelato al cronista de ilfattoquotidiano.it Luca Teolato gli insabbiamenti delle inchieste da loro condotte. Nel 2003 Pascale aveva messo le mani sulla mafia di Ostia, prima che lo facesse l’inchiesta “Nuova Alba”. Ma è stato fermato da qualcuno. “Questa cosa ha favorito i narcotrafficanti” – dichiara Fierro – “La prendo con ironia ma bisognerebbe scappare da ‘sto Paese. Ho fatto un giuramento: essere fedele alla patria. e da allora ho preso solo calci in faccia”. E rivela: “Nel 2003 eravamo arrivati alle stesse conclusioni del 2013. C’è stato un solo problema: c’hanno fermato. La mafia e la politica dividono lo stesso territorio: o si mettono d’accordo o si sparano. Voi avete mai visto un politico sparato a Roma?”. E aggiunge: “A Roma c’era Pippo Calò. Secondo voi una volta morto lui hanno tirato giù la saracinesca e scritto ‘chiuso per ferie’. Ho cercato solo di fare il mio dovere: lo sbirro. Ero pagato per questo. poco, ma per questo”. Come raccontava anche Repubblica, “la parola fine alla mafia di Ostia-Roma poteva essere scritta 10 anni fa. Perché quei nomi e cognomi eccellenti della malavita, quei traffici di droga e quei giri di armi, quell'impero economico su cui stavano mettendo le mani i clan (e che fanno parte anche dell’inchiesta Mondo di Mezzo, ndr), erano sotto la lente di un pool di investigatori a cui qualcuno recise le ali. Piero Fierro, agente pluridecorato della polizia di frontiera e Gaetano Pascale, eccellente investigatore della Narcotici alla Mobile, insieme ad altri cinque colleghi erano a un passo dalla verità. Ma qualcuno decise di stroncare la loro carriera, di metterli fuori dai giochi. E oggi i sette poliziotti sono in pensione, con cause per mobbing ancora aperte (seguite dall'avvocato Floriana De Donno) e procedimenti penali che li hanno trascinati da un giorno all'altro nella bufera, archiviati.” Lo Stato ha fermato, deliberatamente, alcuni dei suoi agenti migliori per proteggere i mafiosi. E allora le domande che ci poniamo sono: chi li ha fermati? Chi si voleva proteggere?

Gen. Antonio Pappalardo su “Agora Magazine”: «La mafia a Roma e nello Stato». Nel 1991 ero Comandante del Gruppo Carabinieri Roma 3, con sede in Frascati. Avevo alle dipendenze circa 1.500 uomini, che dovevano soprattutto vigilare affinché la camorra napoletana non si infiltrasse dal sud nella capitale. Un giorno, bello per la giustizia, ma brutto per i politici corrotti, il Capitano della Compagnia Carabinieri di Ostia mi comunicò, estremamente preoccupato, che aveva scoperto un vasto giro di corruzione politica, che investiva i massimi palazzi del potere di Roma. Lo rassicurai: poteva tranquillamente svolgere le sue indagini, colpendo qualsiasi palazzo del potere. Ci sarei stato io dietro le sue spalle. Ed il bravo capitano mollò ceffoni a tutti, senza guardare in faccia a nessuno. La magistratura di Roma, venuta a conoscenza dei fatti, insabbiò tutto, così meritandosi l’appellativo di porto delle nebbie. Qualche mese dopo scoppiò Tangentopoli a Milano e quella magistratura – si è scoperto dopo, per un fine politico, quello di annientare il PSI, che si poneva come ostacolo alla fusione DC-PCI - avviò un’indagine a tappeto, mandando tutto il sistema politico della Prima Repubblica all’aria. Si buttarono nel fango l’acqua sporca e il bambino, favorendo la nascita di nuovi movimenti politici che continuarono, stavolta indisturbati, a rubare. Ancora di più! Mentre dal 2003 al 2006 ero Capo di Stato Maggiore della Divisione Unità Specializzate, un ufficiale dei carabinieri, che non può non essere considerato un fellone, si sfogò dicendo che il ROS Carabinieri, nato per combattere la mafia e il terrorismo, si stava occupando troppo della corruzione politica, dando fastidio a parecchi potenti della Repubblica. Quei potenti, se il ROS non fosse stato frenato, si sarebbero ricordati al momento opportuno di noi, giungendo persino a proporre  l’eliminazione della stessa Arma dei Carabinieri. Questi cialtroni ci hanno provato e le voci sull’eliminazione dell’Arma, con l’attribuzione di tutti i poteri alla Polizia di Stato, con l’assorbimento da parte di essa delle stazioni carabinieri, si sono moltiplicate. Ma noi nel 2004 mandammo a farsi benedire il suggeritore malefico mandato dai politici. Oggi, dopo tanti anni di silenzio, dovuti a diversi fattori, non ultimo quello di aver mantenuto al comando del ROS un uomo ricattabile, il nostro reparto speciale è esploso mettendo in luce la grave corruzione politica e mafiosa che pervade Roma e i palazzi del potere. Dopo tanti anni si è capito che il cancro non è a Milano (là c’era una metastasi), ma a Roma dove tutti gli intrallazzi nascono e crescono. Bravi i nostri solerti e incorruttibili investigatori del ROS! Certo, se si fossero mossi subito a seguito delle indagini della Compagnia di Ostia, questo cancro si sarebbe scoperto in quegli anni e molti mascalzoni, che sono stati eletti in Parlamento, oggi sarebbero da anni in galera. Comunque, la colpa non è di loro, ma di qualcuno, che volendo rimanere attaccato alla poltrona ed occuparne delle altre, maggiormente prestigiose, gioca come il gatto con il topo, che viene lasciato libero, ma subito dopo riacciuffato. Il COCER, che dovrebbe vigilare affinché non si facciano brutti giochi o scherzi all’Arma, non guarda nella giusta direzione e si occupa di aspetti secondari. Si limita a guardare la pagliuzza negli occhi di qualche comandante, di mentalità ristretta e ottusa, e non guarda, invece, nell’occhio di qualcuno, che ha la trave. I Delegati non sanno che di talune gravi mancanze, da loro non rilevate, saranno un giorno giudicati, perché solo Dio è eterno. Tutti gli altri, prima o poi, sebbene protetti dai soliti potenti e prepotenti, passano! Palermo, 3 dicembre 2014. Gen. Antonio Pappalardo.

La corruzione passa per il tribunale. Tra mazzette, favori e regali. Nei palazzi di giustizia cresce un nuovo fenomeno criminale. Che vede protagonisti magistrati e avvocati. C'è chi aggiusta sentenze in cambio di denaro, chi vende informazioni segrete e chi rallenta le udienze. Il Pm di Roma: "Un fenomeno odioso", scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. A Napoli, dove il caos è dannazione di molti e opportunità per gli scaltri, il tariffario lo conoscevano tutti: se un imputato voleva comprarsi il rinvio della sua udienza doveva sganciare non meno di 1.500 euro. Per “un ritardo” nella trasmissione di atti importanti, invece, i cancellieri e gli avvocati loro complici ne chiedevano molti di più, circa 15mila. «Prezzi trattabili, dottò...», rabbonivano i clienti al telefono. Soldi, mazzette, trattative: a leggere le intercettazioni dell’inchiesta sul “mercato delle prescrizioni” su cui ha lavorato la procura di Napoli, il Tribunale e la Corte d’Appello partenopea sembrano un suk, con pregiudicati e funzionari impegnati a mercanteggiare sconti che nemmeno al discount. Quello campano non è un caso isolato. Se a Bari un sorvegliato speciale per riavere la patente poteva pagare un magistrato con aragoste e champagne, oggi in Calabria sono tre i giudici antimafia accusati di corruzione per legami con le ’ndrine più feroci. Alla Fallimentare di Roma un gruppo formato da giudici e commercialisti ha preferito arricchirsi facendo da parassita sulle aziende in difficoltà. Gli imprenditori disposti a pagare tangenti hanno scampato il crac grazie a sentenze pilotate; gli altri, che fallissero pure. Ma negli ultimi tempi magistrati compiacenti e avvocati senza scrupoli sono stati beccati anche nei Tar, dove in stanze anonime si decidono controversie milionarie, o tra i giudici di pace. I casi di cronaca sono centinaia, in aumento esponenziale, tanto che gli esperti cominciano a parlare di un nuovo settore illegale in forte espansione: la criminalità del giudiziario. «Ciò che può costituire reato per i magistrati non è la corruzione per denaro: di casi in cinquant’anni di esperienza ne ho visti tanti che si contano sulle dita di una sola mano. Il vero pericolo è un lento esaurimento interno delle coscienze, una crescente pigrizia morale», scriveva nel 1935 il giurista Piero Calamandrei nel suo “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. A ottant’anni dalla pubblicazione del pamphlet, però, la situazione sembra assai peggiorata. La diffusione della corruzione nella pubblica amministrazione ha contagiato anche le aule di giustizia che, da luoghi deputati alla ricerca della verità e alla lotta contro il crimine sono diventati anche occasione per business illegali. Nello Rossi, procuratore aggiunto a Roma, prova a definire caratteristiche e contorni al fenomeno: «La criminalità del giudiziario è un segmento particolare della criminalità dei colletti bianchi. Una realtà tanto più odiosa perché giudici, cancellieri, funzionari e agenti di polizia giudiziaria mercificano il potere che gli dà la legge». Se la corruzione è uno dei reati più diffusi e la figura del giudice comprato è quella che desta più scandalo nell’opinione pubblica, il pm che ha indagato sulla bancarotta Alitalia e sullo Ior ricorda come tutti possono cadere in tentazione, e che nel gran bazar della giurisdizione si può vendere non solo una sentenza, ma molti altri articoli di enorme valore. «Come un’informazione segreta che può trasformare l’iter di un procedimento, un ritardo che avvicina la prescrizione, uno stop a un passaggio procedurale, fino alla sparizione di carte compromettenti». Numeri ufficiali sul fenomeno non esistono. Per quanto riguarda i magistrati, le statistiche della Sezione disciplinare del Csm non fotografano i procedimenti penali ma la più ampia sfera degli illeciti disciplinari. Nell’ultimo decennio, comunque, non sembra che lo spirito di casta sia prevalso come un tempo: se nel 2004 le assoluzioni erano quasi doppie rispetto alle condanne (46 a 24) ora il trend si è invertito, e nei primi dieci mesi del 2012 i giudici condannati sono stati ben 36, gli assolti 27. «Inoltre, se si confrontano queste statistiche con quelle degli altri Paesi europei redatte dalla Cepej - la Commissione europea per l’efficacia della giustizia - sulla base dei dati del 2010», ragiona in un saggio Ernesto Lupo, fino al 2013 primo presidente della Cassazione, «si scopre che a fronte di una media statistica europea di 0,4 condanne ogni cento giudici, il dato italiano è di 0,6». Su trentasei Paesi analizzati dalla Commissione, rispetto all’Italia solo in cinque nazioni si contano più procedimenti contro i magistrati. Chi vuole arricchirsi illegalmente sfruttando il settore giudiziario ha mille modi per farlo. Il metodo classico è quello di aggiustare sentenze (come insegnano i casi scuola delle “Toghe Sporche” di Imi-Sir e quello del giudice Vittorio Metta, corrotto da Cesare Previti affinché girasse al gruppo Berlusconi la Mondadori), ma spulciando le carte delle ultime indagini è la fantasia a farla da padrona. L’anno scorso la Procura di Roma ha fatto arrestare un gruppo, capeggiato da due avvocati, che ha realizzato una frode all’Inps da 22 milioni di euro: usando nomi di centinaia di ignari pensionati (qualcuno era morto da un pezzo) hanno mitragliato di cause l’istituto per ottenere l’adeguamento delle pensioni. Dopo aver preso i soldi la frode continuava agli sportelli del ministero della Giustizia, dove gli avvocati chiedevano, novelli Totò e Peppino, il rimborso causato delle «lungaggini» dei finti processi.    Un avvocato e un giudice di Taranto, presidente di sezione del tribunale civile della città dei Due Mari, sono stati invece arrestati per aver chiesto a un benzinaio una tangente di 8mila euro per combinare un processo che il titolare della pompa aveva con una compagnia petrolifera. Se a Imperia un magistrato ha aiutato un pregiudicato a evitare la “sorveglianza speciale” dietro lauto compenso, due mesi fa un giudice di pace di Udine, Pietro Volpe, è stato messo ai domiciliari perché (insieme a un ex sottufficiale della Finanza e un avvocato) firmava falsi decreti di dissequestro in favore di furgoni con targa ucraina bloccati dalla polizia mentre trasportavano merce illegale sulla Venezia-Trieste. Il giro d’affari dei viaggi abusivi protetti dal giudice era di oltre 10 milioni di euro al mese. Raffaele Cantone, da pochi giorni nominato da Matteo Renzi presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, evidenzia come l’aumento dei crimini nei palazzi della legge può essere spiegato, in primis, «dall’enorme numero di processi che si fanno in Italia: una giustizia dei grandi numeri comporta, inevitabilmente, meno trasparenza, più opacità e maggiore difficoltà di controllo». I dati snocciolati tre mesi fa dal presidente della Cassazione Giorgio Santacroce mostrano che le liti penali giacenti sono ancora 3,2 milioni, mentre le cause civili arretrate (calate del 4 per cento rispetto a un anno fa) superano la cifra-monstre di 5,2 milioni. «Anche la farraginosità delle procedure può incoraggiare i malintenzionati» aggiunge Rossi. «Per non parlare del senso di impunità dovuto a leggi che - sulla corruzione come sull’evasione fiscale - sono meno severe rispetto a Paesi come Germania, Inghilterra e Stati Uniti: difficile che, alla fine dei processi, giudici e avvocati condannati scontino la pena in carcere». Tutto si muove attorno ai soldi. E di denaro, nei tribunali italiani, ne gira sempre di più. «Noi giudici della sezione Grandi Cause siamo un piccolo, solitario, malfermo scoglio sul quale piombano da tutte le parti ondate immense, spaventose, vere schiumose montagne. E cioè interessi implacabili, ricchezze sterminate, uomini tremendi... insomma forze veramente selvagge il cui urto, poveri noi meschini, è qualcosa di selvaggio, di affascinante, di feroce. Io vorrei vedere il signor ministro al nostro posto!», si difendeva Glauco Mauri mentre impersonava uno dei giudici protagonisti di “Corruzione a palazzo di giustizia”, pièce teatrale scritta dal magistrato Ugo Betti settant’anni fa. Da allora l’importanza delle toghe nella nostra vita è cresciuta a dismisura. «Tutto, oggi, rischia di avere strascichi giudiziari: un appalto, un concorso, una concessione, sono milioni ogni anno i contenziosi che finiscono davanti a un giudice», ragiona Rossi. I mafiosi nelle maglie larghe ne approfittano appena possono, e in qualche caso sono riusciti a comprare - pagando persino in prostitute - giudici compiacenti. In Calabria il gip di Palmi Giancarlo Giusti è stato arrestato dalla Dda di Milano per corruzione aggravata dalle finalità mafiose («Io dovevo fare il mafioso, non il giudice!», dice ironico Giusti al boss Giulio Lampada senza sapere di essere intercettato), mentre accuse simili hanno distrutto le carriere del pm Vincenzo Giglio e del finanziere Luigi Mongelli. A gennaio la procura di Catanzaro ha indagato un simbolo calabrese dell’antimafia, l’ex sostituto procuratore di Reggio Calabria Francesco Mollace, che avrebbe “aiutato” la potente ’ndrina dei Lo Giudice attraverso presunte omissioni nelle sue indagini. Sorprende che in quasi tutte le grandi istruttorie degli ultimi anni insieme a politici e faccendieri siano spesso spuntati nomi di funzionari di giustizia e poliziotti. Nell’inchiesta sulla cricca del G8 finirono triturati consiglieri della Corte dei Conti, presidenti di Tar e pm di fama (il procuratore romano Achille Toro ha patteggiato otto mesi), mentre nell’inchiesta P3 si scoprì che erano molti i togati in contatto con l’organizzazione creata da Pasquale Lombardi e Flavio Carboni per aggiustare processi. Anche il lobbista Luigi Bisignani, insieme al magistrato Alfonso Papa, aveva intuito gli enormi vantaggi che potevano venire dal commercio di informazioni segrete: la P4, oltre che di nomine nella pubblica amministrazione, secondo il pubblico ministero Henry Woodcock aveva la sua ragion d’essere proprio nell’«illecita acquisizione di notizie e di informazioni» di processi penali in corso. Secondo Cantone «nel settore giudiziario, e in particolare nei Tar e nella Fallimentare, si determinano vicende che dal punto di vista economico sono rilevantissime: che ci siano episodi di corruzione, davanti a una massa così ingente di denaro, è quasi fisiologico». I casi, in proporzione, sono ancora pochi, ma l’allarme c’è. Se i Tar di mezza Italia sono stati travolti da scandali di ogni tipo (al Tar Lazio è finito nei guai il giudice Franco Maria Bernardi; nelle Marche il presidente Luigi Passanisi è stato condannato in primo grado per aver accettato la promessa di ricevere 200 mila euro per favorire l’imprenditore Amedeo Matacena, mentre a Torino è stato aperto un procedimento per corruzione contro l’ex presidente del Tar Piemonte Franco Bianchi), una delle vicende più emblematiche è quella della Fallimentare di Roma. «Lì non ci sono solo spartizioni di denaro, ma anche viaggi e regali: di tutto di più. Una nomina a commissario giudiziale vale 150 mila euro, pagati al magistrato dal professionista incaricato. Tutti sanno tutto, ma nessuno fa niente», ha attaccato i colleghi il giudice Chiara Schettini, considerata dai pm di Perugia il dominus della cricca che mercanteggiava le sentenze del Tribunale della Capitale. Dinamiche simili anche a Bari, dove l’inchiesta “Gibbanza” ha messo nel mirino la sezione Fallimentare della città mandando a processo una quarantina tra giudici, commercialisti, avvocati e cancellieri. «Non bisogna stupirsi: il nostro sistema giudiziario soffre degli stessi problemi di cui soffre la pubblica amministrazione», spiega Daniela Marchesi, esperta di corruzione e collaboratrice della “Voce.info”. Episodi endemici, in pratica, visto che anche Eurostat segnala che il 97 per cento degli italiani considera la corruzione un fenomeno “dilagante” nel Paese. «Mai visto una città così corrotta», protesta uno dei magistrati protagonisti del dramma di Betti davanti all’ispettore mandato dal ministro: «Il delitto dei giudici, in conclusione, sarebbe quello di assomigliare un pochino ai cittadini!». Come dargli torto?

Così le coop hanno riempito Roma di profughi e campi rom. "Gli immigrati rendono più della droga". Ecco perché, nonostante il tetto di 250 profughi, a Roma ce ne sono più di 2.500, scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. "Tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno". Massimo Carminati aveva un braccio destro proveniente dall'estrema sinistra. Ma Salvatore Buzzi, 59 anni, arrestato con il presunto capo della "Mafia Capitale", intercettato dai carabinieri diceva candidamente che "la politica è una cosa, gli affari sò affari". E lui, condannato in passato per omicidio, si era inventato prima una cooperativa sociale con ex detenuti, poi aveva creato un piccolo impero nel settore. Capace di mettere al tavolo - in senso letterale - esponenti di destra e di sinistra, a lui Carminati aveva chiesto di "mettersi la minigonna e battere" per ingraziarsi la nuova giunta Marino. Perché, grazie alla sua cooperativa e al sodalizio con l'ex vicecapo di gabinetto di Walter Veltroni, Luca Odevaine, facevano tutti una "paccata" di soldi coi fondi per l'accoglienza degli immigrati e per la gestione dei campi nomadi. "Quando la Lega denunciava che c’è gente che si arricchisce grazie alla presenza di Rom e immigrati eravamo razzisti: adesso che a Roma è venuto fuori, forse abbiamo ragione noi?". La denuncia di Matteo Salvini corre su Facebook. E incarna un mal di pancia tutto romano nei confronti del Campidoglio. Il bubbone capitolino esplode a pochi giorni dalle proteste e dagli scontri di Tor Sapienza. Altro che accoglienza, dietro al traffico di immigrati e profughi ci sarebbe un vero e proprio giro d'affari. Che guarda alle cooperative rosse. Il link col welfare è proprio Buzzi, il "braccio destro imprenditoriale" del Nero. Il gip Flavia Costantini nell'ordinanza d’arresto descrive "il suo ruolo apicale indiscusso, la sua posizione di primazia nel settore dell’organizzazione volto alla sfera pubblica, la sua presenza operativa in tutti i numerosissimi reati commessi nel settore". Lui, signore delle coop, lo dice chiaramente in un’intercettazione allegata all’ordinanza di circa 1200 pagine: "Il traffico di droga rende meno". L’affare dei centri di accoglienza per rifugiati e immigrati è, secondo la procura di Roma, garantito da Odevaine, descritto nell’ordinanza come "un signore che attraversa, in senso verticale e orizzontale, tutte le amministrazioni pubbliche più significative nel settore dell’emergenza immigrati". I fondi per i centri d’accoglienza sono un piatto ricco. Gli inquirenti lo chiamano, appunto, "sistema Odevaine". "La gestione dell’emergenza immigrati è stato ulteriore terreno, istituzionale ed economico, nel quale il gruppo si è insinuato con metodo eminentemente corruttivo – si legge nell'ordinanza del gip Costantini – alterando per un verso i processi decisionali dei decisori pubblici, per altro verso i meccanismi fisiologici dell’allocazione delle risorse economiche gestite dalla pubblica amministrazione". Un sistema studiato per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici che "si dividono il mercato". La "qualità pubblicistica" di Odevaine sta tutta nella possibilità di sedere al Tavolo di coordinamento nazionale insediato al ministero dell’Interno e, al tempo stesso, di essere uno degli esperti del presidente del Cda per il Consorzio "Calatino Terra d’Accoglienza", l'ente che soprintende alla gestione del Cara di Mineo. In una intercettazione è lo stesso Odevaine a spiegare al commercialista che, "avendo questa relazione continua" con il Viminale, è "in grado un po’ di orientare i flussi che arrivano da… da giù… anche perché spesso passano per Mineo… e poi… vengono smistati in giro per l’Italia… se loro c’hanno strutture che possono essere adibite a centri per l’accoglienza da attivare subito in emergenza… senza gara… le strutture disponibili vengono occupate… e io insomma gli faccio avere parecchio lavoro…". Siriani, libici, tunisini e iracheni. Tutti smistati a Roma, tra Caracolle e Tor Sapienza. I residenti delle banlieue capitoline lo dicevano che, forse forse, erano un filino troppi. È lo stesso Odevaine a spiegare il perché: "I posti Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati, ndr) che si destinano ai comuni in giro per l'Italia fanno riferimento a una tabella tanti abitanti tanti posti Sprar... per quella  norma a Roma toccherebbero 250 posti... che è un assurdo... pochissimo per Roma, no?... allora... una mia... un mio intervento al ministero ha fatto in modo che... lo Sprar a Roma... fosse portato a 2.500 per cui si sono presentati per 2.500 posti... di cui loro... secondo me ce n'hanno almeno un migliaio". Insomma, a Roma erano destinati 250, ma grazie allo zampino di Odevaine i posti sono lievitati a dieci volte tanto, in modo che almeno mille venissero "ospitati" nelle case accoglienza di Buzzi. Per questo "servizio" l'ex vicecapo gabinetto di Veltroni riceveva un regolare stipendio da 5mila euro. La cupola di Mafia Capitale specula (e fa affari) con qualsiasi emergenza della Capitale. Dal maltempo ai protocolli per la prevenzione del rischio, dal servizio giardini del comune alla raccolta differenziata. Ma, soprattutto, con i fondi per la costruzione e la gestione dei campi nomadi. Gli inquirenti hanno, infatti, messo a nudo la capacità di interferire nelle decisioni dell’Assemblea Capitolina in occasione della programmazione dei bilanci pluriennale in modo da "ottenere l’assegnazione di fondi pubblici" per rifinanziare i campi nomadi, la pulizia delle aree verdi e il progetto "Minori per l’emergenza Nord Africa". Tutti settori in cui operano le società cooperative di Buzzi. "Noi quest'anno abbiamo chiuso... con quaranta milioni di fatturato - spiega lo stesso Buzzi - ma tutti i soldi... gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull'emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero".

Inchieste e scandali, quante ombre sulle cooperative rosse, scrive Alessandro Genovesi su “Ibsnews”. Dentro gli scandali degli ultimi tempi, su tutti l'EXPO, un ruolo nient'affatto marginale è stato giocato dalle cosiddette cooperative rosse. Si guardi, tanto per non fare nomi, al gigante Manutencoop Facility Management e al suo presidente Claudio Levorato, iscritto nel registro degli indagati per concorso in turbativa d'asta e utilizzazione di segreti d'ufficio. Per il manager di Manutencoop i PM della procura della Repubblica di Milano avevano addirittura chiesto anche l'applicazione di misure cautelari. Tuttavia il giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta, ritenendo che nei confronti di Levorato non sussistessero le esigenze cautelari richieste dal codice di procedura penale. Un'ombra piuttosto imbarazzante per il mondo delle coop, da sempre legato a doppio filo alla sinistra, in tutte le sue diverse declinazioni (PCI-PDS-PD). Vedasi, ad esempio, il caso di Giuliano Poletti, ministro del Lavoro del governo Renzi dopo essere stato per anni Presidente di Legacoop. Ma gli intrecci delle cooperative vanno al di là della politica. Sentite, a tal proposito, cosa ha detto la segretaria CGIL, Susanna Camusso, in occasione del congresso di Rimini del mese scorso: "Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene". Parole dure e inconsuete, se si pensa al triangolo PCI-COOP-CGIL che per decenni ha costituito un inscalfibile centro di potere e di interesse. Parole, ci permettiamo di osservare, anche tardive: da molti anni oramai le cooperative si comportano alla stessa maniera delle aziende di tipo "capitalista", vale a dire mettendo, nella scala delle priorità, molto avanti i profitti e molto indietro i diritti dei lavoratori-soci. Quando va bene. Perché quando va male, ad essere aggirate sono le norme del codice penale. Oltre al caso Manutencoop, ancora tutto da dimostrare, sono in corse altre indagini che coinvolgono altri colossi del mondo cooperativo. Si pensi alla CMC, società con sede a Ravenna che si occupa di costruzioni, finita agli onori della cronaca per il caso del "porto fantasma" di Molfetta, cantiere aperto - secondo l'ipotesi accusatoria della procura di Trani - per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. La CMC, per non farsi mancare nulla, è implicata anche nell'inchiesta sulla bonifica dell'area Rho-Pero, che fa parte dell'operazione Expo, con l'accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il lavoro della cooperativa. Anche altri due giganti del mattone come Coopsette e Unieco sono finiti nell'occhio del ciclone l'anno scorso quando, in occasione dell'arresto del Presidente della regione Umbria Maria Rita Lorenzetti, i magistrati hanno ipotizzato l'esistenza di un'associazione a delinquere finalizzata proprio a finanziare indirettamente le due cooperative, entrambe in odore di fallimento. Insomma, altro che solidarietà e tutela del lavoro. Le COOP sono ormai perfettamente integrate nel capitalismo all'italiana, dove la spintarella, l'aiutino e la mazzetta la fanno da padrone, alla faccia dei "sacri" valori del libero mercato.

Coop rosse di vergogna tra inchieste e lotte sindacali. Ora nel mirino della Cgil, scrive Giorgio Meletti su Il Fatto Quotidiano di mercoledì 14 maggio 2014. L'indagine sulle tangenti per l'Expo milanese fotografa un mondo allo sbando. Orfano della politica, ostaggio di padri-padroni inamovibili. Il coinvolgimento nell'inchiesta del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato non sorprende. La settimana scorsa un duro attacco era arrivato dal segretario generale Susanna Camusso: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione". Altro che magistrati. L’attacco più duro alle coop cosiddette rosse è venuto dal capo della Cgil, Susanna Camusso. La settimana scorsa, chiudendo il congresso di Rimini, il segretario generale del primo sindacato italiano ha riservato alle cooperative parole al vetriolo: “Sappiamo bene che veniamo dalle stesse radici, ma proprio per questo ci indigniamo di più quando non si riesce a dare risposta al tema della falsa cooperazione, quando si usano appalti alla qualunque e non si firmano i contratti, quando si disdettano gli accordi come una qualunque catena straniera della grande distribuzione. Ci indigniamo non per la presenza di soci lavoratori, ma se sono tali solo per non applicare i contratti, che lo si faccia nella cooperazione industriale o in quella sociale, non va bene”. I fendenti di Camusso sono in parte strumentali, giusto per castigare un po’ il ministro del Lavoro Giuliano Poletti che ha appena lasciato la presidenza di Legacoop per farsi interprete del verbo renziano sul mercato del lavoro. Ma non nuovi. Negli anni 90 il suo predecessore Sergio Cofferati già parlava di cooperative “che considerano il lavoro come occasione di profitto sulla pelle dei giovani”. Insomma, è da almeno vent’anni che le coop hanno scoperto il mercatismo e sciolto ogni legame con i valori laburisti e solidaristi. Rivendicano di essere aziende come le altre, e si comportano di conseguenza. Non solo calpestando quando serve i diritti dei loro dipendenti – che molto spesso non sono nemmeno soci, cosicché la cooperative che li assume più che di lavoratori si potrebbe definire di datori di lavoro. Ma anche infischiandosene del codice penale nella stessa misura delle normali imprese private, sebbene pretendano di vedersi ancora riconosciuta una superiorità morale. Il coinvolgimento del gigante Manutencoop e del suo presidente Claudio Levorato nell’inchiesta sulle tangenti per l’Expo milanese non sorprende. La presunzione d’innocenza è fuori discussione, naturalmente, ma l’interessato deve invocarla anche per lo scandalo degli appalti della Asl di Brindisi, per il quale proprio la settimana scorsa sono state chiuse le indagini, e Levorato è uno dei 51 indagati. Il referente locale di Manutencoop, Mauro De Feudis è finito ai domiciliari e, secondo la procura di Brindisi, citata dalla Gazzetta del Mezzogiorno “candidamente afferma di aver richiesto l’intervento del legale rappresentante della Manutencoop Facility Management spa per risolvere la problematica relativa alla mancata assunzione di soggetti segnalati dal consigliere regionale De Leonardis che nel frattempo garantiva loro l’aggiudicazione illecita di appalti in tutto il territorio pugliese”. Il gigante delle costruzioni Cmc di Ravenna, che oggi deve la sua fama all’appalto per il tunnel di servizio dell’alta velocità in Val di Susa, è all’onore delle cronache per il caso del “porto fantasma” di Molfetta, cantiere aperto – secondo l’ipotesi accusatoria della procura di Trani – per incassare i contributi pubblici poi stornati verso altri impieghi. Il costruttore Enrico Maltauro e il faccendiere Sergio Cattozzo, intercettati prima di essere arrestati dai magistrati milanesi per l’Expo, mostrano di conoscere bene la vicenda. Dice Maltauro: “Il casino di Molfetta, non è solo un fatto di corruzione, ma c’è un fatto di truffa ai danni dello Stato”. Specifica Cattozzo: “Per cui i soldi per fare il porto li hanno utilizzati per altre cose”. A fine 2013 la Cmc è stata coinvolta nell’inchiesta sulla bonifica dell’area Rho-Pero, che fa parte dell’operazione Expo, con l’accusa a un suo esponente di aver corrotto il direttore tecnico del cantiere perché non ostacolasse il sereno dispiegarsi del lavoro della cooperativa. C’erano di mezzo questioni di rispetto dell’ambiente anche nell’inchiesta sul tunnel dell’alta velocità di Firenze, per la quale l’anno scorso fu arrestata la presidente di Italferr (gruppo Fs) Maria Rita Lorenzetti, ex presidente della regione Umbria. In quel caso i magistrati hanno ipotizzato un’associazione a delinquere il cui scopo principale era soccorrere una coop con i conti in difficoltà: “Pianificavano una serie di interventi a vasto raggio per influire e determinare le varie amministrazioni coinvolte, in maniera da superare ogni possibile ostacolo e intralcio agli obiettivi dell’associazione: ovverosia favorire al massimo in termini economici Nodavia e tramite essa Coopsette (di cui si teme la prossima insolvenza) a scapito dei costi dell’appalto e a danno delle casse dello Stato”. In effetti la Coopsette e la Unieco, due giganti del mattone cooperativo emiliano, hanno attraversato l’inferno del concordato preventivo e adesso si preparano a fondersi nella nuova Unisette per salvarsi. Evidentemente il ricorso al doping della corruzione, abbastanza tipico per le imprese italiane, è un vizietto che non risparmia le coop, soprattutto adesso che gli affari non vanno per niente bene. Storia antica anche qui. L’idea che esista un blocco compatto chiamato “coop rosse” e unito ai partiti della sinistra è superata nei fatti da un ventennio. Dopo la svolta della Bolognina è scomparso dalla scena il Pci che garantiva alle coop le loro quote di mercato al tavolo della spartizione degli appalti pubblici. I boiardi rossi hanno allora imparato ad arrangiarsi da soli, al grido di “ognuno per sé e tangenti per tutti”. Già il pool Mani pulite, indagando su Tangentopoli, scoprì con una certa sorpresa che era in corso una guerra feroce tra le coop emiliane e quelle lombarde per l’accesso al mercato della Lombardia, che le seconde impedivano alle prime. In uno scenario del genere la Legacoop si è trasformata da holding di fatto, quale era ai tempi del Pci a una pressoché inutile Confindustria delle coop. Poletti, per esempio, è stato tenuto rigorosamente all’oscuro dei traffici in corso tra le grandi coop del consumo per organizzare la scalata alla Fonsai da parte dell’Unipol di cui sono azioniste. E Poletti, come il suo successore Mauro Lusetti, si limitano a minimizzare come “casi isolati” gli scandali che coinvolgono grandi e piccole imprese cooperative. Non sorprende quindi che il risultato della “balcanizzazione” sia stato il consolidamento dei padri-padroni delle singole coop. Personaggi che già vent’anni fa l’allora presidente di Legacoop Lanfranco Turci, poco prima di essere fatto fuori, accusò di “spinte cesaristiche”. Gente come Levorato, presidente di Manutencoop da trent’anni, o come Turiddo Campaini, alla testa di Unicoop Firenze dal 1973, due anni prima della nascita di Matteo Renzi, o come Pier Luigi Stefanini, presidente di Unipol da otto anni dopo una vita alla Coop Adriatica. Logica conseguenza di questa parabola e di queste logiche spietate è ciò che rileva Camusso. Le coop si stanno sempre più spesso qualificando come datori di lavoro efferati. Sul Fatto del 16 marzo scorso Marco Palombi ha raccolto un florilegio di casi incredibili: “Sulla scheda di valutazione di un dipendente abbiamo letto che l’interessato non può essere promosso. Motivo? Fa il sindacalista. Non manca nemmeno l’ordinario marchionnismo: dal delegato Rsu trasferito o demansionato fino alla schedatura fotografica degli scioperanti”.

"Mafia Capitale". "A Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato Mafia Capitale, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso", ha anche detto Pignatone in conferenza stampa il 2 dicembre 2014. "Ci sono approfondimenti in corso sul personale di forze dell'ordine ma l'operazione non si chiude oggi: la posizione di alcuni è al vaglio per favoreggiamento".

Non è più vero che il crimine non paga; rende, eccome. Perfino ai magistrati. Dopo le mazzette a giudici romani.

A volte ritornano anche i titoli dei giornali. Quello, celebre, dell’Espresso suonava così: “Capitale corrotta=nazione infetta”. Era il 1956, ma sembra ieri, nel senso proprio di ieri, se si guarda all’inchiesta esplosiva che a Roma ha appena portato in carcere 37 persone, indagandone altre cento per una serie di reati gravissimi, a partire dall’associazione mafiosa. Un intreccio tra affari, politica e delinquenza che sembra evocare anche un altro e più recente titolo di film e di puntate televisive tratte dal libro “Romanzo criminale”. Cinquantotto anni fa l’inchiesta a puntate dell’Espresso a firma Manlio Cancogni, denunciò con questo titolo, diventato famoso, la corruzione e la speculazione edilizia che strangolavano Roma. Oggi la situazione è molto peggiorata e Roma continua ad essere la vetrina di un’Italia ormai preda delle mafie, della corruzione politica e dello sfacelo ambientale. “Capitale corrotta, Nazione infetta” è il titolo della celebre inchiesta de L’Espresso del 1955, a firma di Mario Cancogni, sulla speculazione edilizia di Roma; un titolo riproposto diverse volte in occasione di scandali con conseguente indignazione popolare, come fu per Tangentopoli e come è stato negli ultimi mesi in occasione delle inchieste sugli appalti o sul finanziamento pubblico dei partiti. E’ un titolo che ci ricorda come in sessant’anni di vita democratica del nostro Paese alcuni vizi del potere non siano mai tramontati, seppur con declinazioni diverse a seconda delle circostanze e dei periodi storici.

"A Roma mi sento come nella mia Palermo" dice Maurizio Crozza truccato da Padrino nella copertina di "diMartedì" del 2 dicembre 2014 su La7. "I carabinieri hanno voluto fare un omaggio a Michelangelo: rinvio a giudizio universale, dall'affresco a tutti al fresco".

"Ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...", così Massimo Carminati nell'intercettazione di una conversazione tra lui e il suo braccio destro Brugia. "Carminati ha creato sinergie illecite con mondi diversissimi tra di loro - spiega il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone nel corso della conferenza stampa - La teoria del mondo di mezzo è un mondo in cui tutti si incontrano indipendentemente dal proprio ceto. Un mondo in cui tutto si mischia. Carminati parla con il mondo di sopra (ossia la politica e gli imprenditori) e con quello di sotto, ossia quello criminale. E' al servizio del primo avvalendosi del secondo soprattutto per il suo vantaggio".

"Il dieci mattina mi paghi te...nun sgarrà che vengo a casa..non capisci bene...io te taglio la gola il dieci matina...portami i soldi sennò t’ammazzo a te e tutti i tuoi figli", così un indagato in una delle intercettazioni telefoniche dei Ros.

Un approfondimento a 360 affinchè si superi quel vizio italiano per il quale, per partito preso, si considera criminale solo la parte avversa.

Mafia e politica a Roma, Buzzi: "C'ho quattro cavalli che corrono col Pd e tre col Pdl", scrive di Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Mafia Capitale, alla fine, è venuta alla luce. Ci sono voluti due anni d’indagini dei carabinieri del Ros, che hanno effettuato pedinamenti e intercettazioni. Giorno dopo giorno le «gesta» del gruppo dell’ex Nar Massimo Carminati sono finite sulle 1.249 pagine di ordinanza che hanno fatto scattare i 37 arresti di ieri e un centinaio di avvisi di garanzia. Nel faldone c’è di tutto: l’estrema destra eversiva che ha terrorizzato Roma negli anni ’70, ma anche insospettabili manager e politici locali. Che parlano, al telefono e in strada. Sicuri di non essere ascoltati e di poter controllare affari e appalti in barba alle regole della gestione pubblica. Le intercettazioni descrivono la cupola nera. E danno addirittura il nome all’operazione dei carabinieri. «Mondo di mezzo» nasce infatti dalle parole di Carminati, che in gergo spiega l’intreccio tra Mafia Capitale e amministratori. È l’11 gennaio 2013 e l’ultimo Re di Roma descrive con una metafora al suo braccio destro, Riccardo Brugia, i rapporti con i politici. «È la teoria del mondo di mezzo compà...ci stanno...come si dice...i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo. Ci sta un mondo...un mondo in mezzo in cui tutti si incontrano e dici cazzo come è possibile che quello...il mondo di mezzo è quello invece dove tutto si incontra...cioè...hai capito?...si incontrano tutti là...ma non per una questione di ceto...per una questione di merito, no?...allora nel mezzo, anche la persona che sta nel sovramondo ha interesse che qualcuno del sottomondo gli faccia delle cose che non le può fare nessuno». Carminati si sente il padrone della città: «È il re di Roma che viene qua, io entro dalla porta principale». Lo dice chiaramente a un interlocutore davanti a un bar a Vigna Stelluti: «Nella strada tanto comandiamo sempre noi, nella strada tu c’avrai sempre bisogno». Non solo nella strada, anche nei palazzi, tanto che il «cecato» si prende la libertà di lamentarsi dell’ad di Eur Spa, Riccardo Mancini, chiamato «il sottoposto». «Vede io che gli combino...a me non mi rompesse il cazzo...a me me chiudesse subito la pratica là», dice a un sodale. In un’altra intercettazione diceva «passo le ’stecche» (la sua parte, a Mancini, ndr) per i lavori che fa, però l’altro giorno gli ho menato». Nelle carte ci sono pure le preoccupazioni dell’organizzazione criminale sulla probabile vittoria di Ignazio Marino al Campidoglio. Secondo gli inquirenti Salvatore Buzzi, braccio destro imprenditoriale di Carminati, «pone in essere l’avvicinamento dei decisori pubblici, sia con la vecchia che con la nuova amministrazione, in funzione degli interessi del sodalizio». E infatti, con l’avvento della nuova giunta, Buzzi entra in azione. «Eloquente esempio», per i magistrati, è l’attività di Buzzi che, «secondo l’indicazione strategica di Carminati di “mettere la minigonna e andare a battere con la nuova amministrazione”, nell'immediatezza del cambio di maggioranza politica al comune di Roma» cerca «con Coratti, presidente dell’assemblea Comunale di Roma Capitale» di intessere rapporti. A tal proposito a pagina 138 si citano Mirko Coratti e Franco Figurelli, suo capo segreteria, i quali, venivano interessati da Salvatore Buzzi affinché si occupassero di aggiudicarsi una gara d’appalto all’Ama, l’azienda dei rifiuti, di sbloccare i pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma e di pilotare la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento. «Oh, me so’ comprato Coratti», dice Buzzi, che racconta anche come Figurelli veniva retribuito con 1.000 euro mensili, oltre a 10.000 euro pagati per poter incontrare il Presidente Coratti, mentre a quest’ultimo venivano promessi 150.000 euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Sempre Buzzi parla con un’amica degli affari fatti con la gestione delle cooperative di immigrati. Dice la donna: «Perchè su Tivoli non è che un cantiere che ti guadagna miliardi». Lui: «Apposta tu c’hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Eh. Il traffico di droga rende di meno». Con un imprenditore, infine, Buzzi, spiega come funziona il sistema: «Tu li voti, vedi, i nostri sono molto meno ladri di...di quelli della Pdl». E poi aggiunge più avanti nella conversazione: «Ma lo sai agli altri soldi che gli do’ Giova’? Ma tu lo sai perché io c’ho lo stipendio, non c’hai idea di quante ce n’ho... non ce li hanno… pago tutti pago...Anche due cene con il sindaco settantacinquemilaeuro ti sembrano pochi? Oh so centocinquanta milioni eh. I miei ti posso assicura’ che non li pago». «Mo’ c’ho 4 cavalli che corrono col Pd e 3 col Pdl».

Roma tra mafia, sangue e giochi di potere nel libro "Grande raccordo criminale". Nell'inchiesta di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti (Imprimatur), le connivenze e la violenza che stringono da tempo la Capitale e che oggi sono culminati con gli arresti di Massimo Carminati e altre cento persone. Eccone alcuni stralci, scrive “L’Espresso”. «E’ la terra di mezzo, i vivi sopra e i morti sotto, noi siamo nel mezzo, un mondo in cui tutti si incontrano, perché anche il sovramondo ha interesse che qualcuno del mondo di sotto faccia qualcosa nel suo interesse». Massimo Carminati, arrestato oggi con l’accusa di essere a capo della mafia Capitale, descrive così la terra di mezzo, quella in cui la criminalità e il potere si incontrano per fare affari. Quella in cui la corruzione lascia il posto alla violenza solo quando è necessario ribadire chi comanda. E’ Carminati per gli inquirenti a scegliere i dirigenti dell’Ama, l’azienda dei rifiuti di Roma, e persino il presidente della Commissione Trasparenza in Campidoglio ai tempi del sindaco Gianni Alemanno, oggi indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Ed è sempre lui a tenere legami con l’ex vice capo di gabinetto della giunta Veltroni, Luca Odevaine, accusato di aver orientato le scelte sui flussi di migranti verso le strutture cooperative in mano a Carminati. Quella di Carminati è una figura di primo piano nella malavita romana. Il suo arresto mina alle fondamenta il crimine della Capitale. Grande raccordo criminale di Floriana Bulfon e Pietro Orsatti, edito da Imprimatur, è un'inchiesta che svela le connivenze, il sangue e la violenza che stringono da tempo la Capitale, ricostruendone i rapporti mafiosi e gli intrecci di potere che oggi sono emersi con l’operazione ‘Mondo di mezzo’. Ne riportiamo alcuni stralci. “«Non ama farsi vedere, tanto meno parlare. Si spiega più con i gesti. Ogni passo è una frustata, ogni movimento una scarica elettrica. Una forza gelida e oscura che ti inchioda a terra e non ti fa alzare lo sguardo». Una vita all’apparenza ordinaria: nessun lusso, nessuna ostentazione, nessuna retorica. «Niente inflessioni dialettali, niente eccessi. Sempre misurato e cortese». Si muove come un’ombra, raccontano. Massimo Carminati, un’ombra che fa tremare. A lui la Roma criminale si rivolgerebbe per le primizie, per avere un’intercessione negli affari che contano. Il suo nome si sussurra. Ed è già troppo farlo. In tanti gli tributano deferenza e rispetto. Tutti ne hanno paura. Non eserciterebbe il potere direttamente, preferirebbe valutare, mediare, e solo dopo decidere. Ma se qualcuno dei suoi è toccato, saprebbe come agire. Non ha amici, solo camerati. La fratellanza politica per lui sarebbe il valore più importante. E quei camerati, come li difendeva allora fisicamente, sembra sia pronto a difenderli anche ora. Sono pochi però, quelli fidati. In nome di quel senso di appartenenza a un gruppo ristretto e a un ideale che dalla gioventù ha portato con sé nell’età adulta. Appartenenza e coraggio. Pochi valori, infrangibili, che non si discutono mai. Carminati, il nero. È stato un terrorista dei Nar e accusato di essere killer al servizio della banda della Magliana. Anello di congiunzione tra la criminalità romana ed i gruppi eversivi di estrema destra. Al centro dei misteri più controversi della Repubblica Italiana, processato per rapine e omicidi, ne è uscito quasi sempre indenne. «Uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Valerio Fioravanti l’ha descritto così. La violenza, un signum distinctionis.” “Potere che pare esplodere quando Gianni Alemanno varca la soglia del Campidoglio. Chi trent’anni fa ha condiviso la militanza nell’estremismo di destra sembra sappia di non potergli dire di no. Una famiglia con un legame più forte della parentela. Il vincolo della militanza politica, degli ideali, delle battaglie condivise, e anche dei segreti da custodire.” Gianni Alemanno oggi indagato per 416 bis. ( …) “Una corte di fedelissimi, tra cui molti ex di quella stagione di piombo, stretti ad Alemanno. Una corte di cui Carminati pare conosca ogni segreto. Le sue frequentazioni di Carminati del resto possono arrivare ovunque, lui vanterebbe sempre ottima accoglienza, da Gennaro Mokbel, prodotto glocal di una Roma oscura, a Lorenzo Cola, superconsulente di Finmeccanica, negoziatore di accordi da miliardi di euro, in rapporto con agenti segreti di tutti i continenti.”

Roma, le mani della mafia nera sulla città. L'operazione "Terra di mezzo" svela l'alleanza fra la politica, l'eversione neofascista e la criminalità comune per gestire gli affari sporchi, scrive “Panorama”. Un'alleanza di ferro fra mafia, politica, frammenti dell'estrema destra eversiva e la criminalità comune. L'ha rivelata l'operazione "Terra di mezzo", condotta ieri dai Ros e guidata dalla Procura di Roma, che ha portato all'arresto di 37 persone e ha coinvolto fra gli indagati anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, che dice: sono estraneo alla faccenda e lo dimostrerò. Obiettivo dell'offensiva la una cupola nera che ha gestito gli affari romani per anni pilotando appalti, riciclando denaro che scotta, alleandosi con i clan emergenti del litorale capitolino, con boss in odore di camorra come Michele Senese e con politici e burocrati spregiudicati e corrotti. Un'inchiesta  che è solo all'inizio ed è destinata a segnare la storia della capitale. Roma appare così come una Capitale della Mafia dove ogni affare veniva gestito dal malaffare. Dove quei personaggi finiti nei libri e nei film, come il "Nero" Massimo Carminati, ex Nar accusato di legami con la Banda della Magliana, in realtà erano attivissimi e contemporanei. L'organizzazione, dicono gli inquirenti, aveva modus operandi e radicamento propri della mafia. Col valore aggiunto criminale di un filo nerissimo che lega molti dei personaggi principali, con trascorsi nell'eversione di destra. Massimo Carminati è dunque il protagonista, guida l'organizzazione, usando minacce e violenza, e manovra il potente di turno, l'imprenditore, il professionista e il manager di Stato. Carminati di fatto gestiva un ecosistema versatile: dagli appalti all'estorsione, dall'usura al recupero crediti. Aveva contatti con manager, politici e col crimine di ogni specie: da Michele Senese, boss in odore di Camorra, alla "batteria" di Ponte Milvio che controlla i locali della movida romana, dalla potente famiglia nomade romana dei Casamonica alla spiccia criminalità di strada. L'organizzazione, secondo l'accusa, ha potuto contare anche su figure di vertice dell'amministrazione capitolina dal 2008 al 2013. Per i magistrati guidati da Giuseppe Pignatone il clan era arrivato anche all'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione a delinquere, e ai suoi uomini. In manette, nell'operazione congiunta di Ros e Guardia di Finanza, sono finiti infatti l'ex amministratore dell'Ente Eur, Riccardo Mancini (da sempre braccio destro di Alemanno) e quello dell'Ama, Franco Panzironi. I due erano "pubblici ufficiali a libro paga" che fornivano "all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". I due manager si sono adoperati anche per "lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale". Di fatto quello presieduto da Carminati è a tutti gli effetti un comitato d'affari che copriva tutti i settori produttivi della Capitale compreso il business dell'accoglienza degli immigrati e quello dei campi nomadi. Tra gli arrestati c'e' anche Luca Odevaine, già capo di gabinetto nel 2006 dell'allora sindaco di Valter Veltroni, che nella sua qualità di appartenente al Tavolo di Coordinamento Nazionale sull'accoglienza per i richiedenti e titolari di protezione internazionale ha orientato, in cambio di uno "stipendio" mensile di 5 mila euro garantito dal clan, le scelte del tavolo per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da uomini dell'organizzazione. Tra gli indagati anche tre esponenti di punta dell'attuale amministrazione capitolina: l'assessore alla casa Daniele Ozzimo e il presidente dell'assemblea capitolina Mirco Coratti, entrambi del Pd, che si sono gia' dimessi pur dichiarandosi "estranei". Indagato anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano, che domani sarà rimosso dal suo incarico. Oltre a Massimo Carminati,  tra le carte si incontrano altre conoscenze tra eversione nera e crimine. Gennaro Mokbel, ex militante nella gioventù nera romana e Marco Iannilli, commercialista, già coinvolti nella maxi truffa di 2,2 milioni di euro Fastweb-Telecom Italia Sparkle. Il fedele del sindaco Alemanno, anche lui indagato per associazione di stampo mafioso, Riccardo Mancini, ex ad di Ente Eur, già coinvolto nell'inchiesta su una presunta tangente per la fornitura di bus per il corridoio Laurentina a Roma. E poi Franco Panzironi, ex ad di Ama, coinvolto nell'ormai famosa Parentopoli della municipalizzata romana. E nell'ordinanza spunta pure il nome di Lorenzo Alibrandi, fratello dell'ex Nar Alessandro, morto nel 1981 in un conflitto a fuoco. Prima di approdare nella maxi inchiesta, gli intrecci pericolosi tra clan emergenti, politica e affari tutti romani erano emersi di recente soprattutto dalle indagini su un delitto "per caso", ovvero l'omicidio di Silvio Fanella, custode di un vero e proprio tesoro per conto della galassia nera romana. Fanella era il cassiere di Mokbel: un commando nel luglio scorso lo voleva prelevare dalla sua abitazione romana ma qualcosa andò storto e il tentativo di sequestro finì con la morte di Fanella. A capo del commando c'era un ex componente dei Nar, Egidio Giuliani. Un nome non indifferente tra gli addetti ai lavori. Ex compagno di cella del killer Pierluigi Concutelli, (condannato all'ergastolo per l'omicidio del giudice Vittorio Occorsio) e accusato di voler ricostruire gruppi eversivi di destra negli anni '90, Giuliani avrebbe avuto in passato collegamenti anche con la banda della Magliana. E nel gruppo di fuoco anche un ex di Casapound, Giovanni Battista Ceniti. Dopo l'omicidio Fanella fu ritrovato anche il tesoro: 34 sacchetti con diamanti purissimi che si sono lasciati alle spalle anche una scia di sangue fatta di omicidi e ferimenti. I diamanti, uno dei beni di lusso favoriti dal gruppo "nero" di Mokbel - secondo i magistrati - per riciclare i fiumi di denaro frutto di truffe e malaffare.

Mafia, arrestato il re di Roma Massimo Carminati. Indagato Gianni Alemanno. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione all'estorsione, dall'usura al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. E' ciò che emerge dall'inchiesta della procura di Roma che ha portato all'arresto di 28 persone. Indagini sull'ex sindaco e altri politici capitolini, scrive Lirio Abbate su  “L’Espresso”. L'arresto di Carminati Il “re di Roma” Massimo Carminati è stato arrestato nell'ambito di una grande operazione per associazione mafiosa ordinata dai pm della Procura di Roma ed eseguita dai carabinieri del Ros. Una holding criminale che spaziava dalla corruzione, per aggiudicarsi appalti, all'estorsione, all'usura e al riciclaggio, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale. Un'organizzazione radicata a Roma con a capo Massimo Carminati. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici. In cella sono finite 28 persone, ma in totale nell'inchiesta coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone, dall'aggiunto Michele Prestipino e dai sostituti Paolo Ielo, Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli, sono indagate 37 persone, fra queste anche l'ex sindaco Gianni Alemanno, accusato di reati collegati alla mafia. Indagati politici di destra e sinistra. E beni per un valore complessivo di 200 milioni di euro sono stati sequestrati agli indagati, in particolare a Carminati, che è risultato di fatto proprietario di immobili e attività commerciali intestati a prestanome. Il momento dell'arresto dell'ex terrorista dei Nar nella maxi operazione a Roma per associazione di stampo mafioso. Tra i 37 finiti in manette anche l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi e Luca Odevaine, a capo della polizia provinciale. I magistrati hanno disposto decine di perquisizioni, in particolare negli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio. I carabinieri del Ros stanno acquisendo documenti presso gli uffici della Presidenza dell'Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio. Perquisizioni negli uffici del consigliere regionale Pd Eugenio Patanè e di quello Pdl Luca Gramazio, e in Comune negli uffici del presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti, il quale in serata si è dimesso dall'incarico, dichiarandosi, tuttavia, «totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini». È un'indagine che non ha precedenti nella storia giudiziaria della Capitale, da cui emerge che Roma non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni, con la complicità di uomini della sinistra. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Per il procuratore Giuseppe Pignatone «a Roma non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città. Ci sono diverse organizzazioni mafiose. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato “mafia Capitale”, romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso». L'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini, e l'ex amministratore di Ama, Franco Panzironi, arrestati entrambi, rappresentano per i pm «pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti». I due manager si adoperavano anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all'associazione e tra il 2008 e il 2013 come garanti dei rapporti dell'associazione con l'amministrazione comunale». Per quanto riguarda un altro manager, Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell'associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiavi della pubblica amministrazione». Fra i cento indagati c'è anche il nome dell'uomo d'affari Gennaro Mokbel, accusato di tentata estorsione, avrebbe preteso dal commercialista Marco Iannilli la restituzione di circa 7-8 milioni di euro che gli aveva messo a disposizione perchè fosse investita nell'operazione Digint. Secondo i pm Mokbel già condannato a 15 anni di carcere per la truffa ai danni delle compagnie telefoniche Tis e Fastweb, ha desistito dopo l'intervento di Massimo Carminati che ha operato in difesa di Iannilli. «Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo». Lo ha detto il procuratore aggiunto di Michele Prestipino descrivendo «l'incessante attività di lobbying» dell'organizzazione criminale individuata «per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi». Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati - di un uomo fidato poi eletto. Uomini delle forze dell'ordine sono iscritti nel registro degli indagati per favoreggiamento al clan di Carminati. I pm stanno vagliando la loro posizione per comprendere il ruolo che hanno avuto nell'organizzazione di “mafia Capitale”. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. È il “patto corruttivo-collusivo” descritto dal procuratore aggiunto Michele Prestipino. «In cambio di appalti a imprese amiche venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama, municipalizzata romana dei rifiuti, per altri cinque milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. «L'organizzazione scoperta a Roma affonda le sue radici nella criminalità organizzata degli anni Ottanta, ma ha saputo riciclarsi con una duttilità sorprendente». Lo ha spiegato il comandante dei carabinieri del Ros, generale Mario Parente. «Un'evoluzione del sodalizio che però rimane sempre ancorato alle sue radici, ovvero quelle criminali».

Mafia a Roma, 37 arresti per appalti del Comune. Indagato Alemanno. Pignatone: "Gli uomini dell'ex sindaco nell'organizzazione". In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Un centinaio gli indagati, tra cui l'assessore alla Casa, Daniele Ozzimo e Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, entrambi si sono dichiarati "estranei ai fatti" e si sono dimessi. Coinvolto anche Politano, responsabile della direzione Trasparenza e Anticorruzione del Comune di Roma. Perquisizioni alla Pisana e in altre amministrazioni della Capitale. Sequestri per 200 milioni della Guardia di finanza. L'indagine ribattezzata "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi, scrivono Federica Angeli, Valeria Forgnone e Viola Giannoli su La Repubblica”. Massimo Carminati Maxi operazione a Roma per "associazione di stampo mafioso" con 37 arresti, di cui 8 ai domiciliari, e sequestri di beni per 200 milioni. Un "ramificato sistema corruttivo" in vista dell'assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate con interessi, in particolare, anche nella gestione dei rifiuti, dei centri di accoglienza per gli stranieri e campi nomadi e nella manutenzione del verde pubblico: è quanto emerso dalle indagini del Ros che hanno portato alle misure restrittive e ai sequestri da parte del Gico della Finanza. Le accuse vanno dall'associazione di tipo mafioso, estorsione, usura, corruzione, turbativa d'asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati. "Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma - ha spiegato il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, nel corso della conferenza stampa dopo la maxi-operazione - Nella capitale non c'è un'unica organizzazione mafiosa a controllare la città ma ce ne sono diverse. Oggi abbiamo individuato quella che abbiamo chiamato 'Mafia Capitale', romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso". Nello specifico, ha riferito Pignatone, "alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione. Con la nuova amministrazione il rapporto è cambiato ma Massimo Carminati e Salvatore Buzzi (presidente della cooperativa 29 giugno arrestato oggi) erano tranquilli chiunque vincesse le elezioni". Gli arresti. A capo dell'organizzazione mafiosa l'ex terrorista dei Nar, Massimo Carminati che, secondo gli investigatori, ''impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti''. L'organizzazione di Carminati è trasversale. Ne è convinto il procuratore capo di Roma Giuseppe Pignatone che sull'argomento ha precisato: "Con la nuova consiliatura qualcosa è cambiato, in una conversazione Buzzi e Carminati prima delle elezioni dicevano di essere tranquilli". Carminati diceva a Buzzi, ha spiegato Pignatone: "Noi dobbiamo vendere il prodotto, amico mio, bisogna vendersi come le puttane" e di fronte alle difficoltà presentate da Buzzi, Carminati aggiungeva: "Allora mettiti la minigonna e vai a battere con questi".

Gianni Alemanno, ex sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Ancora da verificare il ruolo che ha avuto nell'ingresso dell'associazione criminale e delle sue aziende di riferimento all'interno degli appalti più importanti assegnati dal Campidoglio.In mattinata è stata perquisita la sua casa nel quartiere Camilluccia a Roma.

Massimo Carminati, da molti considerato il vero capo della criminalità romana. Conosciuto da molti come il "Nero" del libro "Romanzo Criminale", è finito nelle pagine più oscure della storia italiana, dalla strage alla stazione di Bologna fino all'omicidio Pecorelli, processi da cui è uscito assolto.

Franco Panzironi, già indagato per la Parentopoli Ama, ora  sarebbe un altro dei personaggi chiave dell'associazione criminale. Il suo ruolo sarebbe stato quello di ponte con l'Ama e con tutti gli appalti assegnati dall'azienda romana dei rifiuti. Panzironi ha legato la sua storia recente a Gianni Alemanno. E' accusato di associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Riccardo Mancini è un altro nome chiave della vicenda. Da sempre legato all'estrema destra romana e in particolare a quella dell'Eur. Ha guidato l'Ente Eur ed è già sotto inchiesta per la tangente pagata da una società legata al Gruppo Finmeccanica per i filobus della Laurentina. E' accusato di associazione di tipo mafioso.

In carcere è finito anche Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. L'accusa parla di corruzione aggravata.

Giovanni Fiscon, attuale direttore generale dell'Ama: è stato arrestato per corruzione aggravata e turbativa d'asta.

Daniele Ozzimo, assessore capitolino alla Casa: è indagato a piede libero per corruzione aggravata. Si è dimesso dall'incarico: "Pur essendo totalmente estraneo allo spaccato inquietante che emerge dagli arresti, rimetto il mio mandato per senso di responsabilità e serietà. Una scelta sofferta perchè sono orgoglioso del lavoro portato avanti in questi mesi".

Mirko Coratti, presidente dell'assemblea capitolina: è indagato a piede libero per corruzione aggravata e illecito finanziamento. Si è immediatamente dimesso dall'ìncarico: "Sono estraneo, ho piena fiducia nel lavoro della magistratura ma mi dimetto per correttezza verso la città e l'amministrazione".

Eugenio Patanè, consigliere regionale del Pd: è indagato a piede libero per turbativa d'asta e illecito finanziamento.

Antonio Lucarelli, capo segreteria di Alemanno durante il suo mandato di sindaco: è accusato di associazione di tipo mafioso.

Luca Gramazio, consigliere regionale Pdl: è indagato a piede libero per associazione di tipo mafioso, corruzione aggravata e finanziamento illecito.

Tra gli arrestati anche altri nomi di spicco come l'ex ad dell'Ente Eur, Riccardo Mancini e l'ex presidente di Ama, Franco Panzironi: per i pm romani "pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all'organizzazione uno stabile contributo per l'aggiudicazione degli appalti". E Luca Odevaine, ex capo di gabinetto della giunta Veltroni e ora direttore extradipartimentale di polizia e Protezione civile della Provincia di Roma. Gli indagati. Fra gli indagati figura l'ex sindaco della città Gianni Alemanno, la sua abitazione è stata perquisita. "Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza - ha commentato a caldo l'ex primo cittadino - Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta. Sono sicuro che il lavoro della magistratura, dopo queste fasi iniziali, si concluderà con un pieno proscioglimento nei miei confronti". "L'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno è indagato per il reato di 416 bis, ossia l'associazione a delinquere di stampo mafioso, ma la sua posizione è ancora da vagliare - ha detto il procuratore capo Pignatone - Sugli indagati preferiamo non fare alcuna precisazione''. Pignatone ha inoltre aggiunto che l'inchiesta ''non si chiude oggi'' e che tra gli indagati ci sono anche alcuni esponenti delle forze dell'ordine che hanno agevolato l'organizzazione guidata da Massimo Carminati. Non solo. "Nel marzo 2013 nel Cda dell'Ama viene nominato con provvedimento del sindaco Alemanno un legale scelto da Carminati stesso. Lo stesso per il direttore generale di Ama e un altro dirigente operativo - ha spiegato il pm di Roma Michele Prestipino parlando dell''incessante attività di lobbying' dell'organizzazione criminale individuata "per collocare con successo manager asserviti ai loro interessi". Prestipino ha citato anche la nomina del presidente della Commissione Trasparenza del Comune di Roma e la candidatura a sindaco di Sacrofano - dove risiede Massimo Carminati, considerato capo di Mafia Capitale - di un uomo fidato poi eletto. Indagato anche l'ex capo della segreteria di Gianni Alemanno, Antonio Lucarelli. Il procuratore Giuseppe Pignatone ha riferito di un incontro tra uno dei bracci destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi e Lucarelli. "Buzzi voleva far sbloccare un finanziamento e Lucarelli non lo riceveva - ha detto - dopo la telefonata di Carminati si precita sulla scalinata del Campidoglio da Buzzi che gli dice che è tutto a posto, che ha già parlato con Massimo. Buzzi commentando questo incontro dice 'c'hanno paura di lui'". Coinvolti come indagati anche l'assessore capitolino alla Casa, Daniele Ozzimo, che ha deciso di dimettersi dalla carica pur dichiarandosi "totalmente estraneo allo spaccato inquietante emerso". Il sindaco di Roma, Ignazio Marino, ha accettato le sue dimissioni e aggiunto: "Siamo fiduciosi nel lavoro della magistratura. Ci auguriamo sia fatta piena luce su una vicenda inquietante e che sta facendo emergere l'esistenza di un sistema diffuso di illegalità ai danni della città. Questa amministrazione ha improntato il suo lavoro sulla trasparenza. Per questo apprezzo la decisione personale e il coraggio di Daniele Ozzimo che rassegnando le dimissioni, ha agito prima di tutto nell'interesse della città mettendo in secondo piano se stesso", ha detto Marino. Indagati anche il consigliere regionale Pd Eugenio Patanè, quello Pdl Luca Gramazio, e il presidente dell'Assemblea capitolina Mirko Coratti. Che si è dimesso anche lui, dopo qualche ora: "Con sconcerto ho appreso che nei miei confronti è stata aperta un'indagine giudiziaria nell'ambito di una maxi-inchiesta dai risvolti inquietanti. Nel dichiararmi totalmente estraneo a quanto emerge in queste ore dalle indagini, per correttezza verso la città e verso l'amministrazione comunale ho deciso di dimettermi dall'incarico che mi onoro di servire, rimetto pertanto da subito a disposizione dell'Assemblea capitolina che mi ha eletto la mia carica. Nell'esprimere piena fiducia nel lavoro della magistratura sono certo che dalle inchieste in corso emergerà con chiarezza la mia totale estraneità ai fatti contestati". Nei loro uffici alla Regione Lazio e in Campidoglio sono scattate le perquisizioni dei militari. Nella lista degli indagati c'è anche il responsabile della Direzione Trasparenza del Campidoglio, Italo Walter Politano: è accusato di associazione di stampo mafioso. Nominato dal sindaco Ignazio Marino il 15 novembre 2013, Politano è di fatto referente al Comune di Roma del Commissario nazionale anticorruzione Raffaele Cantone. Domani dovrebbe essere rimosso dall'incarico. Ma ci sarebbero un centinaio di nomi negli atti della Procura di Roma. Tra cui quello di Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per l'inchiesta Telecom Sparkle-Fastweb, e tre avvocati penalisti, ai quali i pm contestano il reato di concorso esterno in associazione mafiosa: avrebbero concordato con gli associati "la linea difensiva da adottare" in un procedimento in cui era coinvolto Riccardo Mancini, ex amministratore delegato dell'Ente Eur, arrestato in passato per un giro di presunte mazzette legate all'appalto per la fornitura di filobus al Comune di Roma. Tra gli indagati c'è anche Lorenzo Alibrandi, il fratello più piccolo di Alessandro Alibrandi, il terrorista dei Nar, figlio dell'ex giudice istruttore del tribunale di Roma, Antonio Alibrandi. Ci sono anche una ventina di quadri di valore tra gli oggetti sequestrati durante le perquisizioni, come ha riferito il capo dei carabinieri del Ros, il generale Mario Parente. Si tratta di quadri trovati nell'abitazione di uno degli indagati e di proprietà dello stesso Carminati che vanno da opere di Andy Warhol a Jackson Pollock. Le opere verranno ora analizzate dagli esperti. A casa di un altro indagato sono invece stati trovati 570mila euro in contanti. Appalti per decine di milioni di euro a società collegate a Massimo Carminati, considerato il capo dell'organizzazione mafiosa, in cambio di tangenti per centinaia di migliaia di euro. E' il "patto corruttivo-collusivo", secondo il pm della Direzione antimafia (Dda) di Roma Michele Prestipino, individuato dall'indagine Mondo di Mezzo. "In cambio di appalti a imprese amiche - ha detto il magistrato - venivano pagate tangenti fino a 15 mila euro al mese per anni. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo, fino a versamenti di denaro a enti e fondazioni legate alla politica romana". E tra queste "anche la fondazione creata da Alemanno". Tra gli appalti pubblici Prestipino ha citato quello del 2011 per la raccolta differenziata dei rifiuti del Comune di Roma e quello per la raccolta delle foglie. Su altri appalti dell'Ama - municipalizzata romana dei rifiuti - per altri 5 milioni di euro sono in corso approfondimenti d'indagine. E' infatti un'azione senza precedenti quella che ha messo a soqquadro Roma e il suo hinterland. Coordinata da tre pubblici ministeri  -  Luca Tescaroli, Paolo Ielo e Giuseppe Cascini  -  sotto la supervisione del procuratore capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone ha infatti smantellato un'organizzazione che racchiude almeno dieci anni di malavita. Personaggi che hanno solcato la scena della mala capitolina, come il nero Carminati ex della Banda della Magliana, ma anche politici e amministratori che hanno favorito e consentito a questo malaffare di radicarsi, di mettere le radici, di infilarsi coi suoi tentacoli ovunque. Ribaltando di netto le regole del gioco. Ricostruire la trama e gli intrecci che hanno reso possibile tutto questo malaffare è stata un'impresa titanica. C'è un'intercettazione che spiega il senso dell'organizzazione mafiosa messa su da Massimo Carminati e ha dato il nome all'indagine. "L'intercettazione per noi più significativa è questa - ha spiegato Giuseppe Pignatone - quando Carminati parlando con il suo braccio destro militare, Riccardo Brugia, gli dice 'E' la teoria del mondo di mezzo, ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi in mezzo. C'è un mondo in cui tutti si incontrano, il mondo di mezzo è quello dove è anche possibile che io mi trovi a cena con un politico...'. Carminati parla col 'mondo di sopra', quello della politica e col 'mondo di sotto', quello criminale, e si mette al servizio del primo avvalendosi del secondo al servizio del primo. La caratteristica principale di questa organizzazione sta nei suoi rapporti con la politica e nel fatto che alterna la corruzione alla violenza, preferendo la prima perché fa meno clamore". Le perquisizioni scattate all'alba hanno riguardato boss della malavita, come esponenti di noti clan di Ostia, e politici di elevato spessore a Roma. Il reato ipotizzato nei confronti degli arrestati è il 416 bis, l'associazione a delinquere di stampo mafioso. Reato per cui sono già indagate 51 persone dei clan Fasciani e Triassi di Ostia, e che a dicembre si concluderà con la sentenza di primo grado. Reato per cui a Roma, nessuno mai è stato condannato. Perché, come in un refrain, per anni si è continuato a dire che la mafia a Roma non esiste. Almeno fino a oggi. "Quello che sta emergendo è un quadro inquietante - ha commentato il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti - E' un bene che la magistratura sia impegnata a fare piena luce. Con sempre più forza bisogna proseguire, ognuno nei propri ambiti, sulla via della legalità senza se e senza ma". "E' un'inchiesta che certifica il profondo inquinamento delle istituzioni, al di là delle vicende dei singoli, e che conferma sempre di più la presenza di una cupola criminale con le mani sulla città. Il sistema mafioso corruttivo svelato oggi impegna subito chi ha responsabilità amministrative e politiche ad assumere urgenti misure nella lotta alla criminalità e alla corruzione - si legge in una nota dell'Ufficio di Presidenza di Libera - Siamo convinti che accanto alla repressione e gli strumenti giudiziari, è necessario il risveglio delle coscienze, l'orgoglio di una comunità che antepone il bene comune alle speculazioni e ai privilegi, contrastando in tutte le sedi la criminalità organizzata e i suoi complici". "Cade il velo di ipocrisia sulla città e Roma diventa Capitale delle mafie", ha commentato l'Associazione dasud che "denuncia dal 2011 gli  affari criminali a Roma con dossier e inchieste, da "Roma città di mafie" all'ebook "Mammamafia". Il welfare lo pagano le mafie". L'indagine di oggi, finalmente racconta di un patto trasversale inquietante che tiene insieme boss, imprenditori, manager, funzionari, amministratori pubblici e politici di destra e sinistra, rappresentanti del mondo dell'associazionismo e del terzo settore e descrive come ha funzionato fino a ieri il sistema degli affari a Roma, quale ruolo le mafie abbiano svolto sul degrado delle periferie,? quanta speculazione sia stata fatta sui migranti e i rom della città,? quale sistema di corruzione abbia regolato i rapporti tra imprese e pubblica amministrazione, quali relazioni pericolose regolino i rapporti tra politica e pezzi significativi della storica eversione nera e l'estrema destra di oggi. Il sodalizio con a capo Carmati come ha detto il procuratore Pignatone è solo uno dei tanti che opera  su Roma. Il negazionismo e l inerzia della politica e delle classi dirigenti sono serviti solo a farli agire indisturbati. Non è più il tempo dell antimafia di facciata, serve subito un impegno trasversale".

Ecco la "mafia Capitale": 37 arresti per appalti del Comune. Indagato anche Alemanno. Carminati, l'intercettazione che spiega la teoria del "mondo di mezzo". Un centinaio le persone coinvolte nell'operazione "Mondo di mezzo". Affari nella gestione dei rifiuti, manutenzione del verde e campi nomadi. In carcere l'ex Nar Carminati e l'ex ad dell'Ente Eur Mancini. L'ex primo cittadino: "Ne uscirò a testa alta". Tra gli inquisiti anche Politano, capo dell'anticorruzione in Campidoglio, scrive “La Repubblica”. La mafia a Roma c'è ed è autoctona. Sono le conclusioni del procuratore capo Giuseppe Pignatone che, nell'illustrare la maxi operazione "'Mondo di mezzo" che ha portato all'arresto di 37 persone per associazione mafiosa, ha parlato dell'esistenza di una "mafia capitale, tutta romana e originale, senza legami con altre organizzazioni meridionali, di cui però usa il metodo mafioso e con cui si confronta alla pari". Una mafia che "non ha una struttura precisa ma ha la capacità essenziale di creare equilibri tra mondi diversissimi tra loro". A Roma dunque in questi ultimi anni ha agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari con imprenditori collusi, con dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici, per il controllo delle attività economiche in città e per la conquista degli appalti pubblici. Ne sono convinti i magistrati della Dda della procura e i carabinieri del Ros che hanno chiesto e ottenuto dal gip Flavia Costantini l'arresto di 37 persone (29 in carcere e otto ai domiciliari) per una molteplicità di reati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione è un volto noto alla giustizia, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti". A disposizione dell'organizzazione, secondo gli investigatori, ci sono, tra gli altri, l'ex capo di Ama Franco Panzironi e l'ex amministratore delegato di Ente Eur Riccardo Mancini, soggetti che per i pm hanno fatto dal 2008 al 2013 da garante o da tramite "dei rapporti del sodalizio con l'amministrazione comunale". La lista, poi, comprende anche il manager Fabrizio Franco Testa accusato di "coordinare le attività corruttive dell'associazione" e di "occuparsi della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Tra gli indagati a piede libero (almeno 100), coinvolti negli accertamenti che porteranno sicuramente a sviluppi importanti nei prossimi mesi, ci sono anche l'ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, il commercialista Marco Iannilli, l'uomo d'affari Gennaro Mokbel e il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio. "Dimostrerò la mia totale estraneità a ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta", ha replicato Alemanno. "Chi mi conosce - ha aggiunto l'ex sindaco - sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza". Pignatone ha detto che quella di Alemanno "è una posizione ancora da vagliare".

"Soldi per le elezioni in cambio di appalti. Così Alemanno favoriva il clan dei camerati". Sindaco della capitale dal 2008 al 2013, "aveva contatti diretti e aiutava il sodalizio mafioso". Tra finanziamenti, accordi politici e nomine ai vertici delle municipalizzate, scrivono Fabio Tonacci e Maria Elena Vincenzi su “La Repubblica” L'uomo che governava Roma era nelle mani dell'uomo che la derubava. Gianni Alemanno, sindaco dal 2008 al 2013, con la "mafia capitale" di Massimo Carminati aveva "contatti diretti e ne favoriva il sodalizio". Nominando i vertici delle partecipate che la banda decideva. Riservando, a sfregio del già disastrato bilancio del Comune, denaro per alimentare l'appetito di Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative. "Senti, noi qui abbiamo rimediato quindici milioni eh", comunicava personalmente l'allora sindaco al suo capo Dipartimento servizi sociali il 23 novembre del 2012, risolvendo così il problema di finanziare l'ampliamento del campo nomadi di Castel Romano, che tanto interessava al "guercio", l'ex Nar che si è preso Roma. In cambio, ricavandone da Buzzi 75.000 euro in cene elettorali e sostegno economico alla sua fondazione Nuova Italia. Pure una claque elettorale di 50 persone, alla bisogna. Perché tutti al Comune sapevano di che pasta erano fatte le amicizie di Alemanno, ora indagato per associazione per delinquere di stampo mafioso. Carminati aveva un filo diretto con il suo più stretto collaboratore, Antonio Lucarelli, capo della segre- teria. Lo chiama al telefono, ci va a pranzo, si frequentano. Quando Buzzi, in ansia per uno sblocco di 300.000 euro, cerca un contatto, deve passare attraverso Carminati. "Mi dice  -  spiega il manager delle coop in un'intercettazione del 20 aprile 2013  -  "va in Campidoglio, alle tre, che scende Lucarelli e viene a parlare con te"... Aò alle tre meno cinque scende, dice "ho parlato con Massimo (Carminati, ndr), tutto a posto"... aò tutto a posto veramente! C'hanno paura delui ". "Ero il sindaco di Roma  -  com- menta ora Alemanno con i suoi fedelissimi  -  è facile tirarmi in ballo. C'è molto millantato credito, è in atto un tentativo di attacco politico nei miei confronti". Stando all'ordinanza del gip Flavia Costantini, Alemanno non ha rapporti diretti con Carminati. Ci fa parlare i suoi, Luca Gramazio (ex capogruppo comunale del Pdl, ora alla Regione) e Fabrizio Franco Testa, manager e "testa di ponte" tra l'organizzazione mafiosa e la politica. Sono loro a decidere, insieme a Buzzi e Carminati, chi mettere nel cda dell'Ama, la municipalizzata dei rifiuti che assegnerà infatti alle società di Buzzi tre appalti milionari finiti nell'inchiesta, relativi alla raccolta differenziata, alla raccolta delle foglie e altri lavori per 5 milioni di euro. Così Alemanno nomina Giuseppe Berti nel consiglio di amministrazione e Giovanni Fiscon alla direzione generale, "espressione diretta degli interessi del gruppo" Gente di cui il "guercio" e compagnia si possono fidare. Il 20 aprile del 2013 le microspie dei carabinieri del Ros captano la conversazione in automobile tra Salvatore Buzzi e il suo collaboratore Giovanni Campennì. I due parlano delle imminenti elezioni amministrative di Roma. "Oh l'avevamo comprati tutti ho...  -  dice Buzzi  -  se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine (Giordano, ndr) doveva stà assessore ai Servizi Sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... che cazzo voi di più...". Campennì chiede se pagasse anche l'altra parte politica, il centro sinistra da cui proviene. "No, no questo te lo posso assicurà io che pago tutti, i miei non li pago. Ma lo sai agli altri i soldi che gli do già? Anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi? ". Alemanno ha mai preso soldi dal gruppo di Carminati? Direttamente non risulta. Buzzi racconta dei 75mila euro in cene elettorali che ha sborsato. Ma ci sono anche i bonifici alla fondazione politica di Alemanno, "Nuova Italia". Il 6 dicembre 2012, "a poche settimane dall'approvazione del bilancio che avrebbe stanziato ulteriori fondi in favore del campo nomadi di Castel Fusano  -  annota il gip  -  e in concomitanza con la cena elettorale e l'aggiudicazione della gara Ama", dalle società di Buzzi partivano bonifici a Nuova Italia per 30mila euro divisi in tre assegni. Altri 5mila euro dal Consorzio "Enriches 29" il 28 novembre 2011. E ancora, il 17 aprile 2013, 15mila euro dalla cooperativa "Formula Sociale", riconducibile a Buzzi, in favore del mandatario elettorale di Alemanno, più altri 5mila nel novembre dello stesso anno. A cui si aggiungono i soldi che arrivavano attraverso Franco Panzironi, ex ad di Ama "a libro paga". Oltre al mensile di 15mila euro, lo foraggiavano con finanziamenti "non inferiori a 40mila euro" alla fondazione. Ma Buzzi, per Alemanno, non è soltanto un bancomat. Gli serve anche per mettere in scena entusiasmo elettorale. Il 9 novembre 2013 Panzironi chiama Buzzi e gli chiede di reperire "un po' di gente per fare volume" alla manifestazione organizzata dall'ex sindaco all'Adriano per il suo rientro in politica. E per sostenere la candidatura alle europee, Buzzi ha delle risorse insospettabili. "Devo fare delle telefonate? ", gli chiede Alemanno al telefono. "No, no, tranquillo, manderemo a Milardi (Claudio, fa parte dello staff dell'ex sindaco, ndr ) l'elenco di persone, nostri amici del sud, che ti possono dare una mano cò parecchi voti". Qualche giorno dopo, Buzzi spiega a sua moglie di chi parlava: "Sono 7-8 mafiosi che c'avemo in cooperativa".

Appalti e criminalità a Roma: nei verbali la mappa di Mafia Capitale. Una rete di contatti, una piovra che controlla la città: appalti, usura, estorsioni, corruzione. Tutto gira intorno a Massimo Carminati, ma tra i 37 arrestati e i centinaia di indagati ci sono nomi eccellenti della politica e para-politica, scrive Fabio Tonacci suLa Repubblica. La banda, la nuova banda di Roma. "La Mafia capitale", per dirla con le parole dei magistrati. Strutturata come una piovra che asfissia la città. Ogni uomo ha un compito, ogni compito ha un prezzo. Appalti, usura, estorsioni, corruzione. Dentro il Comune di Roma, nelle istituzioni, nelle cooperative. Amministratori "a libro paga" come Franco Panzironi, ex presidente Ama, e Carlo Pucci dirigente di Eur spa. Pubblici ufficiali "a disposizione", come Riccardo Mancini, ex presidente di Eur spa, che ha fatto da garante con l'amministrazione di Alemanno dal 2008 al 2013. La collusione con forze di polizia e servizi segreti. Un luogo: il distributore di benzina di Corso Francia, gestito da Roberto Lacopo, "base logistica del sodalizio". E tutto quest'universo criminale che ruota attorno a Massimo Carminati, l'ex nar, 56 anni. Capo, organizzatore, fornitore ai suoi sodali di schede telefoniche dedicate, reclutatore di imprenditori collusi "ai quali fornisce protezione", l'uomo che "mantiene i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali operante su Roma, nonché esponenti del mondo politico istitutzionale, con esponenti delle forze dell'ordine e dei servizi". La sua villa di Sacrofano, Carminati la intesta fittiziamente a Alessia Marini, acquistandola per 500mila euro, di cui 120 mila in contanti. Accanto a lui c'è sempre Riccardo Brugia, col quale condivide il passato di estremista di destra. Nell'organizzazione di Carminati, armata e di stampo mafioso secondo i pm di Roma, Brugia ha il compito di gestire le estorsioni, "di coordinare le attività nei settori del recupero crediti e dell'estorsione, di custodire le armi in dotazione del sodalizio", scrive il gip Flavia Costantini nelle 1249 pagine dell'ordinanza di custodia cautelare. Brugia e Carminati, tra le altre cose, sono accusati di estorsione ai danni di Luigi Seccaroni per farsi vendere il terreno in via Cassia. Ogni uomo ha un compito, dunque. Ad esempio Fabrizio Franco Testa, manager, e presidente di Tecnosky (Enav) e uomo di Alemanno ad Ostia. "Lui è la testa di ponte dell'organizzazione nel settore politico e istituzionale, coordina le attività corruttive dell'associazione, si occupa della nomina di persone gradite all'organizzazione in posti chiave della pubblica amministrazione". Oppure Salvatore Buzzi, l'uomo della rete di cooperative. Amministratore delle coop riconducibili al gruppo Eriches-29 giugno, affidatarie di appalti da parte di Eur Spa, gestisce per conto della banda Carminati le attività criminali nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi e rifugiati, della manutenzione del verde pubblico, settori "oggetto delle gare pubbliche aggiudicate anche con metodo corruttivo". Si occupa anche - secondo i pm - della contabilità occulta dell'associazione. Sullo sfondo una pletora di imprenditori collusi, in primo piano, invece Franco Panzironi. Nel suo ruolo di componente del consiglio di amministrazione e amministratore delegato di Ama spa dal 2008 al 2011, ha del tutto "asservito la sua qualità funzionale". Nelle carte ci sono tutti gli addebiti a suo carico: violando il segreto d'ufficio, violando il dovere di imparzialità nell'affidamento dei lavori, ha preso accordi con Buzzi "per il contenuto dei provvedimenti di assegnazione delle gare prima della loro aggiudicazione". Panzironi è accusato anche di averla turbata, quella gara. L'appalto è quello della raccolta delle foglie per il comune di Roma, 5 milioni di euro. Per la sua attività di "agevolazione dell'associazione mafiosa di Carminati" nel tempo ha ricevuto, per sé e per la sua fondazione Nuova Italia, 15.000 euro al mese dal 2008 al 2013, 120.000 euro in una tranche (il 2,5 per cento dell'appalto assegnato da Ama), la rasatura gratuita del prato di casa, e finaziamenti non inferiori a 40.000 euro per la sua fondazione. Per dire come funzionavano le cose al Campidoglio, basta leggere le accuse che vengono fatte a Claudio Turella, funzionario del Comune di Roma e responsabile della programmazione e gestione del Verde Pubblico: per compiere atti contrari ai suoi doveri di ufficio nella assegnazione dei lavori per l'emergenza maltempo, la manutenzione delle piste ciclabili e delle ville storiche, "riceveva da Buzzi, il quale agiva previo concerto con Carminati e in accordo con i suoi collaboratori, 25.000 euro per l'emergenza maltempo, la promessa di 30.000 euro per le piste ciclabili, più la promessa di altre somme di denaro". Nel calderone degli arresti c'è anche Luca Odevaine, ex vice capo di gabinetto di Veltroni. Nella sua qualità di appartenente al Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza dei rifugiati, dunque pubblico ufficiale, "orientava le scelte del Tavolo al fine di creare le condizioni per l'assegnazione dei flussi di immigrati alle strutture gestite da soggetti economici riconducibilia Buzzi e Coltellacci", "effettuava pressioni finalizzate all'apertura di centri in luoghi graditi al gruppo Buzzi". E per questo "riceveva 5.000 euro mensili in forma diretta e indiretta da Coltellacci e Buzzi". Con l'aggravante di aver agevolato la banda di Carminati. Infine Gennaro Mokbel, che finisce in questa inchiesta con l'accusa di estorsione, perché "mediante violenza e minacce" voleva costringere Marco Iannilli a restituire 8 milioni di euro "comprensiva dell'attesa remunerazione, consegnatagli un anno prima per investirla nell'"operazione Digint"". E qui è intervenuto Carminati il quale, su richiesta della vittima, "la proteggeva da Mokbel". Faceva anche questo, Carminati. Il protettore.

Mafia e politica: perquisizioni, arresti Indagato anche ex sindaco Alemanno. In corso perquisizioni tra uffici di consiglieri della Regione Lazio, uffici del Campidoglio e abitazione dell’ex primo cittadino. Notificati 37 ordini di custodia cautelare, scrivono la Redazione Online, Lavinia Di Gianvito e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Pedinamenti, intercettazioni e verifiche sui flussi di denaro. Si sono mosse su un doppio binario le indagini del Ros dei carabinieri e del Nucleo tributario della Finanza sfociate, mercoledì mattina, in 37 arresti, decine di perquisizioni - comprese la Regione, il Campidoglio e 24 aziende - e la notifica di 39 avvisi di garanzia. È l’inchiesta «Mondo di mezzo», che nel legare gli affari di politici, malavitosi e manager ipotizza l’associazione a delinquere di stampo mafioso, a cui sono da aggiungere altri reati come la corruzione, l’estorsione e il riciclaggio. Sono stati circa 500 i carabinieri del Comando provinciale di Roma impiegati nelle perquisizioni, più i militari del gruppo cacciatori di Calabria, elicotteri e unità cinofile. Le Fiamme gialle, al comando del colonnello Cosimo Di Gesù, hanno controllato 350 posizioni tra persone fisiche e società e hanno bloccato 205 milioni frutto del reimpiego di capitali illeciti, senza calcolare i conti correnti e il contenuto delle cassette di sicurezza. In due abitazioni dell’ex Nar Massimo Carminati, finito in carcere, sono stati sequestrati 50 quadri di enorme valore: fra gli autori Andy Warhol e Jackson Pollock. L’imprevista scoperta potrebbe aprire un nuovo filone d’inchiesta poiché, spiega il comandante del Ros, il colonnello Mario Parente, «possono essere riconducibili a un traffico di opere d’arte». Nella lista dei 37 arrestati compaiono il direttore generale dell’Ama Giovanni Fiscon, gli ex amministratori delegati dell’ Ama Franco Panzironi (coinvolto anche nello lo scandalo Parentopoli) e di Eur spa Riccardo Mancini (già rinviato a giudizio per le tangenti sui filobus), l’ex capo della polizia provinciale Luca Odevaine, che è stato anche a vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni.Tra gli indagati ci sono l’assessore alla Casa Daniele Ozzimo, il presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti (entrambi dimissionari), il responsabile della direzione Trasparenza del Campidoglio Italo Walter Politano (che domani sarà rimosso dal suo incarico), i consiglieri regionali Eugenio Patanè e Luca Gramazio, l’ex sindaco Gianni Alemanno («foraggiata», secondo gli inquirenti, anche la sua fondazione Nuovaitalia) e i suoi fedelissimi Antonio Lucarelli e Stefano Andrini. E poi tre avvocati, fra cui Pierpaolo Dell’Anno, alcuni appartenenti alle forze dell’ordine accusati di favoreggiamento e il faccendiere Gennaro Mokbel, già condannato in primo grado per la truffa a Fastweb e Telecom Sparkle . «Con questa operazione abbiamo risposto alla domanda se la mafia è a Roma. La risposta è che Roma la mafia c’è e dimostra originalità e originarietà», sottolinea il procuratore Giuseppe Pignatone. Lo scorso sabato 30 novembre, all’assemblea dei democratici, Pignatone aveva ammonito: «Corrotti e mafia, patto che fa paura» riferendosi al mondo politico romano. Quel giorno nessuno aveva compreso che gli inquirenti stavano tirando le fila di un’inchiesta durata oltre due anni, che disegna una holding criminale capace di aggiudicarsi gli appalti per i rifiuti, le piste ciclabili, i punti verdi qualità, la raccolta delle foglie, la realizzazione dei villaggi nei campi nomadi, l’assegnazione dei flussi di immigrati. Al vertice dell’organizzazione, secondo la Direzione distrettuale antimafia, c’era Carminati, che con le sue società avrebbe incamerato commesse per decine di milioni. «In cambio - spiega il capo della Dda, Michele Prestipino - sono state pagate per anni tangenti fino a 15 mila euro al mese. Ma anche centinaia di migliaia di euro in un solo colpo». Odevaine, per esempio, avrebbe avuto uno «stipendio» mensile di cinquemila euro. Carminati, sostengono gli inquirenti, «manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell’ordine e ai servizi segreti». Il procuratore ricorda una conversazione tra Carminati e il suo braccio destro, Salvatore Buzzi: «Dobbiamo vendere il prodotto amico mio. Bisogna vendersi come le puttane adesso. Mettiti la minigonna e vai a battere con questi amico mio». Dopo le ultime elezioni comunali «qualcosa è cambiato», precisa Pignatone, tuttavia in un’intercettazione «Carminati con i suoi collaboratori dicono: “Siamo tranquilli abbiamo amici”». Nell’ordinanza firmata dal giudice Flavia Costantini si legge: «Allo stato dell’indagine può essere affermato con certezza che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno e il suo entourage politico e amministrativo da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati dall’altro. Dinamiche relazionali che avevano a oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Quanto a Mancini e Panzironi, stando all’accusa, rappresentano «i pubblici ufficiali a libro paga che forniscono all’organizzazione uno stabile contributo per l’aggiudicazione degli appalti». I due manager si sarebbero dati da fare anche per «lo sblocco dei pagamenti in favore delle imprese riconducibili all’associazione» e tra il 2008 e il 2013 come «garanti» dei rapporti dell’organizzazione con il Campidoglio. Il manager Fabrizio Franco Testa, invece, per i magistrati è «una testa di ponte» del gruppo «nel settore politico e istituzionale, coordinando le attività corruttive dell’associazione e occupandosi della nomina di persone gradite al sodalizio in posti chiave della pubblica amministrazione». L’ex sindaco di Roma, nel dichiararsi fiducioso nel lavoro della magistratura, precisa in una nota: «Chi mi conosce sa bene che organizzazioni mafiose e criminali di ogni genere io le ho sempre combattute a viso aperto e senza indulgenza. Dimostrerò la mia totale estraneità». E annuncia: «Dimostrerò la mia totale estraneità ad ogni addebito e da questa incredibile vicenda ne uscirò a testa alta». Per il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, «quello che sta emergendo è un quadro inquietante». Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso degli affitti pilotati alla Pisana, una nuova «puntata» giudiziaria sembra travolgere le istituzioni della Capitale. Proprio mentre scattavano le perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente da 1,8 milioni di euro che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.

«Mafia capitale», la strana piovra che avvolge la politica debole di Roma. Lo choc di una città che si ritrova in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, scrive  iovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Nel quadro dipinto dalla Procura antimafia di Roma e dai carabinieri del Ros, l’immagine che traspare è quella di una piovra che ha avvolto la Capitale attraverso i suoi tentacoli, arrivando fino al Campidoglio. Con i politici – l’ex amministrazione di centro-destra, e qualche propaggine che sostiene la nuova – al servizio di un gruppo in grado piegare la politica e l’imprenditoria ai propri interessi. Un gruppo criminale chiamato “Mafia capitale”, perché si avvale del metodo mafioso nell’intimidazione e nel condizionamento dei pubblici poteri. In maniera diversa da come si muovono le cosche dei Cosa nostra in Sicilia o quella della ‘ndrangheta in Calabria e in Lombardia, ma ugualmente pervasiva. Un sistema messo in piedi da un ex militante della destra sovversiva degli anni Settanta, Massimo Carminati, poi passato ai rapporti con la malavita comune, che può contare – secondo l’accusa - anche sul “carisma criminale” guadagnato in decenni di cronache giudiziarie e processi andati per lo più a buon fine (per lui), e da un imprenditore legato al mondo delle cooperative: Salvatore Buzzi, anche lui ex detenuto che proprio in carcere, trent’anni fa, ha cominciato a intessere relazioni con l’esterno grazie alle occasioni di reinserimento offerte ai condannati; e oggi gestisce, stando alle carte degli inquirenti - «le attività economiche» di mafia capitale, occupandosi «della contabilità occulta e dei pagamenti ai pubblici ufficiali corrotti». Una città in mano a un ex estremista nero e a un ex detenuto, insomma. Almeno nel disegno dei pubblici ministeri e del giudice che ha concesso gli arresti. Accuse da provare, ovviamente, ma dalle quali emerge già, con nettezza, la debolezza della politica cittadina e amministrativa che si lascia quantomeno tentare e influenzare, nelle sue scelte, da metodi e interessi poco commendevoli. Nella capitale d’Italia.

«L’ho comprato, gioca per me». La rete che arruolava i politici. I boss cambiavano perfino il bilancio. «Cosentino (Pd) è amico nostro», scrive Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. In ogni posto chiave avevano sistemato una persona fidata. Aziende municipalizzate, assessorati, persino il bilancio del Campidoglio erano in grado di modificare. Per riuscire a controllare le commissioni Trasparenza e Anticorruzione hanno fatto carte false, forse convinti che questo li avrebbe salvati. È una rete di potere autentico quella creata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, «inserendo nei ruoli decisionali della pubblica amministrazione uomini che, per ragioni diverse di affiliazione o di subordinazione, rispondono direttamente al sodalizio, non sempre con una piena consapevolezza delle sue caratteristiche». Quando Gianni Alemanno cede la guida di Roma a Ignazio Marino, si concentrano sugli esponenti del Pd che potevano mettersi a disposizione in cambio di favori e tangenti. E riescono ad agganciarli. Nelle intercettazioni che fanno da filo conduttore alle indagini dei carabinieri del Ros guidati dal generale Mario Parente, si parla di appuntamenti chiesti al vicesindaco Luigi Nieri, di incontri con il capo di gabinetto Mattia Stella. Mentre Eugenio Patanè avrebbe preso soldi per «pilotare» appalti alla Regione, del senatore del Pd Lionello Cosentino, segretario della federazione Pd romana, dicono: «È proprio amico nostro». Ad Alemanno, dipinto dalle carte dell’accusa quasi come un burattino nelle loro mani, pagano le cene elettorali oltre ai contanti versati alla sua Fondazione «Nuova Italia» e portano «comparse» per la claque ai comizi. A far da «cerniera» ci pensa spesso l’assessore Luca Gramazio. Ma alla vigilia delle amministrative di giugno 2013, quando lui tentenna sulla concessione di una proroga alle cooperative, il ricatto di Buzzi è esplicito: «Me la proroghi a sei mesi, arrivi a dopo le elezioni... se li famo tutti in santa pace, qui c’hai pure gente che ti vota... così ci costringi a fare le manifestazioni». Riccardo Mancini, amministratore delegato di Eur spa è sempre stato uno dei personaggi di riferimento, «espressione dell’amministrazione comunale avendo gestito le campagne elettorali di Alemanno ed essendo considerato una sorta di plenipotenziario nella gestione dei rapporti con gli imprenditori, soprattutto nel settore trasporti». È quello che «deve passa’ i lavori buoni». Quando finisce sotto inchiesta Buzzi racconta: «Lo semo annati a pija’, gli amo detto cioè “o stai zitto e sei riverito o se parli poi non c’è posto in cui te poi anda’ a nasconde’‘». Regolarmente stipendiato con 15 mila euro mensili è Franco Panzironi, ex amministratore delegato di Ama spa, «indicato quale reale dominus della stessa municipalizzata, nonostante non rivestisse più nessun incarico formale». Buzzi è categorico: «M’ha prosciugato tutti i soldi Panzironi... dovevo daje un sacco de soldi, 15 mila euro, gli ultimi glieli do oggi e poi ho finito». Con la giunta Alemanno il controllo dell’Ama è totale. Quando arriva Marino, l’organizzazione si attrezza. E in vista della gara per la raccolta del Multimateriale Buzzi appare sicuro: «I nostri assi nella manica per farci vince la gara dovrebbero essere la Cesaretti per conto di Sel, Coratti che venerdì ce vado a prende un bel caffè e metto in campo anche Cosentino». Parlando del presidente dell’assemblea capitolina Mirko Coratti, Buzzi dice «me lo so’ comprato, ormai gioca con me», e il 23 gennaio 2014 racconta di avergli «promesso 150 mila euro se fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale». L’8 aprile invia un sms a Mattia Stella: «Sono da Coratti». Lui lo chiama immediatamente: «Oh Salvato’ io sto giù da me». Buzzi è pronto: «Appena finisco da Coratti, scendo giù da te». Del resto con i collaboratori più stretti era stato esplicito: «Sto’ Mattia lo dobbiamo valorizzare, lo dobbiamo lega’ di più a noi». Luca Odevaine, vicecapo di gabinetto del sindaco Walter Veltroni, viene ritenuto un esponente dell’organizzazione e infatti Buzzi conta sulla possibilità che diventi capo di gabinetto di Marino «così ci si infilano tutte le caselle... qualche assessore giusto... ci divertiremo parecchio». L’interesse dell’organizzazione a orientare la politica è palese sin dalla scelta del candidato sindaco. A ottobre 2012 Carminati si informa con Buzzi: «Come siete messi per le primarie?» e lui risponde: «Stiamo a sostene’ tutti e due... avemo dato 140 voti a Giuntella e 80 a Cosentino che è proprio amico nostro». In realtà a novembre Buzzi annuncia: «Noi oggi alle cinque lanciamo Marroni alle primarie per sindaco eh!». Il possibile cambio in giunta era per loro un’ossessione e il 22 gennaio 2013, analizzando ogni possibilità dice: «È vero, se vince il centrosinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene». Marroni diventa deputato del Pd mentre l’altro «amico» Daniele Ozzimo è nominato assessore alla Casa. Tutti restano comunque inseriti nella «rete» che ha continuato a garantire affari e potere.

Carminati, il "Nero" interpretato da Scamarcio, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gioventù bruciata, vecchiaia maledetta. C'è da chiedersi che cosa attragga di più della trasgressione senza rimedio, che cosa porti a decidere un giorno di buttare al macero la tua vita in un bar dell'Eur chiamato il «Fungo». Era lì che Massimo Carminati, il «Nero» di Romanzo criminale interpretato da Riccardo Scamarcio, milanese piombato nella Capitale negli anni Settanta con la famiglia, incontrò il suo destino. Assieme a nomi al pari suo passati alla storia del terrorismo nero, prima Avanguardia nazionale poi Nar, amici di sangue come Valerio Giusva Fioravanti, Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi. Lì, in quel fasullo mondo di pulizia medio-altoborghese, e poi al bar Fermi e in quello di via Avicenna, Massimo frequenta gli esponenti più in vista della banda della Magliana, e vi si lega a filo doppio. In quei giardinetti verdi nasce una strategia del terrore che si trasforma via via in malavita ordinaria e quotidiana, scelta che costa a Carminati un occhio, l'uso di una gamba, quella sinistra, il soprannome di «Cecato», quando la mattina del 20 aprile dell'81 sta cercando di fuggire in Svizzera, e di lì in Spagna. Di quella metamorfosi inesorabile che i neofascisti cresciuti nel quartiere di Monteverde subiscono, diventando delinquenti, Carminati diventa snodo centrale e rispettato, anche in virtù dei suoi stretti rapporti con i boss Giuseppucci e Abbruciati. Rapine, omicidi, attentati ai treni, la morte di Pecorelli: negli anni bui d'Italia il nome del Guercio è una certezza: finisce alla sbarra, spesso senza un adeguato impianto accusatorio, ne esce sempre assolto. La condanna a dieci anni arriverà invece solo nel '98 nel processo che vedrà alla sbarra l'intera banda della Magliana. Per il Nero comincia un altro dei suoi tunnel maledetti.

Carminati, dai neri alla Magliana: «Sono il Re, vedi che gli combino». Un imprenditore legato al gruppo dell’ex terrorista: «Io qui sono diventato intoccabile», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Quando lo arrestarono la prima volta mentre tentava di attraversare il confine tra Italia e Svizzera, nel 1981, dopo che un poliziotto gli sparò un colpo di pistola che gli fece perdere un occhio, faticarono a identificarlo. Perché aveva addosso un documento falso, e perché il suo vero nome era uno dei tanti estremisti di destra ricercati, niente più. Oggi, trentatré anni e qualche vita dopo, quello stesso nome è sufficiente a fare paura come l’identità di un boss, utile a incutere timore e rispetto insieme. Al pari dei soprannomi derivati dalla pallottola conficcata nell’occhio: «Il Cecato» o «Il Pirata». È quel che sostengono gli inquirenti a proposito di Massimo Carminati, 56 anni compiuti a maggio, l’ex militante dei Nuclei armati rivoluzionari poi transitato armi e bagagli dalle parti della banda della Magliana, rimanendo coinvolto - e riuscendo a uscirne pulito, il più delle volte, o con pochi danni - nelle vicende criminali più clamorose: dall’omicidio del giornalista Mino Pecorelli (assolto in tutti i gradi di giudizio) al furto consumato nel caveau del tribunale di Roma nel 1999 (condanna ridotta a quattro anni), passando per altre vicende più o meno misteriose. Un altro ex sovversivo «nero» degli anni Settanta arrestato nell’operazione di ieri (ce ne sono diversi, anche se ormai l’ideologia e la politica c’entrano poco e niente; sembra più una questione di soldi, e di metodi per accaparrarne) racconta in un colloquio intercettato che quando lo arrestarono per una rapina nel 1994, nella quale era rimasto ferito, appena arrivato a Regina Coeli tutti gli offrirono assistenza e solidarietà in virtù della sua amicizia con Carminati; «anche persone che, non conoscendo, però sapevano». Perfino l’averla quasi sempre scampata nei tribunali, o comunque essersela cavata con pene leggere, secondo gli inquirenti contribuisce ad accrescere il mito dell’impunità e quindi del potere sotterraneo che riesce a esercitare. Il resto l’hanno fatto alcuni articoli di rotocalco dove veniva definito (insieme ad altri) il «Re di Roma», e lui stesso commentava: «Sul nostro lavoro... sono pure cose buone... Se sentono tranquilli», riferito alle persone con cui aveva rapporti. Oppure, quando c’era da sfruttare l’aura di duro con chi doveva adeguarsi alle sue indicazioni: «Sennò viene qua il Re di Roma... tu sei un sottoposto... è il Re di Roma che viene qua... entro dalla porta principale... vede io che gli combino». Sia quando militava nelle file della destra sovversiva, sia nei rapporti con i banditi della Magliana (in particolare Franco Giuseppucci, boss con simpatie neofasciste), Carminati si è mostrato attento a mantenere un ruolo autonomo, amico che non tradisce gli amici e fa valere più il vincolo personale che quello politico o di «batteria». Pronto a usare metodi maneschi e «convincenti», abituato a parlare poco e apprezzare chi parla poco, rispetto a quelli che vantano rapporti altolocati. Consapevole del proprio ruolo e della propria capacità intimidatoria ma anche imprenditoriale, attento agli affari e a nuove forme d’investimento attraverso persone fidate. Come Salvatore Buzzi, l’imprenditore delle cooperative che - nella ricostruzione dell’accusa - gli gestiva buona parte dei soldi ed è divenuto il suo principale socio occulto. «È uno di quelli cattivi -, dice a proposito di Carminati uno degli imprenditori collusi con la presunta associazione mafiosa -. Questi c’hanno i soldi pe’ fà una guerra, ai tempi d’oro hanno fatto quello che hanno fatto... Quando te serve una cosa vai da lui, non è lui che viene da te». E chi poteva godere della sua protezione si sentiva come un altro imprenditore legato al gruppo di Carminati: «Non me può toccare manco Gesù Cristo... cioè qui... io qui a Roma sono diventato intoccabile».

"Li compriamo tutti. Se vinceva Alemanno saremmo stati a posto. Proviamoci con Marino". Salvatore Buzzi come punto di raccordo tra gli interessi di Carminati e la politica. Il suo ruolo chiave emerge dalle intercettazioni a ridosso delle elezioni 2013. L'uomo delle coop autocollocato "a sinistra" si vantava del suo potere di persuasione. Una "vocazione corruttiva" che secondo i magistrati non aveva distinzioni di colore, scrivono Mauro Favale e Giovanna Vitale su “La Repubblica”. "Me li sto a comprà tutti", si vantava al telefono Salvatore Buzzi, uomo chiave dell'inchiesta, figura centrale e di raccordo tra gli interessi di Massimo Carminati e la politica. Era lui, da uomo delle cooperative che si auto-collocava "a sinistra", a gestire le attività economiche della associazione nei settori della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della accoglienza dei profughi, della manutenzione del verde pubblico. Nella sua rete, secondo le indagini, finiscono politici di centrodestra e di centrosinistra, senza particolari distinzioni di colore. Durante la campagna elettorale per le elezioni del 2013, quando le quotazioni di Gianni Alemanno vengono date in discesa, si esprime così al telefono con Emilio Gammuto, figura "tra le più attive  -  scrive la gip Flavia Costantini  -  sul versante della corruzione".

Buzzi: "Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, partivamo fiuuuu (fonetico intendendo partiamo a razzo, ndr.). C'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva stà assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde. Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno... Che cazzo voi di più?".

Ma quella che i magistrati definiscono "vocazione corruttiva", per Buzzi non ha barriere politiche. A suo dire è in "trattative corruttive" anche con l'amministrazione Marino. Dall'altra parte del telefono c'è sempre Gammuto.

Buzzi: "E mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino".

Gammuto: "Va bè mò, Marino tramite Luigi Nieri".

Buzzi: "Ma Nieri, è entrato Nieri?".

Gammuto: "Non lo so".

Buzzi: "Cazzo ne sai? Noi c'avemo Ozzimo, quattro: Ozzimo, Duranti, Pastore e Nigro".

L'ex assessore alla Casa della giunta Marino, indagato per corruzione, si è dimesso ieri, dichiarandosi "estraneo ai fatti". Nelle chiacchiere tra gli arrestati contenuti nell'ordinanza del gip viene a più riprese definito "un amico", tanto che Buzzi confessa ad Alemanno di aver dato indicazioni di un voto disgiunto alle elezioni "Ozzimo-Alemanno".

Alemanno: "Pronto?".

Buzzi: "Gianni come stai?".

Alemanno: "Allora? Ma è vera 'sta storia del disgiunto?".

Buzzi: "Facciamo il disgiunto, facciamo. Ozzimo ed Alemanno". (ride)

Alemanno: "Eh, questo mi onora molto".

Buzzi: "No, ma non se fa più".

Alemanno: "Mi onora molto".

Buzzi: "Non lo possiamo dire, però. Mi raccomando, eh". (ride).

Alemanno: "Come?"

Buzzi: "Non lo possiamo dire".

Alemanno: "No, no. Vabbè, vabbè. Poi, ma poi si nota. Per cui, vediamo dopo. Però mi raccomando eh! Fate i bravi ragazzi".

Buzzi: "Per me vinci. Per me gliela fai, gliela fai".

Alemanno: "Sì, sì. Penso, penso di sì e siamo in recupero. Poi, ovviamente bisogna vedere, non bisogna mai sottovalutare l'avversario. Va bene".

Sempre per quanto riguarda i legami con l'amministrazione Alemanno, risulta che attraverso alcune sue società, Buzzi avrebbe pagato due cene elettorali all'ex sindaco attraverso la Fondazione Nuova Italia. Non solo: su richiesta di Franco Panzironi, ex ad di Ama, Buzzi recupera 50 uomini per formare una claque elettorale nel corso della campagna elettorale di dell'ex sindaco. L'uomo delle cooperative, inoltre, è in ottimi rapporti anche con Luca Gramazio, attuale capogruppo di Fi in Regione e, all'epoca, presidente dei consigliere comunali del Pdl. Secondo il gip "le indagini hanno delineato un quadro indiziario tale da indurre ad ipotizzare che Gramazio possa essere un collegamento dell'organizzazione con il mondo della politica e degli appalti". Gramazio, oltre ad avere una costante frequentazione direttamente con Massimo Carminati, il leader del gruppo, è anche la figura incaricata di collocare all'interno dell'amministrazione "soggetti che esprimevano gli interessi dell'associazione, quali Berti, Fiscon e Quarzo". Si interessa alle vicende relative agli appalti per il campo nomadi di Castel Romano e, soprattutto, per recuperare le risorse necessarie nonostante l'assenza di fondi nel bilancio comunale 2013. "Una trama di rapporti che, secondo le conversazioni che sono state indicate a proposito della corruzione di Turella, relativa allo stanziamento per le piste ciclabili, lo avrebbe visto remunerato con la somma di almeno 50.000 euro", scrive la gip. Quando l'amministrazione cambia colore, l'organizzazione criminale non si scoraggia e riesce a "reclutare" anche rappresentanti del centrosinistra. In particolar modo l'abboccamento funziona con Mirko Coratti, Pd, presidente dell'Aula Giulio Cesare, anch'egli ieri dimessosi dopo l'avviso di garanzia, accusato di aver intascato una tangente da 150.000 euro. L'intercettazione tra Buzzi e Claudio Caldarelli (suo collaboratore) è esplicativa.

Caldarelli: "Vabbè, ricordate sta cosa: so un milione e 8, è importante. Perché è politica la scelta al di là...".

Buzzi: (a bassa voce:) "Oh, me sò comprato Coratti".

Caldarelli: "Eh, ricordate da diglielo".

Buzzi: "Lui sta con me. Gioca con me ormai".

Caldarelli: "Eh, ricordateglie de questo perché... ".

Buzzi: "Oh ma che sei peggio de lui, ce vado venerdì a pranzo ma che sei rincoglionito. Ma che cazzo, non cambi mai, sempre la stessa cosa".

Caldarelli ride.

Buzzi: "E che cazzo, che me so rincoglionito, poi non tutte riescono però uno ce prova, eh (ride). Gliel'ho detto: "Guarda, lo stesso rapporto che c'abbiamo con Giordano lo possiamo aver con te. M'ha capito subito. Poi però il problema è che lui non so quanto a quanta gente c'ha... mentre con Giordano semo... Quando io gl'ho detto tutto lui non m'ha detto no. M'ha detto ci vediamo a pranzo venerdì. Più de questo, che me deve di'? Al capo segreteria suo noi gli diamo 1000 euro al mese. Sò tutti a stipendio Cla'. Io solo per metteme a sede a parlà con Coratti 10 mila gli ho portato". L'arruolamento di Coratti e del suo capo segreteria, secondo gli inquirenti, ha tre obiettivi: "L'aggiudicazione del bando di gara AMA n. 30/2013 riguardante la raccolta del multimateriale; lo sblocco dei pagamenti sui servizi sociali forniti al Comune di Roma; la nomina di un nuovo direttore del V Dipartimento, in sostituzione della neo incaricata Gabriella Acerbi, ritenuta persona poco disponibile". Per provare a condizionare la giunta Marino, Buzzi stringe i legami anche con Mattia Stella, capo segreteria di Marino, che non risulta indagato ma che gli arrestati provano a blandire. "Eloquente nel senso della costruzione di un rapporto privilegiato con Stella  -  scrive la gip  -  è la conversazione nella quale Buzzi chiamava Carlo Guarany, lo informava che prima sarebbe andato in Ama e successivamente presso il "Gabinetto per incontrare Mattia". In questa conversazione si sottolinea la necessità di "valorizzare Mattia e legarlo di più a noi". Gli interessi di "mafia capitale" si rivolgono anche alla Regione. E lì, col cambio di giunta agganciano Eugenio Patanè, consigliere Pd. Anche lui sarebbe coinvolto, secondo la procura, nell'appalto Ama del 2013 per il quale sarebbe stato pagato con una tangente più bassa rispetto alle richieste. Lo spiega Buzzi intercettato al telefono con la sua compagna Alessandra Garrone.

Buzzi: "Noi dovremmo dare a Patanè per la gara che abbiamo vinto...".

Garrone: "122 euro".

Buzzi: "122 euro e non esiste proprio. Non esiste che quelli hanno chiesto i soldi a Patanè. 120.000 euro, 120 noi e 120... hai capito come funziona?"

Garrone: "Ho capito".

In un'altra intercettazione, questa volta ambientale, Buzzi spiega meglio il sistema ai suoi interlocutori.

Buzzi: "Noi a Panzironi che comandava gli avemo dato 2,5%, 120 mila euro su 5 milioni. Mo damo tutti 'sti soldi a questo?".

A insistere per i soldi a Patanè è Franco Cancelli, della cooperativa Edera, finito ai domiciliari.

Buzzi: "Lui mi dice "ah però bisogna da'" e alla fine dice, "la differenza sarebbero 10 mila euro" perché ne vorrebbe subito 60 e gliene toccherebbero 50, dice. Ho fatto "oh, guarda che il problema però è la tua aggressività. Perché se Patanè garantisce, non c'avemo problemi".

I quattro re di Roma. Carminati, Fasciani, Senese e Casamonica. Ecco i boss che si sono spartiti il controllo della città. Mettendo a freno omicidi e fatti di sangue troppo eclatanti per garantire il silenzio sui propri traffici, scrive Lirio Abbate “L’Espresso”. Non ama guidare e preferisce spostarsi a piedi o cavalcando uno scooter. Nessun lusso negli abiti, modi controllati e cortesi: in una città dove tutti parlano troppo, lui pesa le parole ed evita i telefonini. Sembra un piccolo borghese, perso tra la folla della metropoli, ma ogni volta che qualcuno lo incontra si capisce subito dalla deferenza e dal rispetto che gli tributano che è una persona di riguardo. Riconoscerlo è facile: l'occhio sinistro riporta i segni di un'antica ferita. Il colpo di pistola esploso a distanza ravvicinata da un carabiniere nel 1981: è sopravvissuto anche alla pallottola alla testa, conquistando la fama di immortale. Anche per questo tutti hanno paura di lui. Ed è grazie a questo terrore che oggi Massimo Carminati è considerato l'ultimo re di Roma. La sua biografia è leggendaria, tanto da aver ispirato "Il Nero", uno dei protagonisti di "Romanzo criminale" interpretato sullo schermo da Riccardo Scamarcio. È stato un terrorista dei Nar, un killer al servizio della Banda della Magliana, l'hanno accusato per il delitto Pecorelli e per le trame degli 007 deviati, l'hanno arrestato per decine di rapine e omicidi. Come disse Valerio Fioravanti, «è uno che non voleva porsi limiti nella sua vita spericolata, pronto a sequestrare, uccidere, rapinare, partecipare a giri di droga, scommesse, usura». Sempre a un passo dall'ergastolo, invece è quasi sempre uscito dalle inchieste con l'assoluzione o con pene minori: adesso a 54 anni non ha conti in sospeso con la giustizia. Ma il suo potere è ancora più forte che in passato. Il nome del "Cecato" viene sussurrato con paura in tutta l'area all'interno del grande raccordo anulare, dove lui continua a essere ritenuto arbitro di vita e morte, di traffici sulla strada e accordi negli attici dei Parioli. L'unica autorità in grado di guardare dall'alto quello che accade nella capitale. "L'Espresso" è riuscito a ricostruire la nuova mappa criminale di Roma tenuta in pugno da quattro figure, con un ruolo dominante di Carminati. Lo ha fatto grazie alle rivelazioni di fonti che hanno conoscenza diretta dei traffici che avvengono all'interno della metropoli e a cui è stato garantito l'anonimato. Queste informazioni sono state riscontrate e hanno permesso di ricostruire un quadro agghiacciante della situazione. Il business principale è la cocaina: viene spacciata in quantità tripla rispetto a Milano, un affare da decine di milioni di euro al mese, un'invasione di droga che circola in periferia, nei condomini della Roma bene e nei palazzi del potere, garantendo ricchezza e ricatti. I quattro capi non si sporcano le mani con il traffico, si limitano a regolamentarlo e autorizzare la vendita nei loro territori, ottenendo una percentuale dei proventi. Cifre colossali, perché ogni carico che entra sulla piazza romana rende fino a quattrocento volte il prezzo pagato dagli importatori che lo fanno arrivare dalla Colombia, dal Venezuela o dai Balcani: il fatturato è di centinaia di milioni di euro. Carminati viene descritto come il dominus della zona più redditizia, il centro e i quartieri bene della Roma Nord. Dicono che la sua forza starebbe soprattutto nella capacità di risolvere problemi: si rivolgono a lui imprenditori e commercianti in cerca di protezione, che devono recuperare crediti o che hanno bisogno di trovare denaro cash. Non ha amici, solo camerati. E chi trent'anni fa ha condiviso la militanza nell'estremismo neofascista sa di non potergli dire di no. Per questo la sua influenza si è moltiplicata dopo l'arrivo al Campidoglio di Gianni Alemanno, che ha insediato nelle municipalizzate come manager o consulenti molti ex di quella stagione di piombo. Le sue relazioni possono arrivare ovunque. A Gennaro Mokbel, che gestiva i fondi neri per colossi come Telecom e Fastweb. E a Lorenzo Cola, il superconsulente di Finmeccanica che ha trattato accordi da miliardi di euro ed era in contatto con agenti segreti di tutti i continenti: un'altra figura che - come dimostrano le foto esclusive de "l'Espresso" - continua a muoversi liberamente tra Milano e la capitale nonostante sentenze e arresti. Come Carminati, anche gli altri re di Roma sono soliti sospetti. Personaggi catturati, spesso condannati, ma sempre riusciti a tornare su piazza. Michele Senese domina i quartieri orientali e la fascia a Sud-Est della città, fitta di palazzi residenziali e sedi di multinazionali. La sua carriera comincia nella camorra napoletana: diversi pentiti lo hanno indicato come un sicario attivo nelle guerre tra cutoliani e Nuova Famiglia. Poi si è trasferito nella Capitale ed è diventato un boss autonomo, chiamato "o Pazzo" perché le perizie psichiatriche gli hanno permesso più volte di uscire dalla cella: i medici - che lo hanno definito capace di intendere e volere - lo hanno però indicato come incompatibile con il carcere. Fino allo scorso febbraio era detenuto in una clinica privata, dove però avrebbe continuato a ricevere sodali e gestire affari e ordini nonostante una sentenza a 17 anni ridotta a 8 in appello. Poi è finito a Rebibbia, ma per poco: da sei mesi ha ottenuto gli arresti domiciliari, sempre per l'incompatibilità con la prigione, confermata anche dalla Cassazione, e a fine anno tornerà libero. All'interno del territorio di Senese c'è un'enclave in mano ai Casamonica, altra presenza fissa nelle cronache nere romane. Sono sinti, etnia nomade ormai stanziale in Italia da decenni, che spadroneggiano nella zona tra Anagnina e Tuscolano e fanno affari di droga con la zona dei Castelli. Ricchi, con ville arredate in modo sfarzoso e auto di lusso, si muovono tra usura e cocaina, senza che le retate abbiano intaccato i loro traffici: rifornivano anche il vigile urbano che faceva da autista a Samuele Piccolo, il vicepresidente del consiglio comunale arrestato lo scorso luglio. Ormai sono più di trent'anni che si parla di loro, ma soltanto nel gennaio di quest'anno gli è stata contestata l'associazione per delinquere: secondo la Squadra Mobile possono contare su un migliaio di affiliati, pronti a offrire i loro servizi criminali alla famiglia. Dopo l'arresto del leader di un anno fa, Peppe Casamonica, adesso alla guida del clan c'è la moglie del boss. I processi hanno avuto scarsa incidenza anche sulle attività di "don" Carmine e Giuseppe "Floro" Fasciani, i fratelli avrebbero la supervisione sulla fascia Sud-Occidentale, che comincia da San Paolo e comprende i quartieri a ridosso della Cristoforo Colombo fino al litorale di Ostia. Don Carmine è un'altra vecchia conoscenza, che compare nei dossier delle forze dell'ordine dai tempi della Magliana. Come uno dei figli di Enrico Nicoletti, lo storico cassiere della Banda, adesso segnalato tra le figure emergenti nonostante un arresto e una condanna non definitiva. Carmine Fasciani invece è finito in cella nel 2010, quando gli venne sequestrato uno dei locali più trendy dell'estate romana con discoteca sulla spiaggia: lo aveva comprato per 780 mila euro nonostante ne dichiarasse al fisco solo 14 mila. Meno di due anni dopo è stato assolto in primo grado, con restituzione dei beni. Pochi mesi più tardi è tornato dentro e in più operazioni i carabinieri hanno messo i sigilli ad altre proprietà per un valore di oltre dieci milioni di euro. Anche Fasciani aveva amicizie nei reduci dei Nar. E con lui al telefono il solito Mokbel millantava di avere pagato per fare assolvere Valerio Fioravanti e Francesca Mambro: il segno di come tutte le storie criminali a Roma finiscano per intrecciarsi intorno allo stesso filo nero. E anche Fasciani ha tenuto rapporti con camorra, 'ndrangheta e Cosa nostra. Per le grandi mafie Roma resta una città aperta. Possono investire liberamente in ristoranti, negozi e immobili a patto di non pestare i piedi ai quattro re. E possono tranquillamente prendere domicilio. Da Palermo si sono trasferiti nel quartiere africano Nunzia e Benedetto Graviano, fratelli dei boss di Brancaccio, gli stragisti di Cosa nostra. E poi l'ex capomafia di Brancaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, che dal suo salotto di casa dava direttive a politici e giornalisti e ordinava omicidi e attentati: è tornato libero dopo uno sconto per buona condotta mettendo su casa a Roma. Operano a Nord, in zona Flaminia, nel territorio di Carminati, anche alcuni componenti della 'ndrangheta di Africo, in particolare i Morabito. Non è forse un caso che il capobastone Giuseppe Morabito, detto Peppe Tiradritto, è il nonno di Giuseppe Sculli, ex giocatore della Lazio, coinvolto nell'indagine su alcune combine di partire di serie A: Sculli, secondo gli investigatori, avrebbe avuto contatti proprio con "il Nero". In tutto il Lazio ormai i clan campani e calabresi hanno insediato feudi stabili, ma a Roma è un'altra storia. Non comandano loro: nella Capitale per qualunque operazione illecita devono chiedere l'autorizzazione dei sovrani capitolini e riconoscergli la percentuale. Perché la situazione che si è creata all'ombra dei sette colli non ha precedenti: è come il laboratorio di una nuova formula criminale, flessibile ed efficiente, che permette il controllo del territorio limitando l'uso della violenza. Sotto certi aspetti, ricorda Palermo degli anni Settanta, prima dell'avvento dei corleonesi, quando le vecchie famiglie dominate da Stefano Bontate pensavano ad arricchirsi con droga ed edilizia evitando gesti clamorosi. Roma è lontanissima dal capoluogo siciliano: non ci sono clan che impongono il pizzo sistematicamente a tutti i commercianti. Anzi, spesso sono esercenti e imprenditori a rivolgersi ai boss cercando protezione, prestiti o offrendo capitali da investire nell'acquisto di partite di coca. Le indagini hanno evidenziato il ruolo di costruttori e negozianti impegnati come finanziatori nell'importazione di neve dal Sudamerica, quasi sempre dei quartieri nord, quelli che fanno capo a Carminati. I quattro re e le grandi cosche, secondo quanto appreso da "l'Espresso", hanno raggiunto un accordo dieci mesi fa: niente più omicidi di mafia nella Capitale. In questo modo le forze dell'ordine non si dovranno muovere in nuove indagini e il business illegale non avrà ripercussioni. Il patto è stato siglato dopo che i boss hanno appreso dell'arrivo a Roma del nuovo procuratore Giuseppe Pignatone. Gli undici delitti che lo scorso anno hanno fatto nascere l'allarme su Roma in realtà non sarebbero semplici regolamenti di conti, ma tanti episodi di una strategia finalizzata a imporre questo nuovo modello criminale: venivano punite le persone che violavano i patti, mettendo in crisi il sistema di potere. Per spiegare i meccanismi di questo sistema, "l'Espresso" ha raccolto il retroscena del delitto più clamoroso avvenuto lo scorso anno: l'uccisione di Flavio Simmi, a poca distanza da piazza Mazzini e dal palazzo di giustizia. Figlio di un gioielliere e ristoratore coinvolto nelle inchieste sulla Banda della Magliana e poi assolto, Flavio gestiva un Compro oro e pochi mesi prima era stato ferito: un solo colpo di pistola ai testicoli. Un avvertimento che sarebbe stato deciso da un calabrese legato alla 'ndrangheta, arrestato all'inizio del 2011. L'uomo dal carcere avrebbe chiesto alla sua convivente di andare da Simmi e ritirare una grossa somma di denaro, forse provento di attività comuni. Ma il debitore le manca di rispetto e così il detenuto decide di ucciderlo. Prima però chiede il permesso a chi controlla il territorio. A questo punto interviene il padre, che per salvare il figlio probabilmente contatta vecchi amici della banda ancora importanti, ottenendo che la sentenza di morte sia trasformata in un avvertimento: la pistolettata sui genitali e l'ordine di andare via da Roma. Il giovane però rimane in città e allora viene decisa l'esecuzione, senza che scattino vendette. Le istituzioni per anni non sono riuscite a scardinare questo sistema. Ha pesato anche un deficit culturale: l'incapacità di riconoscere la manifestazione di questo differente modo di essere mafia e imporre il dominio sulla città. Il reato di associazione mafiosa non è stato mai riconosciuto in una sentenza: i giudici hanno sempre stabilito che a Roma ci fossero trafficanti, rapinatori, spacciatori ma non vere organizzazioni criminali. È questo il clima che serve ai clan per prosperare. E non appena i giornali hanno fatto trapelare la possibilità che alla guida della procura capitolina potesse arrivare Giuseppe Pignatone, con decenni di esperienza nella lotta alle cosche, i boss hanno deciso di imporre la pace. I delitti sono cessati all'improvviso: negli ultimi dodici mesi ci sono stati solo due omicidi connessi alla criminalità, entrambi però sul litorale, lontanissimo dal centro. È la stessa strategia criminale della sommersione o dell'invisibilità che è stata attuata in Sicilia dal vecchio padrino Bernardo Provenzano nel 1993 dopo l'arresto di Riina. Niente più omicidi ma solo affari svolti in silenzio con l'aiuto della politica sostenuta dalla mafia. Le fonti de "l'Espresso" hanno descritto come si sia trattato di una scelta imposta dai "quattro re". Pronti a debellare in qualunque modo chi infrange la moratoria: poche settimane fa un ex dei Nar che stava per assaltare una banca armato fino ai denti è stato catturato durante un controllo dei carabinieri scattato al momento giusto. Questo silenzio ha indotto in inganno, alcuni mesi fa, qualche investigatore, il quale avrebbe riferito al prefetto di Roma, Giuseppe Pecoraro, facendolo sobbalzare dalla sedia, che la mafia non è presente in città. La realtà è ben diversa. Con un potere invisibile che trae linfa dalla corruzione generalizzata. La scorsa settimana il procuratore Pignatone partecipando ad un convegno organizzato nell'ambito del salone della Giustizia ha detto: «Roma è una città estremamente complessa perché mentre a Palermo e Reggio Calabria tutto viene ricondotto alla mafia, nella capitale i problemi sono tanti. Credo che da un lato non bisogna negare, come accaduto a Milano, che ci sia un problema di infiltrazioni mafiose». Pignatone al Salone della Giustizia ha detto: «A Roma c'è un rischio: l'inquinamento del mercato e dell'economia per l'afflusso di capitali mafiosi. Facciamo appello agli imprenditori perché stiano attenti: diventare soci di un mafioso significa prima o poi perdere l'azienda. Nella capitale è diffusa la corruzione ed è altissima l'evasione fiscale. La procura è impegnata a far sì che non appaiono come fenomeni normali. Qualche giorno fa abbiamo sequestrato il libretto degli assegni di un signore, che sulla causale aveva scritto "tangente". Questa è la dimostrazione del rischio di assuefazione, di accettazione. Bisogna reagire a questo stato di cose». Per questo motivo Pignatone non è solo; oltre a validi pm, lavora con un pool di investigatori che il procuratore ha voluto portare nella capitale e con lui hanno condiviso il "modello Reggio Calabria", che con intercettazioni e pedinamenti ha smantellato il volto borghese della 'ndrangheta. Poliziotti, carabinieri e finanzieri abituati a lavorare in squadra, l'unico modo per dare scacco ai re di Roma.

Roma, poltrone ai fascisti. Ex di Avanguardia Nazionale, esponenti di Terza Posizione, perfino naziskin vicini a Mokbel. Così Alemanno ha piazzato nei posti che contano della Capitale i suoi amici estremisti neri, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Boia chi molla, gridava a fine anni Ottanta il giovane Gianni Alemanno, al tempo capo del Fronte della Gioventù e fedelissimo di Pino Rauti, leader dell'ala movimentista dell'Msi e futuro suocero. Vent'anni dopo, nessuno può accusarlo di incoerenza: Gianni, diventato sindaco di Roma, non ha mollato nessuno. Non ha tradito, non ha lasciato per strada i vecchi camerati, nemmeno quelli finiti in galera per banda armata e atti terroristici, neppure i personaggi più discussi della galassia d'estrema destra protagonista degli anni di piombo. Anzi. Nell'anno di grazia 2010 Roma è sempre più nera, con fascisti ed ex fascisti che spuntano dappertutto. Nei posti cardine dell'amministrazione comunale e nell'entourage ristretto del nuovo Dux, nell'assemblea capitolina e nelle società controllate dal Comune, passando per enti regionali e ministeri. Vecchie conoscenze sono comparse anche nella parentopoli che ha investito l'Atac, dove lavorano - come ha scritto Ernesto Menicucci sul "Corriere" - l'ex Nar Francesco Bianco (in passato arrestato e processato per rapine e omicidi insieme ai fratelli Fioravanti, fu scarcerato per decorrenza dei termini) e l'ex di Terza posizione Gianluca Ponzio. Ponzio oggi è a capo del Servizio relazioni industriali della municipalizzata del Comune, negli anni Ottanta fu protagonista di arresti plurimi per rapina e possesso d'armi. La sinistra ha gridato allo scandalo, ma i due sono sono solo la punta dell'iceberg di un gruppo di potere sempre più radicato in città, cementato dagli ideali e dall'antica appartenenza, da interessi (anche economici) e da relazioni amicali e familiari. La lista comprende ex militanti di Terza posizione e dei Nuclei armati rivoluzionari, uomini di Forza nuova, naziskin vicini alla cricca di Gennaro Mokbel, capi storici di Avanguardia nazionale, ultrà e combattenti delle battaglie degli anni Settanta e Ottanta. Battuto a sorpresa Francesco Rutelli, disintegrati i potentati di Forza Italia (già messi a dura prova durante la giunta regionale guidata da Francesco Storace) ora sono nella cabina di controllo e, nella nerissima capitale, comandano loro. I due personaggi più influenti dell'amministrazione non sono assessori, ma due amici del sindaco: Franco Panzironi e Riccardo Mancini. Del primo, a capo dell'Ama, si sa praticamente tutto. Meno noti, invece, sono i trascorsi dell'uomo che Alemanno ha voluto alla guida di Eur spa, società controllata dal Campidoglio e dal ministero dell'Economia che ha nel suo portafoglio immobili per centinaia di milioni. Mancini, classe 1958, ha finanziato la campagna elettorale del 2006 e ha fatto da tesoriere durante quella del 2008. È un imprenditore di successo: erede di parte del patrimonio della famiglia Zanzi (energia e riscaldamento), ha comprato nel 2003 la Treerre, società di bonifiche e riciclaggio che fattura oltre 6 milioni di euro l'anno. Anche lui, che ha sempre vissuto all'Eur, è stato vicino ai camerati di Avanguardia nazionale: nel 1988 è stato processato - insieme ai leader del movimento Stefano Delle Chiaie e Adriano Tilgher, che oggi lavora in Regione con Teodoro Buontempo - e la Corte d'Assise lo condannò a un anno e nove mesi per violazione della legge sulle armi. Ora, dopo vent'anni, Alemanno gli ha dato le chiavi di un quartiere che conosce bene, quello del "mitico" bar Fungo, dove un tempo si ritrovavano quelli di Terza posizione, i ragazzi di Massimo Morsello e il gruppo di Giusva Fioravanti. Una curiosità: un socio in affari di Mancini, Ugo Luini (amministratore della holding del gruppo, la Emis) è pure tra i consiglieri della fondazione del sindaco, Nuova Italia. Mancini e Panzironi, ovviamente, si conoscono bene. A novembre il capo dell'Eur Spa ha assunto Dario, il figlio di Franco, già portaborse al Comune e ora funzionario con contratto a tempo indeterminato. La scelta ha fatto gridare allo scandalo il centrosinistra, ma sono altre le indiscrezioni che preoccupano Alemanno. Mancini, l'uomo che dovrebbe gestire la Formula 1, è infatti amico di Massimo Carminati, tra i fondatori dei Nar e leader della sezione dell'Eur, simpatizzante di Avanguardia nazionale e sodale della Banda della Magliana: il personaggio del "Nero" del film "Romanzo Criminale" è ispirato alla sua storia. I due sono spesso insieme, tanto che qualcuno sospettava che l'ex estremista (incriminato per vari delitti efferati ma assolto - quasi sempre - da ogni accusa) fosse stato assunto dalla municipalizzata. «Una sciocchezza» chiosano a "L'espresso" gli uomini del sindaco «Mancini lo vede solo perché si conoscono da anni. Nessun rapporto di lavoro». Un lavoro ben retribuito Alemanno e Panzironi l'avevano invece trovato a Stefano Andrini, assurto agli onori delle cronache perché insieme a un gruppetto di naziskin picchiò selvaggiamente, nell'estate del 1989, due "compagni" davanti al cinema Capranica. Andrini, 40 anni, fa parte di una generazione successiva a quella dei movimenti storici degli anni di piombo. La rissa costò a lui e al fratello gemello una condanna a quattro anni e otto mesi (poi ridotti a tre) per tentato omicidio. La carriera criminale continua anche dopo la reclusione: entrato nell'orbita del gruppo di Delle Chiaie, Stefano nel 1994 viene arrestato per alcuni scontri con gli autonomi. Un passato burrascoso che nel 2009 non gli impedisce di sedersi sulla poltrona di amministratore delegato di Ama Servizi Ambientali. Andrini, ultrà della Lazio, non c'è rimasto molto. Lo scorso febbraio è stato travolto dall'inchiesta sugli affari della banda capeggiata da Gennaro Mokbel. Secondo i magistrati sarebbe stato proprio lui a organizzare - tramite i suoi agganci a Bruxelles - la falsa candidatura di Nicola Di Girolamo, il senatore tanto caro a Mokbel («Sei il mio servo», gli diceva) e alle famiglie 'ndranghetiste di Isola Capo Rizzuto. Il sindaco, si sa, non molla mai nessuno. E perdona tutti, forse perché anche lui è stato sfiorato da vicende giudiziarie, come aggressioni e lancio di bombe molotov (sempre assolto). Non bisogna sorprendersi, così, che abbia provato a sistemare anche altri ex skin protagonisti del pestaggio al cinema Capranica. Così Mario Andrea Vattani (arrestato con gli Andrini ma poi assolto al processo), figlio del potente presidente dell'Ice Umberto, è diventato capo delle relazioni internazionali e del cerimoniale del Campidoglio. Assunto fino al 2013, costerà ai contribuenti 488 mila euro tra stipendio e oneri previdenziali. Anche Demetrio Tullio, pure lui arrestato e prosciolto, ha ottenuto un posto fisso. Stavolta al ministero delle Politiche agricole: è entrato grazie a un concorso bandito nel 2006, quando Alemanno era titolare del dicastero. Tullio lavora alla direzione generale della Pesca marittima, ma nel tempo libero si occupa anche di manifestazioni culturali. Il mensile di Ostia "Zeus" lo indica come «presidente dell'associazione Minas Tirith», dal nome della città assediata del Signore degli Anelli, che qualche giorno fa ha organizzato un convegno intitolato "Serate dannunziane". Secondo il giornale, la tre giorni è stata un successo. Non sappiamo se Alemanno ha perdonato anche Mokbel, che si è vantato di averlo preso a schiaffi durante una manifestazione (era il 1998) in cui Gennaro organizzava il sevizio d'ordine. Di sicuro l'inchiesta sul faccendiere che ha messo in piedi la più colossale truffa dal dopoguerra non gli fa dormire sonni tranquilli. Mokbel (in passato «destinatario», scrive il gip Aldo Morgigni nell'ordinanza, «di provvedimenti cautelari per fatti omicidiari collegati ad azioni di gruppi terroristici di estrema destra unitamente a soggetti - quali ad esempio Carminati Massimo - ancora oggi oggetto di ricerche da parte delle forze di polizia») ha infatti complici assai vicini al mondo di quella che fu Alleanza nazionale. In primis l'avvocato Paolo Colosimo, finito anche lui in galera per associazione a delinquere: fino a qualche tempo fa tra i suoi clienti c'era Nicolò Accame, l'ex portavoce di Francesco Storace alla Regione Lazio. Rampollo della dinastia Accame (il papà Giano, "fascista di sinistra", fu un intellettuale influente, la sorella Barbara è la moglie del leader carismatico di Terza posizione Peppe Dimitri, morto tragicamente nel 2006) è stato condannato per corruzione, rivelazione e utilizzazione di segreti d'ufficio nell'ambito dell'inchiesta "Lazio-gate". Non solo. Del gruppo Mokbel fa parte anche Silvio Fanella, considerato dagli inquirenti il cassiere della banda. Il suo nome è spuntato a sorpresa nella compravendita di una società, la Mondo Verde, fondata anni fa dal capo della segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, e da due suoi cugini. A "L'espresso" risulta che Fanella rilevi il 50 per cento delle quote nel luglio del 2000, quando Antonio ha già lasciato l'impresa. Dopo pochi mesi, Fanella e il suo socio Teodolo Theodoli vendono le azioni a una ditta amministrata da tal Fabrizio Moro. Sarà un caso, ma Moro è un amico di Lucarelli. Sarà una coincidenza, ma per la Mondo Verde targata Moro lavorerà in alcuni progetti - come ha rivelato "Repubblica" - il cognato di Gennaro Mokbel. Lucarelli, classe 1965, imprenditore, è uno dei fedelissimi di Alemanno. Con l'estrema destra ha sempre avuto grande feeling: il segretario del sindaco nel 2000 era il portavoce romano di Forza Nuova, movimento di estrema destra fondato nel 1997 dai latitanti Massimo Morsello, ex Nar, e Roberto Fiore, ex Terza posizione, che sfuggirono a una retata. Era il 1980, l'anno della strage di Bologna. I due scapparono a Londra, e tornarono solo quando le condanne per banda armata furono prescritte o, nel caso di Morsello gravemente malato, inapplicabili. Lucarelli si dà da fare: con i suoi organizza sit in inneggianti al leader dell'ultradestra austriaca Haider, manifestazioni contro il gay pride (i volantini lo definivano «la saga del pervertito») e risse davanti al Campidoglio (Marcello Fiori, vicecapo di gabinetto di Rutelli, denunciò di essere stato spintonato da Lucarelli). Nel who's who della cerchia di Alemanno ci sono anche altri ex camerati di rango. Vincenzo Piso, ex militante di Terza posizione e di Ordine nuovo, siede oggi in Parlamento ed è coordinatore del Pdl regionale. Venne arrestato nel 1980, restò in carcere per quattro anni con l'accusa di banda armata, venne poi prosciolto. Influente consigliere di Piso e del sindaco è poi Marcello De Angelis, anche lui di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 27Obis, riferimento all'articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo. Fratello del leader di Terza posizione Nanni, morto in circostanze misteriose in carcere, Marcello ora è senatore e direttore di Area, la rivista fondata da Alemanno e Storace. Da un anno al Comune lavora anche Loris Facchinetti (nell'ordinanza del 31 dicembre 2009 si specifica che la collaborazione è «a titolo gratuito»), ex leader di Europa civiltà, un movimento neopagano e paramilitare di estrema destra nato nel 1969 che aveva rapporti pure con la massoneria. Fermato «per reticenza nell'inchiesta di piazza Fontana», come ricorda Ugo Maria Tassinari nel suo libro "Fascisteria", Facchinetti - sposato con la sorella di Fabio Rampelli - oggi è delegato del sindaco di Roma per il Mediterraneo, ed esperto di "Politiche internazionali" della fondazione di Alemanno. Che ha voluto vicino a sé pure Claudio Corbolotti, aiutante di Lucarelli al Comune, arrestato nel 2004 per gli scontri avvenuti fuori l'Olimpico durante il derby Lazio-Roma. A proposito di ultrà, anche Guida Zappavigna, ex dei Boys della Roma ed ex Fuan, arrestato come presunto Nar e prosciolto in istruttoria, ha avuto un incarico dalla Polverini: ora è presidente del parco del Lago Lungo e Ripa. Grande tifoso di Totti e compagni è anche Mirko Giannotta. Le cronache ricordano che è stato arrestato nel 2003 insieme al fratello perché accusato di rapine ai danni di banche e gioiellerie, e che dal 2008 è diventato capoufficio del decoro urbano del gabinetto del sindaco. Già. Alemanno, cuore nero, non molla mai nessuno.

I fasciomafiosi alla conquista di Roma. Ex terroristi e colletti bianchi uniti dall’ideologia e dal denaro. E ormai più forti dei tradizionali clan. Ecco l’inedita rete di potere che oggi controlla la Capitale. E l'arresto per l'omicidio Fanella legato al caso Mokbel è solo l'ultimo tassello di un mosaico più grande, scrive Lirio Abbate su “L’Espresso”. Non è una città, ma un intreccio di traffici e intrallazzi, delitti e truffe, su cui si è imposta una cupola nera. Invisibile ma potentissima, ha preso il controllo di Roma. Trasformando la metropoli nel laboratorio di una nuova forma di mafia, comandata da estremisti di destra di due generazioni. Al vertice ci sono vecchi nomi, veterani degli anni di piombo, abituati a trattare con le istituzioni e con i padrini, abili a muoversi nel palazzo e sulla strada. Ai loro ordini c’è un’armata bifronte, che unisce banditi e narcos, manager nostalgici e giovani neofascisti. L’ideologia garantisce compattezza, il credo nell’azione e nella sfida. I soldi, tanti e subito, premiano la fedeltà. E la componente borghese, dai maturi colletti bianchi ai ragazzi in camicia nera, gli permette di arrivare ovunque. Con le buone o con le cattive. Per comprendere bene cosa accade oggi nella Capitale, in questo grande spazio circoscritto dal Grande raccordo anulare, occorre mettere da parte quello che accade a Napoli, a Palermo o a Reggio Calabria. È nella Capitale che ha messo radici un sistema criminale senza precedenti, con fiumi di cocaina e cascate di diamanti, ma anche tanto piombo. Una fascio-mafia, che sintetizza la forza perversa di due tradizioni in un’efficacia che gli ha consegnato anni di dominio incontrastato. Persino gli investigatori hanno fatto appello alla sociologia per spiegare il modello romano. Qui si incarna la microfisica del potere teorizzata da Paul Michel Foucault: il potere criminale-mafioso si esercita, si infiltra, «non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appropriato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita attraverso un’organizzazione reticolare». Si estende in tutte le strutture sociali ed economiche, con dinamiche che cambiano continuamente e costruiscono altri patti e altri affari. Si infiltra, entra nei ministeri, nelle finanziarie, nelle grandi società pubbliche come nei covi dei rapinatori e nelle piazze di spaccio. A Roma non ci sono zone in cui commercianti e imprenditori sono obbligati a pagare il pizzo. Non c’è l’oppressione del boss di quartiere. E gli omicidi sono calibrati con estrema attenzione. Luglio si è aperto con l’assassinio di un pezzo da novanta di questo sistema, Silvio Fanella, nei condomini bene. Agosto si è chiuso con l’esecuzione di un’autista della nettezza urbana, Pietro Pace, nella periferia estrema: il padre ha offerto una taglia di 100 mila euro sui killer. Delitti miratissimi, perché quello che conta è far girare i soldi, che si tratti di gestire immobili, licenze, investimenti o di vendere droga. Gli architetti di questo sistema non si sporcano le mani con il sangue. Sanno a chi affidare il lavoro sporco. E quando devono colpire duro, hanno a disposizione una centuria nera compattata dall’estremismo di destra. Uno dei componenti di questa cupola rivoluzionaria è Massimo Carminati, che sembra avere trasformato il suo personale romanzo criminale in una marcia trionfale. È stato nella banda della Magliana e nelle squadre terroriste dei Nar, con amicizie di rango in Cosa nostra e negli apparati deviati dello Stato. Coinvolto in processi importanti, come quello per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, ne è sempre uscito assolto. Ha scontato pochi anni di carcere per episodi minori. Nella Roma nera è un mito: un leader da seguire e ascoltare. E lui da leader si comporta e agisce. Si mostra, a chi non lo conosce, con modi felpati ed educati. Ma quando vuole sa imporsi con la forza, tanto che sodali e rivali lo rispettano con timore. È lui “l’ultimo re di Roma”. I suoi avvocati Ippolita Naso e Rosa Conti respingono questa ricostruzione: «Se tutto ciò rispondesse a verità, più che un uomo di potere sarebbe corretto definirlo uomo dai super poteri, che ha in mano le redini dell’imprenditoria capitolina, in grado di condizionare le vicende della politica romana, capace di passare dal traffico di droga ai vertici degli affari economici controllando, già che c’è, anche il territorio. E il tutto con un occhio solo!». Un riferimento a quella ferita vecchia di trent’anni, l’eredità di un conflitto a fuoco con i carabinieri che gli ha fruttato il soprannome di “er Cecato”. Per i legali però, come scrivono in un atto di citazione per difendere il loro cliente: «Siamo all’apoteosi dei luoghi comuni cinematografici. E di questo strabordare di informazioni neanche l’ombra di un elemento, un indizio, una circostanza oggettiva, una testimonianza, un riscontro, una indicazione di massima, una traccia, un segno che si sforzi di dare una parvenza di verità a quanto riferito». Per gli avvocati, «Carminati non ha più alcun conto in sospeso con la giustizia, è attualmente privo di pendenze penali e soprattutto re-inserito in un contesto sociale e familiare del tutto lecito, nel quale lodevolmente egli sta cercando di recuperare» e poi «si prende cura costantemente del figlio ventenne e convive stabilmente con la compagna, Alessia Marini, con la quale gestisce il negozio di abbigliamento “Blue Marlin”». Le parole degli avvocati sono un punto di partenza per decifrare la pista nera. Il negozio fa capo alla “Amc Industry srl” di cui è amministratore unico Alessia Marini e Carminati non compare come socio. La “Amc industry” dal primo gennaio 2011 ha preso in affitto una villa a Sacrofano, alle porte di Roma, su una collinetta che domina tutta la zona. Si tratta di una bella abitazione, ben rifinita, su due piani, con grande piscina circondata da prato all’inglese e un lungo viale che separa dal cancello. Qui vive Massimo Carminati. La villa risulta di proprietà del commercialista Marco Iannilli, un professionista dalle alte relazioni che negli ultimi quattro anni è diventato protagonista della cronaca giudiziaria. È stato arrestato e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle, che ha fatto girare centinaia di milioni di euro. Ma ha anche un ruolo chiave nelle istruttorie su Enav, l’azienda pubblica che gestisce il traffico aereo, su Digint e su Arc Trade: procedimenti che ruotano intorno a Finmeccanica, il gigante statale degli armamenti hi-tech. È nei guai anche per la vicenda della mazzetta pagata da Breda Menarini, sempre del gruppo Finmeccanica, per aggiudicarsi la fornitura di autobus da Roma Metropolitane, in cui sono indagati anche l’ex sindaco Gianni Alemanno e Riccardo Mancini. Che in passato avevano avuto rapporti con Carminati: un passato forse non così remoto. Solo coincidenze? Quando nel febbraio 2010 i carabinieri del Ros arrestano Iannilli, lo trovano in possesso di una Smart intestata a Carminati. E quando il commercialista a novembre 2011 finisce ancora in cella, i finanzieri del Nucleo di polizia tributaria di Roma e i militari del Ros annotano che «immediatamente dopo l’arresto di Iannilli, si recava presso la sua abitazione Massimo Carminati, allertato a tal proposito dalla moglie del commercialista». Perché tanto interesse? Negli atti non c’è risposta. Ma Iannilli per gli inquirenti era un esperto «nell’utilizzo di prestanome» e «per la costituzione o la rilevazione di società italiane ed estere, e la conseguente apertura dei relativi conti correnti, allo scopo di veicolare i profitti illeciti provenienti da operazioni di frode fiscale di notevole entità». Un professionista insomma che gestisce decine di milioni di euro e che sarebbe stato capace di dare copertura pulita ad attività in tutto il mondo, «il tutto per agevolare altri soggetti o organizzazioni criminali, in attività di riciclaggio di denaro». Il commercialista sembra pendere dalle labbra del “Cecato”. E non pare essere l’unico. C’è un altro uomo introdotto nei salotti buoni e di manifesta fede fascista che avrebbe subito il carisma dell’ex terrorista: Lorenzo Cola, tra i principali collaboratori di Pierfrancesco Guarguaglini, fino al 2011 numero uno di Finmeccanica. Per gli investigatori ha controllato un sistema illegale «in grado di influenzare le scelte societarie e commerciali dell’Enav». In questo modo ha creato operazioni di sovrafatturazione fra le aziende di Finmeccanica e società subappaltanti riconducibili a Iannilli: somme trasferite all’estero grazie alla rete del commercialista. Iannilli e Cola erano in affari con un altro estremista duro e puro: Gennaro Mokbel, condannato in primo grado come regista della truffa Fastweb con un riciclaggio da due miliardi. Ma è anche l’uomo che con l’aiuto, da una parte degli amici di Carminati e dall’altra della ’ndrangheta, è riuscito a far eleggere al Senato Nicola Di Girolamo, oggi detenuto ai domiciliari. In ogni indagine condotta dalla magistratura romana che riguardi grandi operazioni finanziarie spunta sempre qualcuno legato all’estrema destra, alla ’ndrangheta, agli 007 deviati, e a boss napoletani trapiantati nella Capitale. E su tutto si allunga l’ombra del “Cecato”. Perché lui vive in una terra di mezzo, perché sa come risolvere i problemi di chi abita negli attici dei Parioli e sa a chi chiedere nei meandri delle periferie più malfamate. L’intreccio di business e crimine, di manager e fasci, è esploso con i proiettili che il 3 luglio scorso in un condominio elegante della Camilluccia hanno ucciso Silvio Fanella. Gli inquirenti lo definiscono “il cassiere di Mokbel” e stava scontando ai domiciliari la condanna a nove anni proprio per l’affaire Fastweb-Telecom Sparkle. Uno degli aggressori è rimasto ferito ed è stato arrestato: Giovanni Battista Ceniti, ex dirigente piemontese di Casa Pound. Non doveva essere un omicidio. In tre, fingendosi militari delle Fiamme Gialle, volevano rapire Fanella e farsi rivelare il nascondiglio di un tesoro da sessanta milioni di euro. Solo una parte è stata poi ritrovata dal Ros: mazzette di denaro e sacchetti pieni di diamanti, sepolti in un casale ciociaro. La caccia a quel forziere è stata un’ossessione, che potrebbe avere incrinato antichi accordi tra i nuovi re di Roma. Già due anni fa avevano provato a rapire Fanella. E proprio le indagini sul primo raid hanno aperto un altro spaccato sui poteri occulti della Capitale. Per quel blitz la procura ha ordinato l’arresto di tre persone. Uno è Roberto Macori, 40 anni, fino al 2011 factotum di Mokbel che poi si è legato ad un altro dei senatori della Roma criminale: Michele Senese, detto “o Pazzo”, il padrone della periferia a Sud del raccordo anulare, dove domina lo spaccio. Anche lui passato dalla banda della Magliana, ma soprattutto boss legato alla camorra e ai casalesi: da un anno è in cella per omicidio. Anche lui abituato a pensare in grande e muoversi nell’imprenditoria, sempre in accordo con Carminati. Prima dell’arresto, assieme a Macori voleva mettere in piedi una truffa da 60 milioni, rilevando un deposito di carburante a Fiumicino. Entrambi erano in stretto contatto e Macori al telefono parlava dell’interesse «dei napoletani» per il tesoro custodito da Fanella. Non sarà un caso se a casa di Macori, dopo l’arresto, i carabinieri hanno sequestrato sei diamanti purissimi che sembrano essere uguali a quelli trovati nel caveau di Fanella. E gli investigatori non credono più alle coincidenze. Stanno ricostruendo un mosaico in cui tanti delitti, tante acrobazie finanziarie in cui compaiono gli stessi nomi e gli stessi metodi. I reduci dei Nar, gli emissari di ’ndrangheta e camorra, la manovalanza a mano armata reclutata tra i neofascisti: l’organigramma della nuova fascio-mafia romana.

Alemanno, il missino che ha scalato il Campidoglio. Per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Gianni Alemanno, per i detrattori Paperino in virtù di un timbro di voce non proprio suadente. Genero di Pino Rauti, ideologo della Destra sociale, il giovane Alemanno è uno degli esponenti di punta della gioventù neofascista. D'origine barese, ricalca il modello dell'«intellettuale tenebroso», spesso vestito di nero, sempre apparentemente cupo, fascinoso per il gruppo che gli va dietro. Finirà implicato in una sola azione violenta, il lancio di una molotov all'ambasciata Usa. Ma siamo già alla fine della stagione incendiaria: Gianni nel frattempo ha conosciuto Isabella Rauti, ne frequenta la casa, di lì a poco sarà deputato con il Msi. La sua esclation politica, il suo «passaggio di grado» avviene soltanto nella terza vita, quando dopo aver accettato di malavoglia la trasformazione del Msi in An, viene lanciato prima come ministro (all'Agricoltura, probabilmente la sua stagione migliore), quindi nella sfida per la poltrona del Campidoglio. Stracciò Rutelli, ex «big» a corto di charme , ma tanto del merito fu anche suo. Luci e ombre nella sua stagione da sindaco, dove un uso assai disinvolto di concorsi e assunzioni per gli amici gli è costata il voltafaccia dei cittadini.

Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma, indagato per associazione mafiosa. Cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Nel suo fu comitato elettorale romano, ex deposito Atac di via della Lega Lombarda, giganteggia ancora lo slogan dell’ultima perdente campagna elettorale per il Campidoglio: “Il coraggio del fare”. Su Twitter, l’ultima foto è quella con “mia zia Maria di oltre 102 anni”, postata esattamente 20 ore prima del diluvio. Adesso che il diluvio è arrivato, quasi con un salto spazio temporale da brividi, Gianni Alemanno, primo sindaco nero di Roma e primo ex sindaco ad essere indagato per associazione mafiosa, dirama note e messaggi in cui assicura: “Dimostrerò la mia totale estraneità e ne uscirò a testa alta. Chi mi conosce sa che ho sempre combattuto a viso aperto mafia e criminalità”. Il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, titolare dell’ inchiesta “Mondo di mezzo” , spiega che “alcuni uomini vicini all'ex sindaco Alemanno sono componenti a pieno titolo dell'organizzazione mafiosa e protagonisti di episodi di corruzione”, ma chiarisce che “la posizione di Alemanno è tutta da vagliare”. Parole che, fuori dalla vicenda giudiziaria s’intende, non stridono con l’adagio politico per cui nei palazzi s’è sempre descritto Alemanno come “un perfetto gregario, non un leader”, che ha fatto di questo “il segreto del suo successo”. Comunque, per la cronaca, a poche ore dalla notizia della procura l’unico a scomodarsi subito per dirsi pubblicamente “certo della sua estraneità alle accuse” è Ignazio La Russa. Il resto, silenzio assoluto. L’accelerazione dentro un romanzo criminale in piena regola, intanto, cade per Alemanno su un percorso di quieta ricostruzione di sé – e magari di una qualche destra possibile – dopo i nefasti fasti del potere: un percorso che fino a ieri aveva accenti gozzaniani. Con l’adorabile zia Maria, le scritte “noi Alemanno duriamo a lungo”, le foto invero tristissime con la pizza a taglio sulla scrivania, le presenze in piazza e a Tor Sapienza, e il tintinnare delle multe sulla panda rossa, e le foto dei temporali romani, gli immigrati, le foto dei Fori imperiali vuoti di macchine (“la grande tristezza”), le iniziative di presentazione a Rieti della “rivoluzione italiana”, i pomeriggi a convegno con “gli amici di Fratelli d’Italia” per il porto di Gioia Tauro, i plausi al ribellismo azzurro di Raffaele Fitto, il figlio che studia l’esame all’università, le trasferte a Orvieto, a Crotone, a Catanzaro, le presentazioni del suo ultimo libro. Insomma, il disegno complessivo di un crepuscolo politico battagliero, tutto sommato ben vissuto, nello stile di un grande avvenire dietro le spalle. Salvo naturalmente il puntuale, reiterato, a tratti ossessivo attacco a Marino, l’uomo che gli soffiò la poltrona in Campidoglio: comprensibile anche questo, in fondo. E non solo per motivi personali. Già, perché adesso che Alemanno è indagato, e il senatore grillino Andrea Cioffoli ne chiede le “dimissioni”, a Montecitorio parlamentari e giornalisti sbottano: “Ma dimissioni da che?”. Con il che chiarendo in che punto fosse precipitata – prima del diluvio appunto – la percezione pubblica di un personaggio che i più avevano salutato nella primavera del 2013, dopo i ballottaggi. Ecco invece Alemanno è sempre rimasto lì, da perdente ai ballottaggi, nel consiglio comunale a Roma. Mancata pure la catapulta delle europee con Fdi, ha continuato ad essere legato a doppio filo col regno che una volta guidò. Cercando anche di far dimenticare i lati peggiori di quei cinque anni vissuti maldestramente in Campidoglio, contornato di presunti corruttori e delinquenti, fedelissimi travolti via via da avvisi di garanzia e scandali, danze delle parentopoli dell’Ama e dell’Atac, fino alla sublime catastrofe della gestione della neve a Roma. Ombre che parevano sbiadite, consegnate al passato – anche grazie alle disgrazie dell’amministrazione Marino – e che invece ora tornano a brillare.

Buzzi, la mente della coop con le mani in pasta. Salvatore Buzzi, 59 anni, in galera è di casa. Fu lì che gli venne l'idea, e non si trovava in gita di piacere, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Il 29 giugno dell'85, dopo un convegno tenutosi a Rebibbia l'anno prima, fonda la cooperativa sociale per il reinserimento dei detenuti. «Non fu un atto volontario, ero un detenuto in attesa di giudizio», ricorderà con ironia. Nel 2004 la «29 giugno» (la chiamarono proprio così, «per tenere a mente quella giornata che aprì le nostre gabbie mentali») ha già 215 dipendenti. Uno snodo delle politiche ambientali e sociali del Comune. Di lì a poco, secondo gli inquirenti, per Buzzi ci sarebbe stata una seconda «illuminazione», ancora più brillante della prima. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati? Il traffico di droga rende meno», dice nelle intercettazioni. Sistema perfetto per far arrivare i soldi pubblici ai gestori amici, il cui crocevia porta il nome di Luca Odevaine, ex vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni. Anche Buzzi godeva di buone entrature : «Solo in quattro sanno quello che succede e sono nell'ordine Bianchini, Marino, Zingaretti e Meta», dice a Carminati. E questi, senza esitazioni: «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi , amico mio».

Ozzimo, dal volontariato a ras del piano casa. Daniele Ozzimo è un ragazzo di Centocelle, classe '72, uno conosciuto dalle parti della Tiburtina perché s'è fatto largo nel volontariato, scrive Roberto Scafuri su “Il Giornale”. Classico studente «impegnato» di Scienze politiche alla Sapienza, nel '94 s'iscrive al Pds, continua a occuparsi di servizi sociali e disabilità. Nel 2000 è segretario del partito al V Municipio, nel 2008 entra nel Consiglio comunale tra le fila del Pd. Ma è già un altro Daniele, rispetto al ragazzo di Centocelle che si batteva per handicappati e barriere architettoniche. Ora può contare su appoggi importanti e conoscenze influenti, che gli valgono la poltronissima di assessore alla Casa nella giunta Marino. Con deleghe dall'emergenza abitativa al piano casa, ai centri di formazione professionale. Ieri Ozzimo si è dimesso subito, non credendo ai propri occhi e reclamando la totale estraneità ai fatti, «per non arrecare in nessun modo danno all'amministrazione della città». Attestati di stima gli sono arrivati dal sindaco e altri esponenti del Pd cittadino, duramente colpito anche per il coinvolgimento nell'inchiesta di Mirko Coratti, presidente dell'Assemblea capitolina, e due consiglieri: Franco Figurelli ed Eugenio Patanè (regionale).

La foto che imbarazza il ministro Poletti, scrive “Libero Quotidiano”. C'è una foto che sta girando online e che certamente imbarazzerà l'attuale ministro del Lavoro del governo Renzi, Giuliano Poletti. E' uno scatto risalente al 2010, quando Poletti era presidente della Lega Coop. E lo vede a tavola in un ristorante romano assieme ad alcuni dei personaggi che sono stati coinvolti e indagati nell'indagine sulla "cupola romana" che controllava gli appalti nella capitale con modalità di stampo mafioso. Poletti è seduto accanto a Franco Panzironi, ex ad della municipalizzata dei rifiuti Ama (arrestato); il deputato del Pd Umberto Marroni (non indagato); l'ex assessore alla Casa della giunta Alemanno Daniele Ozzimo (indagato);  Angelo Marroni, garante dei detenuti del Lazio (non indagato); Salvatore Buzzi, responsabile della coop "29 giugno" (indagato); l'allora sindaco Gianni Alemanno (indagato). per la cronaca, seduto a un altro tavolo c'è il pregiudicato Luciano Casamonica.

Da Poletti al Pdl tutti a tavola col capo clan Una foto racconta il potere di mafia Capitale. Nel 2010 il braccio destro di Massimo Carminati, Salvatore Buzzi organizzò una cena per ringraziare "I politici che ci sono a fianco". Da Rebibbia al Palazzo, l'incredibile carriera di un ex detenuto modello divenuto il dominus di una cooperativa da sessanta milioni, scrive Emiliano Fittipaldi “L’Espresso” C'è una foto che racconta alla perfezione la parabola di Salvatore Buzzi, secondo la procura di Roma capo della nuova Mafia capitolina insieme all'ex fascista Massimo Carminati. Lo scatto risale al 2010, e immortala una cena in un centro di accoglienza organizzata da Buzzi e la sua cooperativa, "29 giugno". Attorno al tavolo ci sono tutti quelli che a Roma contavano qualcosa. Politici di destra e sinistra, assessori e esponenti del clan dei Casamonica, tutti insieme appassionatamente. Buzzi, detenuto negli anni '70 e '80 per omicidio, poteva dirsi più che soddisfatto: era riuscito infatti a far sedere fianco a fianco l'allora sindaco Gianni Alemanno (oggi indagato con Buzzi per associazione mafiosa), l'ex capo dell'Ama Franco Panzironi (arrestato con Buzzi), un esponente del clan dei Casamonica in semilibertà, l'attuale assessore alla Casa Daniele Ozzimo (al tempo consigliere Pd e pure lui indagato oggi dai magistrati: si è dimesso ), il portavoce dell'ex sindaco Sveva Belviso e il potente parlamentare del Pd Umberto Marroni, seduto, sorridente, vicino a Panzironi. Marroni (accompagnato dal padre Angiolo, al tempo garante dei detenuti della Regione Lazio) era capogruppo del Partito democratico in Consiglio comunale, sulla carta il capo dell'opposizione ad Alemanno. Oggi è onorevole, e siede alla Camera. «Per due anni - raccontò Buzzi - insieme ad altre nove cooperative abbiamo lottato contro Alemanno che voleva tagliarci i fondi. Abbiamo organizzato sette manifestazioni in Campidoglio. Alla fine abbiamo raggiunto un accordo e perciò c'è stata quella cena. Invitammo i politici che ci erano stati a fianco, per questo c'erano anche esponenti del Pd». Nella cena bipartisan Buzzi era riuscito a infilare anche Giuliano Poletti, attuale ministro del Lavoro e allora gran capo della Lega Coop. Poletti e Buzzi si conoscono bene: il ministro (non indagato e non coinvolto nell'inchiesta) è stato invitato dal braccio destro di Carminati anche all'assemblea della cooperativa 29 giugno per l'approvazione del bilancio 2013. Tanto che, per festeggiare l'arrivo di Giuliano al dicastero del Lavoro, lo scorso maggio Buzzi ha dedicato la copertina del magazine dell'associazione proprio all'ignaro Poletti. Numero del magazine sul quale troviamo le firma di Angiolo Morroni e interviste di Ozzimo e Giovanni Fiscon, dirigente dell'Ama anche lui finito in manette. Buzzi è uno che ci sa fare. La sua carriera ha dell'incredibile. Arrestato per omicidio, condannato a trent'anni, nel 1980 decide di mettersi a studiare e di laurearsi. Tre anni più tardi, risulta a "L'Espresso" riesce a diventare dottore in Lettere Moderne, con una tesi sull'attività giornalistica dell'economista Pareto. Un lavoro eccellente: Buzzi prende 110 e lode, è il primo a laurearsi all'interno delle mura di Rebibbia. Un anno dopo, sempre in carcere, si fa notare prendendo la parola in un convegno su "Misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna". La sua relazione chiede che la riforma carceraria venga applicata rapidamente, in modo da garantire ai carcerati misure alternative alla detenzione. Anche stavolta, applausi a scena aperta, tanto che Stefano Rodotà, allora deputato della sinistra indipendente, secondo l'Ansa dichiara che «la relazione svolta dal detenuto Buzzi rappresenta un documento concreto e di grandissimo interesse per cui d'ora in poi per le istituzioni non ci sono più alibi». Un detenuto modello, insomma. Buzzi due anni dopo corona il suo sogno, ed esce dalla cella. Fonda con altri soci la cooperativa «Rebibbia 29 giugno» e comincia a rifarsi una vita. Partecipa nel 1986 a un convegno sugli anni di piombo a Roma a cui partecipano ex terroristi dissociati che hanno aperto cooperative, e racconta di aver ottenuto - con la sua - alcuni lavori di ristrutturazione sulla Tiberina, persino quelli per la ristrutturazione di una caserma dei carabinieri. «Se non ci saranno altri lavori» spiega dal palco «tutto finirà. Cosa aspetta il comune di Roma a dare una destinazione ai 500 milioni di lire che la Regione Lazio ha attribuito ad ogni comune sede di istituzioni carcerarie?». Non sappiamo quando Buzzi decide si tornare al crimine, né quando conosce Carminati e e i sodali con cui costuira l'associazione mafiosa che - ha spiegato Giuseppe Pignatone - da lustri domina Roma attraverso tangenti, intimidazioni, usura, riciclaggio e corruzione. Sappiamo che di soldi, alla sua cooperativa, ne arriveranno a bizzeffe. Grazie, soprattutto, agli accordi con la politica: spulciando il bilancio 2013, si scopre che i ricavi della galassia presieduta da Buzzi hanno sfiorato i 59 milioni di euro, mentre il patrimonio di gruppo ha superato i 16,4 milioni. Possibile che la politica, in tutti questi anni, non si sia mai accorta che l'ex detenuto modello era tornato dalla parte dei cattivi?

«Ohh ma che... me so’ comprato Coratti» Intercettazioni, imbarazzo nel Pd romano. Secondo gli inquirenti che indagano sulla Mafia Capitale, all'esponente dem Mirko Coratti sarebbero stati promessi "150 mila euro di stecca" qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro, scrive Giovanni Tizian su “L’Espresso”. «E allora mettiti la minigonna e vai a batte co' questi amico mio, eh capisci». A buon intenditor poche parole. E l'ultimo Re di Roma, Massimo Carminati detto “Er cecato”, le parole sa dosarle con attenzione. Metafore e mezze parole per dire e non dire. I suoi interlocutori però capiscono al volo gli ordini. Mettersi la minigonna e andare a battere è un messaggio preciso che coglie al volo Salvatore Buzzi, il presidente della Cooperativa 29 giugno, legata a Legacoop, imprenditore di riferimento di Carminati e con quest'ultimo finito agli arresti nell'operazione sulla Mafia capitale della procura antimafia di Roma. Quella frase vuol dire che il gruppo, che i pm definiscono Mafia Capitale, ha necessita di trovare nuovi referenti politici nell'era post Alemanno. «A seguito del mutamento nella maggioranza del comune di Roma sortito dalle consultazioni elettorali, investe nell’acquisizione di nuovo capitale istituzionale, decisione strategica mimeticamente rappresentata dall’espressione di Carminati, a suo dire rivolta a Buzzi». All'ordine di Carminati segue una campagna acquisti nella nuova compagine di maggioranza. «La scuderia è pronta», commenta Buzzi, che i pm definiscono come uomo in «indiretta collaborazione con Carminati», riferendosi ad alcuni amici politici che hanno ricevuto incarichi istituzionali. Tra le figure agganciate a sinistra, i magistrati e gli investigatori del Ros guidati dal colonnello Stefano Russo, indicano Mirko Coratti. Esponente del Partito democratico e presidente dell'Assemblea capitolina. Un'insospettabile cui si rivolge Buzzi, il quale sostiene che« solo per metteme a sede a parla’ con Coratti, 10mila gli ho portato». E' sempre il presidente della cooperativa rossa a rivelare altri particolari captati dalle cimici dei detective dell'Arma. A Coratti sarebbero stati promessi 150 mila euro di stecca qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni di euro sul sociale. «Ohh ma che..me so’ comprato Coratti» esclama il manager della 29 giugno. Un ulteriore riferimento al presidente del Consiglio comunale è in una conversazione tra il boss Carminati e lo stesso Buzzi. «Con ste bustine, il libricino nero e bustine qua, eh!» chiede il Re di Roma, «Vedo Coratti, il segretario vediamo ste cose con lui» risponde l'imprenditore riferendosi alle «bustine» sul tavolo. I rapporti diretti con Coratti, scrivono i magistrati, non sono millanteria. «Emerge non solo dalle conversazioni intrattenute con il capo segreteria di costui finalizzate a costruire momenti d’incontro, ma anche da contatti tra Buzzi e Coratti, riconducibili alla gara del multimateriale di Ama e ad altre questioni di rilevanza pubblica», scrive il giudice per le indagini preliminari nell'ordinanza di custodia cautelare. A tirare in ballo il politico del Pd un'altra frase intercettata pronunciata sempre da Buzzi: «Perché Coratti sicuramente me chiede da divide già l’anticipo per cui io glie dò un lotto.. ah gliel’ho detto che il milione già se lo so…possono..». Intercettazioni che hanno fatto luce sul sistema de "Er cecato" e che stanno mettendo in forte imbarazzo il Pd capitolino.

Killer neri e violenti rossi. Il "cupolone" trasversale nel nome degli affari. La strana alleanza tra l'ex Nar Carminati e l'uomo delle cooperative Buzzi. Distanti in politica ma uniti nel mettere in società i loro contatti per far soldi, scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Il Rosso e il Nero, a braccetto, nel nome degli affari. Secondo la procura di Roma, la capitale era coperta da un «cupolone» rigorosamente trasversale, che per i magistrati ha, in pratica, reinventato la mafia. Perquisizioni dei Carabinieri in Campidoglio nell'ambito di un'inchiesta su un'organizzazione di stampo mafioso. Ma se toccherà alle toghe dimostrare la concretezza delle accuse, non può non colpire la «strana coppia» al centro dell'indagine che ha sconvolto la città eterna. Da una parte c'è Massimo Carminati, l'esponente dei Nar legato alla banda della Magliana (è il «Nero» nell'epopea di libri, film e tv sulla banda, ma il suo vero soprannome è il «Cecato»). Dall'altra c'è Salvatore Buzzi, una condanna per omicidio risalente agli anni '80 prima di far carriera come presidente della cooperativa di detenuti ed ex detenuti «29 giugno», legata a Legacoop. Che c'azzeccano Nar e coop rosse? Che ci fanno insieme due tipi così? Fanno soldi, nel «mondo di mezzo». Secondo la procura di Roma, la loro «cupola» pilotava e lucrava su gare e appalti pubblici, dai rifiuti ai campi nomadi, dalla manutenzione del verde pubblico ai centri d'accoglienza. Tutto contando su solidissimi appoggi politici, naturalmente trasversali anch'essi. Tant'è che tra gli indagati c'è l'ex sindaco di centrodestra della capitale, Gianni Alemanno, perché per la procura uomini a lui vicini erano legati all'organizzazione. Ma c'è anche l'assessore alla Casa della giunta Marino targata Pd, Daniele Ozzimo, come pure il presidente dell'assemblea capitolina, Mirko Coratti. E tra i nomi citati a vario titolo nelle mille e passa pagine di ordinanza c'è quasi tutta la politica locale a 360 gradi. Lo slogan, insomma, è che «la politica è una cosa, gli affari so' affari», come riassume, intercettato, proprio Buzzi, rispondendo a chi gli chiede come, lui di sinistra, possa lavorare con Carminati. E se la guida è bicefala, ognuno cura i rapporti con gli «amici» della propria parte politica, nel comune interesse. E bicefale, trasversali, inevitabilmente lo diventano anche le ramificazioni del comitato d'affari. La «mafia capitale», come l'ha battezzata la procura di Roma. O semplicemente la «scuderia», per rubare proprio a Carminati e Buzzi la metafora ippica che i due usano a proposito della nuova giunta di Ignazio Marino, sperando che dei «nove cavalli» alla fine ce ne fossero almeno «sei dentro», così «la scuderia è pronta» - spiega Buzzi - e «poi si cavalcherà», replica Carminati. Diversi, appunto, ma soci, collaborativi, in grado di usare sia le amicizie che le intimidazioni. Tanto che Buzzi racconta a un collaboratore di quella volta in cui, non riuscendo a parlare al capo segreteria di Alemanno, Antonio Lucarelli, per lo sblocco di un finanziamento, era intervenuto con una telefonata Carminati: «Aò alle tre meno cinque scende, dice, “ho parlato con Massimo, tutto a posto domani vai”... aò, tutto a posto veramente! C'hanno paura de lui». Intimidazione o amicizia, l'importante è il business. E appunto la vocazione agli affari, annotano gli inquirenti, «non ha barriere politiche». Con Buzzi che, subito dopo le ultime comunali romane, quando Marino al ballottaggio sconfigge Alemanno, si rammarica ma assicura di non essere impreparato. Perché lui, e l'organizzazione, erano già pronti a qualunque evenienza, indipendentemente dall'esito del voto. «Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati», racconta intercettato, «e mo vedemo Marino, poi ce pigliamo 'e misure con Marino». Sono i traghettatori e parlano con tutti. Mediatori, sensali, collettori, ricattatori quando serve, portano le tangenti e decidono le assunzioni, definiscono gli affari e spartiscono la torta, raccomandano e suggeriscono, tramano e fanno girare il mondo. Sono le anime del mondo di mezzo, sono i padroni del purgatorio, né vivi né morti. Non esiste più destra e sinistra, ma alto e basso, sopra e sotto. L'obiettivo è sempre lo stesso: denaro e potere. Nessun timore nel mettere le mani su una giunta e nel lavorare per fare il bis con la successiva, di colore opposto. Nessun problema nel trovare gli agganci, a destra prima e a sinistra poi. Il Rosso e il Nero, insieme alla conquista di Roma.

"Bustoni di soldi a tutti, anche a Rifondazione". Nelle carte dell'indagine Carminati descrive la rete di contatti tra criminali e politici. I pm: "Era intoccabile perché foraggiava partiti di ogni genere", scrive Patricia Tagliaferri su “Il Giornale”. Nel mondo di Massimo Carminati, «il mondo di mezzo» che ha dato il nome all'inchiesta della Procura di Roma, è normale che un ex Nar vada a cena con un politico. È lo stesso Carminati a dirlo al suo braccio destro militare Riccardo Brugia. Per il procuratore Giuseppe Pignatone l'intercettazione più significativa di tutta l'indagine è quella in cui Carminati spiega la teoria del mondo di mezzo, quello dove «ci sono i vivi sopra e i morti sotto e noi stiamo nel mezzo...un mondo in cui tutti si incontrano e dove è possibile che un domani io mi trovi a cena con un politico». Perché per i pm la struttura messa in piedi da Carminati era una vera e propria cerniera tra ambienti criminali e settori istituzionali, che traeva il suo potere e la sua forza di intimidazione dai legami storici con la Banda della Magliana e con l'eversione nera e il cui sviluppo criminale si era evoluto al punto da individuare come terreni privilegiati della sua azione, quelli dell'economia e degli appalti. Carminati utilizzava i suoi trascorsi criminali per convincere gli imprenditori ad affiliarsi alla sua organizzazione. Con uno di questi, che incuriosito gli aveva chiesto quale fosse a suo dire la rappresentazione cinematografica più calzante che era stata fatta del suo personaggio, si mette a fare una vera e propria classifica del suo palmares: «Bene Romanzo Criminale , ma solo il film, perché la serie è una buffonata, ma la vera banda della Magliana è quella descritta su History Channel». Per i magistrati sarebbe un errore derubricare il ruolo di Carminati a quello di pensionato del crimine. Piuttosto deve essere considerato un personaggio dalla caratura criminale assoluta, un «intoccabile per aver foraggiato partiti di ogni genere che rende intoccabili quelli che con lui si associano». Nell'ordinanza viene citata un'informativa del Ros in cui Salvatore Buzzi spiegava di aver saputo dallo stesso Carminati del suo coinvolgimento negli affari illeciti in cui era coinvolta Finmeccanica: «Ma lo sai perché Massimo è intoccabile? Perché era lui che portava i soldi per Finmeccanica, bustoni di soldi. A tutti li ha portati Massimo. Non mi dice i nomi perché non me li dice....tutti! Ecco perché ogni tanto adesso...4 milioni dentro le buste...Alla fine mi ha detto Massimo “è sicuro che l'ho portati a tutti! Pure a Rifondazione!”». I pm citano una conversazione tra Carminati e l'ex direttore commerciale di Finmeccanica Paolo Pozzessere, imputato di corruzione per vicende interne alla controllata pubblica, in cui quest'ultimo chiede protezione all'ex Nar: P.:«Chi c'hai te di cose là...per difendermi?» C.:«C'ho il gruppo....so' tosti loro, comunque sono tosti, so' duri insomma, eh. È dura cioè, però capito loro una volta che si liberano del processo una cosa è finita la festa no, che cazzo te ne frega...vuoi mette. A te praticamente l'accusa viene da coso, da Borgogni la tua, l'accusa de Borgogni». Quando sta per cambiare la maggioranza al Comune cominciano le strategie per tessere rapporti con la nuova amministrazione. Carminati dà a Buzzi indicazioni precise: «Mettiti la minigonna, amico mio, e vai a batte co' questi». L'obiettivo è di tessere rapporti con Mirko Coratti, presidente dell'assemblea comunale, e di legare il più possibile a loro il dirigente delle segreteria del nuovo sindaco Marino, Mattia Stella. Dopo la nomina di Giovanni Fiscon a direttore generale dell'Ama, frutto di una pesante attività di lobbying, i pm intercettano una telefonata nel corso della quale il manager informa Buzzi della nomina e questi gli dispensa alcuni consigli tranquillizzandolo nel caso le elezioni comunali le avesse vinte Marino: «Marino viaggia in area Zingaretti, capito? Riusciamo a parlarci, tranquillo». La ricerca di interlocutori nell'amministrazione romana non ha confini nè colori. La mancata vincita di Alemanno, certo, li ha rammaricati («Se vinceva Alemanno ce l'avevamo tutti comprati, c'amo l'assessore ai lavori pubblici, Tredicine doveva sta' assessore ai servizi sociali, Cochi andava al verde, Cochi non è comprato però è un amico, Alemanno che cazzo voi di più»). Ma si sono presto riorganizzati e le trattative corruttive sono andate avanti anche con l'amministrazione successiva. Buzzi riferisce che Franco Figurelli, capo segreteria dell'assemblea, veniva retribuito con mille euro mensili, oltre a 10mila euro pagati per poter incontrare Coratti, mentre a quest'ultimo venivano promessi 150mila euro qualora fosse intervenuto per sbloccare un pagamento di 3 milioni sul sociale. Buzzi intercettato spiega quante ruote vanno unte nel suo lavoro: «Pago tutti, anche due cene con il sindaco, 75mila euro ti sembrano pochi?». Poi prosegue: «La cooperativa campa di politica, perché il lavoro che faccio io lo fanno in tanti, perché lo devo fare io? Finanzio giornali, eventi, faccio pubblicità, pago segretaria, pago cena, pago manifesti, lunedì c'ho una cena da 20mila euro pensa... questo è il momento che paghi di più perché stanno le elezioni comunali...noi spendiamo un sacco di soldi sul Comune». Cercando sponde anche nei media a proposito di un appalto contestato per un centro rifugiati, salta fuori un sms della parlamentare Pd pugliese Micaela Campana in risposta alla richiesta di Buzzi di presentare un'interrogazione. Il messaggio della deputata, annotano gli investigatori, si chiude con un «bacio grande Capo». Buzzi vanta buoni rapporti anche con il vice di Ignazio Marino, Luigi Nieri di Sel. Tanto da caldeggiare direttamente con lui la nomina di un capo dipartimento che «avesse risposto alle loro esigenze». Dopo sms e chiacchiere, Buzzi conclude: «Dacce una mano perché stamo veramente messi male con la Cutini (assessore alle Politiche sociali che aveva voce in capitolo, ndr)». E Nieri lo rassicurava: «Lo so lo so, come no? Assolutamente...va bene? Poi ce vediamo pure...».

Il business dei migranti e l'asse con le cooperative. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Primarie inquinate per il Pd di Roma, tangenti a un esponente dem, rapporti profondi con LegaCoop e con tutto il sistema della cooperazione. Non è solo il centrodestra il terreno di coltura dell'organizzazione criminale guidata da Massimo Carminati. Nel corso di una conversazione intercettata nell'ufficio di Salvatore Buzzi il 15 novembre 2013, Claudio Bolla illustra a tre avvocati la storia delle cooperative costituite dallo stesso Buzzi. Qui di seguito il riassunto dei pubblici ministeri: «Negli anni 1999/2000 la cooperativa (29 Giugno Onlus, ndr) entrava in contatto con la Lega Coop dell'area emiliano-romagnola, con la quale iniziò a collaborare nell'ambito delle pulizie industriali. Ciò faceva compiere un primo salto di qualità alla cooperativa stessa, la quale decideva di interessarsi anche della raccolta dei rifiuti e manutenzione del verde. Bolla spiegava quindi che, nel tempo, la cooperativa 29 Giugno era cresciuta sempre di più, tanto che nel 2010 venne deciso di costituire anche la cooperativa 29 Giugno Servizi, attiva ne settore delle pulizie. (...) A tal proposito, Bolla precisava: «...però nasce e c'ha uno scatto di qualità nel momento in cui ci viene affidata l'emergenza Nord Africa, che riusciamo anche con l'apporto della Lega Coop a contendere al gruppo della Cooperativa cattolica: l'Arciconfraternita.. il rapporto con loro, soprattutto dal punto di vista diciamo delle attività è sempre di l a 5, nel campo dell'accoglienza richiedenti asilo, nel campo dell'accoglienza minori...ai Misna, perché abbiamo anche quel settore... però già essere entrati... contemporaneamente riusciamo con Eriches anche nel campo dell'emergenza alloggiativa». Poi precisava: «...Questo 1 a 5 però ci ha consentito di far si che il consorzio Eriches, diciamo da un consorzio poco significativo che a stento raggiungeva il milione di curo fino al 2010... abbia avuto un fatturato significativo, che stiamo intorno ai 16 milioni di euro».

Rapporti anche con Zingaretti. Il 22 gennaio 2013 Salvatore Buzzi parla nel suo studio con Carlo Guarany, referente dell'organizzazione per i rapporti con la pubblica amministrazione. L'associazione a delinquere è preoccupata di un'eventuale vittoria del centrosinistra alle amministrative, ma i rapporti con alcuni esponenti del Pd non sembrano poi cattivi. In particolare, con l'ex capogruppo dem in consiglio comunale e ora deputato Umberto Marroni (candidato alle primarie ma sconfitto da Ignazio Marino), con Mario Ciarla (attuale presidente della Commissione Agricoltura della Regione Lazio) e con il governatore laziale Nicola Zingaretti.

Buzzi: è vero, è vero se vince il centro sinistra siamo rovinati, solo se vince Marroni andiamo bene.

Guarany: e chi ci va più dal Sindaco poi..(...)

G: va bene, senti un po' Salvatore, siccome poi oggi pomeriggio devo passare da Marroni per la... siccome mi ridirà di «Ciarla» (fonetico, ndr) ci pensi tu a fissa' con lui?

B: con Ciarla?

G: eh

B: ma si fa una cena, famo un incontro.

G: no, no, ma io pensavo di vederlo io e te, andarlo a trova'... incontrarlo io e te.

B: esatto.

G: si, si, poi magari lo famo venì quando famo la cosa con Zingaretti.

S: esatto..

Tangenti a Patané. Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un'intercettazione del 16 maggio 2014: Particolare rilievo assume la figura del consigliere regionale Pd, Eugenio Patané. Ecco un’intercettazione del 16 maggio 2014: «Buzzi: eh .. se lui riesce .. se Massimo se riesce a piglià quello della destra noi pigliamo (inc) ... sta a loro trovasse co la destra! ... terza cosa .. Patané voleva 120 mila euro a lordo .. allora gli ho detto "scusa ... Caldarelli: de quale? .. parli de? Gauarany: del Multimateriale"».

Altri agganci con il Pd. Nelle conversazioni del sodalizio si accenna a un non megli oprecisato Leonori in riferimento al Pd. Potrebbe trattarsi di Marta Leonori, deputata chiamata da Ignazio Marino nella giunta del Comune di Roma per «liberare» un posto all’inquisito Marco Di Stefano. «Proseguendo nell’analisi degli appalti sui quali focalizzare l’impegno delle proprie risorse, Guarany palesava anche la necessità di trovare un sostegno politico( «madobbiamo sceglie la strada politica pure .. capito .. la strada politica sono 2 ..odentro il Pd.. che sarebbe questa de Leonori.. »). In merito ad una non meglio precisata gara da “60 milioni”,Massimo Carminati ricordava ai presenti che Regione Lazio potevano contare anche sull'appoggio di Luca Gramazio».

Primarie «inquinate». Nell’ottobre 2013 il sodalizio criminale tenta di accreditarsi ulteriormente con il Pd romano sostenendo i principali candidati alla segreteria locale: il senatore Lionello Cosentino, poi vincitore, e Tommaso Giuntella. Nelle intercettazioni compare pure il nome di Daniele Pulcini,l’imprenditore da cui il piddino Marco Di Stefano affittò due immobili a 7 milioni di euro per Lazio service, società della Regione. Il 28 ottobre 2013 «Salvatore Buzzi tentava di effettuare delle chiamate e, non riuscendo a mettersi in contatto, esclamava: “non risponde Daniele!“ (riferendosi a Daniele Pulcini). Alla domanda di Massimo Carminati: “come siete messi per le primarie?“ Buzzi rispondeva: “stiamo a sostene' tutti e due ... avemo dato centoquaranta voti a Giuntella e 80 a Cosentino“, puntualizzando: “Cosentino è proprio amico nostro“.

Spunta anche il ministro Cancellieri. In una conversazione del1 4novembre 2012 tra gli indagati si fa riferimento anche ad una telefonata di Gianni Alemanno all’ex ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri per ottenere risorse pubbliche per Roma. «Quadrana da Alemanno .. . ha chiamato la Cancellieri(Ministro dell’Interno,ndr), mo domani si sente Salvi con questo del Ministero, intanto vediamo un attimo di riuscire a far partire, anche tramite solo una lettera ... che serve a Salvi per sbloccare gli impegni».Gramazio precisava che la lettera da parte del Ministero ad Alemanno,sarebbe stata sufficiente per sbloccare i fondi.

C’è pure Bettini. Il 9 aprile 2014 Buzzi chiamò Carlo Guarany dicendogli che sarebbe andato lui da Coratti (presidente del consiglio comunale di Roma), quindi gli chiedeva di andare da Bettini (Goffredo Bettini, deus ex machina di Ignazio Marino; ndr).

L’affare «verde». In una intercettazione del novembre 2012 Fabrizio Testa afferma: «perfetto ... importantissimo ... D'Ausilio (verosimilmente Francesco D’Ausilio: Capogruppo PD, ndr) chiama Giovanni Quarzo (Consigliere Roma Capitale-Presidente Commissione Trasparenza, ndr) e gli dice “Sul verde Roma stanno (inc) i soldi“ dice “voi chi c’avete“... allora ha detto “io c’cho Buzzi della 29 giugno è il mio referente per tutto il verde di Roma».

"Gli immigrati rendono più della droga". La mafia nera nel business accoglienza. Così i fascio-mafiosi di Massimo Carminati si sarebbero spartiti secondo i Pm i soldi per i richiedenti asilo. Milioni di euro. Senza controlli, grazie alla logica dell'emergenza. E a rapporti privilegiati con le autorità. La parte delle indagini che riguarda il consorzio Eriches e Salvatore Buzzi, scrive Francesca Sironi su “L’Espresso”. Uno sbarco a Brindisi«Rendono più della droga». Per la mafia nera che comandava su Roma gli immigrati erano un business favoloso. Messi da parte gli ideali politici, la banda fascista che rispondeva agli ordini di Massimo Carminati, arrestato questa mattina insieme ad altre 36 persone, aveva trovato nell'accoglienza dei profughi l'occasione per intascare milioni. Il regista dell'operazione è Salvatore Buzzi, anche lui finito in carcere. L'idea di trasformare il sociale in un business gli è venuta negli anni '80 proprio in prigione, mentre scontava una pena per omicidio doloso. Oggi come presidente del consorzio di cooperative Eriches guidava un gruppo capace di chiudere il bilancio 2013 con 53 milioni di euro di fatturato. Gli incassi arrivano da servizi per rifugiati e senza fissa dimora, oltre che da lavori di portineria, manutenzione del verde e gestione dei rifiuti per la Capitale. Un colosso nel terzo settore. Che secondo gli atti delle indagini rispondeva agli interessi strategici del “Nero” di Romanzo Criminale. Buzzi infatti, secondo i pm, sarebbe «un organo apicale della mafia capitale», rappresentante dello «strumento imprenditoriale attraverso cui viene realizzata l'attività economica del sodalizio in rapporto con la pubblica amministrazione». I documenti dell'operazione che ha portato in carcere referenti politici e operativi della mafia fascista svelata da Lirio Abbate su “ l'Espresso ” in numerose inchieste, mostrano nuovi dettagli sull'attività della ramificazione nera di Roma. A partire appunto dall'attività per gli stranieri in fuga da guerra e povertà. «Tu c'hai idea quanto ce guadagno sugli immigrati?», dice Buzzi al telefono in un'intercettazione: «Non c'ho idea», risponde l'interlocutrice. «Il traffico di droga rende di meno», spiega lui. E in un'altra conversazione aggiunge: «Noi quest’anno abbiamo chiuso con quaranta milioni di fatturato ma tutti i soldi, gli utili li abbiamo fatti sui zingari, sull’emergenza alloggiativa e sugli immigrati, tutti gli altri settori finiscono a zero». "Tu sai quanto ci guadagno sugli immigrati? C'hai idea? Il traffico di droga rende meno", così al telefono Salvatore Buzzi, braccio destro 'imprenditoriale' di Massimo Carminati. Più chiaro di così. Il suo consorzio, Eriches, dentro cui si trova anche la "Cooperativa sociale 29 giugno", nel 2011 riesce  ad entrare a pieno titolo nella gestione dell'Emergenza Nord Africa: un fiume di soldi (1 miliardo e 300 milioni) gestiti a livello nazionale dalla Protezione Civile e dalle prefetture per l'accoglienza straordinaria delle persone in fuga dalla guerra in Libia e dalle rivolte della Primavera Araba. È in quel periodo che le cooperative di Buzzi, nate come progetto durante la sua permanenza in carcere negli anni '80, arrivano a fatturare oltre 16 milioni di euro solo con l'accoglienza degli stranieri. Business che continueranno a seguire. Anche che sono proseguiti fino ad oggi con la marea umana di Mare Nostrum. Per ottenere immigrati da ospitare, intascando rimborsi che vanno dai 30 ai 45 euro al giorno a persona, Buzzi s'impone nelle trattative. E può contare, stando alle indagini, su referenti di primo piano. Come Luca Odevaine, presidente di Fondazione IntegrAzione ed ex vice capo di Gabinetto di Walter Veltroni al comune di Roma. In qualità di rappresentanza dell'Upi, l'unione delle province italiane, Odevaine seide al “Tavolo di coordinamento nazionale sull'accoglienza”, da cui, spiega in diversi incontri con Buzzi e i suoi colleghi, può «orientare i flussi che arrivano», favorendo le cooperative amiche, perché ricevano più immigrati e quindi più soldi dallo Stato. In un'altra intercettazione sostiene di poter controllare le decisioni del prefetto Rosetta Scotto Lavina «che è in difficoltà, ha troppi sbarchi, non sa dove mettere le persone», e per questo lui può aiutarla indicandole a chi affidare i fondi. Per questa attenzione, spiega Buzzi in una serie di intercettazioni riportate negli atti, Odevaine avrebbe ricevuto dal clan di Carminati uno stipendio da 5mila euro al mese. Ma non era l'unico riferimento politico del consorzio. Anche l'assessore alle politiche sociali Angelo Scozzafava in una telefonata assicura: «su Roma quanti posti c'hai? Perché me sa che sta per arrivà l'ondata...». Per controllare l'accoglienza degli stranieri, Buzzi avrebbe avuto un accordo «al 50/50», ovvero per dividersi a metà tutti gli appalti, con la rete dell'Arciconfraternita del Santissimo Sacramento e di San Trifone, network di coop cattoliche in cui rientra anche Domus Caritatis, la cooperativa di cui “ l'Espresso ” aveva raccontato le politiche spregiudicate durante l'Emergenza Nord Africa del 2012, quando barboni e adulti furono fatti passare per minorenni pur di ottenere rimborsi duplicati dal ministero (malagestione denunciata da Save The Children e dal Garante per l'Infanzia). Stando agli atti dei Pm, l'accordo per la spartizione del business dei profughi sarebbe stato sancito con Tiziano Zuccolo, rappresentante della rete dell'Arciconfraternita, con cui ancora nel maggio del 2013 Buzzi parlava del “Patto” in riferimento all'arrivo  dei siriani scappati dalla guerra. «Va be’, a Salvato’, noi l’accordo, l’accordo è quello al cinquanta, no?», chiedeva Zuccolo, e Buzzi confermava: «Ok, io sto premendo per riceverne altri 140» e Zuccolo ribadiva: «Eh, bravo, l’accordo è al cinquanta per cento, dividiamo da buoni fratelli, ok?» Grazie a queste poltiche la holding dominata da Buzzi, che condivideva tutte le scelte, secondo le indagini, con il boss Carminati, è riuscito a ricevere anche fondi europei. Nel 2011 ad esempio ha  avuto dal Fondo Europeo per i Rifugiati ben 234mila e 400 euro, di cui 130 direttamente da Bruxelles e gli altri dallo Stato. Nel 2012 le cooperative che rispondevano alla “mafia capitale” hanno assistito 1320 famiglie per conto del Comune di Roma nell'ambito di un'altra emergenza, quella abitativa. Ma è stato il 2013 l'anno migliore per il consorzio Eriches, come si legge nel bilancio, chiuso con un margine netto di quasi tre milioni di euro. «Nell’ambito dell’accoglienza, siamo cresciuti ed abbiamo continuato la gestione delle attività assistenziali in favore di immigrati, senza fissa dimora, mamme con bambini, ex detenuti, nomadi e famiglie in difficoltà», spiega il presidente, Salvatore Buzzi: «e abbiamo vinto il bando promosso da Roma Capitale per 491 immigrati facenti parte dello SPRAR, una commessa significativa che ci consentirà di stabilizzarci nel settore», con rimborsi garantiti da 35 euro al giorno. E pochi controlli sulla qualità degli aiuti. Nel 2013 Eriches ha vinto anche il bando della prefettura di Roma per il Cara di Castelnuovo di Porto, ovvero il centro per richiedenti asilo di Roma: centinaia di posti, continue proteste per le condizioni indegne di vita. L'appalto da 21 milioni di euro è stato però bloccato dal Tar. E nel bilancio Buzzi si lamenta, evocando il conflitto d'interessi: «nonostante le nostre giustificazioni siano state accettate dalla Prefettura, non siamo riusciti ad iniziare il servizio peralcuni “dubbi” provvedimenti adottati della Terza Sezione Ter del TAR Lazio», scrive: «presieduta da Linda Sandulli, la quale, per inciso, è proprietaria insieme al marito di una ditta edile (PROETI Srl) che effettua manutenzioni proprio all’interno del CARA; un enorme conflitto di interessi». «Siamo fiduciosi che il Consiglio di Stato possa a breve ripristinare legalità e diritto», conclude. Forse con un senso, implicito, dell'ironia.

Minori come schiavi ai Mercati generali. Bambini egiziani ospiti delle case di accoglienza che lavorano oltre 12 ore al giorno per pochi euro, intimidazioni e ricatti alle famiglie che hanno pagato il viaggio della speranza verso l'Italia. È la realtà del Centro Agroalimentare di Guidonia, alle porte di Roma, il più grande del paese e terzo in Europa come volume d'affari. Malgrado gli sforzi di sorveglianza e le inchieste della magistratura continua a essere preso d'assalto da giovanissimi in cerca di un lavoro che si trasforma spesso in un brutale sfruttamento, scrivono Rosita Fattore e Caterina Grignanisu La Repubblica”.

Caporalato al servizio dei negozi di frutta, scrive Rosita Fattore. Come una prigione il Centro agroalimentare di Roma è circondato da una rete di acciaio alta due metri e mezzo, con sopra 20 centimetri di filo spinato. Tre turni di agenti controllano continuamente l'intera area con cani lupo al guinzaglio, ma non è per non far uscire qualcuno: scoraggiano l'ingresso dei non autorizzati. Ma ogni giorno decine di minori scavalcano le recinzioni e spostano cassette di frutta per 12 ore, guadagnando 20 euro a giornata. Questo prevedeva l'accordo che le loro famiglie hanno sottoscritto in patria, quando li hanno spediti attraverso il mare, a fare fortuna in Italia. Per la legge sono le vittime dell'intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro minorile. Caporalato insomma. Il Centro agroalimentare di Roma, a Guidonia, è il mercato generale più grande d'Italia, il terzo in Europa per volume di affari. Loro, i clandestini che scavalcano, sono ragazzi egiziani fra gli 11 e i 18 anni. "Abbiamo eseguito anche 200 respingimenti al giorno  - racconta Flavio Massimo Pallottini, direttore della Car scpa, società proprietaria dei 140 ettari di via Tenuta del Cavaliere - ma non possiamo fare molto se non accompagnare questi ragazzi fuori dal perimetro del Car. È un fenomeno preoccupante e odioso che riguarda le persone di età minore che alloggiano nelle case famiglia che sono pagate dai contribuenti, e che magari il giorno vanno a fare cose di questo tipo". Sono giovani arrivati in Italia senza adulti che li accompagnassero e quindi non possono essere ricondotti nella nazione di provenienza. "La presenza di minori immigrati irregolari a Roma è rilevantissima - osserva il vicecomandante della Polizia Locale di Roma Capitale, Antonio Di Maggio - Il nostro Nucleo assistenza emarginati (Nae) riceve decine di richieste ogni giorno. I ragazzi arrivano al centro, dicono di essere minori e chiedono assistenza da parte del Comune". L'impressione è che sappiano perfettamente che la legge italiana li tutela e che siano informati perfino degli spostamenti che questo ufficio ha subito negli ultimi tempi, da viale Trastevere e via Goito. "Arrivano al Nae vestiti bene, a volte con dei telefonini - prosegue Di Maggio - È chiaro che dietro a questo fenomeno ci sono sicuramente uno o più gruppi, più o meno strutturati, che gestiscono questa organizzazione". Le indagini sul caporalato diffuso in tutta la Capitale partono dalle frutterie etniche. Il 3 gennaio 2012 proprio Di Maggio diffonde una circolare, in cui chiede a tutti i dirigenti delle unità operative di comunicare al comando centrale "i dati completi delle attività commerciali gestite da persone originarie del Nord Africa". Un documento che trascina Di Maggio nella polemica politica, tacciato da alcuni esponenti del consiglio capitolino di razzismo. In realtà il vicecomandante vuole leggere dentro un fenomeno in cui il comando è inciampato per caso pochi mesi prima. Da alcuni sopralluoghi nei negozi di frutta gestiti da stranieri emerge che in quei locali spesso lavorano, e addirittura vivono, "stranieri che soggiornano illegalmente nel paese". O che da lì si spostano per andare a lavorare altrove. L'intuizione è giusta, bastano pochi mesi e viene a galla lo scandalo del caporalato che dilaga nel Centro agroalimentare di Guidonia. "C'è un fenomeno particolare nell'ortofrutta ed è la crescita di questi negozi gestiti da extracomunitari, in particolare egiziani che hanno creato in questo settore un tessuto e una rete importante - spiega ancora Pallottini che riveste anche la carica di amministratore delegato della Cargest srl, società che gestisce operativamente il centro di Guidonia - ed è egiziana la componente maggiore che riscontriamo tra chi si introduce abusivamente. I minori entrano nel Car in modo illegittimo scavalcando, forzando le recinzioni, nascosti nei camion, risalendo dai campi. Vengono per lavorare e a volte per accaparrarsi gli imballaggi". Gli abusivi nei mercati ci sono sempre stati. Ci sono qui come a Torino, Milano e Napoli o altrove. Ma a Guidonia capita che i ladri di lavoro siano minori, "infra-sedicenni e addirittura bambini", sottolineano i rapporti della Polizia Locale di Roma Capitale che lo scorso 18 dicembre hanno fatto scattare un'operazione nel Car. Quel giorno gli investigatori trovano al lavoro 12 minori e denunciano due operatori del Car. Secondo gli inquirenti, il punto di collegamento tra l'arrivo dei ragazzi in Italia e il loro sfruttamento sarebbero proprio i negozi di ortofrutta gestiti da egiziani che sfruttano vincoli di conoscenza o anche familiari con chi lavora al Car. Sono loro che gestirebbero in modo più o meno diretto la manodopera. Il fenomeno era talmente diffuso che la Cargest ha cercato una soluzione. Qualche mese fa ha riaperto il bando per la movimentazione di merci all'interno del centro. La vecchia azienda che lo faceva non riusciva a garantire efficienza. La Rossi Transworld si è aggiudicata l'appalto e ha iniziato a lavorare a pieno regime. Dopo neanche due settimane, a metà settembre, è scoppiata però una gigantesca rissa proprio tra i banchi dell'ortofrutta. Un gruppo di "abusivi" come sono definiti nei verbali, ragazzi e tutti stranieri, ha aggradito i lavoratori della Transworld. È una vera e propria guerra di territorio. "Il grave episodio di settembre  -  osserva Pallottini - attesta che il lavoro nero a Guidonia sta trasformandosi in qualcosa di simile ad un racket intimidatorio dedito a violenze e pretese egemoniche di tipo criminale". Un gruppo di facchini abusivi ha aggredito lavoratori regolari di un'azienda che opera al Centro Agroalimentare di Roma. La denuncia arriva dall'amministratore delegato della società di gestione del Car Massimo Pallottini. "Evidentemente hanno sentito crollare le loro ambizioni di controllo sulle attività di carico e scarico nei padiglioni ortofrutticoli, così ieri sera una cinquantina di giovani abusivi stranieri ha fatto irruzione nel Padiglione Ovest del Mercato Ortofrutticolo per aggredire i lavoratori regolari di una azienda logistica privata che, da lunedì, ha assunto in concessione i servizi di trasporto e spostamento di pedane e cassette nel Car". Dopo le indagini e la rissa, oggi la situazione è più o meno calma sia dentro che fuori dal centro. I respingimenti sono una quarantina ogni giorno. Una quiete tra una tempesta e l'altra. La Cargest ha potenziato la sicurezza al punto di investire in sorveglianza 80mila euro al mese. "Va da sé che una struttura come questa - dice ancora Pallottini - non può arrivare a spendere 2 milioni di euro, cioè il doppio di quello che c'è ora in bilancio, solo per tutelarsi da questo fenomeno". Dal canto loro, le forze dell'ordine non hanno personale a sufficienza per presidiare l'accesso e il perimetro del mercato e le cose rischiano di aggravarsi ulteriormente quando i soldi finiranno.

Il procuratore: "Fenomeno indecoroso", scrive Rosita Fattore. "Siamo di fronte a un fenomeno indecoroso per il nostro paese". Con queste parole Luigi De Ficchy, procuratore di Tivoli, descrive quello che ogni giorno avviene al di là dei cancelli dei mercati generali di Roma. Un vero e proprio sistema di facchinaggio abusivo che spesso si avvale della manodopera di minori immigrati irregolarmente.

Procuratore, può dirci cosa sta succedendo?

"Polizia e Carabinieri svolgono controlli giornalieri e da settembre una nuova cooperativa di facchini si è stabilita regolarmente all'interno del Centro agroalimentare di Guidonia. Questo ha tolto un po' di spazio agli irregolari e la situazione sta migliorando, ma nel Car rimane un grande interesse dietro allo sfruttamento del lavoro irregolare di adulti e minori".

Quando parla di sfruttamento fa riferimento al caporalato?

"Posso dirle che pensiamo che c'è una rete di attività che cerca di incanalare queste persone sin dalla partenza dal loro paese.  Arrivano qui con l'idea di poter lavorare al Centro agroalimentare, ma al momento non abbiamo elementi sufficienti per andare oltre le ipotesi".

Chi sono i ragazzi che vanno a lavorare a Guidonia, da dove arrivano?

"Quando vengono fermati ovviamente non dicono nulla: non raccontano chi li ha introdotti all'interno del centro né per chi lavorano. Alcuni hanno mostrato dei documenti che dichiaravano che sono nelle case famiglia di Roma e da lì si muovono come possono e vogliono...".

Ma queste strutture non hanno delle responsabilità nei confronti dei minori che ospitano?

"Il loro dovere verso i ragazzi è lo stesso di un genitore o di un tutore. Non c'è obbligo di tenerli all'interno della casa famiglia, o di seguirli una volta fuori".

Quindi vengono lasciati soli?

"Ci sono delle regole riguardo alle attività, ma non è facile sorvegliare questi ragazzi quando escono dalle strutture. Si potrebbe però valutare una sanzione amministrativa, per esempio la revoca delle autorizzazioni per chi non vigila".

E all'interno del Car come funziona la sicurezza?

"E' un centro privato e quindi la vigilanza interna non spetta allo Stato. Certo, ci sono stati dei pattugliamenti sul posto, ma abbiamo enormi problemi di controllo del territorio: un'estensione troppo grande per le risorse che abbiamo. Magari potessimo avere un commissariato solo per gli accessi al Car".

L'avvocato: "Manca una legge ad hoc", scrive Caterina Grignani. Quando arriva un ragazzo che dichiara di essere minorenne, le forze dell'ordine lo portano da un medico che attraverso il rilevamento del polso stabilisce se è al di sopra o al di sotto dei 18 anni. I minori vengono portati nei centri di accoglienza che ne diventano, di fatto, i tutori. Idealmente in queste strutture dovrebbero imparare l'italiano, ricevere informazioni sulla loro condizione legale ed essere avviati a un lavoro che gli consentirà, una volta compiuti i 18 anni, di ottenere il permesso di soggiorno. In realtà questo avviene in poche realtà e la via per sopravvivere si apre fuori dal centro e dalla legalità. L'avvocato Antonello Ciervo, dello studio legale Pernazza-D'Angelo di Roma, è membro dell'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione (Asgi) che recentemente ha vinto due cause con minori egiziani. Dato che ai minori si applica la legge del paese di provenienza, e in Egitto la maggiore età si raggiunge a 21 anni, questi ragazzi sarebbero potuti restare nel centro di accoglienza altri tre anni.

Quale legge tutela i minori migranti non accompagnati che arrivano in Italia?

"Una legge al momento non esiste. L'Italia ha aderito a diverse convenzioni per tutelare i minori ma una norma specifica non c'è, quindi, in via ordinaria, si applica il Codice civile. Al momento è in discussione alla Camera il progetto di legge Zampa, fortemente voluto da molte associazioni di tutela, in particolare da Save the Chidren. È alla Commissione Affari costituzionali. Non affronta tutti i nodi e soprattutto in generale considera i minori stranieri più stranieri che minori. Così come è stato presentato il progetto di legge sembrerebbe introdurre una normativa speciale per minori all'interno di quella per gli stranieri".

I centri di accoglienza sono tenuti al controllo dei minori durante il giorno? È possibile che i minori possano girare per la città (e di conseguenza lavorare in condizioni di sfruttamento)?

"I centri sono tenuti a controllare gli ospiti all'interno del centro. Ai minori viene affidato come tutore il sindaco del Comune dove il centro si trova. I ragazzi possono uscire, c'è un controllo sugli orari, ma tendenzialmente sono liberi di andare in giro. Se si verificano episodi di lavoro in nero e di sfruttamento e chi gestisce il centro non se ne accorge, questo significa che c'è scarsa diligenza".

Con l'aumento degli arrivi appare evidente che mancano le risorse per affrontare la questione.

"I centri idealmente dovrebbero organizzare un avviamento professionale in modo che i minori una volta diventati maggiorenni abbiano un punto di riferimento lavorativo e quindi maggiori possibilità di ottenere un permesso per lavoro. È vero che i fondi mancano, le strutture sono sempre al limite e si è costretti a ragionare in termini emergenziali. Ma credo che ci sia anche una scelta politica di fondo, basti pensare che praticamente non esistono uffici per l'assistenza legale dei ragazzi".

Dall'Egitto sognando di fare fortuna, scrive Caterina Grignani. "Fashkara" è il nome che in Egitto usano per descrivere chi vive in Italia e a casa ci torna solo per le vacanze. Con vestiti di marca, l'iPhone e soprattutto i racconti. Chi in Egitto ci vive, ascolta e immaginando quella vita migliore inizia a pensare al viaggio. I giovani egiziani sono invidiosi di quelle che in realtà sono favole perché i lavori che gli egiziani svolgono in Italia sono faticosi, malpagati e spesso sconfinano nello sfruttamento. La voglia di lasciare il proprio Paese passa anche attraverso l'osservazione delle famiglie di chi è partito: iniziano a stare meglio, a comprare auto, elettrodomestici e vestiti, a migliorare, con i soldi che gli vengono inviati, la loro condizione. I social network hanno un forte peso: sono racconti ancora più credibili perché corredati di fotografie. Scorrendo i profili si vedono foto di soldi, che magari sono quelli di un affitto in nero da pagare per una casa strapiena, smartphone, lettori mp3 e computer. E poi scarpe e tute come quelle dei calciatori. Sulle bacheche di chi parte ci sono le canzoni dei rapper egiziani ma anche di quelli italiani e le foto dei ragazzi scimmiottano quelle pose da duro, da chi ce l'ha fatta. "Sono venuto qui per prendermi tutto", scrive M. su Facebook. Si alimenta così la visione distorta della vita al di là del mare. Si può migrare regolarmente, ricongiungendosi a un parente già arrivato in Italia. Oppure si migra irregolarmente. Save The Children nel dossier "Percorso migratorio e condizioni di vita dei minori non accompagnati egiziani" frutto del progetto europeo "Providing Alternatives irregular migration for unaccompanied children in Egypt", spiega come la decisione della partenza sia spesso appoggiata e condivisa dalla famiglia. Ma anche nei casi in cui i genitori non approvano, trovare qualcuno che conosca un B'saffar, un intermediario, è facile. Il B'ssafar ha spesso accanto a sé un mandoub, un portavoce. Si tratta di micro organizzazioni composte da circa sei persone che operano nelle città. Il viaggio ha un costo che varia dai 4.000 ai 10.000 euro. Sono cifre alte e se la famiglia non ha il denaro si firma un contratto per un finto acquisto di merce o una cambiale. In questo modo il tribunale potrà far ottenere all'organizzazione il denaro pattuito in caso di mancato pagamento. L'intermediario indica ai minori dove recarsi, solitamente nelle città più grandi. Il viaggio può essere autonomo o organizzato. Prima del 2007 la costa di imbarco era la Libia, ora è più difficile perché per attraversare la frontiera ci vuole un visto che si ottiene solo avendo un lavoro nel paese. Le partenze avvengono quindi sempre più spesso dalle coste egiziane. In attesa del momento giusto per salpare i ragazzi rimangono in capannoni o in case per un periodo variabile tra le due settimane e i due mesi. La maggior parte dei minori egiziani arrivati in Italia ha affrontato il viaggio via mare, sui barconi. Una minoranza ottiene un visto e arriva via aereo. Si tratta di chi proviene da famiglie con più disponibilità economica o con parenti già emigrati che li aiutano una volta arrivati. La partenza via mare avviene da Alessandria, oppure dalle coste tra il Lago di Burullus e Dumyat e dal Porto di Burg Mghizil. Durante il viaggio non si ha alcuna possibilità di ribellarsi o di reagire alla violenza degli scafisti, anche una denuncia in Egitto di queste persone viene percepita dai ragazzi come un atto inutile. Lo sbarco avviene sulle coste della Sicilia, della Calabria e della Puglia. I minori egiziani poi si spostano e le città in cui si registra una presenza maggiore sono Roma, Milano e Torino. Save the Children ha studiato e approfondito il fenomeno, ha redatto rapporti molto precisi. A Roma inoltre è attivo il centro Civico Zero che oltre all'accoglienza e a diverse attività, offre assistenza legale gratuita ai minori. Secondo Viviana Valastro, responsabile protezione minori per Save the Children, è oggettivamente difficile credere che a quell'età i giovani egiziani si autorganizzino per lavorare, sapendo dove andare e a che ora. L'organizzazione ha adottato iniziative formali per portare le autorità a conoscenza del fenomeno e con il Progetto Egitto ha cercato di informare i minori sui rischi, non per disincentivarne la partenza, ma per fa sì che fosse una decisione consapevole, e si è sforzata di creare alternative in loco. Una delle conclusioni è che i ragazzi hanno una bassissima percezione dello sfruttamento anche perché sono abituati a lavori pesanti anche in Egitto, sin da piccoli. E poi perché con il cambio euro lira egiziana gli sembra comunque di guadagnare una bella somma. Il video cartone "The italianaire" è stato un altro degli strumenti utilizzati durante il progetto per sensibilizzare i minori. È stato ideato insieme ai ragazzi stessi. Anche in questo video il gioco serve a spiegare più chiaramente. E le testimonianze dei coetanei vogliono essere il punto di partenza per riflettere sulle reali condizioni che si trovano una volta sbarcati in Italia.

L'economia dello sfruttamento, scrive Vladimiro Polchi. "Lavoro tutti i giorni, dalle dieci alle dodici ore. A fine mese il padrone mi paga solo 400 euro. Da due anni è così. Sono stanco, la schiena mi fa male. Non voglio più vivere da schiavo". Singh è un bracciante dell'agro pontino: un indiano sikh sfruttato a due passi dalla Capitale. Sì, perché il nostro è ancora il Paese degli schiavi invisibili. Terra di caporali, che non si preoccupano neppure dell'età delle loro vittime. È l'Italia dello sfruttamento: mille norme, qualcuna anche buona, pessime prassi. Si parte dalla sciagurata Bossi-Fini, che tiene sotto ricatto i lavoratori stranieri facendoli dipendere dal "padrone" non solo per lo stipendio, ma anche per il permesso di soggiorno. Perdi il posto? Peggio per te: sei a rischio clandestinità. Una pessima legge che sta lì da 12 anni, nonostante i continui propositi di riforma. Il nostro paese però, nel tempo, si è dotato anche di qualche norma più avanzata. Vediamola. Lo stop al caporalato, innanzitutto, è arrivato col decreto legge 138/2011, che ha introdotto nel codice penale il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro. Nel mirino soprattutto agricoltura e cantieri. Se c'è prova dello sfruttamento del lavoratore con violenza, minaccia o intimidazione scatta una pena da 5 a 8 anni, oltre alla multa da mille a 2mila euro per ciascun lavoratore coinvolto. Non solo. Nel luglio 2012 si è aggiunta la "legge Rosarno": il decreto legislativo che prevede il rilascio del permesso di soggiorno a chi denuncia il datore di lavoro che lo sfrutta. Le nuove norme hanno diversi limiti. Difficile applicarle. Qualcosa comincia comunque a vedersi: dall'introduzione del reato di caporalato sono 355 i caporali arrestati o denunciati, di cui 281 solo nel 2013 (dati Flai-Cgil). Quanto allo specifico caso dei minori stranieri non accompagnati (12.300 quelli sbarcati dall'8 ottobre 2013 a oggi), nel nostro paese nero su bianco non c'è ancora niente. Eppure qualcosa si muove, anche se lentamente: la Commissione Affari costituzionali della Camera a ottobre ha approvato una proposta di legge (prima firmataria la deputata Pd, Sandra Zampa) che promette di rafforzarne la protezione. Vedremo. Intanto lo sfruttamento continua. Stando alla Flai-Cgil, "sono circa 400mila i lavoratori che trovano un impiego tramite i caporali, di cui circa 100mila presentano forme di grave assoggettamento, dovuto a condizioni abitative e ambientali considerate paraschiavistiche". Perché? Forse perché c'è "un'economia dello sfruttamento". È questo il punto: "I lavoratori impiegati dai caporali - prosegue la Flai-Cgil - percepiscono un salario giornaliero inferiore di circa il 50% a quello previsto dai contratti nazionali". E se sono immigrati le cose vanno anche peggio. A confermarlo è un'indagine curata dall'economista Tito Boeri per la Fondazione Rodolfo Debenedetti: gli immigrati, meglio se irregolari, sono funzionali a molte imprese perché lavorano di più e guadagnano di meno. Molto di meno. Non solo. Anche dove non si sfrutta illegalmente la manodopera, i salari vengono comunque ridotti: "Le aziende agricole di piccola dimensione (entro i 15mila euro di fatturato) - scrive l'ong Crocevia - confrontano la crisi economica generale con durezza, tagliando all'osso la remunerazione del lavoro". Insomma, forse non basta il nuovo reato a colpire le sacche di sfruttamento, ma dovrebbero essere sanzionate anche tutte quelle aziende, grandi e piccole, che si avvalgono dei caporali. Come? Escludendole dai fondi europei, per esempio.

QUANTI GUAI CON LA GIUSTIZIA PER GLI EX AN.

Quanti guai con la giustizia per gli ex An. Così la destra si riunisce (davanti al giudice). Matteoli inquisito per corruzione. Gasparri imputato per peculato. Alemanno a rischio processo per finanziamento illecito. E altri vari ex con problemi giudiziari. Così è scomparsa la diversità morale rivendicata ai tempi del Msi, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. “L’Italia onesta in piazza con la Destra”, “Tangentocrazia, ti spazzeremo via”. Sabato 17 ottobre 1992 il Movimento sociale italiano sfilava per il centro della capitale in guanti bianchi. Oltre 50 mila neofascisti (definizione rivendicata con orgoglio, anche se ancora per poco) che a 70 anni dalla marcia su Roma manifestavano a sostegno di Mani pulite. Contro i partiti corrotti ma anche per simboleggiare, proprio attraverso quei guanti bianchi, la diversità di un partito non toccato dagli accertamenti della magistratura. Per una serie di coincidenze, unica ma significativa, a poco più di vent’anni di distanza alcuni dei principali protagonisti di quel corteo sono inquisiti contemporaneamente. Col paradosso che la diaspora degli ex An, divisi in quattro partiti, sembra riunita proprio dalle inchieste dei pm. L’ultimo è l’ex ministro Altero Matteoli, all’epoca già parlamentare missino da una decina d’anni e oggi berlusconiano convinto. La Procura di Venezia ha inviato al Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nell’ambito dell’inchiesta sul Mose. Corruzione per atti contrari ai doveri d'ufficio, il reato ipotizzato: Matteoli avrebbe ricevuto complessivamente 550 mila euro in contanti per favorire l’assegnazione al Consorzio Venezia Nuova e alle imprese consorziate i finanziamenti per la bonifica dei siti industriali di Marghera. Nei giorni scorsi la Giunta delle autorizzazioni di Palazzo Madama ha iniziato l’esame della vicenda, che si preannuncia lunga e complessa. Chissà se finirà come nel 2009, quando Montecitorio negò l’autorizzazione nei suoi confronti per un’indagine che lo vedeva accusato di favoreggiamento: aveva informato il prefetto di Livorno di un'inchiesta che lo riguardava. Ma Matteoli è solo l’ultimo dei colonnelli di Alleanza nazionale finiti nel mirino della magistratura negli ultimi mesi. Non se la passa troppo bene nemmeno Maurizio Gasparri, altro ex An rimasto in Forza Italia ( e nel 1992 appena eletto deputato ), dal momento che è sotto processo per peculato: nel 2012, da presidente dei senatori del Pdl, si sarebbe appropriato di 600 mila euro del gruppo per stipulare una polizza vita a lui intestata, indicando i suoi eredi legittimi come beneficiari in caso di morte (la somma è stato poi restituita un anno dopo attraverso due bonifici). Gasparri ha respinto l’addebito, sostenendo di essersi limitato a tutelare il gruppo parlamentare in previsione di una serie di contenziosi ai quali stava andando incontro. Ma il giudice dell’udienza preliminare non ha ritenuto la motivazione convincente, visto che lo scorso aprile lo ha rinviato a giudizio. Chi invece un processo lo rischia a breve è un altro federale di peso della Alleanza nazionale che fu: Gianni Alemanno, oggi in Fratelli d’Italia, accusato di finanziamento illecito. Secondo la Procura di Roma, dietro un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici realizzato nel 2010 si sarebbe in realtà nascosta una attività di telemarketing a favore della candidatura di Renata Polverini, nel cui listino era candidata la moglie, Isabella Rauti. Secondo il gip l’allora sindaco sarebbe stato il regista dell’operazione, avendo di fatto commissionato il sondaggio alla società di consulenza Accenture, che poi a sua volta lo avrebbe pagato con 30 mila euro ricavati da false fatture. Luogo dell’incontro, ha sostenuto un manager dell’azienda: lo studio di fisioterapista. I pm un mese e mezzo fa hanno chiesto il rinvio a giudizio ma la decisione del gup non è ancora arrivata. Da un anno si sono invece perse le tracce di un’altra inchiesta che vede l’ex sindaco inquisito, sempre con l’accusa di finanziamento illecito: quella sulle presunte tangenti versate dalla Menarini per la fornitura di 45 filobus. Indagine divenuta involontariamente trasversale alla diaspora di Alleanza nazionale: oltre ad Alemanno fra gli indagati c’era infatti anche Paolo Di Paolantonio, attualmente capogruppo di Nuovo centrodestra alla Regione Lazio e marito della deputata Barbara Saltamartini, anche lei altra ex An di rito alfaniano. “Ma quale immunità parlamentare: il popolo, il popolo deve giudicare” gridavano i giovani missini in quel lontano autunno del ‘92. D’altronde l’abolizione dello scudo giudiziario per gli onorevoli era uno dei cavalli di battaglia del Movimento sociale e dell’Alleanza nazionale dei primi tempi. «Un privilegio medievale che va abolito» tanto per usare la definizione dell’epoca di Gianfranco Fini. E invece, solo per restare a questa legislatura, il sistema dell’autorizzazione a procedere ha già “salvato” un ex An. Si tratta di Francesco Proietti Cosimi, stretto collaboratore di Fini dai tempi del Msi e suo segretario particolare dopo la svolta di Fiuggi. Una fiducia tale da averlo spinto a seguire il leader anche nella disastrosa esperienza di Futuro e libertà. L’anno scorso la Procura di Roma voleva utilizzare dieci conversazioni telefoniche di Proietti Cosimi in un’inchiesta sul crac della Keis srl, in cui era indagato per bancarotta fraudolenta, emissione di fatture per operazioni inesistenti e finanziamento illecito ai partiti. Ma prima la Giunta delle autorizzazioni (presieduta da un altro ex colonnello di An, Ignazio La Russa) e poi l’Aula di Montecitorio hanno detto “no”. Questa la discutibile motivazione: è vero che le intercettazioni erano avvenute fortuitamente sui cellulari della figlia e del nipote, inquisiti prima di lui, ma “ponendo sotto controllo le utenze di suoi strettissimi parenti vi era una certezza quasi assoluta di incorrere in comunicazioni” del deputato. Di fatto una sorta di estensione dell’immunità parlamentare anche ai familiari. L’anno precedente era invece toccato ad Amedeo Laboccetta (altro ex Msi-An rimasto in Forza Italia) essere oggetto di una richiesta di autorizzazione a procedere, per una vicenda divenuta celebre per la sua unicità: la perquisizione a casa del re delle slot machine Francesco Corallo nell’inchiesta sui finanziamenti concessi dalla Bpm (148 milioni nel caso in questione). In quell’occasione Laboccetta sottrasse ai finanzieri un pc portatile sostenendo fosse suo, lasciando i militari stupefatti e impossibilitati a intervenire proprio in virtù dell’immunità parlamentare. Circostanza che valse al deputato un’accusa di favoreggiamento. La Giunta della Camera intimò all’onorevole di restituire il laptop e prima che l’Aula si esprimesse, il deputato lo consegnò ai pm come forma di “rispetto della decisione” e quale segno di “leale collaborazione”. Peccato, si scoprì poi, che il pc era stato nel frattempo manomesso e che alcuni file cancellati risultavano irrecuperabili. Insomma, una casistica dai variegati capi d’imputazione. In ogni caso guai a parlare di “vendetta e accanimento nei confronti di Alleanza nazionale”, come fece nel 2006 Francesco Storace rivolgendosi al pm Henry John Woodcock : per quelle parole il leader de La Destra la scorsa primavera è stato condannato per diffamazione dal tribunale di Roma.

Il 25 settembre del 2010 Gianfranco Fini ha fatto questa promessa a tutti gli italiani: "Se dovesse emergere che l'appartamento di Montecarlo appartiene a Tulliani lascerò la presidenza". E’ stato dimostrato che la casa ex AN è stata venduta a prezzi non di mercato al cognato, ma la promessa del Presidente della Camera e di Futuro e Libertà per l’Italia non è stata mantenuta: per la serie, quando la parola data è un impegno d’onore…..Affari di famiglie secondo Maurizio Caverzan su il Giornale.it. Anzi, di famiglie allargate: mogli, cognati, figli, amici e parenti vari. I tre moschettieri Italo Bocchino, Carmelo Briguglio e Fabio Granata, fedelissimi del presidente della Camera Gianfranco Fini, il D’Artagnan della situazione, grandi moralizzatori della vita politica che hanno combattuto la crociata separatista del Fli «non sembrano immuni dal morbo familistico». Come scrive Panorama nel numero in edicola il 28 gennaio 2011, «negli ultimi anni milioni di euro pubblici sono andati a società amministrate o partecipate da parenti dei tre finiani». In Sicilia ci sono le società che fanno capo alla famiglia Granata e quelle del clan Briguglio. A Napoli invece c’è la ragnatela di Bocchino e consorte. Ricerca e innovazione, corsi di formazione, sport e eventi sono i campi di azione della galassia di Granata. Dal 2001 al 2006 lui è assessore regionale ai Beni culturali e poi al Turismo. Così, tra il 2005 e il 2006, la Lucas Engine di cui è amministratore Luigi Martines, sposato con Sabrina Cortese, sorella di Paola, moglie di Granata, percepisce la bellezza di 423.450 euro per attività di «promozione e sostegno al sistema regionale per la ricerca e l’innovazione». Interpellato da Panorama Granata dichiara di non aver «mai dato direttamente contributi a mio cognato, al limite lo hanno fatto altri assessorati». Ma la Lucas Engine che privilegia il settore energetico, ottiene casualmente denaro pubblico (24mila euro) anche per un progetto di studio su bizantini, normanni e svevi in Sicilia proprio durante il suo mandato. Quando Granata torna a Siracusa come vicesindaco, il palazzo a cinque piani che ospita la ragioneria comunale acquistato dalla solita Lucas Engine viene affittato allo stesso comune con contratti prima di sei poi di 10 anni, con una procedura che «ricorda alla lontana quella del cognato per eccellenza: Giancarlo Tulliani». Si resta sempre a Siracusa ma si cambia campo d’intervento con i 351mila euro assegnati in dieci anni da Regione, Provincia e Comune al club sportivo Match Ball (nove campi da tennis e due piscine), a cento metri dal Teatro Greco di Siracusa, di proprietà della moglie di Granata. Con la Cuiform i fondi (non ancora definiti) arrivano invece per un progetto sulla formazione. Ma la formazione è il terreno d’azione privilegiato dell’altro campione del futurismo, Carmelo Briguglio, messinese che, insieme a Granata, vara il Cufti (Consorzio universitario per la formazione turistica internazionale), ente pubblico con le quote distribuite a metà tra l’Azienda del turismo di Taormina (area Briguglio) e quella di Siracusa (Granata). Ma anche qui c’è di mezzo una donna. È Crocifissa Maltese, detta Fina, che ha sposato Briguglio in seconde nozze. È lei il dominus del Consorzio, nel quale, distribuiti nei vari organismi, si trovano amici d’infanzia e cognati vari fino a un totale di cinque parenti dell’inflessibile onorevole. Morale, scrive Panorama «dal 2002 a oggi il Cufti, o l’“Ente Briguglio” come l’hanno malevolmente ribattezzato nel Messinese, ha ricevuto dalla regione quasi 16,6 milioni di euro». Per scavare nell’«impero di carta di Bocchino», invece bisogna spostarsi a Napoli, dove il braccio destro di Fini sfoga la sua «passionaccia per l’editoria». E dove si pubblica il Roma, quotidiano da 4.500 copie che percepisce, attraverso la società di cui è azionista di maggioranza Gabriella Buontempo, mogli di Bocchino, la cifra spropositata di quasi 2,5 milioni di euro l’anno di fondi pubblici. Poi ci sono i finanziamenti ottenuti da L’Indipendente fino a prima della cessione della testata...

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

In molti mi hanno scritto chiedendomi il testo del mio monologo effettuato durante il Festival di Sanremo 2013 il 16 Febbraio scorso. Beh, eccolo. Inoltre alcuni di voi, sull'onda del contenuto di quel monologo hanno creato una pagina facebook "Quelli che domenica voteranno con un salmone". Come vedete, l'ho fatto anch'io... 

Sono un italiano. Che emozione... E che paura essere su questo palcoscenico... Per me è la prima volta. Bello però. Si sta bene… Il problema ora è che cosa dire. Su questo palco è stato fatto e detto davvero di tutto. E il contrario di tutto. Gorbaciov ha parlato di perestroika, di libertà, di democrazia… Cutugno ha rimpianto l’Unione Sovietica. Gorbaciov ha parlato di pace… e Cutugno ha cantato con l’Armata Rossa… Belen ha fatto vedere la sua farfallina (io potrei farvi vedere il mio biscione, ma non mi sembra un’ottima idea… è un tatuaggio che ho sulla caviglia, dopo tanti anni a Mediaset è il minimo…) Ma soprattutto Benigni, vi ricordate quando è entrato con un cavallo bianco imbracciando il tricolore? Ecco, la rovina per me è stato proprio Benigni. Lo dico con una sana invidia. Benigni ha alzato troppo il livello. La Costituzione, l'Inno di Mameli, la Divina Commedia... Mettetevi nei panni di uno come me. Che è cresciuto leggendo Topolino... Però, se ci pensate bene, anche Topolino, a modo suo, è un classico. Con la sua complessità, il suo spessore psicologico, le sue contraddizioni… Prendete Nonna Papera, che animale è? ... chi ha detto una nonna? Non fate gli spiritosi anche voi, è una papera. Ma è una papera che dà da mangiare alle galline. Tiene le mucche nella stalla... Mentre invece Clarabella, che anche lei è una mucca, non sta nella stalla, sta in una casa con il divano e le tendine. E soprattutto sta con Orazio, che è un cavallo. Poi si lamentano che non hanno figli... Avete presente Orazio, che fa il bipede, l’antropomorfo, però ha il giogo, il morso, il paraocchi. Il paraocchi va bene perché Clarabella è un cesso, ma il morso?!? Ah, forse quando di notte arriva Clarabella con i tacchi a spillo, la guêpiere, la frusta: "Fai il Cavallo! Fai il cavallo!" nelle loro notti sadomaso… una delle cinquanta sfumature di biada. E Qui Quo Qua. Che parlano in coro. Si dividono una frase in tre, tipo: "ehi ragazzi attenti che arriva Paperino/ e/ ci porta tutti a Disneyland", oppure: "ehi ragazzi cosa ne direste di andare tutti/ a/ pescare del pesce che ce lo mangiamo fritto che ci piace tanto..." ecco, già da queste frasi, pur banali se volete, si può evincere come a Quo toccassero sempre le preposizioni semplici, le congiunzioni, a volte solo la virgola: "ehi ragazzi attenti che andando in mezzo al bosco/, / rischiamo di trovare le vipere col veleno che ci fanno del male" inoltre Quo ha sempre avuto un problema di ubicazione, di orientamento... non ha mai saputo dove fosse. Tu chiedi a Qui: "dove sei?" "sono qui!" ... Chiedi a Qua "dove sei?", e lui: "sono qua!" tu prova a chiederlo a Quo. Cosa ti dice? "sono Quo?" Cosa vuol dire? Insomma Quo è sempre stato il più sfigato dei tre, il più insulso: non riusciva né a iniziare né a finire una frase, non era né qui, né qua... Mario Monti. Mari o Monti? Città o campagna? Carne o Pesce? Lo so. So che siamo in piena par condicio e non si può parlare di politica. Ma sento alcuni di voi delusi dirsi: ma come, fra sette giorni ci sono le elezioni. E questo qui ci parla di mucche e galline... Altri che invece penseranno: basta politica! Io non voglio nascondermi dietro a un dito, anche perché non ne ho nessuno abbastanza grosso… decidete voi, volendo posso andare avanti per altri venti minuti a parlare di fumetti, oppure posso dirvi cosa penso io della situazione politica… Ve lo dico? Io penso che finché ci sono LORO, non riusciremo mai a cambiare questo paese. Dicono una cosa e ne fanno un'altra. Non mantengono le promesse. Sono incompetenti, bugiardi, inaffidabili. Credono di avere tutti diritti e nessun dovere. Danno sempre la colpa agli altri… A CASA! Tutti a casa!!! (A parte che quando dici tutti a casa devi stare attento, specificare: a casa di chi? No perché non vorrei che venissero tutti a casa mia) Vedo facce spaventate... soprattutto nelle prime file... Lo so, non devo parlare dei politici, ho firmato fior di contratti, ci sono le penali... Ma chi ha detto che parlo dei politici? Cosa ve l'ha fatto pensare? Ah, quando ho detto incompetenti, bugiardi, inaffidabili? Ma siete davvero maliziosi... No, non parlavo dei politici. Anche perché, scusate, i politici sono in tutto poche centinaia di persone... cosa volete che cambi, anche se davvero se ne tornassero tutti a casa (casa loro, ribadisco)? Poco. No, quando dicevo che devono andare tutti a casa, io non stavo parlando degli eletti. Io stavo parlando degli elettori... stavo parlando di NOI. Degli italiani. Perché, a fare bene i conti, la storia ci inchioda: siamo noi i mandanti. Siamo noi che li abbiamo votati. E se li guardate bene, i politici, ma proprio bene bene bene... è davvero impressionante come ci assomigliano: I politici italiani… sono Italiani! Precisi, sputati. Magari, ecco, con qualche accentuazione caricaturale. Come le maschere della commedia dell'arte, che sono un po' esagerate, rispetto al modello originale. Ma che ricalcano perfettamente il popolo che rappresentano. C'è l'imbroglione affarista, tradito dalla sua ingordigia “Aò, e nnamose a magnà!... A robbin, ‘ndo stai?”; C'è il servitore di due padroni: "orbo da n'orecia, sordo de n'ocio"… qualche volta anche di tre. Certi cambiano casacca con la velocità dei razzi… C'è il riccone arrogante...”Guadagno spendo pago pretendo” C'è la pulzella che cerca di maritarsi a tutti i costi con il riccone, convinta di avere avuto un'idea originale e che ci rimane male quando scopre che sono almeno un centinaio le ragazze che hanno avuto la sua stessa identica idea... C'è il professore dell'università che sa tutto lui e lo spiega agli altri col suo latino/inglese perfetto: "tananai mingheina buscaret!" Cos’ha detto? “Choosy firewall spending review” Ah, ecco, ora finalmente ho capito… C'è quello iracondo, manesco, pronto a menar le mani ad ogni dibattito... “culattoni raccomandati” Insomma, c'è tutto il campionario di quello che NOI siamo, a partire dai nostri difetti, tipo l'INCOERENZA. Come quelli che vanno al family day... ma ci vanno con le loro due famiglie... per forza poi che c'è un sacco di gente.... E se solo li guardi un po' esterrefatto, ti dicono: "Perché mi guardi così? Io sono cattolico, ma a modo mio”. A modo tuo? Guarda, forse non te l'hanno spiegato, ma non si può essere cattolico a modo proprio... Se sei cattolico non basta che Gesù ti sia simpatico, capisci? Non è un tuo amico, Gesù. Se sei cattolico devi credere che Gesù sia il figlio di Dio incarnato nella vergine Maria. Se sei cattolico devi andare in chiesa tutte le domeniche, confessare tutti i tuoi peccati, fare la penitenza. Devi fare anche le novene, digiunare al venerdì... ti abbuono giusto il cilicio e le ginocchia sui ceci. Divorziare: VIETATISSIMO! Hai sposato un farabutto, o una stronza? Capita. Pazienza. Peggio per te. Se divorzi sono casini… E il discorso sulla coerenza non vale solo per i cattolici... Sei fascista? Devi invadere l’Abissinia! Condire tutto con l'olio di ricino, girare con il fez in testa, non devi mai passare da via Matteotti, anche solo per pudore! Devi dire che Mussolini, a parte le leggi razziali, ha fatto anche delle cose buone! Sei comunista? Prima di tutto devi mangiare i bambini, altro che slow food. Poi devi andare a Berlino a tirare su di nuovo il Muro, mattone su mattone! Uguale a prima! Devi guardare solo film della Corea… del nord ovviamente. Devi vestirti con la casacca grigia, tutti uguali come Mao! …mica puoi essere comunista e poi andare a comprarti la felpa da Abercrumbie Sei moderato? Devi esserlo fino in fondo! Né grasso né magro, né alto né basso, né buono né cattivo... Né…Da quando ti alzi la mattina a quando vai a letto la sera devi essere una mediocrissima, inutilissima, noiosissima via di mezzo! Questo per quanto riguarda la coerenza. Ma vogliamo parlare dell'ONESTÀ? Ho visto negozianti che si lamentano del governo ladro e non rilasciano mai lo scontrino, Ho visto fabbriche di scontrini fiscali non fare gli scontrini dicendo che hanno finito la carta, Ho visto ciechi che accompagnano al lavoro la moglie in macchina, Ho visto sordi che protestano coi vicini per la musica troppo alta, Ho visto persone che si lamentano dell’immigrazione e affittano in nero ai gialli… e a volte anche in giallo ai neri!, Ho visto quelli che danno la colpa allo stato. Sempre: se cade un meteorite, se perdono al superenalotto, se la moglie li tradisce, se un piccione gli caga in testa, se scivolano in casa dopo aver messo la cera: cosa fa lo stato? Eh? Cosa fa?... Cosa c’entra lo stato. Metti meno cera, idiota! Lo sapete che nell'inchiesta sulla 'ndrangheta in Lombardia è venuto fuori che c'erano elettori, centinaia di elettori, che vendevano il proprio voto per cinquanta euro? Vendere il voto, in democrazia, è come vendere l'anima. E l'anima si vende a prezzo carissimo, avete presente Faust? Va beh che era tedesco, e i tedeschi la mettono giù sempre durissima, ma lui l'anima l'ha venduta in cambio dell'IMMORTALITA'! Capito? Non cinquanta euro. Se il diavolo gli offriva cinquanta euro, Faust gli cagava in testa. La verità è che ci sono troppi impresentabili, tra gli elettori. Mica poche decine, come tra i candidati… è vero, sembrano molti di più, ma perché sono sempre in televisione a sparar cazzate, la televisione per loro è come il bar per noi... "Ragazzi, offro un altro giro di spritz" "E io offro un milione di posti di lavoro" e giù a ridere. "E io rimborso l'imu!” “e io abolisco l'ici!" “Guarda che non c'è più da un pezzo l'ici" "Allora abolisco l'iva... E anche l'Emy, Evy e Ely!" "E chi sono? "Le nipotine di Paperina! "Ma va là, beviti un altro grappino e tasi mona!..." Vedi, saranno anche impresentabili ma per lo meno li conosci, nome e cognome, e puoi anche prenderli in giro. Invece gli elettori sono protetti dall’anonimato… alle urne vanno milioni di elettori impresentabili, e nessuno sa chi sono! Sapete quale potrebbe essere l’unica soluzione possibile? Sostituire l'elettorato italiano. Al completo. Pensate, per esempio, se incaricassimo di votare al nostro posto l'elettorato danese, o quello norvegese. Lo prendiamo a noleggio. Meglio, lo ospitiamo alla pari... Au pair. Carlo, ma chi è quel signore biondo che dorme a casa tua da due giorni? “Oh, è il mio elettore norvegese alla pari, domenica vota e poi riparte subito... C'è anche la moglie”... E per chi votano, scusa? "Mi ha detto che è indeciso tra Aspelünd Gründblomma e Pysslygar". Ma quelli sono i nomi dell'Ikea!, che tra l’altro è svedese… "Ma no, si assomigliano… però ora che mi ci fai pensare, effettivamente ho visto nel suo depliant elettorale che i simboli dei loro partiti sono un armadio, una lampada, un comodino. Mah. E tu poi, in cambio cosa fai, vai a votare per le loro elezioni? In Norvegia? "Ah, questo non lo so. Non so se mi vogliono. Mi hanno detto che prima devo fare un corso. Imparare a non parcheggiare in doppia fila. A non telefonare parlando ad alta voce in treno. A pagare le tasse fino all'ultimo centesimo. Poi, forse, mi fanno votare." Si, va beh, qualche difficoltà logistica la vedo: organizzare tutti quei pullman, trovare da dormire per tutti... Ma pensate che liberazione, la sera dei risultati, scoprire che il nostro nuovo premier è un signore o una signora dall'aria normalissima, che dice cose normalissime, e che va in televisione al massimo un paio di volte all'anno.

(Lancio di batteria e poi, sull’aria de “L’italiano”)

Lasciatemi votare

con un salmone in mano

vi salverò il paese

io sono un norvegese…

LA METAMORFOSI DEI FORCAIOLI: LUIGI DE MAGISTRIS.

24 settembre 2014: condannato Luigi De Magistris.

Why Not, De Magistris condannato a un anno e tre mesi, scrive “Libero Quotidiano”. Un anno e tre mesi di reclusione ciascuno, con sospensione condizionale della pena e non menzione sul casellario giudiziale: è la condanna che la decima sezione penale del tribunale di Roma ha inflitto all’ex pm di Catanzaro, Luigi de Magistris, attuale sindaco di Napoli, e al consulente informatico Gioacchino Genchi, accusati di concorso in abuso d’ufficio per aver acquisito illegittimamente, nell’ambito dell’inchiesta calabrese Why not, i tabulati telefonici di alcuni parlamentari senza la necessaria autorizzazione delle Camere di appartenenza. I due imputati, cui sono state concesse le attenuanti generiche e applicata l’interdizione temporanea dai pubblici uffici per un anno (pena accessoria che rientra nella sospensione condizionale), sono stati condannati al risarcimento dei danni morali e materiali da liquidarsi in separata sede, salvo una provvisionale di 20mila euro, nei confronti dei parlamentari Francesco Rutelli, Giancarlo Pittelli, Romano Prodi, Clemente Mastella, Antonio Gentile, Sandro Gozzi e, per il solo Genchi, Domenico Minniti. Il 23 maggio scorso il pm Roberto Felici aveva concluso la requisitoria sollecitando l’assoluzione per l’ex pm di Catanzaro e la condanna a un anno e mezzo di reclusione per Genchi. L’accusa di abuso d’ufficio era stata formulata perchè  i tabulati riguardanti gli uomini politici appartenenti al  centrodestra e al centrosinistra erano stati acquisiti al fascicolo  dell’inchiesta senza aver preventivamente richiesto ai rami del  Parlamento a cui appartenevano i politici in questione l’autorizzazione ad acquisirli. Il processo conclude una lunga vicenda giudiziaria che era cominciata nel 2009. La decisione del Tribunale è stata commentata favorevolmente dagli  avvocati Nicola e Titta Madia i quali ha assistito nel procedimento  Francesco Rutelli e Clemente Mastella. "La sentenza emessa oggi dal  Tribunale di Roma -hanno sottolineato i penalisti- rende piena  giustizia agli uomini politici tra i quali Francesco Rutelli e  Clemente Mastella. La grande violazione delle prerogative dei  parlamentari in questione determinò una violentissima campagna di  stampa contro il governo all’epoca in carica". Da parte sua, De Magistris affida a Facebook la replica alla condanna, che definisce "un errore giudiziario. La mia vita è sconvolta". E annuncia ricorso in appello: "Sono profondamente addolorato per aver ricevuto una condanna per fatti insussistenti. Sono stato condannato per avere acquisito tabulati di alcuni parlamentari, pur non essendoci alcuna prova che potessi sapere che si trattasse di utenze a loro riconducibili".

"Siamo di fronte a uno Stato profondamente corrotto. Ci sono molti magistrati collusi e corrotti e per questo ho già pagato come magistrato", dice Luigi De Magistris, sindaco di Napoli, attaccando la sentenza del processo Why Not in cui è stato condannato ad un anno e tre mesi per abuso d'ufficio. Il sindaco arancione, però, in Consiglio Comunale del 26 settembre, non solo ha ribadito che non ha intenzione di lasciare, ma ha aggiunto che a dimettersi dovrebbero essere “i giudici” che lo hanno condannato e ha evocato manovre per “mettere le mani sulla città”. Nel pomeriggio, De Magistris è tornato a parlare in una conferenza stampa nella quale ha stemperato solo parzialmente i toni, ma ha tenuto il punto. Non si è trattato di un “attacco” alla magistratura, ha voluto precisare, ma di “parole forti” nei confronti di una sentenza “inaccettabile e intrisa di violazioni di legge. Prima di censurare ciò che ho detto”, ha aggiunto, “o di fare una difesa corporativa – dice – l’Anm legga le mie dichiarazioni. So discernere”. Per il sindaco, “la magistratura non è un moloch di gente per bene, perché ci sono anche fior di delinquenti – sottolinea – Se l’Anm intende censurare le mie dichiarazioni ha tutto diritto di farlo, come io ho tutto diritto di fare critiche da persona che pensa di aver subito ingiustizia”. Comunque sia, ”le dimissioni non ci saranno. Io non solo resisterò, ma continueremo a difendere questa esperienza che dà fastidio a molti”. E “se dovesse malauguratamente arrivare la sospensione starò meno a Palazzo San Giacomo e più per strada. Farò il sindaco sospeso”. "Con tutti i procedimenti che mi hanno avuto come protagonista, indagato o parte offesa, potrei essere considerato il Totò Riina della magistratura". Luigi de Magistris, sindaco di Napoli, in un'intervista all'emittente locale Televomero, ripercorre le tappe della sua vita da pm e i motivi che a suo avviso hanno portato alla sentenza di condanna in primo grado per l'inchiesta Why not. "Quei procedimenti sono stati tutti archiviati e i miei accusatori sono sotto processo - afferma - un unico processo è rimasto in piedi, quello di Roma, istruito da Achille Toro che ha patteggiato per la vicenda del G8". Soprattutto, sottolinea l'ex pm, "sono stato condannato dopo che lo stesso pm ha chiesto l'assoluzione". "Per gli stessi reati che mi vengono contestati - aggiunge - la Procura di Salerno, unica a procedere secondo l'articolo 11 del Codice di procedura penale, ha archiviato, dopo una lunga indagine in cui magistrati coraggiosi hanno evidenziato la macchinazione criminale messa in piedi contro di me". Per de Magistris questo è il segnale che "ci sono magistrati eroi, coraggiosi e anche corretti che non si sono conformati al potere. E non sono pochi". "Mi hanno fermato nell'indagine Why not - afferma - appena ho iniziato a indagare il livello di penetrazione della corruzione che coinvolge la massoneria deviata, alcuni pezzi di Stato e servizi segreti, oltre a una parte delle forze dell'ordine e della magistratura". Da Napolitano "ho subito una forte ingiustizia quando ero magistrato", ma "da sindaco ho superato questa sofferenza personale e ho intrapreso relazioni istituzionali con il presidente": lo dice Luigi de Magistris sottolineando che per il futuro "i rapporti con il capo dello Stato continueranno a essere istituzionali". Ma "lui presiedeva il Csm che mi ha trasferito e non ha ritenuto di accogliere i miei numerosi appelli a non lasciarmi isolato in Calabria".

Per "Giggino o’ sindaco" non ci sono dubbi. «La mafia ha deciso di infiltrarsi, di non colludere più con la politica e di prendere la forma delle istituzioni, passando dalla strategia criminale esterna alla stagione della legalità formale», è sbottato il sindaco di fronte al Consiglio comunale partenopeo, «ho pagato perchè non mi sono fatto corrompere, non mi sono girato dall'altra parte, non mi sono piegato». Un non addetto ai lavori potrebbe interpretare come eversive le parole di De Magistris. Termini condivisibili per chi, invece, ha seguito la vicenda Why Not e i misteriosi rapporti di Saladino (non il Feroce, ma Antonio, protagonista dell’inchiesta) con la massoneria. E poi, i nomi dei politici saltati fuori come quello di Clemente Mastella, protagonista della caduta del governo prodi nel 2008, che la dicono tutta sugli intrecci occulti rimasti inspiegati. Ma la casta ha già deciso di insabbiare il caso Why Not, insieme allo stesso De Magistris.

«Ci attacca come Berlusconi La smetta di gettare fango». Quando il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha capito di non aver scampo perché, a causa della condanna per abuso d’ufficio, la legge Severino gli costerà la poltrona, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”, si è presentato in consiglio comunale e ha attaccato frontalmente i giudici che l’hanno «punito». Un atteggiamento che ha indotto l’Associazione nazionale magistrati a definire «gravi, offensive e inaccettabili» le parole del loro ex collega. De Magistris, però, a fare marcia indietro non ci pensa neanche, e anzi «alza il tiro» contro «certi» magistrati. Abbiamo chiesto a Rodolfo Sabelli, presidente dell’Anm, cosa pensa di un ex pubblico ministero che si scaglia, pesantemente, contro giudici e pubblici ministeri.

Sabelli, de Magistris rincara la dose parlando di magistrati «corrotti e collusi». La vostra presa di posizione pare non averlo spaventato.

«Non ci si può esprimere in termini così generici gettando fango sull’intera categoria. Se il dottor De Magistris è a conoscenza di fatti di corruzione e collusione, li denunci. Faccia i nomi. C’è una sentenza di primo grado, quindi non definitiva, che però, essendo in vigore la legge Severino, nel caso dei sindaci prevede la sospensione. Tutti questi discorsi generici su corruzione e collusione, francamente non li capisco. De Magistris parli, se sa, altrimenti si astenga da dichiarazioni così generiche che offendono un'intera categoria».

Negli anni in cui Berlusconi ha attaccato, anche pesantemente, la magistratura, l’Anm è stata molto più dura rispetto a come reagisce oggi con de Magistris. Disparità di trattamento?

«Francamente non mi sembra che siamo stati tanto morbidi, abbiamo parlato di dichiarazioni gravemente offensive e inaccettabili. Non mi pare abbiamo avuto una reazione particolarmente compiacente».

Lei, a proposito delle accuse del Cavaliere, disse che «l’attacco scomposto alle sentenze è un oltraggio e un grave pericolo per il sistema democratico». Lo è anche quello di de Magistris?

«Noi diciamo che certe dichiarazioni sono offensive e inaccettabili perché gettano fango su un’intera categoria, cioè sull’intera magistratura e sulla giurisdizione, e questo non si può accettare nel nostro Paese. Mi pare di aver risposto».

Mi pare di no. Sta dicendo che in questo caso il pericolo per la tenuta della democrazia c’è oppure non c’è?

«Che cosa vuole che dica? Ogni reazione è coerente con l’accusa che è stata mossa. Quando si dice che i magistrati sono un cancro (come fece Berlusconi, ndr ), noi ci esprimiamo in un certo modo. Dovremmo usare un metro di paragone per dire cosa e più grave e cosa è meno grave?»

Se de Magistris dovesse continuare ad attaccare i magistrati, cosa pensa di fare l’Anm?

«C’è una competenza specifica, che è quella del prefetto. Lui dovrà valutare l’adozione dei provvedimenti conseguenti. Vedremo, comunque, che cosa farà e che cosa dirà de Magistris. Se ci saranno prese di posizioni che in qualche modo offendono e coinvolgono la magistratura, noi reagiremo».

De Magistris ha «sfruttato» le inchieste per il consenso. Non sarebbe utile mettere dei «paletti» al magistrato ch e vuol fare politica?

«Il problema del rapporto fra magistratura e politica lo abbiamo affrontato tante volte, dicendo che il via vai tra la carriera in magistratura e la politica può porre dei problemi d’immagine sul lato dell’imparzialità di un magistrato. Però de Magistris ha lasciato la magistratura».

Anche in questo caso, sarebbe ragionevole prevedere un tempo minimo, prima di consentire a un pm che ha appena lasciato la toga di candidarsi. Non le pare?

«Non dimentichiamo che facciamo riferimento a diritti costituzionalmente garantiti. La tutela dell’immagine d’imparzialità di un magistrato deve trovare un punto di equilibrio con il diritto all’elettorato passivo. Ma, ripeto, le iniziative dovrebbero riguardare i magistrati che fanno politica, e non è questo il caso, visto che de Magistris non è più un magistrato».

Il suo caso non prova che è giunta l’ora di porre limiti alle intercettazioni?

«I limiti debbono riguardare il sistema di garanzie. Attualmente, sia per quanto riguarda l’acquisizione di tabulati che le intercettazioni telefoniche, il sistema ha dato le garanzie dovute. In questo caso vi è stata un’ipotesi di reato che al momento ha portato a una sentenza di primo grado. Vedremo come finirà il processo. Ma non mi pare si possa mettere in discussione il sistema così com’è».

Neanche di fronte al famoso «archivio Genchi» che conteneva un numero abnorme di tabulati?

«Non conosco la vicenda, non me ne sono occupato».

«La madre di tutte le inchieste» Così è affondato Giggino ’o flop, scrive Luca Rocca su “Il Tempo. È stata la conduzione dell’inchiesta Why Not a portare alla condanna a un anno e tre mesi per Luigi de Magistris e probabilmente, nelle prossime settimane, anche alle sue dimissioni o sospensione dalla carica di sindaco di Napoli. «Why Not» è un’indagine sull’uso illecito di fondi europei, statali e regionali, che ha prodotto centinaia di indagati e si è conclusa con pochi imputati, un numero incredibile di proscioglimenti e la vita di molti innocenti rovinata. Ma Why Not è diventata un «feticcio» nazionale, oltre che per aver coinvolto un premier, Romano Prodi, per due motivi: da un lato l’enorme mole di acquisizione di traffici telefonici, tecnicamente messa in atto da Gioacchino Genchi, consulente informatico di de Magistris e insieme a lui condannato; dall’altro l’aver «controllato» illegalmente, senza l’autorizzazione del Parlamento, alcuni deputati (il motivo della condanna per entrambi). Le cifre sull’ormai famoso «archivio Genchi», spulciato per mesi dagli esperti del Ros dei carabinieri, sono state per molto tempo «mobili». Nel corso delle indagini viene fuori che sono state «schedate» 52 utenze del Csm, 14 della segreteria generale del Quirinale e anche l’ambasciata americana a Roma. Nelle informative del Ros si legge, inoltre, che Genchi aveva chiesto i tabulati di traffico telefonico di utenze riconducibili alla Camera dei deputati, al ministeri della Difesa, dell'Interno, della Giustizia, dell'Economia. E nei tabulati «controllati» c’erano anche i dati di 13 parlamentari. Sempre secondo i militari del Ros, nel cosiddetto archivio Genchi c’erano 13 milioni di intestatari di utenze e 351 milioni di cosiddette righe di traffico telefonico, cioè chiamate. Non solo. Nella relazione del Copasir, il Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti, sono riportati altri dati raccolti dai militari, ad esempio che nelle indagini Why Not e Poseidone, condotte da de Magistris, Genchi ha «avuto notizia» di 392mila intestatari e 1.402 tabulati. Numeri che diventano abnormi calcolando i cosiddetti "record" richiesti e non elaborati dalle compagnie telefoniche: dalla Telecom, il consulente di de Magistris aveva ottenuto una tranche di 150mila «anagrafiche», mentre 97mila provenivano dalla Tim (Genchi aveva chiesto 300mila record). Quanto alla Wind, le anagrafiche messe a disposizione erano 160mila, e 68mila quelle della H3G. Su Vodafone, Genchi accedeva attraverso il «cervellone» della società con le password di competenza della procura di Marsala. Il numero totale di «record di intestatari anagrafici» finiti, secondo il Ros, nella disponibilità di Genchi, sono circa 578mila. Come detto, ad aver causato la condanna di de Magistris e del suo consulente, è stato il «controllo» (non intercettazione) di alcuni parlamentari, ma la carriera dell’allora pm ha cominciato a prendere una brutta piega a causa delle «anomalie» sui «metodi» utilizzati per indagare, che hanno indotto il Consiglio superiore della magistratura a «condannarlo» con parole definitive. Il Csm «processa» de Magistris per 11 capi d’imputazione riguardanti le sue inchieste più famose e delicate, Why Not compresa. Per sei di essi viene condannato. A sostenere l’accusa sui «peccati giudiziari» di de Magistris è il sostituto procuratore generale della Cassazione, Vito D’Ambrosio, che per descrivere l’allora pm usa queste parole: «Reagisce ai comportamenti dei dirigenti dell’ufficio con strumenti del tutto estranei agli strumenti del processo (...). Utilizza in modo arbitrario dati assolutamente non pertinenti al tema delle indagini, violando la privacy di soggetti terzi (...). Adotta comportamenti sleali nei confronti di colleghi co-assegnatari di alcuni procedimenti (...). Trascura l’osservanza dei termini sia nelle indagini sia in tema di libertà personale (...)». Ed è lo stesso procuratore generale ad affermare che de Magistris è un magistrato che «mantiene rapporti con i mezzi d’informazione del tutto anomali, usando i suoi rapporti privilegiati per fare pubblicità a se stesso e alla sua attività professionale». Uno dei capi d’imputazione che sarà accolto dal Csm riguarda, poi, un’indagine avviata nei confronti di due indagati la cui «iscrizione» non va a finire, come la legge prevede, nel registro degli indagati, ma su un normale foglio di carta.

Travaglio: «Ci sono anche magistrati per male, ma De Magistris deve accettare la sentenza», scrive Luca Rocca su “Il tempo”.

Nessuno stupore per un de Magistris che parla di magistrati “corrotti e collusi”?

«Nessuno. Certe idee le ha sempre manifestate quando da pm indagava su magistrati, appunto, collusi, corrotti o insabbiatori. A Catanzaro, poi, gli remavano tutti contro. Gli hanno tolto le inchieste o gli hanno impedite di finirle perché il ministro Mastella e il presidente Napolitano avevano deciso di schiacciarlo. Perciò no, la sua reazione non mi meraviglia. Il problema è che, anche se lo pensa, non lo può dire, si deve mordere la lingua e attendere l’appello ed eventualmente la Cassazione. De Magistris ha ragione, ci sono magistrati “per male”, ma non può pensare che lo siano tutti quelli che si occupano del suo caso. E poi, deve per forza affidarsi alla giustizia, non può mica prendere le armi.

De Magistris come Berlusconi?

«Un paragone improponibile. Non solo perché Berlusconi era accusato di rubare e de Magistris non si è mai messo in tasca un centesimo, ma anche perché il primo attaccava i giudici da premier, avendo il controllo del ministero della Giustizia, dei servizi segreti, ecc, il secondo parla nel vuoto assoluto e nessuno di autorevole gli dà ragione. Tutti quelli che dicevano che Berlusconi, seppure condannato definitivamente, non doveva decadere perché condannato per un’attività precedente a quella di parlamentare, ora, su De Magistris, dicono solo che la legge è legge».

Lei gli ha chiesto di dimettersi ma è convinto della sua innocenza.

«Perché quel processo fa ridere. Uno può pensare quello che vuole dell’inchiesta Why Not: che era sovradimensionata, che si sarebbe dovuta limitare alle posizioni per le quali c’erano gli elementi più solidi, ma non può dire che era una bolla di sapone, viste le molte condanne e i dibattimenti ancora aperti. Ma soprattutto è ridicolo pensare che chi ha in mano un tabulato telefonico, sappia a chi appartiene quel numero. Tra l’altro, se anche lo desumi, non sai se lo sta usando il proprietario o un amico, e se pure è riferibile alla Camera, può darsi sia di un funzionario o un portaborse. E poi, se anche avesse acquisito un tabulato di un parlamentare senza autorizzazione, non sarebbe così infamante».

Il fatto che lui, da pm, non si fidasse dei suoi capi, può averlo indotto a violare le regole?

«Una volta ha iscritto nel registro degli indagati alcuni amici del suo capo, nascondendoglielo, ma questo è lecito se hai buoni motivi per farlo. Quanto ai deputati il cui numero di telefono è finito nei tabulati in mano a de Magistris e Genchi, è accaduto perché quei politici erano in contatto con Saladino, principale imputato di Why Not. Se avessero selezionato meglio le loro frequentazioni, non sarebbe successo nulla. Tra l’altro la notizia su Prodi indagato fu fatta filtrare da qualcuno della procura per andare in c… a De Magistris. Io da lui, infatti, non ho mai avuto una sola soffiata».

Certo de Magistris non deve aver preso bene l’abbandono di molti “amici”.

«Faccio il giornalista, non mi occupo di amici o nemici. La legge Severino prevede la sospensione per i sindaci in caso di condanna in primo grado. È impossibile avere un’altra posizione. Che poi sia una legge schifosa, non ci sono dubbi. Non solo perché fatta per salvare Berlusconi e Penati, ma anche perché blanda. I parlamentari, infatti, dovrebbero decadere in caso di condanna anche inferiore a due anni e in primo grado, così com’è previsto per gli amministratori locali. E invece loro si levano dalle palle solo se la condanna è definitiva e superiore ai due anni».

Pensa che alla fine De Magistris si dimetterà?

«Non lo so, ma sarebbe stata una grande prova di forza se si fosse dimesso immediatamente spiegando all’opinione pubblica l’assurdità del suo processo, che si rivelerà per quello che è, ridicolo. Ora invece verrà ricordato come colui che strillava per conservare la poltrona. So che non lo fa per questo, ma per affermare che è una persona perbene, ma quello che comunichi, e soprattutto quello che, non essendo Berlusconi o Renzi, gli fanno comunicare i mass media, è molto diverso. E non è una bella immagine».

Santoro, Di Pietro, Travaglio, De Magistris: che fine ha fatto la brigata anti-Cav, scrive “Libero Quotidiano”. E' in rotta totale la banda anti-Cav. A testimonianza del fatto che Silvio Berlusconi, coi suoi pregi e le sue magagne, ha di fatto tenuto in vita  per anni (mediaticamente e politicamente) personaggi che oggi, con lui in posizione defilata e ormai quasi fuori dai guai giudiziari, hanno assai poca ragione di esistere. Il primo a finire ai margini è stato Antonio Di Pietro, "dio" con la toga di Manipulite poi riciclatosi in politica come leader dell'Italia dei valori. Oggi, Tonino fa l'agricoltore a Montenero Di Bisaccia, suo paese naatale in Molise. E ieri è tornato a parlare in pubblico dopo lungo tempo. Dove? Ospite di un convegno sul "piano di sviluppo rurale 2014-2020. Quale futuro per l'agricoltura molisana?". Ad Antonio Ingroia, pure lui fu magistrato riciclato in politica, è andata anche peggio: la sua Azione civile ha fallito in tutti gli appuntamenti elettorali cui si è presentata, le politiche 2013 e le europee 2014. Nessun eletto in entrambe le occasioni. Per consolarsi, Ingroia ha ottenuto due incarichi pubblici nella natia Sicilia dall'amico Rosario Crocetta: commissario di "Sicilia e servizi" e commissario della Provincia di Trapani (incarico, quest'ultimo, scaduto lo scorso 30 giugno). Alla politica sono invece riusciti ad approdare dal mondo dei media due ex "intellettuali giustizialisti" come Barbara Spinelli e Curzio Maltese. La prima aveva dichiarato in campagna elettorale di voler rinunciare all'eventuale seggio in favore del primo dei non eletti, ma ha poi preferito tenersi stretto il posto a Strasburgo. Il secondo, invece, sta facendo il diavolo a quattro per tenersi lo stipendio che riceve a Repubblica accanto al ricco compenso di parlamentare europeo. Dei tanto celebrati (un tempo) "Popolo viola" e "Girotondi" non si hanno notizie ormai da anni. E forse, chissà, tra un anno si perderanno le tracce (almeno televisive) anche di Michele Santoro, il cui intento di mollare "Servizio pubblico" alla fine della stagione appena iniziata non potrà che uscire rinforzato dai risultati di share della prima puntata, con un misero 5,7% e un milione di telespettatori persi per strada rispetto all'esordio della stagione scorsa. Marco Travaglio, da quando non può più prendersela col Cav, disserta di antimafia e Napolitano con infiniti sermoni sul Fatto. E il flop di Santoro su La7 è anche il suo e del vignettista Vauro. Come lo è di Sabina Guzzanti, idola delle (ex) folle antiberlusconiane e che, lei pure come Travaglio, ha preferito virare la sua verve polemica sul tema della mafia. Poi c'è il tragicomico caso di Luigi De Magistris, pure lui ex pm buttatosi in politica (ma forse la faceva anche con la toga addosso). Tragico perchè una città con mille problemi come Napoli si trova pure col problema di un sindaco condannato che, verosimilmente, dovrà lasciare l'incarico con l'applicazione della legge Severino. Comico perchè la prima cosa che Giggino ha fatto dopo aver saputo della pena di un anno e tre mesi inflittagli per abuso d'ufficio è stata partire testa bassa all'attacco dei giudici. Ma quello che faceva così non era Berlusconi?

Luigi De Magistris, il Masaniello che ha tradito Napoli, scrive “Libero Quotidiano”. Era il nostro Masaniello, quello che con la bandana arancione e le gocce di sudore sulla fronte di chi si dà molto da fare, aveva promesso che avrebbe “scassato” Napoli e l’avrebbe ricostruita. Dopo che il rinascimento bassoliniano aveva mostrato la sua faccia più putrida (tonnellate di monnezza che rimbalzavano nelle tv di tutto il mondo), dopo il mesto regno di Rosa Russo Jervolino e della sua giunta di “sfrantummati”, era arrivato lui. Giovane, bello, magistrato, fuori dal Pd, fuori da Forza Italia. Lontano dalla farsa delle primarie del Pd in cui erano stati chiamati a votare compatti battaglioni di cinesi, così diverso dal compassato e troppo discusso  Gianni Lettieri, candidato di Forza Italia. Per i napoletani era la faccia della legalità, la voce della giustizia. Serviva la rivoluzione, lui diceva di volerne fare una di colore arancione e i napoletani ci hanno creduto. Perché siamo alla ricerca di Masaniello, di capipopolo che indicano la strada e arringano la folla. E così gente esultava quando lui, appena diventato sindaco con la camicia bianca aperta sul petto e le maniche svoltate sul gomito, galvanizzato dal quel 65% di sì, urlava e si dimenava: “Abbiamo liberato Napoli”. Napoli aveva (ri) trovato il suo Masaniello. Ma i napoletani non avevano capito di essere stati fregati. Se ne sono accorti giorno dopo giorno, quando alla parole non sono seguiti i fatti, quando per strada la spazzatura continuava ad ammucchiarsi, quando restavano imbottigliati nel traffico mentre il loro sindaco girava in bicicletta con il suo sorriso bianco buono per i flash delle foto. Era troppo tardi. Adesso proprio lui, il pm, ‘o giudice -  come lo chiamano a Napoli - si rivolta contro i suoi ex colleghi. Non vuole dimettersi, nonostante la legge Severino glielo imponga. Dice il contrario di quello che sosteneva quando indossava la toga e credeva di poter cambiare l'Italia a colpi di sentenze. Ma siccome siamo a Napoli, nel paradosso c’è un altro paradosso. Il vice di De Magistris dovrà prendere il suo posto: ma Tommaso Sodano è stato condannato in primo grado per lesioni contro una vigilessa, eppure potrà governare. A lui la legge Severino non si applica perché non è stato eletto. De Magistris è stato spodestato proprio da quella giustizia che era stato il grimaldello per entrare nei cuori dei napoletani. Napoli si ritrova con un sindaco, ex pm, condannato per abuso di ufficio che, violando la legge, vuole restare al suo posto. E i napoletani si sentono come quelli che vanno al mercato, comprano un computer, e poi quando arrivano a casa trovano un mattone nella scatola. Si sentono come chi ha preso un pacco. Ma intanto aspettano un altro Masaniello da acclamare, da adulare e (magari) da mandare a Palazzo San Giacomo.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: disastro De Magistris, peggio da sindaco che in toga. Ha distrutto se stesso e Napoli. Il 30 maggio 2011 Luigi De Magistris diventa sindaco di Napoli, lasciamo perdere come e perché. Il suo motto è subito questo: rivoluzione. Si tratta di capire che cosa succedesse nei successivi due anni e mezzo: bastano quelli e si capisce tutto. Parliamo di un sindaco pluricommissariato, privo di una maggioranza stabile, privo di un partito, privo di un movimento, privo di consenso, condannato alla galera (con la condizionale) in compagnia di un sindaco condannato oppure lui. Ripartiamo da quel giorno, dalla vittoria. Disse subito: «Spero che il vicesindaco sia una giovane donna». Sarà un uomo, un vecchio ex senatore comunista, Tommaso Sodano, già condannato dalla procura di Nola per aver strattonato una vigilessa durante un’occupazione; due anni dopo, nel 2013, finirà invece sott’inchiesta per abuso d’ufficio in relazione a una consulenza da 40mila euro affidata a una docente bergamasca. Ma vediamo altri campioni della squadra. Il Welfare è affidato a Sergio D’Angelo, presidente del Consorzio che raggruppa le cooperative che lavorano con il Comune di Napoli e che vanta 60 milioni di euro di crediti dall’Amministrazione, ma questo palese conflitto d’interessi non indigna nessuno. C’è una rivoluzione in corso. D’Angelo purtroppo sarà condannato in primo grado a quattro mesi di carcere (pena sospesa e commutata) per induzione a manifestazioni violente. La rivoluzione, già: «Ho un sogno che potrebbe concretizzarsi: portare il presidente degli Stati Uniti d’America per Natale in città. Negli States sono molto attenti a questo fenomeno napoletano del movimento civico che mi sostiene, i contatti sono frequenti». Obama sorveglia Napoli. Forse coi satelliti: perché non verrà mai. E neanche Al Pacino verrà mai: ma su youtube c’è ancora il leggendario video in cui De Magistris invita l’attore in città: «Ellò, Al. Aimm Luigi De Magistris, de megior ov Neipols». Non andrà meglio con Bruce Springsteen, che a fine maggio 2013 terrà un concerto ma scapperà via subito. Ma parliamo di spazzatura, che è il caso. A metà giugno 2011, mentre 10mila tonnellate di pattume marciscono per strada, De Magistris annuncia che risolverà il problema in «quattro o cinque giorni» (la frase è anche diventata un rap musicale) e parla di eventuale piano B e pure C. E annuncia che a capo della partecipata ambientale della città andrà Raphael Rossi, il manager diventato famoso per aver denunciato due imprenditori che gli avevano proposto una mazzetta. Ma il matrimonio durerà poco e finirà male. Dopo cinque giorni ovviamente non succede niente. De Magistris accusa trame oscure: «Napoli sarà liberata dai rifiuti nonostante il tentativo di sabotaggio messo in atto in queste ore da certi ambienti refrattari ad accettare la svolta politica che stiamo attuando». Ma il 23 giugno deve ammettere che la situazione è grave. Nel pieno dell’emergenza, non si perde il Gay Pride: è in testa al corteo con un ombrellino verde a fiori. Due anni dopo metterà due orecchini rossi. Il 12 luglio però la situazione è gravissima. Un gruppo di napoletani scaraventa dei sacchettoni di monnezza contro il municipio. Rivoluzione arancione, sacchi neri e incazzati pure. Inutile farla lunga: si parlerà tutti i giorni di spazzatura almeno sino a Natale. In quei giorni De Magistris si mette a querelare «coloro che, in questi giorni, a ogni livello, hanno gravemente compromesso l’immagine della città», cioè i giornalisti e i fotografi. Scarafaggi: non i giornalisti, ma le “Periplaneta americana” che intanto stanno invadendo Napoli, blatte rosse. La cosa fa il giro del mondo. Le Point titola: «Uno scarafaggio nella pizza». Le cose miglioreranno lentamente: ma solo perché apriranno delle discariche (Chiaiano, per esempio) o solo grazie all’aiuto finanziario della Provincia retta dal nemico politico Luigi Cesaro. Poi spuntano le navi olandesi che trasporteranno il pattume nel Mare del Nord, un’assurdità costosissima. In breve: la promessa della campagna elettorale, quella di raggiungere il 70 per cento di raccolta differenziata entro il 2011, non sarà minimamente rispettata. Il tasso rimarrà al 25 per cento, come ai tempi della miglior Iervolino. Intanto spuntano piccoli o grandi nepotismi. Dagospia rivela che la giovane Lucia Russo, collaboratrice dell’assessore allo Sport, è la cugina di De Magistris. Tra l’altro, durante la campagna elettorale, era stata intervistata come "disoccupata". Poi, nella stanza a fianco a quella del sindaco, spunta anche Claudio De Magistris: è il fratello, un impresario musicale che diventa capo della segreteria politica: a pagarlo è l’Italia dei Valori. Ma neanche il fratello durerà molto. Nel novembre 2012, peraltro, si scoprirà che l’avevano mandato in Grecia al “World Music Expo” perché la cosa era «di assoluta importanza strategica per l’Amministrazione». II 2012, per De Magistris, sarà un anno orrendo. Licenziamenti, dimissioni, allontanamenti, litigi. L’aria si fa pesante. Raphael Rossi, l’esperto di rifiuti già glorificato su Report, viene silurato. Motivo: l’assunzione di 23 persone contro il suo parere. «Erano inutili e fuori dal diritto», dice. De Magistris perde anche la presenza di Roberto Vecchioni alla guida del Forum delle Culture, a tre mesi dalla nomina. Gli subentra l’ambasciatore Francesco Caruso che lascia anche lui, subito. Presto si dimetterà tutto il comitato tecnico-scientifico del Forum. Ma è la perdita di Giuseppe Narducci quella che fa male: è l’ex magistrato di Calciopoli e neo assessore a trasparenza e legalità. Dimesso. O silurato, chissà: la trasparenza è poca. «L’impressione che io ne ricavo - dirà - è quella di un clima ostile alla manifestazione delle idee e delle opinioni...». Ah beh. Poi se ne va l’assessore al Bilancio Riccardo Realfonzo, economista: silurato nonostante fosse stato tra i primi nomi indicati. Dirà: «È rimasto inascoltato il mio invito a rafforzare la lotta all’evasione». Il sindaco in quei giorni pensa ad altro, e scalda i cuori con le barche della World Series 2012-2013 che navigano nel Golfo: una vittoria, anche se, di fronte alle inchieste e alle difficoltà, farà un classico passetto indietro: «La Coppa America non l’ho voluta solo io, potrei anche rinunciarvi». La Coppa, comunque, è costata 16 milioni di fondi pubblici. Venezia, per lo stesso evento, di fondi pubblici non ha stanziato nemmeno un euro. La sagra delle promesse mancate, di qui in poi, è una comica. Aveva detto: i miei assessori non useranno le auto blu ma andranno in bici. Ma le bici rimarranno in garage, e De Magistris l’auto blu continuierà ad usarla. Aveva detto: Napoli avrà la sua moschea entro il 2011. Non c’è. Aveva detto: «Progetto per il nuovo stadio entro il 2011». Non c’è. Ci fu, in compenso, la cittadinanza onoraria al leader palestinese Abu Mazen, e dal porto di Napoli partì una nave di un’organizzazione filopalestinese. Tutte cose che i napoletani attendevano frementi. Di qui in poi dobbiamo correre. De Magistris annuncia un intervento immediato per smantellare la favela di Sant’Erasmo, una bomba sanitaria: è ancora lì, e ci sarà anche un’inchiesta con De Magistris e l’assessore Anna Donati indagati per omissione d’atti d’ufficio e attentato alla sicurezza stradale. Cominciano a mollarlo tutti, in quel periodo, anche perché Napoli è un caso unico in Europa. Per proteggerlo dall’ira dei disoccupati, devono chiamare la Polizia: quasi gli sfasciano l’auto a calci e pugni, con lui dentro. Il segretario Uil Luigi Angeletti: «Alla fine del suo mandato i disoccupati saranno aumentati». La Cisl regionale: «De Magistris confessi le sue gravi responsabilità». Cioè? «Gare negoziate per gli amici degli amici, spazi pubblici assegnati senza delibere». Il sindaco viene pubblicamente mollato pure da Saviano. L’Espresso lo fa a pezzi con tanto di copertina. De Magistris è crollato dal primo al 17esimo posto nel gradimento degli italiani sui sindaci - rileva il Sole 24ore. E non sono passati neanche due anni. Gian Marco Chiocci e Simone di Meo scrivono per Rubbettino il libro definitivo su De Magistris: “Il pubblico mistero”, documentatissima summa delle ragioni per cui tanti elettori napoletani finiranno in purgatorio. Il fallimento, nel 2013, si riversa nelle elezioni politiche: “Rivoluzione civile”, in cui sono confluiti gli arancioni napoletani, si ferma al 2,25 per cento alla Camera e all’1,79 al Senato, e nella Napoli rivoluzionaria becca solo il 3,07 per cento. De Magistris incolpa, e scarica, Di Pietro e Ingroia. Non senza charme: «Io non ero candidato: quando in passato ho chiesto i voti, a Bruxelles come a Napoli, sono sempre arrivato primo. È stato Ingroia, a questo giro, a metterci la faccia». De Magistris, oggi, non ne ha più una.

Luigi de Magistris condannato, il prefetto prende tempo sulla sospensione. Si attende la fine del vertice europeo a Napoli del 2 ottobre, scrive Claudia Fusani su “L'Huffington Post”. A Napoli si sta verificando l'ennesimo mistero. O miracolo. O anche pasticcio. A sei giorni dalla sentenza del Tribunale di Roma che ha condannato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris a un anno e tre mesi per abuso di ufficio, nulla accade. A quest'ora il sindaco, in base alla legge Severino che impone l'abbandono della carica da parte di amministratori pubblici condannati anche solo in primo grado. Avrebbe già dovuto essere dimissionario. Oppure sospeso su ordine del prefetto Musolino. Prefetto che forse sta aspettando la fine del vertice europeo previsto per il 2 ottobre Napoli a cui saranno presenti anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Bce Mario Draghi. Ma c'è di più. Ci sarebbe ancora qualche dubbio sull'interpretazione sulla legge Severino, soprattutto per quanto riguarda il caso de Magistris,con la prescrizione prevista per il dicembre 2014. Intanto siamo alle cronache marziane. In più atti.

Primo atto. A sei giorni dalla sentenza, infatti, il prefetto Musolino dice: "Il caso de Magistris? Attendiamo gli atti poi ne parliamo''. Ciò significa, se prendiamo in parola la dichiarazione del prefetto, che in sei giorni non è stato ancora possibile trasmettere da Roma a Napoli, dal tribunale alla prefettura, quella dozzina di fogli con su scritta la condanna del sindaco, all'epoca dei fatti magistrato a Catanzaro, e del suo investigatore Gioacchino Genchi. Ora, per quanto gli uffici giudiziari, e anche le prefettura, possano soffrire di tagli e ristrettezze, siamo sicuri che un fax, non di quelli con lo scanner ma vecchio tipo, è sicuramente in funzione. E sei giorni, comunque, erano sufficienti anche per la posta ordinaria.

Secondo atto. Il condannato, il sindaco, non molla: convinto di essere vittima, pure lui, dei "poteri forti e anche un po' deviati che vogliono abbattere un sindaco per bene", annuncia e ripete da giorni che "farà il sindaco sospeso". La città, Napoli, che ha inventato la buona abitudine del caffè sospeso, quello lasciato pagato al bar per il prossimo avventore spesso sconosciuto, adesso si potrà cimentare con la novità del sindaco sospeso. "Napoli è la città della creatività,troveremo il modo di stare ancor più per strada" ripete de Magistris da giorni. Motiva la sua scelta, contro tutti e tutto, con il fatto che "la sospensione è a termine" (in base alla legge Severino non può durare più di 18 mesi) e che lui "non si dimette". "Se qualcuno ritiene che la legge Severino debba essere applicata al mio caso, faccia pure: io continuo a fare il sindaco "sospeso", farò i miei ricorsi e produrrò i miei motivi". Stato civile attuale: "Innocente che critica una sentenza" visto che i magistrati "non sono il Moloch dell'etica pubblica".

Il terzo atto è la città Napoli, dove nei primi tre anni di mandato de Magistris (scadenza naturale maggio 2016) è riuscito a fare molto poco. Quasi nulla. Dove il vicesindaco, Tommaso Sodano sa tutto di rifiuti ma l'8 ottobre potrebbe essere rinviato a giudizio per abuso d'ufficio (avrebbe assunto in comune una persona legata a lui). E dove è anche difficile individuare una persona in grado di guidare la città. Con il sindaco sospeso in giro, poi, è praticamente impossibile. Ma andare al voto anticipato serve tempo. Almeno primavera.

Lasciando le cronache marziane agli appassionati, e cercando di portare i piedi in terra, è probabile che i tempi di un passaggio inevitabile (de Magistris deve lasciare l'incarico) siano volutamente più lunghi perché il 2 ottobre Napoli ospita un importante vertice europeo a cui saranno presenti anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e il presidente della Bce Mario Draghi. Se è vero, come è vero, che de Magistris non molla, è probabile che il prefetto Musolino preferisca congelare la situazione fino a dopo il vertice e lasciare così la città con una guida ancora effettiva e non esautorata. Ma le parole del prefetto ("leggeremo gli atti, poi ne parliamo") non sembrano solo voler prendere tempo in attesa di far calmare la situazione e sperare di evitare provvedimenti drammatici anche nei confronti di de Magistris. Autorizzano anche altre ipotesi. Non ultimo il fatto che il reato per cui de Magistris è stato condannato prescrive a dicembre 2014. I giudici del Tribunale di Roma, poi, hanno deciso la non menzione della pena per de Magistris. Segno che non ritengono i fatti reato tali da condizionare la sua vita anche di pubblico ufficiale. Due variabili non previste dagli articoli 10 e 11 delle decreto legislativo che ha declinato i modi e i tempi della incandidabilità e della decadenza da incarico pubblico stabiliti dalla legge Severino (la condanna, anche sotto i i due anni e anche in primo grado, di reati contro la pubblica amministrazione come l'abuso di ufficio).

De Magistris, “Non mi dimetto”. Grasso: “Applicare legge Severino”. Qualcuno dice che io mi dovrei dimettere perché una sentenza di questo tipo mi ha condannato. Io credo che guardandosi allo specchio e provando vergogna quei giudici di quel tribunale si dovrebbero dimettere, non certo io che ho fatto sempre il mio dovere”. Così il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, è intervenuto in Consiglio comunale in merito alla condanna per abuso d’ufficio nel processo “Why not”, scrive “Il Garantista”. Perché si tratta di “una sentenza che giuridicamente fa acqua da tutte le parti”. “Le sentenze devono essere rispettate, ma le sentenze vanno anche raccontate”, ha aggiunto. Dura la replica dell’Associazione nazionale magistrati, che giudica ”gravi e offensive le dichiarazioni rese dal sindaco di Napoli nei confronti dei giudici del Tribunale di Roma in relazione alla sentenza emessa nei suoi confronti”. L’Anm, prosegue la nota, ”pur non entrando nel merito della vicenda giudiziaria, osserva che le espressioni usate vanno ben oltre i limiti di una legittima critica a una sentenza perché esprimono disprezzo verso la giurisdizione”. ”Si tratta di parole tanto più inaccettabili poiché provenienti da un uomo delle istituzioni che ha per anni anche svolto la funzione giudiziaria”, aggiunge l’Anm. L’ex pm però si difende. “Non ho fatto dichiarazioni nei confronti della Magistratura ma nei confronti della sentenza che ho diritto di giudicare inaccettabile, grave, intrisa di violazioni di legge e vergognosa”. “Se l’Anm intende censurare le mie dichiarazioni ha tutto il diritto di farlo – aggiunge de Magistris – così come io ho tutto il diritto di fare critiche da persona che pensa di aver subito un’ingiustizia. Ai magistrati, tantissimi, che ogni giorno con la schiena dritta combattono la corruzione e il crimine va tutto il mio plauso e il mio appoggio. Ma la Magistratura non è un “moloch” di persone per bene, ci sono anche fior di delinquenti che non applicano la legge nel rispetto della Costituzione”, conclude de Magistris. Il sindaco di Napoli si dice “assolutamente fiducioso che questa esperienza arriverà fino alla fine”. E rilancia. “Se dovesse malauguratamente arrivare la sospensione starò meno a Palazzo San Giacomo e più per strada. Farò il sindaco sospeso”. “Sarebbe un’ulteriore ingiustizia – ha detto de Magistris – ma di fatto continuerò a fare il sindaco. Il vicesindaco firmerà gli atti e io farò il “sindaco sospeso” in strada, parlando con i cittadini per far capire loro che questo Paese è corrotto nelle fondamenta”. “Da domani inizieremo a pubblicare tutti gli atti relativi alle mie vicende giudiziarie affinché non siano solo i magistrati a valutare ma anche i cittadini”. “Sono stato condannato per aver disposto con un decreto l’acquisizione di alcune utenze di parlamentari che un consulente aveva chiesto di acquisire, e accanto all’utenza non c’era il nome del parlamentare – ha aggiunto – quando si è scoperto ho attivato le procedure per le autorizzazioni. In un paese democratico ci si preoccupa casomai di come mai determinati parlamentari avessero determinati rapporti, e sembra paradossale che gli accusati diventino accusatori”. “Ancora una volta – ha aggiunto – non solo avverto intatta la mia forza ma se è possibile avverto un’energia ulteriore rispetto a quella che avevo prima, perché avverto ancora di più il senso di responsabilità. Quando si alza il tiro e quando non ci si piega, l’artiglieria pesante che viene messa in campo dall’altra parte diventa sempre più pericolosa. Noi non abbiamo artiglieria pesante, ma sappiamo resistere e resisteremo”. “Siamo di fronte a uno Stato profondamente corrotto”, ha detto ancora l’ex pm aggiungendo: “Io sono un uomo delle istituzioni, non mi farò trascinare a non avere più fiducia nello Stato e nelle istituzioni perché so che all’interno delle istituzioni ci sono donne e uomini che sapranno riparare a queste violazioni di legge”. In mattinata, il presidente del Senato Pietro Grasso, rispondendo a una domanda sulla possibile sospensione del sindaco, aveva sottolineato: “”La legge Severino è una legge che va applicata. E’ stata già applicata ad altri sindaci”. “Penso sia inevitabile che sia applicata – ha aggiunto la seconda carica dello Stato a Napoli per l’inaugurazione della Fondazione Quartieri Spagnoli, – poi ci sarà naturalmente il seguito dell’appello che potrà eventualmente dare un contorno definitivo alla vicenda”. Quanto a de Magistris “valuterà al meglio la situazione e sa benissimo che, se non lo dovesse fare, ci sarebbe comunque un provvedimento da parte del prefetto non appena si renderà esecutiva la sentenza oppure si depositerà la motivazione”, ha detto ancora Grasso riguardo la necessità o meno di dimissioni da parte dell’ex pm. “Grasso è il presidente del Senato e ha tutta la legittimità ad affermare quello che dice – commenta de Magistris -. Ma chiariamo che una cosa è la sospensione e un’altra sono le dimissioni”. “La sospensione è un atto tutto da vedere. Vedremo se ci saranno gli estremi e, se qualcuno si assumerà la responsabilità di una sospensione, si potrà impugnare”. Le dimissioni, ribadisce il sindaco, “sono un’altra cosa. Non ci saranno perché io non solo resterò, ma continuerò a difendere questa esperienza che dà fastidio a molti. A Napoli abbiamo buttato fuori dai palazzi della politica affaristi che vogliono rimettere le mani sulla città”. “Stiamo aspettando gli atti”, ha detto il prefetto di Napoli, Francesco Antonio Musolino, il quale non ha spiegato se, alla trasmissione della sentenza, sarà automatica o meno la sospensione del primo cittadino dalla carica. Dal mondo politico però, in tanti chiedono le dimissioni di de Magistris. ”Napoli è una città ostaggio del delirio di un uomo che ha fatto il sindaco peggio di come ha fatto il pm, De Magistris deve dimettersi subito e non per la vicenda giudiziaria, ma perché ha fallito come amministratore e la sua inadeguatezza è pari solo alla sua arroganza” dice la portavoce del gruppo Fi alla Camera, Mara Carfagna. “Seguendo i suoi criteri, De Magistris si dovrebbe dimettere non una, ma dieci volte – afferma il deputato Ncd, Fabrizio Cicchitto-. Comunque è incredibile il meccanismo protettivo in atto. Se fosse capitato non ad un ex magistrato, ma ad un qualunque uomo politico le richieste di dimissioni ora fioccherebbero, anche perché i reati di cui si sono resi responsabili De Magistris e Genchi sono gravissimi. I guasti che questi due signori hanno combinato sono stati incredibili e adesso uno di questi continua a fare il sindaco di Napoli”. Anche la Lega va all’attacco. “‘Giggino’ De Magistris, sindaco di Napoli, dopo la condanna per abuso d’ufficio, dice che non si dimette, che resisterà ‘perché la sua esperienza dà fastidio a molti'”. Visto come è conciata Napoli, penso che dia fastidio soprattutto ai suoi cittadini! Dimissioni” afferma Matteo Salvini. “Niente trucchi o giochi di palazzo a Napoli: De Magistris si dimetta per consentire ai cittadini di tornare a votare in primavera, quando la Campania sarà chiamata a eleggere il presidente della regione” commenta infine la presidente di Fdi-An Giorgia Meloni. Luigi de Magistris: “Renderò pubblici i verbali sui poteri forti che vogliono la mia fine”.

Il sindaco di Napoli attacca tutti e tutto. A cominciare dal presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi parla del futuro: «Mi sono dimesso da magistrato, se sarò sospeso sarò un disoccupato», scrive Duccio Giordano su “L’Espresso. Dopo la condanna a un anno e tre mesi per abuso d'ufficio, che potrebbe comportare la sospensione dalla carica di sindaco di Napoli, Luigi de Magistris si sfoga in una intervista esclusiva con  l’Espresso. L'ex magistrato attacca tutto e tutti. Iniziando dal Presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi promette di rivelare quali sono i poteri forti che vogliono la sua fine politica dichiarando che pubblicherà i verbali che ha reso di fronte all’autorità giudiziaria e dai quali si evinceranno alcuni nomi illustri che ancora oggi rivestono incarichi importanti nel nostro paese. Infine, parlando del suo futuro: «Non mi dimetto, la mia battaglia è giusta. Fossi sospeso dovrei inventarmi un lavoro». Il Sindaco di Napoli, dopo la condanna a 1 anno e tre mesi per abuso di ufficio che potrebbe portare presto alla sua sospensione dalla carica, si sfoga con L’Espresso. E attacca tutto e tutti. Iniziando dal Presidente della Repubblica: «Napolitano è stato protagonista di ingiustizie profonde nei miei confronti». Poi promette di rivelare quali sono i poteri forti che vogliono la sua fine politica dichiarando che pubblicherà i verbali che ha reso di fronte all’autorità giudiziaria e dai quali si evinceranno alcuni nomi illustri che ancora oggi rivestono incarichi importanti nel nostro paese. In fine parlando del suo futuro: «Non mi dimetto, la mia battaglia è giusta fossi sospeso dovrei inventarmi un lavoro».

Sindaco come sta?

“Sono sereno, arrabbiato, indignato, offeso, ma sereno perché ho fatto il mio dovere e rifarei tutto quello che ho fatto e quindi ho la coscienza pulita e posso guardare negli occhi le persone che incontro ogni giorno sulla mia strada”.

Bassolino: «De Magistris è finito». Vendola: «Mi ha deluso». Non ha avuto solidarietà quasi da nessuno le dispiace?

“Solidarietà dal mondo politico tranne rare occasioni non ce n'è stata. Sono intervenuti tutti in modo approssimativo e superficiale. Bassolino è un politico che ci ha lasciati pieni di spazzatura, senza un turista e con un milione e mezzo di debiti; se c'è una persona che politicamente è finita, questa si chiama Antonio Bassolino”.

Di lei Marco Travaglio ha detto: «E’ innocente ma deve dimettersi».

“Marco ritiene che sempre e comunque il principio della legalità formale debba prevalere. Io penso che la giustizia sia più forte della legalità formale e che anche la magistratura può sbagliare. Lo ringrazio perché lui è uno di quelli che ha guardato in profondità e sa che sono innocente. Ma io non mi dimetto”.

E Gioacchino Genchi, poliziotto e suo consulente informatico nel 2007, anche lui innocente?

“I rapporti con Gioacchino Genchi si sono deteriorati, c'è stata una frattura quindi non c'è più quel rapporto di lealtà e di collaborazione forte che c'è stato durante le indagini preliminari. Durante le indagini non ho mai avuto dubbi su Gioacchino Genchi, dopo non ho apprezzato le sue dichiarazioni  e alcune sue condotte. Io durante le indagini non ho avuto nessun motivo che mi potesse far immaginare che lui sapesse che quelle utenze potessero essere riconducibili a parlamentari. L'accusa e la condanna nei miei confronti sono davvero una barzelletta. Io vengo condannato per aver disposto con decreto ad un consulente tecnico l'acquisizione di determinate utenze individuate, ovviamente, dal consulente tecnico. Lui mi da i numeri e secondo i giudici io attraverso quei numeri, dove non c'era indicato del parlamentare Tizio o Caio, dovevo sapere che erano di parlamentari? Una follia. Poi, nel momento in cui il consulente mi ha detto che si trattava di numeri di parlamentari, mi sono fermato e ho attivato le procedure per ricevere le autorizzazioni dal Parlamento. Inoltre, le intercettazioni non sono state neanche usate quindi non c'è danno, non c'è reato, non c'è nulla. Ecco perché oggi sto usando toni che alcuni dicono essere duri”.

I poteri massonici che ha cercato di fermare si stanno vendicando?

“I poteri massonici si sono già vendicati. Ci sono intercettazioni telefoniche di Chiaravalloti che dicono: 'Lo costringeremo per tutta la vita a difendersi'. Io ho toccato fili ad altissima tensione. Non sono frasi fatte o generiche, ci sono verbali che io ho rilasciato all'autorità giudiziaria, alcuni sono pubblici, sono stati resi noti, altri no; il mio impegno nelle prossime ore e di svelarli tutti. Io credo di aver messo le mani in qualcosa di molto grande, non solo molto più grande di me. Non mi sono reso conto di quanto fossero grandi e di come molte delle persone implicate siano ancora oggi in posizioni apicali nelle istituzioni della Repubblica Italiana”.

«Lo stato putrido e corrotto» e «I soliti poteri forti», sono parole sue. Non le sembrano affermazioni eccessive, pericolose soprattutto se provenienti da un uomo dello Stato?

“Ci sono servitori dello Stato straordinari, coraggiosi. Donne e uomini eroici. Ma pezzi di Stato significativi sono putrefatti; sono intrisi di corruzione. Questi usano la legalità formale che ha un’efficacia di violenza morale che, per certi versi, può essere più pericolosa della violenza fisica. La violenza fisica erge l’attenzione dell’opinione pubblica qua invece si insinua il dubbio, la calunnia, la delegittimazione”.

Quindi lei conferma le frasi che ha detto?

“Uno che da anni sta subendo ingiustizie di questa portata, cose che hanno sconvolto la mia vita familiare e il mio lavoro. Io mi sono dimesso da magistrato. Attualmente non ho lavoro, se vengo sospeso sarò un disoccupato, sarò uno che si inventerà di come vivere. Quindi per me sono toni giusti, necessari in certi  momenti”.

Se dovessero sospenderla o se si dovesse dimettere, avrebbero vinto loro: è così che la vede?

“Ma io non mi dimetto. E la sospensione mi porterà a fare il sindaco di strada che è anche molto affascinante. Farò il sindaco in mezzo alla gente, metterò aiuole, riempirò buche”.

Non crede di essersi isolato troppo durante questi primi anni del suo mandato?

“Io in questi tre anni sono stato un uomo che ha fatto comunque anche una rete di contatti tra le istituzioni, ho dialogato con il governo, ho dialogato con la regione. Ho dialogato con Napolitano che quando io ero magistrato è stato anche uno dei protagonisti di ingiustizie profonde nei miei confronti. Ho anteposto gli interessi di una città a un dolore profondissimo che avevo nel mio cuore perché mi hanno infranto il sogno più grande cioè quello di fare il magistrato per sempre”.

Che futuro immagina per la città di Napoli senza di lei?

“Napoli fino al 2016 sarà una cosa sola con il suo sindaco e io sarò pancia a terra tutto il tempo per la città e per i napoletani”.

Luigi de Magistris, il sindaco è stato scassato. La fine berlusconiana dell'ex pm condannato. Il primo cittadino di Napoli rischia di decadere dal suo incarico dopo la condanna in primo grado. E mentre annuncia di non volersi dimettere e attacca la magistratura, ricordando per toni e parole Silvio Berlusconi, la sua avventura politica appare ormai al tramonto, scrive Susanna Turco su “L’Espresso”. Luigi de Magistris Dice che non si vuol dimettere, che è vittima di “un’ingiustizia”, che contro di lui è stata emessa una sentenza politica dietro la quale si nascondono “poteri forti” o meglio “sistemi criminali”, parla del “prezzo della libertà” (la sua), ricorda di aver subito “novanta processi”, protesta che il “tribunale competente era un altro” e non quello che lo ha giudicato, dice che le sentenze “vanno spiegate”, che la sua “fa acqua da tutte le parti” e che “sono i giudici a doversi dimettere”. Contesta, addirittura, che la legge Severino possa essere applicata al suo caso. Insomma non c’è nulla, nella sua autodifesa, che non somigli a quella – mettiamo – di un altro imputato (e condannato) eccellente come Silvio Berlusconi. Ed è una vertigine dai troppi aggettivi possibili che a parlare sia invece Luigi De Magistris, 47 anni, sindaco di Napoli, ex magistrato, condannato a un anno e tre mesi per abuso d’ufficio, un anno di interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria (con la sospensione della condanna), per aver acquisito senza le necessarie autorizzazioni i tabulati di alcuni politici ai tempi dell’inchiesta Why not (che nel 2007 contribuì non poco alla frantumazione del governo Prodi). "Non abbiamo l'artiglieria pesante ma sappiamo resistere. Andrò avanti fino a metà giugno 2016 contro un sistema putrido che cerca di fregarti alle spalle. I criminali hanno più coraggio, almeno te lo dicono in faccia che vogliono abbatterti". Queste le parole pronunciate da Luigi De Magistris in consiglio comunale in seguito alla sentenza di condanna a un anno e tre mesi. Non è la vis retorica a lasciare a bocca aperta, ma la torsione sostanziale. Il sindaco di Napoli è infatti avvezzo da sempre all’iperbole, per così dire. “E’ ora di scassare l’ordine costituito neoliberista e realizzare una società fondata sulla giustizia. W la rivoluzione” , scrisse su twitter nel 2012. “La mia decisione è rivoluzionaria”, scrisse nel 2011 quando si candidò a sindaco, raccontando di aver raccolto negli incontri con la gente “una voce che ha cominciato ad essere assordante nelle mie orecchie: tocca a te, tocca a te, rappresenti l’uscita d’emergenza”. Insomma l’uomo è fatto così, e anche su questo ha costruito la propria fortuna: promettendo, ad esempio, di risolvere l’emergenza rifiuti entro cinque giorni dal suo insediamento. Ma oggi la sua determinazione a “resistere” perché “non si può cancellare un sindaco a colpi di formalismi giudiziari” (il formalismo sarebbe la legge Severino), quel contrapporre da ex magistrato la sua convinzione personale (l’innocenza, come qualsiasi imputato) agli atti dei giudici e alle leggi stesse, mentre voci di certo non imputabili di ostilità preconcetta come quella di Marco Travaglio lo invitano alle dimissioni, racconta lo schianto di un’epoca. Che era partita per “scassare”, e a quanto pare è finita scassata. C’era un tempo, in verità vicinissimo, nel quale la tendenza De Magistris pareva infatti il futuro vitale della sinistra, o almeno di una certa sinistra. Alternativa a quella affaticata del Pd, più solida della troppo divisa sinistra radicale, in qualche modo pre-grillina. Nell’Italia dei Valori di Di Pietro, dove De Magistris si candidò nel 2009 arrivando secondo quanto a numero di voti a Silvio Berlusconi, il sindaco di Napoli rappresentava la voce alternativa, la scocciante promessa che non arrivava mai al parricidio, ma l’adombrava. Nel 2011, quando si candidò per Napoli litigando per ciò con Grillo (che l’aveva sostenuto nella corsa europea) De Magistris fu la rappresentazione plastica, in tandem con il caso, pur diverso, di Giuliano Pisapia a Milano, di come il partito democratico faticasse a intercettare il cambiamento. Lui, invece, sì. “Realizzeremo una scossa morale e di etica pubblica”, prometteva. Era il movimento arancione, l’idea del partito dei sindaci che faceva capolino, di nuovo, a braccetto con la figura dell’ex magistrato che scendeva in politica per riportarla in alto. Nel 2012, per dire, quello di Napoli era il sindaco più amato d’Italia, secondo la classifica del Sole 24 ore. S’immaginava di passare dalla lista “Napoli tua” a quella “Italia tua”. Un mondo schiantato giù in un giro di valzer. Appena il tempo di mettere in piedi – con Antonio Ingroia e Antonio di Pietro - la Rivoluzione civile per le elezioni politiche del 2013, e perdere persino l’occasione di entrarci, in Parlamento. Di quella promessa mancata – in parte passata di mano al movimento grillino - restava in piedi forse solo lui, De Magistris. Che, nonostante la criticatissima gestione della sua città, solo tre mesi fa dava per certa la propria ricandidatura, lasciando in dubbio esclusivamente l’alleanza col Pd. Adesso, in un ennesimo tandem sgangherato tra azioni della magistratura e azioni della politica, par di capire che – dimissioni o no - la casella “sindaco di Napoli” tornerà ad essere vuota. Lasciando al nuovo che nel frattempo è avanzato fino al governo, maggior agio per farla rientrare nel gran valzer delle poltrone. Tra rimpasto ministeriale e regionali prossime venture.

Finisce l’epoca dello strapotere dei giudici, scrive Valerio Spigarelli su “Il Garantista”. Sul caso De Magistris sono piovute decine di prese di posizione, che però non hanno colto il punto vero della vicenda. C’è stato chi ha commentato l’ovvio, cioè il paradosso di un alfiere del primato morale del potere giudiziario che si trasforma nel più feroce ed interessato dei critici quando sperimenta sulla sua carne che cosa significa la gogna di fronte all’esito, sia pure non definitivo, di una vicenda processuale. Un critico che non disdegna l’allusione alla corruzione morale dei giudici e, con evidente sopravvalutazione di se stesso, arriva ad immaginare che la legge Severino sia stata concepita dalla sua autrice, sua controparte in un processo, per danneggiarlo. Un’esagerazione, che si poteva liquidare con una battuta “Ma chi ti credi di essere, Berlusconi?”. Questa prima linea di pensiero ha compreso anche coloro che hanno rimarcato, sia pure con parole alate, che, in fondo, al Pm di Why not questo contrappasso giudiziario “gli sta bene”, visto che ha costruito le sue fortune sulla stessa logica, e senza neppure vincere i processi. Tra i cultori dell’ovvio, a ben vedere, rientra anche l’ANM, la quale ha stigmatizzato le parole di De Magistris come un attacco scomposto alla giurisdizione ben lontane da una critica, sia pure violenta, ad una singola sentenza. Senza farsi sfiorare dal dubbio, doveroso per un sindacato di magistrati, che l’esito della parabola politico giudiziaria del sindaco arancione stava scritto negli eccessi dei pm che quel sindacato ha coperto per anni. Insomma, sul tiro a “Giggino a manetta” si sono esercitati in tanti, e non era un esercizio difficile diciamolo chiaramente, perché il sindaco di Napoli l’ha detta veramente grossa; talmente grossa, però, da non costituire un problema, anzi da muovere quasi a simpatia umana. Una seconda linea di pensiero ha fatto emergere la schiera bipartisan dei garantisti a dondolo, cui appartengono in massima parte quegli esponenti politici che fanno le facce schifate sulle leggi ingiuste solo fino a quando non colpisco un avversario; allora scoprono le virtù progressive dell’antico, ipocrita, motto, secondo cui la “legge è legge e va applicata”. Anche se, quando l’avevano licenziata, quella legge, gli stessi la bollavano come incostituzionale. Campione della categoria è risultato Brunetta, che pure si dichiara erede di idee liberali. A questo gruppo, peraltro, appartiene, in maniera speculare ma in fondo identica, il Fatto Quotidiano, che si scopre garantista di giornata quando ciò che augura quotidianamente a qualsiasi esponente della classe dirigente, cioè un bel check up morale di stampo giudiziario, capita ad un campione dei giustizialisti. Allora le formidabili virtù democratiche della scelta popolare prevalgono su quelle incerte e caduche della democrazia giudiziaria; ragionamento ad personam, verrebbe da dire. Infine c’è stato chi, i penalisti, ha rammentato i dubbi a suo tempo espressi nei confronti della legge Severino. Una legge che resta assai discutibile dal punto di vista costituzionale, anche se applicata a chi è uno dei prodotti del distorto impasto tra politica e Giustizia che in Italia regna da decenni. Un impasto di stampo schiettamente autoritario, come sono autoritarie le idee sulla Giustizia dei Di Pietro, degli Ingroia, e di nuovo dei De Magistris; non a caso tutti pm che hanno fondato partitini personalistici transitando, senza soluzione di continuità, dall’agone giudiziario a quello elettorale. E qui sta il punto vero della questione, anche se pochi lo hanno sottolineato. La ribellione del paladino della democrazia giudiziaria non è solo un gesto di incoerenza personale ma il sintomo di una stagione che si sta chiudendo. De Magistris non parlerebbe come un Berlusconi qualsiasi se non percepisse, al di là della polifonia che abbiamo visto, che l’idea della via giudiziaria a… qualsiasi cosa è entrata in crisi e con essa la pretesa della supremazia morale del Potere Giudiziario. In questa fase, dai boatos di Renzi nei confronti dell’ Anm, alle riflessioni di giuristi di sinistra come Fiandaca, alla insofferenza diffusa per la difesa da parte della magistratura di privilegi in tema di ferie – veri o presunti importa poco – cresce, anche a sinistra, la consapevolezza che il Potere Giudiziario non ha bisogno di indossare toghe rosse o nere per esercitare un condizionamento eccessivo sulla dinamiche democratiche: gli basta la ricerca del consenso di piazza assicurato anche da un circuito mediatico giudiziario ormai sperimentato. Ed allora, ben più che sulla collera del sindaco, i campioni della politica in questi giorni dovrebbero impegnarsi a riflettere sulla infinita vicenda della riforma/non riforma costituzionale della Giustizia, oppure sul cortocircuito giudiziario del processo/non processo “trattativa”. Un processo alla storia, alla classe dirigente, alla Prima Repubblica, alle prerogative costituzionali del Capo dello Stato, tutto meno che la rigorosa verifica di una plausibile accusa. Invece di imboccare la via facile, ma corta, delle contraddizioni dei giustizialisti arancioni o stellati, oppure il refrain anti(ultra)casta nei confronti della magistratura, si dovrebbe discutere del modello costituzionale di Giustizia. Ci si dovrebbe interrogare su di una concezione del diritto adagiata sulla pretesa punitiva, e quindi sull’opera catartica delle Procure, che ha tenuto banco da tangentopoli in poi; quella che, per solleticare gli istinti della pubblica opinione, da ultimo – attraverso una legge non meno discutibile della Severino – ha prodotto l’istituzione dello Zar anticorruzione, e sta per licenziare norme, come il depistaggio ovvero il pacchetto anticorruzione del governo, che sono ispirate alla stessa logica. Si dovrebbe guardare la luna del pensiero facile in tema di Giustizia, insomma, non il dito di un condannato incazzato.

Quanti De Magistris nei nostri Tribunali?, si chiede Giovanni Terzi su “Il Giornale”. La notizia di queste ultime ore riguarda la condanna dell’ex magistrato, oggi Sindaco di Napoli, Luigi De Magistris ad un anno e tre mesi per aver abusato dei propri poteri nel condurre le indagini nel caso Why Not. Sinceramente non mi appassiona la polemica tre De Magistris, il Presidente del Senato e l’Associazione Italiana Magistrati sulle eventuali o dovute dimissioni da Sindaco. Al contrario mi voglio soffermare sul significato di quella sentenza che getta ancora un’ombra su come a volte vengono condotte delle indagini che hanno poi il potere di rovinare per sempre la vita di alcune persone. De Magistris, stante la sentenza di primo grado, avrebbe utilizzato i tabulati telefonici di alcuni uomini politici da Romano Prodi a Francesco Rutelli, da Clemente Mastella a Sandro Gozzi in violazione dei propri doveri d’ufficio di magistrato. Un atto gravissimo che ha leso non soltanto la dignità di chi ha subito le indagini ma getta un’ombra su come, nel nostro paese, vengono a volte condotte le indagini. Clemente Mastella dopo la sentenza che ha condannato De Magistris ha dichiarato che “quell’indagine condotta in maniera illegale è stata all’origine di tutte le mie difficoltà, sul piano umano e politico”. Ma il caso De Magistris è isolato? Ogni anno in Italia sono circa 2000 le persone che vengono risarcite per ingiusta detenzione e per le indagini condotte male e lo Stato Italiano paga circa ogni anni 40000 di euro per gli errori giudiziari. Duemila famiglie ogni anno distrutte e fatte a pezzi. A questo possiamo aggiungere le 257 condanne in 50 anni della Corte di Giustizia Europea che rendono il nostro paese campione Europeo di malagiustizia. E’ di questo che dobbiamo parlare non delle dimissioni di un Sindaco a fronte di una sentenza di primo grado. Perché caduto un Sindaco se ne fa un’altro; ma rovinato un uomo per una indagine sbagliata, quell’uomo non si rifarà mai più.

Se il Fatto diventa garantista, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Da ieri è un po’ cambiato il panorama dell’editoria italiana. Il Fatto Quotidiano ha cambiato radicalmente la sua linea politica abbandonando il sostegno alla magistratura e schierandosi in modo aperto e coraggioso a difesa dalla classe politica colpita dai soprusi dei giudici. Il casus belli che ha determinato la svolta (non si sa ancora se condivisa da Travaglio o se realizzata in rivolta contro Travaglio…) è stato la condanna per abuso d’ufficio di Luigi De Magistris, ex pm supermoralizzatore e attuale sindaco di Napoli. La condanna è stata decisa ieri l’altro dal tribunale che ha respinto la richiesta di assoluzione avanzata dal Pm. Il reato per il quale sono stati inflitti a De Magistris un anno e tre mesi di prigione è lo stesso per il quale qualche tempo fa fu condannato il presidente della Regione Calabria Beppe Scopelliti. Ai tempi della condanna di Scopelliti però il Fatto quotidiano era ancora sulla vecchia linea legalitaria e travagliesca, e allora chiese, indignato, le dimissioni immediate. E chiese anche l’applicazione della legge Severino, la quale giudica ininfluente il fatto che la Costituzione consideri innocente chiunque non abbia ricevuto una condanna definitiva. De Magistris è stato condannato per aver ordinato decine di intercettazioni telefoniche illegali, e di screening sui tabulati di cellulari vari, tra i quali molti di deputati e persino quello del presidente del Consiglio, Prodi. De Magistris inquisì centinaia di persone, tra le quali il ministro della Giustizia, provocando la crisi di governo e la fine di Prodi (e aprendo la strada al ritorno di Berlusconi). Ieri, nell’articolo nel quale, sul Garantista davamo conto della clamorosa condanna di De Magistris, erroneamente ci dicevamo certi che Il Fatto non lo avrebbe perdonato e avrebbe preteso le sue dimissioni immediate e il suo ritiro dall’attività politica. Come aveva fatto fino a poche ore prima per cose molto meno gravi: gli avvisi di garanzia per “spese pazze” (poi rientrato) per un paio di candidati alle primarie emiliane del Pd. E invece, colpo di scena, Il Fatto ci ha scavalcato a sinistra e si è mostrato ancor più garantista di noi. Giù le mani da De Magistris. Forse – osiamo dire – un po’ troppo garantista. Perché si è spinto fino all’eccesso di nascondere la notizia, non pubblicandola in prima pagina (sebbene fosse chiaramente la principale notizia della giornata politica) ma relegandola a pagina 9, in un articolo nel quale si parlava con molta dolcezza di De Magistris (e questo secondo noi è giusto, perché un imputato, il più delle volte, non è colpevole ma è vittima) e soprattutto si scatenava la furia contro i cittadini che furono indagati inutilmente da De Magistris con l’uso illegale delle intercettazioni e furono poi del tutto scagionati e assolti. Per Il Fatto, De Magistris (condannato) resta innocente fino a prova contraria, e i suoi ex imputati (assolti dopo che la loro vita e le loro carriere erano state rovinate) restano colpevoli comunque. Ecco, diciamo che l’articolo non era proprio “garantista” ma non si può pretendere troppo a poche ore da una svolta di linea politica così drastica…Beh, non c’è molto da aggiungere. È solo la prova che la libertà di stampa è ancora una merce molto molto rara, in Italia. Detto ciò, noi restiamo convinti delle nostre idee e speriamo che nessuno chieda le dimissioni di De Magistris, che è stato eletto coi voti degli elettori, e ne ha raccolti tantissimi. La Costituzione dovrebbe davvero valere per tutti, anche per chi magari la disprezza, e la legge Severino speriamo che sia cancellata al più presto, perché è un po’ un insulto alla stato di diritto.

Il “doppismo” della sinistra, tra miserie e ipocrisia, scrive Giampaolo Rossi su “Il Giornale”. Per la sinistra la doppia morale non è una patologia, né un capriccio snob da vanitosi salottieri. È qualcosa di più: è una caratteristica congenita, un pezzo del suo Dna; è come il microchip sottopelle che i grillini credono che ci stiano impiantando a tutti (tranne a loro). Senza doppia morale la sinistra non saprebbe come muoversi nella giungla della storia, più o meno come Tarzan senza liana. La doppia morale è un riflesso condizionato da inseguire ad ogni costo mettendoci tutto l’ingegno possibile, un po’ come fa Vil Coyote con lo struzzo. Quelli di sinistra indossano la doppia morale con una naturalezza aggraziata anche quando non eccellono in bellezza; più sono incazzati col mondo, duri e puri con i principi di moralità degli altri e più te li trovi a scivolare sulla buccia di banana delle loro contraddizioni e delle loro ipocrisie. Dietro gli occhialini appannati da intellettuali ottocenteschi o gli sguardi arcigni e inquisitori nascondono il senso di sofferenza per un mondo che non è come vorrebbero; tranne poi scoprire che nemmeno loro sono come si vorrebbero ma su questo passano sopra con nonchalance. Gli ultimi casi saliti agli onori della cronaca sono francamente piccole cose rispetto al passato; interessano poco la storia e più le miserie umane. Da Curzio Maltese a Barbara Spinelli, passando per l’ultimo straordinario campione di “doppismo morale”, il sindaco di Napoli De Magistris l’ex magistrato che deve la sua fortuna politica al ruolo inquisitorio e giustizialista e che ora, dopo che è stato condannato in primo grado, si è avvinto come l’edera alla sua poltrona neanche fosse Nilla Pizzi. Eppure la questione della doppia morale a sinistra parte da lontano, dai tempi in cui Guareschi disegnava i comunisti con tre narici. È da lì che nacque quel superiore senso d’impunità che ha giustificato l’ipocrisia del “doppismo” come fosse un diritto naturale. Quando nel 1981 Berlinguer rilasciò la famosa intervista a Eugenio Scalfari sulla “questione morale”, la sinistra già navigava nella sua “doppia morale”. E così mentre il leader comunista denunciava “l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi”, il suo partito aveva iniziato da tempo ad occupare quello stesso Stato (enti locali, enti di previdenza, banche, aziende pubbliche, istituti culturali, ospedali, università, televisioni, giornali). Mentre il Pci denunciava le ingerenze americane nella nostra sovranità, le sue casse venivano inondate da fiumi di soldi dell’Unione Sovietica che per decenni hanno finanziato generazioni di burocrati di partito, intellettuali organici e salsicciari della Festa dell’Unità; soldi per il quale nessun zelante “magistrato democratico” ha mai indagato (perlomeno per evasione fiscale e falso in bilancio visto che arrivavano in nero). E mentre si condannava l’ipocrisia borghese alcuni dei suoi intellettuali coltivavano “blande frequentazioni” con i servizi segreti stranieri prima di fare fulgide carriere televisive o firmavano appelli contro innocenti servitori dello Stato che poi venivano ammazzati dai soliti “compagni che sbagliano”. Nel tempo, questa impunità ha fatto nascere l’idea che se sei di sinistra puoi stare sopra le regole della storia tanto nessuno rinfaccerà le tue contraddizioni. E così la guerra di Bush era criminale, quella di Obama è umanitaria. Il precariato in un’azienda è sfruttamento, il lavoro nero al sindacato è “occupazione sociale”.
Se togliamo le miserie e le ipocrisie che rimpiccoliscono le gigantografie che i moralizzatori danno sempre di se stessi, potremmo anche dire che il “doppismo” della sinistra è un eccesso di altruismo: sono così preoccupati dagli altri che non hanno il tempo di guardare se stessi. Lo aveva capito  Margaret Thatcher quando, a proposito dei governi che tassano, diceva: “Hanno la malattia tipica dei socialisti: hanno esaurito i soldi. Degli altri”.

GUERRA DI TOGHE.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

LA BANDA DEGLI ONESTI.

La maledizione della Faraona. In quel tempo un demone feroce lanciò sul popolo italico la Maledizione di Ruby..., scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. In quel tempo un demone feroce lanciò sul popolo italico la Maledizione di Ruby. L'anatema accusava il suo re di ogni nefandezza, come l'abuso e traffico di carne umana, ma si abbatteva su tutto il suo popolo. In seguito al verdetto malefico caddero sull'Italia le Sette Piaghe d'Egitto, dalla presunta nazionalità della ancor più presunta vittima. La prima piaga fu l'odio civile che spaccò il Paese, gli uni contro gli altri: mezzo popolo contro il governo, mezzo popolo contro i magistrati, mezzo potere in fuga come le celebri galline, mezza Italia contro l'altra. La seconda piaga fu distrarre governo e popolo dalla crisi drammatica e dai suoi rimedi per concentrarli sulla Maledizione. La terza piaga fu che mentre il Verdetto Abominevole arrivò atroce e puntuale, costando un'Ira di Dio, milioni di processi languivano in attesa di giudizio e l'ingiustizia regnava sovrana. La quarta piaga fu la vergogna mondiale e il ridicolo che gettò sul popolo e i suoi regnanti, accusati di riti antropofagi come il famigerato bunga-bunga. La quinta piaga fu lo sputtanamento della vita intima del re col vivavoce che amplificava nelle piazze anche i suoi bisogni corporali, generando disgusto e sollazzo. La sesta piaga fu che per punire il popolo sodomita fu inviato l'Angelo Sterminatore Mari O Monti. La settima piaga fu che quel processo divenne poi, come dissero gli stessi demoni, la Madre di tutti i processi che paralizzarono il Paese e capovolsero la volontà popolare. La maledizione ora ritorni su chi la emise.

Sentenza Ruby, è anche la sconfitta di "Se non ora quando", scrive Angela Azzaro su “Il Garantista” Il caso Ruby, con tutti i cascami politici e giudiziari, coincide con il movimento di “Se non ora quando?” che il 13 febbraio 2011 porta in piazza quasi un milione di donne in tutta Italia al grido di “giù le mani dalla nostra dignità”. La ragazza marocchina (non levantina come nella sua, ormai celebre, requisitoria disse Boccassini beccandosi da più parti della razzista) diventa il simbolo del male, colei che viene usata e si fa maldestramente usare dal potere maschile. «Tu Ruby, io lavoro», era una delle tante scritte che si potevano leggere nei cartelli esibiti da giovani e meno giovani, convinte che il vero degrado dei nostri tempi fosse l’accusa rivolta qualche giorno dopo dai giudici di Milano nei confronti dell’allora presidente del Consiglio. Ruby non era sola. Insieme a lei, nella lista nera, c’erano Noemi Letizia, la giovane campana che per prima fu usata contro il premier, poi tutta la serie di ragazze che la stampa nemica ma anche amica non tardò a definire in maniera dispregiativa “le olgettine”. Davanti all’ennesima divisione tra donne perbene e donne per male, qualche voce si levò anche da sinistra per protestare, per avvertire del pericolo. In nome della dignità, e non più della libertà, si stava producendo la trita e ritrita contrapposizione tra donne. Le leonesse di Snoq cercarono di rilanciare dicendo che loro non ce l’avevano con le altre donne, che il problema era il degrado dell’immagine femminile che “olgettine” e “rubettine” diffondevano in mondo visione. Ma lo dicevano senza convinzione. Anche perché l’operazione, con il senno di poi, e con una sentenza come quella di ieri, appare finalmente molto chiara. Ruby è stata usata, sì usata ma da una parte del movimento delle donne, per portare avanti una controffensiva di carattere culturale. Negli anni Settanta ci si batteva per la libertà sessuale, per liberare il corpo dai pregiudizi? Negli Ottanta si manifestava con il movimento delle prostitute? Beh, per Snoq era arrivato il momento di voltare pagina, di tornare a essere, come scrisse Concita De Gregorio (in questo insuperabile) mamme, zie, sorelle, compagne. Tutto fuorché donne libere. Qualche sofisticata analista ha tentato in questi anni di ragionare sul rapporto tra sesso e potere, tra pubblico e privato, tra politica e relazioni sessuali o sentimentali, spostando l’asse della riflessione. Ma sono rimaste analisi perlopiù isolate. Ha invece vinto la controffensiva, il ritorno indietro: il corpo come peccato, la sessualità come colpa. L’immagine di Ruby, così come prima quella di Patrizia D’Addario, ha oscillato tra peccatrice e vittima. A seconda delle necessità ha servito scopi opposti. Un giorno sedeva sul banco degli imputati, «la furbizia levantina», l’altro ancora serviva per accreditare l’immagine di persone in balia del volere altrui, di donne oggetto incapaci di intendere e di volere. Così, tra una Ruby e l’altra, si è dato vita a una nuova cultura, oggi purtroppo maggioritaria. Soprattutto a sinistra. La abbiamo vista esprimersi nel suo massimo fulgore nel caso di Paola Bacchiddu, la responsabile comunicazione di Tsipras processata in pubblica piazza per aver osato chiedere, nella sua pagina facebook, di votare la lista ma con un bel bikini. Apriti cielo. Le donne, soprattutto le femministe, le sono andate contro in difesa del corpo delle donne che Bacchiddu avrebbe offeso. Dopo l’assoluzione di Berlusconi, vengono meno alcuni appigli di “verità” che sostenevano i ragionamenti delle più infervorate e dei più convinti. Sarebbe bello pensare che anche dal punto di vista culturale e dei costumi possa iniziare una nuova fase. In cui corpo e sessualità, prostituzione e libertà, responsabilità individuale non siano più brutte parole da mettere all’indice, ma confini su cui vale, sempre e comunque, la possibilità del singolo o della singola di scegliere. Sì, perché dopo tutti questi anni, dopo tutte queste discussioni, forse è davvero arrivata la volta buona per cambiare passo: se non ora quando?

Vittorio Sgarbi in una intervista resa a https://ssl.gstatic.com/ui/v1/icons/mail/images/cleardot.gifAndrea Radic su “Affari italiani” spara a zero:"Sono i magistrati i pericolosi maniaci sessuali. La Boccassini, Forno e Bruti Liberati andrebbero arrestati e cacciati dalla magistratura per aver mortificato la giustizia e la libertà. Vittorio Sgarbi intervistato da Affaritaliani parte dalle riforme e mette sotto processo la magistratura condannandola senza appello. Per l'ex Sindaco Berlusconi è un povero coglione che non può essere riabilitato politicamente.

Sgarbi, le riforme avranno strada più facile dopo la sentenza di assoluzione per l'ex presidente del Consiglio?

«Le riforme fanno ridere e Renzi è leader di riforme che peggioreranno l'ordinamento. La sentenza prova che due gradi di giudizio paritari portano a soluzioni opposte. Nulla di più idiota di questa riforma. Che poi le riforme andassero fatte senza preoccupazioni giudiziarie con l'opposizione è giusto, e l'opposizione è Berlusconi, come le elezioni europee hanno confermato con il 17 per cento dei voti.»

La sentenza di ieri...(Sgarbi non permette di finire la domanda e si scaglia con forza)

«La sentenza entra a gamba tesa perché riabilita un Berlusconi che era considerato un criminale pedofilo di ogni natura, ma non si capiva perché una telefonata deve essere considerata concussione. Una telefonata è una telefonata non è concussione, solo dei pazzi criminali che non possono fare i magistrati, ma andrebbero arrestati come Bruti Liberati, la Boccassini e Forno, loro sì maniaci sessuali pericolosi, possono averla considerata tale.»

Prosegua...

«Abbiamo vissuto 3 anni di incubo in cui ogni respiro di Berlusconi diventava un crimine in virtù della visione della Boccassini, ma la Boccassini chi cazzo è?? Ma quale autorità morale deve avere, quale processo può fare su di un reato che non esiste, una così va presa e cacciata dalla magistratura con ignominia e le devono togliere anche la pensione, altro che buttare i miei soldi per andare a vedere con chi scopa Berlusconi...roba da pazzi.»

Capisco...

«Una ragazza che vuole fare e andare con chi vuole, non deve essere giudicata in un tribunale da tre mezze megere malate di moralismo ridicolo. Vanno cacciati dalla magistratura, non per aver condannato Berlusconi, ma per aver mortificato la giustizia e la libertà. Applicato criteri personali facendo uso personale della giustizia. Questo è il dato oggettivo.»

Quest'oggi, il vice capogruppo del PD al Seanto Tonini ha detto che deve finire l'antiberlusconismo, che ne pensa?

«L'anti berlusconismo c'è lo stesso, il problema è che se io prendo un costituente e dico che è un pedofilo, rendo la riforma costituzionale un po' inquinata, il problema è sia un pedofilo veramente. Hanno accusato Berlusconi, odiandolo, di essere pedofilo, invece era un povero coglione qualunque come è sempre stato. Un poveretto che si è trovato in una cosa più grande di lui.»

Allora il problema qual'è?

«Il problema è il "boccassinismo", un giustizialismo che consapevolmente e in perfetta malafede, pur di eliminare il nemico politico ha usato armi improprie. Quanto accaduto è gravissimo.»

La sentenza riabilita politicamente Berlusconi?

«Berlusconi non può essere riabilitato perché ha dimostrato indegnità politica per essersi circondato di gentaglia, e questo è politicamente imperdonabile.»

Quindi responsabilità gravi della magistratura?

«È gravissimo che per toglierlo di mezzo sia stato accusato di reati che non ha commesso. Vanno puniti i magistrati che hanno fatto un uso abnorme della giustizia. Andrebbe loro data una lezione esemplare perché hanno contravvenuto al principio di giustizia di cui dovrebbero essere sacerdoti. Voglio dirle cosa ho scoperto...»

Prego..

«Ho scoperto che Ostuni, capo di Gabinetto della Questura di Milano la notte in cui Ruby venne fermata,  tiene per il Milan. Per cui la telefonata era del presidente del Milan che parlava con un tifoso. Il tema cruciale è che non c'è nessuna concussione, Berlusconi ha chiamato in quanto persona autorevole come avrebbe potuto chiamare il cardinal Bagnasco o Moratti, presidente dell'Inter, sarebbe stato lo stesso, avrebbe chiesto un favore.»

Secondo lei perchè Berlusconi chiamò personalmente?

«Perchè la telefonata è comunque la telefonata di un cretino che avrebbe dovuto far chiamare da un suo cameriere il Prefetto o Maroni che avrebbero usato una cortesia istituzionale. Ha chiamato lui per un rischio paventato che Ruby parlasse dei festini, ma non esiste. La ragazza non aveva nulla da dire, nessuno le avrebbe creduto. Non esisteva alcun rischio. Insomma, una telefonata gratuita di uno scemo che fa un favore a una cretina. e la dimostrazione è in queste due frasi che le cito. Berlusconi dice di "Ruby è la nipote di Mubarak" e lei risponde "per me Silvio è la Caritas".»

In sintesi?

«Sei anni a uno perché risparmia cinque ore di questura a una ragazza? Roba da pazzi. La Bocassini lo sa ed è in perfetta malafede, dovrebbe avere una richiesta di danni miliardaria da parte Berlusconi e dovrebbe  pagare per un errore gravissimo sul piano del suo lavoro. Per fortuna non sono presidente del CSM perché se no li prenderei e li rivolterei come calzini.»

Filippo Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista.....Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Assolto. Chi paga? Crolla il teorema dei pm e della stampa di sinistra: Berlusconi fuori dall'incubo. Ma nessuno chiederà scusa, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La completa assoluzione in appello di Silvio Berlusconi dalle infamanti accuse sostenute dalla procura di Milano nel processo Ruby ripristina - dopo anni di linciaggio - tre fondamentali verità. La prima - che a me, avendo conosciuto l'uomo, preme di più - è quella storica: Silvio Berlusconi non è quel mascalzone immorale dipinto nelle strampalate tesi dell'accusa. Gli viene restituito l'onore e la dignità che non fatti, ma una indebita invasione nella sua vita più privata e un teorema moralista gli avevano tolto. La seconda è la verità giudiziaria: Berlusconi non ha commesso il reato di concussione (gravissimo per un premier in carica) né tantomeno quello - assurdo solo pensarlo - di sfruttamento di prostituzione minorile. La terza verità è quella politica: è ora evidente a chiunque che l'inchiesta, il processo e la sentenza di primo grado - cavalcati dall'opposizione, dai giornali e dai programmi televisivi amici - non erano fondati su concrete ipotesi investigative, ma solo sulla volontà di infangare e danneggiare un leader politico nonché capo del governo in carica. Un giorno, ne sono certo, ne sapremo di più su mandanti ed esecutori. Resta il danno, enorme, provocato all'uomo Berlusconi, alla sua famiglia e al Paese intero. Una maggioranza - è innegabile - si è sfaldata e un governo è caduto proprio sotto i colpi di questa inchiesta, colpi che oggi scopriamo essere stati a salve. Di quell'agguato siamo ancora qui oggi a leccarci malconci le ferite. Da allora si sono succeduti tre governi non eletti i cui operati hanno peggiorato non di poco la situazione economica di imprese e famiglie. Nessuno, temo e prevedo, pagherà per tutto questo. Né professionalmente, né politicamente, tantomeno economicamente (i costi di questa sceneggiata voluta da Bruti Liberati e da Ilda Boccassini sono stati altissimi e sono sul groppone dei contribuenti). Così come non arriveranno le scuse dei direttori di La Repubblica e del Fatto Quotidiano, di Santoro e Floris (tanto per citare i più conosciuti), professori di giornalismo e maestri di verità che hanno guidato la più colossale macchina del fango messa in piedi contro un singolo uomo, che è riuscito a sopravvivere in questi anni solo in forza del suo coraggio e dei suoi mezzi. Ora, siccome da ieri sappiamo che può esserci a Milano un giudice come a Berlino (l'opera di Bertolt Brecht in cui si narra di un magistrato capace di sentenze contro l'imperatore e i colleghi succubi), possiamo sperare più convintamente di poter ribaltare altre dubbie verità giudiziarie. A partire dalla condanna per frode fiscale che ha portato alla decadenza di Berlusconi (in quel caso la sentenza non finì a «Berlino» ma con uno stratagemma fu tolta alla corte naturale e affidata ad una posticcia il cui presidente, Esposito, ora è sotto inchiesta). E poi c'è la politica, che ancora una volta troppo frettolosamente aveva dato Berlusconi per morto. Diamo atto a Renzi di aver tenuto con rispetto la porta aperta al «condannato». Altri, molti altri, dovranno tornare a fare i conti con il leader di Forza Italia. Fra di loro, non tutti hanno la coscienza pulita, qualcuno dovrà abbassare le arie. Ma questa sarà la storia che racconteremo nei prossimi mesi.

Berlusconi è stato assolto dall’ipotesi di concussione perchè il fatto non sussiste e per l’ipotesi di prostituzione minorile perchè il fatto non costituisce reato. In primo grado si era beccato sette anni, uno più delle richieste della Boccassini, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Non stiamo qua a ricordare lo sputtanamento complessivo che il Cav ha dovuto subire e non stiamo qua a ribadire che chiunque venga sottoposto al trattamento Boccassini (intercettazioni, pedinamenti, origliate e supposizioni pruriginose) rischierebbe di fare una pubblica figuraccia. Pensate che goduria ascoltare certe telefonate dei moralizzatori. Ma lasciamo perdere il passato e ragioniamo sul presente. Oggi assistiamo ad altrettanta malafede rispetto. Si dice che Berlusconi sia riuscito a farla franca solo grazie ad una legge ad personam (la cosiddetta Severino) votata dal Pd e dall’allora Pdl durante il governo Monti, che ha modificato il reato di concussione. I campioni sono quelli del Fatto (all’interno stanno vincendo i trinariciuti di travaglio, purtroppo) e più modestamente La repubblica. Si tratta di una balla colossale, ma a forza di dirla in giro con quell’aria di sapientini, qualcuno ci può credere. La realtà è che proprio coloro che accusano il Cav di essersi fatto una legge ad personam (per interposta persona e partito e cioè Monti) sono tra coloro che vogliono leggi contro il Cavaliere per farlo scomparire dalla terra. Ma vediamo perchè si tratta di una colossale balla.

1. Semplice, le date non coincidono. La legge Severino è stata approvata nel 2012, mentre la condanna in primo grado del cavaliere è avvenuta nel 2013. Dunque ci verrebbe da chiedere ai fenomeni perchè i giudici di primo grado hanno inflitto sette anni al Cav, pur vigente la Severino? Se la Severino fosse stata così ad personam non può esserlo a scoppio ritardato. Coloro che giudicarono e indagarono Berlusconi nel 2012 sapevano benissimo della legge in vigore e dei suoi eventuali effetti.

2. Ma la legge l’avete letta. Grazie alla Severino oggi Silvio Berlusconi non è più senatore. Grazie alla medesima legge che i geni dicono che Berlusconi si sia fatto a sua immagine e somiglianza, oggi il Cav ha subito il rapido processo al Senato ed è stato sbattuto fuori. E per di più non vi potrà rientrare per un numero di anni superiore a quello che la sola sentenza di frode fiscale prevede. Senza Severino il Cav oggi sarebbe stato ancora al Senato.

3. Concediamo, ma per puro gioco retorico, che la Severino abbia cambiato la norma in corso di partita. Ma allora perchè in appello il procuratore generale ha continuato a chiedere la medesima condanna ricevuta dal Cav in primo grado? Il procuratore avrebbe potuto chiedere pena inferiore stante la mutata legislazione, più favorevole al concussore. Evidentemente sperava, il procuratore, che la medesima forzatura di primo grado, fosse accolta dai giudici di appello.

4. Il fatto non costituisce reato. Questa è la formula con cui è stato assolto Berlusconi. Insomma lo vogliono capire o no, questi zucconi che non ci vogliono stare, che il giudice d’appello ha banalmente ritenuto (come facevano le persone di buon senso) che la telefonata del Cav in questura non rappresentasse alcuna reato. Come gli stessi poliziotti hanno più volte testimoniato. E dunque l’assoluzione nasce dalla mancanza di reato e non dalla mancanza di una fattispecie penale che permettesse di colpire il Cav. Il giudice di appello avrebbe inoltre potuto derubricare il reato, se questo fosse stato il caso vista la nuova legge, e applicare sanzione più blanda (come in molti compreso Lillo del Fatto si attendevano). E invece non l’ha fatto poichè ha ritenuto che la concussione semplicemente non si configurava.

5. E la prostituzione? Ammesso e non concessa la legge ad personam (che come visto non esiste) che fine fa la condanna ad un anno per prostituzione minorile. Il giudice anche in questo caso ha dato un bel colpo di spugna sostenendo che il fatto non costituisce reato. Vedremo nelle motivazioni perchè. Ma su questa assoluzione tutti zitti. Eppure era il fondamento dello sputtanamento, anche internazionale, del Cav. Nulla. Il giudice ha assolto anche in questo caso. Perchè non è provata la dazione di danaro? perchè non è provato il rapporto sessuale? Perchè non è provato che il cav sapesse della minore età di Ruby? Ancora non lo sappiamo. ma conta relativamente. é stato assolto. I moralisti si rivolgano altrove. Qua parliamo di condanne o assoluzioni.

6. Ha perso la Boccassini. La barzelletta più gustosa è avvenuta ieri sera quando Travaglio a Bersaglio Mobile di Mentana mi contestava ciò che è chiaro a tutti. Il protoPm diceva che a perdere, semmai, era stata la procura generale. E’ seguita lezioncina. Peccato che il protoPm si sia dimenticato di ricordare ai telespettatori di come il processo sia stato imbastito sulle indagini della Boccassini, non su quelle del mago Zurlì. E che in appello si è giocato sul medesimo campo di gioco. Nulla di nuovo è intervenuto. Il procuratore generale ha semmai dimostrato scarsa indipendenza di giudizio e di valutazione nei confronti della Boccassini. Ma la palla avvelenata da lì è stata tirata. La verità è che non ci vogliono stare. Le sentenze non si discutono solo quando condannano i nemici politici.

Ecco perché in Gran Bretagna Travaglio andrebbe in galera. Per tutto ciò che in questi anni hanno combinato a Berlusconi (e non solo) Travaglio&Co, se fossero giornalisti inglesi, sarebbero già in galera da un bel po' e i loro giornali e talk-show chiusi per vergogna, scrive Nicholas Farrell su “Il Giornale”. Per tutto ciò che hanno combinato in tutti questi anni nei confronti di Silvio Berlusconi (e non solo) Travaglio&Co, se fossero giornalisti inglesi, sarebbero già in galera da un bel po' e i loro giornali e talk-show chiusi per vergogna. Marco Travaglio, Michele Santoro, Gad Lerner, Ezio Mauro si vantano di essere moralmente superiori e disprezzano la squallida stampa tabloid inglese. In realtà questi Robespierre del secondo Millennio sono molto più tabloid e più squallidi dei giornalisti di Sua Maestà. Qual è la differenza tra Andy Coulson (l'ex direttore del News of the World ora in galera) e Marco Travaglio? Secondo me, solo una: Travaglio è peggio. Ciò che da anni ha fatto nei confronti di Berlusconi (e non solo) e con orgoglio - addirittura - è mille volte più disgustoso di quello che hanno fatto i giornalisti come Coulson. I tabloid inglesi si trovano nei grossi guai perché alcuni anni fa è saltato fuori che abitualmente intercettavano gli sms di vip e gente comune. Non ne hanno mai pubblicato i contenuti ma li hanno usati per costruire i loro articoli. Non importa, perché lo scandalo è stato enorme. Travaglio&Co. invece, che cosa combinano? Beh, da anni - con la complicità della magistratura italiana - fanno di peggio: pubblicano sms e intere conversazioni telefoniche a tappeto. Nel 2001 in Inghilterra Scotland Yard ha cominciato ad indagare sulle intercettazioni telefoniche illecite da parte della stampa inglese, in particolare di News of the World (vendite medie 2,8 milioni) di Rupert Murdoch, che per vergogna chiuse il tabloid fondato nel 1843. Finora una trentina di giornalisti sono stati arrestati ed alcuni sono stati processati e messi in galera. Tra questi spicca proprio Andy Coulson, l'ex direttore del News of the World condannato nei giorni scorsi a 18 mesi di galera. Dove attualmente si trova in attesa di essere ancora processato per altri reati collegati. Il governo di David Cameron fu costretto a lanciare nel 2012 una commissione pubblica diretta dal Lord Chief Justice Leveson sulla cultura e sull'etica della stampa inglese e come gestirla meglio. Certo, Travaglio&Co non hanno intercettato personalmente i telefoni, sono state le Procure a volte loro complice. Ma cosa cambia? Niente, anzi peggio per loro. La loro difesa è la libertà di parola! Ma cheppalle. Coulson e i cronisti inglesi beccati non hanno mai osato usare il principio della libertà di parola come difesa perché sapevano che la libertà di parola non è mai assoluta. Il diritto di un indagato/imputato a un processo equo è più sacro del diritto della libertà di parola del giustiziere Travaglio e dei suoi complici di sputtanare chiunque. Pubblicare intercettazioni telefoniche mentre un'indagine è ancora in corso e prima di un processo vuol dire per forza fare il processo in piazza prima del processo vero. Di conseguenza - necessariamente - ogni prova viene inevitabilmente inquinata. Ecco perché in Italia non è mai possibile capire se un imputato sia colpevole o no, vedi il caso Amanda Knox? In Inghilterra, uno che fa come fa Travaglio e colui che gli fornisce le intercettazioni (la magistratura italiana) vanno in galera subito. Il reato si chiama contempt of court (oltraggio alla corte) ed è gravissimo. Esiste qualcosa del genere in Italia?
La cosa incredibile, per uno come me nato a Londra e giornalista dal 1983, è che nessun giornalista né alcun giudice viene mai punito. Figuriamoci Travaglio. Poi bisogna dire una cosa: i giornalisti stranieri non capiscono nulla della realtà italiana. Molti di loro fanno copia e incolla di Corriere della Sera e La Repubblica e buona notte. Il giornalista straniero, specialmente quello anglosassone, si fida implicitamente dell'imparzialità della magistratura: pensa che dove ci sia fumo ci sia anche l'arrosto. Quando ci sono di mezzo i pm italiani, i tabloid o la stampa di sinistra c'è sempre fumo. Ma non c'è arrosto.

E la magistratura di cui si parla è questa.

Il procuratore Gozzo indagato per aver passato notizie ad “Il Fatto Quotidiano”, scrive Emiliano Stella on4 luglio 2014 su “”L’ultima ribattuta”. Che “Il Fatto Quotidiano” fosse un’organo di stampa vicino alla Magistratura lo si era intuito. Scoop, esclusive, rivelazioni non si ottengono per caso. E l’indagine che vede coinvolto il procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo suona come una conferma di questo sospetto. Il giudice è stato rinviato a giudizio dal gip di Catania Oscar Biondi (la Procura etnea è competente per le indagini sui colleghi nisseni), e su di lui pende la pesante accusa di rivelazione di segreto d’ufficio. Il procedimento è stato avviato dopo la pubblicazione di alcune conversazioni, intercettate in carcere, intercorse tra Totò Riina ed i suoi familiari. I dialoghi erano finiti sulle pagine de “Il Fatto Quotidiano”, in articoli a firma di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed erano costituiti da frasi in apparenza innocue tipo: “Quest’anno la Juve è una bomba”. Passaggi attenzionati dagli inquirenti in quanto potenzialmente messaggi in codice, riferiti probabilmente al proposito di togliere rumorosamente di mezzo un magistrato palermitano che indaga sulla trattativa Stato-mafia. A seguito di questa pubblicazione furono perquisiti gli appartamenti dei due giornalisti de “Il Fatto”, in cui venne rinvenuto un pc contenente un file che indicherebbe Gozzo come l’autore della fuga di notizie. “Il Fatto Quotidiano”, nel dare la notizia, ha tracciato un profilo di Gozzo. “Per anni pm a Palermo, ha sostenuto l’accusa al processo all’ex senatore di Fi Marcello Dell’Utri. A Caltanissetta, da procuratore aggiunto, ha riaperto e coordinato le indagini sulle stragi di Capaci e sull’attentato di via D’Amelio consumato all’ombra della cosiddetta trattativa Stato-mafia per cui pende un processo a Palermo”. Un modo per rendere giustizia ad un Magistrato scivolato su una buccia di banana o l’ipotesi, nascosta tra le righe, che lo si voglia incastrare per un peccato veniale e sottrarlo alle sue scomode indagini?

Il tribunale di Catania ha rinviato a giudizio Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, per violazione del segreto. Il mastino dell’antimafia avrebbe svelato a Sandra Rizza e Giuseppe Lo Bianco, oltre che a un cronista locale, le intercettazioni in cui Riina diceva “quest’anno la Juve è una bomba”…, scrive Mariateresa Conti per "il Giornale". Finisce nei guai il procuratore aggiunto di Caltanissetta Domenico Gozzo, il pm - già accusatore di Marcello Dell'Utri - che coordina le nuove indagini sulle stragi del '92. Il Gip di Catania lo ha rinviato a giudizio per un reato difficilmente contestato alle toghe, violazione del segreto d'ufficio. Secondo l'accusa, sostenuta dal collega procuratore aggiunto degli uffici etnei Carmelo Zuccaro, sarebbe stato lui a «passare» al Fatto quotidiano le notizie relative ad alcune conversazioni intercettate, in carcere, tra il superboss Totò Riina e i suoi familiari. La prima udienza del processo si svolgerà a ottobre. Una bomba. Anche perché Nico Gozzo è uno dei magistrati di punta della Procura di Caltanissetta, il pm che sta riscrivendo la storia delle stragi, smantellando di fatto i primi processi sugli eccidi di Capaci e via D'Amelio viziati dalla falsa collaborazione di Vincenzo Scarantino. Processi istruiti quando a Caltanissetta era procuratore capo Giovanni Tinebra, che a propria volta adesso è procuratore generale a Catania, dove ora Gozzo dovrà presentarsi nell'insolita veste, per lui, di imputato. Che sulla pubblicazione di quelle intercettazioni (in una di esse Riina diceva: «Quest'anno la Juve è una bomba», frase letta come minaccia di attentato a uno dei pm della trattativa Stato-mafia) ci fosse una linea dura si era capito immediatamente. A ottobre del 2013, quando erano stati pubblicati gli articoli sul Fatto e sul quotidiano online LiveSicilia, era scoppiato il putiferio. E nel mirino in prima battuta erano finiti i giornalisti, i cronisti del Fatto Quotidiano Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, e il cronista di LiveSicilia Riccardo Lo Verso, sottoposti a perquisizione a casa e nelle redazioni. Proprio nell'abitazione di uno dei cronisti del Fatto sarebbero stati rinvenuti dei file che attestavano contatti col procuratore aggiunto nisseno. Immediata era stata l'apertura dell'inchiesta, trasferita a Catania per competenza, visto che è la procura etnea ad occuparsi di fatti che riguardano i magistrati nisseni. Ora l'udienza preliminare contro Gozzo. E il rinvio a giudizio del magistrato, che sarà difeso dall'avvocato palermitano Francesco Crescimanno. Per un pm nei guai, un altro ex pm che non se la passa proprio bene, da quando è tornato alla ribalta delle cronache diventando assessore alla Legalità a Pompei: Diego Marmo, l'accusatore di Enzo Tortora. Ieri Il Mattino ha pubblicato una lettera della compagna del presentatore tv, Francesca Scopelliti. Una lettera durissima, a dispetto delle scuse per l'errore commesso affidate a 30 anni di distanza, da Marmo, al quotidiano Il Garantista. Una lettera amara, in cui la compagna di Tortora chiede al sindaco di Pompei, Nando Uliano, di ritirare la delega all'ex pm. «Una semplice domanda, sindaco Uliano – scrive la Scopelliti dopo aver ricostruito l'odissea giudiziaria del presentatore tv – avrebbe mai dato la delega ai lavori pubblici a un ingegnere che ha costruito un ponte crollato il giorno dopo dell'inaugurazione? Diego Marmo è un magistrato che - perseguendo un innocente e dando mostra di colpevole negligenza e di spaventosa protervia – ha fatto crollare la giustizia, ha offeso il diritto, ha umiliato quella toga che invece dovrebbe, secondo il dettato costituzionale, essere una garanzia per i cittadini. Marmo dovrebbe, per dignità, dimettersi, ma so che non lo farà. E allora chiedo a lei un atto di coraggio: ritiri quella delega». Nella lettera la compagna di Tortora ricorda con amarezza le parole usate da Marmo durante la requisitoria del processo di primo grado, la definizione di Tortora come «cinico mercante di morte», l'accusa di essere stato eletto con i voti della camorra. Un teorema poi franato in Appello e in Cassazione: «Non fu – ricorda la Scopelliti – semplicemente un errore, come se ne fatto ovunque e quindi anche nei tribunali: fu, come la definì Giorgio Bocca, una pagina vergognosa di “macelleria giudiziaria”».

E poi c'è Di Matteo, piccolo Ingroia in lite col Colle. Di Matteo che indaga sulla trattativa Stato-mafia insulta Renzi, Cav, Quirinale e Csm come faceva il suo predecessore, scrive Massimiliano Scafi su “Il Giornale”. Ingroia? No, quello vero non c'è, ha perso le elezioni, non s'è più visto, è sparito dai radar. Ma niente paura, ecco a voi il sostituto. Si chiama Antonino Di Matteo, pure lui è di Palermo, pure lui fa il pm antimafia, pure pretende di spiegare al Parlamento come si fanno le leggi e forse, sempre come il suo predecessore, pure lui si butterà in politica. Del resto Beppe Grillo sul suo blog l'ha già incoronato, «l'Italia onesta di Di Matteo», e lo aspetta. Intanto l'Ingroia-bis si dà parecchio da fare. Attacca il Cav, colpevole di «gravi reati» e capo di un partito che ha tra i suoi «fondatori un soggetto colluso con Cosa Nostra», e questo quasi non fa più notizia. Se la prende anche con Matteo Renzi, che «tratta con un condannato» per fare le riforme. Ma il bersaglio grosso è ancora il Quirinale, è quel Giorgio Napolitano che «condiziona il Csm» perché vuole trasformare i pm in passacarte e che, per di più, si rifiuta di scendere in Sicilia per testimoniare al processo sulla presunta trattativa con il Male. Incastrare il Colle dev'essere il suo chiodo fisso. Due anni fa Di Matteo, con Ingroia, fu protagonista del conflitto davanti alla Corte costituzionale, sollevato e vinto dal Quirinale, sull'inutilizzabilità nel processo Stato-mafia delle telefonate intercettate a Napolitano. Due giorni fa la Procura ha ribadito in udienza l'istanza di ascoltare al più presto il capo dello Stato come testimone, sebbene il presidente abbia chiesto con una lettera di cancellare la sua deposizione: «Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo». La Corte d'Appello deciderà a settembre e non mancheranno altre polemiche. Ma Ingroia-bis ha pensato di portarsi avanti con il lavoro approfittando delle manifestazione per il ventiduesimo anniversario della strage di via D'Amelio, dove Paolo Borsellino saltò in aria con la sua scorta, per rilanciare la palla. Rosy Bindi, presidente della commissione Antimafia, fischiata nell'indifferenza generale. Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco Vito, arrestato la prima volta da Falcone e Borsellino, trattato come un eroe sebbene condannato in via definitiva per riciclaggio del tesoro illecito raccolto dal padre mafioso. Le agende rosse sventolate come ai bei tempi della Rivoluzione civile dell'Ingroia originale. Di Matteo, per illustrare il suo programma politico, non poteva sperare in un palcoscenico migliore e l'assoluzione in appello di Berlusconi nel processo Ruby era troppo fresca per non approfittarne: «In una sentenza della Corte di Cassazione è accertato che un partito diventato forza di governo nel 1994 ha annoverato tra i suoi ideatori e fondatori un soggetto da molto tempo colluso con Cosa Nostra e che da molti anni fungeva da intermediario consapevole dei loro rapporti con l'imprenditore milanese». E oggi, s'indigna, «quell'imprenditore condannato per reati gravi discute con il presidente del Consiglio di riformare la legge elettorale e la Costituzione alla quale Paolo Borsellino aveva giurato fedeltà». Dunque il Patto del Nazareno è «un'onta». Così non va, «bisogna trovare la forza di reagire». Come pure, insiste Di Matteo, «non si può assistere in silenzio al tentativo di trasformare il pm in un burocrate sottoposto alla volontà del proprio capo, di quei dirigenti nominati da un Csm schiacciato e condizionato da pretese correntizio e da indicazioni sempre più stringenti del suo presidente», cioè, Napolitano. Ingroia è tornato? «No - spiega Fabrizio Cicchitto - questo è solo un mediocre imitatore».

BERLUSCONI ASSOLTO: I MANETTARI ROSICANO....

18 luglio 2014. Ruby, Berlusconi assolto: crolla il teorema di Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. Nel giorno della lettura della sentenza di primo grado, la grande accusatrice, la nemica giurata, la toga rossa, in aula non c'era. Non se l'era goduto quel "trionfo", Ilda Boccassini, la pm che più di tutti ha architettato il teorema-Ruby. Teorema che ha retto solo in primo grado: nella sentenza d'appello Silvio Berlusconi ne esce senza macchia. Assolto dal reato di concussione e da quello di prostituzione minorile. Ilda la rossa non era in aula nemmeno alla lettura del secondo grado. Buon per lei, perché forse, nel momento dell'assoluzione, tutti gli obiettivi dei fotografi, piuttosto che l'ex premier, sarebbero andati a cercare il suo volto. Già, perché ogni storia, ogni battaglia, ha dei vincitori e degli sconfitti. E se tra chi vince, ora, c'è Berlusconi insieme al suo avvocato, Franco Coppi, tra chi perde c'è soprattutto lei, la Boccassini. Il suo teorema crolla. Il suo sogno sfuma. A condannare Berlusconi, lei non ci riesce. L'impresa, semmai, è riuscita all'ormai mitologico Antonio Esposito, il presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l'allora leader Pdl nella sentenza Mediaset. Oppure è riuscita. Della Boccassini restano impresse nella memoria le roboanti frasi nell'ultima requisitoria prima della sentenza di primo grado: chiese sei anni di reclusione - cinque per prostituzione minorile, uno per concussione - e l'interdizione a vita per il Cavaliere (richiesta accolta e anzi aumentata di un anno). Parlò senza dubbio alcuno di "un sistema prostitutivo organizzato per il soddisfacimento sessuale di Silvio Berlusconi". Un sistema che, a detta sua, era "provato oltre ogni ragionevole dubbio". La sentenza di oggi, però, riscrive la storia. Su Ruby affermava che "si prostituiva" e che "ha fatto sesso con Berlusconi ricevendone dei benefici". Per non farsi mancare nulla, su Karima aggiunse anche che il Cavaliere "sapeva che la ragazza era minorenne". Ilda credeva di sapere tutto, si spingeva ad affermare che "Ruby aveva da Silvio Berlusconi direttamente quello che le serviva per vivere in cambio delle serate ad Arcore". Poi le ironie sul "doppio lavoro" di Nicole Minetti, "pagata dal contribuente" ed "addetta alla gestione" delle cosiddette Olgettine. La violenta arringa di Ilda la rossa, in quel giugno del 2013, dopo la presunta prostituzione minorile si spostava sul reato di concussione, che secondo il teorema togato si sarebbe concretato con la telefonata di Berlusconi al capo di gabinetto della Questura di Milano, Piero Ostuni. La celeberrima telefonata della "nipote di Mubarak", la chiamata dopo la quale la marocchina fu affidata alla Minetti. La Boccassini, anche in questo caso, era sicura: "Ho potuto dimostrare al di là di ogni ragionevole dubbio che quella notte i vertici e funzionari della Questura a seguito di una interferenza del presidente del Consiglio rilasciarono la minore e la affidarono a una prostituta, tramite la Minetti". Peccato però che la verità processuale, oggi, stabilisce che la concussione "non sussiste". Infine, della Boccassini, si ricorda la conclusione della requisitoria, in cui chiese di negare a Berlusconi anche le attenuanti generiche. Tra i motivi, "i testimoni a libro paga" e "l'invasione del palazzo di giustizia da parte di persone delle istituzioni". Si riferiva alla manifestazione dei parlamentari del Pdl. Un mare-magnum di accuse, di infamità. Un teorema crollato, svanito con una doppia, totale, assoluzione. Ma in Italia, le toghe, per i loro errori ancora non pagano.

Chi sono i giudici che hanno assolto Berlusconi. I tre giudici della seconda Corte d’Appello di Milano che hanno ribaltato la sentenza con cui il Tribunale aveva condannato il leader di Forza Italia a sette anni di carcere per il "caso Ruby", scrive Luca Romano su “Il Giornale”. Dopo un processo durato tre udienze e tre ore di camera di consiglio, la Corte d’Appello di Milano ha assolto Silvio Berlusconi per il caso Ruby, ribaltando la sentenza dell'anno scorso.

Vediamo chi sono i tre giudici.

Enrico Tranfa - Sessantanove anni, in magistratura dal 1975, ha esercitato in gran parte a Milano. Negli anni ’90 è stato all’ufficio Gip. Come giudice delle indagini preliminari, nel periodo di Mani Pulite, si era occupato di uno dei filoni dell’inchiesta sugli appalti Anas e di quella sulla centrale dell’Enel a Turbigo per cui dispose l’arresto, tra gli altri, dell’ex assessore lombardo in quota alla Dc Serafino Generoso. In quegli anni ha seguito alcune tranche delle inchieste sulla corruzione all’interno della Gdf e sulla tangentopoli nel mondo della sanità. Nel 1997 è stato gip di "lastre pulite", lo scandalo per cui fu arrestato, tra gli altri, il medico Giuseppe Poggi Longostrevi. L’anno dopo come gup ha mandato a giudizio 4 persone per presunti finanziamenti illeciti alla corrente migliorista del Pc-Pds e ha rinviato a giudizio l’ex assessore Massimo De Carolis e altri cinque per la vicenda di corruzione legata al depuratore Milano Sud. Nel 2002 è stato nominato presidente del Tribunale del Riesame di Milano. Come giudice d’appello nell’ottobre dell’anno scorso ha confermato la condanna a tre anni di carcere per Ubaldo Livolsi per la bancarotta di Finpart.

Concetta Lo Curto - Cinquantuno anni, magistrato dal 1990, Concetta Lo Curto è stata giudice al Tribunale di Milano, prima all’ottava sezione penale e poi alla terza dal 1995 al 2013 quando poi è passata in Corte d’Appello. Nel 2010 assolse Massimo Maria Berruti (allora deputato Pdl), imputato per la vicenda Mediaset (la sua posizione era stata stralciata da quella di Berlusconi e degli altri).

Alberto Puccinelli - Entrato in magistratura nell’89, Alberto Puccinelli, 54 anni, qualche mese fa è stato il giudice relatore al processo di appello che lo scorso aprile si è concluso con la prescrizione per Berlusconi, imputato per la vicenda del "nastro Unipol".

Ruby, Berlusconi assolto: le reazione degli anti-Cav raccolte da “Libero Quotidiano”. 18 luglio 2014 Silvio Berlusconi assolto da entrambi i capi di imputazione nel secondo grado del processo Ruby. Il reato di concussione "non sussiste", mentre quello di prostituzione minorile "non costituisce reato". Una gioia per l'ex premier, uno schiaffo e una tremenda delusione per gli anti-Cav militanti e tutti i manettari che avrebbero voluto vedere inferta a Berlusconi la mazzata finale, quella condanna a sette anni e all'interdizione a vita che, oltre a tagliarlo fuori definitivamente e - forse - da tutto, gli sarebbe costata la revoca dell'affidamento dei servizi sociali e, dunque, gli arresti domiciliari. Ma così non è andata. Silvio è ancora vivo. A barcollare sono i suoi oppositori, e qui andiamo a passare in rassegna le loro reazioni.

Il togato Gad - Si parte da Gad Lerner, che sul suo blog scrive: "La sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano mi lascia decisamente perplesso ma non può che essere rispettata (...). Gli italiani sono ormai in grado di esprimere un giudizio morale sulle “cene eleganti” e sul comportamento dell’allora capo del governo". E continua: "La sentenza giunge come una bomba sugli equilibri politici del paese. La Procura di Milano subisce una sconfitta bruciante, anche se conferma come l'autonomia della magistratura sia un bene prezioso in uno Stato democratico". Lerner non risparmia Niccolò Ghedini: "Se Berlusconi si fosse rivolto per tempo a avvocati di valore come Franco Coppi, anziché a personaggi come Ghedini...". Lerner conclude: "La resurrezione politica dell'ex Cavaliere ha dell'incredibile ma è un fatto compiuto. Ora avrà più titolo nel presentarsi come l'interlocutore principale di Renzi, rafforzando il patto del Nazareno." Infine un riferimento a Renzi stessi: "Da questo punto di vista, credo che la sentenza non dispiaccia affatto al presidente del consiglio in carica".

Barba-Fatto - La rassegna prosegue poi con Gianni Barbacetto, anti-Cav della prima ora e firma manettara del Fatto Quotidiano, che affida il suo pensiero a Twitter. Dispiaciuto per la non-condanna di oggi, ricorda quella di un anno fa...

La "Savonarola" - Quindi la grillina Roberta Lombardi, deputata ed capogruppo alla Camera del Movimento 5 Stelle. Lei, ai toni da Savonarola, ci ha ormai abituato. Contro Berlusconi, certo, e anche contro tutto l'universo mondo. Oggi, però, si concentra su Silvio, e vomita tutta al sua delusione su Facebook: "Non è vero che le sentenze non si commentano. A volte si commentano da sole".

Zuccate - Poi è il turno Vittorio Zucconi, firma di Repubblica e direttore del sito del quotidiano, che quotidianamente bombarda Berlusconi. Un assoluto tic, quello di Zucconi contro il Cav. Lo sfogo viaggia su Twitter. Non avendo la possibilità di esultare per una condanna la butta sulla provocazione.

Vomitino - Una nota di merito per il grillino Giuseppe Brescia, che a onor del vero, a differenza della sgangherata pattuglia pentastellata, fino ad oggi non si era fatto granché notare per castronerie, complotti, scie chimiche o bestialità diffuse. Ma al Brescia, oggi, viene un conato di vomito.

Deiezioni - Come sempre, Sabina Guzzanti ci va giù con "eleganza". Tempo fa si esercitò nella retorica della morte, augurata a Berlusconi. E oggi che Berlusconi non lo hanno demolito, la comica col vizietto dell'insulto infamante, si lancia - su Twitter - in una volgare intemerata dal sapore complottista che, forse, tira in ballo un po' tutti (giudici, Berlusconi, Renzi, etc...).

Incassi - Spiritoso il direttore de Il Post, Luca Sofri, che da buon giornalista pensa al futuro del settore, che vive - come è noto - una profonda crisi.

Fanghiglie - Non ci si può mica dimenticare di Roberto Saviano, che però non reagisce e piomba in un catatonico e assordante silenzio. E allora lo ricordiamo con quanto aveva scritto su Facebook all'indomani della condanna in primo grado, quando su Facebook pontificava: "Il mio pensiero va a Ilda Boccassini che ha lavorato con disciplina e prudenza, nonostante il fango e le pressioni. Ha vinto il diritto anche grazie a lei e al suo lavoro non condizionato, non forzato, basato su prove rigorose e riscontri". Il fango? Le pressioni? Di fango, qui, ne è stato - copiosamente - gettato solo contro al signor Berlusconi. E Saviano, ora, che dice?

Travaso di bile e insulti degli anti berlusconiani. Dalla Guzzanti a Gad Lerner a Lucia Annunziata: il popolo anti Cav non accetta l'assoluzione, scrive Sergio Rame su “Il Giornale”. Volti cupi tra i manettari. Travasi di bile nelle schiere anti Cav. Peggio degli incubi peggiori. L'assoluzione, appunto. Perché "il fatto non sussiste". Da far venire le traveggole a qualcuno, da causare svenimenti e mancamenti ad altri. La decisione della Corte d'Appello di Milano al processo Ruby è una tremenda delusione per gli anti berlusconiani militanti che da giorni sognavano l'ennesimo colpo giudiziario ai danni del leader di Forza Italia Silvio Berlusconi. E invece la condanna a sette anni e all'interdizione a vita che, oltre a tagliarlo fuori definitivamente dall'agone politico, gli sarebbe costata la revoca dell'affidamento ai servizi sociali e, dunque, gli arresti domiciliari è stata annullata, cancellata, azzerata. Un fulmine a ciel sereno per gli odiatori di professione che contro Berlusconi ci hanno costruito la carriera di una vita. "La sentenza emessa dalla Corte d'Appello di Milano - scrive Gad Lerner sul blog - mi lascia decisamente perplesso ma non può che essere rispettata. Gli italiani sono ormai in grado di esprimere un giudizio morale sulle “cene eleganti” e sul comportamento dell’allora capo del governo". Al giornalista l'assoluzione proprio non va giù: "La sentenza giunge come una bomba sugli equilibri politici del paese. La Procura di Milano subisce una sconfitta bruciante, anche se conferma come l'autonomia della magistratura sia un bene prezioso in uno Stato democratico". Quindi la conclusione: "La resurrezione politica dell'ex Cavaliere ha dell'incredibile ma è un fatto compiuto. Ora avrà più titolo nel presentarsi come l'interlocutore principale di Renzi, rafforzando il patto del Nazareno". Anche al Fatto Quotidiano la notizia è rimasta un po' indigesta. Su Twitter Gianni Barbacetto si affretta a ricordare il processo sui diritti tv: "Ora si dimenticheranno tutti che è comunque condannato definitivo per frode fiscale. Bazzecole". Non una parola di scuse per le campagne di fango sulle inutili intecettazioni trafugate dai faldoni del Rubygate. Nemmeno un mea culpa per tutto il fango gettato contro l'ex premier e le persone a lui care pur di linciare un governo democraticamente eletto dagli italiani. Adesso chi risarcirà il Cavaliere delle campagne infamanti portate avanti dal Fatto Quotidiano e, più in generale, dalla stampa progressista? Di questi problemi etici, va da sé, Barbacetto se ne infischia. Come se ne infischiano a Repubblica dove rimangono sbigottiti davanti a "una sentenza clamorosa". Su Twitter Vittorio Zucconi non perde certo l'occasione per punzecchiare (a distanza) Berlusconi: "Se le sentenze di assoluzione sono 'politiche', lo sono anche quelle di condanna". Se i giornalisti progressisti punzecchiano con la penna, gli anti Cav più sanguigni passano direttamente agli insulti. Sabina Guzzanti non ci va giù leggera: "Un paese in cui ai posti di comando ci sono solo subdoli pezzi di merda #ruby". Parole e insulti di fuoco da parte di una "comica" che non molto tempo fa augurò al leader del centrodestra la morte. Molto livoroso il commento che Lucia Annunziata affida all'Huffington Post, il sito che dirige: "Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa. Per venti lunghi anni abbiamo dubitato del nostro Premier, lo abbiamo chiamato puttaniere, e lo abbiamo accusato di uso privato del suo potere. Sbagliato. L'uomo è in verità un politico integerrimo. Altro che rottamazione. È quello che ci grida, dall'alto dei suoi scranni, il potere togato, quello stesso che abbiamo venerato per anni, e come smentirlo ora, ora che ha trasformato in un niente il reato di prostituzione minorile e di concussione". E insiste: "La prima è che la parte che mi fa più pena di questa sentenza (sì, ho detto pena) non è la assoluzione dal reato di prostituzione minorile... Penosa è l'assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dello Stato, sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa".  Poi con una punta di sarcasmo finge di dar ragione ai berlusconiani: "La seconda lezione da trarre da questa sentenza è fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione". Conclude quasi rassegnata, senza far venir meno il proprio senso di superiorità: "Una generazione esce sconfitta da questa sentenza, ha avuto torto. Ma speriamo che chi ha vinto abbia davvero ragione, e che sia valsa tutta la pena che si è dato. Non vorrei trovarmi poi nei panni di chi è vittorioso a breve e si vergognerà in futuro".

Lucia Annunziata dopo l'assoluzione di Berlusconi: "La magistratura fa pena", scrive “Libero Quotidiano”. "Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa". Esordisce così Lucia Annunziata dalle colonne digitali dell'Huffington Post. Parla dell'assoluzione di Silvio Berlusconi e lei, anti-Cav militante (il suo scontro in tv con l'allora premier è nella storia dell'italico piccolo schermo), riconosce di aver perso. "L'uomo è in verità un politico integerrimo", scrive con parecchio sarcasmo. "Ci rassegniamo dunque. C'è chi vince e c'è chi perde, e tocca accettare le sconfitte", aggiunge dopo aver ospitato sull'Huffington, poco prima della sentenza, un articolo in cui spiegava perché 7 anni per Berlusconi nel processo Ruby erano troppi. Attacco alle toghe - Dopo aver riconosciuto la sconfitta, l'Annunziata passa all'attacco, e spiega che questa sentenza le fa "pena". "La prima parte che mi fa più pena di questa sentenza (sì, ho detto pena)", spiega, è "l'assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dallo Stato sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa?". Una domanda retorica, quella di Lucia, che non vuole in verità alcuna risposta. Fa effetto, però, notare come nel giorno della sentenza favorevole a Berlusconi, chi come l'Annunziata è sempre ed incondizionatamente stato dalla parte della magistratura, passi ad attaccare la magistratura stessa. "Penosa", di fatto, poiché una sentenza che fa "pena" è tutta imputabile alle toghe. Una clamorosa piroetta, quella di Lucia, che dal Tribunale di Milano, evidentemente, si aspettava ben altra "punizione" per il leader di Forza Italia. "Giù il cappello, ma..." - L'intemerata prosegue con "la seconda lezione da trarre da questa sentenza", che è "fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione?". Alza il tiro, Lucia. Lo alza contro le toghe, ma anche contro Matteo Renzi e Giorgio Napolitano. Già, perché, scrive, "c'è da dire che un vantaggio c'è nell'attuale soluzione: c'è da #starsereni. Quando nel futuro rileggeremo la storia d'Italia il leader politico che ha firmato le riforme che cambieranno il sistema in vigore dal 1948 non sarà definito un condannato, bensì un politico integerrimo e, in più, perseguitato politico. C'è da#starsereni - scimmiotta l'hashtag preferito del premier -: abbiamo un padre della patria a fianco di Matteo Renzi". Risveglio complottardo - E dopo le allusioni, neppur troppo velate, la direttrice dell'Huffington Post rende cristallino il suo pensiero. "Che poi questo era il punto, no? L'Italia aveva bisogno di riforme, e se serviva farlo con un condannato, è bastato togliere la condanna. Un classico caso di montagna che è andata da Maometto". Per Lucia, "l'assoluzione risolve così il maggior problema che aveva il Premier, e il maggiore che il presidente Napolitano voleva risolvere". Dunque l'accusa, diretta, neppure nascosta con la retorica, o almeno non troppo: "Si immagina che il Presidente (Napolitano, ndr) sia stato correttamente terzo mentre si giocavano i destini di tante persone. Ma forse i giudici sanno interpretare oltre che le parole anche i silenzi". Dopo l'assoluzione di Berlusconi, dunque, l'Annunziata si risveglia avvelenata con la magistratura. E complottarda: dietro questa sentenza, lascia intendere, ci sarebbero la "manina" del premier e i "silenzi" di Napolitano...

Come rosicano...Tg3, Berlusconi assolto è la quarta notizia. E Bianca Berlinguer non c'è, scrive “Libero Quotidiano”. Succede che Silvio Berlusconi, per una volta, è stato assolto. Giustizia per il Cavaliere nel secondo grado del processo Ruby. Una notizia. Anzi, una notizia clamorosa. Olgettine, prostituzione, fango, telefonate, pressioni sugli ufficiali in questura: tutto polverizzato dalla nuova sentenza. La concussione "non sussiste" mentre la prostituzione minorile "non costituisce reato". Ecco, qualcuno in Italia - giusto per usare un eufemismo - oggi se n'è accorto: su Twitter, sui siti, in radio e in tv non si parla d'altro. Altri, invece, se ne sono accorti un po' meno. Per esempio il Tg3, il notiziario di Telekabul, la testata televisiva più a sinistra dell'italico piccolo schermo, diretta dalla zarina Bianca Berlinguer. Priorità - Succede che assolvono Berlusconi - una rinascita, per il leader di Forza Italia - e succede che al Tg3 la notizia venga relegata al quarto titolo nel rullo di apertura (quello in cui si presentano le notizie, per intendersi). Si parte dal boeing abbattuto in Ucraina e dalle accuse rivolte da Barack Obama a Vladimir Putin. Quindi si passa all'invasione di terra nella Striscia di Gaza, all'operazione militare intrapresa dall'esercito israeliano. Poi ecco l'assoluzione di Berlusconi. E la scaletta presentata nel rullo che precede il tg viene rispettata nel tg stesso. Il boeing, il serivzio sulla guerra a Gaza e poi anche un collegamento in diretta con Gerusalemme. E il Cavaliere? Il Cavaliere è stato assolto, e al Tg3 questa assoluzione la reputano una notizia meno importante, quasi una notizia marginale (o forse al Tg3 la notizia non piace affatto?). Ora di grazia: 19.12, il momento in cui viene lanciato il servizio sulla vittoria in tribunale del leader di Forza Italia. Quasi a metà del telegiornale. Fatto curioso, per un telegiornale che nella politica ha il suo core business. Bianca sparita - Ma che al Tg3 si respirasse un clima di lutto lo si era capito anche da un altro particolare, che si era manifestato sin dai già citati titoli letti durante il rullo. No, la voce non era quella consueta e familiare della direttrice. Bianca Berlinguer non si sentiva. Lei, sempre in prima linea per l'edizione delle 19, putacaso nel giorno dell'assoluzione di Berlusconi era sparita. Puf, scomparsa. Eclissata. Meglio non farsi vedere nel giorno di una notizia - per loro - funerea? Ah, saperlo. Di sicuro - video canta - alla scrivania del notiziario di Telekabul c'era Tatiana Lisanti. Scura in volto, sia chiaro. Perché Berlusconi che vince, per il Tg3, è una clamorosa sconfitta (da relegare come quarto titolo, al 12esimo minuto, eccetera eccetera...).

Eppure in precedenza si erano dette cose diverse.

Incredibile a casa-Travaglio. Ruby, Il Fatto Quotidiano: "Sette anni a Berlusconi sono troppi", scrive “Libero Quotidiano”. All'antivigilia della sentenza di secondo grado nel processo Ruby, un clamoroso articolo del Fatto Quotidiano. Il giornale vicediretto da Marco Travaglio, che lo vorrebbe vedere in galera a vita, stavolta "assolve" Silvio Berlusconi. L'ingrato compito tocca a Marco Lillo nell'articolo dal titolo: "Ruby, perché sette anni sono troppi". Più che esplicito l'attacco del pezzo: "Per una volta i legali di Berlusconi non hanno tutti i torti: la condanna di primo grado nel caso Ruby non sta in piedi. Se la pena non fosse ridotta in appello non sarebbe uno scandalo". Favori al Pd - Incredibile ma vero, casa-Travaglio, la casa delle manette - soprattutto se ipoteticamente strette attorno ai ponti di Berlusconi - parla di pena sbagliata e troppo pesante nei confronti di Berlusconi stesso. L'articolo spiega: "Quando c'è costrizione, dopo la riforma Severino del 2012, il minimo di pena è 6 anni. La vecchia concussione (compresa quella per induzione) prevedeva pene da 4 ai 12 anni mentre la nuova induzione indebita introdotta dalla legge Severino va da 3 a 8 anni. Per evitare il mezzo colpo di spugna per l'induzione contestata dal pm a Berlusconi - prosegue il Fatto -, il Tribunale ha ricondotto la telefonata di Berlusconi alla costrizione e gli ha affibbiato 4 anni più 2 per l'aggravante. In tal modo - si spiega - la Questura resta una vittima e la legge Severino non produce alcun effetto in favore dell'ex premier, come invece è stato per il Pd Filippo Penati". La "costrizione" - Insomma, il cuore della questione è la "costrizione", contestata da Berlusconi, ma pure dal Fatto. La presunta costrizione contro il capo di gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, "costretto" a rilasciare Ruby. Eppure, ricorda Lillo, a Ostuni un margine di libertà restava eccome. Poteva benissimo richiamare Berlusconi e dire: "Scusi presidente ho verificato: Ruby è marocchina, non è egiziana e non è la nipote di Mubarak. (...) Se non l'ha fatto non è stato per una costrizione di Berlusconi ma per una sua scelta. Con tutta probabilità Berlusconi avrebbe battuto in ritirata e, se fosse andato avanti con le sue richieste, allora sì che si sarebbe potuta ipotizzare una costrizione degna di sei anni di galera". Non in questo caso, però. "Prova debolissima" - Il lungo articolo, inoltre, ricorda come la legge Severino lasci al pubblico ufficiale l'alternativa, secca: decidere tra la costrizione - con cui punire severamente, nel caso, Berlusconi - oppure l'induzione indebita a liberare Ruby, dove però sarebbe colpevole anche Ostuni, complice nella "liberazione" di Ruby. Il sospetto affacciato anche dal Fatto, dunque, è che si sia preferito evitare di toccare la Questura, dipingendola anzi come vittima. Si ricorda poi come la scelta di contestare la "costrizione" sia "figlia della posizione assunta da Edmondo Bruti Liberati", capo delle toghe di Milano, vicinissimo alla Boccassini e fiero oppositore del Cav. Si ricorda, inoltre, come la prova per contestare la costrizione stessa sia debolissima: "Secondo De Petris, i funzionari della Questura si accorsero subito che Ruby non era la nipote di Mubarak ma non dissero nulla al premier proprio per il loro stato di costrizione. La tesi è deboli". Una circostanza evidente a tutti, che la tesi sia "debole". Anche al Fatto. Anche a Travaglio, che di fronte a una macroscopica persecuzione - quella delle toghe al Cav - alza bandiera bianca e, via Marco Lillo, "assolve" il leader di Forza Italia (o, almeno, gli concede uno sconto di pena).

Lucia Annunziata, anche lei dopo Marco Travaglio "assolve" Silvio Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. «Appello Ruby: perchè va abbassata quella condanna». A spiegare perchè una condanna a sette anni di reclusione per Silvio Berlusconi sono troppi, e le ragioni per cui almeno uno dei due capi di imputazione dovrebbe essere «derubricato» non è un esponente forzista ipergarantista, bensì Ida Dominijanni sull’Huffington Post. L’autrice dell’analisi non è certo una firma «prezzolata» del Cavaliere, bensì una giornalista che ha lavorato per molti anni a Il Manifesto, cioè il quotidiano comunista, e che alle ultime elezioni politiche era candidata con Sinistra e libertà. Nessuno può sospettarla di connivenza col “nemico” storico, eppure la giornalista e filosofa sostiene che «sulla base di argomenti formali, la condanna di Berlusconi potrebbe e dovrebbe essere derubricata», che nello svolgimento del processo è venuto a galla un «teorema inquisitorio» e che, oltretutto, bisognerebbe chiedersi se è «giusto l’uso di intercettazioni per un reato (...) che ha a che fare così profondamente con la vita intima». Non si tratta di una opinione come tante. La direttrice dell’Huffigton post è Lucia Annunziata, che fu protagonista di uno scontro accesissimo con l’allora premier in tv. È lei ad avere scelto di dare molta visibilità al “post”, promuovendolo a terzo titolo del suo sito di informazione per tutto il pomeriggio di ieri. A più d’uno è venuto il dubbio che si trattasse di un endorsement. Se così fosse, non sarebbe certamente la marcia indietro più clamorosa. Soltanto due giorni fa il Fatto quotidiano, del quale è vicedirettore Marco Travaglio, si era schierato sulla stessa linea. «Per una volta i legali di Berlusconi non hanno tutti i torti: la condanna di primo grado nel caso Ruby non sta in piedi. Se la pena fosse ridotta in appello non sarebbe uno scandalo», ha scritto il giornalista Marco Lillo.

Proprio lui...Gianfranco Fini: "Dobbiamo essere tutti lieti per l'assoluzione di Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Fece di tutto, nel 2010, per farlo cadere, per mandarlo a casa e, perché no, per raccoglierne l'eredità politica. Fece di tutto per disarcionare Silvio Berlusconi, travolto dalle inchieste e dal fango del processo Ruby, quel processo Ruby nel quale oggi, venerdì 18 luglio, il Cavaliere è stato assolto. Lui è Gianfranco Fini, ed orchestrò una complessa manovra parlamentare per mandare a casa il governo Berlusconi del quale prima dello strappo - "Che fai, mi cacci?" - era il secondo animatore. L'epilogo fu quel 14 dicembre 2010 che è entrato di diritto nella storia della politica italiana. Nei mesi precedenti, la crisi del centrodestra, con Fini - presidente della Camera - che si era smarcato mettendo in discussione la leadership del Cavaliere con un'escalation di critiche, polemiche ed attacchi. Fu quel 14 dicembre dopo il quale si cominciò a parlare dei "Responsabili" e dopo il quale iniziò l'eclissi politica di Fini, sparito nel nulla con il suo Futuro e Libertà. Quattro anni fa... - Quel 14 dicembre, in Parlamento, si votò la sfiducia nei confronti dell'allora leader del Pdl: a sostenerla anche l'Udc. In mattinata Berlusconi riferì sul suo operato al Senato, dove poi incassò la fiducia con 162 sì, 135 no e 11 astenuti. Quindi il duello alla Camera, molto meno scontato, e sul quale Fini - nuovo totem della sinistra, da Repubblica al Partito democratico - si era giocato tutto. Perdendo. La seduta fu caotica, tra insulti al presidente di Montecitorio, risse e sospensioni. I numeri erano ballerini e incerti. Sembrava che il Cav potesse essere detronizzato. Ma intorno alle 14, a sorpresa, alla Camera la spuntò Berlusconi: per soli 4 voti - 314 a 311 - incassò la fiducia. Per paradosso furono fondamentali proprio quattro voti "finiani", che all'ultimo momento utile cambiarono idea: Catia Polidori, Maria Grazia Siliquini e Giampiero Catone, mentre Silvano Moffa non partecipò al voto. Il resto, è storia. La nota di Fini - Ad aggiungere un ulteriore tassello alla storia, oggi che Berlusconi è stato assolto da quelle accuse che lo spinsero a sfiduciarlo, è proprio Gianfranco Fini. "Al di là del giudizio politico su Berlusconi - ha scritto in una nota l'ex futurista -, tutti gli italiani, e quindi anche i suoi avversari, devono essere lieti della sua assoluzione, perché la magistratura, annullando una sentenza di primo grado che ha pesantemente discreditato le nostre istituzioni in ogni angolo del mondo, ha confermato di essere pienamente autonoma ed imparziale". Fini, dunque, esprime la sua soddisfazione perché le nostre istituzioni non sono state infangate. O meglio, perché il fango è stato lavato via da questa sentenza di secondo grado. Lo stesso fango che Fini accreditò cercando di cacciare Berlusconi da Palazzo Chigi. Dopo il commento di Gianfranco, non si è fatta attendere la risposta - su Twitter - dell'ormai vecchissimo amico Maurizio Gasparri: "Vergognoso ed ipocrita il commento di Fini alla assoluzione di Berlusconi. Contribuì al disastro politico. Meglio che taccia".

Rubygate, le eredità del pornoprocesso. Adesso che B. è stato assolto, è il momento di riavvolgere il nastro e farsi molte domande scomode, scrive di Annalisa Chirico su “Panorama”. E chi lo dice a Ilda? Toccherà dirglielo piano, farla accomodare e sillabare: AS-SOL-TO. Sì, lo hanno assolto. Con formula piena. Concussione? Il fatto non sussiste. Prostituzione minorile? Non c’è traccia di reato. Chissà se dalle parti della procura di Milano riusciranno a farsene una ragione. È sempre possibile ricorrere in Cassazione contro il verdetto pronunciato oggi dal giudice Enrico Tranfa, presidente della seconda sezione penale della Corte d’appello di Milano. Nel pornoprocesso che non sarebbe mai dovuto cominciare il ribaltamento della condanna di primo grado a sette anni di carcere non può essere ridotto alla normale fisiologia del sistema giudiziario italiano. Certo, i gradi di giudizio sono tre, può capitare che un verdetto di primo grado sia riformato in appello. Ma il Rubygate non ha nulla di normale. Sin dalla fase delle indagini preliminari con gli interrogatori in gran segreto che danno sfogo alla fervida fantasia di una giovanissima ragazza che favoleggia di notti con noti calciatori, attori americani, ministre mezze nude. Un’orgia di chiacchiere che anziché essere censurate come tali eccitano i procuratori di Milano a tal punto da dispiegare una macchina poliziesca fatta di intercettazioni a strascico e pedinamenti su larga scala.  Decine di utenze intercettate, chiunque metta piede ad Arcore – nella villa privata dell’allora premier – viene schedato e registrato per giorni e giorni. Il fine assai chiaro è intercettare loro per intercettare lui, inseguire loro per accerchiare lui, nel suo spazio domestico, in assenza delle autorizzazioni previste dalla legge. Il fascicolo della pubblica accusa in primo grado è un glossario erotico, non si capisce quali siano i reati, dove siano le prove, è tutto un pullulare di dettagli piccanti, statuette di Priapo e scollature osé. Eppure il processo inizia. A giudicare sono tre donne, l’indignazione pseudofemminista fa il resto. Che sboccate queste testimoni, si presentano truccate e ben vestite, incedono con passo deciso su tacchi vertiginosi mentre stringono in una mano il manico di una borsa griffata. Ma lei come fa a permettersi questi oggetti? Qual è la sua vera fonte di guadagno? Non sarà mica che lei si prostituisce? Ah, le cene erano eleganti ma lei è sicura che non si è mai prostituita?  E come la mettiamo con i "toccamenti lascivi" tra i presenti? Lei faceva addirittura il trenino? Ebbene sì, questo è il tenore delle domande che i pm rivolgono alle trentatré testimoni. Adesso che lui è stato assolto, sebbene la sentenza non sia ancora definitiva, chi ripagherà quelle donne additate al pubblico ludibrio come "puttane per forza"? La sentenza è inequivocabile: la concussione non sussiste. E la domanda è come i giudici del primo grado abbiano potuto condannare a sei anni di carcere (più uno per prostituzione minorile) sulla base delle prove addotte dall’accusa? Il funzionario della questura ha sempre negato di aver subito pressioni. La ricostruzione della telefonata in udienza non lasciava dubbi: fu una cortese richiesta di interessamento, nessuna costrizione. Del resto, se dovessero intercettare tutte le telefonate in arrivo negli uffici della pubblica amministrazione italiana, saremmo tutti imputati. Di telefonate così se ne fanno a iosa, sono segnalazioni, cortesie richieste, ma da qui a configurare un reato di concussione ce ne passa. Per non parlare dell’oltraggioso rapporto sessuale con l’ultradiciassettenne Karima che dal canto suo, tra mille fantasticherie, è sempre stata ferma su un punto: io con lui non ho mai avuto alcun rapporto sessuale. Anche qui niente testimonianze a sostegno dell’accusa, una montagna di prove invece circa l’inaffidabilità della giovane che, stando ai verbali dei carabinieri, era solita falsificare la propria identità, millantare una parentela inesistente con l’ex rais Mubarak e farsi passare per una 24enne. Ma niente, in primo grado non hanno sentito ragione. Le pornoipotesi dei pm sono diventate il Verbo di una condanna già scritta. Possiamo considerare questa la "normale fisiologia" di un processo? Possiamo accontentarci di un verdetto giusto quando chi ha montato l’ingiustizia con il potere di una toga non sarà mai chiamato a rispondere di alcunché? C’è poco da stare tranquilli perché "questa" giustizia può colpire anche te. Quel che consola è che a Milano una corte equilibrata e imparziale, scrupolosamente fedele soltanto alla legge e non alle partigianerie politiche, ha decretato la vittoria del diritto. In Italia siamo ancora liberi di puttaneggiare senza essere arrestati per oltraggio alla pubblica morale. Però, a lei, diteglielo piano.

Un'inchiesta basata sul nulla che ci è costata una fortuna. Centinaia di migliaia di euro spesi, decine di funzionari statali coinvolti per un processo senza prove, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Possono quattro anni di inchiesta che ha coinvolto decine e forse centinaia di funzionari statali, che è costata centinaia di migliaia di euro, che ha portato all'impeachment di un presidente del consiglio, essersi basati sul niente? Risposta: sì, possono. Assoluzioni e condanne fanno parte della logica del diritto, e sarebbe un paese pericoloso un paese dove tutti i processi si concludessero con la condanna degli imputati. E vale anche in questo caso: come spiega oggi, ancora groggy per il successo, l'avvocato Filippo Dinacci, "questa sentenza è la prova che il sistema funziona, e ci sono dei giudici che fanno il loro dovere". Anche a Milano, nel palazzo di giustizia dove più volte Berlusconi ha denunciato di sentirsi assediato da una falange compatta di magistrati decisi a toglierlo dalla scena, e dove invece tre giudici gli riconoscono oggi la più clamorosa delle assoluzioni. Tutto normale, dunque, tutto "fisiologico", come dicono i cultori del diritto? Non proprio. Perché il processo Ruby non è stato un processo normale. Non lo è stato fin dalle indagini preliminari, quando su questo fascicolo si sono investite risorse di uomini e mezzi inimmaginabili per altri reati dello stesso tipo, e spesso anche per reati più gravi: una macchina investigativa di quelle che si usano solo per dare la caccia ai mafiosi e ai terroristi. Non lo è stato quando, come accertato dall'indagine del Consiglio superiore della magistratura, nella inchiesta ha fatto irruzione, di fatto impossessandosene, un procuratore aggiunto della Repubblica che non aveva alcun titolo per condurre l'inchiesta, se non la ferrea determinazione di incastrare l'indagato alle sue colpe. A Milano, chiunque viva dentro il palazzo di giustizia e sia dotato di un minimo di onestà intellettuale, sa che il processo Ruby è stato vissuto da una parte della magistratura milanese come l'occasione finale e irripetibile di portare l'attacco finale al Cavaliere, all'arcinemico, quello delle leggi ad personam, delle battute battute sui magistrati, dei giudizi sferzanti sulla "casta" delle toghe. Questa battaglia finale è stata combattuta senza risparmio di mezzi investigativi, giudiziari e mediatici. Le fughe di notizie hanno accompagnato, sostenuto e a volte preparato i passaggi cruciali dell'inchiesta. Nel frattempo Berlusconi finiva condannato in via definitiva per un'altra indagine della procura milanese, quella sui diritti tv. Ma la caccia non si è fermata, e forse è stato uno sbaglio strategico non indifferente. Perché ora al Cavaliere che sconta ai servizi sociali la condanna per frode fiscale, viene dato uno strumento formidabile per rivendicare il suo status di ingiustamente perseguitato. Si poteva fare finta di niente, davanti ai primi racconti di Ruby, quando dopo il fermo casuale iniziò a riempire pagine su pagine di verbali su quanto accadeva ad Arcore? Forse no, non si poteva. Una qualche forma di verifica delle pirotecniche rivelazioni della ragazza era doverosa. Ma sarebbe stato più saggio fermarsi un passo prima dell'irruzione in camera da letto, una volta assodato che se qualcuna delle fanciulle varcava quella soglia lo faceva di sua spontanea volontà. E che l'unica minorenne presente a quelle serate, ovvero la stessa Ruby, era universalmente considerata - per quel che diceva e per come appariva - assai più che maggiorenne. Ma il vero errore di ostinazione la Procura lo ha commesso quando si è convinta che in questa indagine evanescente l'arma vera per incastrare Berlusconi, più di quanto avveniva ad Arcore, fosse quanto successo la notte del 27 maggio 2010, la telefonata di Berlusconi in questura a Milano. È quella chiamata, cui Ilda Boccassini attribuisce lo status del grave reato di concussione, l'architrave cui viene appesa l'intera indagine. E pazienza se si scopre strada facendo che Ruby quella notte venne rilasciata come altre decine di adolescenti prima e dopo di lei, prassi vecchia, consolidata, e universalmente applicata senza bisogno di parentele con Mubarak. È quel l'architrave che esce demolita dalla sentenza di oggi. I giudici della corte d'appello lasciano alla Procura un piccolo, quasi impercettibile, premio di consolazione, quando dicono che tra Berlusconi e Ruby qualcosa accadde, anche se non fu reato. Ma la concussione, la costrizione, il timor panico che la chiamata di Berlusconi avrebbe ingenerato nei vertici della polizia milanese vengono retrocessi brutalmente a quello che furono: una telefonata. Nell'ottobre di quattro anni fa, fu il procuratore Edmondo Bruti Liberati a comunicare ai giornalisti che, conclusi i gli accertamenti, i fatti di quella notte erano risultati corretti. Forse fu, da parte di Bruti, una mossa tattica, un depistaggio. Ma col senno di oggi, se ci si fosse fermati li sarebbe stato meglio per tutti. E si sarebbero risparmiati un sacco di soldi.

Il paradosso. Antonio Esposito scopre i giudici di parte: la toga anti-Berlusconi ricusa i membri del Csm "eletti dal Pdl", scrive  Malabarba su “Libero Quotidiano”. Ma guarda, adesso il giudice non ha piacere di essere giudicato. E non è mica l’unico paradosso, perché Antonio Esposito vive un singolare contrappasso: gli tocca utilizzare gli stessi argomenti che tante volte sono usciti dalle labbra di Silvio Berlusconi. Curioso, visto che Esposito presiede la sezione della Cassazione che ha condannato a quattro anni il Cavaliere nel processo Mediaset. Ma non c’è troppo da stupirsi, perché questa vicenda è un piccolo capolavoro di contorsionismo, per non scomodare il surrealismo. Andiamo con ordine, però. Esposito si è guadagnato le prime pagine dei giornali nell’agosto scorso grazie a un’intervista al Mattino di Napoli in cui anticipava le motivazioni della condanna a Berlusconi. Motivo per cui questo venerdì dovrebbe presentarsi di fronte al Consiglio superiore della magistratura per essere giudicato. Per lui sarebbe la seconda volta, dopo che la prima commissione del Csm ha archiviato. Ebbene, a quanto pare Esposito non gradisce affatto. Mercoledì, sul Fatto quotidiano, Marco Lillo ha rivelato che il giudice ha inviato una nota a Michele Vietti (presidente del Csm) in cui sostiene che il giudizio nei suoi confronti sarebbe viziato. In pratica, il giudice non gradisce i giudici. Nel suo scritto, Esposito spiega di aver parlato, il 6 marzo scorso, con il primo presidente della Cassazione Giorgio Santacroce, il quale gli avrebbe detto: «Al Consiglio c’è un clima non buono... Vedo un clima ostile». Insomma, al Csm sarebbero prevenuti. Beh, c’è da dire che questa l’abbiamo già sentita, per l’esattezza da Berlusconi (il quale, dopo tutto, ha qualche ragione in più di Esposito per lamentarsi di quanto accade in aula). Adesso però arriva il bello. Perché se Silvio ce l’aveva con le toghe rosse, il giudice Esposito teme nemici di azzurro vestiti. In particolare, ricusa i consiglieri Francesco Vigorito e Annibale Marini. Motivo? Quest’ultimo, secondo lui, è stato «eletto e proposto anche come vicepresidente del Csm su indicazione del partito (Pdl) che compatto si è mosso a difesa del capo condannato». Questa è bella. Perché Marini non è stato eletto dal Pdl, ma dal Parlamento riunito in seduta comune, che lo ha indicato come componente laico del Csm. Ma ad Esposito non va bene lo stesso, Parlamento o non Parlamento, Marini proprio non lo gradisce. E qui siamo all’ennesimo paradosso. Esposito si lamenta del fatto che chi deve giudicarlo potrebbe non essere imparziale. Da che pulpito. Lui, infatti, ha condannato Berlusconi anche se c’era più di un motivo per sospettare della sua imparzialità. Nello scorso agosto, Stefano Lorenzetto ha raccontato sul Giornale di aver partecipato a una cena a cui era presente anche il giudice Esposito. Il quale si sarebbe lasciato andare a dichiarazioni decisamente poco opportune sul Cavaliere e su alcune deputate del Pdl (di cui riportava le imprese amatorie che avrebbe appreso da intercettazioni telefoniche). A quella stessa cena, il giudice - parlando con un altro commensale - avrebbe definito Silvio «un grande corruttore» e «il genio del male». Ecco, il sospetto che un pochino potesse essere prevenuto sorge. Non è finita. Perché a un’altra cena, organizzata dall’imprenditore Massimo Castiello, Esposito avrebbe di nuovo sparlato del Cavaliere. Per l’esattezza, avrebbe detto: «Berlusconi mi sta sulle palle. Se lo incrocio gli faccio un mazzo così». Chiaramente il giudice ha smentito, ma alla cena era presente un testimone d’eccezione ovvero l’attore Franco Nero. Il quale, intervistato da chi scrive, confermò che Esposito provava «ostilità» nei confronti di Berlusconi. E adesso il giudice ricusa i suoi giudici perché non imparziali. Complimenti.

L’ITALIA DEI MORALISTI CON LA MORALE DEGLI ALTRI.

A distanza di oltre un secolo viene svelato l'assassino Joe Petrosino, il poliziotto italo americano venuto a Palermo per sgominare una banda di mafiosi. Il 29enne Domenico Palazzotto si vantava spesso con gli amici che a uccidere Petrosino era stato uno zio del padre. "Ha fatto lui l’omicidio del primo poliziotto ucciso a Palermo. Lo ha ammazzato lui Joe Petrosino", aveva detto agli amici mentre le microspie lo registravano. L'esecuzione di Petrosino, freddato alle 20.45 del 12 marzo 1909 don tre colpi di pistola in rapida successione e un quarto sparato subito dopo, suscitarono il panico nella piccola folla che attendeva il tram al capolinea di piazza Marina a Palermo.

La vera mafia è lo Stato che ci vessa. È arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato, scrive Magdi Cristiano Allam su “Il Giornale”. Per la prima volta un Papa ha scomunicato la mafia. Benissimo! È arrivato il momento di far luce su chi sia la mafia. Chi potrebbe non essere d'accordo con la condanna assoluta di chi usa la violenza nelle sue varie forme, psicologica, economica e fisica, per sottomettere le persone al proprio arbitrio, al punto da violare i diritti inalienabili alla vita, alla dignità e alla libertà? Ma chi è veramente il Male che sta devastando la nostra esistenza? È la criminalità organizzata che impone il pizzo ai commercianti e fa affari con il traffico di droga e dei clandestini? È la massoneria che gestisce in modo più o meno occulto il potere ovunque nel mondo? È il Gruppo Bilderberg che associa chi più conta nella finanza e nell'economia sulla Terra? Certamente queste realtà interferiscono con la nostra vita con conseguenze tutt'altro che trascurabili. Ma si tratta di realtà che o non riguardano tutti noi o non ne conosciamo bene i contenuti e i risvolti. Viceversa siamo tutti, ma proprio tutti, più che consapevoli delle vessazioni che tutti i giorni lo Stato ci impone attraverso leggi inique e pratiche del tutto arbitrarie. Chi è che ci ha imposto una nuova schiavitù sotto forma del più alto livello di tassazione al mondo, fino all'80% di tasse dirette e indirette? Chi è talmente spregiudicato da speculare sulla nostra pelle legittimando e tassando il gioco d'azzardo, gli alcolici e le sigarette? Chi è a tal punto disumano da tassare la casa, il bene rifugio dell'80% delle famiglie italiane? Chi è che condanna a morte le imprese applicando un centinaio di tasse e balzelli in aggiunta a un centinaio di controlli amministrativi? Chi è che sta accrescendo la disoccupazione e la precarietà in tutte le fasce d'età e lavorative? Chi ha permesso che 4 milioni e 100mila italiani non abbiano i soldi per comperare il pane? Chi protegge le grandi banche e le grandi imprese che continuano a privatizzare gli utili e a socializzare le perdite? Chi ha finora istigato al suicidio circa 4.500 italiani attraverso le cartelle esattoriali di Equitalia o coprendo le vessazioni delle banche quando non erogano credito o ingiungono di rientrare negli affidamenti entro 24 ore? Chi ha svenduto la nostra sovranità monetaria, legislativa e giudiziaria all'Europa dei banchieri e dei burocrati? Chi è responsabile della crescita inarrestabile del debito pubblico e privato dal momento che siamo costretti a indebitarci per ripianare il debito acquistando con gli interessi una moneta straniera? Chi sta devastando le famiglie obbligando entrambi i genitori a lavorare sodo per riuscire a sopravvivere? Chi ci ha portato all'ultimo posto di natalità in Europa e ci sta condannando al suicidio demografico? Chi sta incentivando l'emigrazione dei nostri giovani più qualificati perché in Italia non hanno prospettive? Chi sta danneggiando gli italiani promuovendo l'invasione di clandestini e umiliando i più poveri tra noi favorendo gli immigrati nell'assegnazione di case popolari, posti all'asilo nido e assegni sociali? Chi sta consentendo l'islamizzazione del nostro Paese riconoscendo il diritto a moschee, scuole coraniche, enti assistenziali e finanziari islamici a prescindere dal fatto che confliggono con i valori fondanti della nostra civiltà, indifferenti al fatto che sull'altra sponda del Mediterraneo i terroristi islamici stanno massacrando i cristiani e riesumando dei califfati in cui il diritto alla vita è garantito solo a chi si sottomette ad Allah e a Maometto? Ebbene è questo Stato che si è reso responsabile dell'insieme di questi comportamenti che ci stanno impoverendo e snaturando, trasformandoci da persone con un'anima in semplici strumenti di produzione e di consumo della materialità, assoggettati al dio euro e alla dittatura del relativismo. Ecco perché è arrivato il momento di guardare in faccia la realtà e di avere il coraggio di dire la verità: la mafia è questo Stato. Di ciò sono certi tutti gli italiani perché è una realtà che pagano sulla loro pelle giorno dopo giorno. Quindi caro Papa Francesco lei ha scomunicato le alte personalità che ha ricevuto in Vaticano, a cui ha stretto la mano e ha augurato successo. Per noi sono loro i veri mafiosi che stanno negando agli italiani il diritto a vivere con dignità e libertà.

Risarcimenti: 8 euro per torturarti, scrive Maria Brucale su “Il Garantista”. Dopo la “pena sospesa” da parte della Corte Europea che, in data 28 maggio ha riconosciuto i buoni propositi dell’Italia e le ha concesso una proroga per sanare la situazione di drammatica afflizione che vivono i detenuti nelle nostre carceri, il governo Renzi partorisce un decreto: risarcimenti in denaro, 8 euro al giorno, per i detenuti tornati in libertà che sono stati costretti a vivere in uno spazio inferiore a tre metri quadrati, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo. Un giorno di tortura, dunque, vale 8 euro. Per chi è ancora detenuto, invece, verrà applicato uno sconto sulla pena residua pari al 10 %. Il carcere minorile potrà ospitare persone fino a 25 anni, non più fino a 21, così ritardando l’ingresso dei non più “minori” nelle strutture carcerarie ordinarie e rallentando il sovraffollamento conseguente. Il decreto guarderebbe anche ai problemi di gestione, anch’essi derivanti da un numero di detenuti sempre in esubero rispetto agli istituti penitenziari, da parte della polizia penitenziaria, attraverso provvedimenti tesi ad aumentare la consistenza dell’organico. Un provvedimento certamente insufficiente ed inadeguato che creerà e sta già creando ulteriori momenti di tensione nelle note aree forcaiole che hanno gridato il loro sdegno per il precedente decreto, inopinatamente definito “svuota carceri”, che, nella sua originaria formulazione, in aderenza al dettato costituzionale, estendeva anche ai reati di mafia e a tutti quelli inclusi nel famigerato art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la propria valenza risarcitoria per una carcerazione inumana e degradante, prevedendo la concessione ai detenuti, per un periodo di tempo determinato, del beneficio della liberazione anticipata con decurtazione della pena da espiare non dei consueti 45 giorni, bensì di 75. La legge di conversione ha stabilito che i detenuti per reati di mafia o per altri reati individuati come “più gravi” dall’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, sono un po’ meno persone degli altri, che per loro una detenzione oltre i limiti di ogni decenza va bene tutto sommato perché sono veramente cattivi!!! E, dunque, attendiamo le reazioni. Non possiamo però non osservare che se il governo avesse emanato provvedimenti di immediata concretezza deflattiva, non avrebbe dovuto oggi “sbloccare fondi” utili ad uscire dall’emergenza, per erogare l’elemosina degli otto euro, e per salvare dal collasso la polizia penitenziaria, fondi che in qualche modo saremo tutti chiamati a reintegrare. Il grido di amnistia e di indulto fatto proprio dal Papa e dal Presidente della Repubblica rimane inascoltato, la situazione rimane drammatica. Intanto, il segretario generale del Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, Donato Capece – lo stesso che affermava riguardo alla morte di Stefano Cucchi: “ i nostri colleghi che lavorano nelle camere di sicurezza del tribunale, sono persone tranquille e al di sopra di ogni sospetto” – così commenta il provvedimento sui risarcimenti ai detenuti deciso dal Consiglio dei Ministri: «Lo Stato taglia le risorse a favore della sicurezza e della Polizia Penitenziaria in particolare e poi prevede un indennizzo economico giornaliero per gli assassini, i ladri, i rapinatori, gli stupratori, i delinquenti che sono stati in celle sovraffollate». E ancora: «a noi poliziotti non pagano da anni gli avanzamenti di carriera, le indennità, addirittura ci fanno pagare l’affitto per l’uso delle stanze in caserma e poi stanziano soldi per chi le leggi le ha infrante e le infrange. Mi sembra davvero una cosa pazzesca e mi auguro che il Capo dello Stato ed il Parlamento rivedano questa norma assurda, tanto più se si considerano quanti milioni di famiglie italiane affrontano da tempo con difficoltà la grave crisi economica che ha colpito il Paese».

Il pm Diego Marmo: “Su Tortora ho sbagliato, chiedo scusa alla famiglia, scrive Francesco Lo Dico su “Il Garantista”.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente con sentenza passata in giudicato. E adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Agii in perfetta buona fede».

Dopo un lungo corpo a corpo fatto di reciproci pregiudizi, di frasi smozzicate e di estrema diffidenza, Diego Marmo, il pm che inchiodò Enzo Tortora con una dura requisitoria rimasta negli annali, si è finalmente svestito della toga. Ma prima, prima di questo, c’è la foga di chiedere, di giudicare senza appello a nostra volta.

Ci sono state molte polemiche per la sua nomina ad assessore alla Legalità a Pompei. Ma ha dichiarato al Velino che il caso Tortora è un “episodio” della sua carriera. Non le pare di aver liquidato la vicenda con troppa sufficienza?

«A domanda ho risposto. Si parlava della mia nomina ad assessore a Pompei. La storia del mio coinvolgimento sul caso Tortora è tutto un altro capitolo, un capitolo di un’attività professionale lunga 50 anni, che non può essere affrontato in due minuti. La cosa è molto più complessa.»

Eppure lo ha fatto. Ha definito come “episodio” il più grande caso di macelleria giudiziaria della storia italiana. É sembrato che stesse dicendo: “Ora faccio l’assessore, e chissenefrega di Tortora”.

«In trent’anni non ho mai pensato o detto “chissenefrega del caso Tortora”. Immaginavo che potessero sorgere polemiche sulla mia nomina. Ma alla fine ho deciso di accettare perché la situazione degli scavi di Pompei mi sta particolarmente a cuore. Esercitando la funzione di procuratore a Torre Annunziata, mi sono convinto dello stato di abbandono nel quale si trova la città antica.»

Verrà pagato per questo incarico?

«Lavorerò a titolo gratuito, mi pagherò anche la benzina. E se la mia presenza dovesse provocare difficoltà al buon funzionamento della giunta, sono pronto a lasciare. Il sindaco mi ha scelto senza conoscermi personalmente perché probabilmente ha apprezzato il mio lavoro da procuratore. Ho accettato perché sono dell’avviso che la legalità non va predicata ma praticata. Ho lasciato la Procura di Torre Annunziata con amarezza.»

A che cosa si riferisce?

«Parlo dell’omicidio di Vero Palumbo. Faceva il meccanico. La notte del 31 dicembre, mentre giocava a scopa, è stato ucciso dai colpi d’arma da fuoco della camorra che festeggiava barbaramente il Capodanno. Ho promesso alla sua famiglia che avrei trovato l’assassino. Non ci sono riuscito. Questa nomina potrebbe aiutarmi a  sollecitare il legislatore ad estendere i benefici che riguardano le vittime della camorra anche alla vedova e alla figlia, alle quali questo status non viene riconosciuto.»

Sembra un uomo capace di provare rammarico. Perché per Tortora non ne ha mai provato?

«È quello che ha sempre pensato il circo mediatico. Quello che avete sempre pensato tutti voi. Ma il rammarico c’era da tempo. L’unica difesa che avevo era il silenzio.»

Se provava rammarico, non era meglio manifestarlo? Perché ha taciuto?

«Perché nessuno prima d’ora me lo aveva mai chiesto. Vi siete accaniti contro di me. Mi avete condannato. Venivo sempre aggredito. Ma nessuno ha mai pensato di interpellarmi o ascoltarmi.»

È lei che ha chiesto la condanna di Tortora senza prove. La ascolto volentieri.

«Il mio lavoro si svolse sulla base dell’istruttoria fatta da Di Pietro e Di Persia. Tortora fu rinviato a giudizio da Fontana. Io feci il pubblico ministero al processo. E sulla base degli elementi raccolti, mi convinsi in perfetta buona fede della sua colpevolezza. La richiesta venne accolta dal Tribunale.»

Non avevate niente: nessun controllo bancario, nessun pedinamento, nessuna intercettazione. Solo la “nazionale dei pentiti”. Come ha potuto chiedere 13 anni per il presentatore?

«Mi vuole fare il processo?»

No,voglio delle risposte.

«A ciascuno il suo. Mi faccia rispondere di quello che ho fatto io.  Gli elementi raccolti in fase istruttoria mi sembrarono sufficienti per richiedere una condanna. Ma Tortora non era l’unico imputato di quel processo. Insieme a lui c’erano altri 246 imputati. Io chiesi un terzo di assoluzioni. Si sono dette anche molte menzogne sul mio conto. Tempo fa mio figlio mi chiamò allibito. Mi disse: “Papà, in televisione hanno appena detto che hai fatto arrestare Tortora”.»

Si sente il capro espiatorio?

«Molte anime belle, e anche tanti giornalisti e colleghi, batterono allora la gran cassa contro l’imputato eccellente. Molti sono gli stessi che ancora oggi gridano allo scandalo. Ma in Italia si dimentica in fretta. E pochi sanno che in Procura mi indignai per le sfilate degli uomini in manette davanti alle telecamere. Nei trent’anni successivi di carriera, come in precedenza, non lo permisi mai.»

Incise la pressione mediatica sul processo? Perdere l’imputato eccellente sarebbe stato un duro colpo per il vostro operato?

«Facemmo di tutto per perdere l’imputato eccellente. Era una presenza che avrebbe creato una bufera. La pressione mediatica fu terrificante, lo ammetto. Ma c’era molta più sete di sangue di quanto non sembri oggi. Erano molti, in giro, i “Diego Marmo”. Ma sul banco degli imputati sono rimasto io solo.»

È vero. Ma nell’immaginario è rimasto come il carnefice di Tortora perché lo definì un “cinico mercante di morte”, un “uomo della notte” ben diverso dal bravo presentatore di Portobello. Non giudicò l’imputato, giudicò anche l’uomo. Lei andò oltre, lo ammetta.

«La requisitoria durò circa una settimana, quella nei confronti di Tortora durò alcune ore. La frase venne inserita in un contesto accusatorio. Certamente mi lasciai prendere dal mio temperamento. Ero in buona fede. Ma questo non vuol dire che usai sempre termini appropriati, e che non sia disposto ad ammetterlo. Mi feci prendere dalla foga.»

Come le venne in mente di dire che Tortora era stato eletto con i voti della camorra?

«Non l’ho detto.»

Si, lo ha fatto. Lo abbiamo sentito tutti.

«Non era quello che è stato inteso. Il mio discorso era molto più articolato. Pur precisando che né Tortora né i Radicali avevano chiesto voti alla camorra, feci notare viceversa che la malavita aveva sponsorizzato alcune candidature per trarne vantaggio. Ne ebbi riscontro dalla stampa e dai tabulati che mi consegnarono i carabinieri. Era emerso che al carcere di Poggio Reale, e nel triangolo Bagheria, Altavilla, Casteldaccia, i radicali avevano preso moltissimi voti. Ma sono altre le cose che mi rimprovero.»

Che cosa?

«Tortora si comportò da uomo vero, ma lo capii successivamente.»

Sta dicendo che ha provato ammirazione per Tortora?

«Fu un imputato esemplare. Più passa il tempo e vedo l’Italia che ho intorno, e più mi rendo conto della differenza tra lui e chi lo chiama in causa oggi a sproposito.»

Che cosa intende esattamente?

«Tortora avrebbe potuto appellarsi all’immunità ma non lo fece. Volle farsi la galera pur di difendere la sua innocenza. E mi fanno arrabbiare certi quaquaraquà di oggi che invocano il suo nome per nascondere magagne e miserie e ottenere visibilità.»

Perché chiese la condanna?

«Ripeto. Non fui il solo a reputare Tortora colpevole: la mia richiesta venne accolta. Il rispetto del mio ruolo di magistrato mi impone di non parlare di altri. Dico solo che mi sbagliai. E che dopo le sentenze di assoluzione, mi resi conto dell’innocenza di Tortora e mi inchinai.»

Non aveva mai ammesso di avere sbagliato. Mi sta dicendo che è pentito?

«Non ho mai pensato di raccontare il mio stato d’animo sino ad ora. Ho creduto che ogni mia parola non sarebbe servita a niente. Che tutto mi si sarebbe ritorto contro. Ho preferito mantenere il silenzio. Ero Diego Marmo, l’assassino morale di Tortora. E dovevo tacere.»

Ha parlato di colpa. Una parola forte per uno che ha definito la richiesta di condanna per Tortora come un “episodio” della sua carriera.

«Non ho usato quel termine in senso riduttivo. In 50 anni di lavoro gli “episodi” sono stati tanti. Molti drammatici: processi di terrorismo, camorra, vita blindata per dieci anni con inevitabili disagi per me e soprattutto per la mia famiglia. E tuttavia che cosa crede? Ho richiesto la condanna di un innocente. Porto il peso di quello sbaglio nella mia coscienza. Sono un cattolico osservante. E ho sempre pensato di dovermela vedere con me stesso, e con Dio.»

Poteva vedersela anche con i familiari di Tortora, non pensa?

«Ci ho pensato a lungo. Ma alla fine non l’ho mai fatto. Mi sono detto che non si poteva tornare indietro, e che niente che potessi fare o dire sarebbe servito a qualcosa. “Si, potrei anche provare a incontrarli”, ragionavo tra me e me. Ma temevo che il mio gesto potesse risultare sgradito.»

E forse ha paura di chiedere perdono.

«Ho richiesto la condanna di un uomo dichiarato innocente. Ma adesso, dopo trent’anni, è arrivato il momento. Mi sono portato dentro questo tormento troppo a lungo. Chiedo scusa alla famiglia di Enzo Tortora per quello che ho fatto. Posso dire soltanto che l’ho fatto in buona fede.»

Grazie dottor Marmo. A me le sue parole sembrano molto importanti. Le cose che mi ha detto le fanno onore. E sbriciolano i pregiudizi sui pm visti come sceriffi implacabili. Magari avessero tutti il coraggio di ammettere i propri errori. Non l’avrei immaginato. Ci ha dato una lezione. Non come pm, ma come uomo.

Il caso Tortora trent'anni dopo. Nel giugno del 1983 l'arresto del popolare conduttore televisivo. Le accuse dei pentiti, la gogna pubblica, l'assoluzione in Cassazione, la malattia e la morte. Per quello che Giorgio Bocca definì "il più grande esempio di macelleria giudiziaria" nessuno ha mai pagato, scrive Carlo Verdelli su “La Repubblica”. Qualsiasi cosa ci sia dopo, il niente o Dio, è molto probabile che Enzo Tortora non riposi in pace. La vicenda che l'ha spezzato in due, anche se ormai lontana, non lascia in pace neanche la nostra di coscienza. E non solo per l'enormità del sopruso ai danni di un uomo (che fosse famoso, conta parecchio ma importa pochissimo), arrestato e condannato senza prove come spacciatore e sodale di Cutolo. La cosa che rende impossibile archiviare "il più grande esempio di macelleria giudiziaria all'ingrosso del nostro Paese" (Giorgio Bocca) è il fatto che nessuno abbia pagato per quel che è successo. Anzi, i giudici coinvolti hanno fatto un'ottima carriera e i pentiti, i falsi pentiti, si sono garantiti una serena vecchiaia, e uno di loro, il primo untore, persino il premio della libertà. Non fosse stato per i radicali (da Pannella al neo ministro Bonino, da Giuseppe Rippa a Valter Vecellio) che lo elessero simbolo della giustizia ingiusta e lo fecero eleggere a Strasburgo. Non fosse stato per Enzo Biagi che proprio su Repubblica, a sette giorni da un arresto che, dopo gli stupori, stava conquistando travolgenti favori nell'opinione pubblica, entrò duro sui frettolosi censori della prima ora (da Giovanni Arpino, "tempi durissimi per gli strappalacrime", a Camilla Cederna, "se uno viene preso in piena notte, qualcosa avrà fatto") con un editoriale controcorrente: "E se Tortora fosse innocente?". Non fosse stato per l'amore e la fiducia incrollabile delle figlie (tre) e delle compagne (da Pasqualina a Miranda, prima e seconda moglie, fino a Francesca, la convivente di quell'ultimo periodo). Non fosse stato per i suoi avvocati, Raffaele Della Valle e il professor Alberto Dall'Ora, che si batterono per lui con una vicinanza e un ardore ben al di là del dovere professionale. Non fosse stato per persone come queste, i 1.768 giorni che separano l'inizio del calvario di Enzo Tortora (17 giugno 1983, prelevato alle 4 del mattino all'Hotel Plaza di Roma) dalla fine della sua esistenza (18 maggio 1988, cancro ai polmoni, nella sua casa milanese di via Piatti 8, tre camere più servizi), sarebbero stati di meno, nel senso che avrebbe ceduto prima. Paradossali i destini dei nomi impressi sulla tenaglia che ha stritolato Tortora, uno dei volti più noti di quando lo schermo era piccolo. Immaginiamo le due ganasce. Su una stanno gli accusatori, almeno i tre principali, tutti galeotti. Il capo cordata è Giovanni Pandico, ha ucciso due impiegati comunali perché tardavano a dargli un certificato, ci ha provato senza successo anche con padre, madre e fidanzata, "schizoide e paranoico " per i medici, diventa lo scrivano di Cutolo ed è lui a mettere nel calderone Tortora e a condizionare con la sua versione e la sua perversione molti altri affiliati: dal 2012 è un libero cittadino. Poi ci sono Pasquale Barra, detto "o 'nimale", killer dei penitenziari, 67 omicidi in carriera tra cui lo sbudellamento di Francis Turatello: è ancora dentro, ma gode di uno speciale programma di protezione. Lo stesso di Gianni Melluso, detto "il bello" o "cha cha cha", uscito di galera e rientrato nel luglio scorso, ma per sfruttamento della prostituzione: durante i beati anni della delazione contro Tortora, usufruì di trattamenti di particolare favore, come gli incontri molto privati con Raffaella, che resterà incinta e diverrà sua moglie in un memorabile matrimonio penitenziario con lo sposo vestito Valentino. Va detto che Melluso fu l'unico di tutta la compagnia, magistrati compresi, a chiedere perdono ai familiari di Tortora, in un'intervista all'Espresso del 2010: "Lui non c'entrava nulla, di nulla, di nulla. L'ho distrutto a malincuore, dicendo che gli passavo pacchetti di droga, ma era l'unica via per salvarmi la pelle. Ora mi inginocchio davanti alle figlie". Risposta di Gaia, la terzogenita: "Resti pure in piedi". Stupirà, forse, che nel tiro a Tortora non compaia mai il nome di Raffaele Cutolo, il capo di quella Nuova camorra organizzata che aveva messo a ferro e fuoco la Campania per prenderne il controllo e contro cui venne organizzato il grande blitz del 1983. Tempo dopo, i due, Cutolo e Tortora, che intanto era diventato presidente del Partito Radicale, si incontreranno nel carcere dell'Asinara, dove "don Raffaé" albergava all'ergastolo. Il boss fu anche spiritoso: "Dunque, io sarei il suo luogotenente ". Poi allungò la destra: "Sono onorato di stringere la mano a un innocente". E siamo all'altra ganascia della tenaglia, quella di quei magistrati che, senza neanche l'ombra di un controllo bancario, un pedinamento, un'intercettazione telefonica, basandosi solo sulle fonti orali di criminali di mestiere, sono riusciti nell'impresa di mettere in galera Tortora e condannarlo in primo grado a 10 anni di carcere più 50 milioni di multa. I due sostituti procuratori che a Napoli avviano l'impresa si chiamano Lucio Di Pietro, definito "il Maradona del diritto", e Felice Di Persia. Sono loro a considerare Tortora la ciliegiona che da sola cambia l'immagine della torta, loro a convincere il giudice istruttore Giorgio Fontana ad avallare questo e gli altri 855 ordini di cattura, anche se incappano in 216 errori di persona, tanto che i rinviati a giudizio alla fine saranno solo 640, di cui 120 assolti già in primo grado (con l'appello, l'impalcatura accusatoria franerà un altro po', con 114 assoluzioni su 191). Contraccolpi sul piano professionale? A parte il giudice Fontana, che infastidito da un'inchiesta del Csm sul suo operato si dimette sdegnato e ora fa l'avvocato, i due procuratori d'assalto spiccano il volo. Di Pietro (nessuna parentela con l'ex onorevole e onorato Tonino) è procuratore generale di Salerno, dopo aver sostituito Pier Luigi Vigna addirittura come procuratore nazionale antimafia. Non è andata malaccio neanche a Di Persia, oggi in pensione, ieri membro del Csm, l'organo di autocontrollo dei giudici (ma Cossiga presidente pare abbia rifiutato di stringergli la mano durante un plenum). Restano ancora due indimenticabili protagonisti del primo processo di Napoli, che inizia nel febbraio 1985, un anno e otto mesi dopo l'arresto di Tortora, e si conclude il 17 settembre 1985, con il presentatore che subisce la condanna ma già da deputato radicale al Parlamento europeo: il presidente Luigi Sansone, che firma una corposa quanto friabile sentenza di 2 mila pagine, in sei volumi, uno interamente dedicato a Tortora (con questa apoteosi: "L'imputato non ha saputo spiegarci il perché di una congiura contro di lui"), e il pubblico ministero Diego Marmo, arringa leggendaria la sua, con le bretelle rosse sotto la toga e una veemenza tale da fargli scendere la bava all'angolo sinistro della bocca, specie quando dipinge l'imputato come "un uomo della notte ben diverso da come appariva a Portobello" e quando erutta che i voti presi da Tortora alle Europee sono anche voti di camorristi. La conclusione, poi, è da pietra tombale sul diritto: "Lo sappiamo tutti, purtroppo, che se cade la posizione di Enzo Tortora si scredita tutta l'istruttoria". Non cadrà, almeno in quei giorni, come non cadranno Luigi Sansone, che si consolerà con la presidenza della sesta sezione penale di Cassazione, né il focoso Marmo, in pensione dal novembre scorso dopo essere stato, tra l'altro, procuratore capo di Torre Annunziata. Nessuno dei delatori sbugiardati è stato incriminato per calunnia. Quanto ai magistrati, poco prima di morire, Tortora aveva presentato una citazione per danni: 100 miliardi di lire la richiesta. Il Csm ha archiviato, risarcimento zero. Archiviato anche il referendum del 1987, nato proprio sulla spinta del caso Tortora, sulla responsabilità civile dei magistrati: vota il 65 per cento, i sì sono l'80 per cento, poi arriva la legge Vassalli e di fatto ne annulla gli effetti. Quel che resta di Enzo Tortora ("Io non sono innocente. Io sono estraneo", ripeteva come un mantra) non riposa in pace dentro una colonna di marmo con capitello corinzio al cimitero Monumentale di Milano. La colonna è interrotta a metà da un vetro. Infilata dall'esterno, un'immaginetta di un Cristo in croce con la scritta: "Uno che ti chiede scusa". Dietro il vetro, c'è l'urna dorata con le ceneri e due date (1928-1988). Sotto, un'iscrizione abbastanza misteriosa: "Che non sia un'illusione". La spiega Francesca Scopelliti, l'ultima compagna: "Enzo ha voluto farsi cremare insieme ai suoi occhiali, quelli che gli servivano per leggere e che perdeva di continuo, e a una copia della Storia della colonna infame del Manzoni, con la prefazione di Leonardo Sciascia, di cui era amico. Era venuto a trovarlo pochi giorni prima della fine. Ne scrisse subito dopo sul Corriere della sera, confidando parte di quello che Enzo gli aveva detto: speriamo che il mio sacrificio sia servito a questo Paese, e che la mia non sia un'illusione". Venticinque anni dopo quel 18 maggio 1988, dubitare è lecito, specie in un'Italia che sembra avere nel proprio Dna la caccia al mostro quale che sia, proprio come nella cronaca del Manzoni. Siamo nel1630, a Milano c'è la peste, vengono arrestati, sulla base della denuncia di alcune comari, due presunti untori accusati di spargere unguenti che propagano l'epidemia. Condannati sbrigativamente allo squartamento, sulle macerie della bottega di barbiere di uno dei due, incenerita a memento, viene eretta una colonna, a dannazione eterna dell'"infame". L'accusa, all'"infame" di Portobello, piove sulla testa, come un pezzo di marmo caduto da un balcone, venerdì 17 giugno 1983. E da quel giorno, Enzo Claudio Marcello Tortora, figlio di un napoletano che faceva il rappresentante di cotone a Genova, giornalista e presentatore televisivo in gran spolvero, diventa all'improvviso "il caso Tortora". Intanto sta nascendo a Napoli la prima bambina in provetta, la Fiat lancia la Uno, scompare Emanuela Orlandi, Federico Fellini firma la quart'ultima tappa del suo magistero con E la nave va, Vasco Rossi la prima: Vita spericolata. In televisione, spopola su RaiDue appunto Portobello, un mercatino alla londinese di varia umanità, dovesi vendono e si comprano le cose più strane, dove tra le centraliniste, guidate da "sua soavità" Renée Longarini, spuntano le acerbe glorie di Paola Ferrari, Gabriella Carlucci, Eleonora Brigliadori, dove capitano tizi come quello che propone di abbattere il Turchino per risolvere il problema della nebbia in Val Padana, dove la valletta di colore si guadagna il soprannome di "Goccia di caffè" e dove Tortora, al massimo di se stesso, governa la platea come un lord inglese, esibisce un pappagallo che si chiama Portobello, chiude le trattative con una frase entrata nella piccola storia della televisione: "Il Big Ben ha detto stop". Nella storia entrano anche i risultati del programma: 22 milioni di spettatori di media, con punte ineguagliate all'epoca di 28 milioni. "Tutta farina di Enzo. Una domenica, si era messo a leggere gli annunci sul giornale: vendo coccodrillo impagliato eccetera. Aveva cominciato a telefonare e aveva scoperto un mondo dietro quei trafiletti. Poi ci aggiunse il pappagallo, perché, mi diceva, un animale ci vuole, fa tenerezza ai bambini ". A ricordare è Gigliola Barbieri, storica assistente di Tortora, fin dai tempi (1969) della sua Domenica sportiva. Ora la "Barbi", come la chiamava lui, è produttore esecutivo a Mediaset. "La mattina che venne arrestato, il primo che mi chiamò fu Berlusconi: signora, ha saputo? Stava trattando con Enzo il suo passaggio a Retequattro. Dopo i funerali, mi ha ricontattato: signora, se vuole venire a lavorare da noi...". Parla come una vedova, la Barbi, una vedova non consolata. "Enzo aveva tanti di quei difetti che ci metterei giorni a fare l'elenco. Ma con quella cosa non c'entrava. L'hanno rovinato gratis". Il giovedì prima di quel venerdì 17 giugno 1983, che segna l'inizio della fine di Tortora, l'allora direttore del Giorno, Guglielmo Zucconi, chiamò un giovane cronista degli spettacoli, Paolo Martini, egli rivelò di aver ricevuto una soffiata su una maxi retata imminente, che avrebbe riguardato anche un grosso nome dello spettacolo. Chi? "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Cominciarono a spulciare l'elenco dal fondo: Vianello, Tortora, Tognazzi. Martini si attaccò al telefono. Trovò Tortora a Roma: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere. E in effetti, da quella mia chiamata all'arresto la notte successiva, non fece assolutamente niente, non chiamò il suo avvocato né qualche amico del Partito liberale in cui militava né della cerchia di Craxi, acui pure aveva accesso. Tortora era il classico signore borghese di provincia, un bel po' reazionario, lupo solitario assoluto. Non faceva serata, non beveva, aveva orrore per la delinquenza e la droga. L'unica cosa che tirava era un po' di tabacco da fiuto". Ma la soffiata era giusta. All'alba, tre carabinieri irrompono in una stanza dell'Hotel Plaza di Roma, prologo di quel che per le cronache diventerà il "venerdì nero di Cutolo": 856 ordini di cattura. Tra questi, un nome che da solo dà senso e ribalta all'operazione (non a caso battezzata in codice "Portobello"): Enzo Tortora, indicato dal pentito Giovanni Pandico come camorrista ad "honorém" (con l'accento sulla "e", come dirà al primo interrogatorio), numero 60 di una lista che viene consegnata ai magistrati di Napoli e fa scattare la retata. Mentre lo portano via dal Plaza, Tortora è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Sbagliato. Aspettando l'ora buona perché si ammassassero troupe televisive e fotografi, il re di Portobello viene fatto uscire dalla caserma dei carabinieri per essere trasferito a Regina Coeli, ammanettato e con la faccia sfatta. Sente i cameraman invocare "i polsi, i polsi!", dalla folla i primi verdetti: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". La vendetta sul "famoso" prenderà rapidamente le dimensioni della valanga. L'indimenticato "Tognazzi capo delle Br" brevettato dal Maledi Sparagna&Vincino nel 1978 viene surclassato dalla cronaca: Tortora capo della camorra. I pentiti che l'accusano si moltiplicano come nella parabola dei pani e dei pesci: da uno diventano 19, complice la fresca legge Cossiga del 1982 che, pensata per sconfiggere il terrorismo, introduce sconti di pena per chiunque collabori a qualunque titolo. È una corsa folle a chi la spara e la scrive più grossa: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari. Un tornado inarrestabile, con Il Messaggero che titola: "Tortora ha confessato". Falso. Il garantismo di sinistra? Assente. Portobello è un programma da lista nera, e poi il suo conduttore, oltre ad essere un liberale di destra, è pure antipatico per il suo fare tra il lacrimoso e lo snob, e in più ha un passato da inviato della Nazione del petroliere Attilio Monti, non proprio un sincero democratico, durante il quale si è distinto per una campagna contro Valpreda e l'anarchia milanese quali responsabili della strage di piazza Fontana. Che la madre Silvia, quando andava in chiesa a pregare, trovasse spesso il foglietto lasciato da qualche anima buona con la scritta "tuo figlio spaccia la droga ", era il segno, uno dei tantissimi, che gli argini erano rotti e che poco si opponeva alla marea montante delle calunnie. Ma perché proprio Tortora, e non qualche altra star capace di attrarre la morbosa attenzione da spalti del Colosseo? Per una storia di centrini di seta. Un detenuto del carcere di Porto Azzurro, Domenico Barbaro, ne spedisce alcuni alla redazione di Portobello nella speranza che vengano messi all'incanto. Non vedendoli comparire (la trasmissione riceveva allora 2.500 lettere al giorno), Barbaro comincia a bombardare Tortora di lettere sempre più minacciose: essendo però analfabeta, gliele scrive il compagno di cella Pandico. Alla fine, esasperato, Tortora risponde pure, in tono secco, avvertendo che passerà la pratica all'ufficio legale della Rai (nel frattempo, i centrini sono andati persi), che infatti provvede a rimborsare il detenuto con un assegno di 800 mila lire. Caso chiuso? Al contrario: Pandico decide di vendicarsi di Tortora, spiega ai magistrati che i centrini erano un nome in codice per indicare una partita di coca da 80 milioni, che il presentatore si sarebbe intascato fregando i compari. È la prima prova d'accusa presentata ai legali del presentatore, che la smontano in un secondo esibendo la corrispondenza tra Barbaro e Portobello. Risposta: "Trattasi di altro Barbaro". Ugualmente surreale la seconda prova "schiacciante": trovato il nome di Tortora nell'agendina di Giuseppe Puca, detto "'o giappone", uno dei killer di Cutolo. Ci vorranno cinque mesi perché i magistrati si arrendano all'evidenza: l'agendina è della donna di Puca, il nome scritto a mano è "Tortosa" non "Tortora", e corrisponde al proprietario di un deposito di bibite di Caserta, amico della signora. Il prefisso è 0823, "provate a chiamà, dottore...". Finisce come era impossibile finisse: Tortora condannato per camorra e spaccio. Tortora, prima della sentenza, eletto a Strasburgo con i Radicali ("sono stato liberale perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito") con 451 mila preferenze (Alberto Moravia, candidato per il Pci, ne prese 130 mila). Tortora che si dimette da eurodeputato, rinuncia all'immunità e torna in Italia per farsi arrestare. Tortora che ricorre in appello, sfida la giuria prima del verdetto ("Io sono innocente, spero con tutto il cuore che lo siate anche voi") e il 15 settembre 1986 viene assolto da entrambe le accuse (dirà laconico il giudice a latere Michele Morello: "Facemmo giustizia "), cosa che si ripeterà in Cassazione. Tortora che, venerdì 20 febbraio 1987, ricompare in tv e apre la nuova edizione di Portobello con la stessa frase che disse Luigi Einaudi quando riprese a collaborare al Corriere della sera dopo il fascismo: "Heri dicebamus". Dove eravamo rimasti. Silvia Tortora, la figlia di mezzo, la prima che Tortora chiama quando l'arrestano ("Silvia, non crederci, non crederci, tu conosci papà"), vive in un borgo antico alle porte di Roma. È giornalista, sposata dal 1990 con il turbolento e fascinoso attore Philippe Leroy, che le ha dedicato una meravigliosa frase d'amore: "Con Silvia sono tranquillo come una capra felice che gira intorno al suo palo". Due i figli: Michelle, 17 anni, e Philippe, 21. Conserva due libri, che Enzo Tortora ha scritto per Mondadori (Cara Italia, ti scrivo, 1984, dove racconta la sua vita da detenuto, e Se questa è Italia, 1987, sulla sua vita da imputato). Dice che non si trovano più. Tra tutte le cose che hanno dedicato a suo padre, strade, piazze, premi, quella che Silvia trova più giusta è una biblioteca, voluta da Walter Veltroni in una strada appena fuori Saxa Rubra. "I libri erano importanti per lui, erano lui, in qualche senso". Rabbia ancora, Silvia? "Ricordo che Manganelli, il capo della Polizia appena morto, incontrandomi mi ha detto: quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia. Hanno fatto una commissione parlamentare su tutto, persino su Mitrokhin: su Tortora no. Eppure Portobello, che ai tempi mi sembrava una schifezza di show, rivisto dopo l'ho trovato bellissimo".

I moralisti con a capo il Presidente della Repubblica. Ecco il testo integrale della lettera del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al vicepresidente del Csm Michele Vietti.

"Caro onorevole Vietti, le comunico che esprimo il mio assenso all'ordine del giorno da lei predisposto per le sedute del Consiglio superiore della magistratura del 18 e 19 giugno 2014. Con riferimento alle pratiche della Prima e Settima Commissione relative ai contrasti insorti all'interno della Procura della Repubblica di Milano, mi corre l'obbligo di evidenziare che l'argomento affrontato nelle citate proposte coinvolge delicati profili dell'organizzazione degli Uffici del Pubblico Ministero, nel quadro delle attuali norme sull'ordinamento giudiziario. In occasione del mio intervento all'Assemblea plenaria del Consiglio superiore della magistratura del 9 giugno 2009, ho ricordato la necessità di superare gli elementi di disordine e di tensione all'epoca clamorosamente manifestatisi nella vita di talune Procure, ponendo in rilievo che tale superamento non sarebbe stato possibile "senza un pacato riconoscimento delle funzioni ordinatrici e coordinatrici che spettano al Capo dell'Ufficio". In tal senso mi preme sottolineare che, a differenza del giudice, le garanzie di indipendenza "interna" del Pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato. Come è noto, ai magistrati del Pubblico ministero non si applicano le previsioni di cui all'art. 25, primo comma, della nostra Costituzione; infatti, ciò che deve caratterizzare gli Uffici di procura è l'impersonalità e l'unitarietà della loro azione, sicchè i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso. Al riguardo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza n. 8388/2009, Novi), nel sottolineare che la riorganizzazione degli uffici del Pubblico Ministero ha costituito uno dei più significativi obiettivi della riforma dell'ordinamento giudiziario, hanno rilevato che il vigente quadro normativo si caratterizza per l'accentuazione del ruolo di "capo" del Procuratore della Repubblica, sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti, e per la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio. Proprio per tale ragione i poteri di organizzazione dell'Ufficio sono prerogativa del Procuratore della Repubblica e le funzioni di controllo e garanzia istituzionale affidate al C.S.M. devono essere indirizzate solo ad assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria. E' pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri, dilatando i propri spazi di intervento, non più consentiti dall'abrogazione dell'art. 7-ter R.D. n. 12/1941. Come ho già avuto modo di segnalare, il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purchè si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale. Raccomando quindi che nell'esame e nella deliberazione conclusiva di tali pratiche l'Assemblea plenaria valuti la condotta del Procuratore della Repubblica, cui è affidato il potere - dovere di determinare i criteri generali di organizzazione della struttura e di assegnazione dei procedimenti, sotto il profilo del perseguimento delle esigenze di efficienza, uniformità e ragionevole durata dell'azione investigativa, tenendo presente anche il fondamentale ruolo di verifica che l'art. 6 del D.Lgs. 106/2006 affida ai Procuratori Generali presso le Corti di appello e presso la Corte di Cassazione in merito al puntuale esercizio dei compiti dei Procuratori della Repubblica". Nel rispetto delle determinazioni finali rimesse alla decisione dell'Assemblea plenaria, invito pertanto i consiglieri a tener conto di queste osservazioni nella trattazione delle citate pratiche, al solo fine di evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria, indispensabili per salvaguardare l'indipendenza e l'autonomia della magistratura. Con viva cordialità, Giorgio Napolitano".

Così Napolitano ha piegato il Csm. I giudici hanno obbedito al Colle: nella lettera a Vietti resa nota il 27 giugno 2014 "ordina" di archiviare lo scontro in Procura a Milano, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Più che un parere, un diktat. Giorgio Napolitano, per mettere argine a «polemiche e strumentalizzazioni», rende noto il testo della lettera con cui il 13 giugno scorso è entrato a piedi uniti nello scontro in corso all'interno della Procura della Repubblica di Milano. E si scopre che le vulgate, le tradizioni orali circolate nei giorni della lettera erano in realtà ancora più caute del contenuto reale della missiva. Con un gesto senza precedenti, Napolitano ha di fatto ordinato al Consiglio superiore della magistratura di chiudere la faccenda con un nulla di fatto, senza scavare su come e perché i fascicoli di inchiesta più delicati di questi anni siano stati assegnati dal procuratore Edmondo Bruti Liberati solo e soltanto ai pm di sua fiducia. Il Csm, come è noto, ha battuto i tacchi e si è adeguato agli ordini del Colle. Di Bruti - con cui è da tempo in piena sintonia, e di cui sponsorizzò apertamente la nomina a procuratore capo - il presidente della Repubblica ovviamente non fa il nome. Non cita le indagini, da Ruby all'Expo alla Sea, che il procuratore aggiunto Alfredo Robledo ha accusato Bruti di avergli sottratto in violazione delle regole interne della stessa procura milanese, affidandole a Ilda Boccassini e agli altri pm a lui vicini. Ma è chiaro che è di questo che Napolitano parla quando scrive che «i criteri organizzativi di ogni singolo ufficio requirente non possono essere intesi come rigide regole immodificabili, in quanto deve sempre consentirsi una equilibrata elasticità nella loro applicazione, volta sempre al miglior esercizio dell'azione penale da parte dell'Ufficio nel suo complesso». In realtà nessuno, neanche Robledo, ha sostenuto che le regole siano «immodificabili». Il problema è che Bruti non le ha modificate ma semplicemente ignorate, senza mai motivare i suoi provvedimenti. Ma questo, per Napolitano, fa parte evidentemente della «equilibrata elasticità». Al vicepresidente del Csm Michele Vietti - che dopo averlo incontrato si era esibito in una irrituale intervista in difesa di Bruti - Napolitano nella lettera del 13 giugno detta insomma la linea: giù le mani da Bruti, per «evitare di indebolire la credibilità ed efficacia dell'azione giudiziaria». Il Capo dello Stato richiama la legge che ha allargato i poteri gerarchici dei procuratori, «sia sul versante organizzativo sia su quello della gestione dei procedimenti» e ha previsto «la corrispondente parziale compressione dell'autonomia dei singoli magistrati dell'ufficio». Fin dove si possa spingere la «parziale compressione» dell'autonomia dei singoli pm, e se in questo concetto rientrino anche gli ordini impartiti da Bruti a Robledo nelle inchieste su Formigoni o su Expo, il capo dello Stato non lo dice. D'altronde il passaggio chiave è un altro, quello in cui il presidente della Repubblica scrive nero su bianco che in fondo la libertà dei pm non è così importante: «le garanzie di indipendenza interna del pubblico ministero riguardano l'ufficio nel suo complesso e non il singolo magistrato». Per questo, con tono quasi ultimativo, Napolitano ammonisce Vietti: «È pertanto opportuno che il Consiglio eviti di assumere in tale materia ruoli impropri». L'unico ruolo del Csm, secondo il Colle, non è controllare sul rispetto delle regole da parte dei procuratori, ma unicamente «assicurare l'indispensabile flessibilità nell'applicazione dei progetti organizzativi, i quali devono, innanzitutto, rispondere alle esigenze di funzionalità ed efficacia dell'azione giudiziaria». D'altronde «il rischio maggiore nell'attività degli uffici di procura può derivare da una sua atomizzazione e non già dall'ordinato ed efficiente svolgersi dell'azione impersonale dell'intero Ufficio requirente, purché si assicuri l'obbligatorietà e l'imparzialità dell'azione penale». In realtà, è proprio sulla «imparzialità» del ruolo svolto da Bruti e dalla sua Procura che - a torto o a ragione - si incentrava l'esposto di Alfredo Robledo. Ma di questo il Csm dopo la lettera ha deciso di non occuparsi, rifiutando di trasmettere le carte alla commissione che dovrà vagliare se mantenere Bruti al suo posto di procuratore.

“Liberati e Csm: solo sbagli”, scrive Antonio Di Pietro su “Il Garantista”. Da Francesco Saverio Borrelli a Edmondo Bruti Liberati, vale a dire “c’era una volta la Procura della Repubblica di Milano”. Una Procura sempre al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica italiana e soprattutto sempre in prima linea – ora come allora – nella lotta alla corruzione ed alle malefatte dei cosiddetti “colletti bianchi” (di quei personaggi, cioè, che approfittano del loro ruolo istituzionale e di potere per farsi gli affari propri in modo illecito alle spalle e con i soldi delle persone oneste). Ultimamente, però, è successo qualcosa di strano in quella Procura. Qualcosa che ha messo e sta mettendo a serio rischio la credibilità di quell’Ufficio giudiziario, anche e soprattutto perché molti soggetti esterni ad essa sono fortemente interessati a sguazzarci sopra per delegittimarla e far apparire così meno credibili agli occhi dell’opinione pubblica le delicate inchieste che i magistrati milanesi hanno portato e stanno portando avanti con grande competenza professionale ed enormi sacrifici personali. Mi riferisco allo scontro intervenuto fra l’attuale capo della Procura della Repubblica di Milano, Edmondo Bruti Liberati, ed il suo vice Alfredo Robledo, il quale è anche coordinatore dell’apposito pool di magistrati che si occupano dei reati contro la pubblica amministrazione. È successo che Bruti Liberati, forte del suo titolo di capo della Procura, ha deciso di non assegnare alcune delicate indagini riguardanti reati commessi a Milano contro la pubblica amministrazione al pool coordinato dal procuratore aggiunto Robledo (pur essendone quest’ultimo il naturale destinatario), come ad esempio l’inchiesta Ruby (ovvero quella che ha portato alla condanna in primo grado di Silvio Berlusconi a 7 anni di reclusione per concussione e prostituzione minorile) e l’inchiesta Expo (tutt’ora in fase di indagini preliminari ma che ha già evidenziato una serie così impressionante di reati da parte di personaggi di primo piano della politica e dell’imprenditoria italiana, da far passare in secondo piano persino la famosa inchiesta Mani Pulite di vent’anni addietro). Francamente non so e non ho capito il motivo per cui Bruti Liberati l’ha fatto ma – pur senza mettere in dubbio la sua buona fede – di una cosa sono convinto: la sua decisione a me pare all’un tempo sbagliata sul piano tecnico ed inopportuna sul piano fattuale. È tecnicamente sbagliata in quanto – se è pur vero che Bruti Liberati, in quanto capo della Procura, ha pieni poteri di organizzare al meglio il lavoro dell’ufficio che dirige – è anche vero che egli non può esercitare tale suo potere in modo arbitrario e contro le regole generali previste dall’Ordinamento giudiziario per il funzionamento di uffici così delicati ed addirittura contro le specifiche regole che egli stesso ha dato per il miglior funzionamento del suo ufficio. Mi riferisco, in particolare – per quanto riguarda gli aspetti di tecnica investigativa – alla previsione ed alla concreta istituzione, presso la Procura di Milano – del cosiddetto “Pool di pm contro la pubblica amministrazione” ovvero di quel gruppo di magistrati inquirenti, appositamente costituito sin dai tempi di Mani Pulite (appunto da Saverio Borrelli più di vent’anni addietro), proprio per permettere a chi deve indagare sui reati contro la pubblica amministrazione di avere un quadro d’insieme unitario dei fatti e delle persone coinvolte ed una strategia coordinata delle relative indagini e dei necessari riscontri probatori. Orbene non capisco proprio la ragione per cui l’attuale capo della Procura di Milano Bruti Liberati non abbia voluto attenersi a queste semplicissime e collaudatissime regole di buona investigazione nei casi giudiziari sopra indicati (ed anche in altri casi simili, come ad esempio l’inchiesta sulla vendita delle azioni Sea da parte del Comune di Milano, chiusa e dimenticata in cassaforte dal procuratore Bruti Liberati per quasi un anno, senza alcun atto di indagine, con il rischio di aver pregiudicato l’esito finale di una delicata vicenda). Ma quel che più mi preoccupa è l’evidente strumentalizzazione a cui si presta questa sua decisione (ripeto, a prescindere dalla buona fede o meno per cui essa è stata adottata) da parte di chi accusa i capi degli uffici giudiziari di fare a volte specifiche “assegnazioni pilotate” per arrivare a tesi precostituite contro o a favore di questo o quel personaggio politico o comunque di rilevanza pubblica. Strumentalizzazione, peraltro, già manifestatasi con forza da parte di taluni dei diretti interessati coinvolti nelle indagini in cui Bruti Liberati non ha rispettato il criterio oggettivo dell’assegnazione al “Pool reati contro la pubblica amministrazione” e tra essi, soprattutto il solito Silvio Berlusconi, provvisoriamente condannato per la vicenda Ruby a 7 anni di carcere e che ora, in attesa del giudizio definitivo, sta ricorrendo a tutte le armi di comunicazione di massa per sostenere che egli sarebbe semplicemente una vittima della “solita” magistratura milanese. È evidente, quindi, che – alla luce di quel che è successo – il Consiglio superiore della magistratura (ovvero l’organo costituzionalmente incaricato di valutare e sindacare il comportamento disciplinare dei magistrati) aveva il dovere di esaminare approfonditamente la situazione e prendere i conseguenti provvedimenti. Senonché è accaduto quel che a me – semplice ex magistrato di campagna – appare un’altra “anomalia nell’anomalia”, ovvero l’intervento a gamba tesa del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il quale – forte del suo ruolo di presidente del Csm – ha inviato una lettera-diktat al vicepresidente Michele Vietti, per giunta da quest’ultimo “secretata” senza spiegarne le ragioni, invitando (si fa per dire) il Consiglio superiore della magistratura a smussare le osservazioni critiche nei confronti del procuratore della Repubblica di Milano Bruti Liberati, all’insegna del detto “quel che è fatto è fatto”, passiamoci sopra ed andiamo oltre. Una decisione questa, a mio avviso, assai poco opportuna ed anzi pericolosa sul piano dei “precedenti interpretativi e decisionali”, nel senso che – se si lascia passare, senza prendere una chiara e netta posizione sulla questione delle forme e dei limiti con cui il capo di un ufficio giudiziario possa assegnare i fascicoli al pm Tizio piuttosto che al pm Caio – si rischia di non avere più certezza sull’obiettività ed obbligatorietà delle indagini penali e sulle reali finalità per cui esse vengono attivate (o non attivate, a seconda del caso). Il fatto, poi, che – come credo nel caso di specie – il tutto avvenga in buona fede non può valere di per sé a scagionare e legittimare ogni cosa, giacché una cosa è l’errore procedurale (che, per definizione, può capitare a tutti) altra cosa è il non fare tesoro di tale errore e rimediare per tempo lasciando così la possibilità che – in un vuoto normativo e regolamentare – ciò possa accadere di nuovo e magari, la prossima volta, anche per finalità e motivazioni meno nobili.

Tonino, il povero moralista silurato dalle manette ai suoi. La legge del contrappasso punisce Di Pietro, l'ex pm diventato capopopolo in nome dell'etica: dalla Liguria al Lazio, i guai giudiziari del suo esercito lo hanno travolto, scrive Paolo Guzzanti su “Il Giornale”. Se fossi milanese, e non lo sono, e se avessi avuto la vena di Jannacci, avrei scritto una piccola ballata sul Pover' Tonin, nel sens' del moralista sul modello di Pover purcèl nel senso del maiale di Ho visto un re. La sua gente, il suo piccolo esercito moralista, pian piano finisce in galera e immagino quanto Di Pietro soffra. Lo dico seriamente, Milano è stata del resto il suo palcoscenico: noi cronisti di allora eravamo tutti lì nel Palazzo di Giustizia quando Tonino tuonava, sudava, arringava, arrestava, interrogava. Ho ancora due bloc notes neri, fitti delle sue imprese. Lui sembrava un Calvino di Montenero di Bisaccia. E noi giornalisti vivevano aggrappati alla sua toga come i bambini alla gonna materna. Lui allora ricopriva per intero tutte le fantasie italiane, salvo - immagino - quelle erotiche, incarnando tutti i miti possibili: era l'angelo sterminatore come Saint Just nella rivoluzione francese, il pupazzo dei presepi napoletani di San Gregorio Armeno, l'antipolitica fatta persona, il pre-Grillo, il post Masaniello e se lo avessero messo nella Nazionale avrebbe certamente vinto i mondiali. Troppa grazia, sant'Antonio (Di Pietro). Perse (è la mia opinione) la testa: aveva l'Italia ai suoi piedi e mise all'incasso il patrimonio. Così, gettò la tonaca alle ortiche, si spretò come procuratore e si fece capopopolo in Parlamento inventandosi una surreale Italia dei Valori, una sua invenzione banale e convenzionale. E così, gli venne in mente di infliggere un esperimento moralizzatore artificiale, diffuso con la sua voce sgrammaticata, tonante nel deserto della gente comune (era evidente il conflitto d'interesse con la sintassi). Ebbe intanto un bel po' di guai con una scatola da scarpe, una Mercedes che furono pessimi segni premonitori. Poi nella sua arca imbarcò di tutto: discepoli ruspanti, opportunisti di provincia, personaggi fin troppo coloriti come Razzi, e Scilipoti, paesane di bell'aspetto e la schiuma della cosiddetta società civile che si chiamava ancora popolo dei fax. Una ciurma irrequieta e un bel po' imbarazzante. Passa qualche anno e l'esperimento si chiude: la meglio moralità dipietresca finisce in manette o comunque nei guai. Inquisiti, arrestati, denunciati, una catastrofe: pover Tonin, nel senso del fallimento. Ieri l'altro, ultimo evento, gli hanno ingattabuiato anche le fresche ragazzette del nuovo che avanza, in Liguria. In quella regione le truppe di Di Pietro sono state peggio dei lanzichenecchi. Fra loro Maruska Piredda e Marylin Fusco, giovani dalle consonanti esotiche, dedite ai rimborsi spese di fantasia, stando a quel che scrivono i magistrati. Di nuovo, roba da vergognarsi. Avrebbero fatto la cresta su ogni genere voluttuario e alimentare a spese del contribuente arrivando a pagarsi il gratta vinci nonché le salsiccia con polenta. Bel risultato. Bella rivoluzione e lezione di moralità. È ovvio che Di Pietro non può chiamarsi fuori: quella roba è tutta sua. Erano tutti miei figli, come si intitolava un dramma di Arthur Miller. Che razza di figli fossero, lasciamo perdere. Lui e il suo movimento sono diventati da tempo indifendibili ma poiché facevano parte dello schieramento antiberlusconiano con la bava alla bocca, sono stati difesi ben oltre i limiti della prudenza da Marco Travaglio e da Micromega. Cioè da tutto il mondo di coloro che presumono di appartenere alla razza ariana del bene, secondo la lezione del tutto perdente dello struggente Enrico Berlinguer che era struggente come persona, ma che non solo sbagliò tutto politicamente (con lui chiuse di fatto il Pci) ma ebbe la colpa di inventare la creatura genetica dei moralisti superiori, una specie separata da quella della gente comune. Per citare Calvino (che era ligure come gli ultimi disastri causati da gente dell'Idv) Di Pietro e i suoi epigoni somigliano ai personaggi del Cavaliere Inesistente che era un guscio di latta vuoto, mentre l'umanità comune corrisponde al suo scudiero Gurdulù che aveva il torto di rotolarsi nel fango, ma il pregio di essere reale. Tonino ha avuto dunque quel che prevede la legge del contrappasso: hai speculato sul moralismo genetico e superumano? E adesso béccati non un caso isolato, ma la catastrofe etica, la rottamazione morale (chi volesse l'elenco completo delle malefatte può allietarsi su Internet). Quando era procuratore di Mani Pulite gli estorsi l'unica intervista di quell'epoca. Oggi mi piacerebbe fargliene una seconda per chiedergli: caro Di Pietro, hai visto che fine hanno fatto le tue pretese razziste (sempre nel senso etico ariano)? Nulla da dichiarare? A questa domanda dei doganieri americani Oscar Wilde rispose: «Nulla, tranne la mia genialità». Tu potresti dire altrettanto?

Ed i leghisti potrebbero dire altrettanto?

Bossi, "The Family" e il lungo paradosso della Lega, scrive Luigi Pandolfi su “L’huffingtonpost”. La politica oggi ha tempi veloci, si sa. Nell'arco di 2-3 anni sono cambiate tante di quelle cose nel nostro paese che della richiesta di rinvio a giudizio per Umberto Bossi e i suoi due figli da parte della Procura di Milano potrebbe, legittimamente, non importare a nessuno. Tra l'altro il loro partito, la Lega Nord, come in molti sostengono, avrebbe pure cambiato pelle, sarebbe ormai un'altra cosa rispetto al movimento che inventò la Padania e tenne in scacco il paese per anni con le sue menate secessioniste. Ora c'è la Le Pen, mica siamo ai tempi di Roma ladrona! In verità le affinità politiche e programmatiche, ancorché non dichiarate, con la fiamma d'oltralpe e con le altre forze dell'estrema destra europea c'erano già allora, così come c'erano già allora, alla corte del senatur, tutti gli attuali protagonisti del "nuovo corso", a cominciare dal segretario Salvini. Insomma, sarà pure vero che il tema dell'uscita dall'Euro ha preso oggigiorno il sopravvento su quello della Padania, ma vuoi mettere il significato, politico e storico, di un'inchiesta che spazza via decenni di retorica sulla "diversità leghista", sui vizi del sud e della politica "romana"? Il senatur e i suoi figli sarebbero chiamati a rispondere di appropriazione indebita di oltre mezzo milione di euro di soldi pubblici, usati per spese personali, dalle multe al carrozziere, ai vestiti, fino alla laurea in Albania di Renzo "il Trota" ed ai lavori di casa a Gemonio. Per tutte le persone coinvolte nella vicenda le accuse,a vario titolo, sarebbero di appropriazione indebita e truffa ai danni dello Stato per circa 40 milioni di euro. Come non andare con la memoria a quei "favolosi" primi anni novanta, quando lo spavaldo senatur tuonava: "Noi, davanti a questa banda, ai ladri di Tangentopoli, siamo qui per dire avanti Di Pietro". È noto, l'esordio della Lega, quello della ribalta sul palcoscenico della politica nazionale, coincise con il l'epopea di tangentopoli. È alle elezioni del 1992 che il Carroccio, con l'8,6%, portò in parlamento una pattuglia di 55 deputati e 25 senatori, che gli varranno il pieno inserimento nelle dinamiche della vita politica italiana, il posto al sole nel grande "gioco romano". È il tempo in cui il partito padano ed il suo leader, cavalcheranno con successo le indagini del Pool di Milano, gridando alla degenerazione di un ceto politico che, da decenni, occupava le istituzioni dello Stato. Emblematico, scenico, fu, a tal riguardo, l'atteggiamento che i leghisti ebbero in parlamento, all'indomani della presentazione, da parte del governo Amato, del cosiddetto decreto Conso, quell'insieme di norme che andavano ad incidere sulla punibilità di coloro che avevano preso le tangenti, passato alla storia come il "colpo di spugna" per i reati di tangentopoli. Allorquando il Presidente del Consiglio Giuliano Amato, dopo dieci giorni dal varo del decreto, entrò nell'aula di Montecitorio, dai banchi della Lega si scatenò il finimondo: il deputato di Como Luca Leoni Orsenigo si lanciava nell'esibizione di un macabro cappio, mentre Marco Formentini, allora capogruppo alla Camera, incitava i colleghi a gridare:"Mafia, mafia, mafia!". Bei tempi. Come quando la Camera negò l'autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi. Altra scena, altra bella giornata di indignazione e di lotta: "è un golpe bianco", "questa è una mascalzonata", "il regime se ne sbatte i coglioni dell'opinione pubblica", gridava in quei frangenti il capo della Lega, seguito da tutti i suoi sodali. Presto però la scena cambierà per la Lega, e le parti nella commedia si rovesceranno. Lo stesso film, bello, avvincente, coinvolgente, spericolato, si trasformerà nel giro di pochi mesi in una pellicola da incubo, per Bossi in primo luogo. Anche il partito più forcaiolo, nel senso letterale del termine, del parlamento italiano, cadrà nelle maglie dell'inchiesta di Milano (maxitangente Enimont). Una roba apparentemente inverosimile, considerato che la storia della Lega era appena iniziata, fuori e contro il sistema partitocratico della prima Repubblica. A ragion veduta, oggi, possiamo dire, nondimeno, che non fu un incidente di percorso, ma un caso significativo, premonitore, il primo di una lunga serie, che, in ogni modo, avrebbe dovuto far riflettere di più, con vent'anni d'anticipo, sulle incoerenze di questo partito. Un partito eversivo da un lato, per i suoi propositi di rottura dell'unità nazionale, e perfettamente integrato dall'altro nel sistema che diceva di voler combattere. Ora però tutto è più chiaro. E non basta l'euroscetticismo di maniera a cancellare l'onta di un imbroglio politico durato per più di cinque lustri. The Family non è solo il nome di un'inchiesta giudiziaria: è il paradigma del lungo paradosso leghista.

Rosi Mauro scagionata: chi le chiederà scusa? Accusata di malversazioni, nel 2012 era stata espulsa dalla Lega. Oggi la Procura di Milano la proscioglie: è l'ennesimo caso di gogna mediatica. Senza risarcimento, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. La Lega nord (ma anche molti, molti giornali) oggi dovrebbe chiedere scusa a Rosi Mauro: accusata di gravi malversazioni ai danni del partito (e dei fondi del finanziamento pubblico), nel 2012 era stata l'unica espulsa dal partito, insieme con l’ex tesoriere Francesco Belsito, per voto unanime del consiglio federale. Oggi la Procura di Milano chiede per lei, e soltanto per lei, l’archiviazione dall’accusa di appropriazione indebita nell’ambito dell’inchiesta «The Family» che due anni fa ha scosso il Carroccio e portato allo spodestamento di Umberto Bossi. Due anni fa l’allora vicepresidente del Senato aveva scelto di non dimettersi dalla carica, con totale disappunto del partito. «Il rancore prevale sulla verità» aveva dichiarato Rosi Mauro, parlando dell’epurazione che invece era stata temporaneamente risparmiata a Bossi e suoi figli Renzo e Riccardo, anche se «il Trota» si era poi dimesso da consigliere regionale. Ieri il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e i pm Roberto Pellicano e Paolo Filippini hanno chiesto il rinvio a giudizio per tutti i membri della famiglia Bossi e per altre 6 persone, tra cui Belsito, accusato di avere gestito con metodi da «finanza più che allegra» la tesoreria della Lega. Per Rosi Mauro, invece, magistrati hanno chiesto il non luogo a procedere: la donna infatti si era scagionata presentando lo scorso novembre alla procura una serie di documenti e di spiegazioni sui 99.731 euro che, secondo l’accusa, erano stati da lei sottratti dalle casse di via Bellerio. Mauro ha dimostrato che 16 mila euro le erano dovuti dal partito perché aveva venduto una vecchia auto che non le serviva più; che un assegno da 6.600 euro sulla cui matrice Belsito aveva scritto «Rosi» sarebbe stato un escamotage del tesoriere «per ritirare denaro contante attribuendolo ad altri»; e, infine, che non aveva speso 77 mila euro per comprare una laurea in Albania a Pierangelo Moscagiuro, un uomo della sua scorta che in realtà non era neppure diplomato. Le tesi di Mauro, scrivono i magistrati, «sono accoglibili e comunque tali da rendere assai dubbia la solidità della prospettazione accusatoria». Rosi Mauro, che nel frattempo è scomparsa dall'orizzonte politico, meriterebbe la riabilitazione. E almeno qualche risarcimento. Rosi Mauro: «Io assolta, ma dalla Lega zero telefonate, neppure Bossi».

Intervista esclusiva alla ex vicepresidente del Senato: «Così mi sono ripresa la dignità e ho saputo resistere, ad altri sarebbe venuto un infarto», scrive Paola Sacchi su “Panorama”.

"Qualcuno mi ha chiesto scusa? No, finora nessuno, ma io so aspettare, come la mia assoluzione dimostra". Dalla Lega Nord che l'aveva espulsa all’unanimità nessuna telefonata: né da Roberto Maroni (il segretario che la fece espellere e chiese pulizia fino in fondo a suon di ramazze ndr) né da Matteo Salvini, che «giovanissimo fu accanto a me consigliere comunale a Milano».

Ma forse quello che provoca più amarezza a Rosi Mauro è non aver ricevuto neppure una telefonata da Umberto Bossi, né da sua moglie Manuela Marrone.  E neppure dall’ex capogruppo della Lega a Montecitorio Marco Reguzzoni, colui che insieme a «la Rosi» era descritto nelle cronache come l’altro esponente di spicco del «cerchio magico» bossiano. Silenzio anche dall’ex fedelissimo «Federico Bricolo, il mio capogruppo al Senato», che si muoveva come un’ombra dietro di lei.

«No, nessuno di loro mi ha chiamata, né ora né in questi orribili due anni  e due mesi, mi sono stati vicini invece tantissimi militanti che stanno ancora in Lega. Io ancora leghista nell’anima? Ero e resto un’autonomista, non solo dei territori, ma anche della mente e delle coscienze delle persone».

Si toglie tanti sassolini dalla scarpa Rosi Mauro in questa intervista esclusiva a Panorama.it, dopo l’assoluzione piena da parte della Procura di Milano dalle infamanti accuse piovutegli addosso nell’ambito del caso Belsito, compresa quella di aver acquistato diamanti con i soldi della Lega. Rindossa i pani della festa la ex vicepresidente del Senato che resistette ai vertici di Palazzo Madama mentre tutto il partito le chiedeva di mollare. Ma lei era convinta della propria innocenza.  Roberto Calderoli la definì «la sindacalessa feroce», nella stessa Lega e non solo sui giornali veniva sprezzantemente chiamata «la badante» o « la terrona» perché nata a S. Pietro Vernotico in Puglia. Maroni disse quando venne espulsa: «Finalmente avremo un segretario padano del Sinpa». Ma lei è rimasta alla guida del Sinpa a dispetto dei santi.

Senatrice Mauro, cosa prova dopo essere passata dalle stalle della gogna politica e mediatica alle stelle dell’assoluzione?

«Ho passato due anni e due mesi in una gogna mediatica senza precedenti… ho letto cose che non stanno né in cielo né in terra. Certo che in questo momento sono felice. Non posso che ringraziare la Procura. Adesso resto in attesa del decreto di archiviazione. Vivo momento per momento, sapendo fin dall’inizio come stavano le cose. Io sono andata contro la mia stessa volontà. Sono una che fino a due anni fa  non era mai andata in televisione,  e sui giornali, ho fatto migliaia e migliaia di comizi dal 1987 al 2012 (iniziò ragazzina come operaia metalmeccanica a Milano e delegata della Uilm nel 1985 ndr), mai un rapporto con i giornalisti….».

Avvicinarla era impossibile, per farlo bisognava essere davvero tosti…

«E certo, se lo ricorda bene. Ma semplicemente perché io facevo i miei comizi, facevo la sindacalista, erano altri che dovevano portare la linea del movimento sui giornali e andare in televisione. La cosa per me molto brutta è stata aver visto tutte quelle cose in un momento scomparire, in un attimo diventai il capro espiatorio che non ho ancora capito bene di che cosa».

Il termine più gentile nei suoi confronti fu «la badante» o «la terrona» che nella Lega era un marchio infamante o la capa del «cerchio magico»…

«Hanno detto di tutto, quanto al cerchio la capa per i giornali era la Manuela, non voglio togliere i primati a nessuno (ride ndr). Questo cerchio magico era un’invenzione dei giornalisti, perché poi chi ha portato alla disfatta si è visto».

Veramente non era solo un’invenzione dei giornalisti che invece riportavano quello che dicevano nella Lega. Lei ha resistito, come un sol uomo, parafrasando Bossi che elogiandola le disse: «Tu per me sei un vero uomo», alle richieste pressanti di Maroni che le voleva imporre  le dimissioni da vicepresidente del Senato. Come ha fatto?

«Io quella sera infatti ecco perché, rompendo le mie consuetudini, andai a Porta a Porta e durante la trasmissione andò in onda la serata della ramazze a Bergamo con Maroni (andò anche Bossi piangente ndr). Mi dissi: adesso mi sveglio, perché questo è un incubo. E non capivo. Ma decisi: io non mi dimetto da vicepresidente del Senato (Mauro era il vicario del presidente Renato Schifani ndr) perché io non ho fatto niente. Ho finito i miei cinque anni a Palazzo Madama, dopodiché, mi sono detta, aspettiamo gli eventi, la giustizia farà il suo corso. Ho aspettato due anni e due mesi. E adesso attendo il decreto di archiviazione».

Nell’intervista esclusiva a Panorama nell’aprile 2012 lei fu profetica: «Non vi temo, la partita con me è solo agli inizi. Come ha passato questi due anni?

«Io penso che ad altri al posto mio sarebbe venuto un infarto.  Ho continuato a fare la sindacalista, alla guida del Sinpa che esiste e non è più collegato alla Lega. Il 16 maggio 2012 andai al congresso e mi hanno rieletto segretario.  Ci siamo distaccati all’unanimità dalla Lega. Dico quindi grazie ai miei iscritti, ai miei collaboratori, che  mi hanno creduto perché mi conoscono da 25 anni. Dico grazie ai pochi amici che mi sono rimasti vicini e non a quelli che non si sono fatti più sentire. Il coraggio non si può comprare, lo si deve avere dentro».

Chi le è rimasto vicino?

«Della nomenclatura della Lega nessuno».

Neppure Bossi?

«No, assolutamente no. L’ultima volta che ci ho parlato ero ancora in Senato, dopodichè non ho più sentito nessuno, n-e-s-s-u-n-o (lo ripete, scandendolo ndr). Ci sono stati invece tanti militanti che mi hanno sostenuto e io non ne ho mai fatto i nomi. Qualcuno dice che non è stato un complotto, io oggi continuo a dire: è stato un complotto. E questa è la cosa che mi provoca dolore».

Bossi è stato rinviato a giudizio con i figli Renzo e Riccardo. Cosa pensa?

«Ho letto le dichiarazioni in cui afferma: siamo innocenti. Io dico: buon per loro, se hanno le prove dimostreranno la propria innocenza, come io ho dimostrato la mia. Io ho sempre aiutato tutti senza chiedere mai niente in cambio, mai, mai, mai».

Chi le ha telefonato dopo l’assoluzione?

«Tanti militanti ancora dentro la Lega ma anche tanti che sono usciti e che mi continuano a dire: non mollare. Ribadisco: dalla nomenclatura zero telefonate».

Quindi, neppure il segretario Salvini?

«No, tra l’altro Salvini è stato consigliere comunale con me a Milano nel ’93, quando era proprio un ragazzo».

E Reguzzoni?

«No. E neppure Federico Bricolo, allora mio capogruppo al Senato, che tra l’altro venne a casa mia in Sardegna e vide con i suoi occhi che sono due locali e non la mega-villa di cui parlavano i giornali. E già da allora Bricolo non disse nulla. Queste sono veramente le cose che dispiacciono di più».

Eppure Bricolo come gli altri quando lei era potente la temeva e la omaggiava, era in  codazzo con lei che del resto folgorò Bossi quando ancora ragazzetta in piedi su un tavolo urlò e mise in riga un’assemblea di tranvieri inferociti…

«Se mi temevano evidentemente è perché io non ho nulla da nascondere, evidentemente sono altri che hanno qualcosa da nascondere. Io non sono mai stata né invidiosa né gelosa di nessuno, anzi ho difeso in alcuni momenti storici della Lega anche chi era indifendibile. Purtroppo è un problema loro e mi auguro che riescano a conviverci bene perché quello che hanno fatto è indegno».

Lei ora lavora?

«Faccio volontariato al Sinpa».

Come si mantiene?

«In questo momento con i risparmi miei, tant’è che ho detto ai magistrati: continuate a controllare il mio conto, controllatemi passo passo perché io possa riprendermi la mia dignità, perché hanno fatto di tutto per togliermela».

Oltre al Sinpa fa politica?

«Già quando ero in Senato ho costituito il movimento Sgc: “Siamo gente comune”, abbiamo due sedi, piano piano ci stiamo muovendo  partendo dal territorio. Controllate sul sito, c’è tutto. L’altra fondatrice è Arianna Miotti, una commercialista anche lei per vent’anni in Lega da dove se ne è andata per le schifezze che mi hanno fatto».

Lei fu infangata anche nella vita privata, le attribuirono come amante il caposcorta Pierangelo Moscagiuro. Ora cosa ha da dire?

«Moscagiuro, vi prego di scriverlo in neretto, non è mai stato il mio compagno, ma era solo il mio caposcorta. Punto».

E comunque lei disse a Panorama: «Se all’alba dei miei 50 anni mi attribuiscono un uomo di 37 faccio anche una bella figura…

«Quella era una battuta spiritosa (ride ndr). Ma chi mi conosce sa che sono sempre stata legata a un uomo che ha un bel decennio più di me».

Verrebbe spontaneo chiederle per mera curiosità chi è…

«E no, non voglio più intromissioni nella mia vita privata, a meno che non sia io a parlarne. Perché quello che hanno fatto è stato tutto mirato per cercare di distruggermi politicamente ma anche personalmente. Le cose io le ho sempre fatte alla luce del sole. Da mio marito ero già separata dal 1998 e poi anche divorziata».

È stato anche scritto che lei avrebbe comprato la laurea a Moscagiuro e gli avrebbe fatto avere benefit dal Senato…

«Ma se Moscagiuro non ha neppure il diploma! E poi scrivono che non è un poliziotto quando lui lo è ancora oggi. Comunque d’ora in poi io parlo solo per me stessa. Sono rimasta talmente scottata che non metterei più le mani sul fuoco per nessuno».

Manuela Marrone l’ha più chiamata?

«Assolutamente no».

Che morale trae dalla sua vicenda?

«La mia vicenda è stata archiviata, mentre nella Lega ci sono molti rinviati a giudizio».

Si riferisce alla storia dei rimborsi spese alla Regione?

«Sì, anche per questa parte sono stata assolta. Per altri che hanno fatto invece i duri e puri nessuna archiviazione».

 Lei si sente ancora leghista a dispetto del comportamento della Lega?

«A dispetto della Lega io ho creduto e credo ancora all’autonomia vera, che vale per tutti, da Nord a Sud, perché autonomia significa essere responsabili delle proprie azioni, del proprio lavoro, del proprio territorio. Ed io queste cose le ho nell’anima, non solo nelle parole. Ho fatto migliaia e migliaia di comizi dagli anni ’80, ero una ragazzina. Sono passata dalle fabbriche al consiglio regionale lombardo dove feci approvare il federalismo fiscale che poi a Roma Calderoli e Giulio Tremonti stravolsero. Ognuno deve fare i conti con la propria coscienza. La mia è a posto».

La coscienza dei magistrati è sempre a posto?

Premio Ischia a Manzo, il giornalista che intervistò Esposito. E il giudice manda una lettera alla giuria per dissuaderla, scrive “Tempi”. Esposito (non si capisce assolutamente a quale titolo) ha preso carta e penna per scrivere al presidente della giuria del premio di giornalismo Giulio Anselmi, già direttore di Espresso, Stampa, Ansa, oltre che ad altri giurati (tra i nomi che compongono la giuria ci sono i direttori del Mattino, Alessandro Barbano, dell'Ansa Luigi Contu, del Messaggero Virman Cusenza, e di SkyTg24 Sarah Varetto). Esposito è accusato di aver violato i doveri «di riserbo e di correttezza», a causa di un’intervista sulla condanna dell’ex premier rilasciata al cronista del Mattino. Per questo il magistrato gli ha chiesto 2 milioni di euro di risarcimento. «Sono a Ischia a ritirare il premio». Antonio Manzo, cronista giudiziario del Mattino, non ha altro da aggiungere a tempi.it sull’anomala decisione del giudice Antonio Esposito di lanciare un “appello” affinché non gli venga assegnato un premio giornalistico. Esposito, presidente della sezione feriale di Cassazione che condannò l’anno scorso l’ex premier Silvio Berlusconi, ha cercato di bloccare il premio al giornalista del Mattino, facendo notare ai giurati che a causa dell’intervista («gravemente manipolata», secondo il suo avvocato) rilasciata a Manzo, all’indomani della condanna di Berlusconi a 4 anni di carcere per frode fiscale, è stato messo sotto accusa dagli organi disciplinari della magistratura. Della lettera che Esposito ha inviato a tutti i giurati del premio speciale Ischia assegnato a Manzo ne parla oggi il Fatto Quotidiano. Il giudice, comunica ai lettori Marco Lillo, «ha scritto alla fondazione Valentino che organizza il Premio Ischia per chiedere che il riconoscimento sia bloccato», nonostante non vi sia, «nessuna relazione fra l’intervista di Esposito e il riconoscimento al giornalista del Mattino». Quell’intervista è «costata cara» al giudice che condannò Berlusconi, ricorda Lillo. Dopo la pubblicazione delle parole del giudice sul quotidiano di Napoli, «sono nati per lui un’azione disciplinare del Procuratore Generale e un procedimento davanti al Consiglio della Magistratura, rinviato al 3 luglio prossimo». Al giornalista del Mattino, infatti, Esposito avrebbe rivelato anticipatamente i contenuti delle motivazioni della sentenza. Lillo rivela un altro particolare della vicenda: Esposito «ha avviato un’azione civile per chiedere 2 milioni di euro di risarcimento a Manzo e solidalmente il direttore Alessandoro Barbano e l’editore Caltagirone». Il magistrato non ha chiesto risarcimenti solo a Manzo e al Mattino, ma anche al Giornale (400 mila euro), a Libero (1 milione e mezzo), a Piero Ostellino e al Corriere della Sera (150 mila euro), al Foglio e a Giuliano Ferrara (120 mila euro). Secondo il giudice e il suo avvocato, Alessandro Biamonte, Manzo non dovrebbe ricevere il premio speciale Ischia (patrocinato dalla Presidenza della Repubblica e del Consiglio) perché avrebbe commesso una «grave violazione deontologica per aver pubblicato un testo difforme da quello concordato e per di più difforme dal colloquio effettivamente avvenuto». Il Fatto Quotidiano riporta l’audio nel quale il giudice aveva tentato di schermirsi dalle domande incalzanti di Manzo dicendo: «Non mi fare esprimere giudizi sulle sentenze, ci dobbiamo esprimere con la motivazione». La frase non è poi stata riportata nell’intervista. Il giornalista del Mattino si è difeso dalle accuse di Esposito, spiegando, in una intervista a Tempi, di aver trascritto fedelmente quanto detto dal giudice Esposito. «Esposito ha detto esattamente le cose che hai letto nell’intervista – ha spiegato Manzo all’inviato di Tempi Peppe Rinaldi -. I nastri sono a disposizione, le quasi mitiche copie dei fax reciproci pure. Quando l’autorità giudiziaria ce li chiederà, se ce li chiederà, li metteremo a disposizione». Per quanto riguarda la frase omessa di Esposito, il giornalista ha ricordato, nel dicembre 2013, al procuratore generale di Cassazione, Carlo Destro, che «è perfettamente in linea con il lavoro giornalistico quello che viene definito da noi “editing” cioè il legame logico tra il parlato e lo scritto onde evitare che una acritica trasposizione, sia pure letterale e fedele, non porti il lettore a una comprensione netta e precisa delle parole che lo stesso magistrato aveva pronunciato nel corso della conversazione». Dopo la fase istruttoria, a inizio giugno, il procuratore generale di Cassazione, ha accusato il giudice che condannò Berlusconi di essere incorso in una violazione dei doveri «di riserbo e di correttezza». Esposito, secondo l’accusa, avrebbe «sollecitato la pubblicità di notizie relative alla propria attività d’ufficio e alla trattazione del processo» dinanzi alla Cassazione, «utilizzando canali personali privilegiati ai quali già in precedenza aveva fatto ricorso», nonostante «dovesse a ciò sconsigliarlo, oltre la particolare risonanza mediatica che aveva accompagnato la celebrazione del processo, l’elevata funzione svolta nell’ambito del collegio giudicante». Esposito prese «di sua iniziativa il contatto telefonico, circa un’ora dopo la lettura del dispositivo della sentenza» con il giornalista del Mattino, «affermando di non poter parlare immediatamente e accordandosi con il giornalista per il rilascio di un’intervista, “per spiegare la sentenza” entro i successivi due o tre giorni». L’intervista fu poi rilasciata il 5 agosto con una «conversazione telefonica di circa 35 minuti», nel corso della quale «il magistrato ha interloquito sia sui criteri di assegnazione del processo alla sezione feriale sia sui temi che il collegio era stato chiamato ad affrontare in quel giudizio».

Anche la coscienza di alcuni politici è sempre a posto?

Grillo minaccia il giornalista di Repubblica Ciriaco: "E' uno stalker, durerà poco". Il Comitato di Redazione del quotidiano romano: "Farneticazioni minacciose, tutta la redazione è con Tommaso. Non ci faremo condizionare". La Fnsi: "Ora basta sappia che non ci piegherà". La stampa parlamentare: "Cessi l'atteggiamento aggressivo dei 5 Stelle", scrive “La Repubblica”. Nuovo attacco di Grillo ai giornalisti. Un "wanted" sul suo sito questa volta rivolto contro il giornalista di Repubblica Tommaso Ciriaco. Ma anche qualcosa di più. Grillo parla di ricerche fatte sul nostro collega e conclude con un "quelli come lui dureraranno poco". Il cronista politico di Repubblica Tommaso Ciriaco è 'reo' di aver raccontato le divisioni in seno al gruppo europeo dei grillini. Sotto il titolo apparentemente ironico di 'Braccia rubate all'agricoltura', il blog pubblica un lungo un articolo con tanto di foto del giornalista. Un 'wanted' on line che Grillo ha già riservato ad altri cronisti, ma che stavolta svela una specie di 'indagine preventiva' fatta sul giornalista. Scrive infatti il blog: "Tommaso è calabrese, ma in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che Tommaso non abbia mai lavorato in un giornale locale nella sua regione. In rete è invisibile, a parte un profilo Twitter, non ha un sito, non è reperibile un suo cv. Che ha fatto nella vita?" L'accusa a Ciriaco è quella di fare il suo lavoro con 'troppo zelo': "Tommaso gira per il Parlamento a fare stalking sui rappresentanti del M5S, capta battute in ascensore, li segue fino al treno, li segue in macchina, li segue in aeroporto, li segue fin dentro l'aereo. Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti!" La conclusione è nel consueto stile dell'invettiva: "Quanti Tommasi ci sono nel le redazioni dei giornali di regime italiani? Tanti, ma non incazzatevi perché una cosa è certa: dureranno poco. Dopo di che dovranno cercarsi un lavoro come milioni di italiani, e di questi tempi non è facile". Il Comitato di Redazione di Repubblica stigmatizza quelle che definisce le "farneticazioni minacciose" di Grillo. "Purtroppo - scrive il sindacato dei giornalisti di Repubblica - siamo costretti a tornare ad occuparci delle farneticazioni minacciose di cui un nostro collega, Tommaso Ciriaco, è stato oggetto in queste ore sul Blog di Beppe Grillo. Il merito, il tono, la viltà e l’incedere allusivamente mafioso con cui viene esposto al pubblico ludibrio un giornalista che ha la sola colpa di fare il proprio mestiere la dice lunga sul coraggio e le intenzioni dell’estensore del post. Tommaso Ciriaco sa che l’intera redazione è con lui. Chi lo insulta protetto dall’anonimato deve sapere che, non saranno le minacce a determinare la qualità del giornalismo di Repubblica e a condizionare il lavoro dei suoi giornalisti". Anche Franco Siddi a nome dell'Fnsi esprime "incondizionata solidarietà a Tommaso Ciriaco". Secondo il segretario del sindacato dei giornalisti: "Il nuovo attacco assurdo di Grillo contro un giornalista che si occupa di conoscere a fondo i fatti e di renderli pubblici ai lettori è sintomo di un'insofferenza ormai palese e della sua difficoltà ad essere un vero leader democratico". Poi Siddi lancia la sfida: " Grillo si confronti con i giornalisti e le loro rappresentanze. Per ogni giornalista da lui colpito con parole sempre più gravi e pericolose per la democrazia tanti altri continuano a scrivere con onestà e competenza. E questi crescono sempre di più, Non li abbatterà. Ci sono mele marce anche nel giornalismo e di questo siamo pronti a parlare con tutti. Se il leader dei 5 Stelle continua così sappia che non ci piegherà. Saranno sempre più i Tommaso Ciriaco che non si fermano davanti ad una dichiarazione minacciosa. Il sole della censura che lo affascina non passerà. Gli ripetiamo, accetti il contronfto pubblico nella sala tobagi della Fnsi ma se non gli piace la sede delle conferenze intitolata a un martire dell'informazione accettiamo di confrontarci anche a casa sua. Ora basta". Dura la reazione dell'Associazione stampa parlamentare che insieme alla solidarietà "auspica che da parte del  Movimento 5 stelle cessi un atteggiamento aggressivo nei confronti dei cronisti che liberamente e con serietà esercitano la loro professione".

Dalle parole ai fatti. Dopo mesi di campagne virulente contro la stampa, due attivisti «disoccupati» del Movimento 5 Stelle hanno deciso di chiedere conto ai cronisti delle «menzogne» e hanno fatto irruzione nella sede del Secolo XIX, a Genova, scrive “Il Corriere della Sera”. I due, visibilmente alterati, hanno chiesto di parlare con i cronisti che avevano scritto un articolo sull’immunità e si sono filmati mentre parlavano con il portiere (mandando il video ieri su Facebook): «Devono venire qui a dare spiegazioni. Mi devo calmare? Se tutti i giorni scrivono qualcosa di falso su di te, tu ti calmi? Voi giornalisti sarete i primi a pagare...». Poi la citazione del «signor Ilario Lombardo, noto diffamatore». Non è l’unico cronista finito nel mirino dei 5 Stelle. Sul blog di Grillo compare un attacco violento contro Tommaso Ciriaco, giornalista di Repubblica. La gogna mediatica, con tanto di foto, è intitolata «Braccia rubate all’agricoltura». L’articolo, anonimo, attacca dicendo che Tommaso è calabrese, ma «in Calabria non lo conosce nessuno. Pare addirittura che non abbia mai lavorato in un giornale locale». Poi ancora: «Non ha un sito, non ha un cv in rete. Che ha fatto nella vita?». Illazioni false oltre che disinformate: Ciriaco è un cronista molto noto, che ha lavorato per anni all’agenzia di stampa Tmnews (ex Apcom), prima di approdare a Repubblica. Ma l’anonimo estensore del post insiste, definendo «stalking» l’attività cronistica e concludendo: «Si potrebbe pensare che sia dei servizi segreti». Seguono molti commenti pesanti, con lettori che si dicono pronti alle maniere forti per far cessare le menzogne. In difesa di Ciriaco si schiera il cdr di Repubblica: «Farneticazioni minacciose». Ma anche l’associazione della stampa parlamentare e molti politici di diverso orientamento (nessun 5 Stelle). Negli ultimi giorni Grillo aveva attaccato Marta Serafini, del Corriere della Sera, e un cronista dell’Ansa che aveva riportato le voci su divisioni nel gruppo europeo dei 5 Stelle, annunciando una proposta di legge per obbligare i cronisti a rivelare le fonti. Di recente, Grillo aveva spiegato che ai cronisti dovrebbe essere vietato l’accesso a Montecitorio.

I MANETTARI INFILZATI.

Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».

Il Mose e le cronache dal Basso Impero, scrive Valerio Morabito su "Blog Taormina". Negli ultimi giorni Venezia non è più la laguna che ci invidia il resto del Mondo. E’ solo una palude in cui emergono, ora dopo ora, loschi affari di diverso colore politico e di vari rami istituzionali. Quella che ormai è ribattezzata la Tangentopoli veneta, infatti, non è un fenomeno circoscrivibile al solo perimetro della politica, ma come detto dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Raffaele Cantone, c’è anche “il coinvolgimento pesantissimo del sistema di controllo”. Tutto ciò rende la vicenda molto più grave di quanto si potesse immaginare e pone in un angolo chi, tra esponenti politici e noti giornalisti, ha cercato di marcare la differenza ludica tra guardie e ladri. In un contesto del genere, purtroppo, non è possibile mettere in luce una dicotomia del genere. Scene da “Basso Impero” avrebbe detto Giorgio Bocca. Situazioni che richiamano alla memoria la decadenza di civiltà ormai logore per provare a rialzarsi, perché appesantite da un sistema così ingarbugliato in cui è impossibile trovare il bandolo della matassa. L’Italia sta vivendo in un’epoca di cui abbiamo sentito parlare nei vari libri di storia, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Questi periodi sono anche una grande opportunità per chiudere i conti con il passato e cercare di ripartire, di ricominciare da zero. Per tale motivo occorre, tra le tante cose, riscrivere le regole. Ci pensa già il magistrato Cantone, il quale ha lanciato un’ipotesi interessante: “Mi pongo il problema, se per il futuro non sia da imporre in tutti i contratti che verranno fatti dal pubblico una regola per la quale chi si macchia di corruzione non possa continuare ad avere appalti”. Inoltre il presidente anticorruzione si dice d’accordo sull’imporre rigidi controlli sui finanziamenti all’associazionismo antimafia: “Qualunque finanziamento erogato dallo Stato o da enti pubblici dovrebbe avere meccanismi di rendicontazione analoghi a quelli pubblici, e chi riceve denaro pubblico dovrebbe essere considerato un pubblico ufficiale”. Con tutte le regole di questo mondo, però, non si può pensare di debellare per sempre i ladri. Ci saranno anche dopo, perché fa parte delle caratteristiche umane. Ciò che importa, prosegue Cantone, è che “le regole devono evitare che i ladri la facciano franca”. Già, da queste parole emergono tutti i limiti della magistratura italiana. Incapace, ormai, di porsi come serio argine a tutto ciò. Anzi, spesso è compromessa in varie vicende come mostra lo scandalo del Mose. Per questo motivo l’ennesima storia di corruzione in Italia, non ha bisogno di tifoserie e partigianerie. C’è poco da schierarsi. Il sistema, come in ogni periodo da Basso Impero che si rispetti, è marcio in toto. Se da un lato è giusto che i colpevoli paghino e siano assicurati alla giustizia, dall’altro lato, per ripartire sul serio in questo Paese, è doveroso dare un freno alle spinte giustizialiste che albergano in alcuni organi di stampa e partiti. E’ vero, il mondo della politica non ha fatto nulla in questi anni per impedire un proliferare di “manettari”, anzi è stato un loro implicito alleato per via di ruberie su ruberie, scandali su scandali. Allo stesso tempo, però, occorre riflettere a cosa porterebbe un sistema in cui i partiti politici siano fondati da ex magistrati in carriera e provino a strumentalizzare le forze dell’ordine, mentre qualche quotidiano si trasformi in gazzettino delle Procure. Se un Paese che si definisce una Repubblica ha la necessità di porre simili distinzioni, vuol dire che qualcosa non va. E non per forza il tutto è una conseguenza degli affari sporchi della politica, perché le vicende degli ultimi mesi dimostrano come siano coinvolti tutti i settori della società italiana. E’ un problema generale e a dividersi superficialmente tra “guardie e ladri” c’è il rischio di confondersi ancora di più. C’è il rischio di mettere sotto al tappeto altri gravi problemi. Del resto il muro contro muro degli ultimi vent’anni ci avrebbe dovuto insegnare qualcosa. Certo, sono discorsi delicati. Soprattutto in un momento del genere, dove da Venezia giungono notizie inquietanti e sempre nuove. Ad esempio è emersa la “galassia Galan”. Le accuse rivolte nei giorni scorsi all’ex Governatore del Veneto sono solo la punta dell’iceberg, visto che gli inquirenti hanno scoperto ben altro tramite la Franica Doo, una srl di diritto croato. Sotto il coperchio della società la famiglia Galan gestirebbe “il proprio patrimonio estero detenuto in Croazia” costituito da diverse imbarcazioni, molti immobili e conti correnti. Ed emergerebbe anche il tentativo di Galan di realizzare un suo sogno, quello di fare affari con il gas. Il parlamentare di Forza Italia si difende e sostiene che “stanno tentando di scaricare su di me nefandezze altrui. Non mi farò distruggere per misfatti commessi da altri”. Nega tutto anche il sindaco di Venezia Orsoni, il quale davanti al gip ha affermato: “A me hanno chiesto di fare il sindaco, sono un uomo prestato alla politica che non può minimamente fare azioni del genere”. Nel frattempo spunta un altro nome legato al mondo della politica. E’ quello di Davide Zoggia, bersaniano del Partito democratico. Il suo nome sarebbe stato fatto da Lino Brentan, l’ex amministratore delegato della società Autostrada di Venezia e Padova, che in sede di interrogatorio di garanzia l’avrebbe citato, perché “beneficiario di 65 mila euro”. Un finanziamento per la campagna elettorale del politico e il diretto interessato ha replicato dicendo che “non c’è nulla di penale in un tutto ciò”.

Il «Mose» separa le acque e fa riemergere tangenti, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Tempo”. Stando alle prove raccolte in 700 pagine dalla procura veneta parrebbe proprio di sì. E a leggere i capi di imputazione, le intercettazioni, le ricostruzioni dei flussi finanziari e dei fondi neri a larghe intese collegati alle presunte tangenti per la costruzione delle dighe in Laguna, di primo acchito vien davvero voglia di accodarsi ai cori di giubilo di grillini, manettari, giustizialisti, giacobini, di quanti, insomma, gongolano vedendo la gente con gli schiavettoni ai polsi. Epperò, siccome ne abbiamo viste e sentite tante in decenni di pseudo inchieste dalle «prove schiaccianti» (finite col proscioglimento o l’assoluzione degli indagati) preferiamo proseguire verso la giusta via garantista perché la presunzione d’innocenza, a casa nostra, vale sempre, comunque e per chiunque. Questo non vuol dire, però, che l’inchiesta che ha terremotato la città più bella del mondo sia campata in aria. Tre anni di indagine non sono pochi, dunque si presume che gli accertamenti siano stati fatti a puntino e a supporto siano stati trovati i riscontri del caso che giustificano una trentina di arresti e centinaia di perquisizioni. La supervisione del procuratore Nordio (quello che ai tempi di Tangentopoli indagò sulle coop rosse) è una garanzia così come la puntigliosità investigativa del nucleo locale della guardia di finanza che ha fatto emergere l’ennesimo «sistema» di malaffare endemico alla gestione di appalti milionari. Ancora una volta, come per i mondiali di Nuoto o i lavori al G8 per finire all’Expo, le Grandi Opere si rivelano un boomerang per i già disastrati conti pubblici oltreché un volano straordinario per il substrato illecito dell’imprenditorialità e della pubblica amministrazione corrotta. Che sembrerebbe - e ribadiamo il condizionale - aver messo da parte provviste sufficienti a garantirsi campagne elettorali future oltre a far campare sereni i figli dei figli dei figli. Come sempre accade quando scoppia la bomba, accanto ai manettari incalliti, l’altra politica dà il peggio di sé regalando sottili distinguo su questo e quell’indagato o sulle manette pre o post elettorali. Nessuno che rifletta sul Titanic Italia ormai alla deriva, in balia di onde giudiziarie sempre più alte che nessun premier rottamatore o commissario anticorruzione è in grado di fronteggiare più.

Le responsabilità della giustizia per il marciume tangentaro, scrive Vasco Ibatici su “Il Giornale”. Expo, Mose, Tav, Ponte sullo Stretto, ecc.ecc. Mi domando se accuse, indagini, carcerazioni preventive, manette, siano frutto di una denuncia alla magistratura formulata da qualcuno a ragion veduta o se le nostre istituzioni indagano a priori su qualsiasi appalto di media o grande misura perché tanto si sa che qualcosa si trova per dar lavoro alle patrie galere e per ingrassare le casse dello Stato. Si fa di tutto per coinvolgere tutti, si butta il sasso nello stagno creando onde che implicheranno decine di persone, non importa come, con quale grado di gravità e con un clamore che presumibilmente rovinerà la reputazione di molte persone, imprenditori, politici e non. Per poi scoprire, la storia lo insegna, che la maggior parte delle accuse cadranno, i personaggi in gran parte verranno assolti. E allora conviene operare con la massima riservatezza e colpire solo quando ci sono prove inconfutabili di colpevolezza, evitando queste spettacolarizzazioni. Caro Ibatici, le domande che lei allinea sono le stesse che milioni d'italiani, dopo questa valanga di scandali, si pongono. È evidente la necessità d'una azione risoluta contro il diffuso e finora inestirpabile malaffare. Non meno evidente è il rischio che magistrati affetti da protagonismo o dalla sindrome virtuosa del giustiziere o da faziosità politica sferrino colpi durissimi contro aziende e opere pubbliche di importanza vitale, con arresti a raffica. Il che avviene, in un clamore mediatico assordante, quando tecnicamente le colpe sono ancora tutte da dimostrare. Ci sono tanti, troppi politici o burocrati di mano lesta che profittano degli azzeccagarbuglismi legali per farsi sfacciatamente gli affari loro. La responsabilità maggiore del marciume non sta nei corrotti - che dovrebbero essere messi nell'impossibilità di allungare le mani sul malloppo -, sta nella lentezza d'una giustizia che ci dirà tra alcuni anni se Giancarlo Galan e Giorgio Orsoni sono veramente dei poco di buono, sta nella giungla sterminata e demenziale delle norme. È perfetta la diagnosi del procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio, non sospettabile di furori manettari: «Se devi bussare a cento porte invocando cento leggi diverse per ottenere un provvedimento è quasi inevitabile che qualcuna resti chiusa e qualcuno ti venga a dire che devi imparare a oliarla».

Ci risiamo con le mele marce. Il Pd si autoassolve sempre. Da Genovese a Penati i democratici mettono in atto il solito trucchetto per apparire puliti, scrive Laura Cesaretti su “Il Giornale”. Per il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, finito ai domiciliari per il caso Mose, vale l'ultima frontiera dell'autodifesa di partito: «Non è del Pd», dice il renziano Luca Lotti. Certo, aggiunge il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, «questo non vuol dire che se sei del Pd sei buono e se sei indipendente sei un ladro. Se sei ladro, puoi essere Pd, Pdl o Cinque stelle e devi andare in galera». Linea confermata dal ministro Boschi: «Se le accuse saranno provate il Pd ne trarrà le conseguenze, come con Genovese». Se nella stagione di Tangentopoli la sinistra italiana si salvò dal fiume di inchieste e arresti che investì i partiti della Prima repubblica, ora lo scudo magico sembra sempre meno efficiente, e gli uomini Pd cadono come birilli. Ma si tratta quasi sempre di «mele marce», di «casi isolati». Quando non di veri e propri estranei che abusano del buon nome Pd: Greganti non se lo ricordava più nessuno (nonostante la tessera, le visite a Roma zona Senato, le foto a manifestazioni di Fassino e Chiamparino). E Orsoni non è mai stato del Pd. Il che è pure vero, tecnicamente, ma sa un po' di giustificazione postuma. Quella dell'inchiesta Mose, argomenta Laura Puppato, «è la vecchia guardia, noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». Una pagina non così semplice da voltare, in un partito nel quale i fan ossessivo-compulsivi delle Procure hanno contato, dal 2008 ad oggi, circa 400 indagati. Molti per bagatelle, molti totalmente scagionati o assolti. Ma tanti ancora nei guai, un partito che sembra incapace sia di divincolarsi definitivamente dal condizionamento delle Procure, sia di ammettere di essere esattamente come gli altri, quanto a «permeabilità». È di poche settimane fa l'arresto del ras delle preferenze messinesi Francantonio Genovese, concesso dal Parlamento, Pd in testa, su ordine di Matteo Renzi (e poi subito annullato dal gip). «Il Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica, sempre. Anche quando con i propri deputati», chiosò il premier, preoccupato che la vicenda interferisse con la campagna elettorale. Vecchia politica, Genovese lo era di certo. Ma di quella «vecchia politica» che sa rapidamente ricollocarsi ed aggiornarsi alle nuove leadership: veltroniani con Veltroni, bersaniani con Bersani, renziani con Renzi. Non sospettabile di simpatie renziane, invece, è Filippo Penati, ex capo della segreteria politica di Bersani e fidatissimo braccio destro del segretario Pd nelle primarie. Per lui, quando fu incriminato per concussione e finanziamento illecito ai partiti nella vicenda degli appalti di Sesto, la linea fu: è stato espulso dal Pd, la faccenda non riguarda piú noi. «Chi è coinvolto in indagini deve fare un passo indietro e Penati ne ha fatti tre o quattro e questo - disse Bersani - va riconosciuto». Poi il Pd si costituì parte civile contro di lui, che reagì con durezza: «Codardi. Mi hanno sacrificato per salvarsi l'immagine». Sacrificato e subito disconosciuto anche Franco Pronzato, arrestato per gli appalti Enac, quando il Pd bersaniani scoprì di avere un «responsabile trasporto aereo» nella sua persona. Dimenticata Maria Rita Lorenzetti, ex governatrice dell'Umbria, arrestata per la Tav. Rimosso Alberto Tedesco, salvato in Senato, poi arrestato a fine mandato, poi però assolto dalle accuse. Rimosso dalla ribalta Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno e vice-ministro che Renzi non ha riconfermato. Difeso fino all'ultimo ma poi costretto a ritirare la candidatura a sindaco di Siena, a inizio 2013, Franco Ceccuzzi, indagato per il crac del pastificio Amato. Relegato in Sicilia Vladimiro Crisafulli. Più singolare, invece, la vicenda abruzzese, che rivela quanto possano essere perversi gli intrecci tra giustizia e politica: il neo-eletto governatore D'Alfonso, da sindaco di Pescare venne incriminato e arrestato con plurime accuse dalla procura diretta da Nicola Trifuoggi. Il quale però, cinque anni dopo, ha benedetto la candidatura di D'Alfonso a governatore e contemporaneamente è diventato vice del sindaco dell'Aquila Cialente, Pd anche lui e anche lui prima messo nel mirino delle inchieste.

Tangentopoli del Mose: tutte le accuse. Da Galan a Orsoni, dal Pdl al Pd, dalla Corte dei Conti ai ministeri, ecco i politici e alti funzionari che hanno intascato almeno 25 milioni di euro per riempire di miliardi le imprese del Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giancarlo Galane Renato Chisso Tutte le mazzette indagato per indagato: ecco il quadro completo delle accuse formulate dai magistrati veneti nell'ordinanza di custodia dei 35 arrestati (25 in carcere, 10 ai domiciliari) per la Tangentopoli del Mose, la grande opera emergenziale da 5 miliardi e 496 milioni di euro che dovrebbe salvare Venezia dall'acqua alta, ma dopo trent'anni non è ancora entrata in funzione.

GIANCARLO GALAN: parlamentare di Forza Italia, ex ministro, presidente della Regione Veneto dal 1995 al 2010. Secondo l'accusa l'ex governatore, per favorire le imprese del Consorzio Venezia Nuova, ha intascato svariati milioni di euro e in particolare:

uno stipendio fisso in nero di un milione di euro all'anno, quantomeno dal 2005 al 2011;

900 mila euro in contanti nel 2006-2007;

altri 900 mila euro in contanti nel 2007-2008;

una quota del 7 per cento della società Adria Infrastutture, intestata a un suo prestanome, con conseguente partecipazione agli utili realizzati da quella impresa del Gruppo Mantovani con il discusso sistema del “project financing” all'italiana;

il 70 per cento delle quote della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestate allo stesso prestanome;

200 mila euro una tantum, consegnatigli all'hotel Santa Chiara di Venezia nel 2005 tramite la sua ex segretaria-factotum Claudia Minutillo;

la ristrutturazione gratuita della sua lussuosa villa di Cinto Euganeo, sui colli di Padova, con lavori costati un milione e cento mila euro e mascherati con fatture false.

RENATO CHISSO, politico di Forza Italia, assessore alle Infrastrutture e Grandi Opere nelle giunte Galan (incarico mantenuto anche con l'attuale governatore Luca Zaia, che però non risulta indagato), è accusato di aver incassato dalle grandi aziende del Mose:

uno stipendio in nero di 200 mila euro all'anno (con punte di 250 mila), versatogli a partire dalla fine degli anni Novanta fino al primi mesi del 2013;

il 5 per cento della società Adria Infrastrutture, formalmente intestato all'ex segretaria di Galan, Claudia Minutillo, che in realtà gli faceva da prestanome; quota rivenduta da Chisso nel 2011 alla Mantovani spa per due milioni di euro;

il 10 per cento della società pubblicitaria Nordest Media srl, intestata alla stessa prestanome;

250 mila euro in contanti, consegnatigli dal manager Piergiorgio Baita della Mantovani nella primavera 2012 all'hotel Laguna Palace di Venezia;

altre centinaia di migliaia di euro all'anno (il totale non è ancora quantificato) in contanti;

consulenze e assunzioni di comodo per amici e prestanome;

appalti di favore a imprese amiche per i lavori stradali delle “Vie del mare” (superstrada Jesolo-Cavallino).

GIORGIO ORSONI, sindaco del Pd di Venezia, è ai domiciliari per finanziamenti politici illeciti, con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose queste somme:

110 mila euro, materialmente incassati dal suo tesoriere-mandatario, per la campagna elettorale del 2010, come candidato sindaco del centro-sinistra a Venezia;

altri 450 mila euro, sempre nei primi mesi del 2010, di cui almeno 50 mila versatigli personalmente dai manager Mazzacurati e Sutto del Consorzio Venezia Nuova.

GIAMPIETRO MARCHESE, consigliere regionale veneto del Pd, ora in carcere, è accusato di aver intascato dalla cordata di imprese private del Mose:

58 mila euro per le elezioni regionali del 2010;

15 mila euro al trimestre, a partire dall'autunno 2009 fino all'inizio del 2013, per un totale compreso tra 400 e 500 mila euro;

un contratto di lavoro fittizio da 35 mila euro.

AMALIA detta LIA SARTORI, europarlamentare di Forza Italia, non rieletta nel 2014, è indagata con l'accusa di aver ricevuto dalle imprese del Mose due finanziamenti illeciti:

almeno 25 mila euro per la campagna elettorale alle europee del 2009;

altri 200 mila euro dal 2006 al 2012, di cui 50 mila intascati personalmente il 6 maggio 2010 in un incontro con il manager Mazzacurati.

MARCO MILANESE, braccio destro dell'ex ministro Tremonti ed ex parlamentare di Forza Italia, è solo indagato (ha evitato l'arresto collaborando con i magistrati) come destinatario di una tangente pagata dalle aziende del Consorzio Venezia Nuova, in particolare per aver intascato personalmente mezzo milione di euro, tra aprile e giugno 2010, per spingere il ministero dell'Economia ad autorizzare una nuova ondata di finanziamenti pubblici a favore del Mose.

EMILIO SPAZIANTE, ex numero due della Guardia di Finanza, in pensione dall'autunno scorso, è in carcere con l'accusa di aver intascato buste di denaro contante per spiare le indagini veneziane approfittando del suo grado, e in particolare per aver ricevuto dai massimi dirigenti del Consorzio Venezia Nuova:

mezzo milione di euro, in più rate, recapitategli tra giugno 2010 e febbraio 2011 a Roma e a Venezia;

la promessa di altri due milioni di euro, concordati con l'onorevole Milanese e il finanziere veneto Roberto Meneguzzo (Gruppo Palladio), soldi poi non versati proprio a causa della scoperta che erano in corso le indagini, in teoria ancora segrete.

Tra gli arrestati per corruzione compaiono anche un magistrato della Corte dei Conti, accusato di aver intascato almeno un milione di euro tra il 2000 e il 2008, e due alti funzionari del ministero delle Infrastrutture, che avrebbero incassato uno stipendio in nero di 400 mila euro all'anno, quantomeno dal 2007 al 2012, per addomesticare i controlli e non denunciare i problemi tecnici del sistema Mose.

Antonio Iovine: «Così la Camorra ha corrotto tutti». Scrive Alberto Sofia su “Giornalettismo”. Omicidi, mani sugli appalti, soldi a sindaci e amministratori pubblici, senza distinzione di colore politico. Le prime dichiarazioni del superboss pentito fanno tremare l'impero. Omicidi, mani sugli appalti, soldi a sindaci e amministratori pubblici, senza distinzione di colore politico. Così il superboss pentito Antonio Iovine, soprannominato «‘O Ninno» per il suo volto da bambino, è salito ai vertici del clan dei Casalesi. Le prime confessioni del padrino di Gomorra, dopo la decisione di collaborare con la giustizia, a 4 anni dall’arresto dello scorso 17 novembre 2010 a Casal di Principe, fanno già tremare l’impero dei clan, così come il mondo della politica e dell’imprenditoria collusa con l’organizzazione criminale. Nelle sue prime deposizioni, Iovine ha dipinto un sistema definito «completamente corrotto», evocando i legami tra i clan e la classe dirigente del Paese, con «tutti i partiti nella rete». ‘O Ninno ha spiegato come ci fossero «soldi per tutti»: «Si deve considerare anche la parte politica ed i sindaci dei comuni i quali avevano l’interesse a favorire essi stessi, alcuni imprenditori in rapporto con il clan», ha spiegato. Dietro queste operazioni illegali, si nascondeva il voto di scambio politico-mafioso: «Tutto per avere vantaggi durante le campagne elettorali in termini di voti e finanziamenti», ha aggiunto Iovine. Secondo la versione del boss, «non faceva alcuna differenza il colore politico del sindaco». Questo perché «il sistema era operante allo stesso modo». Iovine ha così descritto la grande abbuffata degli appalti, parlando di «assegnazioni alterate dall’intervento dei pubblici funzionari» e di imprenditori che «automaticamente si presentavano per il pagamento a chi controllava» un determinato territorio. Il sistema illegale cresceva attraverso la violenza del clan. Lo stesso Iovine ha ammesso i suoi omicidi, a partire dagli anni Ottanta. «Anche io ne ho ammazzati tanti, ne è derivato un potere col quale mi sono potuto dedicare al mondo degli affari». Pur spiegando come esista una «mentalità casalese inculcata fin da giovani», basata sulla cultura della raccomandazione, dei favoritismi, delle mazzette e della regola del 5 per cento», Iovine nel suo interrogatorio ha aggiunto analisi su quelle che ha ritenuto le “colpe” dello Stato. «Prima ancora che i camorristi, questa mentalità l’ha diffusa nel nostro territorio proprio lo Stato, che invece è stato proprio assente nell’offrire delle possibilità alternative e legali alla propria popolazione». Per poi aggiungere: «Le nostre condotte sono anche conseguenza di questo abbandono che abbiamo percepito da parte dello Stato». Per Iovine «anche la parte politica che dovrebbe rappresentare la parte buona dello Stato è stata quantomeno connivente con questo sistema se non complice». Sicuramente era del tutto consapevole di come andavano le cose», ha accusato il boss pentito, citando come esempio gli appalti per la refezione scolastica in numerosi comuni dell’agro aversano, che erano stati assegnati un’impresa a lui vicina. Non sono mancate le accuse, comprese quelle a Lorenzo Diana, l’ex parlamentare Ds che ha svolto una dura azione di contrasto contro la criminalità organizzata: «Anche lui ha permesso che continuassimo ad avere questi appalti anche quando c’erano sindaci dalla sua parte». La replica è arrivata su Repubblica: «Iovine si metta d’accordo con se stesso. Perché voleva uccidermi allora? Sette pentiti hanno raccontato che il clan voleva farmi saltare in aria. Sono sotto scorta da 18 anni per le mie denunce», ha replicato. Tra i politici di peso il padrino ha invece citato anche Gianni Alemanno, per i milioni di euro in appalti per il rimboschimento nell’area del casertano. Fondi assegnati dal ministero dell’Agricoltura nei primi anni duemila (l’ex sindaco di Roma è stato ministro delle politiche agricole e forestali dal 2001 al 2006, ndr) e che secondo Iovine, sarebbero stati gestiti «per conto del clan» da un imprenditore amico, Vincenzo Della Volpe. Iovine ha spiegato di ricordare come Alemanno fosse andato a San Cipriano per una manifestazione elettorale su invito del nipote Giacomo Caterino (ex sindaco)». Alemanno, estraneo alle indagini, ha respinto ogni sospetto sul suo conto: «I finanziamenti furono assegnati prima che diventassi ministro, è stata la nostra gestione a denunciare lo scandalo. La manifestazione elettorale? Era una semplice iniziativa a favore di un candidato al consiglio provinciale (Caterino, ndr) su cui all’epoca non pendeva nessuna accusa», ha spiegato. Al di là dei nomi citati, comunque, le dichiarazioni di Iovine potrebbero svelare quelle aree di collusione tra criminalità, politica, mondo dell’imprenditoria. Certo, ogni parola dovrà essere verificata, per accertarne l’attendibilità, come ha spiegato a Repubblica il magistrato Federico Cafiero de Raho, oggi procuratore capo a Reggio, che aveva sostenuto l’accusa durante il processo “Spartacus”. Quello che trascinò all’ergastolo i maggiori padrini del clan in via definitiva (compreso lo stesso Iovine). «Quando personaggi di questa pericolosità collaborano, coronando uno straordinario sforzo investigativo, è evidente che bisogna prendere con le pinze ogni parola e pesarle bene. Ma dormo sonni tranquilli: i pm che stanno vagliano le sue dichiarazioni hanno rigore, esperienza». Potrebbe essere una svolta, un colpo di grazia al “sistema”. Iovine, oggi 50nne, è considerato uno dei quattro capo clan dei Casalesi, insieme a Francesco Bidognetti, a Francesco Schiavone (il boss conosciuto come Sandokan, catturato nel ’98) e a Michele Zagaria (l’ultimo ad essere arrestato, il 7 dicembre 2011, ritrovato nel bunker dove si era rifugiato). Ha spiegato nei verbali di voler collaborare per «chiudere una pagina». Ha sei mesi di tempo, per legge, per raccontare le sue verità. Ma non solo: il 7 giugno testimonierà in videoconferenza anche al processo in corso a Santa Maria Capua Vetere, dove imputato è l’ex sindaco di Villa Literno, Enrico Fabbozzi, con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ma intanto ‘O Ninno ha iniziato a fornire la sua versione, riempiendo in undici giorni già diverse pagine di verbali.  Boss-manager, durante i suoi 14 anni di latitanza – dal 1996 fino al 2010 – prima dell’arresto e della condanna all’ergastolo in via definitiva, Iovine ha continuato a gestire le attività dei Casalesi, mente affaristica del clan. Era lui, ribattezzato il “ministro dell’Economia” a gestire il riciclaggio dei proventi delle attività illecite – narcotraffico, racket, truffe su tutte – nell’economia pulita e nel business del cemento. Per poi inserirsi nel mondo degli appalti statali. Fino alla scelta di pentirsi, dopo quattro anni di carcere duro. Quasi una “prima volta” nella storia della camorra, considerati come non siano stati molti, prima di Iovine, i capi clan che avevano scelto di collaborare. Tra questi Pasquale Galasso, capo della Nuova famiglia. L’altro storico collaboratore di giustizia del clan dei Casalesi è stato invece Carmine Schiavone. Ma, come aveva ricordato Roberto Saviano, era un capo della vecchia generazione, messo ai margini nell’ultima fase e che aveva deciso di pentirsi proprio perché allontanato dai vertici. Al contrario, Iovine, è rimasto il il padrino di Gomorra, fino a pochi anni fa. Per questo le sue rivelazioni potrebbero adesso fornire informazioni essenziali sui rapporti tra imprenditoria e criminalità, non soltanto in Campania e in Italia.

Attenti a quello che dice il pentito. Camorristi come Antonio Iovine sanno quali corde toccare quando si decidono a parlare. Sta a noi fare la tara. Ma ci sono pure giornali dove sono i boss a dettare la linea editoriale, scrive Roberto Saviano su “L’Espresso”. So benissimo di quali delitti mi sono macchiato. Sto spiegando un sistema dicui la camorra non è l’unica responsabile», dice Antonio Iovine, boss dei casalesi ora collaboratore di giustizia. Quello che sta accadendo in questi giorni, in queste ore, benché sembri una cosa semplicissima, perfino scontata, è in realtà il racconto più difficile da fare del nostro paese. È un racconto difficile perché nelle parole di Antonio Iovine trova spazio qualsiasi cosa accaduta e può essere omesso, allo stesso tempo, qualsiasi dettaglio. Questa collaborazione è un miracolo dei Pm Antonello Ardituro e Cesare Sirignano e di tutta la Dda di Napoli che ora sta gestendo una materia incandescente. Potrà far saltare molti equilibri politici, imprenditoriali, economici ancor prima che le dichiarazioni di Iovine siano passate all’attento vaglio della magistratura, ancor prima che si possa dare effettiva rilevanza penale a ogni singola affermazione. Antonio Iovine ci sta raccontando uno spaccato di paese. Uno spaccato, certo, e quindi non il paese nella sua interezza, eppure quello spaccato ci dice moltissimo e getta luce su tutto il resto, su tutto ciò che sembra lontano, lontanissimo dalle logiche criminali. Ci dice quali erano - e sono - le linee guida per truccare e aggiudicarsi appalti. Ci dice come venivano - e vengono - trovate alleanze e disponibilità all’interno delle istituzioni. Ci dice come vengono gestite le casse del clan dei casalesi, quanto spetta ai capi, quanto agli affiliati, quanto a chi sconta il carcere. Ci dice come sia stato possibile vivere tanto a lungo in latitanza, come veniva oliata la macchina delle coperture. Ci dice quanto abbiamo sempre ipotizzato, quanto eravamo certi accadesse. Ma sentirlo dalla viva voce di un capo, ha tutt’altro impatto. Ed è qui che stampa e opinione pubblica devono calibrare il proprio ascolto, modulare il proprio orecchio, settarlo su un’impostazione altra. I collaboratori di giustizia, soprattutto quando hanno vissuto in latitanza per così tanto tempo, come è accaduto ad Antonio Iovine, hanno voci incredibilmente sibilline perché sanno esattamente quali corde toccare e come farlo. E se la magistratura è ben accorta e pronta a tutto questo, siamo certamente noi i più esposti. Siamo noi a dover fare la tara e a contestualizzare ogni singola affermazione. Noi che scriviamo e voi che leggete. I rapporti tra stampa e criminalità organizzata sono rapporti saldissimi, rapporti che negli anni sono cresciuti, si sono rotti perché si costituissero nuovi canali di comunicazione. Una parte della stampa locale campana è stata ed è a disposizione dei clan, più o meno consapevolmente, in maniera più o meno palese. L’editore di due testate locali, il “Corriere di Caserta” e “Cronache di Napoli”, Maurizio Clemente, è stato condannato per estorsione a mezzo stampa, cioè minacciava di delegittimare attraverso le pagine dei suoi giornali chi non avesse pagato per evitarlo. Su questi giornali la camorra appare spesso come un’organizzazione colma di onore e i boss uomini pieni di fascino. Titoli che avreste potuto leggere sono “Don Diana era un camorrista” e “Nunzio De Falco re degli sciupafemmine”: Nunzio De Falco, condannato come mandante dell’omicidio di Don Diana. Il messaggio che, tramite questi quotidiani, negli anni, si è fatto passare, è chiaro: nessuno può schierarsi contro la camorra, chi lo fa ha sempre un interesse personale. In questo contesto va osservata e interpretata la telefonata che Antonio Iovine e Michele Zagaria fecero nel 1998 a un giornalista del “Corriere di Caserta” che aveva ipotizzato, dopo l’arresto di Francesco Schiavone “Sandokan”, problemi di successione tra Iovine e Zagaria. L’atteggiamento e i toni sono incredibili: sembra che lo considerino un quotidiano a loro disposizione e di conseguenza possano, senza alcun timore, chiamare il giornalista e far presente che quanto scriveva era falso. Che doveva correggere il tiro, che in quel modo creava problemi alle famiglie. Come se dettassero loro la linea editoriale, chiedevano quindi di riportare le notizie giuste (secondo loro) e non le interpretazioni individuali. Addirittura hanno proposto di far andare i loro fratelli il giorno dopo in redazione per confermare che fossero davvero loro ad avanzare le richieste: non temevano, evidentemente, alcuna denuncia o possibile intervento della polizia. Questo canale di interlocuzione alcuni quotidiani locali lo hanno sempre tenuto vivo. Hanno sempre fatto in modo che restasse aperto, operativo, efficace. Non sarebbe potuta accadere la stessa cosa a un giornalista di una testata nazionale o anche di una testata locale che non avesse mostrato storicamente con titoli, con articoli, con editoriali, tanta disponibilità nei riguardi dei clan. Post Scriptum: i Nuvoletta non avrebbero mai telefonato a Giancarlo Siani per dirgli di correggere quanto aveva scritto. Non lo hanno fatto.

Era un dirigente di prima fascia del ministero delle Infrastrutture, con uno stipendio di 149 mila euro l'anno, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Divenne magistrato delle acque di Venezia, ingaggiando un braccio di ferro con le imprese del Mose. Siccome lo perse e fu trasferita a Bologna, Maria Giovanna Piva andò a fare la vittima da Milena Gabanelli, che nella puntata di Off the report del 27 maggio 2012, ne fece subito un'eroina, che combatteva contro il governo di Silvio Berlusconi e il ministro Altero Matteoli. L'eroina è stata arrestata per l'inchiesta sul Mose con l'accusa di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio. Avrebbe intascato illegalmente attraverso un falso collaudo oltre 327 mila euro. Somma che aveva già in tasca quando bussò alla Gabanelli. Forse non le bastavano e così stava mandando un messaggio in codice alla cricca del Mose?

Mose, incredibile difesa del Pd: gli arrestati non sono del Pd, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Scusate, ci siamo sbagliati. Il Pd non c’entra nulla con il malaffare di Venezia. Hanno arrestato 35 persone, tra cui il sindaco della città, e un altro centinaio di signori è stato indagato con le peggiori accuse, ma il Partito democratico ha le mani pulite. Così almeno informa un comunicato della segreteria regionale del suddetto gruppo. In una nota diffusa dalle agenzia di stampa nella mattinata di ieri, dunque a botta ancora calda per i provvedimenti della magistratura, i vertici del partito di Renzi non recitano il mea culpa per non aver vigilato sulle tangenti che hanno preso il largo insieme al Mose, ma ci informano che, pur essendo stato eletto con i voti del Pd e pur guidando un giunta a forte impronta Pd, il primo cittadino Giorgio Orsoni non è del Pd, perché non ha mai chiesto la tessera. (...)Dietro le manette c'è la guerra totale per il futuro del Pd. Dopo aver negato di conoscere il sindaco tangentista di Venezia, sostenendo che Giorgio Orsoni non è del partito nonostante il partito lo avesse candidato e fatto eleggere alla guida della giunta di sinistra che regna sulla laguna, ieri il Pd si è superato. Questa volta non c’entrano le calli e neppure il Mose né ci sono di mezzo appalti e fatture milionarie. Però c’è quella che doveva essere una delle amministrazioni locali da portare ad esempio di buona amministrazione e soprattutto di cambiamento di verso. Ci riferiamo alla Città eterna, la Capitale della svolta. Da un anno ai vertici del Campidoglio c’è Ignazio Marino, un allegro chirurgo che dopo aver messo da parte il bisturi si è scoperto una passione per la politica. Prima come parlamentare, poi come primo cittadino di Roma. Nel marzo dell’anno scorso Marino si sottopose alle primarie per la scelta del candidato di centrosinistra e, vinta piuttosto facilmente la sfida, non fece fatica a battere Gianni Alemanno, che di Roma era stato a sorpresa sindaco per cinque anni. Sorpresa perché da un ventennio e più la Capitale era a guida sinistra e dunque un primo cittadino post-missino non era tra le ipotesi contemplate. All’errore di aver affidato la città a uno di destra, Marino pose rimedio con l’appoggio di tutte le forze antifasciste e democratiche e sulla base di un programma che prevedeva un radicale cambiamento di rotta.

I moralisti delle mazzette, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. Eccoci di nuovo a commentare storie di arresti e mazzette. L’ultima in ordine di tempo è la diga di Venezia, quella che avrebbe dovuto evitare l’acqua alta. La chiamano il Mose, ma con l’accento sbagliato. Il pubblico ministero che ha indagato e chiesto gli arresti (Carlo Nordio) è un signore che, a differenza dei suoi simili, prima di arrestare un povero cristo si farebbe tagliare le mani. Odia la giustizia spettacolo. Ieri ha subito detto: «In Italia la corruzione continua perché le leggi sono troppo complesse e farraginose. A nulla serve aumentare le pene e inventarsi nuovi reati». I contribuenti sono gabbati più volte. Prima dai propri rappresentanti, che abusano delle tasse incassate. Poi dal fatto che queste benedette opere pubbliche, se mai si realizzano, non si chiudono mai nei tempi e nei modi promessi. Chi ancora pensa che l’Expo possa avere il fascino scintillante che ci avevano raccontato agli esordi? Arrivano infine i nuovi politici che, cavalcando l’indignazione, gridano allo scandalo (che c’è) e chiedono subito di bloccare tutto, nuove leggi, nuove commissioni e maggiori pene (come dice Nordio). Il 31 marzo 2010, all’indomani delle amministrative, Travaglio-porta-iella, rivolto al Pd di Bersani, scriveva: «Bastava candidare gente seria e normale, fuori dal solito lombrosario, come a Venezia, dove il professor Orsoni è riuscito addirittura a rimpicciolire Brunetta». Con 400mila euro di finanziamento illecito, sostiene oggi l’accusa. Vogliamo dire che dalla palude in cui siamo non se ne esce con i moralisti e le morali. Siamo un Paese in cui non si può fare nulla. Un bar non può mettere un’insegna, un artigiano non può assumere un apprendista, un ragazzo non può fare un lavoretto, un’impresa un capannone. O meglio, tutto si può fare: ma dopo una giungla burocratica e autorizzativa. In un sistema come questo è tutto corrotto. Il Mose è corrotto perché a prendere i soldi sono i politici. Ma nelle sue fondamenta diventa corrotta, marcia, la nostra economia. Essa non è più volta a raggiungere cospicui e sani profitti, ma a sfuggire le sanzioni previste da norme, codici, regolamenti. Le interpretazioni giudiziarie sono poi talmente divergenti che il diritto diventa arbitrio e i Tribunali ruote della fortuna. È inevitabile dunque che gli investimenti dei privati nell’ultimo triennio siano diminuiti del 15 per cento e del doppio circa quelli pubblici. Ieri abbiamo scoperto che anche il Brasile ci ha superato nella produzione industriale. Con la propensione ad investire così in calo, c’è da attendersi che il futuro ci riserverà una classifica ancora più inclemente. Il lavoro, poi, lo creeremo per legge. Sulla carta. Su questo siamo i numeri uno.

L’EXPO, il Mose & The Italian Job. Per capire che quello della mazzetta è un male storico del paese ecco cosa successe negli anni '50 e '60 per l'aeroporto di Fiumicino, scrive Sabino Labia su “Panorama”. La vicenda del Mose è il classico scandalo all’italiana con tutti gli interpreti al posto giusto come nel film The Italian Job. Una grande opera da realizzare, i miliardi inviati a pioggia da gestire, i politici (locali e nazionali, di destra e di sinistra) a gestire il flusso di denaro, e una pletora di senza nome e, soprattutto, prestanome che organizzano società occulte, scatole cinesi, false fatturazioni e passaggi di denaro. A fare da spettatori a questo enorme circo di malaffare ci sono loro, gli italiani che ogni volta sperano che questa sia l’ultima. Per capire come funziona lo Scandalo all’italiana nelle grandi opere (tralasciando volutamente gli scandali legati alle ricostruzioni post disastri naturali: Vajont, Belice, Irpinia, L’Aquila etc. etc.), torniamo indietro di mezzo secolo, e più precisamente al 1961. E’ il Gennaio del 1961 e Giulio Andreotti parla dal banco del governo del Senato: “Io rispetto di più le persone della camorra perché Pupetta Maresca (la donna che uccise l’assassino di suo marito) con le sue revolverate rischia di andare in galera e ci va. Noi abbiamo nella camorra politica di certi ambienti qualche cosa di meno nobile, perché si lanciano sassi e colpi di pugnale senza rischiare niente e non mostrando mai il proprio volto”. A cosa si riferiva il Divo Giulio nel ritenere la politica peggiore della camorra? In Aula si discuteva dello Scandalo dell’Aeroporto di Fiumicino. Lo scalo romano comincia la sua storia con la posa della prima pietra avvenuta il 10 dicembre 1950. Costo previsto: 29 miliardi di lire; fine dei lavori: 1° gennaio 1960 (giusto in tempo per accogliere atleti e turisti della XVII Olimpiade). Inaugurazioni effettuate: diverse, l’ultima il 13 agosto 1974, in occasione dell’apertura della terza pista costata altri 25 miliardi di lire. Spesa complessiva finale oltre 130 miliardi. I primi problemi cominciano con la scelta del terreno. In principio era stata preferita la zona di Casal Palocco, nell’area sud-ovest molto vicina a Roma e, particolare non di poco conto, non paludosa. Troppo bello per essere vero e, infatti, così non è. L’area è di proprietà della Società Generale Immobiliare che riesce a evitare l’esproprio, evitando un notevole danno economico. A questo punto si decide di optare per la palude di Fiumicino, 1088 ettari di proprietà dei principi di Torlonia, i quali vengono generosamente ricompensati con 45 lire al metro quadro. Tanto per capire com’era il mercato nella stessa zona, sempre i Torlonia, vendevano i loro terreni ai privati a 3 lire al metro quadro e l’amministrazione statale espropriava altre aree circostanti e di proprietà di un’opera pia, a 7 lire al metro quadro. Un vero e proprio regalo. Veniamo ai finanziamenti. Inizialmente furono stanziati 4 miliardi e 450 milioni; Dopo cinque anni, nel 1955, si aggiungono altri 14 miliardi per la costruzione della pista e per tutte le opere accessorie, compresa l’aerostazione. L’8 aprile del 1959 servono ulteriori 4 miliardi e 150 milioni per completare l’opera. Trascorrono pochi mesi e, nel luglio 1959, vengono stanziati altri 4 miliardi. Anche questi soldi non bastano e, intanto, i giochi si avvicinano. Il Ministero della Difesa, guidato da Andreotti, riesce a racimolare altri 800 milioni per consentire almeno un’approssimativa apertura al traffico. A gestire questa enorme mole di denaro viene incaricato, su suggerimento dello stesso Andreotti, il colonnello Giuseppe Amici. Il cognome è tutto un programma, verranno coinvolti parenti, amici e amici degli amici. Il 20 agosto, a cinque giorni dalla cerimonia inaugurale dei XVII Olimpiade, i ministri Zaccagnini, Lavori Pubblici, e Andreotti riescono ad aprire una minima parte dello scalo dell’Urbe “Leonardo da Vinci”. La vera inaugurazione è rinviata a novembre dello stesso anno. La stampa dell’epoca comincia a svolgere alcune inchieste per cercare di capire che cosa si cela dietro i continui ritardi dei lavori. Il 5 maggio del 1961 il governo istituisce una commissione d’inchiesta che accerta le numerose irregolarità della gestione dell’opera e come il colonnello Amici, pur essendo in servizio, possedeva alcune società, delle quali facevano parte la moglie, il figlio e parenti della moglie, e che avevano un ruolo di rilievo nella costruzione dello scalo. Il 23 dicembre 1961, nella relazione conclusiva, la commissione d’inchiesta accerta ufficialmente l’utilizzo“di iniziative e procedure criticabili non sempre rispettose del pubblico denaro”. Il 14 giugno 1963 la magistratura ordinaria decide per l’archiviazione del caso. Conclusione nessun colpevole. Nelle casseforti di Montecitorio esistono numerosi documenti che accertano le colpe dei politici e che non sono mai state rese pubbliche. Il presidente del Consiglio Renzi, dopo il caso EXPO e il caso MOSE ha chiesto il Daspo a vita per i politici corrotti. La domanda sorge spontanea: visto come funziona negli stadi, siamo sicuri che possa funzionare in politica? Ai posteri l’ardua sentenza.

Ecco dove nasce la corruzione, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Le tangenti sul Mose non dicono nulla di nuovo. E' un male che parte dalla testa, la nostra. L’altro giorno mi sono messo in fila al bar per pagare un caffè e cornetto quando è arrivato un tale ben vestito che dando l’impressione di non aver visto che c’era una fila (ma non vederci era impossibile) ha elencato alla cassiera, spiccioli alla mano, quello che aveva consumato. Il tutto con un sorriso a occhi bassi di conciliazione col mondo. La cassiera ha iniziato a farlo pagare, e siccome ho protestato, è stata lei a dire subito: “Scusate, è colpa mia”. Dopo qualche secondo, il tale pretendeva anche di non aver fatto brutta figura: “Non penserà che non volevo fare la fila, mi manderà mica il cornetto di traverso...”. E la cassiera, complice: “Eh, il signore è sempre corretto”… Come il caffè. Perché racconto questo episodio minimo e così diffuso? Perché risiede qui, in questa disinvolta trasgressione delle regole in nome di qualche potere, dell’amicizia e della convenienza, il terreno fertile della corruzione piccola e grande. L’hanno scritto in tanti: non sarà certo l’inasprimento delle pene o l’aggiunta di nuove regole a sconfiggere le mazzette. La complessità del sistema aiuta i furbi, non gli onesti. Il problema è nelle nostre teste. E dico “nostre” comprendendo la mia. Anch’io ho trasgredito a qualche regola, anch’io ho approfittato di qualche vantaggio personale, non importa se su scala piccola o grande e con quali giustificazioni. Sono anch’io andato alla ricerca di qualche corsia preferenziale. Quanti di noi possono dirsi puri? Sarà il sistema, la necessità di difendersi dalle ingiustizie, il merito che in Italia conta meno di zero e “non c’è altro modo”. Sta il fatto che la società italiana è corrotta, il “magna magna” che va in scena a ogni grande evento (praticamente nessuno escluso) è solo la finale del campionato italiano della corruzione che si gioca ovunque, ogni giorno, su ogni campo e campetto. E non c’è argine o diga che tenga, per restare al Mose. La collocazione dell’Italia nella classifica della corruzione tra i paesi del G7, della UE, e del mondo, è solo lo specchio di una realtà che ha invaso il quotidiano. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Perché non c’è poi una differenza concettuale tra il piccolo favoritismo, la piccola scorrettezza o scortesia, e la grande corruzione. Soltanto dal mea culpa può scaturire la necessaria rivoluzione culturale: il disgusto per i comportamenti scorretti e l’intolleranza verso chi trasgredisce. Solo così sarà possibile riconquistare un senso della comunità. E il primato del merito. La corruzione si combatte anche come fanno in America, recitando ogni mattina il giuramento alla bandiera.

Quando si dimostra che si è tutti uguali, per i manettari tira brutta aria.

Marco Travaglio, scontro con Elisa ad AnnoUno. Elisa: "Disfattista e manettaro". Travaglio: "Non dire cretinate". Una protagonista di "Announo" si scaglia contro il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano", accusandolo di vivere solo di critiche: "Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro". Siamo nello studio di AnnoUno, il programma di Giulia Innocenzi. Ospite d'onore è Marco Travaglio, che si produce nella sua consueta filippica manettara. Lo spunto, come ovvio, arriva dalla scandalo Mose: sul Fatto Quotidiano si è spinto ad affermare che la presunzione di innocenza è ridicola. Una presa di posizione che non è piaciuta ad Elisa, una delle ragazze protagoniste della puntata di AnnoUno. "Ma la smetta di attaccare tutti, di dire che rubano sempre tutti. Se in questo paese vince Beppe Grillo io vado all'estero, ma lei che cosa fa? Di che cosa scrive?". Marco Manetta, come sempre quando viene punto, perde le staffe: "Ti piace che rubino? Ti piace che rubino i tuoi soldi?". Elisa ribatte: "Glielo dico come direbbe Sgarbi: presunzione di innocenza, presunzione di innocenza, presunzione di innocenza". Marco Manetta si contorce, e sbotta: "Per favore, ma per favore. La presunzione d'innocenza - ribadisce - è un inutile gargarismo. Se vuoi dopo te lo spiego cosa intendo, magari capisci il labiale". Poi però prende parola Silvia, un'altra delle ragazze, e continua nel solco di Elisa: continua a demolire Travaglio per la sua clamorosa inclinazione manettara. Il vicedirettore è all'angolo. E in parallelo anche su Twitter si scatena il dibattito con una pioggia di cinguetti: "#Travaglio strapazzato da due biondine", scrive Nicola di Maio. "Voglio sposare la biondina che, limpida e divertita, ridicolizza Travaglio. Non che ci voglia molto, però è sempre un piacere", rincara Massimiliano Mannino. Infine, giusto per pescare un tris di commenti dal mazzo ecco Terry: "Lo stanno distruggendo le ragazze...Travaglio hai stancato". Nello studio di AnnoUno, insomma, si viene a creare una situazione paradossale. Nel regno di Michele Santoro e di Giulia Innocenzi, sul banco degli imputati, assediato dalla giuria popolare, ci finisce proprio lui, ci finisce proprio Marco Travaglio con un vivace scambio di battute ad "Announo" del 5 giugno 2014 tra Marco Travaglio ed Elisa Serafini, una delle protagoniste del programma in onda su La7. La 26enne milanese attacca il vice direttore de "Il Fatto Quotidiano": "Lei vive di antagonismo da troppi anni, prima perché c’era Berlusconi, adesso non va niente bene perché c’è Renzi. Se vince Grillo io cambio paese, ma lei deve cambiare mestiere perché non avrebbe nessuno cui andare contro. Perché bisogna misurare la qualità di un paese sul numero di persone che vanno in galera?...Basta fare i manettari”. “Non si può essere così disfattisti…lo capisco che lui ha creato una carriera - prosegue Elisa - ma se va Grillo al governo lei deve cambiare lavoro perché non può andare contro una persona che sostiene…Ma lei vive solo di critiche?”. La risposta di Travaglio non si fa attendere: "E’ la cronaca che è disfattista, non sono io purtroppo…Secondo te il giornalista è uno che lecca il c*** ai politici? E’ uno che dice che va tutto bene quando va tutto male? Io racconto quello che succede”. Ma è quando la giovane cita Vittorio Sgarbi che il giornalista sbotta: "Ma non dire cretinate. Almeno leggi il labiale”.

Il Manifesto del Forcaiolo, scrive Filippo Facci. Marco Travaglio ha finalmente scritto il Manifesto del forcaiolo – in parte recitato ad Announo – ossia un articolo che cerca di fiancheggiare la comprensibile rabbia legata ai vari scandali, così da evidenziare i suoi autentici desideri in tema di giustizia. Darne conto è interessante, perché sintetizza che paese diventeremmo se certe soluzioni venissero effettivamente adottate: una sorta di Germania Est, coi Cinque Stelle al posto della Stasi. Intanto va segnalato che il pentastelluto Mario Giarrusso ha proposto seriamente il ripristino della ghigliottina – lo ha detto alla Zanzara, su Radio24 – spiegando pure che gli arresti domiciliari andrebbero aboliti. Diceva sul serio. Ma veniamo alle analisi e alle proposte di Travaglio.

1) Travaglio fornisce una disamina della seguente profondità: «Destra, sinistra e centro rubavano. Rubavano e rubano tutti, e insieme, sempre, regolarmente, scientificamente, indefessamente… Esiste soltanto una gigantesca, trasversale, post-ideologica associazione per delinquere che si avventa famelica su ogni occasione per rubare». Tutti. Insieme. Sempre. Quindi anche il governo delle larghe intese: «Continuano a rubare, secondo un sistema oliato e collaudato di larghe intese del furto che precede e spiega le larghe intese di governo». Il governo Pd-Ncd, dunque, serve a rispecchiare l’amicizia trasversale tra Frigerio e Greganti (Expo) o tra Galan e Orsoni (Expo). E Renzi? Ruba anche lui? No, «i suoi fedelissimi sono lì da troppo poco tempo. Ma rischia di diventare il belletto per mascherare un partito marcio». Renzi, quindi, è la copertura della gigantesca associazione per delinquere. Va rilevato che il Travaglio-pensiero – si fa per dire – è un’evoluzione recente: nel 2010, sul Fatto, elogiava il piddino Giorgio Orsoni (ora arrestato) definendolo «persona seria e normale».

2) Adesso però è cambiato tutto, e le garanzie democratiche e costituzionali andrebbero sospese. Lo scrive Travaglio, e tra le righe non si scorge alcun tono satirico: «L’art. 27 della Costituzione, quello della presunzione di non colpevolezza, diventa una barzelletta se si leggono le carte delle indagini… non c’è bisogno della Cassazione, e nemmeno della sentenza di primo grado, per capire che rubavano davvero». Basta Il Fatto Quotidiano che legga per noi le carte: carte infallibili scritte da pm infallibili, come dimostra la storia giudiziaria italiana. C’è da sentirsi tranquilli.

3) La terza proposta è di conseguenza: «Cacciare ogni inquisito dai governi locali e nazionali». È sufficiente essere inquisiti e non importa per che cosa: anche per atto dovuto, anche per una qualsiasi delle scemenze per le quali in Italia non esiste politico che non sia stato inquisito almeno una volta: o condannato, come Grillo, o come Travaglio. Del resto «a certi livelli non esistono innocenti, solo colpevoli non ancora presi», scrive il nostro. Bene. Si allarga il clima di fiducia.

4) Anche la quarta proposta è di conseguenza: «Radiare dai contratti pubblici tutte le imprese coinvolte in storie di tangenti». E siccome «in storie di tangenti» sono state coinvolte praticamente tutte le più importanti aziende italiane ed estere (comprese Eni, Finmeccanica, Fiat, Autostrade, Coop) i lavori della Salerno-Reggio Calabria saranno conclusi da Casaleggio via internet.

5) Ma è un falso problema, perché prima c’è altro da fare: «Cancellare le grandi opere inutili ancora in fase embrionale, dal Tav Torino-Lione al Terzo Valico». C’è uno scandalo a Venezia e allora rinunciamo alla Torino-Lione, che è in fase embrionale come può esserlo un ragazzino di 14 anni. Non è un discorso pretestuoso, no.

6) Ma restiamo allo stato di polizia che piacerebbe a Travaglio. Che cosa servirebbe? Questo: «Introdurre gli agenti provocatori per saggiare la correttezza dei pubblici amministratori… imporre a chi vuole concorrere ad appalti una dichiarazione in cui accettano di essere intercettati, a prescindere da ipotesi di reato». Viene il sospetto che Travaglio abbia visto «Americam Hustle» o, più indietro nel tempo, «Le vite degli altri». E resta la curiosità di sapere che cosa accadrebbe nel nostro Paese se, oltre alle mazzette vere, ci fossero anche quelle false offerte da agenti provocatori e cioè corruttori: questo nello stesso Paese post-sovietico in cui chiunque partecipasse a un appalto (anche quello per la fontana del paesello) dovrebbe mettere a disposizione del maresciallo tutte le proprie conversazioni e dunque quelle dei suoi amici e familiari. Molto bello.

7) Il problema è che in galera c’è poca gente: occorre «piantarla con le “svuotacarceri”, costruire nuovi penitenziari e, nell’attesa, riattare caserme dismesse per ospitare i delinquenti che devono stare dentro». È così semplice. È la scuola dell’amico Piercamillo Davigo, già ispiratore anche della battuta sui colpevoli non ancora scoperti: in Italia ci sono pochi detenuti in rapporto alla popolazione, diversamente dagli Stati Uniti. Ma segnaliamo un problema: Usa e Italia adottano sistemi diversi. Comunque tutto si può fare: ma bisognerebbe, anche qui, cambiare la Costituzione.

7) Nell’attesa, si possono «radere al suolo tutte le leggi contro la giustizia targate destra, centro e sinistra degli ultimi 20 anni». Tutte. Proprio tutte. Soprattutto quella che bruciò di più alla magistratura, cioè la riforma dell’articolo 513 che costrinse a cambiare la Costituzione nel 1999: si tornerebbe, cioè, a quando un accusatore poteva tranquillamente denunciare chicchessia, patteggiare una pena simbolica e quindi uscire dal processo senza neanche presentarsi in aula per confrontarsi con la persona che aveva accusato. Very Germania Est.

8) «Tutto il resto non è inutile: è complice».

9) Per qualche misteriosa ragione – scrive infine, cioè: in realtà lo scrive all’inizio – dopo lo scandalo di Venezia dovremmo tutti chiedere scusa a Beppe Grillo: «Milioni di persone perbene – elettori, giornalisti, intellettuali, eventuali politici e imprenditori – dovrebbero leggersi l’ordinanza dei giudici di Venezia e poi chiedere umilmente scusa a Beppe Grillo e ai suoi ragazzi». Perché? Travaglio non lo spiega, se non deplorando gli «anni e anni sprecati ad analizzare il suo linguaggio, a spaccare in quattro ogni sua battuta, a deplorare il suo populismo, autoritarismo, giustizialismo… intanto destra e sinistra e centro rubavano» Tutti. Insieme. Sempre. Travaglio ne approfitta per correggere la rotta sull’alleanza grillesca con Nigel Farage: «L’abbiamo denunciata anche noi, ed era giusto farlo, ma in un paese normale: dunque non in Italia». Traduzione: c’è stato lo scandalo del Mose e allora Grillo potrebbe anche allearsi con Farage. Travaglio l’ha deciso mercoledì. Martedì aveva scritto il contrario.

Grillo rischia di far scoppiare la coppia Santoro-Travaglio. Santoro: "Beppe senza autorità morale per dire chi è buono e chi è cattivo", scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. I giornalisti sono stati convocati per parlare di Announo, il nuovo programma di approfondimento condotto da Giulia Innocenzi, che da giovedì, ospite Matteo Renzi, prenderà il posto di Servizio pubblico. A ben guardare, però, tira aria di rifondazione anche per il talk show di Michele Santoro: un nuovo inizio, una ripartenza, forse anche con un nuovo nome e qualche novità nella squadra. Del resto, Todo cambia: in politica, nell'informazione, nel rapporto con i leader, con Grillo, Renzi, la sinistra. Un cambiamento che potrebbe comportare anche la separazione tra l'ammiraglio e il suo bombardiere più agguerrito. «Fino a qualche tempo fa era tutto chiaro, il cattivo era riconosciuto», spiega Santoro. «Di fronte a Berlusconi, io e Travaglio eravamo uniti, anche se io ero su posizioni più liberali... Ora chi è il cattivo?». Travaglio sta con Grillo, Santoro no. Inoltre, anche sul piano televisivo assistiamo a un cambiamento profondo: «E io pensavo che Servizio Pubblico fosse un ciclo finito. Ma Cairo, con cui c'è stato un confronto serrato, ci ha chiesto di continuare anche per l'anno prossimo. Sono stato contagiato dalla sua voglia e ho deciso di accettare». Tanto più che «La7 è il vertice dell'indipendenza e sono onorato di lavorare in una rete in cui nessuno mi dice che cosa devo fare». E la Rai? «Se mi offrisse di fare un programma, anche simbolico, tipo Trasmissione zero, lo farei, perché no? È un lungo pezzo di storia professionale...». Ma di ritorni, per ora non si parla. Della necessità di cambiare Servizio pubblico invece sì. La riflessione era già in atto. E l'attacco di Grillo ha fatto da detonatore. «Mi auguro che dismetta i toni illiberali. Che impari a rispettare il lavoro dei giornalisti», afferma Santoro. «Contro Vauro ci sono stati toni inaccettabili, fino alle minacce, innescate da una forza politica che avrebbe il dovere di dissociarsi. Il mio amico Travaglio dice che la Rete si esprime così. Io temo che si trasformi in una grande Piazza Tahrir, anti-istituzionale a prescindere. Grillo è il Berlusconi del web», dice al Giornale il conduttore che con il Cav ospite ha fatto il record storico: «Ti restituisce quello che prende da lì, sull'immigrazione, sulla Tav... Fa il suo mestiere, ma non ha l'autorità morale per dire chi sono i buoni e i cattivi. Usa anche il gossip per colpire i presunti avversari... Si è creata una combinazione mostruosa Casaleggio-Dagospia. Ora non voglio disturbare la sua campagna elettorale, ma una volta terminata, potrei andare anch'io nelle piazze a raccontare come stanno le cose. Sarebbe un'operazione di legittima difesa e per la libertà di stampa». In difesa, Santoro gioca anche a proposito di crisi «dei cosiddetti talk show». È la tv generalista a essere in crisi, dieci anni fa Rai e Mediaset facevano il 90 per cento di share ora arrivano al 60. E poi, mostrando uno studio dell'istituto di ricerche Barometro, sottolinea che «nella storia di La7 Servizio pubblico compare in 4 posizioni della top 5, in 6 della top 10 e in 15 tra le prime 20 (in share, ndr), mentre nell'ultima stagione ricopre le prime sedici posizioni (in valori assoluti, ndr)». Se quest'anno c'è stato un calo è perché «ora lo spettatore ha un rapporto diverso con la politica». Alla maggioranza del pubblico interessa capire se Renzi ce la fa o no. Per il resto «siamo invasi da replicanti della politica. Ma anche i big hanno un richiamo limitato: Grillo da Mentana non ha fatto il botto... Lo stesso Berlusconi forse non ha piacere a tornare da noi, perché dovrebbe misurarsi con il 34 per cento dell'anno scorso. Magari avrà più interesse ad andare nel programma di Giulia. Certo, è stato invitato; come pure Grillo». Che però andrà da Vespa. «C'è la campagna elettorale e se gli serve fa bene... Ma mi pare una sconfitta, un'incoerenza. Tra dire che la tv è morta e poi andare da Vespa...», punge Santoro, dribblato dallo Sciamano pentastellato. «In realtà, la tv si mostra centrale anche quando nei blog si parla per una settimana dell'operaio ospite di Servizio pubblico e per prendere i voti di Berlusconi si attacca il Pd e la nuova peste rossa». Insomma, tutta colpa di Grillo e dei politici se i talk vanno così così. E un po' di autocritica di voi televisivi? «Ci siamo adagiati sul fatto che la temperatura esterna garantiva il successo delle nostre trasmissioni. Ma adesso si riparte...». Auguri.

Michele Santoro: "Travaglio? Occhio al fondamentalismo...scrive " Libero Quotidiano”. Su Il Fatto Quotdiano viene intervistato Michele Santoro. Si parte da AnnoUno, la trasmissione della santorina Giulia Innocenzi che ha sbancato in termini di share. Il teletribuno fa i complimenti alla sua creatura, afferma di essere sempre stato sicuro del fatto che avrebbe bucato lo schermo e si spinge ad affermare che "la tv cambia", e dunque "AnnoUno è già il futuro". Ma il piatto forte arriva quando nell'intervista Santoro parla di Beppe Grillo e, soprattutto, di Marco Travaglio. Si parte da una riflessione sul guitto ligure: "Non possiamo continuare a pensare che Grillo sia una specie di Masaniello che urla per dire qualunque sciocchezza. Dobbiamo valutarlo per quello che è: un leader politico, che deve avere una visione". E da queste considerazioni il discorso passa in scioltezza al leader grillino su carta stampata, Marco Travaglio appunto, il vicedirettore del Fatto Quotidiano che è il primo megafono del leader pentastellato. Un'adorazione, quella di Travaglio per Grillo, che Michele non riesce a digerire, tanto che negli ultimi giorni, dopo alcune parole sibilline del conduttore di Servizio Pubblico, si è cominciato a parlare del possibile divorzio tra Santoro e Marco Manetta. Così, parlando proprio con Il Fatto, in un significativo cortocircuito, Santoro dice la sua sul vicedirettore della testata. Il rapporto con Travaglio? "Un rapporto di grandissima amicizia prima di tutto, di stima smisurata sotto il profilo professionale. Ma il vero punto - si chiede Santoro - è cosa dobbiamo fare? Agire per il crollo del sistema o per la rigenerazione?". Il teletribuno mostra di non avere particolari dubbi: "Non possiamo sposare quello che fa Renzi, ma neanche quello che fa Grillo. No, non dico Marco abbia perso la sua indipendenza. Sarebbe una banalizzazione. Penso semplicemente che Marco sia portato a vedere tutto quello che sta fuori da questa piazza Tahrir come un'elemento che non contenga tanti spunti positivi. La sua è una visione pessimistica sul mondo politico organizzato. Lui - prosegue nella tirata - è come se pensasse che non è che si può stare in mezzo, bisogna stare dentro quella piazza. Però - attacca Michelone - stando dentro piazza Tahir il rischio è il fondamentalismo al governo. E' una differenza di analisi, non è una cosa banale che contrappone Santoro e Travaglio". Dunque, continua il conduttore di Servizio Pubblico, "nel momento in cui, quando andremo a disegnare un nuovo programma, questa differenza di valutazione di approccio è giusto che venga fuori, si confronti, insieme tracciamo la strada di come deve essere fatto un programma diverso da quello che stiamo facendo tutti e due". La domanda si fa poi più esplicita: "Marco - chiede Peter Gomez - quindi se ha voglia parteciperà al tuo programma il prossimo anno?". La risposta: "E' possibilissimo, ma potrebbe anche essere possibile per esempio che avendo io delle carte in mano da giocare, diverse da quelle del programma, perché non pensare che ci possa essere un programma di Marco. Magari con il mio aiuto". O magari no. Ma questo Santoro non lo dice. Quello che ha detto, al contrario, sembra un po' un benservito di lusso al "fido" Travaglio. Il divorzio è stato ormai consumato?

Santoro non nasconde il comunista che è in lui.

Santoro: "Resto un vecchio comunista". Il conduttore parla della Rai e del taglio di 150 milioni paventato da Renzi, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Michele Santoro si scaglia contro Matteo Renzi. Il tema del contendere è quello della Rai e del taglio voluto dal premier. E se viale Mazzini indicesse uno sciopero, il conduttore di Servizio Pubblico non esiterebbe ad aderirvi: "Perché sono un vecchio comunista e se il mio sindacato me lo chiede io non faccio il crumiro", spiega Santoro in una intervista a Repubblica. Sul taglio di 150 milioni dice: "Significa imporre tagli lineari, costringere l'azienda a ridimensionare il prodotto. Ma Renzi, che ha nell'intuito la sua più grande dote, ha capito che la Rai è l'ultima sopravvissuta del vecchio sistema politico e i tagli sono un modo per destabilizzare tutto. Nel senso che Grillo si è messo a difendere lo sciopero passando così come l'alfiere del passato, col "vecchio" Pd e Forza Italia che hanno fatto alleanza mentre lui li osserva dall'altra parte. Un capolavoro politico". Infine, sul taglio agli stipendi di Vespa e Floris spiega: "Pura demagogia, se non hai Maradona, lo stadio non lo riempi, così senza Celentano non fai audience".

IN GALERA....!!!!!! IN GALERA.....!!!! I VIZIETTI DEI MORALISTI.

"Non posso attaccare la magistratura e il Capo dello Stato perché in quel caso mi si dice, "scherzi col fuoco", e basterebbe un passo falso per essere consegnato ai domiciliari o a San Vittore". Lo afferma Silvio Berlusconi alla convention FI a Roma aggiungendo che, della sentenza, "è la cosa che mi pesa di più".

“Non riesco a togliermi dalla testa quella foto di un deputato grillino che con le mani mima le manette contro un deputato che da lì a poco sarebbe stato arrestato. Venti anni fa i deputati della Lega portarono in parlamento la corda per simboleggiare la forca. Ora ci sono i manettisti. La differenza è che la Lega aveva il 6%, grillo ha il 25% e la situazione è molto più pericolosa”. Lo scrive su Twitter il deputato del Pd all’Assemblea regionale siciliana, Antonello Cracolici. “La forca è sempre stata la scorciatoia che i populisti di ogni tipo hanno sempre inneggiato. Guai se perdiamo di vista i sacri principi della civiltà giuridica e ciò che è a fondamento della democrazia: lo stato di diritto. Il populismo – conclude Cracolici – è solo l’anticamera del fascismo. Non facciamoli prevalere”.

In galera! Scrive Christian Raimo su “Il Post”. Non avrei mai pensato di far parte di una nicchia di persone, di una nicchia sempre più ristretta del resto, composta essenzialmente di persone di destra. Ma il pezzo di Guido Vitiello oggi sul Foglio e l’articolo di Filippo Facci sul Post, giornalista di una testata che ho per anni considerato un fogliaccio come Libero, convergono su una verità tanto evidente che la loro disillusione non è più nemmeno provocatoria: in Italia il garantismo è morto. “In galera! In galera!” è l’unico valore condiviso sul quale, in quella ottusa cultura politica che è stato l’antiberlusconismo, abbiamo trovato a sinistra un collante comunitario. (Andate a rivedervi le immagini del 2009 del No Berlusconi Day, per vedere qual è stato in tempo recente il milieu di questa anti-educazione politica). Così il garantismo – diventato a sinistra una cultura ultraminoritaria, ancora di più nel Pd azzerato dalla canonizzazione dei pm da Tangentopoli in poi e da vent’anni di deriva persecutoria di giornalisti che hanno trovato erotizzante la mostrificazione degli indagati – viene di fatto associato con la connivenza. Senza rendersi conto a sinistra che la gestione ideologica, autoassolutoria, da Stato Etico, della giustizia, proprio a partire del Pool di Mani Pulite, è stata funzionale al formarsi del consenso leghista e berlusconiano, oggi replicano l’errore inseguendo Grillo nella battaglia moralizzatrice. Se a scuola fai l’insegnante di educazione civica (come me), hai voglia a spiegare l’habeas corpus, i tre gradi di giudizio, i principi costituzionali, la separazione dei poteri, la funzione educativa del carcere… Potresti semplicemente sostituire questa fatica con il recitare in classe qualche editoriale di Travaglio; non sono pochi i colleghi che lo fanno. Vitiello e Facci segnano il tempo della resa semplicemente giustapponendo la notizia dell’arresto di Francantonio Genovese con la sentenza che scagiona gli accusati di Rignano Flaminio. Si pongono domande semplici. 1) Era necessario l’arresto di Genovese? C’era il rischio di reiterazione del reato? Di inquinamento delle prove? No. O meglio, chi lo sa. Le carte non si leggono. Si vota di pancia, per strategia, se non per criterio lombrosiano, sperando di mondare la comunità con un dispositivo che – anche di fronte a un probabile colpevole – se ne frega delle garanzie e cerca la purificazione nel sacrificio del capro espiatorio. Il risultato, misero, è che in assenza di una classe politica che sappia creare dei gruppi dirigenti credibili, l’unica forma di selezione e rinnovamento avviene attraverso i tempo ciclici degli arresti. 2) Come si comportavano i giornali nel 2007 al tempo delle prime pagine su presunti pedofili di Rignano Flaminio? Anche qui, inscenavano perfetti riti di persecuzione spacciandole per inchieste. Qualcuno di quei giornalisti ha chiesto scusa? Qualcuno di quei direttori si è preso la responsabilità di quell’accanimento terribile? No. Ma c’è una storia più controversa per dar conto della quale mi rendo conto mi arrendo a far parte di una minoranza ancora più esigua e della quale non credevo di ritrovarmi: i difensori di Fabrizio Corona. Due giorni fa è arrivata la sentenza della Cassazione che conferma la condanna a quindici anni, dichiarandolo “socialmente pericoloso”, uno tutto da punire perché preso da “frequentazioni criminali e atteggiamenti fastidiosamente inclini alla violazione di ogni regola di civile convivenza”. Quindici anni per Corona: un’assurdità per me. Per me che sosterrei l’abolizionismo, o almeno la battaglia contro l’ergastolo, o almeno l’amnistia, o almeno l’indulto, e che – in questa difesa progressivamente al ribasso dei diritti degli individui – mi ritrovo a difendere Corona. Un cazzaro, arrogante, bullo, epidermicamente odioso… che invece non riesco a non difendere. Insieme, per dire, a quelli che sul suo profilo Facebook commentano: “Se a Corona è stato usato un provvedimento così restrittivo allora che si taglino i genitali ai pedofili!!!!!!!! Mi fa skifo questa Italia corrotta”. Messo in un cul-se-sac, stretto dalla manovra a tenaglia di un esercito di giacobini senza ideali, mi ritroverò – con questo andazzo – in minoranze ad un certo punto talmente esclusive che finirò, come Groucho Marx, a vergognarmi anche di me stesso: e a volerli mandare in galera, i membri di un club che accetta tra i suoi soci uno come me.

La sinistra giustizialista, pseudoambientalista, cigiellista, antipatica, nannimorettista e rancorosa, è soprattutto vittima di se stessa, scrive Diego Gabutti su “Italia Oggi”. Negli ultimi trent'anni, dalla «questione morale» in avanti, la sinistra italiana vincente, quella che nei primi novanta ha trionfato sul partito socialista esiliandone il leader in Tunisia e spargendo sale sulle rovine delle sue sezioni, ci ha regalato due mostri, prima il partito di plastica, poi il Movimento 5 Stelle. Se la sinistra postcomunista, invece di restare fedele (come in tutta la sua storia, dalla Rivoluzione d'ottobre alla caduta del Muro di Berlino) all'ideale stalinista della giustizia sommaria, avesse contrastato, com'era ed è ancora necessario, le pretese della magistratura, decisa a trascinare in tribunale l'intera classe dirigente per rifare l'Italia a nuovo, ci sarebbero stati risparmiati prima vent'anni di leghisti e di fascisti, di bunga bunga, di liberalismo tarocco e ora non ci toccherebbe ripararci la testa da una grandine di «vaffanculo», di «siete tutti morti», di «salari di cittadinanza», di complotti, di «fuori dai coglioni», di sirene e altre balle. Ma è andata com'è andata, e ciò che è stato non si disfa. Adesso, però, che fare? «Nelle Catene della sinistra. Non solo Renzi. Lobby, interessi, azioni occulte di un potere immobile», Rizzoli 2014, pp. 306, 16,00 euro, ebook 9,99 euro, un libro che, ai piani alti del partito democratico, dovrebbe essere mandato a memoria come le poesie di Natale alla scuola materna, il redattore capo del Foglio Claudio Cerasa spiega dove la sinistra rococò (giustizialista, pseudoambientalista, cigiellista, antipatica, «nannimorettista» e rancorosa) continua a sbagliare e quali sono di preciso le catene di cui si deve liberare se vuole vincere le prossime elezioni politiche, quando ci saranno, rottamando, dopo D'Alema, Bersani, Bindi e gli altri dinosauri di partito, anche Beppe Grillo e Silvio Berlusconi. Non sarà facile. Da un pezzo, infatti, la sinistra italiana non è più di sinistra.. Una volta abbracciato «il legalismo, diventa la bussola del riformismo morale, si occupa meno degli interessi materiali, degli operai, delle fabbriche, e inizia a essere la portavoce del partito law and order». La questione morale, cioè «il moralismo come surrogato del riformismo», è dunque la prima catena da spezzare. Spiega un dirigente del Ps che desidera restare anonimo: «C'è un nesso strutturale tra la sinistra imborghesita che diventa élite e la sinistra antindustriale che diventa schiava del falso salutismo, della generazione lenta, della decrescita felice, della slow life». E Sergio Signorino, presidente della Coldiretti e ambientalista deluso dal falso ambientalismo: «Oggi si fa marketing con il catastrofismo e la paura». C'è di peggio, infine, del partito dei giudici e persino del partito dell'ambiente: il partito della cultura, «dove gli attori si confondono con i politici, i politici con i registi, gli scrittori con i leader, i leader con gli editorialisti, i registi diventano editorialisti, i leader scrittori e gli ex segretari di partito si trasformano in registi. E così, il partito della cultura, oplà, più che il portavoce della sinistra, ne diventa la stessa voce». Sgombrare il solaio della sinistra da tutte queste ragnatele è facile a dirsi. Meno facile a farsi, anche da parte della sinistra «Bim Bum Bam» di Matteo Renzi. Né Grillo né Berlusconi hanno l'aria d'essere disposti ad arrendersi senza combattere. Gli ex e i post, da parte loro, continuano a sognare di tornare sulla breccia. D'altra parte, non c'è ormai che la sinistra. Grillo e i suoi fenomeni da baraccone non sono spendibili politicamente e, quanto al personale politico berlusconiano, non cambierà mai (se cambiasse, cambierebbe in peggio). Restano i «borghesi», le classi alte, i sciur, ma sui «borghesi», come Indro Montanelli ha passato la vita a spiegare, non c'è da fare conto: il migliore di loro è un Caimano.

I vizietti dei moralisti. Da una parte le accuse di pagamenti in nero a Grillo, dall'altra il secondo stipendio di Scalfari mai denunciato al Fisco, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Vabbè che siamo in campagna elettorale, passi che la guerra civile politica, mediatica e giudiziaria che ha segnato gli ultimi vent'anni non dà segni di tregua. Però non è che noi cittadini elettori siamo proprio dei gonzi obbligati a bere qualsiasi panzana. Mi riferisco a due dei tanti santoni che pontificano distribuendo giudizi di moralità e rettitudine a noi poveri scolaretti. Il primo è il novello moralizzatore Beppe Grillo, il secondo è Eugenio Scalfari, fondatore e guru della Repubblica, il quotidiano di De Benedetti che in questi giorni sta pateticamente tentando di convincere i suoi lettori che Silvio Berlusconi è anche il capo della cupola che gestiva gli affari di Expo. Partiamo da Grillo. Ogni giorno urla che chi non sta con lui è un servo, che gli altri politici sono tutti una manica di ladri e mascalzoni, che lui è il faro, la luce da seguire per redimersi. Sarà. In America, quando uno si candida a guidare il Paese, la sua vita viene passata ai raggi X dalle scuole elementari in avanti: marachelle, amanti, dichiarazioni dei redditi. Di tutto deve rispondere. Per Grillo invece deve valere l'autocertificazione. Lui è puro per definizione. È noto che ha sulla coscienza tre amici morti, tra i quali un bambino di 9 anni (saltò vigliaccamente giù dall'auto che stava guidando prima che precipitasse in un burrone). È noto che aderì al condono fiscale del governo Berlusconi del 2003. È invece meno noto che aveva il vizietto di farsi pagare in nero le sue esibizioni di comico. Riporto un passo dell'articolo uscito sul Secolo XIX di Genova il 17 aprile 2011 e passato del tutto inosservato. Renato Tortarolo, autorevole collega (una vera autorità nel campo del giornalismo che segue il mondo dello spettacolo), intervista Lello Liguori, re degli impresari italiani, uno che dava del tu a Sinatra e che si districò (con qualche ammaccatura) in anni difficili tra i capricci delle star e le minacce dei boss della mala che assediavano i locali e le balere, comprese le sue. Dice Liguori, che di Grillo fu uno degli scopritori: «Detesto Grillo, perché va in giro a fare il politico e sputtanare tutti quanti ma quando veniva da me, carte alla mano, si faceva dare 70 milioni: dieci in assegno e sessanta in nero. Tranquillo, ho i testimoni». Né Tortarolo né Liguori sono mai stati querelati da Grillo per diffamazione in seguito a questa frase. «Non può farlo - ci dice oggi Liguori -, sarebbe per lui un autogol». Dunque Grillo avrebbe fatto evasione fiscale. In quelle occasioni e probabilmente non solo. Sarebbe infatti interessante che il comico-guru spiegasse come mai, in anni molto più recenti, si affidò a una società di San Marino per farsi pagare i compensi delle sue serate nei casinò e negli alberghi dell'ex Jugoslavia. Può esibire le fatture di quelle prestazioni in linea con i pagamenti dei committenti? Vedremo. Del resto, che le star dello spettacolo, soprattutto in anni passati, viaggiassero fiscalmente in una zona grigia è cosa risaputa. Nessuno di loro però si è mai messo a fare il fustigatore. Questione di coerenza, e di dignità. Doti che paiono mancare anche a Eugenio Scalfari, quello che si «vergogna - come ha scritto un paio di settimane fa - a vivere in un'Italia berlusconiana» e che ritiene «insufficiente» la condanna di Berlusconi. Detto da uno che per anni - come risulta - ha percepito dal suo editore due stipendi per centinaia di milioni di lire ma dei quali solo uno era denunciato e quindi conosciuto al fisco, fa vera tristezza. Evasione, quindi, oggi prescritta per carità. Come sempre accade per i grandi moralizzatori e i piccoli uomini che tengono bordone alla sinistra e ai magistrati.

Le reticenze ipocrite del Pd sul compagno G. Tutti, da Renzi a Poletti, guardano dall'altra parte come se Primo Greganti fosse un ufo, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”. C’è una curiosa, curiosissima lettura dello scandalo esploso con gli arresti per gli appalti di Expo 2015. E c’è, soprattutto, una gigantesca omissione (omertà, stavo per dire) sul ruolo di Primo Greganti, il granitico compagno G, legato a doppio filo con la sinistra, che segnò Mani pulite negli anni Novanta. La curiosissima lettura risiede nel fatto che dagli attuali dirigenti del Pd non è giunto uno straccio di autocritica sulle disinvolte scorribande criminali contestate al compagno G, mentre la gigantesca omissione consiste nel fatto che i medesimi dirigenti del Pd fingano di non sapere quanto attuale e profondo sia il legame tra il faccendiere e il partito. Il primo a voltarsi dall’altra parte e fischiettare come se nulla fosse è il segretario, cioè Matteo Renzi, seguito a ruota dal suo ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, presidente della Lega delle cooperative fino a febbraio scorso, quando il premier lo volle fortissimamente al governo. Eppure, a Renzi, campione di moralismo a parole, sarebbe bastato leggere le prime pagine dell’ordinanza di custodia cautelare emessa dal giudice di Milano. A pagina 2, per esempio, Greganti è definito persona di «raccordo con il mondo politico». Per capire di quale «mondo politico» si parli basta arrivare a pagina 23 dove si scopre che Greganti è «legato (verbo presente, non trapassato remoto, ndr) al mondo delle società cooperative di “area Pd” ». Che faceva? Garantiva, dice il giudice, «la fondamentale attività di “copertura” e “protezione” politica in favore sia degli imprenditori (..) sia dei pubblici ufficiali». E lo faceva, spiega il magistrato, grazie «all’attuale capacità di relazione e influenza e alla riconosciuta caratura politica». Bastano queste poche frasi espunte dal compendio del malaffare cresciuto all’ombra di Expo per desumere che, a parere della Procura di Milano e del giudice, Greganti fosse l’uomo che le coop usavano scientemente per ottenere appalti in barba alle regole e soprattutto grazie al fatto che lui assicurasse – fino al momento dell’arresto e cioè quando Renzi era già saldamente alla guida del Pd – «copertura» e «protezione» politica in nome e per conto del Partito democratico. A fronte di queste, gravissime accuse, né il segretario-premier né il suo ministro del Lavoro già presidente di Legacoop hanno avuto un sussulto di imbarazzo o di rossore. Renzi si è esercitato nell’arte in cui eccelle: ha fatto casino e ha buttato la palla altrove. I suoi «fedelissimi», a cominciare dai gggiovani tuttidiunpezzo che gli fanno corona in segreteria, gli sono andati dietro come pecorelle. Noi, spiacenti, questa sbobba non ce la beviamo. E a Renzi diamo un consiglio, ovviamente non richiesto: invece di dirottare il dottor Cantone, già pubblico ministero antimafia, sulla task force anticorruzione per l’Expo, gli chieda di attivarsi per fare pulizia all’interno del suo partito. I sotterranei del Pd custodiscono ancora, come dimostra Greganti, troppe collusioni e troppe compromissioni. Chi si aspettava dal nuovo segretario anche la rottamazione del più vecchio vizio della politica, quello di rubare, non può che rimanere deluso. Sul torrione del Nazareno sventola ancora, alta e arrogante, la bandiera dell’ipocrisia.

Zanda, la "Cernia" del Pd moralizzatore a senso unico. Il premier, oggi a Napoli, costretto allo scontro frontale con Grillo. E teme l'effetto antipolitica anche su regionali e amministrative, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Dopo la scomparsa di Francesco Cossiga, di cui è stato per decenni un satellite, Luigi Zanda ha dovuto fare da sé. Così, da tre anni e mezzo, il senatore Pd si è dato un nuovo look, dentro e fuori. Da garbato e quasi timido, Luigi si è trasformato in un saccentone politico perdendo quella finezza che era il suo fascino. Il peggio, per un balente sardo di nobili lombi, l'ha mostrato maramaldeggiando a budella intorcinate contro il Berlusca, ferito dalla sentenza di condanna. Da capogruppo del Pd al Senato, Zanda è stato tra i massimi artefici della decadenza accelerata del Cav da senatore. Per di più, stravolgendo il regolamento, ha preteso il voto palese per essere sicuro di dargli il colpo di grazia. Il tutto condito dai toni selvaggi dei giustizialisti portatori di virtù. Non è stato un bel vedere. Per un gentiluomo del suo rango che avrebbe potuto comportarsi con classe e umanità, scendere al livello di un Totò Di Pietro, sia pure alfabetizzato, è una caduta di stile che lo relega irrimediabilmente nel campo boario della politica mugghiante. Anche l'aspetto esterno dello Zanda postcossighiano è molto mutato. Ha infatti adottato un taglio di capelli corti, drizzati come tanti punteruoli, che gli ha guadagnato il nomignolo di «Cernia» da parte dei colleghi. La cresta, così simile appunto alla pinna dorsale del prelibato pesce, conferisce al Nostro un'aria severa che, sommata al viso grifagno, lo fa sembrare il commissario politico di uno sceneggiato tv. Nato a Cagliari 71 anni fa, Luigi è figlio di Efisio Zanda Loy, capo della polizia nei primi anni '70. Per questa via - già trentenne e dopo un tirocinio all'ufficio legale dell'Iri - la Cernia approdò al Viminale dal corregionale Cossiga, ministro dell'Interno dc. Ne fu il portavoce e il confidente, tanto più fidato per legami familiari e la comune democristianità. Ma, soprattutto, per l'innata riservatezza del Nostro. Uno dei misteri, minori ma meglio conservati, è per quale ragione abbia tolto il Loy del suo doppio cognome. Mai data una spiegazione, nonostante Cossiga, finché visse, abbia sempre ostentatamente parlato di lui come Zanda Loy. Va detto che anche i suoi fratelli, tra i quali il giornalista Carlo, autore di un affascinante libro su Hermann Hesse, hanno ripudiato la trisillabica appendice, come già fece il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, cancellando Cascio dal suo cognome. Ma un segreto ben più grande è chiuso nella memoria di Luigi. Quello della vera storia di Aldo Moro, rapito e ucciso quando Cossiga era all'Interno e Zanda al suo fianco. Luigi è probabilmente l'ultimo testimone di quella vicenda dall'osservatorio migliore. Fu lui il primo del Viminale a ricevere la notizia della «seduta spiritica» di Romano Prodi, che indicava in Via Gradoli la prigione di Moro. Poiché nessuno ha mai creduto alla storia dei fantasmi, sarebbe interessante sentire da Zanda come andarono davvero le cose, se ci furono trattative in Italia e all'Estero e la ragione per cui copra la balla di Prodi. Potrebbe illuminarci in nome della moralità che invoca sempre negli altri. Chiudendo però un occhio sulla sua, come vedremo in seguito. Zanda, al pari di tutti coloro che vivono tra politica e affari, è un lobbista, inteso come affiliato a gruppi di potere uniti da sottintesi e complicità. Terminata la convivenza con Cossiga, pur restando nella sua orbita, la Cernia si legò a Carlo De Benedetti ed entrò nel cda del gruppo Espresso. Vi rimase un decennio, gettando le basi di un rapporto che dura tuttora. La Cernia, infatti, si abbevera quotidianamente al verbo di Repubblica, ne realizza la linea in Parlamento e riceve, in cambio, interviste e appoggi. Il giro è lo stesso di Prodi che, da presidente Iri, favorì De Benedetti nella vicenda Sme. Anche queste son cricche, ed è perciò una pia illusione che, nel caso Moro, Luigi tolga il velo alle fantasie spiritiche di Romano. Dopo diverse attività politico-manageriali - responsabile del Mose a Venezia, del Giubileo a Roma, nel cda Rai - Luigi ha sentito il bisogno di stabilità. L'occasione si presentò nel 2003 con la morte del senatore del collegio di Frascati e le conseguenti elezioni suppletive. La Cernia si candidò col centrosinistra (Margherita) e, per facilitarne l'elezione, si mosse Cossiga. Secondo una ricostruzione mai smentita, il Picconatore pregò l'amico Berlusconi, allora premier, di non ostacolare la vittoria del suo pupillo. Il Cav, tre volte buono, accettò. Fu così che il centrodestra finse di non trovare le firme necessarie per candidare a Frascati un proprio uomo e Zanda rimase l'unico in lizza. Prese la totalità dei suffragi, ma con la più bassa percentuale di partecipazione al voto della storia d'Italia: il 6,47 per cento degli aventi diritto. In pratica un laticlavio in dono, come quello di Caligola al suo cavallo, per la dabbenaggine del Cav, poi ripagato come sappiamo. Nelle sue ormai quattro legislature, Luigi si è distinto per moralismo. Una volta si scagliò contro la semplice ipotesi che il Cav potesse essere fatto senatore a vita. «In 67 anni di Repubblica non è stato mai nominato nessuno che abbia condotto la propria vita come Silvio Berlusconi», sentenziò, pensando al bunga bunga. Gli avrebbe ficcato una polpetta in bocca il suo stesso capo, Pier Luigi Bersani, che lo zittì all'istante, consapevole che tra i senatori a vita c'erano fior di viziosi e cocainomani. Nel 2010, il Cernia chiese le dimissioni di Gianni Alemanno da sindaco di Roma colpevole di avere raccomandato l'ingresso di suoi protetti in aziende comunali. Poi si scoprì che tre anni prima - con Veltroni sindaco - aveva fatto lo stesso lui. Fu infatti scovata una sua lettera, su carta intestata del Senato, diretta a Giovanni Hermanin, presidente dell'Ama, municipalizzata romana, in cui caldeggiava l'assunzione di un tizio che gli stava a cuore. E ingiungeva all'Hermanin, con alate parole, di fargli sapere tempestivamente gli esiti della pratica. Fece insomma la magra figura toccata un quindicennio prima all'assessore milanese, Carlo Radice Fossati: un integerrimo della sua stessa pasta che, dopo avere costretto alle dimissioni due sindaci Psi - Tognoli e Pillitteri - brandendo la durlindana della legalità, fu incriminato per tangenti. Dispiace che un uomo di qualità come Zanda vada peggiorando. Possiamo però sperare che, nell'intimo, sia ancora quello di un tempo e si pieghi solo a esigenze di carriera. Potrebbe farlo valere nel Giorno del giudizio. A meno che non sia un'aggravante.

Filippo Facci su “Libro Quotidiano”: l'arresto di Genovese è la prova, l'Italia è in mano ai giustizialisti. La prima pagina dell’Unità che festeggia l’arresto di un parlamentare del Pd, a questo punto, dovremmo appendercela in camera e rimirarla ogni mattina, così da capirlo una volta per tutte: abbiamo perso. Noi garantisti - garantisti veri, quattro gatti sputtanati che siamo - abbiamo perso e dobbiamo capacitarci che questo Paese non è cambiato, oppure è cambiato irrimediabilmente. Il caso di Fracantonio Genovese non è neppure molto significativo: il Pd l’aveva candidato già da indagato, è chiaro che sarrebbe finita così, anche se certa disinvoltura - la gara di forca elettorale tra Renzi e Grillo - lascia comunque attoniti. Abbiamo perso perché al pari di altri casi - Lusi, Bisignani, Papi, Cosentino - non c’è più in giro un cretino disposto a leggersi mezza carta, a farne una questione di merito, a giustificare l’esistenza di un’autorizzazione all’arresto che a questo punto tanto vale abolire. Riferiscono che i grillini, nella Giunta per le autorizzazioni a procedere, avessero già deciso prima ancora di iniziare. Riferiscono che qualche esponente del Pd, nondimeno, abbia votato a favore nonostante delle perplessità. Le domande erano le solite: l’arresto di Genovese era davvero necessario per la prosecuzione delle indagini? L’arresto rispondeva ai requisiti per cui era stato richiesto? C’era pericolo di fuga o di inquinamento delle prove (eccetera) per un parlamentare che è semplicemente indagato e deve ancora essere processato? Non lo sappiamo, non è una domanda retorica, magari l’arresto ci stava tutto: resta che non ne abbiamo letto una riga, perché non gliene frega niente a nessuno, non se ne parla, tutto si muove in base a calcolini di piccolo commercio ed è prostituito al peggiore malanimo manettaro, con dei poveracci brufolosi che in Parlamento agitano manette e altri parlamentari che se ne fanno condizionare e, per non sbagliare, accettano che l’asticella della discussione sia ormai rasoterra. L’avanzare dei grillini e il retrocedere dei politici li ritrova tutti su un punto: che poi, dicevamo, è un punto d’arrivo, anzi, è un punto fermo dal quale non ci siamo mai mossi. È l’unico punto che ci riporta ancora e davvero a Tangentopoli. Dal 1992 a oggi, infatti, è andata così: ci sono state due italie fintamente contrapposte - una garantista e una forcaiola - che hanno finto di fronteggiarsi e che hanno assolto o condannato secondo convenienza: ma alla fine era sempre lo stesso Paese, oscillante e indolente nelle sue parti in commedia, vanamente inseguito da un giornalismo opportunista e basculante che ha trasformato il giustizialista e il forcaiolo in due professioni. Si è innocenti sino a sentenza definitiva? Trent’anni a dirlo, e non ci crede nessuno. Si è colpevoli dopo sentenza definitiva? Non ci crede nessuno. La custodia cautelare dev’essere l’extrema ratio? Figurarsi questo. Non si devono divulgare atti che sputtanano gratuitamente? E qui si ride. Ma non serve neanche parlar male dei giornalisti, sono in difficoltà anche loro, devono pur campare. Hanno impiegato quasi una settimana ad accorgersi che nell’inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: e, se ci sono, per ora hanno il ruolo dei babbei sfruttati e compulsati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette rigorosamente per sé. L’abbiamo già scritto: Tangentopoli per la libera stampa è anche un rimpianto, un’età dell’oro, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario che ha portato i giornalisti dall’altra parte della vetrina. Non serve aggiungere che il prezzo di tutto questo è stato un Paese sotto tutela giudiziaria: sicché, ora, basta che la magistratura chieda un arresto e questo deve essere concesso, fine. Non se ne può neanche parlare, altrimenti sei complice dei mafiosi (mafia=Stato) e poi arriva Grillo che fa un filmato in cui cerca il latitante nel bosco, con il cane. Il video di Grillo con il cane: eccolo il pararametro politico e giurisprudenziale, coi parlamentari che - raccontava La Stampa di ieri - mentre si votava l’arresto di Genovese maneggiavano l’iPad, o leggevano sul computer, o chiacchieravano col vicino. Questo accadeva nel Palazzo. Mentre fuori, intanto, in quella società civile che politici e giornalisti avrebbero dovuto contribuire a plasmare, scivolava fuori la notizia che avevano assolto un’altra volta le maestre di Rignano Flaminio: quelle che ovviamente finirono dentro a loro volta, tra l’orrore generale, quelle che - Corriere della Sera, 25 aprile 2007 - «dovevamo bere il sangue e fare massaggi alle maestre». Forza, trovate un talkshow che questa sera ne parlerà.

Corrotti-cretini, che brutto derby. Da una parte i lestofanti e dall'altra i fanatici. È il nuovo bipolarismo in cui si sta infognando la democrazia italiana, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Perché non scrivi nulla sui malfattori finiti in carcere? Perché vedo crescere due partiti: da una parte i lestofanti e dall'altra i fanatici e non parteggio per nessuno dei due. È il nuovo bipolarismo in cui si sta infognando la democrazia italiana. Furfanti in affari e idioti incarogniti sono i nuovi opposti estremismi, in parlamento e fuori. Ogni giorno spunta qualcuno che ha abusato del potere. E ogni giorno una canea di cretini risentiti esulta per le manette e invoca feroci castighi. Ambedue costruiscono le loro carriere sullo sfascio del Paese, chi lucrando sul potere e chi gufando sul collasso. Siamo ridotti a questa alternativa inscenata dai media, mani sporche e bocche urlanti. Se a più di vent'anni da Tangentopoli siamo ancora lì, vuol dire che la via giudiziaria non è il rimedio. Né funziona elevare tutto il malaffare al rango di associazione criminale e vedere in ogni abuso l'ombra di una Cupola mafiosa per sbattere in carcere chi vogliono, senza distinguere. Se il difetto fosse invece nel manico, cioè su come si recluta la classe politica e come si assegnano i ruoli e i compiti prima che gli appalti? E se la chiave del problema fosse la selezione del personale politico sulla base della motivazione e delle effettive capacità? Se fate un censimento nelle due schiere su cosa li muove in politica e che meriti hanno per occupare quei posti, trovate un dato politico che li accomuna: sono inadeguati e bassamente motivati, da interessi o da rancori. Il dramma è quello e ha un titolo: I Miserabili.

CHI NON E’ MASSONE DEVIATO, SCAGLI LA PRIMA PIETRA: MAGISTRATI, POLITICI, MAFIOSI.

NUOVO ORDINE MASSONICO E CONTROLLO DELLA MAGISTRATURA. Scrive “La Voce di Robin Hood”. Insieme a noi, lo aveva già inascoltatamente denunciato l'ex Procuratore Capo di Palmi Agostino Cordova, nel 1992, prima di venire messo a tacere dal Governo di centro-sinistra di D'Alema, quando gli impedirono militarmente di sequestrare gli elenchi degli iscritti alla massoneria, presso la sede del Grande Oriente d'Italia, a Villa Medici del Vascello, a Roma, in cui avremmo forse trovato i nomi di illustri ministri, alte cariche dello Stato, alte gerarchie delle Forze di Polizia e dell'Arma dei Carabinieri, alti magistrati, industriali, oltre ai soliti avvocati, professori universitari, giornalisti, faccendieri e malavitosi. L'esistenza di questo "nuovo" ordine massonico (che tanto nuovo non è), capace di controllare la magistratura e l'alternarsi dei governi di centro-destra e centro-sinistra, viene oggi autorevolmente riproposta dall'ex P.M. Luigi De Magistris che, negli ultimi giorni, abbiamo appreso essersi candidato, da indipendente, nell'Italia dei Valori, dopo le dimissioni dalla magistratura. In molti avrebbero forse preferito che De Magistris continuasse la sua battaglia all'interno della magistratura. Altri che fondasse un movimento completamente nuovo, fatto da persone pulite, fuori dai giochi e dagli schemi tradizionali della politica. Comunque sia, al di là della scelta  personale  di lasciare  la magistratura e degli schieramenti  politici, come abbiamo sempre sostenuto, noi riponiamo fiducia nelle singole persone e il nostro giudizio è commisurato sulla base di ciò che fanno e non di quello che dicono.  A nostro avviso, nel triste palcoscenico della politica, Luigi De Magistris è una persona nuova degna di tutta la nostra stima, in quanto ha dimostrato grande integrità morale  e determinazione, pagando di persona un alto prezzo per il suo amore verso la Vera Giustizia. Qui di seguito  proponiamo quindi, oltre all'intervista di Klaus Davi, un intervento firmato di pugno dall'ex P.M. Luigi De Magistris, rilasciata a Beppe Grillo,  riservandoci di proporre nei prossimi giorni un'esclusiva intervista sui grandi temi dei poteri forti e delle deviazioni del sistema, rilasciata  alla Voce di Robin Hood (N.d.R.). «Per il 60% - 70% il Piano di Rinascita democratica è stato già applicato, anzi lo stanno migliorando nella loro ottica, lo stanno rendendo contemporaneo». Queste le testuali parole di Luigi De Magistris a Klaus Davi per il programma web Klauscondicio visibile su YouTube. Il magistrato che avviò l'inchiesta "Why not" aggiunge con tono pacato e non senza preoccupazione: «Ho sempre pensato che la mia vita fosse in pericolo. Gli altri hanno sempre sottovalutato questo aspetto ma da anni sono convinto di essere in pericolo». De Magistris confida poi: «Tengo da sempre un diario, un'abitudine che ho consolidato negli ultimi anni». Una bozza di appunti per un lavoro che un giorno avrà altra forma: «Penso che scriverò un libro sul mio diario. Assolutamente». La mente corre all'agenda di Paolo Borsellino, a quell'annotare con precisione ogni spesa avuta. Questo per l'agenda blu; della rossa, dopo la strage, non se ne seppe più niente. «Tenere un diario è un'abitudine sacrosanta per un magistrato. Io continuo a farlo. Il diario principale ce l'ho in testa, nel mio cervello. Quelli più importanti li ho consegnati alla procura di Salerno, quindi la Procura di Salerno è depositaria degli aspetti d'interesse per la magistratura penale, tutto ciò che interessa la magistratura penale io l'ho consegnato all'autorità giudiziaria. Per il resto, ho diari che riguardano riflessioni sulla vita quotidiana di ogni giorno. I miei diari hanno ad oggetto soprattutto fatti penalmente rilevanti. Poi, all'interno di fatti penalmente rilevanti, ho descritto anche riflessioni che riguardano comunque aspetti di gestione illegale della cosa pubblica». Una riflessione non scevra di considerazioni morali: «Credo che siamo in piena P2 sotto il profilo di alcuni passaggi, come il controllo della Magistratura. «Constato che chi ha negli ultimi tempi, non solo io ma anche altri, fatto investigazioni delicate sul tema delle collusioni interne alle istituzioni e, soprattutto, dove il collante è stato quello dei poteri occulti, non credo che abbia avuto un grosso ausilio da parte di chi dovrebbe istituzionalmente stare vicino». Nemmeno la magistratura, come istituzione democratica è esule da rapporti con la massoneria. «Il Consiglio Superiore della Magistratura nel passato, se pur in casi simbolici ed isolati, è intervenuto su magistrati iscritti alla P2. Però non entrava con il bisturi nel sistema». Licio Gelli, fondatore e capo della loggia P2 in una recente intervista spiegava che «in Calabria la massoneria è forte e può darsi che sia infiltrata un pò da tutte le parti, anche nella magistratura», De Magistris replica: «Se lo certifica Licio Gelli, allora...». "Insieme ai miei più stretti collaboratori attraverso la ricostruzione dei finanziamenti pubblici in Calabria, avevamo scoperto, in modo esattamente preciso, quella che con gergo giornalistico si potrebbe anche definire la nuova P2". Il riferimento alla loggia massonica di Licio Gelli si spiega perche' l'indagine Why Not, che gli e' stata tolta un anno fa dalla procura di Catanzaro, riguardava "la gestione del denaro pubblico e di alcuni pezzi delle istituzioni attraverso il tramite dei poteri occulti". "Questo - scandisce il magistrato - è il cuore del problema e non voglio dire altro. Perchè fatti, nomi, documenti, li ho consegnati".  "Non ho fatto un uso mai particolarmente impegnativo delle intercettazioni telefoniche", assicura De Magistris che ricorda: "nell'inchiesta Why Not io non ho fatto nemmeno una intercettazione telefonica. Nell'inchiesta Poseidone ne ho fatte pochissime. Nell'inchiesta toghe lucane, se non vado errato anche lì non ho fatto nessuna intercettazione telefonica. Ho utilizzato strumenti investigativi che hanno dato molto fastidio agli indagati di questi procedimenti. Che si tratta in particolare degli accertamenti bancari, accertamenti patrimoniali. Traffico dei flussi telematici e delle tracce, degli incroci telefonici, le sommarie informazioni testimoniali, l'esame dei documenti. Le indagini tradizionali".  L'ex pm di Catanzaro definisce infine "curiosa" la vicenda dell'archivio Genchi anche per il fatto che se ne parla proprio a ridosso della riforma delle intercettazioni. "Sto vedendo - dice - una serie di coincidenze un po' strane". Alla domanda: che fine faranno le sue indagini De Magistris risponde che va chiesto alla Procura di Catanzaro e conclude: "La mia testimonianza, i miei documenti, il mio sapere doveroso l'ho consegnato all'Autorità giudiziaria di Salerno. Prendo atto che sono stati fermati i magistrati che stavano conducendo questa indagine".

Consiglio di Stato, quanti massoni ci sono? Si chiede Alessio Liberati (magistrato) su “Il Fatto Quotidiano". L’ultimo di cui si è avuta notizia, in ordine di tempo, è Antonio Maccanico, fratello massone e contestualmente consigliere di Stato, oltre che segretario generale della Presidenza della Repubblica (incarico ricoperto peraltro anche da molti altri consiglieri di Stato, come Gaetano Gifuni, recentemente condannato per peculato e abuso di ufficio e l’attuale pagatissimo Donato Marra). Ma non è il solo ad aver indossato il grembiulino. La mia curiosità per i rapporti tra massoneria e Consiglio di Stato – che ha avuto inizio per caso, quando cioè tre magistrati appartenenti a tale istituzione (Roberto Giovagnoli, Claudio Contessa e Raffaele Greco) presentarono un esposto disciplinare nei miei confronti, lamentando che un mio articolo scientifico, ove facevo tra l’altro affermazioni tanto generiche quanto banali sulla degenerazione dei concorso pubblici, non mancando di citare i condizionamenti da parte della massoneria e dell’Opus Dei, fosse offensivo nei confronti della giustizia amministrativa, per profili che non ho mai compreso – ha portato infatti a molti riscontri, di cui ho già parlato anche in questo blog. Rinvio, in proposito, oltre che agli elenchi della P2, ad un mio articolo più in generale sul presidente Pasquale de Lise, ad altro relativo all’ex consigliere di Stato Carlo Malinconico (oggi agli arresti domiciliari per gravi fatti corruttivi) ed anche a quanto richiesto in sede di interrogazione parlamentare dopo una mia denuncia relativa a quanto accertato nei confronti di uno degli ex presidenti dell’associazione dei consiglieri di Stato e ad altri magistrati in servizio nella giustizia amministrativa di appello. Tuttavia, ogni volta che viene fuori il nome di un ulteriore Consigliere di Stato occultamente appartenente alla massoneria, mi pongo le stesse domande, che rimangono inevitabilmente senza risposta. Quanti sono i massoni che indossano grembiulino e toga da consigliere di Stato? Quanti di questi sono ricattabili (visto che vige un divieto espresso per i magistrati amministrativi di appartenere a logge massoniche) da avvocati o terze persone che ne sono a conoscenza? Perché l’organo di autogoverno della magistratura amministrativa, da me sollecitato più volte, si è rifiutato di imporre l’obbligo di una dichiarazione espressa di non appartenenza a logge massoniche, nonostante molti dei suoi componenti avessero preso un espresso impegno in tal senso (Luca Cestaro, Umberto Maiello, Antonio Plaisant, Roberto Pupilella, ecc.), poi disatteso? Non sarebbe ora di costringere i giudici amministrativi (le cui decisioni condizionano pesantemente la vita economica di questo Paese) a rendere pubbliche queste appartenenze, per evitare anche il solo rischio o sospetto che possano esservi ricatti a carico di questi magistrati? Non sarebbe l’ora di affrontare definitivamente, eventualmente in senso positivo, il tema della compatibilità tra appartenenza massonica e magistratura, al fine di evitare che si creino appartenenze occulte, con i rischi sopra descritti? Del tema, emerso nuovamente durante il periodo in cui era presidente dell’associazione dei consiglieri di Stato Filippo Patroni Griffi, non si è voluto occupare né quest’ultimo, né il suo successore Roberto Chieppa, né l’ex presidente Paolo Salvatore, né tanto meno il predetto De Lise. Speriamo che almeno il nuovo presidente, Giorgio Giovannini, voglia affrontare il tema, seppur con incomprensibile ritardo…

Massoneria e magistratura. Tratto dal libro “La massoneria smascherata” di G. Butindaro. Innanzi tutto va detto che affiliarsi alla Massoneria non è reato, in quanto la Massoneria non è tra le associazioni segrete proibite dalla Costituzione italiana con l’articolo 18 (Sono proibite le associazioni segrete e quelle che perseguono, anche indirettamente, scopi politici mediante organizzazioni di carattere militare); tuttavia il Consiglio Superiore della Magistratura ha affermato con chiarezza l’incompatibilità fra affiliazione massonica e l’esercizio delle funzioni di magistrato, perchè le caratteristiche delle logge massoniche sono quelle di «un impegno solenne di obbedienza, solidarietà, e soggezioni a principi e a persone diverse dalla legge» e determinano perciò «come conseguenza inevitabile una menomazione grave dell’immagine e del prestigio del magistrato e dell’intero ordine giudiziario» (I magistrati non possono essere massoni, Corriere della Sera, 17 gennaio 1995, pag. 1); e secondo la Cassazione, il giudice massone può essere ricusato dall’imputato, in quanto l’appartenenza a logge preclude «di per sè l’imparzialità» del magistrato (La Cassazione, 5a sezione penale n° 1563 / 98), in altre parole, perchè – come ha detto il giudice Alfonso Amatucci – essere iscritti alla massoneria significa vincolarsi al bene degli adepti, significa fare ad ogni costo un favore. E l’unico modo nel quale un magistrato può fare un favore è piegandosi ad interessi individuali nell’emettere sentenze, ordinanze, avvisi di garanzia. Esistono allora magistrati che sono massoni? Sì. Per esempio ecco cosa si legge nell’articolo dal titolo E sui magistrati massoni indagherà anche Conso a firma di Franco Coppola e apparso su La Repubblica il 15 luglio 1993: Smentiscono, querelano, minacciano fuoco e fiamme. Ma i loro nomi sono lì, negli atti giudiziari raccolti dalle procure di Palmi e di Torino. Sono le toghe incappucciate, i magistrati sparsi per il territorio nazionale che hanno giurato fedeltà alla Costituzione e al credo massonico, qualcuno addirittura aderendo alle logge segrete, quelle espressamente vietate anche a chi non fa parte dell’ordine giudiziario. Per ora sono usciti fuori 36 nomi, due o tre dei quali appartenenti a personaggi ormai in pensione che hanno appeso nell’armadio dei ricordi le toghe da magistrati ma forse non i grembiulini e i cappucci da massoni. E così ora di loro si occupano non più soltanto il Consiglio superiore della magistratura, che può trasferirli d’ufficio ad altra sede o ad altra funzione, ma anche il ministro della Giustizia Giovanni Conso e il procuratore generale della Cassazione Vittorio Sgroi che, come titolari dell’azione disciplinare, possono avviare un procedimento disciplinare, le cui conseguenze potranno essere, a seconda dei casi, blande o particolarmente severe. Ma nella magistratura esistono anche avvocati, cancellieri, docenti di materie giuridiche, ufficiali giudiziari, e così via, che sono affiliati alla massoneria. Ed ovviamente tutti costoro, in virtù del loro giuramento massonico (che recita tra le altre cose: …. prometto e giuro di non palesare giammai i segreti della Libera Massoneria, di non far conoscere ad alcuno ciò che mi verrà svelato; prometto e giuro di prestare aiuto ed assistenza a tutti i Fratelli Liberi Muratori sparsi su tutta la superficie della Terra….), devono anche loro aiutare i loro fratelli massoni, per cui è ovvio che quando un massone si troverà indagato o imputato in un processo, egli al momento giusto riceverà una qualche forma di aiuto dai suoi fratelli che sono nella magistratura (o nella politica) che si muoveranno come sanno fare loro in questi casi. Un esempio di inchiesta giudiziaria contro dei massoni affossata è quello dell’inchiesta del procuratore di Palmi Agostino Cordova da lui avviata nel 1992, a cui abbiamo accennato prima, che dopo che Agostino Cordova fu trasferito-promosso alla Procura di Napoli nel 1993 e che le indagini vennero trasferite (per «incompetenza tecnica» della Procura di Palmi a occuparsi della materia) alla Procura di Roma nel giugno del 1994, rimase pressoché ferma per quasi sei anni, e poi nel dicembre 2000, il giudice per le indagini preliminari dispose l’archiviazione dell’inchiesta, nonostante fossero stati raccolti centinaia di faldoni e tantissime fonti di prova sulle attività illecite di logge italiane con decine di indagati, coinvolgenti influenti personaggi del mondo imprenditoriale, finanziario, politico e istituzionale, nonché della stessa magistratura, collusi con la ‘ndrangheta con cui avevano costituito delle vere e proprie società di affari, attraverso le quali si spartivano i proventi derivanti dagli accordi perversi del sodalizio criminale. Per capire la portata dell’inchiesta di questo coraggioso magistrato consiglio di leggere Oltre la cupola: massoneria, mafia, politica, scritto da Francesco Forgione e Paolo Mondani, pubblicato da Rizzoli Editore nel 1994. Un esempio invece di processo in cui erano imputati dei massoni con evidenti prove di colpevolezza contro di essi, e che si è concluso con la loro assoluzione, è quello del golpe Borghese. Il golpe Borghese fu un colpo di Stato tentato in Italia durante la notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 e organizzato e guidato da Junio Valerio Borghese (ex comandante della X Mas nella repubblica sociale italiana, e leader dell’organizzazione neofascista Fronte nazionale), allo scopo di impedire l’accesso del Partito Comunista al governo. Il nome del colpo di stato aveva come nome in codice Operazione Tora Tora, in ricordo dell’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941. Tra i golpisti c’erano oltre che uomini dei servizi segreti e fascisti, anche massoni e mafiosi. In vista del golpe Borghese infatti, la Massoneria aveva chiesto l’aiuto di Cosa nostra e della criminalità organizzata calabrese per averne un appoggio armato. La sera del 7 dicembre 1970, i congiurati – in gran parte armati, e provenienti da varie regioni d’Italia – si concentrarono nei vari punti prestabiliti della Capitale. Il piano eversivo prevedeva tra le altre cose, l’uccisione del capo della polizia Angelo Vicari, e l’irruzione al Quirinale di una squadra di congiurati armati comandati da Licio Gelli (capo della loggia massonica segreta P2) per sequestrare il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat. Ma ecco che poco dopo la mezzanotte ai congiurati arriva improvviso il contrordine: l’azione golpista è sospesa e rinviata. L’inchiesta giudiziaria che ne seguì non riuscirà a chiarire le circostanze dell’improvviso contrordine impartito ai congiurati. Secondo alcuni, la sospensione del golpe è da attribuire alla defezione di un importante personaggio che avrebbe reso impossibile l’attuazione dell’aspetto strategico del golpe. Secondo altri, il golpe non fu attuato, benchè avallato dagli USA, a causa dell’imprevista presenza della flotta russa nel Mediterraneo la notte tra il 7 e l’8 dicembre. Comunque il tentato golpe ci fu. In merito al procedimento giudiziario e il processo che si tenne contro coloro che furono coinvolti nel Golpe Borghese, ecco cosa dice il senatore Sergio Flamigni, che ha fatto parte della Commissione Parlamentare sulla Loggia P2: ‘Nel procedimento giudiziario scaturito dal «golpe Borghese» risulteranno coinvolti piduisti di primo piano: il generale Vito Miceli, promosso capo del Sid per intervento di Licio Gelli presso il ministro della Difesa Mario Tanassi (il cui segretario particolare, Bruno Palmiotti, e il cui fratello, Vittorio Tanassi, sono affiliati alla Loggia segreta); Giuseppe Lo Vecchio, colonnello dell’Aeronautica; Giuseppe Casero, ufficiale dell’Aeronautica; Giovanni Torrisi, ufficiale di Marina; Giovambattista Palumbo, Franco Picchiotti e Antonio Calabrese, ufficiali dei Carabinieri; Giuseppe Santovito, ufficiale dell’Esercito; il banchiere Michele Sindona; l’alto magistrato Carmelo Spagnuolo; il consigliere regionale andreottiano Filippo De Jorio (consigliere di Andreotti a Palazzo Chigi anche dopo il suo coinvolgimento nel tentato golpe). Tutti costoro risulteranno affiliati alla Loggia P2 nel gruppo Centrale, cioè in diretto collegamento con Gelli. Nella «Operazione Tora Tora» risulteranno coinvolti anche altri massoni, tra i quali: Duilio Fanali (capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, che nel tentato golpe aveva il compito di insediarsi nel ministero della Difesa e impartire ordini a tutto l’apparato militare); il costruttore romano Remo Orlandini; Sandro Saccucci (deputato nelle liste del Msi, nel 1972, per avvalersi dell’immunità parlamentare); Salvatore Drago (ufficiale medico della Polizia, fedelissimo del piduista Federico Umberto D’Amato); Gavino Matta e Tommaso Rook Adami (massoni appartenenti alla Comunione di Piazza del Gesù); Giacomo Micalizio. [....] Benchè nella «Operazione Tora Tora» abbia avuto un ruolo centrale, Licio Gelli non viene coinvolto nel processo seguito al «golpe Borghese». Il Venerabile gode infatti di particolari coperture e di ferree protezioni. Nel luglio 1974, nello studio privato del ministro della Difesa Giulio Andreotti, si tiene una riunione alla quale partecipano, oltre al ministro: il nuovo capo del Sid ammiraglio Mario Casardi il comandante dei Carabinieri generale Enrico Mino, il capo dell’ufficio D del Sid generale Gianadelio Maletti (piduista), e gli ufficiali del Sid colonnello Sandro Romagnoli e capitano Antonio Labruna (piduista). Oggetto della riunione è un dossier compilato dai Servizi sul «golpe Borghese», da inviare alla magistratura. Il dossier giunto al ministro Andreotti è già stato sottoposto a numerosi tagli; infatti il capo di Stato maggiore della Difesa, ammiraglio Eugenio Henke, ha disposto la cancellazione di ogni riferimento ad alcuni collaboratori del Sid. Ma a questo punto è Andreotti che suggerisce a Maletti di «sfrondare il malloppo e di eliminare i dati non riscontrabili». Così dal rapporto scompare il nome di Gelli [....]. Il processo per il «golpe Borghese», celebrato presso il Tribunale di Roma, consentirà di accertare una serie di gravissimi fatti. Ma tutti gli imputati piduisti, anche grazie al sotterraneo attivismo di Licio Gelli, verranno assolti. [....]. I gravissimi fatti culminati nel tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 subiranno in fasi processuale un inopinato ridimensionamento. Benchè si sia trattato di un preciso piano eversivo sostenuto da ampi settori dei vertici militari in collegamento con gruppi armati di civili ramificati in tutto il Paese, a conoscenza dei comandi Nato e con la partecipazione di Cosa nostra e della ‘ndrangheta calabrese, nel corso dei vari gradi di giudizio il processo si risolverà in un progressivo insabbiamento, tra proscioglimenti e archiviazioni, fino alla generale assoluzione degli imputati superstiti da parte della Corte di Cassazione. [....] Le sentenze della Corte di assise di Roma del 14 novembre 1978 e della Corte di assise d’appello del 27 novembre 1984, affermando l’insussistenza del delitto di insurrezione armata, predisporranno la Corte di cassazione a trasformare il tentato golpe in un semplice «complotto di pensionati», e ad assolvere tutti gli imputati. Molti anni dopo, il giudice istruttore del Tribunale di Milano Guido Salvini scriverà infatti che «una vasta e continuativa trama golpista, corroborata sul piano probatorio anche da numerosi elementi documentati, [è stata] così ridotta ai progetti velleitari di qualche anziano Ufficiale nostalgico e di poche Guardie forestali. Certamente non è stato così». Il giudice citerà una serie di documenti e testimonianze, prove di un’ampia articolazione eversiva di forze: alti ufficiali delle Forze armate e Massoneria, P2 e servizi segreti, mafia siciliana e ‘ndrangheta calabrese, strutture clandestine di militari e civili e gruppi della destra eversiva e neofascista, con sullo sfondo i comandi della Nato (Sergio Flamigni, Trame Atlantiche, Kaos Edizioni, Seconda Edizione 2005, pag. 45-46, 48, 50, 53,54). A conferma che anche nella magistratura si muove la mano della Massoneria vi propongo una parte di un interessante scritto dal titolo «Fratellanza giuridica». I magistrati e la massoneria a cura di Solange Manfredi, pubblicato sul blog di Paolo Franceschetti il 20 luglio 2010, che credo renda bene l’idea di questo intreccio, che spiega il perchè certe indagini che coinvolgono massoni vengono ostacolate o affossate, e dei processi contro esponenti della massoneria finiscono con l’assoluzione degli imputati. [....]. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina: “Fratellanza Giuridica” Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L’esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazione” avvocati – cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico.
Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un’indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all’interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro… avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l’occasione fa l’uomo ladro. La frequentazione, l’amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste “logge” possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l’occasione fa l’uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l’affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere “Fratellanze” costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui “deviazioni” potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

"FRATELLANZA GIURIDICA. I magistrati e la massoneria. Di Solange Manfredi.

1. Premessa. Da qualche giorno i giornali riportano la notizia di una inchiesta romana su una associazione a delinquere, denominata nuova loggia P3, che vedrebbe coinvolti politici, faccendieri, criminalità organizzata, e magistrati. I magistrati coinvolti sono persone ai vertici della magistratura, ex Presidenti dell’A.N.M., ex Consiglieri del C.S.M. , avvocati generali della Cassazione, ovvero:

- il dr Arcibaldo Miller, Capo degli Ispettori del Ministero della Giustizia e membro dell’A.N.M;

- il dr Antonio Martone, ex Presidente dell’A.N.M., ex Avvocato Generale della Corte Suprema di Cassazione ed oggi capo di una Commissione per la valutazione, la trasparenza e l’integrità delle amministrazioni pubbliche;

- il Sottosegretario di Stato Giacomo Caliendo, ex Consigliere del C.S.M ed ex Presidente dell’A.N.M;

- il Presidente della Corte di Appello di Salerno Umberto Marconi, consigliere del CSM ed ex membro dell’ANM;

- il Presidente della Corte di Appello di Milano Alfonso Marra;

- il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione Vincenzo Carbone.

Niente di nuovo, l’intreccio in odor di massoneria tra magistratura e potere c’è sempre stato. Solo per fare un esempio, da più di un anno si sta celebrando, nel più assoluto silenzio, un processo sulla compravendita di sentenze in Cassazione che, visto il coinvolgimento di personaggi legati dal vincolo massonico, è stato denominato Hiram (figura allegorica della massoneria, nonchè nome della rivista ufficiale del Grande Oriente d’Italia). Ed ancora l’intreccio tra magistratura e potere massonico (di oggi e di ieri) è ben evidenziato nel libro di Gioaccino Genchi “Gioacchino Genchi. Storia di un uomo in balia dello Stato”. Per non parlare degli scandali che negli anni ’80 e ’90 videro coinvolti magistrati iscritti alla loggia P2. Ma, a questo punto, una domanda sorge spontanea: perché nella maggior parte degli scandali che vede coinvolti magistrati compare sempre anche la massoneria? Come fanno i massoni a poter sempre contattare il magistrato giusto al momento giusto?

2. La "Fratellanza Giuridica". La risposta non è semplice ma forse, in questa sede, si può aggiungere un dato che potrebbe essere importante per capire gli intrecci di “certo” potere. Quando mio padre (avvocato) morì, 15 anni fa, nella cassaforte di casa trovai, insieme al suo tesserino di affiliazione alla massoneria, centinaia di documenti massonici. Tra questi rinvenni un piccolo libricino rilegato che riportava in copertina:

Fratellanza Giuridica" Statuto. Appena ne lessi il contenuto rimasi sconvolta, come sconvolti sono rimasti avvocati e giudici (non massoni ovviamente) a cui l’ho mostrato. L'esistenza di uno Statuto che, all’interno delle varie logge (e quindi tra massoni già vincolati dal giuramento di silenzio, assistenza ed aiuto reciproci e dal divieto di denunciare un fratello al Tribunale profano), univa in una “più fraterna collaborazioneavvocaticancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistratinotai – ragionieri ed ufficiali giudiziari, in altri termini tutti i tasselli “sensibili” di un Tribunale, era sconvolgente. Un legame così stretto tra i protagonisti delle vicende giudiziarie si prestava veramente a deviazioni infinite. Il fatto, poi, che gli elenchi di questa “Fratellanza Giuridica” fossero a disposizione dei massoni iscritti alle varie logge italiane poteva rendere ogni Tribunale raggiungibile da qualsiasi fratello in cerca di aiuto massonico. Nessun rischio a chiedere un “aiutino”: il massone infatti ha giurato sia di aiutare sia di non denunciare mai un fratello al Tribunale profano. Non a caso ogni scandalo che ha riguardato magistrati e massoni è sempre stato originato dalla scoperta di documenti durante una perquisizione o, come in questo caso, da intercettazioni telefoniche; ma mai in nessun caso un'indagine ha avuto origine dalla denuncia di un fratello verso un altro fratello. Se all'interno della stessa loggia, della stessa cittadina, si ritrovano regolarmente per studiare, lavorare, o altro... avvocati, cancellieri, magistrati e ufficiali giudiziari, si sa, l'occasione fa l'uomo ladro. La frequentazione, l'amicizia, ma, soprattutto, il giuramento di reciproco aiuto ed assistenza, fanno sì che in queste "logge" possa scattare la richiesta di “aiutino”. In fondo, per insabbiare un processo, per depistare, per creare confusione, basta poco: una notifica sbagliata, un fascicolo sparito, una nullità non rilevata, ecc.. piccoli errorini, idonei a deviare il corso di un processo; ma errorini per cui in Italia non si rischia assolutamente nulla. Certo si parla di possibilità, non è detto che accada però, come già sottolineato, l'occasione fa l'uomo ladro. Proprio per questo i magistrati ed avvocati più attenti a livello deontologico (non vi preoccupate, è una razza ormai quasi estinta) evitano le frequentazioni con avvocati almeno dello stesso foro in cui esercitano. Il motivo di tale comportamento è chiaro (o dovrebbe esserlo) il giudizio del magistrato, per non lasciare adito ad alcun dubbio, deve essere il più possibile scevro da condizionamenti di qualunque genere. Chi frequenta i Tribunali, invece, spesso si trova a dover costatare comportamenti ben diversi, e si può incappare in situazioni in cui avvocati e magistrati dello stesso foro dividono l'affitto di una garconier con cui andare con le rispettive amanti. Sarà, dunque, forse un caso che più di 7 processi su dieci saltano per notifiche sbagliate? Sarà forse un caso che spesso le indagini o processi che vedono coinvolti massoni hanno un iter burrascoso con avocazioni di indagine (Why not, Toghe Lucane), trasferimenti di sede (Piazza Fontana, Golpe Sogno, Scandalo loggia P2) od altro? Probabilmente si, non vogliamo in alcun modo pensar male anche se, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma, raramente, si sbaglia.

3. Lo Statuto. Trascrivo qui il contenuto dello Statuto rinvenuto tra i documenti di mio padre. Ovviamente, e per estrema correttezza, avverto il lettore che non posso assicurare che detto statuto sia vero, ma, dati i rapporti che intratteneva mio padre (avvocato), ciò che mi aveva detto riguardo i magistrati che frequentavano regolarmente la nostra casa e il fatto di averlo rinvenuto all’interno di una cassaforte insieme a centinaia di documenti giuridici firmati da “fratelli”, mi fa propendere per il si. Se così fosse parrebbero esistere "Fratellanze" costituite esclusivamente da magistrati, avvocati, cancellieri, ufficiali giudiziari, professori universitari, ecc.. le cui "deviazioni" potrebbero condizionare il sistema giudiziario ostacolando il corso di processi importanti.

A.G.D.G.A.D.U.

GRAN LOGGIA NAZIONALE DEI LIBERI MURATORI D’ITALIA

GRANDE ORIENTE D’ITALIA”

*

STATUTO DELLAFRATELLANZA GIURIDICA”

(Approvato a Roma, il 21 settembre 1968)

1. La Fratellanza Giuridica è costituita da Fratelli attivi e quotalizzanti nelle rispettive Logge della Comunione italiana, appartenenti alle seguenti categorie professionali, e che ne facciano domanda: avvocati e procuratori legali –cancellieri – docenti di materie giuridiche – dottori commercialisti – magistrati – notai – ragionieri – ufficiali giudiziari.

2. La Fratellanza Giuridica ha come principali finalità:

a) Dare, quando richiestane, pareri giuridici al Grande Oriente o ai vari Organi massonici, attraverso la Gran Segreteria;

b) Promuovere lo studio dei problemi interessanti i vari aspetti del diritto, internazionale e nazionale, e quelli delle singole categorie iscritte alla Fratellanza;

c) Consentire una più fraterna collaborazione, nell’ambito di ciascuna categoria, per l’esercizio dell’attività degli iscritti;

d) Indicare nominativi di difensori d’ufficio, se richiestane dai Tribunali massonici;

e) Curare la raccolta della giurisprudenza delle decisioni degli organi giudiziari massonici, anche comparata con l’opera giudiziaria delle altre Comunioni regolari;

f) Studiare ed approfondire ogni altra questione attinente all’esercizio professionale degli iscritti, nel rispetto delle leggi e delle tradizioni massoniche.

3. La Fratellanza Giuridica ha sede presso il suo Presidente effettivo. Essa può essere sciolta in qualunque momento, o per decisione del Gran Maestro, previo il parere favorevole del Consiglio dell’Ordine, o per decisione dell’Assemblea degli iscritti. Le elezioni e le decisioni dei vari Organi della Fratellanza Giuridica sono valide a maggioranza semplice ed impegnano anche gli assenti e, per il caso di scioglimento, con il voto favorevole di almeno due terzi degli iscritti. Le cariche non sono rinunciabili ed impegnano gli eletti sino a quando non siano accettate eventuali loro dimissioni, da inoltrarsi al Consiglio Direttivo.

4. Sono Organi della Fratellanza Giuridica:

a) L’Assemblea degli iscritti;

b) Il Consiglio Direttivo;

c) L’Ufficio di Presidenza;

d) Ufficio di Segreteria e Tesoreria.

5. L’Assemblea degli iscritti è convocata dall’Ufficio di presidenza almeno una volta l’anno, entro il 31 marzo, o quando appaia opportuno, ovvero quando gliene faccia richiesta la maggioranza semplice del Consiglio Direttivo oppure almeno un quinto degli iscritti. Alla Assemblea sono demandate tutte le decisioni comunque riguardanti la Fratellanza Giuridica, anche nelle materie di spettanza dei singoli Organi.

6. Il Consiglio Direttivo è composto dai Delegati circoscrizionali, che durano in carica tre anni e sono rieleggibili. I Delegati circoscrizionali vengono eletti, anche mediante schede inviate per posta, dagli iscritti alla Fratellanza Giuridica, nell’ambito delle circoscrizioni regionali massoniche. Il Consiglio Direttivo si riunisce per convocazione dell’Ufficio di Presidenza, almeno due volte l’anno, ovvero quando ne faccia richiesta, allo stesso Ufficio di Presidenza, almeno un terzo dei suoi membri.

7. Le riunioni del Consiglio Direttivo sono valide con la presenza di almeno la metà dei suoi componenti. In caso di parità di voti prevale quello del presidente.

8. Ciascun delegato circoscrizionale deve promuovere riunioni di iscritti, iniziative e attività varie, nell’ambito della propria circoscrizione, in armonia con le leggi massoniche, con le finalità della Fratellanza Giuridica, con le deliberazioni dell’Assemblea e del Consiglio Direttivo.

9. L’Ufficio di Presidenza è composto:

a) Dal Gran Maestro;

b) Dal presidente effettivo, che viene eletto dal Consiglio Direttivo;

c) Da un Vice-Presidente.

Al Presidente effettivo (o, in caso di suo impedimento o assenza, al Vice-Presidente) spettano la rappresentanza, la direzione, le decisioni di ordinaria amministrazione della Fratellanza Giuridica.

10. L’Ufficio di Segreteria è composto:

a) Dal Gran Segretario;

b) Da un Segretario o da un Vice-Segretario, nominati dal Consiglio Direttivo, ai quali spetta la tenuta degli schedari, dei verbali, della corrispondenza della Fratellanza Giuridica. L’Ufficio di Segreteria effettua il controllo annuale della regolare appartenenza alle Logge della Comunione di tutti gli iscritti della Fratellanza. Il Segretario o il Vice-Segretario possono essere eletti anche al di fuori del Consiglio Direttivo, nel qual caso vi partecipano senza diritto di voto.

11. Il Tesoriere è nominato da Presidente effettivo, anche non fra i Delegati circoscrizionali, nel qual caso partecipa al Consiglio Direttivo senza diritto di voto. Il Tesoriere cura l’amministrazione, la contabilità, la riscossione delle quote e degli eventuali contributi volontari, e quant’altro attiene alla economia della Fratellanza Giuridica. Il Tesoriere redige, entro il 31 dicembre di ciascun anno il bilancio consuntivo degli incassi e delle spese, ed un bilancio preventivo per l’anno successivo, da sottoporre all’approvazione dell’Assemblea.

12. Per far fronte alle spese di organizzazione e funzionamento della Fratellanza Giuridica, tutti gli iscritti devono versare una quota annuale.

13. Entro il 31 maggio di ciascun anno il Consiglio Direttivo:

a) Predispone ed approva bilanci consuntivi e preventivi redatti dal Tesoriere da sottoporre all’Assemblea;

b) Fissa l’ammontare della quota annuale obbligatoria a carico degli iscritti;

c) Redige una relazione morale sull’attività compiuta nell’anno precedente che, se approvata dall’Assemblea, viene inviata alla Gran Maestranza;

d) Delibera la destinazione delle somme pervenute per contributi volontari dai vari iscritti.

14. Ogni notizia relativa agli elenchi degli iscritti potrà essere chiesta e fornita dai rispettivi Delegati circoscrizionali, a ciascuno dei quali tali elenchi verranno consegnati, ovvero, in mancanza, dall’Ufficio di Segreteria.

15. Il presente Statuto potrà essere modificato con delibera di almeno un terzo degli iscritti, i Assemblea.

16. E’ demandata al Consiglio Direttivo la formulazione del regolamento di attuazione del presente Statuto.

Note: 1. come rivela una sentenza a sezioni unite del Tribunale massonico del 28/X/1978, per il principio n. 1 Cap. IV degli Antichi Doveri” il massone anche se a conoscenza di un reato non può neanche minacciare di denunciare un fratello a quello che viene definito “Tribunale Profano”, ovvero l’organo giudiziario previsto dalla Costituzione italiana, pena l'immediata espulsione dalla loggia.

Carte riservate on line, massoneria in tribunale. Il caso del «muratore» allontanato dalla loggia per aver diffuso notizie sui «fratelli» e i boss, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. Espulso dal Grande Oriente d'Italia di Palazzo Giustiniani «per averne leso l’immagine, l’onore e la reputazione», attraverso la pubblicazione su internet «in modo accessibile ai profani» di un articolo di denuncia sulle infiltrazioni della ’ndrangheta nella massoneria. Amerigo Minnicelli, iscritto dal 1991 alla loggia di Rossano intitolata all’eroe dei «Mille» Luigi Minnicelli (suo antenato), ha impugnato il provvedimento di espulsione davanti al Tribunale di Roma, chiedendone l’immediata sospensione in via cautelare, per potersi candidare alla carica di Gran Maestro alle elezioni fissate per il 2 marzo 2014. I giudici della terza sezione civile, lunedì scorso, hanno rigettato il reclamo e Minnicelli è rimasto tagliato fuori dalla tornata elettorale. A decretarne la radiazione dalla più antica comunione massonica italiana, costituita nel lontano 1805, sono stati gli organi di disciplina interna. Il primo provvedimento è stato emesso dal «Tribunale circoscrizionale della Calabria» il 5 aprile 2012 e poi confermato, in secondo grado, dalla «Corte centrale del Grande Oriente d'Italia» il 3 ottobre dello stesso anno. L’oratore (omologo del nostro pm) incolpa Minnicelli di «un’implicita accusa di omessa vigilanza verso i Maestri Venerabili». L'articolo «incriminato» viene pubblicato sul sito web «Goiseven» (di cui Minnicelli è direttore) pochi giorni dopo l’arresto, avvenuto il 29 luglio 2011, del massone Domenico Macrì, iscritto presso la loggia di Città di Castello. Secondo la Procura Macrì avrebbe concorso, come intermediario d’affari della Banca di Credito Sanmarinese, al riciclaggio di circa 15 milioni di euro proventi del narcotraffico della cosca calabrese dei Mancuso di Limbadi. Minnicelli prende spunto da questo fatto di cronaca per riportare su internet la frase che gli era stata riferita da «un fratello tra i migliori calabresi» nel corso di una riunione della primavera del 2010. «Siamo seduti su un braciere ardente - spiega nel suo articolo - significava dire che nei pie' di lista delle logge vicine ai territori 'ndranghetisti sarebbe entrato di tutto e di più». Nel passaggio successivo, Minnicelli rimprovera i vertici della massoneria, a partire dal Gran Maestro Gustavo Raffi, di inerzia nell’osteggiare l’ingresso di persone legate ai clan. Il massone espulso si è appellato al diritto di critica, ma secondo l'organo di giustizia interno non doveva «esternarla su un sito web accessibile ai fratelli compagni e apprendisti e soprattutto ai profani». «Gli estranei non massoni non devono essere posti nelle condizioni di conoscere le vicende attinenti la vista associativa», hanno confermato i giudici ordinari. «L'obbligo alla riservatezza riguarda i lavori in Loggia - precisa l'avvocato Carlo Paduano, legale di Minnicelli - Altrimenti la massoneria dovrebbe essere considerata un'associazione segreta».

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: "Quel pm intralcia le indagini". L’inchiesta Expo è una faida. Ora c'è anche una nota di Edmondo Bruti Liberati, inviata al Csm, secondo la quale il procuratore Alfredo Robledo avrebbe «determinato un reiterato intralcio alle indagini» su Expo; l'invio di atti al Csm fatto da Robledo, inoltre, avrebbe «posto a grave rischio il segreto delle stesse». In altre parole, la miglior difesa è l’attacco: Bruti Liberati contrattacca alle accuse di Robledo d’aver fatto assegnazioni anomale o sospette e aggiunge peraltro un carico da novanta: perché intralciare un’indagine sarebbe anche un reato. È difficile credere che Bruti Liberati voglia incolpare penalmente il suo sostituto, ma quel che è certo è che a Milano gli stracci volano sul serio: ed è tutta colpa del caso Expo. Il fascicolo è seguito dai pm anticorruzione Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio, ed è noto che Bruti Liberati, durante la conferenza stampa sugli arresti per Expo, aveva già precisato che Robledo non ne aveva condiviso le conclusioni: ora aggiunge che avrebbe addirittura intralciato l’inchiesta. Bruti Liberati, nella sua nota al Csm, cita anche l’episodio di un doppio pedinamento: «Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza», ha scritto il procuratore capo, spiegando poi che «solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini». Nei fatti, il low profile della procura di Milano è definitivamente turbato. Lo scontro oltretutto divide i magistrati. Da una parte il procuratore aggiunto anticorruzione Alfredo Robledo, l’anarchico, dall’altra il procuratore capo di quel granducato giudiziario che negli anni ha scosso il Paese con sue inchieste, Edmondo Bruti Liberati, personaggio più - diciamo così - militante. Intanto il Csm sta continuando con le audizioni dei magistrati chiamati in causa: si discute di presunte anomalie nelle assegnazioni, ritardi di iscrizioni nel registro degli indagati, soprattutto tensioni che covavano da almeno tre anni. Robledo sostiene che è stata ritardata l’iscrizione di politici come Roberto Formigoni e Guido Podestà, che l’azione penale è stata gravemente ritardata nel caso Sea-Gamberale (il fascicolo era stato dimenticato in cassaforte, ha ammesso Bruti Liberati) e questo senza parlare del chiassoso caso Ruby, laddove il fascicolo era curiosamente finito al dipartimento antimafia guidato da Ilda Boccassini. Su quest’episodio c’era stata anche l’ammissione, resa nota nei giorni scorsi, di Ferdinando Pomarici, ex responsabile della Dda di Milano: quell’assegnazione fu «anomala», ha detto. Il magistrato ha pure spiegato che scrisse a Bruti Liberati tutte le sue perplessità a proposito, poi ribadite durante una riunione. Pomarici ha anche segnalato un’anomalia legata al caso di Alessandro Sallusti, il direttore del Giornale già condannato al carcere per diffamazione: secondo Pomarici, Edmondo Bruti Liberati voleva che si facesse una deroga personalizzata per il direttore. La circostanza peraltro era già stata ammessa dal procuratore aggiunto Nunzia Gatto, responsabile dell’Ufficio esecuzione della Procura. Insomma, tutto rispecchia le storiche divisioni della procura, sinora sottaciute: gli uomini del procuratore capo - storicamente più legati a Magistratura democratica - contro gli altri. Va da sé che secondo Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari e legato a Bruti, nell’iscrizione di Formigoni non ci fu «nessun ritardo». Nessuna irregolarità neanche nel caso Ruby, ha spiegato anche Ilda Boccassini (vedi Libero di ieri). Più in generale, lo scontro tra il procuratore capo e il suo aggiunto è molto più interessante dei resoconti che i giornali si sforzano di darne; sull’esito dell’esposto di Robledo contro Bruti Liberati non c’è da attendersi chissà che cosa: stiamo pur sempre parlando di un magistrato contro un altro magistrato, giudicato da altri magistrati. Pare più interessante, leggendo gli atti del Csm, il differenziato profilo che si intravede. Bruti Liberati uomo d’apparato, di corrente, politicizzato, sensibile agli scenari politici e ai suoi cambiamenti, alle conseguenze delle inchieste che nascono dai suoi uffici: dunque un abile amministratore. Robledo, invece, più compiaciuto della propria indipendenza sancita dalla Costituzione, più immediato, automatico, quasi precipitoso, convinto che una certa ruvidità faccia parte dei suoi doveri e ufficialmente indifferente alle conseguenze delle sue indagini. È difficile essere più diretti senza prendere la solita querela: ma piacerebbe dire che entrambi i profili, se portati all’eccesso, descrivono alla perfezione il periglioso archetipo del magistrato all’italiana. Sin troppo responsabile e «politico» il primo, sin troppo anarchico il secondo. Quello che rimane identico, sempre leggendo gli atti del Csm, è lo scenario enormemente discrezionale nel quale i due paiono muoversi all’interno della procura: non quel tappeto di regole inflessibili e rigide che il cittadino magari s’aspetta (perché il magistrato è soggetto soltanto alla legge, si dice) bensì un groviglio gommoso di dipartimenti, mezzi dipartimenti, non-dipartimenti, assegnazioni, coassegnazioni, non assegnazioni, iscrizioni, non iscrizioni, in generale una discrezionalità dell’azione penale ben travestita. Un potere smisurato, in altre parole, che si può esercitare in un modo o nell’altro: e capita che non sempre i magistrati si trovino d’accordo.

Lo scontro tra Robledo, Bruti Liberati e la Boccassini e la guerra nascosta dentro il Csm, scrive “Libero Quotidiano”. La battaglia campale all'interno della Procura di Milano, con lo scambio di accuse tra il procuratore aggiunto Alfredo Robledo e il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, è solo la punta dell'iceberg di quanto sta accadendo all'interno della magistratura italiana. Robledo lamenta favoritismi nell'assegnazione di processi-manifesto, dal Rubygate all'ultima inchiesta sull'Expo, che sono finiti indebitamente (è l'accusa) a Ilda Boccassini e Francesco Greco. Secondo Bruti, al contrario, sarebbe stato Robledo ad intralciare le inchieste, coordinando doppi pedinamenti ai sospettati. Un pasticciaccio finito davanti al Consiglio superiore della magistratura, mentre l'Anm ha parlato di "grave rischio di delegittimazione" e la stessa Procura milanese, per bocca di molti funzionari, teme una "normalizzazione" della propria attività. Perché in gioco è in realtà il "potere" in mano al pool coordinato da Bruti. E, come ha sottolineato sul Foglio il cronista giudiziario Franck Cimini, gli equilibri stessi nel Csm, cioè l'autogoverno delle toghe italiane. Da qui a luglio, infatti, i magistrati sono in campagna elettorale. Il 6 e 7 luglio 2014 si rinnoverà la composizione del loro massimo organo e la corrente di sinistra Magistratura democratica, di cui Bruti Liberati è uno storico esponente, potrebbe dopo molti anni non avere rappresentanti tra i 16 "togati". Le "primarie" per palazzo dei Marescialli, infatti, sono state vinte da Magistratura indipendente e il "peso politico" del Csm potrebbe essere clamorosamente girato verso l'ala moderata. Il massimo esponente di MI, Cosimo Ferri, è tra l'altro sottosegretario alla Giustizia del governo Renzi. E dentro MD molti sperano che il Parlamento, a trazione renziana, possa "riequilibrare" nominando elementi "laici" vicini alla sinistra. Giustizia e politica, l'intreccio continua.

A Milano la mafia non esiste. Ci sono singole famiglie mafiose ma la mafia non esiste”. Con questa dichiarazione l’ex Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, apriva l’audizione della Commissione parlamentare antimafia riunitasi dopo anni di assenza a Milano, il 22 gennaio 2010, per un summit di tre giorni in vista dell’Expo 2015, dei suoi cantieri e di un allarme legato alle infiltrazioni della ‘ndrangheta denunciato nei giorni precedenti dall’allora ministro dell’Interno Roberto Maroni e dal capo della polizia Antonio Manganelli, scrive Domenico Corrado. Il commento aveva provocato scandalo nel Pd, che aveva parlato di “vergogna”, e nel sindaco Letizia Moratti, la quale dopo avere dichiarato che “se come è vero che gli emissari delle cosche calabresi a Milano vivono e lucrano”, precisava tuttavia la sua estraneità nell’affossamento della commissione comunale antimafia voluta dall’opposizione per monitorare il grande evento. Dall’entourage del prefetto di Milano, il giorno successivo, arrivava la garanzia che non era in discussione l’ammettere la presenza delle organizzazioni criminali, “quanto il loro modo di agire. Un agire da intendersi più imprenditoriale (appoggi in luoghi di potere, scalate a società, accumulo di ditte soprattutto dell’edilizia) che esecutivo-criminale”. La dichiarazione del prefetto oltre ad avere reso evidente la sottovalutazione del fenomeno, soprattutto in vista della grande quantità di denaro pubblico che verrà stanziato per l’Expo, ha fatto emergere un ritardo culturale, che a distanza di tre anni si può dire oggi, forse, ormai colmato, che pensa che l’Italia della mafia sia solo il meridione. Perché la ‘ndrangheta non ha patria e si muove silenziosamente all’ombra del grande business laddove esiste la possibilità di ricavare enormi profitti, e, nonostante abbia sempre cercato di mantenere un profilo criminale basso – perché gli affari illeciti nel silenzio si svolgono con più tranquillità – ha dimostrato di possedere un apparato militare efficiente in grado di piegare qualsiasi resistenza, e che, talvolta, ha perfino goduto del favoreggiamento di uomini delle forze dell’ordine, come nel caso dell’ex carabiniere della caserma di Rho, in provincia di Milano, Michele Berlingeri, condannato a tredici anni e mezzo in seguito alla maxi operazione Infinito del 13 luglio 2010 contro la ‘ndrangheta in Lombardia. E infatti la storia della ‘ndrangheta nella regione ha un lungo corso, che inizia negli anni Cinquanta con i primi malavitosi calabresi mandati al confino nel nord Italia, e che arriva fino ai giorni nostri, dove ha acquisito un potere tale da potersi infiltrare in ogni attività economica e istituzionale rappresentando, spesso, l’avanguardia del capitalismo italiano. La prima generazione della malavita calabrese crebbe e si sviluppò all’ombra dei piccoli centri periferici come Buccinasco, San Donato Milanese e San Giuliano Milanese, mischiandosi con la massa di compaesani partiti alla volta del nord in cerca di lavoro e fortuna. L’incontro fra queste due realtà diede alla malavita la possibilità di ‘organizzare il territorio’ attraverso la mentalità e gli stessi costumi della natia Calabria, riuscendo, così, per mezzo della paura e dell’intimidazione, a creare una rete sociale spesso connivente. Il primo boss operante in Lombardia fu Giacomo Zagari. Nativo di San Ferdinando, nella piana di Gioia Tauro, si trasferì a Gallarate, in provincia di Varese, alla metà degli anni Cinquanta, diventando presto il punto di riferimento di tutti gli uomini delle ‘ndrine che giungevano in Lombardia, e boss indiscusso del Varesotto. A quei tempi gli introiti dei boss venivano ricavati essenzialmente dal pizzo, ossia dall’estorsione di denaro nei confronti di piccoli e grandi imprenditori. Questa pratica, fin dagli esordi, dimostrava la dualità del suo scopo: da una parte il fine economico e finanziario, e dall’altro quello politico-militare legato al controllo del territorio. Ma siamo ancora lontani dal periodo in cui la ‘ndrangheta, attraverso la sua forza di persuasione finanziaria e militare, riusciva a insinuarsi nel tessuto politico ed economico della regione più ricca e produttiva del Paese, fino a minarne le basi democratiche. Infatti bisognerà attendere la metà degli anni Settanta e la stagione dei sequestri per vedere emergere gli ‘uomini nuovi’ che faranno compiere un salto di qualità alla politica criminale della ‘ndrangheta in Lombardia. Ad aprire la stagione dei sequestri ci aveva pensato Cosa nostra con il primo rapimento, quello dell’imprenditore Piero Torielli, prelevato a Vigevano, in provincia di Pavia, il 18 dicembre 1972, da un commando diretto da Luciano Leggio, e che si concluse con il pagamento di un riscatto di un miliardo e mezzo di lire. Da quel momento Milano e la Lombardia si trasformano in una miniera d’oro per tutti i gruppi di sequestratori, che in dieci anni misero a segno decine di sequestri di persona, alcuni finiti tragicamente con la morte del rapito. I rappresentanti calabresi di quella stagione furono i Pesce, i Mazzaferro, i Barbaro, i Paviglianiti, i Morabito, i Papalia e i Sergi, federati in un patto di alleanza e ideatori del sequestro di Cesare Casella, l’alleanza Coco Trovato-Flachi e i De Stefano. Attraverso i sequestri di persona la ‘ndrangheta iniziava ad affinare l’organizzazione – poiché per gestire un rapimento è necessaria una efficiente base logistica e un controllo capillare sul territorio in cui si opera – e ad arricchirsi, allargando cosi il business criminale verso nuovi e più ampi orizzonti, quello del narcotraffico di eroina e cocaina. All’inizio degli anni Ottanta, con l’aggressione sovietica dell’Afghanistan, il Paese produttore del 95% dell’oppio del mondo, l’Europa – e quindi anche l’Italia – veniva sommersa di eroina a buon prezzo, il cui traffico arricchì i cartelli siciliani e calabresi ridefinendo la cartina tornasole della criminalità organizzata nel nord Italia. Come per la stagione dei sequestri anche nel business del narcotraffico i ‘calabresi’ iniziarono al traino delle famiglie siciliane. Appoggiandosi prima al cartello Ciulla-Uguccione, e successivamente ai Fidanzati e ai Carollo, i quali negli anni Ottanta detenevano il controllo del mercato dell’eroina, la ‘ndrangheta riuscì presto a scalzare il ruolo predominante di Cosa nostra: “I calabresi si misero in proprio molto rapidamente, iniziarono a trattare con i turchi, che hanno basisti a Milano a cui far arrivare i carichi di eroina. Cosa nostra, che deteneva il monopolio, non riuscì ad arrestare la crescita dei calabresi e cosi tentò la via diplomatica, che fu al tempo stesso un riconoscimento del nuovo status raggiunto dalla ‘ndrangheta”. Da quanto venuto a galla dalle dichiarazioni rilasciate da Michel Amandini nel merito dell’inchiesta Nord – Sud condotta nel febbraio del 1994 dal pm di Milano Alberto Nobili, tra il 1986 e il 1989 si svolsero due summit, uno a Torino e uno a Milano, coordinati dal boss di Catania Nitto Santapaola e finalizzati all’elaborazione di una strategia d’azione comune per i clan siciliani e calabresi operanti in Lombardia e in Piemonte, e che si conclusero con la regolamentazione delle rispettive zone di influenza e con il riconoscimento della preminenza della ‘ndrangheta in Lombardia: “Rocco Papalia mi disse di aver preso parte insieme al fratello Antonio a due summit nei quali si sarebbe arrivati a una sorta di pax mafiosa o comunque di regolamentazione delle più importanti organizzazioni criminali [...]. Al summit presero parte rappresentanti siciliani, calabresi e napoletani. Grazie al Santapaola si decise una sorta di accordo generale in virtù del quale ogni gruppo criminale avrebbe operato nelle sue zone d’influenza senza guerre o tentativi di espansione [...] ai calabresi, era lasciata la supremazia di fatto in Lombardia e il Papalia Antonio venne indicato come personaggio di primo piano. In caso di contrasti o conflitti l’ultima e decisiva parola sarebbe spettata proprio ad Antonio Papalia”. Il processo si concluse nel 1997 con dure condanne che portarono alla decimazione dei vertici delle famiglie siciliane dei Carollo, dei Ciulla e dei Fidanzati, e delle famiglie calabresi dei Papalia, dei Sergi, dei Morabito, dei Coco-Trovato e dei Pavagliniti. Tuttavia, i calabresi riuscirono a mantenere il controllo delle posizioni raggiunte a discapito di Cosa nostra, la quale in quel periodo si trovava fortemente indebolita dal fenomeno del pentitismo che nel 1993 avrebbe portato all’arresto di nomi eccellenti come Totò Riina e Nitto Santapaola: “Ma quel colpo si rivelerà mortale solo per Cosa nostra, già provata in Sicilia dallo sfaldamento dovuto al fenomeno del pentitismo che in quegli anni porta in galera centinaia di affiliati sia tra i boss, come Totò Riina e Nitto Santapaola, che tra i semplici picciotti. Così a Milano, il centro nevralgico degli affari, Cosa nostra non ha abbastanza soldati sul campo per mantenere una posizione di rilievo nel traffico di stupefacenti. Il problema invece non si pone nemmeno per le ‘ndrine, che grazie alle seconde generazioni prenderanno definitivamente in mano il mercato della droga a Milano e anche nel resto del nord Italia”. Alla fine degli anni Novanta, dunque, la ‘ndrangheta si trova, senza concorrenti, a intraprendere i primi passi verso la creazione di quella rete di alleanze criminali internazionali che l’avrebbe portata, ai giorni nostri, a dominare in modo incontrastato il mercato della cocaina, e ad avere a disposizione una grossa massa di capitali da reinvestire in attività economiche e finanziarie diversificate e da utilizzare come strumento di persuasione per influenzare la vita politica. Nel tempo, la ‘ndrangheta è riuscita a creare una rete imprenditoriale che può vantare ramificazioni che vanno dal business dell’edilizia alle imprese di movimento terra fino alla fornitura di materiale edile, dalla gestione di imprese ludiche come discoteche, ristoranti, pub e sale da bingo al controllo della distribuzione del cibo – come emerso dalle indagini della procura meneghina sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta nell’Ortomercato di Milano, che il 2 agosto 2008 hanno portato alla condanna di Salvatore Morabito e Antonino Palamara – fino alle attività finanziarie illecite in cui “una grossa massa di liquidità è reinvestita in strutture societarie o in beni immobili attraverso un’accorta attività di riciclaggio, realizzata ricorrendo all’esterovestizione mediante l’intervento di società fiduciarie con Paesi offshore”. Senza esagerazioni, si può dire che all’alba del nuovo millennio la ‘ndrangheta sia diventata ‘l’impresa’ più florida del Paese, che vanta ramificazioni criminali internazionali e una disponibilità di capitali illimitata, capace di spostare tonnellate di cocaina e di raggiungere milioni di consumatori attraverso il controllo su una fitta e diversificata rete economica e commerciale. Un’organizzazione criminale efficiente e spietata, che agli strumenti offerti dalla modernità affianca elementi arcaici di una mentalità basata sull’onore e sull’omertà, rendendola, come l’hanno definita Nicola Gratteri e Antonio Nicaso, la mafia più potente del mondo. Alla luce degli avvenimenti che hanno portato alla conquista di quella che era definita la capitale morale d’Italia non stupisce affatto, quindi, il grande interesse dimostrato dalle ‘ndrine verso l’evento che porterà Milano a essere al centro del mondo: l’Esposizione universale del 2015, che secondo le stime dovrebbe ospitare 36 milioni di visitatori e porterà ricavi pari a 1.311 milioni di euro. Come è affiorato dall’inchiesta coordinata dalle Dda di Milano e di Reggio Calabria in seguito alla maxi operazione Infinito scattata il 13 luglio 2010 e che ha portato a 400 arresti, 160 dei quali in Lombardia, i clan calabresi avrebbero tentato di infiltrarsi negli appalti per Expo 2015 attraverso la Perego General Contractor. L’azienda edile, formalmente di proprietà di Ivano Perego, era concretamente manovrata dalle mani di Salvatore Strangio – Strangio e Perego sono stati anche loro incarcerati in seguito all’operazione Infinito – che gestiva le infiltrazioni delle imprese calabresi nell’ambito dei lavori pubblici, e che intendeva assorbire nel gruppo Perego alcune importanti aziende lombarde del settore edile che versavano in condizione di difficoltà economiche, allo scopo di costruire apposite attività di impresa in grado di partecipare direttamente all’affidamento degli appalti. Il piano non andò in porto nonostante l’appoggio politico di Antonio Oliviero, ex assessore della giunta provinciale di Filippo Penati passato poi nelle fila del nuovo presidente, Guido Podestà, indagato e poi rinviato a giudizio per corruzione e truffa aggravata e per i suoi rapporti con la Perego General Contractor. Nel capitolo dell’ordinanza di custodia cautelare dedicato a Oliviero, il gip Giuseppe Gennari ha indicato l’ex assessore come “il capitale sociale della ‘ndrangheta, la persona giusta per le operazioni di lobby e per mettere a frutto quella rete di relazioni istituzionali e politiche di cui si nutre l’organizzazione criminale [...] e il cui ruolo appare evidente e di non trascurabile importanza all’interno dei contatti politico istituzionali che interessano le vicende della Perego”. Secondo il gip, Oliviero progettava conquiste e appalti, si vantava di fare parte di una squadra, e rivelava la stoffa del cinico e del trasformista che vuole conservare a tutti i costi la poltrona e il suo asservimento agli interessi privati e criminali: “Il politico, con sovrano cinismo, dice a Perego di non esporsi troppo con Podestà perché poi magari rivince Penati e lui ancora quattro contatti li ha. Oliviero promette a Perego di aprirgli tutte le strade. Dice che loro sono una squadra dove Oliviero è il capo. Parole di questo genere, dette da chi si candida a ricoprire ruoli istituzionali e di amministrazione della cosa pubblica, non possono che preoccupare. E preoccupano perché rivelano l’asservimento totale dell’uomo pubblico a interessi privati. Vogliamo dire che Oliviero poteva non sapere che Perego avesse la ‘ndrangheta a casa? Ebbene, Oliviero non è raggiunto da richiesta di custodia cautelare, [...] tuttavia è evidente che sono questi momenti patologici, di osmosi tra attività istituzionali e interessi particolari, che rappresentano la via di ingresso della criminalità organizzata – che già controlla i colletti bianchi – nel mondo economico e politico”. Il caso Perego ha portato alla luce i legami esistenti tra imprenditoria, ‘ndrangheta e politica istituzionale, e ha messo in evidenza come ormai sia difficile tracciare una linea di demarcazione tra l’azione dei rappresentanti dello Stato che dovrebbero operare nella legalità e nell’interesse collettivo, e quella della criminalità organizzata, in quanto l’intreccio d’interessi politico-criminali, la zona grigia dove si incontrano gli interessi su cui è meglio non indagare, sembra ormai essere diventata sistemica, come è stato dimostrato dall’ultima inchiesta della procura di Milano che ha portato alla carcerazione di Domenico Zambetti, ex assessore del Pdl alla Regione Lombardia, per corruzione e concorso esterno in associazione mafiosa. Dall’inchiesta è emerso che Zambetti pagò la ‘ndrangheta per ricevere un pacchetto di voti che gli garantisse l’elezione nel Consiglio regionale lombardo, poi avvenuta puntualmente. Voti pagati in contanti, a caro prezzo, circa 50 euro l’uno, che sono costati complessivamente 200 mila euro, versati ai clan in varie rate. A incassarli, secondo l’accusa, Giuseppe D’Agostino, gestore di locali notturni, già condannato negli anni scorsi per traffico di droga, appartenente al clan Morabito-Bruzzaniti, e l’imprenditore Eugenio Costantino, il referente del clan Mancuso. Insomma, un intreccio di affari sporchi dove mafiosi, politici e faccendieri si confondono fino a diventare una cosa sola, e anche laddove esiste una sorta di volontà di resistere alle lusinghe della via mafiosa, alla fine, spesso, vince la paura o l’omertà, come nel caso di Marco Tizzoni, coinvolto in una compravendita di voti – non andata in porto – avvenuta alle elezioni amministrative di Rho del 2011. Marco Tizzoni, leader della lista civica ‘Gente di Rho’, fu avvicinato da Marco Scalambra, finito agli arresti il 10 ottobre 2012 assieme a Domenico Zambetti, con la scusa di essere il compagno di ballo di una candidata nella sua lista, Monica Culicchi, che gli propose i voti della lobby calabrese che Tizzoni rifiutò senza però denunciare l’accaduto alla magistratura. Mafia, politica e mondo degli affari all’ombra dell’Expo 2015. Con l’operazione Infinito sono venute a galla le mire dei clan nei confronti del grande evento e la connivenza di politici disposti a tutto pur di arricchirsi e mantenere la posizione raggiunta. Nicola Gratteri ne conta ben tredici di politici lombardi in rapporti più o meno stretti con la ‘ndrangheta. E dice di più: “Questi politici hanno ricevuto i voti delle cosche”. Accuse gravi che trovano parziale conferma nelle carte, non però negli avvisi si garanzia o nelle sentenze. Al di là di tutto, degli sviluppi che seguiranno dai processi e dalle indagini in corso, con l’operazione Infinito è emerso un dato inequivocabile che non può essere ignorato neanche dai più ostinati scettici: la Mafia a Milano esiste.

Tangenti Expo, "così dieci imprese della cupola volevano spartirsi la Città della salute". In un rapporto della Finanza si parla di un "accordo preliminare" sul grande polo sanitario milanese che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni. E di una coop legata a Greganti che lavorò sulla Piastra, scrive “La Repubblica”. Dieci imprese, "pressoché" tutte in rapporti con i componenti della cosiddetta 'cupola degli appalti' finiti in carcere nei giorni scorsi, si sarebbero mosse per aggiudicarsi il maxi-appalto da 323 milioni di euro per il progetto Città della salute, una delle gare, assieme a quelle dell'Expo e ad altre nella sanità lombarda, al centro dell' inchiesta coordinata dai pm milanesi Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. E' quanto emerge da un'informativa della guardia di finanza in cui viene riportata anche una mail ricevuta dall'ex funzionario pci Primo Greganti e che conteneva un "accordo preliminare" fra le società interessate ai lavori per quel grande polo sanitario, ancora da realizzare e che dovrebbe sorgere a Sesto San Giovanni, alle porte di Milano. E la cupola sarebbe riuscita a inserirsi anche nei lavori per la cosiddetta Piastra dell'Expo, l'appalto più rilevante aggiudicato per 149 milioni di euro e giunto ormai a oltre il 50 per cento di realizzazione. A quell'infrastruttura, che è la piattaforma di base su cui si sviluppa il sito espositivo, avrebbe lavorato - stando ai nuovi particolari che emergono dalle carte dell'inchiesta - anche una cooperativa legata a Greganti. Ovvero quel Compagno G che, secondo un'intercettazione, governava "le coop rosse" come un "martello" e che avrebbe stipulato addirittura un contratto, con tanto di "provvigioni", con il colosso delle costruzioni del mondo cooperativo: la Cmc di Ravenna.Sul fronte Città della salute, il messaggio di posta elettronica, come scrive la Finanza, sarebbe stato inviato al 'Compagno G' l'11 aprile del 2013 da Lorenzo Beretta, un responsabile di Olicar, gruppo che si occupa di servizi per l'energia. Nella mail veniva indicato come oggetto "Città della Salute e della Ricerca-Sesto San Giovanni" ed era allegato "un file" denominato "Sesto San Giovanni accordo preliminare", che in precedenza sarebbe stato girato, secondo gli inquirenti, dall'imprenditore vicentino Enrico Maltauro (ora in carcere) allo stesso Beretta. Il file conteneva "la bozza di una scrittura privata tra i seguenti soggetti: Impresa Costruzioni Giuseppe Maltauro spa; Cons. Naz. Coop di Produzione e Lavoro Ciro Menotti Scpa; Cefla S.C; Prisma Impianti spa; Gemmo Spa; Manutencoop Facility Management spa; Servizi Ospedalieri spa; Olicar; Vivenda spa; Sotraf". Era una bozza con l'indicazione della "costituzione di un raggruppamento temporaneo di imprese" per partecipare alla gara. Nel gruppo di imprese, sempre secondo la guardia di finanza, doveva essere inserita in vista dei lavori anche la cooperativa Viridia, che sarebbe stata legata a Greganti, tanto che la 'Ciro Menotti' dichiarava nella scrittura privata di "intervenire per conto della propria consorziata Viridia". Le società "interessate al raggruppamento temporaneo di imprese", segnala la Finanza, erano "pressocché" tutte collegate con il "sodalizio Frigerio-Cattozzo-Greganti-Grillo". Fra l'altro i presunti legami di Greganti con i manager della Olicar sono documentati anche da molte altre intercettazioni, tra cui una dello scorso 14 febbraio: intercettazione che dimostrerebbe ancora una volta l'abitudine del Compagno G, che fu il collettore delle tangenti rosse ai tempi di Tangentopoli, di frequentare i palazzi del potere dopo l'ormai nota telefonata in cui diceva che stava uscendo da una riunione in Senato. "Adesso sono in assessorato al Comune di Torino", spiegava l'ex funzionario del Pci a Paolo Fusaro, amministratore delegato di Olicar, aggiungendo che sarebbe arrivato a Milano per le 11 col treno e puntuale all'appuntamento in un albergo. Molto attivo per l'affare Città della salute era anche Gianni Rodighero, indagato e ritenuto il braccio destro dell'ex dc Gianstefano Frigerio. Fu Rodighero il 20 febbraio scorso, stando ad un'informativa della guardia di finanza, a ricevere una telefonata da Danilo Bernardi, manager Manutencoop che voleva "fissare un appuntamento" con Frigerio per discutere la "questione dei reciproci oneri di ricerca delle protezioni politiche" per l'appalto Città della salute. Tornando alla Piastra, invece, un altro appalto dell'Expo, dunque, diverso da quelli già venuti a galla dall'inchiesta (tra cui la gara per le architetture di servizi), potrebbe aver subito i condizionamenti delle presunta associazione per delinquere che aveva in prima linea, oltre a Greganti, anche Frigerio e l'ex senatore Luigi Grillo (Forza Italia). Grillo che, secondo quanto diceva in una telefonata Sergio Cattozzo, ex esponente dell'Udc e presunto corriere delle tangenti, avrebbe avuto "consolidate aderenze" e "rapporti diretti" anche "con Lupi", ministro delle Infrastrutture e dei trasporti. Intercettazione questa, come molte altre nelle quali la "squadra" fa nomi di politici, che gli inquirenti valutano con cautela perché potrebbe trattarsi di millanterie. E' in un'informativa della guardia di finanza, invece, che compaiono una serie di intercettazioni nelle quali il 'Compagno G' parla con Fernando Turri, rappresentante legale di Viridia, coop di Settimo Torinese attiva dal '92 e che opera in vari settori, delle costruzioni alla produzione di energia. I finanzieri scrivono che Viridia assume rilevanza con riferimento a buona parte delle vicende attenzionate" dai pm Gittardi e D'Alessio: la società era interessata anche "alla realizzazione della Città della salute" e "agli appalti" di Sogin. E soprattutto, pur "non essendo palesemente ricompresa nel raggruppamento di imprese", capeggiato dalla Mantovani Spa, che vinse l'appalto per la 'Piastra' (appalto citato anche nelle carte dell'inchiesta che a marzo 2014 ha portato in carcere l'ex direttore generale di Infrastrutture Lombarde, Antonio Rognoni), Viridia ha "svolto dei lavori nel sito di Expo 2015, verosimilmente in qualità di consorziata del Consorzio Veneto Cooperativo". Il responsabile di Viridia, poi, sempre secondo la Finanza, "avrebbe partecipato" anche ad almeno due incontri con Greganti e Angelo Paris, l'allora manager di Expo 2015 spa - uno del 20 dicembre 2013 e un altro del 29 gennaio 2014 - per discutere sulla realizzazione dei padiglioni. Greganti, scriveva Paris in un sms, "è uno che governa le coop rosse, che al momento performano male su Expo... E quindi lui è il martello che le fa rigare". E questi stretti collegamenti tra l'ex funzionario del Pci e le coop sembrano acquistare anche maggior peso con il ritrovamento, da parte della guardia di finanza, del testo di un "accordo di partnership sottoscritto da Seinco En-ri srl", società riconducibile a Greganti, con la Cmc di Ravenna, che fra l'altro costruirà il padiglione della Francia per l'Expo (oltre a essersi già aggiudicata l'appalto per la rimozione delle interferenze). Il 14 febbraio scorso, spiegano gli inquirenti, Greganti inviò una mail a Dario Foschini, amministratore delegato di Cmc, contenente il testo di un contratto che riconosceva "sostanzialmente da parte di Cmc un concorso in spese di ufficio per sei mesi e, soprattutto, una provvigione sulle attività e progetti frutto del presente accordo che (...) non potrà essere inferiore all'1 per cento del valore delle operazioni portate a buon fine". E per l'inizio della prossima settimana sono fissati due interrogatori decisivi per lo sviluppo delle indagini: lunedì i pm sentiranno Paris e martedì Cattozzo, l'uomo della presunta "contabilità delle mazzette".

Sergio Cattozzo, l'ex esponente dell'Udc ligure, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo o 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti, scrive Il Fatto Quotidiano. Non solo un post-it, ma un vero e proprio archivio cartaceo. Sergio Cattozzo, l’ex esponente dell?Udc ligure e corriere delle tangenti versate alla “cupola degli appalti”, secondo la Procura di Milano, aveva in casa un dossier costituito da molti documenti cartacei su cui avrebbe appuntato in maniera ordinata numeri, date e nomi, ossia una presunta contabilità delle mazzette. Contabilità che si aggiunge quindi al biglietto che Cattozzo ha cercato di nascondere ai finanzieri che erano andati ad arrestarlo.  Dopo un primo interrogatorio Cattozzo, che intercettato al telefono con Frigerio sosteneva che i pubblici ufficiali andavano “coccolati” come le “belle donne”, sarà nuovamente sentito martedì prossimo. Nei post-it, come aveva confessato lo stesso Cattozzo al gip, aveva annotato in pratica “la contabilità delle tangenti” con date e percentuali: lo 0.3 o lo 0.5% sul valore degli appalti. Secondo i calcoli degli inquirenti, riscontrati già dopo gli interrogatori, le tangenti versate dall’imprenditore vicentino Enrico Maltauro, ammonterebbero a circa 600mila euro in totale tra quest’anno e lo scorso anno. Anche se il costruttore avrebbe parlato di una cifra doppia con gli inquirenti. Tra l’altro, proprio Cattozzo in una intercettazione, parlando con l’ex parlamentare Dc Gianstefano Frigerio ed elencando una serie di cifre, lo rassicurava dicendo: “Io ho scritto tutto”. “Un’organizzazione efficiente e prismatica, quasi militarmente organizzata nella scrupolosa suddivisione dei ruoli e delle mansioni affidate a ciascun sodale, con una produttività di rilievo”. È una delle conclusioni del rapporto della sezione di pg della Gdf dello scorso 31 marzo e ora agli atti dell’inchiesta. Le Fiamme Gialle, nel descrivere la  ”cupola” aggiunge che la sua “efficacia operativa” viene dimostrata anche dalla capacità di far fronte a “variabili impreventivabili come la perdita di una ‘pedina’ fondamentale quale Antonio Rognoni (ex dg di Infrastrutture Lombarde ora agli arresti domicilari, ndr)”, “prevedendo soluzioni alternative e rapide manovre di avvicinamento, accerchiamento o consolidamento dei rapporti coi pubblici ufficiali interessati”. Secondo i finanzieri la cupola aveva tentato di coinvolgere nel ‘sistema’ architettato anche Riccardo Napolitano, amministratore delegato di Finmeccanica Services Group, “al fine di conseguire importanti vantaggi in termini economici visto che” l’alto dirigente “gestirebbe appalti per miliardi di euro per conto dell’intero gruppo”. In base “all’analisi delle conversazioni intercettate all’interno dell’ufficio di Frigerio con Cattozzo e Greganti – si legge nel rapporto – è emerso come i tre stiano consolidando il rapporto con Riccardo Napolitano”. La sezione pg della Guardia di Finanza sottolinea che una serie di intercettazioni telefoniche sull’utenza di Cattozzo “hanno consentito di accertare che nei giorni 23,25 e 26″ settembre 2013, l’ex esponente dell’Udc ha avuto “un fitto scambio di contatti telefonici con manager o dipendenti del gruppo Finmeccanica”, cui sarebbero seguiti incontri nelle sede del Gruppo in via Monte Grappa a Roma e di Finmeccanica Services Group in via Piemonte, “tra cui Riccardo Napolitano (incontrato, peraltro, insieme a Primo Greganti), Giovanni Pontecorvo”, attuale presidente di BredaMenarinisus, società del gruppo Finmeccanica, e due persone non meglio identificate, tale Gianni e tale Ugo. Inoltre, si legge in una nota dell’informativa con cui nell’ ottobre dell’anno scorso era stata chiesta una proroga delle intercettazioni, Cattozzo e Frigerio “avrebbero ricevuto da Napolitano un documento, riportante l’elencazione di tutti i principali settori di servizi affidati da Finmeccanica, agli stessi estremamente utile per individuare i servizi da mettere in correlazione con gli imprenditori amici”. Frigerio avrebbe inviato un fax a Napolitano “informandolo del suo interessamento presso importanti figure politiche allo scopo di favorirlo nello sviluppo della sua carriera professionale, invitandolo nel contempo a ricevere tre imprenditori suoi amici in prospettiva di favorirli nell’assegnazione degli appalti”. E per completare il quadro i finanzieri spiegano che dalle conversazioni Cattozzo “starebbe perorando assiduamente gli interessi economici di Francesco Marguati – ex sindaco (area Pdl) di Tortona dimessosi nel 2009 – cui fa capo la Sotraf” impresa attiva nel settore delle pulizie “con l’intento di fargli aggiudicare qualche gara anche in Finmeccanica, non limitandosi, dunque, alle strutture sanitarie” come l’ospedale San Matteo e l’azienda ospedaliera di Pavia. ”Io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Così, in un’intercettazione del 17 maggio del 2013, Cattozzo parlava con Gianstefano Frigerio. Nella conversazione, inserita in “brogliaccio” redatto dalle Fiamme Gialle i due, stavano parlando, in particolare, del ruolo Napolitano. Cattozzo, annota la Gdf, dice a Frigerio che Riccardo Napolitano “gli ha detto che gestisce 3 miliardi di euro all’anno di lavori”. Frigerio spiega, quindi, che lui “continua a chiedere a Napolitano in quali settori”. Cattozzo: “Adesso mi fa l’elenco dei settori”. Frigerio: “Bravo … ecco che guardiamo io e te”. Cattozzo: “Però io stavo pensando di fare un’operazione di questo genere (…) ma perché tu non metti in campo tutto il tuo prestigio con Gianni Letta e il Presidente, e Primo dall’altra parte parla con D’Alema con chi cazzo vuole”. Frigerio: “Certo”.

Expo, cronaca di uno scandalo annunciato. L’Antimafia aveva avvisato: attenti alla Maltauro. Ma la prefettura non l’ha buttata fuori dagli appalti. E i cassieri delle mazzette aggiravano i controlli sui lavori più importanti, scrivono Paolo Biondani e Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Adesso qualcuno spera che il resto della storia rimanga segreto. Prega che non si sappia che la Prefettura di Milano avrebbe potuto, e forse dovuto, fermare l’ingresso della “Maltauro costruzioni” negli appalti per l’Expo 2015. Perché alcuni funzionari del prefetto avevano da tempo scritto che «la società Maltauro tende a subappaltare lavori a ditte che sono successivamente destinatarie di informazioni antimafia interdittive»: cioè, secondo il rapporto, l’impresa veneta si serve anche di imprenditori collegati alla criminalità organizzata. Nessuno però in Prefettura se l’è sentita di privare l’Expo del contributo di Enrico Maltauro, 59 anni, il boss dell’impresa che ha vinto due appalti indispensabili all’esposizione universale per un totale di 97 milioni e mezzo. Il 21 febbraio 2014 dopo sette mesi di istruttoria, l’«Ufficio di supporto della sezione specializzata del comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere Expo Milano 2015» (questo il pomposo nome) ha deciso di fare più umilmente come Penelope durante l’assenza di Ulisse: «Si resta in attesa dell’esito degli ulteriori accertamenti in corso», sottoscrivono la dirigente prefettizia della struttura di sorveglianza, la dirigente di gabinetto della Prefettura, tre tenenti colonnello, due vicequestori, un tenente e un sostituto commissario. I nove rappresentanti della legge permettono così a Enrico Maltauro di continuare a lavorare indisturbato nei cantieri. Fino al suo arresto, l’8 maggio, per presunte tangenti con due immortali faccendieri di Tangentopoli anni ‘90, Gianstefano Frigerio, 75 anni, area Berlusconi, e Primo Greganti, 70 anni, tessera Pd ora sospesa, l’ex onorevole del Pdl Luigi Grillo, 71 anni, e Angelo Paris, 48 anni, promettente direttore generale e responsabile dei contratti di Expo, praticamente il numero due della società pubblica a cui resta un anno per preparare l’evento. L’inchiesta della Procura di Milano esce allo scoperto negli stessi giorni in cui indagini antimafia e sentenze colpiscono i pilastri di vent’anni di centrodestra in Italia e riscoprono nomi intramontabili delle bustarelle rosse. Così ecco la fuga in Libano del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri, condannato per concorso esterno a Cosa Nostra, l’arresto del ministro dell’Interno ai tempi del G8 a Genova, Claudio Scajola, successivamente famoso per l’appartamento sul Colosseo pagato a sua insaputa, fino all’intrigo massonico che lega i due con la rete che protegge la latitanza dell’ex parlamentare berlusconiano, Amedeo Matacena, condannato a sua volta per concorso esterno alla ‘ndrangheta. Ma ecco anche il ruolo di Primo Greganti, l’ex cassiere del Pci arrestato e condannato durante la prima inchiesta di Mani pulite e ancora operativo, secondo la Procura, nei contratti per l’Expo e la sanità con il coinvolgimento di alcune importanti cooperative. Tanto per confermare quanto l’appalto con l’aiutino della stecca non faccia schifo nemmeno a sinistra. Se questo sia l’inizio di una stagione rinnovata di Mani pulite dipende dal supporto di uomini e mezzi che il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, e il collega della Giustizia, Andrea Orlando, forniranno alle indagini. Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra. Allo schiaffo giudiziario sull’Expo, si aggiunge la botta economica. La Mantovani spa, l’impresa di Padova che ha realizzato la piastra su cui saranno costruiti i padiglioni dell’esposizione, pretende ora 110 milioni in più rispetto al prezzo che la stessa Mantovani aveva formulato per strappare l’appalto alle concorrenti. La capocordata, insieme con altre imprese appartenenti all’intera lobby parlamentare dal Pdl alla Lega Coop, si era aggiudicata il contratto più grosso di Expo con l’offerta di 165 milioni, partendo da una base d’asta di 272 milioni. Un ribasso che aveva scandalizzato perfino un politico navigato come il celeste senatore Roberto Formigoni, allora governatore ciellino della Lombardia e ora imputato per la corruzione sulla sanità. Se in Francia, dove l’Esposizione universale ha la sua sede storica, un ente pubblico formulasse una base d’asta superiore del 65 per cento rispetto ai prezzi di aggiudicazione, i suoi manager e progettisti verrebbero licenziati per aver gonfiato le cifre. Oppure l’offerta dell’impresa verrebbe bocciata. In Italia no: da noi in questo modo si vincono contratti colossali. «Questo è stato possibile grazie alla nostra consolidata esperienza nell’affrontare sistemi complessi», raccontava a “l’Espresso” l’allora amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, poco prima di essere arrestato per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture false e dichiarazione fraudolenta e poi condannato con un patteggiamento a un anno e dieci mesi. Certo: esperienza consolidata. La Mantovani, guidata dopo Baita dall’ex questore di Treviso Carmine Damiano, con la giustificazione dei tempi di consegna accelerati, presenta dunque il conto del suo ribasso fuori mercato: 110 milioni di maggiore spesa che il governo Renzi dovrebbe stanziare per accontentare la società, definita solo otto mesi fa dai giudici «gruppo economico criminale», per farla così rientrare dai preventivi spericolati presentati dal pregiudicato Baita in una gara d’appalto la cui commissione aggiudicante era presieduta dall’attuale detenuto Angelo Paris. Il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala, è ottimista: «Più che di contenzioso, dobbiamo parlare di riserve», spiega a “l’Espresso”: «Chi conosce le questioni relative agli appalti sulle costruzioni sa che in genere si chiude su un dieci-venti per cento del valore richiesto». Altri osservatori sono un po’ più pessimisti: «Mantovani non scenderà al di sotto dei 60 milioni». Comunque è sempre un bel malloppo a carico degli italiani. Baita, nonostante la condanna, non è scomparso dal panorama. Secondo i magistrati, è tuttora rappresentante legale di quattro società. E a lui si rivolge il general manager Paris nel suo tentativo di trovare sponsor, a cominciare da Silvio Berlusconi, per essere promosso al posto di Antonio Rognoni, arrestato poche settimane fa, direttore generale di Infrastrutture lombarde (Ilspa), il braccio operativo della Regione nei grandi appalti e nella direzione dei lavori per l’Expo. «Posso chiederti un consiglio da amico. Ti candideresti al bando pubblico per ricerca DG Ilspa?», scrive Paris in un sms. «Se fossi in te sì. Fatti vivo. Ciao», gli risponde Baita. Sulla Mantovani gravano sempre le parole pronunciate davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, dal procuratore vicario della Direzione nazionale antimafia Pier Luigi Dall’Osso. Lo scorso  6 settembre durante una riunione del Comitato per l’alta sorveglianza sui grandi appalti il magistrato aveva messo in guardia sulla posizione dell’azienda: l’esistenza di informative ancora coperte dal segreto e quanto già scritto dai giudici nelle inchieste venete offrono uno spaccato dell’attività dell’impresa che «probabilmente potrà essere uno degli elementi fondanti di importanti iniziative da adottare in tema di antimafia». Pesa però anche l’immediata risposta del provveditore alle Opere pubbliche, Pietro Baratono, rappresentante a Milano del ministro delle Infrastrutture, Maurizio Lupi: Baratono dice al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sulla Mantovani perché «l’adozione di un eventuale provvedimento interdittivo potrebbe mettere a rischio la realizzazione dell’evento». Per buona pace della Mantovani, il dottor Dall’Osso non si occupa più della questione. Nel frattempo è stato promosso procuratore a Brescia. Dopo l'inchiesta-denuncia di Fabrizio Gatti, la prefettura ha deciso di bloccare la società siciliana in rapporti con le cosche che si era aggiudicata l'appalto più importante. È alla vigilia di questo clima che il 10 luglio 2013 «su richiesta della stazione appaltante Expo 2015» la Prefettura avvia la prima istruttoria sulla Maltauro spa: l’impresa ha vinto la commessa per 41 milioni e 902 mila euro per la realizzazione della Via d’acqua Sud e il collegamento del canale dell’Expo con la Darsena, un’opera fondamentale nell’immaginario dei progettisti. È il prefetto che deve concedere la necessaria liberatoria antimafia o l’interdittiva che allontanerebbe l’azienda dai cantieri, con il conseguente ritardo nell’avvio dei lavori. Dall’ottobre 2013 il tempo di risposta è ulteriormente ridotto a sette giorni. Scaduti i quali, la Prefettura è obbligata a rilasciare una liberatoria provvisoria. Ma c’è ancora margine per evitare all’Italia la figuraccia internazionale. Invece l’istruttoria non viene mai conclusa e il 27 gennaio 2014 Expo ne richiede una seconda: Enrico Maltauro, questa volta secondo la Procura grazie agli aiutini di Paris, ha vinto anche l’appalto da 55 milioni e 679 mila euro per le architetture di servizio nell’area dell’esposizione. Finalmente per la riunione del 21 febbraio l’ufficio di supporto al Comitato di sorveglianza presenta la sua relazione al gruppo ispettivo antimafia della Prefettura. La Maltauro risulta destinataria di tre informazioni atipiche emesse nel 2011 e nel 2012 dalle prefetture di Vicenza e L’Aquila. L’impresa «ha partecipato a varie gare d’appalto con la società... indagata perché infiltrata da esponenti della criminalità mafiosa» e vengono ricordate due inchieste delle procure antimafia di Venezia e Palermo. L’ufficio aggiunge che «nel contesto dei lavori eseguiti presso la base militare di Aviano la società Maltauro inseriva nelle liste presentate per il rilascio dei pass personaggi quali... esponenti inseriti organicamente nelle principali organizzazioni criminali». I funzionari del prefetto avvertono anche che Enrico Maltauro «consigliere e amministratore delegato della predetta società, risulta essere stato condannato negli anni Novanta tra vari reati anche per corruzione e turbata libertà degli incanti». Da qualche tempo il Tar della Lombardia si pronuncia spesso a favore delle imprese e contro il prefetto. Forse proprio per questo e non solo per evitare ritardi ai cantieri, i nove rappresentanti degli organismi investigativi e della Prefettura concludono che «le informazioni finora acquisite non consento di affermare che l’impresa presenti i connotati di infiltrazioni mafiose». La decisione viene così ulteriormente rinviata. Nel frattempo i lavori per la Via d’acqua di Maltauro sbattono contro una cava piena di rifiuti tossici dentro Milano. La ditta si rifiuta di fornire informazioni al comitato di quartiere preoccupato dagli scavi a cielo aperto. «Qualunque altro operatore che avesse agito in questo modo», sospettava già mesi fa Enrico Fedrighini, consigliere dei Verdi, «sarebbe stato oggetto di controlli». Aveva visto giusto. Perché per proteggere Maltauro interviene il solito direttore generale di Expo. Il 7 marzo Paris parla con Christian Malangone, direttore della pianificazione e controllo sul grande evento: «Oggi han portato la terra in una discarica non autorizzata... Sei volte hanno già fatto infrazione. Sei volte». Maltauro deve pagare a Expo una multa di due milioni. Viene informato anche Frigerio, presentato a Maltauro dalla «Cancellieri», l’ex prefetto di Vicenza ed ex ministro Annamaria Cancellieri: «Perché aveva l’ufficio di Prefettura in casa sua, a Vicenza», dice Frigerio in una telefonata. E, sempre in marzo, cerca di porre rimedio: «Dì a Enrico di rispettare le regole sull’antimafia, perché ha fatto entrare due, tre aziende. Meno male che abbiamo Paris».

Le infiltrazioni criminali, i ritardi nel cantiere e la necessità di ridurre i controlli antimafia per non fermare i lavori. Mentre il governo valuta anche il "modello Bertolaso" per finire in tempo e la Mantovani, dopo la gara vinta con un ribasso record, chiede decine di milioni extra, scrive Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. C'è una storia segreta per l’Expo. Una storia mai raccontata nelle dichiarazioni pubbliche sul grande evento che dal primo maggio 2015 a Milano deve rilanciare l’immagine dell’Italia nel mondo. Da una parte il malaffare di alcune imprese che si sono aggiudicate appalti importanti, le infiltrazioni della ‘ndrangheta e il ritardo di un anno sul programma dei lavori. Dall’altra, l’impegno di un gruppo di funzionari dello Stato, a cominciare dal prefetto di Milano, che oggi si ritrova di fronte al bivio: difendere la legalità con la conseguenza di rallentare i cantieri e mettere a rischio l’intera manifestazione, oppure snellire le norme antimafia e abbassare la guardia. La più grande opera pubblica del momento, quasi tre miliardi di spesa tra infrastrutture e organizzazione per ospitare l’Esposizione universale, diventa così la metafora di un Paese all’ultima spiaggia. La voglia di fare che si scontra con il tempo perso in liti politiche: famosa la rissa che ha bloccato l’Expo per mesi tra l’allora sindaco Letizia Moratti e l’ex governatore Roberto Formigoni, oggi ben stipendiato in Senato. L’assalto della criminalità all’economia sana. La corsa affannata verso l’inaugurazione. E, in fondo a tutto, la mancanza di alternative. Si è scelto così di ridurre i controlli: attraverso la modifica del codice nazionale antimafia oppure l’ampliamento dei poteri speciali del commissario unico, Giuseppe Sala, come si faceva con la Protezione civile di Guido Bertolaso. La discussione, tuttora in corso, ha coinvolto quattro ministri, il presidente della Regione Lombardia, il sindaco di Milano e il capo della Prefettura. Ecco il diario segreto di sei mesi di incontri e contatti che “l’Espresso” ha ricostruito grazie alle testimonianze di quanti erano presenti.

5 settembre 2013: Roma, Direzione centrale della polizia criminale. Il vice capo della polizia e direttore centrale della polizia criminale, viene aggiornato sull’arresto, qualche giorno prima, del vicequestore aggiunto Giovanni Preziosa, 59 anni, ex assessore alla Sicurezza nella giunta di centrodestra a Bologna. È accusato di avere ceduto informazioni estratte dalle banche dati delle forze dell’ordine all’impresa di costruzioni Mantovani spa, società che a Milano si è aggiudicata l’appalto più importante di Expo 2015. L’informativa del ministero dell’Interno evidenzia che nell’ordinanza di custodia cautelare che ha disposto l’arresto del vicequestore Preziosa, il giudice per le indagini preliminari definisce la Mantovani spa un «gruppo economico criminale». Il vice capo della polizia viene anche avvertito che qualsiasi provvedimento di interdizione nei confronti della Mantovani spa potrebbe pregiudicare lo svolgimento dell’Expo: proprio perché l’impresa ha vinto il contratto per la struttura principale, cioè la costruzione della “piastra” di cemento armato su cui verranno realizzati i padiglioni dell’Esposizione universale. Anche la Prefettura di Milano è al corrente delle criticità che riguardano la società: criticità come l’arresto il 28 febbraio 2013 dell’amministratore delegato di Mantovani, Piergiorgio Baita, per associazione a delinquere finalizzata all’emissione di fatture per operazioni inesistenti e dichiarazione fraudolenta.

6 settembre 2013: Milano, Prefettura. Davanti al prefetto di Milano, Francesco Tronca, si riunisce la sezione specializzata del “Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sulle grandi opere per l’Expo 2015”. I convocati ricordano quello come un incontro carico di preoccupazioni. Il prefetto li aggiorna sul numero degli ultimi provvedimenti interdittivi antimafia: una decina di imprese già allontanate o che stanno per essere allontanate dai cantieri. Sotto esame non ci sono soltanto gli appalti per il sito dell’esposizione, ma anche quelli per le infrastrutture esterne. Tronca rivela una maggiore presenza di infiltrazioni di origine calabrese. In particolare nelle opere viarie e nei cantieri della Teem, la nuova tangenziale di Milano. Nonostante questo ulteriore allarme, il prefetto annuncia che il suo ufficio ha manifestato al ministero dell’Interno la necessità di snellire la normativa sui controlli antimafia. Una modifica che il rappresentante del governo definisce indispensabile, pur nel rispetto della legalità. Gli arretrati ancora in istruttoria superano il sessanta per cento delle richieste. Percentuale che non può essere accettata. Sarà proprio la Prefettura di Milano a scrivere la bozza della nuova normativa da inviare al Viminale. Il comitato deve anche valutare le informazioni fornite dalla Direzione nazionale antimafia (Dna) sulla Serenissima holding: la società della potente famiglia Chiarotto di Padova è proprietaria della Mantovani spa e della Fip industriale spa, altra azienda del gruppo veneto impegnata nei cantieri per le infrastrutture viarie di Expo. Il procuratore nazionale aggiunto della Dna, Pier Luigi Dell’Osso, spiega davanti al prefetto che non tutte le notizie possono essere liberate dal segreto. E che l’arresto del vicequestore Preziosa e quanto ha scritto il giudice nell’ordinanza di custodia cautelare mostrano comunque uno spaccato dell’attività della Mantovani spa. Per questa ragione, secondo il procuratore Dell’Osso, l’ordinanza potrà essere uno degli elementi su cui fondare importanti iniziative da intraprendere in tema di antimafia. Ma non tutti sono d’accordo. Se ne fa immediatamente portavoce Pietro Baratono, ingegnere e provveditore alle Opere pubbliche di Lombardia e Liguria, che nel Comitato per l’alta sorveglianza rappresenta il ministero delle Infrastrutture guidato da Maurizio Lupi. Baratono dice chiaro e tondo al prefetto e ai presenti di essere preoccupato e rammaricato per quanto ha riferito l’alto magistrato sull’associazione tra imprese di cui la Mantovani spa è capogruppo. Perché, trattandosi dell’affidataria dei lavori di costruzione della piastra, l’emissione di un eventuale provvedimento interdittivo e il conseguente allontanamento dai cantieri potrebbero mettere a rischio la realizzazione della manifestazione. Cioè potrebbero costringere l’Italia a una memorabile figuraccia davanti al mondo. In altre parole chi volesse adottare i necessari provvedimenti imposti dalla legge, per proteggere la pubblica amministrazione da infiltrazioni mafiose o attività illegali, deve assumersi la responsabilità di un fallimento di Expo 2015. Al ministero dell’Interno e a quello delle Infrastrutture fanno le stesse valutazioni. Il provveditore alle Opere pubbliche si lamenta anche per il fatto che lo stato di avanzamento dei lavori verificato dai suoi funzionari nei cantieri non corrisponde a quanto ufficialmente dichiarato dalla Expo 2015 spa, società creata da Regione Lombardia, Comune di Milano, Provincia e Camera di commercio per organizzare e gestire il grande evento.

28 ottobre 2013: Roma, ministero dell’Interno. La richiesta della Prefettura di Milano di snellire le verifiche antimafia viene accolta. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano, firma la direttiva sul coordinamento degli accertamenti che individua nella Direzione investigativa antimafia (Dia) «l’organismo sul quale verranno a gravitare le attività info-investigative di preventivo controllo, propedeutiche al rilascio della documentazione antimafia o all’iscrizione degli operatori nelle cosiddette white-list». Il 7 dicembre la Gazzetta ufficiale pubblica le nuove linee guida con le quali il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo fornisce “prescrizioni aggiuntive volte ad accelerare i controlli antimafia”. Viene così formalizzata una nuova procedura più rapida. Le imprese non segnalate nella banca dati della Prefettura o in quella della Dia ottengono la liberatoria provvisoria nel giro di pochi giorni: possono quindi firmare i contratti ed entrare nei cantieri.

7 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Alla riunione del Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo, partecipano oggi anche l’ambasciatore Paolo Guido Spinelli e l’architetto Andrea Del Prete per conto di Expo 2015 spa. L’ambasciatore Spinelli, che cura i rapporti con i Paesi esteri e con il «Bureau International des Expositions», comunica al prefetto che i lavori sono in ritardo rispetto al programma. L’architetto di Expo, che si occupa dei problemi tecnici del grande cantiere, spiega invece che per la realizzazione dei singoli padiglioni, gestita dagli Stati partecipanti, si prevedono affidamenti delle opere molto frazionate. E soprattutto che i Paesi esteri probabilmente firmeranno con le imprese contratti di tipo privatistico e non veri e propri subappalti pubblici. Un ostacolo in più per i controlli antimafia, tenendo conto che l’alta frammentazione dei contratti rischia di favorire l’infiltrazione di aziende colluse. L’impegno non è di poco conto: per la consegna dei padiglioni, le rifiniture, gli allestimenti, i servizi qualcuno già stima il coinvolgimento per i prossimi mesi di centinaia di piccoli e medi imprenditori italiani e stranieri, suddivisi tra una cinquantina di filiere. Imprenditori su cui saranno svolti accertamenti preferibilmente preventivi: cioè su nomi, documenti, banche dati senza necessariamente inviare ispezioni nei cantieri, per non pregiudicare l’andamento dei lavori. Com’è nell’interesse della società Expo 2015. Dietro il paravento dei documenti in ordine, però, qualche azienda collusa è riuscita a eludere i controlli. L’allarme è altissimo. Al prefetto viene riferito che la criminalità organizzata si è infiltrata principalmente nei contratti per le opere infrastrutturali stradali. Soprattutto nei lavori per la costruzione dell’autostrada Pedemontana e della nuova tangenziale di Milano, due opere finanziate per l’Expo. La Prefettura ha finora firmato l’interdizione antimafia per dieci imprese impegnate nei cantieri della Teem, la tangenziale esterna milanese. Ditte infiltrate prevalentemente dalla ‘ndrangheta. Otto sono invece le imprese “interdette” dai cantieri della Pedemontana. Molte società hanno ricevuto incarichi in tutte e due le grandi opere e sono spesso collegate tra loro da legami societari e familiari. Il maggior numero di incarichi riguarda piccoli subcontratti non sottoposti all’autorizzazione della stazione appaltante, come invece avviene per i subappalti. Uno stratagemma, viene spiegato nella riunione con il prefetto, sfruttato dalle imprese per sottrarsi agli speciali controlli antimafia previsti per l’Expo. Si è scoperto così che la criminalità organizzata è riuscita a infiltrarsi proprio grazie ai subcontratti affidati a società che, anche se con sigle e denominazioni diverse, risultano legate tra loro da un’intensa rete di interessi familiari e d’affari. E strettamente connesse o addirittura presenti, indirettamente o direttamente, in tutte le opere Expo.

13 gennaio 2014: Milano, Prefettura. Il prefetto Tronca incontra il ministro dell’Interno Alfano, arrivato da Roma per firmare il “Piano di azione Expo 2015 – Mafia free”. Il piano viene sottoscritto dal ministro con il presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni, il sindaco di Milano, Giuliano Pisapia, e il commissario unico per l’Expo, Giuseppe Sala. «La sottoscrizione del piano d’azione», spiega il ministro Alfano all’Ansa, «cristallizza la volontà ferma e determinata dello Stato e degli altri organismi coinvolti di attivare ogni iniziativa utile a garantire il rispetto della legalità e della trasparenza in tutte le fasi di realizzazione dell’evento». Nelle stesse ore, sempre in Prefettura, il Comitato di coordinamento per l’alta sorveglianza sull’Expo decide di semplificare ulteriormente la procedura antimafia sulle imprese estere che lavoreranno nei cantieri. Le verifiche saranno limitate alle autocertificazioni dei proprietari, degli amministratori e dei procuratori con poteri specifici in merito al contratto, così come ha suggerito il ministero dell’Interno. Esclusi dai controlli i familiari, i conviventi, i sindaci e i revisori dei conti. I tempi di risposta della Prefettura vengono fissati in quindici giorni: oltre, la stazione appaltante sarà autorizzata a firmare il contratto con la ditta e a dare provvisoriamente il via ai lavori anche senza liberatoria. Quanti erano presenti ricordano che il termine dei quindici giorni è stato proposto dall’avvocato generale dello Stato, Ettore Figliolia, già consulente legale nella Protezione civile dei grandi eventi di Guido Bertolaso. Lo scopo della procedura semplificata è sempre quello di accelerare i tempi. Anche se, secondo alcuni osservatori, la criminalità potrebbe ora infiltrarsi in Expo dietro lo schermo delle imprese straniere.

11 febbraio 2014: Lombardia, cantieri tangenziale Teem. Le aziende con collegamenti mafiosi nei subappalti per la tangenziale esterna di Milano salgono a undici. La Prefettura ha scoperto e allontanato un’altra ditta. Per quanto riguarda i padiglioni di Expo 2015, il prefetto di Milano, Francesco Tronca, chiede al Comitato per l’alta sorveglianza che le ispezioni antimafia siano meglio coordinate. È vero che gli accessi nei cantieri delle forze di polizia, dell’Ufficio del lavoro, delle Asl garantiscono controlli più efficaci, soprattutto se fatti a sorpresa. Ma bisogna tenere conto dei tempi: al fine, sostiene il prefetto, di non interferire eccessivamente con l’esecuzione dei lavori. L’imminente ingresso nei cantieri da parte dei Paesi esteri comporterà un proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Da qui la necessità di programmare l’azione di controllo: evitando il più possibile, è in sintesi l’invito del prefetto, rallentamenti ai lavori e, più in generale, alla buona riuscita dell’evento. Eppure il “Piano di azione mafia free” annunciato in pompa magna e firmato da meno di un mese da Alfano, Maroni, Pisapia e Sala prevedeva l’esatto opposto: «Potenziare l’attività di accesso ai cantieri da parte del gruppo interforze nonché, anche attraverso forme di collaborazione con i corpi delle polizie locali, in deroga ai vincoli territoriali». A gennaio le ispezioni sono state sette. E altre sette sono programmate a febbraio. Davanti ai vari funzionari di Stato che siedono nel comitato, il prefetto spiega che sono le autorità competenti in materia previdenziale e di sicurezza sul lavoro o l’Asl, e non la polizia, a svolgere controlli con maniere che rallentano i cantieri. Alcune volte anche per l’intera giornata. Il presidente della Commissione antimafia del Comune di Milano, Davide Gentili, e il collega della Commissione regionale antimafia, Gian Antonio Girelli, chiedono in tempi diversi di poter partecipare o avere informazioni sull’attività di monitoraggio contro la criminalità. I funzionari del comitato, però, sollecitano la necessità di distinguere gli organi istituzionali da quelli puramente politici. Il rappresentante dell’ufficio di gabinetto della Prefettura segnala infatti il rischio che le domande avanzate da organismi di derivazione politico-locale, in quanto espressione dell’elettorato, possano essere dirette a conoscere l’attività riservata con il fine di renderne conto agli elettori.

24 febbraio 2014: Milano, cantieri Expo 2015. Tra le colate di cemento liquido e il viavai di camion, oggi nel grande cantiere che si affaccia sull’autostrada Milano-Torino molti si sentono sollevati. Un’inchiesta della Direzione distrettuale antimafia di Catania avrebbe potuto mettere in crisi l’organizzazione dell’Esposizione universale. L’indagine riguarda la Fip industriale spa, società della Serenissima holding di Padova, il gruppo che controlla anche la Mantovani spa. La Fip a Milano ha ottenuto un subcontratto dalla società Astaldi per i lavori della linea 5 della metropolitana, tra San Siro e Garibaldi. In ottobre l’amministratore delegato della Fip, Mauro Scaramuzza e un ingegnere dell’impresa, Achille Soffiato, sono stati arrestati in Sicilia per concorso esterno in associazione mafiosa. Secondo l’accusa, l’azienda avrebbe frazionato i subcontratti al di sotto del limite di 154 mila euro per non incorrere nell’obbligo della liberatoria antimafia. E avrebbe così favorito nella costruzione di una superstrada a Caltagirone due imprese della costellazione di Ciccio La Rocca, boss locale di Cosa nostra. Gli arresti potrebbero trascinare in un provvedimento antimafia anche la società sorella, la Mantovani spa. Eventualità che bloccherebbe i cantieri dell’Expo. I dirigenti della Fip vengono però scarcerati nel giro di qualche settimana dal Tribunale del riesame per insufficienza di gravi indizi: secondo il giudice, Scaramuzza e Soffiato non hanno frazionato nulla. Il loro arresto è stato deciso in base a un’errata valutazione delle fatture. Per questo la Prefettura di Milano archivia l’argomento. Nei cantieri della Mantovani spa ora sono tutti più tranquilli. Il problema urgente da risolvere è ancora quello delle ispezioni e del mancato coordinamento. Il prefetto ha scoperto che il rallentamento dei lavori è stato provocato, come si sospettava, dagli accertamenti della Asl di Milano. Tronca annuncia che incontrerà personalmente sia il direttore generale, sia il presidente della Asl. Il comitato propone che gli accessi nei cantieri vengano comunicati alla Prefettura con un mese di anticipo: in modo da permettere una programmazione unica tra i vari enti. Anche se così si rischia di perdere l’effetto sorpresa.

3 marzo 2014: Milano, sede di Expo spa. La mattina in via Rovello 2, nella sede della società Expo spa a metà strada tra il Duomo e il Castello Sforzesco a Milano, il commissario unico Sala, il sindaco Pisapia e il presidente della Regione Maroni, incontrano quattro ministri del nuovo governo di Matteo Renzi. Sono Maurizio Lupi (Infrastrutture), Federica Guidi (Sviluppo economico), Dario Franceschini (Beni Culturali) e Maurizio Martina (Agricoltura). La versione ufficiale dell’incontro descrive la lista della spesa presentata da Maroni al governo: 2,2 miliardi di ulteriori finanziamenti per le infrastrutture e il trasporto locale. C’è però una questione molto riservata e delicata di cui vengono informati i ministri. Riguarda una richiesta che il commissario unico per l’Expo negli ultimi giorni ha comunicato al prefetto di Milano. Sala sostiene che l’applicazione del protocollo di legalità, firmato tra la Prefettura e la società Expo nel 2012, sta creando non pochi problemi. I cantieri saranno presto investiti dalla moltiplicazione dei lavori e dal proliferare di imprese di ogni tipo e provenienza. Secondo Giuseppe Sala, i controlli antimafia devono essere inquadrati in modo più sistematico e snello, comprimendo il più possibile i tempi necessari per l’ingresso nei cantieri degli appaltatori e dei subappaltatori. Altrimenti i lavori rallenteranno, con gravi conseguenze per il successo dell’esposizione. Il commissario unico propone di autorizzare l’ingresso delle imprese in cantiere immediatamente dopo l’invio della richiesta di informazione antimafia alla Prefettura e senza attendere la liberatoria. Scorciatoia da applicare nei casi di contratti per attività considerate non a rischio di infiltrazione oppure, se a rischio, per importi inferiori a 20 mila euro. A differenza degli appalti pubblici che hanno una soglia di spesa sotto la quale non sono richiesti i controlli antimafia, tutte le imprese coinvolte in Expo, per qualsiasi importo, devono essere certificate dalla Prefettura. Ma i contratti sempre più numerosi e frazionati porteranno un carico di lavoro ingestibile per gli uffici rispetto alle risorse disponibili. Con le ultime linee guida, da dicembre i tempi per le verifiche sono già ridotti al minimo. La Direzione investigativa antimafia ha soltanto sette giorni per completare gli accertamenti preliminari su ogni azienda. E in caso di ritardo nella risposta, la Prefettura rilascia automaticamente la liberatoria provvisoria. Parlando con i suoi più stretti collaboratori, il prefetto prevede che prima o poi la società Expo finirà con l’autorizzare le imprese a entrare nei cantieri senza essere legittimate dalla certificazione, vanificando così l’efficacia della procedura accelerata. In altre parole, per colpa dei ritardi che ha ereditato, Sala è con le spalle al muro. E come lui lo sono il prefetto, il governo e l’intero sistema nazionale di prevenzione antimafia. Per il commissario è una scelta obbligata: o si fa così o le opere non verranno concluse in tempo. Una soluzione ipotizzata è il modello Bertolaso, con tutti i rischi connessi: un ampliamento dei poteri speciali di deroga riconosciuti a Giuseppe Sala. L’ipotesi è stata rappresentata da Maroni e Pisapia che nei giorni scorsi si sono incontrati con Sala, il prefetto e il presidente della Provincia, Guido Podestà, per parlarne in segreto.

3 marzo 2014: Milano, Prefettura. Il pomeriggio, terminata la visita a Milano dei ministri, torna a riunirsi il Comitato per l’alta sorveglianza. La semplificazione del protocollo di legalità è tra i punti all’ordine del giorno. La Prefettura propone come via d’uscita la modifica del codice antimafia adeguando i termini per la firma dei contratti, anche in mancanza del rilascio della liberatoria. Oppure l’alleggerimento delle linee guida per l’Expo, stabilendo una soglia di esenzione dai controlli. In alternativa, resta il modello Bertolaso. Tutti i presenti comprendono che si stanno muovendo su un campo minato. Di fronte a una moltiplicazione delle imprese, il prefetto ammette il rischio di non riuscire a evadere le richieste di informazione antimafia in tempi brevi. Meglio quindi, secondo Tronca, concentrarsi sugli appalti di maggior valore nei settori più a rischio. Ed escludere dai controlli i contratti di minor valore e impatto, nel quadro di un equilibrio tra costi e benefici. Il rappresentante dell’avvocatura dello Stato, Michele Damiani, lamenta il ritardo con cui la società Expo spa ha sollevato la questione. Rispetto al prefetto precedente, Tronca ha raccolto una squadra molto più preparata. Tecnici e funzionari, uomini e donne, sono lì seduti intorno al tavolo a testimoniare con il loro lavoro l’impegno per realizzare una manifestazione senza scandali. Il colonnello Alfonso Di Vito, capocentro della Dia, ricorda a tutti che con una migliore definizione del cronoprogramma delle opere, forse questi problemi sarebbero stati evitati. Davanti al prefetto e ai colleghi del comitato, il colonnello dice che, probabilmente, la situazione segnalata da Expo deriva dai ritardi che la stessa società ha contribuito a produrre: ritardi che sono quantificabili in oltre un anno. Cioè quello che si sta costruendo ora, doveva essere fatto più di un anno fa. Nemmeno Giuseppe Sala, però, ha alternative. La necessità del commissario unico di cambiare le regole per completare in tempo i lavori potrebbe essere soddisfatta solo da un decreto legge del governo, ipotizzano in Prefettura. Ma una deroga del genere inventata ad hoc per l’Expo, avverte Baratono, il provveditore alle Opere pubbliche, potrebbe essere strumentalizzata politicamente. Ha ragione, dopo quello che ha detto Alfano nel presentare il “Piano mafia free”.

10 marzo 2014: Milano, Grattacielo della Regione. Dalle finestre del trentanovesimo piano i cantieri si indovinano nella foschia. Il pomeriggio il presidente lombardo Roberto Maroni è chiuso nel suo ufficio con il ministro Lupi e Francesco Tronca. Mancano appena dodici mesi. In attesa della visita a Milano del premier Matteo Renzi, fissata per venerdì 11 aprile, la mediazione del prefetto va avanti. Perché dopo essersi impegnato a ripulire gli appalti Expo dalla mafia, non si dica che ora devono liberarli dall’antimafia.

Le novità sull’Expo, scrive Nicola Tranfaglia su “Articolo 21”. A mano a mano che passano i giorni e si conosce di più o meglio intorno all’affare milanese, le cose sembrano peggio rare ancora peggio per l’affare legato all’EXPO milanese di cui la banda Frigerio & Co, ha approfittato fino ad oggi.  Incominciamo dai numeri. Il valore complessivo degli investimenti (di 2,65 miliardi di euro per la realizzazione dell’Esposizione),1,2 milioni di euro avrebbe pagato per sua ammissione l’imprenditore Enrico  Maltauro  per ottenere alcuni appalti nell’ambito dei lavori previsti. La percentuali di tangenti che avrebbe pagato per vincere gli appalti erano del l’0,3 o dell’O,5  per cento, secondo i calcoli dell’accusa. Ma le novità non finiscono qui e rischiano di configurare per l’ex parlamentare di Forza Italia, Claudio Scajola, l’accusa da parte della procura di Bergamo di far parte di un’associazione massonico-mafiosa internazionale che era collegata ,da una parte a Giampaolo Tarantini, l’imprenditore pugliese che organizzava le serate di festa per Berlusconi(come era già emerso dall’inchiesta giudiziaria su Ruby, presentata come la nipote di Mubarak) e dall’altra alla ‘ndrangheta calabrese e in particolare ai De Stefano, cui era legato l’ex tesoriere della Lega Francesco Belsito.  Se a questo si aggiunge che – come ha chiarito già  nel novembre 2013, il presidente dell’Associazione Nazionale costruttori edili, Paolo Bozzetti, sottolineando come, in  nome della fretta sono  stati ignorati 78 articoli di legge sui contratti e tra i requisiti richiesti per partecipare alla gara c’era quello per cui era necessario aver fatturato nei cinque anni precedenti almeno il quintuplo dell’importo a base d’asta fissato in 25 milioni di euro. Si trattava - sottolineano ora i costruttori - di una richiesta “non in linea con la legge vigente oggi.” Inoltre quattro vecchie ordinanze della presidenza del Consiglio, una firmata da Romano Prodi nel 2007, le altre tre da Silvio Berlusconi nel 2010, hanno consegnato i lavori  dell’Esposizione Internazionale di Milano alla logica perversa del grande evento. Per questo sono state previste deroghe al codice dei contratti “per motivi di urgenza”. Con la  facoltà  di sostituire i bandi di gara europei  con procedure informali procedendo su inviti alle imprese. E sottraendo gli appalti al controllo della Corte dei Conti e dell’Autorità garante dei contratti pubblici. Non è un caso che ora la Corte dei Conti vuol vederci anche lei chiaro sulla vicenda e che la commissione parlamentare contro la mafia  è intervenuta ascoltando il prefetto Paolo Francesco Conta a proposito delle nuove linee guida sui controlli modificate quindici giorni fa all’interno del protocollo antimafia. La presidente della Commissione Rosy Bindi ha dichiarato:” Ci sono molti aspetti  che non appaiono chiari e comunque le modifiche delle linee guida avrebbero dovuto prevedere una interlocuzione con questa commis sione.”  Quel che risulta con chiarezza da questa prima parte dell’in chiesta e preoccupa l’opinione pubblica più attenta è che in un modo o nell’altro tutte le forze politiche presenti in parlamento hanno partecipato (i nomi li abbiamo visti: Frigerio, Greganti, Belsito alla grande spartizione) e c’è da chiedersi: come si spiega che sia stato l’ex ministro Scaiola a tenere i fili del tutto e che cosa ha fatto il sistema complessivo dei media a non dirci nulla fino all’iniziativa dei magistrati? Sono quesiti a cui bisognerebbe un giorno o l’altro poter rispondere.

Una Lega di Boss. Una nuova P2 'ndrangheto-lombarda scuote la Lega, scrive Nerina Gatti su Antimafia2000”. Arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Una nuova P2 ndrangheto-lombarda scuote la Lega, arriva a lambire l’Expo 2015 e pone inquietanti interrogativi sulle “talpe” del Carroccio. Come già evidenziato dall’indagine Breakfast, dalla Calabria partono le tracce e le tracciabilità degli affari che gli uomini della ndrangheta, i faccendieri trapiantati a Milano, i vecchi arnesi dell’eversione di destra e importanti imprenditori intessevano, e che avevano come punto di raccordo lo studio di consulenza Mgim, nel cuore di Milano.Non c’è da sorprendersi, anche se ancora in molti, come l’ex prefetto di Milano GianValerio Lombardi e l’ex ministro dell’Interno Roberto Maroni non ne vogliono sapere di ‘ndrangheta dalle loro parti. Infatti, stavolta, non si tratta di sola ndrangheta, ma di ipotesi ancor più inquietanti: di organizzazioni criminali segrete, di soffiate preventive da parte di pezzi marci delle istituzioni, di affari loschi con il Vaticano e addirittura di comprarsi banche all’estero – viene citata spesso la Arner Bank di Lugano – per evitare i controlli di Bankitalia e di procure particolarmente tenaci come quella di Reggio Calabria.  Filoni d’indagini ancora tutte da scoprire, grazie al sequestro dei file e dei computer effettuato nell’ultimo blitz. Fin dove arriverà questa associazione segreta, il cui scopo era di agevolare gli affari di una delle cosche più potenti della ndrangheta come i De Stefano è soprattutto più pericolose dal punto di vista della penetrazione a livello criminale, massonico e paraistituzionale? Con il suggello politico di Francesco Belsito questa cricca segereta, aveva creato “rapporti criminogeni per milioni di euro creando utili sotto forma di crediti d’imposta per riciclare i soldi sporchi.” Tra queste società c’erano Fincantieri, e la multinazionale Siram, che godeva di rapporti preferenziali sia con la regione Lombardia, di Roberto Formigoni, sia con quella Calabria di Giuseppe Scopelliti. Calabria e Lombardia, unite a colpi di Iban, di transazioni e , di triangolazioni tra società “amiche”. Tutte veicolate in quegli uffici a Via Durini, nella MGiM dove l’ex tesoriere dei Nar, Lino Guaglianone mediava gli affari sporchi per la ndrangheta, la Lega, gli  imprenditori in odor di mafia e massoneria come l’armatore Matacena, ex deputato di Forza Italia, condannato per concorso esterno e ora latitante e Montesano, tycoon calabrese finito nei guai per bacarotta e intestazione fittizia di beni con aggravante mafiosa, e con legami alla Bocconi. D’altronde già nel 1993 il pentito di Cosa Nostra, Tullio Cannella dichiarava ai pm di aver saputo da Vito Ciancimino che la vera massoneria era in Calabria, perché i calabresi hanno appoggi dei servizi segreti. “A Lamezia Terme- racconta Cannella – si tenne la riunione con  esponenti di “Sicilia Libera”, altri movimenti separatisti meridionali, e ed esponenti della Lega Nord.” Non deve quindi sorprendere il blitz di qualche giorno fa della Direzione Investigativa Antimafia, a firma del pubblico ministero della Dda reggina Giuseppe Lombardo e di Francesco Curcio, sostituto Nazionale Antimafia, coordinati dal procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho. Al  setaccio oltre 25 società, quattro filiali di Banca Intesa, una del Credito Artigiano e una della Banca Popolare di Vicenza, dove lavora uno dei componenti della società segreta, Ivan Pedrazzoli. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, erano a caccia di conti correnti  serviti per far transitare fondi di provenienza illecita per poi essere riciclati. La “cricca masso-ndranghetista” grazie alle coperture politico-istituzionali e finanziarie dei loro componenti, muoveva centinaia di milioni di euro. Ma ora, i reati sono associazione a delinquere finalizzata ad agevolare la cosca De Stefano e violazione della legge Anselmi sulle società segrete, istituita proprio dopo l’indagine sulla P2 di Licio Gelli, figura con la quale i De Stefano hanno intrattenuto rapporti anche grazie all’ex deputato del Psdi, Paolo Romeo, condannato per concorso esterno in associazione mafiosa, per aver favorito la cosca. Tra gli indagati e organizzatori di questa “società criminale segreta” figurano: Pasquale “Lino” Guaglianone,  una condanna per terrorismo, ex politico vicino a Ignazio La Russa. Con il socio Giorgio Laurendi, anche lui indagato, fonda la Mgim. Pasquale Guaglianone sfrutta bene le amicizie politiche e accumula incarichi prestigiosi ma sarebbe stata strategica per la cricca la sua posizione in Fiera Milano Congressi, che è diventata recentemente il partner ufficiale e organizzatore di spazi dell’Expo 2015. Altro organizzatore, sarebbe Bruno Mafrici, nominato consulente del ministero della Semplificazione da Belsito che ne era sottosegretario. Sarà così che aiuterà gli “amici” ad entrare nella cuccagna dei bandi e degli investimenti statali. Ma Mafrici, cura anche i rapporti con i politici calabresi tra cui il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti. Proprio di Scopelliti è amico e alleato politico un altro indagato, Giuseppe Sergi. Nella lista spunta un altro importante imprenditore reggino Michelangelo Tibaldi, che rilevò le azioni della Fiat in Multiservizi, una società mista del comune di Reggio Calabria che è risultata in mano alla ndrangheta della cosca Tegano L’intreccio cosche-amministratori della Multiservizi è uno dei fattori che ha portato allo scioglimento per contiguità mafiose del comune di Reggio Calabria nell’ottobre 2012. Ma la storia del colosso torinese che investe in una società proprio a Reggio Calabria è un’altra storia sulla quale bisognerà fare chiarezza. Un ruolo di supporto lo fornivano Angelo Viola, investigatore privato, e Romolo Girardelli, ex estremista di destra e uomo dei De Stefano per gli affari in Liguria. Ma nel decreto di perquisizione i pubblici ministeri non dimenticano di citare Paolo Martino, ambasciatore dei De Stefano in Lombardia ed oltre. Martino ha frequentazioni strategiche. Tra queste Luca Giuliante, legale di Roberto Formigoni (oltre che di Lele Mora e “Ruby”) ma soprattutto membro regionle del PdL e tesoriere per la Lombardia del partito di Silvio Berlusconi. Giuliante viene intercettato mentre parla con il boss Martino dandogli delle dritte su una gara d’appalto che avrebbe interessato la ditta Mucciola, famiglia romana di imprenditori con sede a Reggio Calabria e cliente della Mgim che poi si aggiudicò dei lavori al Pio Albergo Trivulzio. La Mucciola spa è tra le aziende perquisite nel blitz. Questo “cerchio criminogeno” ha consentito agli indagati di diventare il terminale di un sistema criminale occulto, che riusciva ad acquisire e gestire proficuamente informazioni riservate fornite da soggetti che sono ancora in corso di individuazione, ma sicuramente facenti parte delle istituzioni. Come già confessato da Francesco Belsito, i “colonnelli” della Lega, come l’ex ministro della Giustizia Roberto Castelli erano conoscenza delle perquisizioni prima che avvenissero. Si può dedurre, quindi, che tra le “talpe” del Carroccio ci siano addirittura dei magistrati. I prossimi sviluppi si attendono dalle rogatorie richieste in Tanzania, a Cipro e soprattutto in Svizzera dove la cricca aveva un base a Lugano.

Cari amici di blog, scrive Roberto Galullo, da giorni sto analizzando con voi alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di due giorni fa abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Ieri abbiamo visto come, secondo il procuratore antimafia, si formano le liste elettorali in Calabria (e non solo). Oggi cambiamo pagina e leggiamo un “ritorno” di Gratteri sull’evoluzione della ‘ndrangheta. L’incipit è duro, perché richiama gli errori che furono commessi (e amplificati da una stampa nel migliore dei casi ignorante in altri “galoppina”) nell’ormai famosissima (e ripeto spesso io, comunque importantissima) operazione Crimine/Infinito sull’asse Milano-Reggio Calabria (o il contrario, fate voi). «Quando sono state condotte l'operazione Crimine a Reggio Calabria e l'operazione Infinito a Milano – ha infatti dichiarato Gratteri – è stato commesso un grave errore di valutazione. È stato detto, in sede di conferenza stampa, che è stato scoperto il Riina della Calabria, Oppedisano Domenico, e che era stata scoperta la cupola, come nel caso di cosa nostra. Questa è una sciocchezza. La ’ndrangheta non è piramidale come Cosa nostra. All'interno di un locale di ’ndrangheta nessuno può interferire. Il crimine di San Luca, che è erroneamente stato rapportato alla cupola di cosa nostra, non è altro che il custode delle regole. Il crimine è il custode delle dodici tavole. Il crimine esiste per presiedere il rispetto delle regole. Il crimine interviene quando c’è una faida all'interno di un locale, come è successo a Locri nel 1989». Per rafforzare il concetto (è Gratteri e non l’umile cronista che leggete, a parlare di “grave errore” e “sciocchezze”), ricorda che da aprile 1970 (a seguito di una sentenza del Tribunale di Locri colpevolmente dimenticata), si conosce l’unitarietà della ‘ndrangheta, Gratteri ribadisce che, appunto «esiste l'unitarietà della ’ndrangheta, ma ripeto che sulla vita economica, politica e strategica all'interno del locale nessuno può interferire, a meno che non si vìolino le regole della ’ndrangheta e il crimine di San Luca non intervenga per dirimere la faida». Come sapete (chi mi segue lo sa) non è un caso che l’unitarietà della ‘ndrangheta è un tema che poco mi appassiona ma al quale molto grato sono se serve (come è accaduto con un punto ormai pressoché fermo posto in sede di appello del processo Crimine a Reggio Calabria) per mettere un punto fermo giudiziario e andare oltre per attaccare frontalmente la ndrangheta 2.0 che corre molto più velocemente delle stesse verità giudiziarie. Mentre l’audizione si appresta alla conclusione Gratteri dirà ancora: «Il capo crimine non fa business, non fa affari. È il custode delle regole. Qual è l'importanza del custode delle regole? La differenza è che, se si arresta un camorrista, ci vogliono uno schiaffo per farlo parlare e due per farlo stare zitto. Se si arresta un calabrese, uno ’ndranghetista, si fa vent'anni di carcere e sta zitto, perché sa che dovrebbe parlare prima di 200 parenti, poi degli amici e poi degli amici degli amici. Per questo motivo non ci sono collaboratori nella ’ndrangheta ». Tracciato questo quadro (visto che non c’ero e non lo so, sarebbe stato meglio se Gratteri avesse anche ricordato chi, in sede di conferenza stampa spacciò il Crimine per la cupola e il Riina della Calabria don Mico Oppedisano: a proposito, viste le intdegne critiche che mi sono piovute addosso negli anni da chi ha volutamente inteso stravolgere il senso del mio pensiero, non chiamerò più don Micovenditore di piantine” visto che non lo chiama più così neppure lo storico inventore della definizione, vale a dire…lo stesso Gratteri!!!) il procuratore aggiunto di Reggio Calabria ha parlato anche di evoluzione della ‘ndrangheta. A sorpresa (ma solo per chi non studia e si fa affabulare dalle veline pronto-consumo spacciate ovunque dalle classi dirigenti di questo Paese) Gratteri ha affermato l’ovvio (ma l’ovvio non è conosciuto da chi non studia). «L’evoluzione della ’ndrangheta – ha dichiarato Gratteriè avvenuta nel 1969 , quando c’è stata una rivoluzione interna alla ’ndrangheta con la creazione della Santa. La Santa consiste nella possibilità per uno ’ndranghetista di essere affiliato anche alla massoneria deviata. Questo è servito alla ’ndrangheta per avere contatti con i quadri della pubblica amministrazione e, quindi, con medici, ingegneri e avvocati. Un collaboratore di giustizia ci ha spiegato che «all'orecchio del Gran Maestro» possono essere affiliati tre incappucciati. Ciò vuol dire che questi sono conosciuti solo al Gran Maestro. Lo stesso collaboratore ci ha spiegato che anche alcuni magistrati hanno partecipato a riunioni della Santa. Su questo, però, non siamo riusciti ad avere riscontri». E poco dopo Gratteri ancora dirà: «Oggi noi abbiamo gente incensurata che gestisce la cosa pubblica in modo mafioso. Il mafioso non va a chiedere la mazzetta, ma è lì; è una persona pubblica, un medico o un ingegnere». Parlando di massoneria deviata (le logge coperte e non ufficiali sono il collante della ‘ndrangheta 2.0), Gratteri confermerà che «è nata nel 1969-1970 con la Santa. Lo stesso ’ndranghetista, al contempo santista, partecipa alla massoneria deviata per entrare nei quadri della pubblica amministrazione. Per arrivare a questo c’è stata una guerra sanguinosa in provincia di Reggio Calabria. È stato ucciso Antonio Macrì, ed è stato ucciso Don Mico Tripodo, nel carcere di Poggio Reale, da due cutoliani, per conto dei De Stefano di Reggio Calabria». Semplice, lineare, efficace. Perfetto. Eccola la nuova ‘ndrangheta che si evolve. Non da oggi. Dal 1969. Pensate quanti anni sono stati persi per rincorrere la “vecchia” ‘ndrangheta, quella che si alimentava solo di rapimenti e droga. «Oggi, invece la ’ndrangheta vive con noi e si nutre con noi»: ancora una volta, di fronte ai commissari antimafia, parole e musica (mortali) di Gratteri che io, umilmente, mi limito a sottoscrivere a pieno.

Cari amici di blog, da ieri sto analizzando alcuni passaggi dell’audizione del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, resi in Commissione parlamentare antimafia il 14 aprile 2014. Con la solita eccezionale schiettezza, quando si è trattato di parlare di politica e mafia, Gratteri non si è certo tirato indietro, sapendo perfettamente che di fronte si trovava anche parlamentari calabresi. Nel servizio di ieri abbiamo visto il suo pensiero sulla politica calabrese, ritenuta debole, e il perenne dilemma della politica locale se ceder o meno al voto di scambio. Oggi continuiamo su questo filone, con riferimento alla formazione delle liste. Il ragionamento di Gratteri è stato indotto da una domanda della parlamentare del Pd Enza Bruno Bossio, che ha introdotto il discorso delle liste con il caso di Limbadi (Vibo Valentia), comune che deve andare al voto e dove anche i sassi sanno che la cosca Mancuso controlla pure i respiri. «Il vero problema è come fare in modo che le liste di tutti i partiti di coloro che saranno nominati nelle prossime elezioni a Limbadi – ha affermato Bruno Bossiosiano assolutamente a prova di antimafia. Questo, secondo me, dovrà essere il vero problema che ci dovremo porre, in maniera tale che chi entra nel comune democraticamente, non come commissario, chiunque vinca, sia in grado di fare effettivamente quella bonifica. Ripeto, io sono convinta che la maggioranza della popolazione abbia tutt'al più paura, ma non sia coinvolta. Occorre, quindi, controllare le liste. Il vero problema sarà non solo fare in modo che questo non sia semplicemente un problema deontologico ed etico di ciascun partito, ma come effettivamente impedire che nelle liste ci siano degli elementi in collegamento con la mafia, com'era esplicitamente indicato nella relazione della Commissione d'accesso a proposito di questa giunta comunale.
Non entro nel merito del 416-bis e del 416-ter. Non ho le competenze che ha lei e che avete voi, ma sicuramente un problema me lo pongo. Io sono stata tra coloro che hanno fatto una battaglia perché nell'Italicum ci fossero le preferenze, ma vedo molto difficile il voto di scambio con le liste bloccate. È così. Il tema non può riguardare il singolo parlamentare
». Un ragionamento concreto che pone quesiti di non poco conto, dalla enorme difficoltà. Ed infatti Gratteri lo affronta con misura, senza però farsi mancare le stoccate alle ipocrisie di una classe politica (tutta) che fa finta di non vedere in Calabria come nel resto d’Italia. «Lei parlava delle liste – dice rivolgendosi a Bruno Bossio e alla Commissione tutta – . La storia è molto delicata. Quando si fanno le liste, non si può dire che in un Paese di 5.000 abitanti non si conoscono le persone. Si inserisce nella lista scientificamente un rappresentante della famiglia di ’ndrangheta. Gli ’ndranghetisti sono molto prolifici. Ognuno di loro fa sei figli, che a loro volta fanno altri sei figli. Un locale di ’ndrangheta è composto da due o tre famiglie patriarcali, cioè da 500-600 persone. In un posto in cui ci sono 5.000 abitanti ci sono 2.500 elettori. Quando io ti presento, ti metto in una lista un rappresentante, un cugino alla lontana. Lì siamo tutti i cugini. Ci sono paesi in cui ci sono quattro cognomi. Nel Novecento c'erano due famiglie che si sono sposate tra di loro quattro volte. Basta mettere un elemento: la lista è fatta e le elezioni sono vinte. Noi lo mettiamo, poi, se ci scoprono, va bene, ma intanto abbiamo governato due o tre anni. Poi cadiamo dalle nuvole e diciamo che non sapevamo chi fosse questa persona. Non è possibile. Questo è un problema di etica, di morale e di deontologia dei politici e di chi fa le liste, perché non può dire che non sa. Non siamo a Pordenone, anche se questo è vero anche a Pordenone. L'altro giorno io ero in Friuli Venezia Giulia. Sono sempre paesi piccoli, dove ci si conosce tutti. Il politico non può dire che non sapeva chi fosse questa famiglia mafiosa o che non sapeva che quell'altra fosse mafiosa. Stiamo scherzando? Scientificamente, si opera così. Le liste vengono fatte con questi criteri, non in base alla competenza o all'amore per la politica, ma al numero di voti che uno porta. Questo è un problema che riguarda tutta Italia, dalla Valle d'Aosta alla Sicilia. Quanto al discorso della lista, normativamente come faccio io a un incensurato a dire che non si può candidare, solo perché è cugino del capomafia? Non posso creare una norma su questo punto. Il problema è la politica. Non vi lamentate poi che sono i magistrati che si sostituiscono alla politica. Su queste cose non può intervenire la magistratura. Ricordate sempre che la magistratura interviene sempre dopo, non fa prevenzione. Interviene dopo che c’è il reato». Insomma, un richiamo bello e buono ad una piena assunzione di responsabilità da parte di chi “non può non sapere”, vale a dire la politica. Più semplice (e vero) di così si muore.

Pane al pane e vino al vino. Nicola Gratteri, procuratore aggiunto della Repubblica di Reggio Calabria, è fatto così. Prendere o lasciare. C’è chi lo ama (la gente comune) e chi, non potendolo comunque non amare o rispettare, lo ignora (buona parte della magistratura che snobba quella sua ruspantezza che poco si addice ai piani alti delle presunte ed eccelse classi dirigenti italiane). Tutti (impossibile non farlo), ne apprezzano le qualità professionali e umane che, talvolta, vengono tirate per la giacchetta dalla politica. Calabrese (ammesso che esista) ed italiana (ammesso che esista). In questo momento, ad esempio, in Calabria, destra, centro e sinistra (ammesso che esista una differenza reale in quella regione) si sparerebbero in una gamba pur di candidarlo alla tolda di comando della Regione, visto che il Governatore Giuseppe Scopelliti è uscente. Lui li lascia fare e spero non ceda mai alla tentazione di avere a che fare con la politica calabrese (di ogni colore). Verrebbe sbranato. Una prova della sua schiettezza, Gratteri l’ha data (dico io fortunatamente) ancora una volta il 14 aprile in sede di audizione in Commissione parlamentare antimafia (di questo mi occuperò in questo umile e umido blog nei prossimi giorni). Il discorso, ad un certo punto, è scivolato proprio sulla politica. Ecco cosa ha detto Gratteri. «Mi rendo conto della difficoltà della politica calabrese. È una politica debole. I parlamentari calabresi sono molto deboli. Sono pochi e, inoltre, c’è il dilemma se nelle ultime quarantott'ore si debba cedere al voto di scambio o meno. Sul palco tutti diciamo che non vogliamo i voti della mafia. Bisogna vedere l'ultima o la penultima notte che succede». E tenete conto che di fronte aveva anche i parlamentari calabresi, come quella Dorina Bianchi (Ncd e scopellitiana di ferro) che pochi minuti prima aveva detto: «Le dico un'altra cosa, però: noi, come classe politica calabrese, abbiamo una difficoltà reale nel momento in cui andiamo a gestire le comunità locali, in primo luogo se non se ne fa parte e non le si conosce. Pur avendo io vissuto tutta la mia vita a Crotone, le devo dire che in una circostanza, peraltro di una manifestazione anti-’ndrangheta, mi sono trovata vicino a uno dei figli degli Arena, il quale si è presentato a me e mi ha chiesto se fossi una giornalista. Io non l'ho riconosciuto. Le faccio questo esempio per dirle che non sempre è semplice da parte dei calabresi conoscere realmente il fenomeno». Un azzardo rifugiarsi dietro il “ma come faccio a sapere”, visto che poco prima Gratteri, non in risposta a Bianchi ma nella sua introduzione, aveva detto che: «Oggi, invece, sono i politici che vanno a casa dei capimafia, a chiedere pacchetti di voti in cambio di appalti. Mediamente in Calabria i paesi hanno 5.000 abitanti. Tutti ci conosciamo e nessuno può dire di non sapere chi è il mafioso. È impossibile, perché siamo nati nello stesso paese di 5.000 o 15.000 abitanti. Non puoi dire che non sai chi è il mafioso, chi è il faccendiere, chi è il politico, chi è la persona onesta. Lo sappiamo tutti. Eppure anche la Chiesa, anche i preti, anche i vescovi hanno detto che non possono chiedere il certificato penale. Se sei vescovo da dieci anni in quel paese, non mi puoi dire questo. Questa risposta non mi appaga. È una foglia di fico. Oggi se è il politico che va a casa del capomafia a chiedere i voti, vuol dire che nel comune pensare e sentire si ritiene che il modello vincente è il capomafia. Perché il capomafia interviene anche sulla ristrutturazione di un marciapiede da 20.000 euro? Con tutti quei soldi si interessa pure di un marciapiede? Sì, perché lui farà lavorare per venti giorni cinque padri di famiglia per quel lavoro, e quando sarà ora di votare quei cinque padri di famiglia si ricorderanno di votare per il candidato prescelto dal capomafia». Per il momento mi fermo qui ma domani torno con un altro approfondimento dell’audizione di Gratteri, perché ha avuto il coraggio di mettere soprattutto la politica calabrese nuda davanti alla sua pochezza. Senza guardare in faccia a nessun colore politico.

Maroni o massoni?, si chiede “Dagospia”. La Lega al centro di un intreccio torbido tra poteri occulti e ‘ndrangheta. Ora bisogna solo dare un nome (P7? P8?) alla loggia masso-mafio-legaiol-fascista che emerge dall’inchiesta sugli “amici” di Belsito - Una “piovra” affaristica e criminale che si da Reggio Calabria raggiunge il Nord ed è arrivata a sfiorare Flavio Tosi… Scrive Guido Ruotolo per "la Stampa". Spunta la massoneria nella inchiesta su Lega e 'ndrangheta. Seguendo l'odore dei soldi della potente cosca De Stefano, i magistrati reggini e gli uomini della Dia trovano prima il cerchio magico di Umberto Bossi, di Francesco Belsito l'ex tesoriere che investe i soldi del Carroccio usando gli stessi canali della cosca. E adesso, inseguendo gli amici di Belsito, i Pasquale Guaglianone e Bruno Mafrici, si trovano i leghisti «buoni», come il sindaco Flavio Tosi. C'è di peggio, per la verità, perchè questo cerchio magico del malaffare è in contatto con gli impronunciabili di una tragica stagione del terrore. Come Delfo Zorzi, terrorista nero di piazza Fontana rifugiato in Giappone, che viene intercettato al telefono con l'ex cassiere dei Nar, Pasquale Guaglianone - conversazioni di quest'inverno - a cui chiede di salutargli anche Bruno Mafrici. E Guaglianone è amico dell'ex sindaco di Reggio oggi governatore Calabrese, Giuseppe Scopelliti. Otto indagati per nuove contestazioni di reato: l'associazione mafiosa e l'organizzazione segreta punita dalla legge Anselmi. Una ventina di perquisizioni a Milano, Genova e Reggio Calabria. Gli uomini del colonnello Gianfranco Ardizzone, capo centro Dia di Reggio Calabria, sono andati anche in quattro filiali milanesi dell'istituto SanPaolo, alla Banca popolare di Vicenza e al Banco del Credito Artigianale. Vediamo gli indagati: Romolo Girardelli, «l'ammiraglio», colonna genovese degli affari immobiliari della cosca De Stefano. Una new entry, Giuseppe Sergi, ex consigliere comunale di Reggio Calabria, legato a Scopelliti. E poi Michelangelo Maria Tibaldi, imprenditore socio di minoranza della Multiservizi, società partecipata del comune di Reggio proprietà nei fatti della 'ndrangheta. E poi Angelo Viola, investigatore privato genovese indagato per il dossieraggio (tabulati telefonici, servizi fotografici) di Belsito nei confronti di Bobo Maroni. E soprattutto Pasquale detto Lino Guaglianone e Bruno Mafrici. Il primo è il titolare di quella «Mediobanca» del mondo (opaco) delle imprese reggine, dove nascono imprese, si suggellano affari e commesse, che sono gli uffici di Mgim srl di via Durini 14, a Milano. L' ex cassiere dei Nar, Guaglianone, secondo gli investigatori della Dia ha tentato prima di inserirsi nel mondo istituzionale attraverso Ignazio La Russa e Alessandra Mussolini, poi agganciando» la Lega di Tosi attraverso comuni amici «naziskin» frequentati nella Palestra Doria di Milano. E poi c'è lo pseudo avvocato, che avvocato non è, Bruno Mafrici. Nel decreto di perquisizione si legge che gli indagati sono sospettati di far parte di una associazione criminale al cui interno «opera una componente di natura segreta, collegata alla cosca De Stefano». Obiettivi e finalità della struttura massonico-mafiosa: «Complesse attività di riciclaggio e reimpiego di capitali di provenienza illecita. Attraverso le relazioni personali con Francesco Belsito l'obiettivo è consolidare e implementare la capacità di penetrazione e di condizionamento mafioso nel mondo politico-istituzionale». La cupola, la struttura criminale riservata, ha ai suoi vertici organizzativi: «Bruno Mafrici, Pasquale Guaglianone, Giorgio Laurendi, noti professionisti di origine calabresi, inseriti in multiformi contesti politici». E ancora: «Gli imprenditori reggini Michelangelo Tibaldi e Giuseppe Sergi (che ricopre anche incarichi politici e istituzionali di rilievo locale); con ruoli di ausilio informativo e di supporto, Girolamo Girardelli, Angelo Viola e Ivan Pedrazzoli». Colpisce la descrizione di questa che appare una moderna «Spectre»: «La gestione di operazioni politiche ed economiche ha consentito alle persone sottoposte ad indagini scrivono nel decreto di perquisizione i pm antimafia nazionale Francesco Curcio e di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo - di divenire il terminale di un complesso sistema criminale, in parte di natura occulta, destinato ad acquisire e gestire informazioni riservate, che venivano fornite da numerosi soggetti in corso di identificazione collegati anche ad apparati istituzionali». Non è una novità per la Calabria, questo scenario. Franco Freda, il terrorista nero, fu ospitato da latitante negli anni '70 proprio dalla cosca De Stefano. A Lamezia Terme, a cavallo della stagione stragista del '92 e '93 si tennero incontri delle Leghe meridionali e non solo con Cosa nostra, con Vito Ciancimino. Anche l'esistenza,di una superloggia massonico-ndranghetista emerse nella inchiesta del pm Enzo Macrì, anni 90.

Legami tra Lega e 'ndrangheta, Tosi: "Fandonie, mai conosciuto Belsito". Il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito risponde alle accuse mosse su presunti accordi tra la mafia calabrese e i vertici del Carroccio: "Come accostarmi al Mostro di Firenze", scrive “Verona Sera”. Non conosco nessuna delle persone alle quali un articolo di stampa, parlando di logge massoniche e 'Ndrangheta, ha accostato oggi incredibilmente il mio nome. Tantomeno il signor Belsito e i suoi affari: credo non dico di non aver mai parlato con lui, ma nemmeno di averlo mai salutato e, come ampiamente riportato in passato dagli organi d'informazione, nella Lega ero tra i suoi avversari dichiarati". Lo afferma il vice segretario della Lega, e segretario veneto del partito, Flavio Tosi, commentando notizie giornalistiche sugli sviluppi dell'inchiesta sull'ex tesoriere della Lega Francesco Belsito. La Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria sta indagando da alcune ore sul presunto riciclaggio di denaro della cosca di 'ndrangheta dei De Stefano, operazione nella quale è indagato anche l'ex tesoriere del Carroccio, Francesco Belsito. "Trovo anche più assurdo parlare di tentativi di aggancio alla Lega di Tosi - aggiunge - tramite fantomatici amici di una palestra di Milano a me sconosciuta quanto i suoi presunti frequentatori. Scrivere che io possa avere rapporti con logge massoniche o la mafia calabrese è come attribuirmi rapporti con Jack lo squartatore o il Mostro di Firenze. Mi riservo, ovviamente, ogni azione legale a tutela della mia onorabilità". Sul tema era già intervenuto anche il vice-segretario federale del Carroccio, Matteo Salvini: "Gli sviluppi dell'inchiesta di Reggio Calabria sull'ex tesoriere della Lega sono fuffa estiva: a qualcuno fa comodo accostare la Lega alla mafia", aveva dichiarato. "La Lega - ha aggiunto parlando delle notizie pubblicate fra ieri e oggi - non c'entra niente con la 'ndrangheta. E se qualcuno c'entra è già stato cacciato".

Verona, "Tangenti in Veneto per la Lega Nord". Belsito ai pm: "Zaia e Tosi sapevano". L'ex tesoriere del Carroccio mette a verbale le accuse contro i dirigenti per un prsunto pagamento di un milione di euro da parte di una multinazionale francese degli appalti ospedalieri. Partono querele, scrive “Verona Sera”. "Belsito è uno che non è la prima volta che tenta queste sortite: la prima volta ha detto che era noto a lui che andavo a pranzo con imprenditori per incassare soldi, tangenti e robe del genere. Ed è stato un po' sfortunato perché io ai pranzi non vado mai, quindi gli è andata male. Questa volta leggo che dice che 'Zaia comunque sapeva che c'era qualcuno che andava in cerca a chiedere soldi' ". E' secca la replica del presidente della Regione Veneto Luca Zaia alle accuse che avrebbe lanciato, parlando con i pm per ore, l'ex tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito. Quest'ultimo in un passaggio con i magistrati, riferito oggi da Repubblica, ricostruisce il pagamento di un milione di euro alla Lega del Veneto da parte di una multinazionale francese specializzata in appalti ospedalieri, la Siram. Belsito avrebbe affermato che tutto lo stato maggiore del partito era informato di quel finanziamento. "Anche Zaia - è la tesi dell'ex tesoriere del Carroccio - fu informato". "Rispedisco al mittente queste affermazioni - sottolinea Zaia - mi spiace perché avrei qualcos'altro di cui occuparmi. Penso che anche la magistratura abbia altro di cui occuparsi però a questo punto la impegnerò io facendo un querela, tutelandomi. Spero che si faccia chiarezza da subito. Stiamo parlando comunque di una persona che, tra le tante cose, abbiamo scoperto aveva una Porsche pagata dalla Lega, tra l'altro ora sequestrata. E' imbarazzante. Rimando tutto al mittente. Sono a disposizione dei magistrati e querelo, assolutamente querelo". Ma non solo. Secondo l'ex tesoriere del carroccio, l'ex presidente del Consiglio regionale del Veneto, Enrico Cavaliere, indagato per corruzione per una presunta tangente da 850mila euro che avrebbe ricevuto assieme ad un ex manager dalla Siram, faceva parte di una "cordata" della Lega e "rispondeva al sindaco di Verona, Flavio Tosi, e a Roberto Maroni, che erano i suoi diretti superiori". Questo quanto ha messo a verbale lo scorso 15 luglio dall'ex tesoriere, indagato nell'inchiesta "The Family". Dalle dichiarazioni di Belsito sul caso Siram è nata una nuova tranche d'indagine. Durissima la replica, a caldo, del sindaco Tosi: "Si parla di un episodio - spiega ai microfoni di Radio Verona - che risale al 2010. Io sono segretario della Liga Veneta da un anno o poco più. Questo da' la dimensione: tant'è che io son diventato segretario con Maroni alla guida, dopo gli scandali, per far pulizia in Lega. Le affermazioni vengono da una persona schifosa come Belsito, che io non ho mai avuto nemmeno l'occasione di salutare. Non ho mai avuto rapporti con lui nè con il cosiddetto 'cerchio magico' nè tantomeno con chi girava attorno a quelle situazioni. Penso che il paragone più appropriato con la persona di Belsito sia quello con un escremento. E si rischia di offendere l'escremento. Da un soggetto come lui, che ne ha fatte di tutti i colori e che girava in ambienti torbidi, c'è da aspettarsi di tutto. Dopo le dichiarazioni rilasciate alla stampa, il presidente Zaia ha dato mandato al proprio legale di presentare denuncia per calunnia e una querela per diffamazione nei confronti di Belsito. Analoghi provvedimenti potrebbero essere presi dal sindaco di Verona, dal neosegretario della Lega, Matteo Salvini, e dal presidente della Regione Lombardia, Roberto Maroni.

Report inguaia Tosi, a cena con la 'ndrangheta', scrive “L’Ansa”. L'ira del sindaco: Chi getta fango è disperato. Report inguaia Tosi. La trasmissione andata in onda ieri sera parte con un servizio sul caffè, poi si passa al sindaco di Verona e la Gabanelli annuncia che il giornalista autore dell'inchiesta su come funzionano le tangenti in ambito Lega, Sigfrido Ranucci, è stato querelato anche per il presunto pagamento di denaro per ottenere un fantomatico video hard con Tosi protagonista. Delle immagini nel servizio Rai non c'è traccia e l'inchiesta passa ai rapporti tra Tosi e alcuni calabresi, indagati o coinvolti  in indagini sulla ’ndrangheta e la malavita organizzata. Coinvolta anche la moglie del sindaco veronese Stefania Villanova, responsabile della segreteria dell’assessore regionale alla Sanità. A  cominciare da una cena a Crotone, con Tosi a fianco di Stanislao Zurlo, presidente della locale Provincia per il quale fu chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Ranucci racconta che la cena fu organizzata da Katia Forte, consigliera comunale della Lista Tosi . A capo della tavolata c’è Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio, condannato in primo grado per concorso esterni mafioso e poi assolto.  Dopo la trasmissione, Katia Forte ha specificato: "La cena di Crotone è stata pagata da me e mio padre". Ranucci spiega che di Raffaele Vrenna hanno parlato tre collaboratori di giustizia. Uno è Luigi Bonaventura che indica tra i boss orbitanti al Nord. Poi Francesco Sinopoli, candidato ed eletto nella Lista Tosi. I Giardino, secondo il racconto di un imprenditore, sono stati presenti nelle cene organizzate per la campagna elettorale di Tosi e del suo assessore di origine calabrese, Marco Giorlo». Nell'intervista un uomo racconta che a quelle cene si parlava di appalti «con il sindaco Tosi» e al quesito se c’erano anche altri politici dice «c’era Casali, (l’attuale vicensindaco Stefano Casali) e Marco Giorlo». Ma Casali precisa che lui in Calabria non c’è mai stato. Nel servizio parte la sequela su quello che è ormai l’ex assessore allo Sport, trombato da Tosi proprio per le sue dichiarazioni «sventate» a Report. "Se uno va a vedere, chi mi getta fango è gente disperata, prove zero, reati zero", ha detto Flavio Tosi commentando l'inchiesta andata in onda nella trasmissione Report di Rai 3. "I personaggi del servizio di Report non dovrebbero stupire nessun veronese: la Signora Katia Forte - il cui padre, imprenditore nel settore delle pulizie, è personaggio noto alle cronache giudiziarie della città- già nel '97 mi chiedeva la sala di rappresentanza della Provincia di Verona per presentare una nuova iniziativa ad opera di un imprenditore crotonese del settore della gioielleria, con la partecipazione prevista del Presidente della Provincia di Crotone". Lo ricorda Antonio Borghesi, già Presidente della Provincia di Verona, in relazione alla trasmissione di Report di ieri sera.. "Allorché mi vennero segnalate le condanne dell'imprenditore in questione, per legami con la criminalità organizzata ritirai la mia disponibilità, ma la cosa ebbe comunque luogo - continua -. Al tempo Flavio Tosi era segretario della Lega Nord". Borghesi si rivolge poi direttamente a Tosi, dopo la trasmissione del servizio di Report. "Alla luce di quanto emerso dalla trasmissione e dopo l' arresto del suo vicesindaco - dice - il sindaco Tosi dovrebbe trovare la dignità di fare un passo indietro. E invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali ed il potere amministrativo. Le solite querele preventive non possono più tappare un vero e proprio vaso di Pandora".

Dopo la puntata di Report di ieri sera, è stata presentata al prefetto di Verona una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona. A chiederla è stato un parlamentare veronese di centrodestra, Alberto Giorgetti. Qualora il prefetto dovesse inviare una commissione in Comune e l’indagine riscontrasse l’esistenza di infiltrazioni, il Comune di Verona potrebbe essere sciolto per mafia. “Se le cose dette da Report sono vere – ha dichiarato Giorgetti – ci sarebbe un collegamento diretto tra la ‘ndrangheta e assessori o eletti appartenenti alla maggioranza di Flavio Tosi, per cui secondo l’attuale normativa antimafia, sussisterebbero automaticamente i presupposti per lo scioglimento”. Nel corso dell’inchiesta di Report, è emerso il ruolo di alcune famiglie di costruttori calabresi trapiantanti a Verona e molto vicini a esponenti di primo piano dell’amministrazione Tosi. In particolare il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha per la prima volta rivelato di aver partecipato alcuni anni fa a un summit in cui erano presenti boss della ndrangheta calabrese e rappresentanti di una famiglia di costruttori veronesi.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI.

I giornalisti di sinistra: voce della verità? L’Espresso e l’ossessione per Silvio Berlusconi.

«Quando la disinformazione è l’oppio dei popoli, che li rincoglionisce. I giornalisti corrotti ed incapaci ti riempiono la mente di merda. Anziché essere testimoni veritieri del loro tempo, si concentrano ad influenzare l’elettorato manovrati dal potere giudiziario, astio  ad ogni riforma che li possa coinvolgere e che obbliga i pennivendoli a tacere le malefatte delle toghe, non solo politicizzate», così opina Antonio Giangrande, sociologo storico ed autore di tantissimi saggi, tra cui “Governopoli”, “Mediopoli” ed “Impunitopoli”.

Il declino di un’era. 20 anni di niente. Silvio Berlusconi: ossessione dei giornalisti di destra, nel difenderlo, e di sinistra, nell’attaccarlo.

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”.

Il Caimano in prima pagina: vent'anni di copertine dell'Espresso. Sono 88. La prima, il 5 ottobre del 1993. L'ultima, ma non ultima, il 25 novembre 2013. Ecco come l'Espresso ha sbattuto il Cavaliere in prima pagina.

5 ottobre 1993. Berlusconi a destra. Nuove Rivelazioni: QUI MI FANNO NERO! Dietro la svolta: Le ossessioni, la megalomania, la crisi Fininvest….

17 ottobre 1993. Esclusivo. I piani Fininvest per evitare il crac. A ME I SOLDI! Rischio Berlusconi. Rivelazioni. Il debutto in politica e l’accordo con segni. A ME I VOTI!

21 novembre 1993. Elezioni. Esclusivo: tutti gli uomini del partito di Berlusconi. L’ACCHIAPPAVOTI.

7 gennaio 1994. BERLUSCONI: LE VERITA’ CHE NESSUNO DICE. Perché entra in politica? Forse per risolvere i guai delle sue aziende? Che senso ha definirlo imprenditore di successo? Quali sono i suoi rapporti oggi con Craxi? Cosa combina se si impadronisse del Governo? Quali banchieri lo vedono già a Palazzo Chigi? Esistono cosi occulti nella Fininvest? Chi sono? Insomma: questo partito-azienda è una barzelletta o una cosa seria?

4 marzo 1994. Speciale elezioni. CENTO NOMI DA NON VOTARE. Dossier su: buoni a nulla, dinosauri, inquisiti, riciclati, voltagabbana.

11 marzo 1994. DIECI BUONE RAGIONI PER NON FIDARSI DI BERLUSCONI. Documenti esclusivi da: commissione P2, magistratura milanese, Corte costituzionale.

29 luglio 1994. Troppe guerre inutili. Troppi giochetti d’azzardo. Troppe promesse a vuoto. Troppo disprezzo degli altri. Troppe docce fredde per lira e borsa….LA FANTASTICA CANTONATA DEGLI ITALIANI CHE SI SONO FIDATI DI BERLUSCONI.

26 agosto 1994. Tema del giorno. Atroce dubbio su Berlusconi: ci sa fare o è un…ASINO?

18 novembre 1994. Dossier Arcore: LA REGGIA. Storia di un Cavaliere furbo, di un avvocato, di un’ereditiera. Dossier alluvione. LA PALUDE. Storia di un governo ottimista e di una catastrofe.

14 aprile 1995. L’incubo di pasqua. Ma davvero la destra vince? VENDETTA!

9 giugno 1995. L’AFFARE PUBBLITALIA. Tre documenti eccezionali. 1. Dell’Utri. Viaggio tra i fondi neri. Della società che voleva conquistare un paese. 2. Berlusconi. Le prove in mano ai giudici: dal caso Berruti alla pista estera. 3. Letta. I verbali dei summit di Arcore. Con i big di giornali e televisioni Fininvest.

10 settembre 1995. Case d’oro/ esclusivo. L’ALTRA FACCIA DELLO SCANDALO. Rapporto sui raccomandati di sinistra. Rivelazioni: manovre ed imbrogli della destra.

17 settembre 1995. L’ALTRA FACCIA DI AFFITTOPOLI/NUOVE RIVELAZIONI. 745.888.800.000! Come, dove e quanto hanno incassato i fratelli Berlusconi rifilando palazzi e capannoni agli enti previdenziali.

25 ottobre 1995. SHOWMAN. Berlusconi ultimo grido. L’attacco a Dini e Scalfaro: astuzie, bugie, sceneggiate.

2 febbraio 1996. L’uomo dell’inciucio. Segreti, imbrogli, stramberie, pericoli…. SAN SILVIO VERGINE.

5 aprile 1996. Dall’album di Stefania Ariosto: festa con il cavaliere. C’ERAVAMO TANTO AMATI. Nuove strepitose foto/La dolce vita di Berlusconi & C. Caso Squillante/Tutto sui pedinamenti. E sui gioielli Fininvest. Se vince il Polo delle Vanità/Poveri soldi nostri…

24 ottobre 1996. D’Alema e Berlusconi: il nuovo compromesso. Origini, retroscena, pericoli. DALEMONI.

18 dicembre 1996. FORZA BUFALE. Rivelazioni. Chi e come alimenta la campagna contro Di Pietro. Qual è la fabbrica delle false notizie agghiaccianti sul Pool Mani Pulite. Che cosa fa acqua nei rapporti della Guardia di Finanza. I segreti dell’agenda di Pacini Battaglia. Le grandi manovre per l’impunità. E il ritorno di fiamma dell’amnistia….C’è in Italia un partito antigiudici. Ha capi, quadri, ha compagni di strada. Per vincere deve spararle sempre più grosse. Inchiesta su un malessere che non passa. E che nessuna riforma risolve.

3 maggio 1996. THE END.

10 aprile 1997. ALBANIA SHOW. Speciale/tragedie e polemiche, sceneggiate e pericoli.

3 agosto 2000. Esclusivo. Un rapporto dei tecnici della Banca d’Italia. COSI’ HA FATTO I SOLDI BERLUSCONI.

22 marzo 2001. LA CARICA DEI 121. Fedelissimi, folgorati e riciclati. Con loro Berlusconi vorrebbe governare l’Italia.

16 maggio 2001. L’AFFONDO. Berlusconi si gioca il tutto per tutto. Ma la partita è ancora aperta. Le urne diranno se sarà alba o tramonto.

24 magio 2001. E ORA MI CONSENTA. L’Italia alle prese con il Cavaliere pigliatutto.

19 dicembre 2001. GIUSTIZIA FAI DA ME. Sondaggio choc: i giudici, gli italiani e Berlusconi.

7 febbraio 2002. L’importante è separare la carriera degli imputati da quella dei giudici. L’ILLUSIONE DI MANI PULITE.

15 maggio 2003. COMPARI. Negli affari, nella politica, nei processi. Berlusconi e Previti pronti a tutto. A riscrivere le leggi e a sconvolgere le istituzioni.

11 settembre 2003. Esclusivo. GLI ZAR DELLA COSTA SMERALDA. Le foto segrete dell’incontro Berlusconi-Putin.

29 gennaio 2004. RISILVIO. Vuole rifare il governo, rifondare Forza Italia, riformare lo Stato. E per cominciare si è rifatto.

13 maggio 2004. LE 1000 BUGIE DI BERLUSCONI. Il suo governo ha stabilito il record di durata. E anche quello delle promesse non mantenute. Ecco il bilancio.

24 giugno 2004. – 4.000.000. Ha perso voti e credibilità. Ora gli alleati gli presentano il conto. L’estate torrida del cavalier Silvio Berlusconi.

3 marzo 2005. AFFARI SUOI. Società e fiduciarie nei paradisi fiscali. Falsi in bilancio. Così Silvio Berlusconi dirottava i proventi del gruppo Mediaset sui diritti Tv.

7 aprile 2005. RISCHIATUTTO. Il voto delle regionali segnerà il destino dei duellanti. Romano Prodi e Silvio Berlusconi? Ecco che cosa ci aspetta dopo il verdetto delle urne.

21 aprile 2005. FARE A MENO DI BERLUSCONI. L’ennesima sconfitta ha chiuso un ciclo. Gli alleati del Cavaliere pensano al dopo. E a chi potrà prendere il suo posto.

2 febbraio 2006. PSYCHO SILVIO. Impaurito dai sondaggi tenta di rinviare la campagna elettorale. Occupa radio e tv. Promuove gli amici nei ministeri. Distribuisce una pioggia di finanziamenti clientelari. Così Berlusconi le prova tutte per evitare la sconfitta.

6 aprile 2006. DECIDONO GLI INDECISI. Identikit degli italiani che ancora non hanno scelto. Ma che determineranno l’esito del voto del 9 aprile.

9 novembre 2006. LA CASA DEI DOSSIER. Da Telecom-Serbia alle incursioni informatiche. Ecco il filo che lega le trame degli ultimi anni. Con un obbiettivo: delegittimare Prodi e la sinistra.

29 novembre 2007. Retroscena. VOLPE SILVIO. Il piano segreto di Berlusconi per far cadere Prodi e tornare al Governo. Fini e Casini azzerati. L’Unione sorpresa. Ma Veltroni è tranquillo. Non mi fanno paura.

24 aprile 2008. Elezioni. L’ITALIA DI B&B. Il ciclone Berlusconi. Il trionfo di Bossi. Lo scacco a Veltroni. E l’apocalisse della sinistra radicale rimasta fuori dal Parlamento.

15 maggio 2008. Inchiesta. LA MARCIA SU NAPOLI. Silvio Berlusconi arriva in città con il nuovo governo. Per liberarla dai rifiuti ma anche per spazzare via la sinistra da Comune e Regione.

25 giugno 2008. DOPPIO GIOCO. Si propone come statista. Aperto al dialogo. Ma poi Berlusconi vuole fermare i suoi processi. Ricusa i giudici. Vieta le intercettazioni. Manda l’esercito nelle città. Ed è solo l’inizio.

3 luglio 2008. Esclusivo. PRONTO RAI. Raccomandazioni. Pressioni politiche. Affari. Le telefonate di Berlusconi, Saccà, Confalonieri, Moratti, Letta, Landolfi, Urbani, Minoli, Bordon, Barbareschi, Costanzo….

19 febbraio 2009. Berlusconi. L’ORGIA DEL POTERE. L’attacco al Quirinale e alla Costituzione. Il caso Englaro. La giustizia. Gli immigrati. L’offensiva a tutto campo del premier.

19 marzo 2009. Inchiesta. PIER6SILVIO SPOT. Le reti Mediaset perdono ascolto. Ma fanno il pieno di pubblicità a scapito della Rai. Da quando Berlusconi è tornato al governo, i grandi inserzionisti hanno aumentato gli investimenti sulle tivù del cavaliere.

14 maggio 2009. SCACCO AL RE. Il divorzio chiesto da Veronica Lario a Berlusconi. Tutte le donne e gli amori del Cavaliere. La contesa sull’eredità. Le possibili conseguenze sulla politica.

11 giugno 2009. SILVIO CIRCUS. Per l’Italia la fiction: tra promesse fasulle e clamorose assenze come nel caso Fiat-Opel. Per sé il reality: le feste in villa e i voli di Stato per gli amici.

17 giugno 2009. Governo. ORA GUIDO IO. Umberto Bossi è il vero vincitore delle elezioni. E già mette sotto ricatto Berlusconi e la maggioranza. Nell’opposizione Di Pietro si prepara a contendere la leadership al PD, reduce da una pesante sconfitta.

25 giugno 2009. ESTATE DA PAPI. Esclusivo. Le foto di un gruppo di ragazze all’arrivo a Villa Certosa. Agosto 2008.

9 luglio 2009. Il vertice dell’Aquila. G7 E MEZZO. Berlusconi screditato dalle inchieste e dagli scandali cerca di rifarsi l’immagine. Con la passerella dei leader della terra sulle macerie. L’attesa per un summit che conferma la sua inutilità.

16 luglio 2009. SILVIO SI STAMPI. Tenta di intimidire e limitare la libertà dei giornalisti. Ma Napolitano stoppa la legge bavaglio. E i giornali stranieri non gli danno tregua. Umberto eco: “E’ a rischio la democrazia”.

23 luglio 2009. TELESFIDA. Tra Berlusconi e Murdoch è il corso una contesa senza esclusione di colpi. Per il predominio nella Tv del futuro. Ecco cosa succederà e chi vincerà.

30 luglio 2009. Esclusivo. SEX AND THE SILVIO. Tutte le bugie di Berlusconi smascherate dai nastri di Patrizia D’Addario. Notti insonni, giochi erotici, promesse mancate, E ora la politica si interroga: può ancora governare il paese?

12 agosto 2009. Governo. SILVIO: BOCCIATO. Bugie ed escort. Conflitti con il Quirinale. Assalti al CSM. Debito Pubblico. Decreti di urgenza. Soldi al Sud. Clandestini e badanti. Bilancio del premier Berlusconi. E, ministro per ministro, a ciascuno la sua pagella.

3 settembre 2009. DOPPIO GIOCO. Montagne di armi per le guerre africane. Vendute da trafficanti italiani a suon di tangenti. Ecco la Libia di Gheddafi cui Berlusconi renderà omaggio. Mentre l’Europa chiede di conoscere il patto anti immigrati.

10 settembre 2009. SE QUESTO E’ UN PREMIER. Si scontra con la chiesa. Litiga con l’Europa. Denuncia i giornali italiani e stranieri non allineati. E, non contento, vuol metter le mani su Rai 3 e La7.

1 ottobre 2009. GHEDINI MI ROVINI. Oggi è il consigliere più ascoltato del premier. Autore di leggi ad personam e di gaffe memorabili. Storia dell’onorevole-avvocato, dai camerati al lodo Alfano.

8 ottobre 2009. SUA LIBERTA’ DI STAMPA. Attacchi ai giornali. Querele. Bavaglio alle trasmissioni scomode della tv. Così Berlusconi vuole il controllo totale dell’informazione.

15 ottobre 2009. KO LODO. La Consulta boccia l’immunità, Berlusconi torna imputato. E rischia un’ondata di nuove accuse. Ma la sua maggioranza si rivolge alla piazza. E apre una fase di grande tensione istituzionale.

19 novembre 2009. LA LEGGE DI SILVIO. Impunità: è l’obbiettivo di Berlusconi. Con misure che annullano migliaia di processi. E con il ripristino dell’immunità parlamentare. Mentre Cosentino resta al governo dopo la richiesta di arresto.

16 dicembre 2009. SCADUTO. I rapporti con i clan mafiosi. Lo scontro con Fini. I guai con la moglie Veronica e con le escort. L’impero conteso con i figli. L’anno orribile di Silvio Berlusconi.

21 gennaio 2010. Palazzo Chigi. SILVIO QUANTO CI COSTI. 4.500 dipendenti. Spese fuori controllo per oltre 4 miliardi di euro l’anno. Sono i conti della Presidenza del Consiglio. Tra sprechi, consulenze ed eventi mediatici.

4 marzo 2010. UN G8 DA 500 MILIONI DI EURO. Quanto ci è costato il vertice tra la Maddalena e l’Aquila. Ecco il rendiconto voce per voce, tra sprechi e raccomandazioni: dal buffet d’oro ai posacenere, dalle bandierine ai cd celebrativi.

18 marzo 2010. SENZA REGOLE. Disprezzo della legalità. Conflitti con il Quirinale. Attacchi ai magistrati e all’opposizione. Scandali. E ora per la sfida elettorale Berlusconi mobilita la piazza. Con il risultato di portare il paese nel caos.

31 marzo 2010. STOP A SILVIO. Le elezioni regionali possono fermare la deriva populista di Berlusconi. Bersani: “Pronti al dialogo con chi, anche a destra, vuole cambiare”.

13 maggio 2010. IL CASINO DELLE LIBERTA’. Le inchieste giudiziarie. Gli scontri interni al partito. La paralisi del Governo. Dopo le dimissioni di Scajola, Berlusconi nella bufera.

27 maggio 2010. STANGATA DOPPIA. Prima il blocco degli stipendi degli statali, i tagli sulla sanità, la caccia agli evasori e un nuovo condono. Poi la scure sulle pensioni e un ritorno alla tassa sulla casa.

8 luglio 2010. I DOLORI DEL VECCHIO SILVIO. La condanna di Dell’Utri per mafia e il caso Brancher. La rivolta delle Regioni contro i tagli e l’immobilismo del governo. Le faide nel Pdl e i sospetti della Lega. Il Cavaliere alla deriva.

15 luglio 2010. SENZA PAROLE.

11 novembre 2010. BASTA CON ‘STO BUNGA BUNGA. BASTA LO DICO IO.

18 novembre 2010. QUI CROLLA TUTTO. Le macerie di Pompei. L’alluvione annunciata in Veneto. L’agonia della maggioranza. L’economia in panne. Per non dire di escort e bunga bunga. Fotografia di un paese da ricostruire.

16 dicembre 2010. La resa dei conti tra Berlusconi e Fini è all’atto finale. Chi perde rischia di uscire di scena. FUORI UNO.

22 dicembre 2010. FINALE DI PARTITA. Voti comprati. Tradimenti. Regalie…Berlusconi evita a stento la sfiducia, ma ora è senza maggioranza e deve ricominciare daccapo. Anche se resisterà, una stagione s’è chiusa. Eccola, in 40 pagine, di foto e ricordi d’autore.

27 gennaio 2011. ARCORE BY NIGHT. Un harem di giovanissime ragazze pronte a tutto. Festini, orge, esibizioni erotiche, sesso. L’incredibile spaccato delle serate di Berlusconi nelle sue ville. Tra ricatti e relazioni pericolose.

10 febbraio 2011. PRETTY MINETTI. Vita di Nicole, ragazza chiave dello scandalo Ruby. Intima di Berlusconi, sa tutto sul suo harem. Se ora parlasse.

26 maggio 2011. MADUNINA CHE BOTTA! Milano gli volta le spalle, Bossi è una mina vagante, il PDL spaccato già pensa al dopo. Stavolta Berlusconi ha perso davvero. Analisi di una disfatta. Che, Moratti o non Moratti, peserà anche sul governo.

21 giugno 2011. Esclusivo. VOI QUORUM IO PAPI. Domenica 12 giugno l’Italia cambia, lui no. Domenica 12 giugno l’Italia corre a votare, lui a villa Certosa a occuparsi d’altro. In queste foto, la wonderland del cavaliere. Lontana anni luce dal paese reale.

7 luglio 2011. Sprechi di Stato. IO VOLO BLU MA PAGHI TU. Il governo brucia centinaia di milioni per i suoi viaggi. E Berlusconi si regala due super elicotteri. A spese nostre.

21 luglio 2011. MISTER CRACK. La tempesta economica. La borsa in bilico. La paura del default. E un premier sempre isolato. Il varo della manovra è solo una tregua. Prima della resa dei conti. E spunta l’ipotesi di un governo guidato da Mario Monti.

25 agosto 2011. LACRIME E SANGUE. Diceva: meno tasse per tutti. Ma la pressione fiscale non è mai stata così alta. Chiamava Dracula gli altri. Ma ora è lui a mordere i soliti. Processo all’iniqua manovra d’agosto. Che ci cambia la vita e non tocca gli evasori.

15 settembre 2011. E SILVIO SI TAGLIO’ 300 MILIONI DI TASSE. Il Premier impone il rigore agli italiani. Ma gli atti sulla P3 svelano le trame per evitare la causa fiscale sulla Mondadori. Dal presidente della Cassazione al sottosegretario Caliendo, ecco chi si è mosso per salvarlo dalla maximulta.

29 settembre 2011. SERIE B.

13 ottobre 2011. SQUALIFICATO. Condannato dalla Chiesa, mollato dagli imprenditori, bocciato dalle agenzie di rating. E’ l’agonia di un leader né serio né credibile che non si decide a lasciare. Denuncia Romano Prodi a “L’Espresso”: Qualsiasi governo sarebbe meglio del suo.

17 novembre 2011. THE END. Berlusconi tenterà di sopravvivere, ma ha dovuto prendere atto della fine del suo governo. Intanto la crisi economica si fa sempre più drammatica e la credibilità dell’Italia è ridotta a zero. Non c’è più tempo da perdere.

19 gennaio 2012. I GATTOPARDI. Crescita, liberalizzazioni, lotta all’evasione e alla casta…Monti è atteso alla prova più dura. Ma i partiti frenano. Come se avessero voluto cambiare tutto per non cambiare niente.

5 luglio 2012. RIECCOLO. Attacco euro e Merkel. Destabilizza il governo Monti. Blocca la Rai. E rivendica la leadership del suo partito. Così Berlusconi prova ancora una volta a farsi largo.

14 febbraio 2013. VI AFFONDO IO. Pur di risalire al china Silvio Berlusconi sfascia tutto accende la campagna elettorale con promesse da marinaio e terrorizza i mercati. Davvero può farcela? Chi lo fermerà? E come dovrebbe reagire il PD? L’Espresso lo ha chiesto a due guru.

19 settembre 2013. BOIA CHI MOLLA. Accettare il silenzio la decadenza o l’interdizione. O fare un passo indietro prima del voto. Berlusconi ha pronta una via d’uscita. Per restare il capo della destra.

29 novembre 2013. EXTRA PARLAMENTARE. Per Berlusconi si chiude un ventennio e comincia lo scontro finale: fuori dal Senato e in piazza, dalle larghe intese all’opposizione dura. Contro il governo, contro Napolitano, contro l’Europa…..

1977: quell'articolo premonitore di Camilla Cederna su Silvio Berlusconi. Uno splendido pezzo di una grande firma de "L'Espresso". Che aveva già capito tutto dell'ex Cavaliere, agli albori della sua ascesa. Il 9 maggio 2014 Silvio Berlusconi ha cominciato a scontare la pena per frode fiscale con il “servizio sociale” per gli anziani della Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Ma continua a dominare le tribune elettorali, convinto di un destino da «padre della patria» e dei risultati di Forza Italia. Inarrestabile, come è sempre stato. Ecco gli albori della sua ascesa descritti da Camilla Cederna sul numero de “l’Espresso” del 10 aprile 1977: un articolo in cui del personaggio si capiva già tutto e pubblicato proprio dal “L’Espresso” il 12 maggio 2014. In un ambiente di lusso, saloni uno via l’altro, prati di moquette, sculture che si muovono, pelle, mogano e palissandro, continua a parlare un uomo non tanto alto, con un faccino tondo da bambino coi baffi, nemmeno una ruga, e un nasetto da bambola. Completo da grande sarto, leggero profumo maschio al limone. Mentre il suo aspetto curato, i suoi modini gentili, la sua continua esplosione di idee piacerebbero a un organizzatore di festini e congressi, il suo nome sarebbe piaciuto molto a C.E. Gadda. Si chiama infatti Silvio Berlusconi. Un milanese che vale miliardi, costruttore di smisurati centri residenziali, ora proprietario della stupenda villa di Arcore dove vissero Gabrio Casati e Teresa Confalonieri (con collezione di pittori lombardi del ’500, e mai nessun nudo per non offendere la moglie, religiosissima), quindi della villa ex Borletti ai margini del parco di Milano. Allergico alle fotografie («magari anche per via dei rapimenti», spiega con un sorriso ironico solo a metà) è soddisfattissimo che nessuno lo riconosca né a Milano né in quella sua gemma che considera Milano 2. Siccome è la sua prima intervista, è felice di raccontarmi la sua vita felice. Media borghesia, il papà direttore di banca che, a liceo finito, non gli dà più la mancia settimanale; ma lui non si dispera, perché, mentre studia legge, lavora in vari modi: suonando Gershwin o cantando le canzoni francesi alle feste studentesche. Non solo, ma fra un trenta e lode e l’altro, fa il venditore di elettrodomestici, e la sua strada è in salita: da venditore a venditore capo a direttore commerciale. Dopo la sua tesi di laurea sulla pubblicità (il massimo dei voti) inizia la sua vera attività entrando successivamente in due importanti imprese di costruzione. A venticinque anni crea un complesso di case intorno a piazza Piemonte, ecco quindi la fortunatissima operazione di Brugherio, una lottizzazione destinata al ceto medio basso, mille appartamenti che van via subito; e preso dal piacere di raccontare, ogni tanto va nel difficile, dice “congesto”, macrourbanistica, architettura corale, la connotazione del mio carattere è la positività, “natura non facit saltus”. Il suo sogno sarebbe esser ricercato in tutto il mondo per fare città, e “chiamiamo il Berlusconi” dovrebbe essere l’invocazione di terre desiderose di espandersi. Di Milano 2, l’enorme quartiere residenziale nel Comune di Segrate, parla come di una donna che ama, completa com’è di ogni bellezza e comfort, e centomila abitanti, che a dir che sono soddisfatti è dir poco. Lui legge tutte le novità di architettura e urbanistica, qualche best-seller ogni tanto, rilegge spesso “L’utopia” di Tommaso Moro, sul quale vorrebbe scrivere un saggio. Si ritiene l’antitesi del palazzinaro, si ritiene un progressista, è cattolico e praticante, ha votato Dc; e «se l’urbanistica è quella che si contratta fra costruttori e potere politico, la mia allora non è urbanistica». Grazie, e vediamo cosa dicono gli altri di lui. Lo considerano uno dei maggiori speculatori edilizi del nostro tempo che, valendosi di grosse protezioni vaticane e bancarie, vende le case e prende i soldi prima ancora di costruirle, lucrando in proprio miliardi di interessi. Si lega prima con la base dc (Marcora e Bassetti), poi col centro, così che il segretario provinciale Mazzotta è il suo uomo. Altro suo punto di riferimento è il Psi, cioè Craxi, che vuoi dire Tognoli, cioè il sindaco. E qui viene contraddetta la sua avversione verso l’urbanistica come compromesso tra politici e costruttori. La società di Berlusconi è la Edilnord, fondata nel ’63 da lui e da Renzo Rezzonico, direttore di una società finanziaria con base a Lugano, liquidata nel ’71 per segrete ragioni. Viene fondata allora la Edilnord centri residenziali con le stesse condizioni della compagnia di prima: lo stesso capitale sociale (circa 10 mila dollari), la stessa banca svizzera che fa i prestiti (la International Bank di Zurigo), ed ecco Berlusconi procuratore generale per l’Italia. Nel ’71 il consiglio dei Lavori Pubblici dichiara ufficialmente residenziale la terra di Berlusconi (comprata per 500 lire al metro quadralo nel ’63 e venduta all’Edilnord per 4.250). Da Segrate (amministrazione di sinistra prima, poi socialista e dc) vengono concesse all’Edilnord licenze edilizie in cambio di sostanziose somme di danaro. Umberto Dragone, allora capo del gruppo socialista nel consiglio di Milano, pensa che l’Edilnord abbia pagato ai partiti coinvolti il 5-10 per cento dei profitti (18-19 miliardi) che si aspettava da Milano 2. (Qualche appartamento arredato pare sia stato dato gratis ad assessori e tecnici dc e socialisti. Certo è che questo regalo lo ha avuto un tecnico socialista che vive lì con una fotomodella). «II silenzio non ha prezzo, ecco il paradiso del silenzio », era scritto sulla pubblicità di questa residenza per alta e media borghesia. Ma il silenzio da principio non c’era. L’aeroporto di Linate è lì a un passo, ogni 90 secondi decollava un aereo, intollerabili le onde sonore, superiori a 100 decibel. Così l’Edilnord si muove a Roma, manovrando i ministeri, per ottenere il cambio delle rotte degli aerei. Approfittando della vicinanza di un ospedale, il San Raffaele, diretto da un prete trafficone e sospeso a divinis, don Luigi Maria Verzé, manda ai vari ministeri una piantina in cui la sua Milano 2 risulta zona ospedaliera e la cartina falsa verrà distribuita ai piloti (con su la croce, simbolo internazionale della zona di rispetto), così le rotte vengono cambiate spostando l’odioso inquinamento da rumore da Milano 2 alla sezione nord-est di Segrate che per anni protesterà invano: e il prezzo degli appartamenti viene subito triplicato. Altre notizie. Berlusconi sta mettendo in cantiere la sua nuova Milano 3 nel Comune di Basiglio a sud della città, con appartamenti di tipo “flessibile”, cioè con pareti che si spostano secondo le esigenze familiari. In settembre comincerà a trasmettere dal grattacielo Pirelli la sua Telemilano, una televisione locale con dibattiti sui problemi della città, un’ora al giorno offerta ai giornali (egli possiede il 15 per cento del “Giornale” di Montanelli). «Troppi sono oggi i fattori ansiogeni», dice, «la mia sarà una tv ottimista». Staff di otto redattori, più tecnici e cameramen, quaranta persone in tutto. E pare che in questo suo progetto sia stato aiutato dall’amico Vittorino Colombo, ministro delle Poste e della Tv. Berlusconi aveva anche pensato di fondare un circolo di cultura diretto da Roberto Gervaso; la sua idea preferita però era quella di creare un movimento interpartitico puntato sui giovani emergenti, ma per adesso vi ha soprasseduto. Gli sarebbe piaciuto anche diventare presidente del Milan, ma la paura della pubblicità lo ha trattenuto. Massima sua aspirazione sarebbe infine quella di candidarsi al Parlamento europeo. Ci tiene anche a coltivare al meglio la sua figura di padre, cercando di avere frequenti contatti coi suoi figlioletti. Quel che deplora è che dalle elementari di adesso sia stato esiliato il nozionismo: a lui le nozioni, in qualsiasi campo, hanno giovato moltissimo. Camilla Cederna.

1977: Berlusconi e la pistola. Il fotografo Alberto Roveri decide di trasferire il suo archivio in formato digitale. E riscopre così i ritratti del primo servizio sul Cavaliere. Immagini inedite che raccontano l'anno in cui è nato il suo progetto mediatico. Con al fianco Dell'Utri. E un revolver sul tavolo per difendersi dai rapimenti, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Formidabile quell'anno. È il 1977 quando il Dottore, come l'hanno continuato a chiamare i suoi collaboratori più intimi, diventa per tutti gli italiani il Cavaliere: il cavaliere del Lavoro Silvio Berlusconi. L'onorificenza viene concessa dal presidente Giovanni Leone all'imprenditore quarantenne che ha tirato su una città satellite, sta comprando la maggioranza del "Giornale" di Indro Montanelli e promette di rompere il monopolio della tv di Stato. È l'anno in cui il neocavaliere stabilisce rapporti fin troppo cordiali con il vertice del "Corriere della Sera" e in un'intervista a Mario Pirani di "Repubblica" annuncia di volere schierare la sua televisione al fianco dei politici anticomunisti. Fino ad allora lo conoscevano in pochi e soltanto in Lombardia: era il costruttore che aveva inventato Milano Due, la prima new town che magnificava lusso, verde e protezione a prova di criminalità. Il segno di quanto in quella stagione di terrorismo e rapine, ma soprattutto di sequestri di persona, la sicurezza fosse il bene più prezioso. E lui, nella prima di queste foto riscoperte dopo trentatre anni, si mostra come un uomo d'affari che sa difendersi: in evidenza sulla scrivania c'è un revolver. Un'immagine che riporta a film popolari in quel periodo di piombo, dai polizieschi all'italiana sui cittadini che si fanno giustizia da soli agli esordi pistoleri di Clint Eastwood. "Con una Magnum ci si sente felici", garantiva l'ispettore Callaghan e anche il Cavaliere si era adeguato, infilando nella fondina una piccola e potente 357 Magnum. È stato proprio quel revolver a colpire oggi il fotografo Alberto Roveri mentre trasferiva la sua collezione di pellicole in un archivio digitale: "Le stavo ingrandendo per ripulirle dalle imperfezioni quando è spuntata quell'arma che avevo dimenticato". Come in "Blow Up" di Antonioni, a forza di ingrandire il negativo appare la pistola: "All'epoca quello scatto preso da lontano non mi era piaciuto e l'avevo scartato". Roveri era un fotoreporter di strada, che nel 1983 venne assunto dalla Mondadori e negli anni Settanta lavorava anche per "Prima Comunicazione", la rivista specializzata sul mondo dei media: "Quando nel 1977 il direttore mi disse che dovevo fare un servizio su Berlusconi, replicai: "E chi è?". Lui rispose: "Sta per comprare il "Giornale" e aprire una tv. Vedrai che se ne parlerà a lungo"". Quella che Roveri realizza è forse la prima serie di ritratti ufficiali, a cui il giovane costruttore volle affidare la sua immagine di vincente. L'incontro avvenne negli uffici Edilnord: "Fu di una cordialità unica, ordinò di non disturbarlo e si mise in posa. Con mio stupore, rifiutò persino una telefonata del sindaco Tognoli". Il solo a cui permise di interromperlo fu Marcello Dell'Utri, immortalato in un altro scatto inedito che evidenzia il look comune: colletti inamidati e bianchi, gemelli ai polsini, pettinature simili. Sono una coppia in sintonia, insieme hanno creato una città dal nulla, con un intreccio di fondi che alimentano sospetti e inchieste. Una coppia che solo pochi mesi dopo si dividerà, perché Dell'Utri seguirà un magnate molto meno fortunato: Filippo Alberto Rapisarda, in familiarità con Vito Ciancimino. Tornerà indietro nel 1982, organizzando prima il colosso degli spot, Publitalia, e poi quello della politica, Forza Italia. La loro storia era cominciata nel 1974, trasformandosi da rapporto professionale in amicizia. Dell'Utri è anche l'amministratore di Villa San Martino, la residenza di Arcore. E dopo pochi mesi vi accoglie uno stalliere conosciuto a Palermo che fa ancora discutere: Vittorio Mangano, poi arrestato come assassino di Cosa nostra. Una presenza inquietante, che per la Procura di Palermo suggella le intese economiche con la mafia in cambio di tutela contro i sequestri. Nel 1977 però Mangano è già tornato in Sicilia. E Berlusconi tanto sereno non doveva sentirsi, come testimonia il revolver nella fondina. Ricorda il fotografo Roveri: "Dopo più di due ore di scatti mi invitò a pranzo ma prima di uscire tirò fuori da un cassetto due pistole, una per sé e una per l'autista. Di fronte alla mia sorpresa, si giustificò: "Ha idea di quanti industriali vengono rapiti?". Poi siamo saliti su una Mercedes che lui definì "blindatissima" per raggiungere un ristorante a soli 200 metri da lì". Sì, quelli in Lombardia erano anni cupi, prima che, grazie anche a Canale 5, alla nebbia di paura si sostituisse il mito luccicante della Milano da bere. Dall'archivio di Roveri ricompare il momento della svolta, quando si cominciano a materializzare i pilastri dell'impero del Biscione tra partiti, media e relazioni molto particolari. È la festa del 1978 che trasforma il Cavaliere in Sua Emittenza, con l'esordio di Telemilano nelle trasmissioni via etere. La politica ha il volto di Carlo Tognoli, sindaco socialista che per un decennio guida la metropoli mentre passa dagli scontri di piazza al jet set danzante della moda. Un personaggio defilato rispetto alla statura del grande sponsor di Berlusconi, quel Bettino Craxi che ne ha sorretto la crescita con decreti su misura, ricevendo in cambio spot e finanziamenti. Li univa la stessa cultura del fare che dà scarso peso alle regole, la stessa visione di una politica sempre più spettacolo, fino a plasmare la società italiana di oggi. In questa metamorfosi tutta televisiva la carta stampata ha avuto un ruolo secondario. All'epoca però l'attenzione era ancora concentrata sul "Corriere della Sera", la voce della borghesia lombarda. In questi scatti il direttore Franco Di Bella ammira soddisfatto il giovane Silvio. Rapporti letti in un'ottica molto più ambigua dopo la scoperta della P2: negli elenchi di Licio Gelli c'erano Di Bella, il direttore generale della Rizzoli Bruno Tassan Din e l'editore Angelo Rizzoli. E c'era pure il nome di Berlusconi, data di affiliazione gennaio 1978, anche se lui ha sempre negato l'iscrizione alla loggia delle trame. Sin da allora le smentite a qualunque costo sono un vizio del Cavaliere a cui gli italiani si sono abituati. Come i divorzi, che segnano la sua carriera professionale, quella politica e la vita privata. Nelle foto del party al fianco di Silvio c'è Mike Bongiorno, il testimonial della sua ascesa mediatica. Resteranno insieme tra alti e bassi fino al 2009: un altro legame chiuso con una rottura burrascosa. E c'è anche Carla Dall'Oglio che si offre ai flash sorridente, afferrando per il braccio un marito dall'aria distaccata. Lei ha 37 anni e da dodici è la signora Berlusconi: poco dopo, nel 1980, quella scena di ostentata felicità sarà spazzata via dal colpo di fulmine per Veronica Lario. Il divorzio è arrivato nel 1985, consolidato da una manciata di miliardi e da una decina di immobili: da allora Carla Dall'Oglio è scomparsa dalla ribalta, dove però sono sempre più protagonisti i suoi figli Marina e Piersilvio, i nuovi Berlusconi.

Contro Berlusconi la sinistra contrappone i suoi miti.

San Berlinguer martire e apostolo. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. Serve a nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. San Berlinguer, il Terzo Santo. Dopo i film, i libri, gli inserti, ora un largo Berlinguer al centro di Roma e la canonizzazione proclamata da Napolitano in un libro-intervista, Quando c'era Berlinguer, curato da Veltroni. È in atto la costruzione di un Mito, l'invenzione di un Grande. A cosa serve? A nobilitare il comunismo passato. A deprecare il presente renziano. A rianimare un partito spaesato. A cercare nel vintage un titolo di nobiltà. A rifarsi le labbra col silicone moralista. A lanciare qualcuno per il Quirinale. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti e, quanto a svolte, fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Berlinguer era modesto, per lunghi anni allineato anche ai più sordidi eventi, mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà, tramite la copiosa apologetica su di lui, si vuol celebrare il popolo di sinistra. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi. L'industria del santino che abbina il leader del Pci a Papa Francesco (Scalfari dixit) è all'opera. Rischiamo un pantheon di fuffa, tra finti eroi e finti geni, finti grand'uomini e palloni gonfiati, sfornati dalla Ditta Tarocco che produce falsi d'autore. Il P.C. oggi si traduce con Politically Correct. Finite le sciagurate illusioni, la sinistra passò all'illusionismo.

Perché Berlinguer sì e Togliatti no!

Lo stalinista Togliatti che non disse mai: "Compagni, ci siamo sbagliati". Il segretario del Pci appoggiò l’eliminazione politica e fisica di molti comunisti dissidenti. Non per paura di Mosca ma per "coerenza" ideologica, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Molti anni fa, in un libro diventato famoso (Togliatti 1937, Rizzoli 1964) Renato Mieli si chiedeva perché anche i comunisti italiani - dopo le rivelazioni di Kruscev sui crimini di Stalin - non sentissero la necessità di «stabilire la verità sulla fine di quei dirigenti comunisti europei che scomparvero nell'Unione Sovietica durante quel periodo». Commentava Mieli: «Il silenzio dei comunisti europei su questo doloroso passato è veramente sconcertante». Ma, scomparso Togliatti, l'ultimo dei grandi superstiti del Comintern e anche l'unico che avrebbe potuto parlare e rifiutò di farlo, la verità resta sepolta sotto la pesante coltre delle complicità e dell'omertà. «Il tempo - scriveva allora Mieli - cancellerà le tracce e gli uomini dimenticheranno ciò che è stato. È questo che si vuole? Un delitto perfetto insomma». Palmiro Togliatti era, nel 1937, col bulgaro Dimitrov, il finlandese Kuusinen e il sovietico Manuilski, uno dei membri della segreteria del Comintern. Furono loro ad avallare lo sterminio di tutti i dirigenti del partito comunista polacco (con l'eccezione di Gomulka) a opera della polizia staliniana con una sentenza di condanna politica. Quali fossero le ragioni che potevano aver indotto Stalin a liberarsi del partito comunista polacco appare evidente dal particolare momento in cui si svolsero quegli avvenimenti. Mosca stava per accordarsi con Hitler attraverso il Patto del 1939 che avrebbe portato alla spartizione della Polonia e allo scoppio della guerra. Il Pc polacco rappresentava un ostacolo a tale spartizione e perciò Stalin lo eliminò per spianarsi la strada all'eliminazione della stessa Polonia come Stato indipendente. A spiegare l'atteggiamento dei dirigenti del Comintern c'è invece una sola ragione, e cioè, come scrive Mieli, «la loro fedeltà al comunismo e quindi la loro totale sottomissione al tiranno e la conseguente loro impotenza ad opporsi». Ma avrebbero potuto Togliatti e i suoi compagni opporsi a Stalin? Lo stesso Mieli riconosce che «c'era poco da scegliere in quelle condizioni: o si collaborava con il regime o si finiva in galera. Togliatti, come tanti altri, è riuscito a sopravvivere appunto perché non ha scelto la galera». Il clima di terrore instaurato da Stalin in Urss e all'interno del movimento comunista internazionale non è sufficiente, però, a giustificare la remissività e persino la complicità di cui si resero responsabili gli uomini come il segretario del Pci. Alle radici più profonde dei loro comportamenti c'era una ragione sostanziale: che essi erano intimamente stalinisti e che in quel momento essere comunisti e militare nella Terza internazionale equivaleva a essere dalla parte di Stalin e condividerne i metodi. Togliatti non solo approvò ed esaltò, a titolo personale e a nome del suo stesso partito, gli eccidi di Zinoviev e di Kamenev, di Bukharin e di Rykov, del maresciallo Tukacevski e degli altri ufficiali dell'Armata rossa, ma adottò del sanguinario dittatore al servizio del quale si era messo e aveva messo il suo partito anche e soprattutto l'ideologia. Mieli ce ne fornisce intelligentemente un esempio, riferendo dell'atteggiamento tenuto dal segretario del Pci sulla questione polacca anche dopo le rivelazioni di Kruscev al XX congresso del Pcus. Togliatti, da quel momento, non sostenne più, come in precedenza, che la lotta di frazione all'interno del Pc polacco fosse una prova sufficiente a dimostrare che il partito era stato infiltrato dalla polizia di Pilsudski. Ma non smise, solo per questo, di affermare che all'epoca in cui si erano svolti i fatti ciò poteva essere ritenuto verosimile, cioè che il frazionismo bastava da solo a rendere responsabili i dirigenti di quel partito delle colpe di cui li si accusava ingiustamente. «Questo - concludeva Mieli - è esattamente il pensiero di Stalin che fu all'origine del periodo del terrore». In altre parole il segretario del Pci, pur riconoscendo di essere stato indotto in errore dalla falsa teoria staliniana sull'inasprimento della lotta di classe e dalle prove fornite dalla polizia sovietica, non ammise mai di essere stato egli stesso uno degli artefici della condanna politica del Pc polacco che giustificò l'annientamento fisico dei suoi dirigenti. E soprattutto non riconobbe mai di non aver neppure cercato di appurare se le accuse a loro carico fossero false, in base all'assunzione che le motivazioni di Stalin erano «in sé» sufficienti a giustificare il comportamento di un buon comunista in quella circostanza. «Che questa scelta fosse coerente con l'ideologia originaria - scriveva Mieli - è ovvio. Ma come si coniuga al presente, tenendo conto della pretesa del Pci di essere considerato come democratico? Come può un partito sedicente democratico riconoscersi in un passato che è una negazione brutale della democrazia?» Scriveva Mieli che, per i comunisti, «non si tratta di processare questo o quel dirigente di altri tempi, bensì di condannare il sistema che essi tentarono di instaurare, in ossequio a una ideologia totalitaria, che non sembra del tutto scomparsa nelle loro file». In altre parole, il Pci avrebbe dovuto riprendere il grido disperato a suo tempo inascoltato di una delle vittime italiane del terrore staliniano, Emilio Guarnaschelli: «Compagni, ci siamo sbagliati». Ma poteva un'organizzazione di massa, un grande partito come il partito comunista proclamare formalmente il fallimento degli ideali per i quali è nato e si è battuto nel corso di tutta la sua esistenza? Personalmente ne dubito. Del resto, è proprio questa la ragione per la quale le generose sollecitazioni di Mieli al Pci affinché facesse luce sul proprio passato sono cadute nel vuoto: perché ciò che per lui era un imperativo morale, per il Pci era un impedimento politico. I comunisti italiani sono sempre stati inchiodati alla loro storia come a una croce, perché è la parola stessa «comunismo» che la storia ha condannato senza appello. Il fatto poi che molti di loro, presi individualmente, lo sapessero non significa che tale consapevolezza dovesse tradursi in comportamenti politici concreti a livello di coscienza collettiva, cioè di partito. È a quest'ultimo che ieri furono immolate tante vittime innocenti e oggi è sacrificata la ricerca della verità sulla loro tragica sorte. Come membro autorevole del Comintern, Togliatti ne divenne uno dei massimi dirigenti, contribuendo all'eliminazione, politica ma anche fisica, di molti comunisti la cui sola colpa era di non condividere, nei confronti dei propri Paesi, i brutali metodi di Stalin. Ciò non di meno fu, in questo caso, ortodossamente machiavelliano, un grande realista sia escludendo, con la «svolta di Salerno» e l'adesione alla democrazia parlamentare e monarchica ormai nell'orbita degli Usa - che sarebbero intervenuti militarmente in caso di pericolo rivoluzionario - sia in occasione dell'attentato subito, quando raccomandò ai compagni di «non perdere la testa» e di non abbandonarsi a tentativi rivoluzionari, un'avventura impraticabile che avrebbe portato il Partito comunista, del quale era segretario pur non essendo mai stato eletto da un Congresso, alla rovina.

Peccato però che davanti ai soldi, così come al pelo, tutti si arrendono alle tentazioni.

Ci sono giornalisti che forse Tangentopoli la rimpiangono, del resto segnò la loro giovinezza, la travolgente eccitazione di un periodo rivoluzionario, fatto di personaggi straordinari, copie alle stelle, carriere in decollo: vien da pensarlo, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Facciamo due esempi: 1) Il pm di Reggio Calabria voleva contestare a Scajola e agli altri arrestati anche l’aggravante mafiosa, ma il gip l’ha negata perché mancavano prove e anche solo indizi. L’ha confermato lo stesso pm su Libero di sabato, dunque era noto. Bene, ecco l’apertura di prima pagina del Corriere di domenica: «Scajola indagato per mafia»; testo di prima pagina: «La stessa ipotesi di reato sarà contestata a tutte le persone sospettate di aver favorito la latitanza di Amedeo Matacena». Un falso. Una notizia manipolata, nella migliore delle ipotesi. 2) Secondo esempio. Questa è l’apertura di prima pagina del Messaggero di domenica: «Appalto Expo, c’è la ’ndrangheta»; sottotitolo: «I pm di Milano: legami tra gli arrestati e le cosche"; testo di prima pagina: «La cupola di Frigerio, Greganti e Grillo avrebbe avuto legami anche con la ’ndrangheta». Ah sì? E allora perché l’aggravante non è stata neppure contestata? Risposta: perché non importa, l’aggravante mafiosa ormai è come una spezia per insaporire inchieste e resoconti. E poi scrivere, una tantum: uh, torna tangentopoli, magari.

Montanelli stronca Travaglio. In materia di giustizia Montanelli smentisce il capofila dei giornalisti forcaioli anche dall'oltretomba, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Il tintinnio di manette riaccende gli entusiasmi di Marco Travaglio, capofila dei giornalisti forcaioli tanto cari alle procure. Si è autonominato erede unico del pensiero di Indro Montanelli, del quale millanta (sapendo di non poter essere smentito) l'amicizia e la stima. Sarà, ma il vecchio Indro, che non ha mai amato presunti portavoce, lo smentisce anche dall'oltretomba. E che smentita. È contenuta in un articolo scritto su Il Giornale il 13 luglio dell'81. Il giorno prima Spadolini aveva ottenuto la fiducia del suo primo governo ma il Pci annunciava sfaceli perché il neopremier aveva posto con forza la questione della riforma di una giustizia già malata allora. Ecco come commentava l'accaduto Montanelli: «Riduciamo i termini all'osso. Ci sono state, per eccesso di garantismo istruttorie svogliatamente durate anni e concluse con assoluzioni poco meno che scandalose; mentre ci sono le manette per reati che non le comportano obbligatoriamente, seguiti da procedimenti penali che, anche quando si concludono col proscioglimento da ogni accusa, segnano la rovina materiale e morale di chi ne è stato bersaglio». E ancora: «Non è possibile andare avanti con queste invasioni di campo della magistratura che sono arrivate a tal punto da rendere plausibile il sospetto che certi magistrati le pratichino non per ristabilire l'ordine ma per sovvertirlo, scatenando caccia alle streghe e colpendo all'impazzata». Aggiungeva Montanelli: «Questi magistrati sono inamovibili, impunibili, promossi automaticamente, pagati meglio di qualsiasi altro dipendente pubblico, incensati dai giornali di sinistra (cioè dalla maggioranza) e molto spesso malati di protagonismo». E ancora: «I comunisti non possono rinunciare alla magistratura com'è. Essa costituisce la più potente arma di scardinamento e di sfascio di cui il Pci dispone». E chiudeva: «Questa non è la magistratura, è solo il cancro della magistratura. Ma che è già arrivato allo stadio di metastasi». Trent'anni dopo siamo ancora lì. I giornali di sinistra (più Travaglio) a fare da addetti stampa a magistrati eversivi ed esibizionisti, noi de Il Giornale a puntare il dito sul «cancro della magistratura» che sta distruggendo il Paese. E siamo fermi anche nel puntare il dito contro ladri e mascalzoni. Ma contro tutti i mascalzoni (anche se di sinistra, anche se magistrati) e soprattutto se davvero ladri oltre ogni ragionevole dubbio.

Quando gli attacchi al governo italiano vengono da fuori.

Caso Geithner, ira Berlusconi: “Fu un complotto contro di me”. La ricostruzione dell’ex segretario Usa del Tesoro anticipata da La Stampa: “Funzionari dell’Ue chiesero a Obama di far cadere Silvio”. Brunetta: s’indaghi. Bruxelles: erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela. Kerry: io non so nulla, scrive “La Stampa”. La ricostruzione di Timothy Geithner in merito alla caduta di Silvio Berlusconi irrompe nella campagna elettorale. Il leader di Forza Italia è furioso: «Questa è la mia rivincita. La conferma che nel 2011 c’è stato un Colpo di Stato», dice. Mentre i suoi parlamentari chiedono un’inchiesta per fare luce sull’accaduto. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato “Stress Test”.  La ricostruzione di Geithner, anticipata da La Stampa, fa discutere. Berlusconi si butta in un nuovo tour mediatico (intervista al Corriere.it, al Tg5, e poi al quotidiano il Foglio). È incontenibile: sono stato vittima di un «complotto» e con me «è stata messa in discussione anche la sovranità dell’Italia». Berlusconi non fa trasparire in pubblico tutta la rabbia che ha dentro per quanto trapelato dagli Stati Uniti. Anzi, si affretta a ribadire più e più volte di «non essere per nulla sorpreso » da quanto detto dall’ex ministro dell’economia americano: «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico». In privato però la reazione è bene diversa. L’ex premier con i suoi si dice consapevole che questa storia non sposterà un voto, ma chiede comunque ai vertice azzurro di alzare il polverone. Da Forza Italia parte il fuoco di fila con la richiesta di una commissione d’inchiesta parlamentare sui fatti del 2011 ed un chiarimento da parte del governo: «Renzi venga a riferire in Parlamento», dice Renato Brunetta pronto a chiamare in causa anche Giorgio Napolitano: «Gli ho scritto una lettera - fa sapere - proprio per sapere cosa intenda fare». Già perché è proprio il Capo dello Stato che l’ex capo del governo ha sempre chiamato in causa bollandolo come «regista» dell’operazione che portò alle sue dimissioni. Dal Quirinale non trapela nessuna replica, così come dalla Casa Bianca: no comment, è il massimo che fanno sapere dallo staff del presidente americano. Sulle barricate è invece Bruxelles che non ci sta a passare come parte in causa di un complotto: «Erano gli americani a volere l’Italia sotto tutela», è la replica delle fonti europee alle rivelazioni di Geithner. A parlare ufficialmente è il presidente della Commissione Barroso sostenendo che ai tempi del G20 del 2011 «l’Italia era vicinissima all’abisso e alcuni tentarono di metterla sotto la supervisione del Fmi, mente noi siamo stati quasi soli a dire che questo non doveva succedere». Anche la linea del governo italiano è quella di non intervenire sulla questione: «Abbiamo voltato pagina, non è utile tornare su questi eventi», si limita a dire il ministro degli Esteri Federica Mogherini. A palazzo Grazioli però la pensano diversamente, tanto che il Cavaliere coglie ogni occasione per ricordare come sono andati i fatti: «I magistrati che mi hanno perseguitato una vita senza prove li chiamerebbero “riscontri” del colpo di Stato». L’idea però che la vicenda possa avere dei riscontri positivi sui sondaggi non sembra convincere Berlusconi, pronto però a «sfruttare» in termini di voti a Forza Italia la «delusione degli elettori verso Matteo Renzi». L’ex capo del governo non nasconde lo scetticismo per il governo guidato dal leader del Pd tanto, raccontano da Forza Italia, da averne parlato nei giorni scorsi con il Colle. Il leader di Fi è sempre più convinto che le elezioni politiche si avvicinano perché il presidente del Consiglio è sempre più impantanato, anche sul fronte del rilancio dell’economia: Le persone iniziano ad essere stanche degli annunci - è stato il ragionamento fatto a via del Plebiscito - e le riforme non sono certo un tema che Matteo può giocarsi per coprire l’aumento delle tasse. Dagli Usa, invece, il segretario di Stato Usa John Kerry dice (in italiano): «Io non so niente». «Assolutamente è la prima volta che ne sento parlare», ha aggiunto Kerry che aveva accanto a se il ministro degli Esteri Federica Mogherini al termine dell’incontro al dipartimento di Stato a a Washington. Rispondendo alla domanda se avesse letto il libro ha detto: «No , non l’ho letto».  

L’ex ministro Usa: funzionari europei ci proposero di far cadere Silvio. Geithner: ovviamente dissi a Obama che non potevamo starci, scrive Paolo Mastrolilli su “La Stampa”. Nell’autunno del 2011, quando la drammatica crisi economica aveva portato l’euro ad un passo dal baratro, alcuni funzionari europei avvicinarono il ministro del Tesoro americano Geithner, proponendo un piano per far cadere il premier italiano Berlusconi. Lui lo rifiutò, come scrive nel suo libro di memorie appena pubblicato, e puntò invece sull’asse col presidente della Bce Draghi per salvare l’Unione e l’economia globale. «Ad un certo punto, in quell’autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i presti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato». Geithner, allora segretario al Tesoro Usa, rivela il complotto nel suo saggio «Stress Test», uscito ieri. Una testimonianza diretta dei mesi in cui l’euro rischiò di saltare, ma fu salvato dall’impegno del presidente della Bce Mario Draghi a fare «tutto il necessario», dopo diverse conversazioni riservate con lo stesso Geithner. I ricordi più drammatici cominciano con l’estate del 2010, quando «i mercati stavano scappando dall’Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo». L’ex segretario scrive che aveva consigliato ai colleghi europei di essere prudenti: «Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario». Ma all’epoca Germania e Francia «rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008», e non accettavano i consigli americani di mobilitare più risorse per prevenire il crollo europeo. Nell’estate del 2011 la situazione era peggiorata, però «la cancelliera Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso», anche perché «non le piaceva come i ricettori dell’assistenza europea - Spagna, Italia e Grecia - stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse». A settembre Geithner fu invitato all’Ecofin in Polonia, e suggerì l’adozione di un piano come il Talf americano, cioè un muro di protezione finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale, per impedire insieme il default dei paesi e delle banche. Fu quasi insultato. Gli americani, però, ricevevano spesso richieste per «fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinché fossero più responsabili». Così arrivò anche la proposta del piano per far cadere Berlusconi: «Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente, ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello. “Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, io dissi». A novembre si tenne il G20 a Cannes, dove secondo il Financial Times l’Fmi aveva proposto all’Italia un piano di salvataggio da 80 miliardi, che però fu rifiutato. «Non facemmo progressi sul firewall europeo o le riforme della periferia, ma ebbi colloqui promettenti con Draghi sull’uso di una forza schiacciante». Poco dopo cadde il premier greco Papandreu, Berlusconi fu sostituito da Monti, «un economista che proiettava competenza tecnocratica», e la Spagna elesse Rajoy. A dicembre Draghi annunciò un massiccio programma di finanziamento per le banche, e gli europei iniziarono a dichiarare che la crisi era finita: «Io non la pensavo così». Infatti nel giugno del 2012 il continente era di nuovo in fiamme, perché i suoi leader non erano riusciti a convincere i mercati. «Io avevo una lunga storia di un buon rapporto con Draghi, e continuavo ad incoraggiarlo ad usare il potere della Bce per alleggerire i rischi. “Temo che l’Europa e il mondo guarderanno ancora a te per un’altra dose di forza bancaria intelligente e creativa”, gli scrissi a giugno. Draghi sapeva che doveva fare di più, ma aveva bisogno del supporto dei tedeschi, e i rappresentanti della Bundesbank lo combattevano. Quel luglio, io e lui avemmo molte conversazioni. Gli dissi che non esisteva un piano capace di funzionare, che potesse ricevere il supporto della Bundesbank. Doveva decidere se era disponibile a consentire il collasso del’Europa. “Li devi mollare”, gli dissi». Così, il 26 luglio, arrivò l’impegno di Draghi a fare «whatever it takes» per salvare l’euro. «Lui non aveva pianificato di dirlo», non aveva un piano pronto e non aveva consultato la Merkel. A settembre, però, Angela appoggiò il «Draghi Put», cioè il programma per sostenere i bond europei, che evitò il collasso. 

Usa, l'ex ministro del Tesoro: "Nel 2011 complotto contro il Cav". Le rivelazioni choc di Geithner, ex ministro del Tesoro Usa, nel saggio Stress test: "Alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per costringere Berlusconi a cedere il potere". Ma a Obama disse: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani", scrive Andrea Indini su “Il Giornale”. Al G20 del 2011 funzionari europei chiesero agli Stati Uniti di aderire a un "complotto" per far cadere l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Nel memoir Stress test, anticipato oggi dalla Stampa e dal Daily Beast, Timothy Geithner, ex ministro del Tesoro americano, aggiunge nuovi, inquietanti tasselli al golpe ordito contro il Cavaliere per cacciarlo da Palazzo Chigi e mettere al suo posto Mario Monti, un tecnico scelto ad hoc per far passare le misure lacrime e sangue imposte da Bruxelles e dalla cancelliera tedesca Angela Merkel. "Ma a Obama dissi: 'Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani'", racconta ancora Geithner nel volume che ripercorre la disastrosa situazione finanziaria che spinse quei funzionari a progettare il "complotto". Le prime indiscrezioni su un golpe ai danni di Berlusconi sono state appena sussurrate. E, inevitabilmente, i media progressisti hanno fatto a gara per distruggerle. Oggi, invece, Geithner spazza via qualunque dubbio sul drammatico piano che il 12 novembre del 2011, con lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi artificiosamente pompato sopra i 470 punti, Berlusconi si dimise dopo l'approvazione della legge della stabilità alla Camera. Ebbene, dietro a quelle dimissioni c'è un vero e proprio piano ordito a Bruxelles per far cadere un governo eletto democraticamente e piazzarne uno tecnico e asservito ai diktat dell'Unione europea. "Ad un certo punto, in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere - svela oggi Geithner - volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti dell’Fmi all’Italia, fino a quando non se ne fosse andato". Dal 26 gennaio 2009 al 28 febbraio 2013 Timothy Geithner ricopre, infatti, l'incarico di segretario al Tesoro degli Stati Uniti durante il primo governo presieduto da Barack Obama. L'obiettivo degli innominati "funzionari europei" è quello di accerchiare Berlusconi, anche attraverso i ricatti del Fondo monetario internazionale, pur di farlo uscire di scena. Il golpe non viene organizzato su due piedi, ma iniziò a essere tessuto nell'estate del 2010, quando "i mercati stavano scappando dall'Italia e la Spagna, settima e nona economia più grande al mondo". Nel saggio Stress test Geithner scrive di aver consigliato più volte ai colleghi europei di essere prudenti: "Se volevano tenere gli stivali sul collo della Grecia, dovevano anche assicurare i mercati che non avrebbero permesso il default dei paesi e dell’intero sistema bancario". Ma all’epoca Germania e Francia "rimproveravano ancora al nostro West selvaggio la crisi del 2008" e rifiutavano i consigli del Tesoro statunitense che chiedeva di mobilitare più risorse per prevenire il crollo economico del Vecchio Continente. Nell’estate del 2011 la situazione precipita. "La cancelliera Angela Merkel insisteva sul fatto che il libretto degli assegni della Germania era chiuso - racconta l'ex segretario del Tesoro - non le piaceva come i paesi che ricevevano assistenza europea (Spagna, Italia e Grecia) stavano facendo marcia indietro sulle riforme promesse". Quando a settembre Geithner arriva in Polonia per partecipare all'Ecofin, propone ai Paesi dell'Eurozona di adottare un piano simile al Term asset-backed securities loan facility (Talf), il muro di protezione creato dalla Federal reserve e finanziato dal governo e soprattutto dalla banca centrale per impedire insieme il default dei Paesi e delle banche. Viene quasi insultato. "Gli americani, però - continua Geithner - ricevevano spesso richieste per fare pressioni sulla Merkel affinchè fosse meno tirchia, o sugli italiani e spagnoli affinchè fossero più responsabili". È proprio in questo quadro inquietante di supponenza tedesca e incompetenza europea che arrivano le prime pressioni per cambiare il governo italiano. A G20 di Cannes lo stesso governatore della Bce, Mario Draghi, gli promette "l'uso di una forza schiacciante". "Parlammo al presidente Obama di questo invito sorprendente - racconta Geithner - ma per quanto sarebbe stato utile avere una leadership migliore in Europa, non potevamo coinvolgerci in un complotto come quello". Nonostante il niet degli Stati Uniti, i "funzionari europei" riescono nell'intento: nel giro di poche settimane si dimette il premier greco George Papandreou, Berlusconi viene sostituito con Monti ("un economista che proiettava competenza tecnocratica") e in Spagna viene eletto Mariano Rajoy. A dicembre la Bce approva il piano per finanziare per le banche. Piano che viene accolto con euforia da Bruxelles che si fionda a dichiarare che l'Europa è uscita dal tunnel della crisi. "Io non la pensavo così", sottolinea l'ex segretario del Tesoro. E, infatti, nel giugno del 2012 la minaccia del default tornerà a mettere in ginocchio i mercati del Vecchio Continente.

Gli Stati Uniti: "Funzionari Ue ci chiesero di far cadere Silvio Berlusconi", scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Monti. Non solo Napolitano. Non solo Prodi. Anche a Barack Obama fu chiesto da alcuni funzionari europei di prendere al complotto per far cadere Silvio Berlusconi. A fare pressioni sul presidente Usa furono alcuni funzionari europei, che proposero ad Obama un piano per far crollare l'esecutivo, nell'infuocato 2011. Gli Stati Uniti, però, si sottrassero al complotto: "Non possiamo avere il suo sangue sulle nostre mani". La fonte di tali rivelazioni? Niente meno che l'ex ministro del Tesoro, Timothy Geithner, che spiega quanto accaduto in un libro di memorie uscito lunedì, Stress Test, e anticipata dalla stampa. Dopo il il libro-rivelazione di Alan Friedman, Ammazziamo il gattopardo, che svelava le indebite e (troppo) preventive pressioni di Giorgio Napolitano su Mario Monti, ecco un nuovo pamphlet destinato a fare molto rumore politico. Geithner, uno degli uomini più potenti degli States, scrive: "Ad un certo punto in quell'autunno, alcuni funzionari europei ci contattarono con una trama per cercare di costringere il premier italiano Berlusconi a cedere il potere; volevano che noi rifiutassimo di sostenere i prestiti del Fmi all'Italia, fino a quando non se ne fosse andato". L'ennesima prova al fatto che l'Europa berlinocentrica voleva far fuori lo Stivale e il suo presidente del Consiglio. Geithener si riferisce ai mesi più difficili per l'Italia, alle prese con le bizze dello spread, nell'autunno 2011. In particolare le richieste agli Stati Uniti furono avanzate già a settembre 2011, prima che lo spread raggiungesse i massimi, quando in Polonia all'Ecofin ricevette richieste per "fare pressioni sulla Merkel affinché fosse meno tirchia, o sugli italiani e gli spagnoli affinché fossero più responsabili". Contestualmente, come detto, arriva anche la proposta di far cadere Berlusconi. Ma Geighner precisa che, per quanto gli Usa avrebbero preferito un altro leader, gli Stati Uniti preferirono evitare il complotto.

Angela Merkel pianse con Barack Obama: "Obbedisco alla Bundesbank", scrive Martino Cervo su “Libero Quotidiano”. Sul Financial Times è apparso uno degli articoli di giornale più appassionanti degli ultimi anni. L’intero testo si trova all’indirizzo goo.gl/p11UOo (necessaria una registrazione gratuita). È un lunghissimo retroscena sulla notte dell’euro, a firma Peter Spiegel, che della testata è corrispondente da Bruxelles. Un romanzo breve (5 mila parole), primo di una serie che il quotidiano dedica alla ricostruzione delle giornate che cambiarono per sempre l’Europa. L’interesse per il lettore italiano è doppio: il nostro Paese è, nel novembre 2011, lo spartiacque per la sopravvivenza dell’euro, e manca una ricostruzione non strumentale di cosa accadde in ore che costarono la caduta di due governi (Papandreou e Berlusconi), sotto il rischio concreto di una catastrofe finanziaria. Il racconto si apre con una scena difficile da immaginare: Angela Merkel è in una stanza di hotel con Obama, Barroso, Sarkozy, e piange. «Non è giusto», stritola tra i denti con le lacrime agli occhi, «Io non mi posso suicidare». Perché la signora d’Europa è ridotta così? Libero riassume l’articolo di Spiegel per i suoi lettori. Siamo, come detto, a inizio novembre 2011. L’estate si è conclusa avvolta dalle fiamme dello spread. La Grecia è sul filo della permanenza nell’euro. L’Italia è la prossima preda di chi scommette sull’implosione della moneta unica, lo spread vola a quota 500, il governo traballa sulle pencolanti stampelle dei «responsabili», Merkel e Sarko hanno appena sghignazzato in mondovisione alla domanda sull’affidabilità di Berlusconi. Il G20 di Cannes del 3-4 novembre diventa un appuntamento carico di tensione. Il premier greco Papandreou ha annunciato un referendum sull’uscita dall’euro. L’eventualità manda letteralmente nel panico soprattutto i paesi creditori. A 48 ore dall’inizio del vertice Sarkozy raduna tutti i protagonisti del redde rationem: il premier greco, la Merkel, il capo dell’eurogruppo Juncker (oggi candidato del Ppe alla guida della Commissione Ue), il capo del Fondo monetario Christine Lagarde, i capi dell’Unione José Barroso e Herman van Rompuy. Il dramma greco è affiancato a quello italiano. Roma, rispetto ad Atene, è «too big to bail». La Lagarde è durissima: «L’Italia non ha credibilità». Quel che si fa con la Grecia avrà una ricaduta immediata, ed esponenziale, sul nostro Paese. Con Papandreou c’è Venizelos, ministro delle Finanze. Sarkozy mette spalle al muro il premier ateniese, per evitare il referendum e costringerlo a prendere una decisione lì, sul posto: dentro o fuori. Qui si apre un retroscena nel retroscena: il Ft racconta che Barroso poche ora prima, all’insaputa di Merkel e Sarko (padrone di casa del G20), incontra il capo dell’opposizione greca Samaras, offrendogli sostegno istituzionale a un governo di unità nazionale a patto di abbattere il referendum. Poi inizia il vertice «vero». Senza che i premier sappiano dell’accordo Barroso-Samaras, il capo della Commissione Ue fa il nome di Lucas Papademos, vicepresidente della Bce, come possibile guida di un esecutivo di larghe intese ad Atene. «Dobbiamo ammazzare questo referendum», dice Barroso. Venizelos soppianta il suo premier e cancella il referendum con una dichiarazione ufficiale. Papademos diventerà premier sette giorni più tardi. La Grecia è «sistemata». A questo punto bisogna sollevare una barriera contro l’assedio dei mercati all’euro. La trincea si chiama Italia. Molti delegati sono sconcertati dalla presenza al tavolo di Obama, che in teoria non ha titoli per sedersi a una riunione informale sull’eurozona. Segno di debolezza delle istituzioni comunitarie? Della gravità globale di un possibile tracollo che rischia di far saltare un mercato decisivo per i prodotti Usa? Il nodo cruciale è il ruolo del Fondo monetario. Come più volte raccontato da Giulio Tremonti, l’Italia declina l’offerta di una linea di credito da 80 miliardi di dollari, accettando solo il monitoraggio del Fmi. «I think Silvio is right», dice Obama, buttando sul tavolo una carta nuova, che assegna a Berlino una posizione cruciale. Per aggirare i veti dei trattati che impediscono alla Bce di finanziare direttamente gli Stati, il presidente Usa - in accordo coi francesi, alla faccia del tanto sbandierato asse Merkozy raccontato in quei giorni - propone l’utilizzo del «bazooka» con un’ennesima sigla: SDR. Che sta per «special drawing rights» (diritti speciali di prelievo), un particolare tipo di valuta che il Fmi stesso usa come unità di conto della partecipazione finanziaria dei singoli Stati. Una strategia simile (usare la potenza di fuoco degli SDR contro la crisi) era stata usato nel post-Lehman. Qui si tratterebbe di riversare quelle risorse nel fondo salvaStati europeo in via di formazione. Quel che segue è il miglior esempio possibile per raffigurare il nodo della democrazia ai tempi della crisi, e investe in pieno il tema della famosa «indipendenza» delle Banche centrali. La gestione degli SDR è infatti in capo a queste ultime. E il capo della Bundesbank è Jens Weidmann, custode dell’ortodossia dell’austerity tedesca. Appena si diffonde il piano Obama-Sarko, il «falco» apre le ali e dice «nein» al telefono con i delegati tedeschi: la Germania non paga. La Merkel scoppia in pianto e pronuncia il suo: «Non è giusto, non posso suicidarmi. Non posso decidere io al posto della Bundesbank». Il dramma dell’euro è qui: quattro tra i più potenti governi democraticamente eletti del mondo si fermano davanti al veto (legittimo) di un banchiere. Obama vuole che la Germania alzi la quota degli SDR. La Merkel apre, purché l’Italia accetti di farsi commissariare dal Fondo. Tremonti e Berlusconi non mollano, Angela neppure, a causa di Weidmann. La tensione è totale. La riunione si scioglie con un nulla di fatto, salvo la richiesta al governo di Berlino di provare a smussare la Buba . «Non mi prendo un rischio simile se non ottengo in cambio nulla dall’Italia». Alla conferenza stampa dopo il G8 Berlusconi rivela l’offerta del Fmi e il «no» italiano. Pochi giorni dopo, il governo cade. Al supervertice non è successo nulla. Toccherà a Draghi tenere in piedi l’euro, e (anche) a noi pagare per il fondo salvastati.

Gli attacchi vengono anche dal'interno. L'accordo tra Fini e Napolitano per "eliminare" Berlusconi, scrive “Libero Quotidiano”. "Il golpe contro Silvio Berlusconi non è cominciato nell’estate del 2011 come scrive Friedman. Ma molto prima, nel 2009. E a muovere i fili furono il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e quello della Camera Gianfranco Fini". A tirare in ballo altri protagonisti del complotto anti Cav è Amedeo Labboccetta. In una intervista al Tempo, l'allora braccio destro di Fini, racconta le ambizioni dell'ex presidente della Camera che ha giocato di sponda con il Quirinale per fare le scarpe al leader azzurro con l'obiettivo di prendere il suo posto a Palazzo Chigi. "Fini me lo disse in più circostanze. 'Ma tu credi che io porterei avanti un’operazione del genere se non avessi un accordo forte con Napolitano?!", rivela Labboccetta a Carlantonio Solimene che racconta anche di come nacqua il feeling tra Fini e il Colle: "Quando nel 2008 Berlusconi diventa premier e il leader di An va alla presidenza della Camera, i rapporti con Napolitano diventano strettissimi. Si sentono al telefono praticamente ogni giorno". E lui, dice, di essere testimone di quelle chiamate essendo in quel periodo in una posizione privilegiata. All'inizio, prosegue l'ex deputato del Pdl, Fini giustificò il suo controcanto al Cavaliere come normali reazioni agli attacchi de Il Giornale. Lui e Dell'Utri tentarono più volte di fargli cambiare idea. Berlusconi, secondo il racconto di Labboccetta, arrivò perfino ad offrirgli la segreteria del partito. Ma niente, Fini, non smetteva e alzava la posta chiedendo la testa dei ministri La Russa e Matteoli e del capogruppo al Senato Gasparri. "Mi disse che non avrebbe mai lasciato la terza carica dello Stato perché da lì poteva tenere per le palle Berlusconi', continua Laboccetta secondo il quale l'obiettivo di Fini era di "eliminare politicamente Berlusconi". "Quando lo costrinsi a spiegarmi con quali numeri e appoggi voleva farlo", rivela, "mi confessò che Napolitano era della partita. Usò proprio queste parole. Aggiunse che presto si sarebbero create le condizioni per un ribaltone e che aveva notizie certe che la magistratura avrebbe massacrato il Cavaliere. "Varie procure sono al lavoro", mi svelò, "Berlusconi è finito, te ne devi fare una ragione". E aggiunse che come premio per il killeraggio del premier sarebbe nato un governo di "salvezza nazionale" da lui presieduto con la benedizione del Colle. Quando parlava di Silvio, Gianfranco era accecato dall’odio, sembrava un invasato. Una volta mi disse: "Non avrò pace fino a quando non vedrò ruzzolare la testa di Berlusconi ai miei piedi"». Labboccetta non raccontò mai a Berlusconi quello che Fini stava ordendo alle sue spalle, ma si giustifica sostenendo che si diede da fare perché quel piano saltasse: "Cercai di fargli capire che Fini era solo l’esecutore, ma i disegnatori erano altri. Magari con una regia extranazionale". "Me lo fece capire lo stesso Gianfranco, parlando tra le righe. Non va dimenticato che in passato era stato ministro degli Esteri, ed era stato bravo a tessere le giuste relazioni". Alla domanda di Solimente: "Ma perché dice queste cose solo oggi?" Labboccetta risponde: "All’epoca ho fatto di tutto per favorire una ricomposizione. In seguito, ho ritenuto che era meglio lasciare queste cose alle miserie umane. Ma adesso che la verità sta venendo a galla, è giusto che si sappia tutto di quegli anni".

Sallusti: "Dietro al complotto per far fuori Berlusconi c'è Clio Napolitano", scrive “Libero Quotidiano”. “Dietro al golpe del 2011 c'è Clio Napolitano". Alessandro Sallusti ai microfoni de La Zanzara su Radio 24 aggiunge nuove elementi alle rivelazioni di Alan Friedman che parlano di una strategia chiara da parte del Colle per destabilizzare il governo Berlusconi nel 2011 e sostituire il Cav a palazzo Chigi con Mario Monti. Il direttore de Il Giornale punta il dito contro la moglie del Capo dello Stato e afferma: "Mi dicono che la moglie di Napolitano, la comunista Clio, odia Silvio, e ha molto peso sulle scelte del Quirinale. Dietro al complotto politico finanziario che ha fatto cadere Berlusconi, c'è Clio Napolitano". Insomma secondo Sallusti la mano occulta che guidò la caduta di Berlusconi nel 2011 appartiene a Clio Napolitano. Il direttore de Il Giornale però non risparmia critiche nemmeno agli ex alleati del Cav: "Sia Fini che Alfano sono stati cooptati da Napolitano per uccidere Berlusconi". Sallusti parla anche dello spread: "Fu creato ad arte ed il complotto contro Berlusconi ci fu". Infine l'annuncio poi confermato nel suo editoriale di oggi su il Giornale: "Se siamo in un Paese libero, mettiamo in stato d'accusa Napolitano".

Berlusconi: «Complotto contro di me? Obama si comportò bene». «Non mi sorprende che l’uomo del presidente Usa abbia confermato le manovre nei miei confronti… Ma lui si comportò bene durante tutto il G20 e mi diede ragione», scrive Alan Friedman su “Il Corriere della Sera”. Seduto nel giardino di Villa San Martino a Arcore, Silvio Berlusconi è più che soddisfatto. Le anticipazioni del libro di memorie di Timothy Geithner (Stress Test) confermano quello che il Cavaliere dice di sapere da tempo, e cioè, che la Casa Bianca bocciò una richiesta da parte di alcuni europei di far cadere il suo governo nell’autunno del 2011. «Non sono sorpreso. Ho sempre dichiarato che nel 2011 nei confronti del mio governo, ma anche nei confronti del mio Paese, c’è stato tutto un movimento che era partito dal nostro interno ma poi si è esteso anche all’esterno per tentare di sostituire il mio governo, eletto dai cittadini, con un altro governo», dice Berlusconi. «Già nel giugno del 2011, quando ancora non era scoppiato l’imbroglio degli spread, il Presidente della Repubblica Napolitano riceveva Monti e Passera, come è stato scritto, per scegliere i tecnici di un nuovo governo tecnico e addirittura per stilare il documento programmatico. E poi abbiamo saputo anche che ci sono state quattro successive tappe di scrittura, con l’ultima addirittura di 196 pagine». Berlusconi è in grande forma e viene fuori un ricordo preciso. «Io avevo la contezza che stesse accadendo qualcosa e avevo anche ad un certo punto ritenuto che ci fosse una precisa regia. Al G-20 di Cannes, addirittura, amici e colleghi di altri paesi mi dissero: "Ma hai deciso di dare le dimissioni? Perché sappiamo che tra una settimana ci sarà il governo Monti…". E l’ha rivelato per esempio Zapatero in un suo libro che riguardava quel periodo». Non è sorpreso che queste nuove rivelazioni vengano da un uomo di Obama. «Io devo dire che Obama si comportò bene durante tutto il G20. Noi fummo chiamati dalla Merkel e Sarkozy a due riunioni in due giorni consecutivi e in queste riunioni si tentò di farmi accettare un intervento dal Fondo Monetario Internazionale. Io garantii che i nostri conti erano in ordine e non avevamo nessun bisogno di aiuti dall’esterno e rifiutai di accedere a questa offerta, che avrebbe significato colonizzare l’Italia come è stata colonizzata la Grecia, con la Troika».

Eppure son tutti uguali.

Expo, appalti e tangenti: la sinistra spunta ovunque. Nelle carte ci sono dozzine di nomi dell'area Pd tirati in ballo dagli arrestati. Da Bersani fino al sottosegretario Delrio e al portavoce del partito Guerini, scrive Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. Lo dicevano spesso, quelli della cupola. «Copriamoci a sinistra». Nel Paese degli appalti truccati servono santi bipartisan. Di qua e di là. Ma di là - a sinistra - ce n'erano davvero parecchi. Realtà o millanterie, sta di fatto che nelle carte dell'inchiesta milanese su Expo e non solo ci sono dozzine di nomi dell'area Pd. Non è un caso, secondo una teoria dell'ex senatore Luigi Grillo. «L'ho visto anche ieri Pier Luigi (Bersani, che ha già smentito, ndr), io tengo sempre i rapporti - dice a Giuseppe Nucci, ex ad della Sogin - lo informo degli sviluppi. Sai, loro, i post-comunisti non sono diversi dai comunisti, cioè il dialogo lo accettano, sono anche garbati e sono simpatici. Poi quando c'è da stringere per questioni di potere preferiscono sempre il cerchio stretto». Ecco, gli affari sono affari. E per ogni torta sul grande tavolo degli appalti pubblici, sostengono i pm, una fetta doveva andare a sinistra. Attraverso le cooperative, che si aggiudicano i lavori. Attraverso Primo Greganti, che avrebbe fatto da tramite tra il partito, le coop e i manager di Stato, e che ieri è stato sospeso in via cautelare dalla sezione del Pd di Torino a cui era iscritto («Ma qui non l'abbiamo mai visto», racconta il segretario della sezione). E attraverso i mille canali - più o meno reali - che ciascuno degli interessati sostiene di poter smuovere per passare all'incasso. Greganti, per rendersi credibile, si «vende» anche il nome di Gianni Pittella, vicepresidente del Parlamento europeo ed ex candidato alle primarie del Pd, il quale ha smentito un suo interessamento su Expo. «Io sono andato giù a Roma - dice Greganti il 6 marzo - ho incontrato anche Gianni Pittella... è il presidente del Consiglio europeo (Greganti si sbaglia, ndr)... grande... potere enorme... al posto di parlamentare europeo... nel Pd è considerato potente ecco...». Poi qualcuno bussa anche al ministero. Così, proprio Nucci racconta di aver incontrato Claudio De Vincenti, viceministro allo Sviluppo economico nel Governo Renzi. «Mi ha detto - racconta Nucci a Grillo - “io sono a disposizione per tutte le cose che voi c'avete da fare”, e dico “io voglio lavorare per il mio Paese”, lui ha detto “Ne parlerò col Gabinetto, col ministro, questa cosa mi piace molto”». Ma a lambire il governo Renzi c'è anche un riferimento - assai fumoso - a Graziano Delrio, sottosegretario alla presidenza del Consiglio. A parlare è l'ex Dc Gianstefano Frigerio. «Però Guerini è un buon... adesso non so se lo porta al governo ... forse lo lascia ... al partito i suoi giri ... uno è Delrio e l'altro Guerini». Decisamente più significativi altri passaggi che riguardano proprio Lorenzo Guerini, portavoce del Pd. Ancora Frigerio al telefono, parla con Sergio Cattozzo della Città della salute e degli appalti Sogin. «Devo parlarne a Guerini... a Lorenzo, devo parlarne... ». «Bisogno organizzare un incontro - suggerisce Cattozzo - io te e Guerini, così lo tiriamo dentro il Guerini. Stiamo parlando di sette miliardi di lavoro, ragazzi!». Tanti, tantissimi soldi. E gli appalti Sogin portano la cupola a cercare più sponde possibili. È in questo contesto che spuntano i nomi di Giovanni Battista Raggi, tesoriere del Pd in Liguria, e di Claudio Burlando, già ministro dei Trasporti e ora governatore ligure. Greganti avrebbe dovuto avvicinare Raggi e attraverso questi Burlando, per ottenere - si legge in un sms di Cattozzo del settembre scorso - «un po' di sponsorizzazione forte nazionale». Ma la cupola, secondo la Procura di Milano, era «glocal». Oltre alle coperture nazionali, infatti, cercava appoggi sul territorio. Ovunque c'era una gara milionaria, c'era da muoversi. Ed è così che si arriva in Sicilia, dove la cricca sta seguendo i lavori per l'ospedale di Siracusa. Frigerio, al telefono con Cattozzo, ragiona. «Sei amico di Enrico Maltauro (uno degli imprenditori arrestati, ndr) tieni conto che stiamo seguendo per lui un ospedale a Siracusa che dobbiamo parlare con Crocetta (Rosario Crocetta, governatore siciliano, ndr) per l'autorizzazione compagnia bella ma tu sei d'accordo... mah aspetta adesso ne parlo al mio consulente poi vediamo venerdì quando viene da me glielo dirà a Enrico, mi ha chiamato Foti (Luigi Foti ex parlamentare della Dc ora ritenuto vicino al Pd, ndr) vuole la mia copertura sulla Sicilia per l'ospedale di Siracusa». Ma alla fine, erano ganci reali o solo chiacchiere? Altro che balle, a sentire Stefano Boeri. Per l'ex assessore comunale Pd di Milano, era tutto vero. «Sono stato fatto fuori dalla partita Expo dalle lobby economiche, compresa la Lega delle Cooperative. Io costituivo un ostacolo», ha spiegato in un'intervista. A Boeri ha replicato l'assessore milanese Pierfrancesco Majorino. «Di Boeri si può pensare tutto e il suo contrario, ma il nesso è totalmente inventato». Al netto delle faide interne al partito, il dubbio resta.

Quelle larghe intese Cl-Coop per spartirsi affari e poltrone. Nelle carte della Procura le prove dell'asse tra cooperative rosse e aziende cielline. L'indagato Frigerio: "Anche Lupi è amico loro", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Altro che Peppone e don Camillo. Oggi i vecchi nemici fanno affari insieme. Nascosta nelle carte dell'indagine sugli appalti dell'Expo 2015 c'è una traccia che costringe a rivedere antiche certezze. E a prendere atto che quando oggi si parla dei colossi delle coop, lanciati alla conquista di fette sempre più grosse degli appalti pubblici, si parla di qualcosa di assai diverso dalle vecchie cooperative emiliane, tutte business e ideologia, che fanno parte della storia del Novecento italiano. Il grosso delle aziende aderenti alla Lega nazionale cooperative e mutue continua, ovviamente, a stare nell'orbita del Pd. Ma dentro la Legacoop cresce un nuovo partito di tutt'altra estrazione: uomini e aziende che vengono dalla storia di Comunione e liberazione, e dal suo braccio nell'imprenditoria, la Compagnia delle opere. Ex comunisti e ciellini convivono e collaborano. E si ritrovano, nelle carte dell'indagine, a godere di protezioni bipartisan. A spiegarlo chiaramente, tranquillizzando un interlocutore è Gianstefano Frigerio, l'ex parlamentare della Dc e di Forza Italia, arrestato mercoledì. Scrive la Guardia di finanza: «Frigerio dice che quelli che gli presenterà della Manutencoop (alti dirigenti) non sono di sinistra ma sono dei loro». Non è chiaro a chi si riferisca Frigerio. Ma il vecchio democristiano torna sul tema in un'altra conversazione: «Ieri ho parlato con Pellissero e gli ho raccomandato, guarda che la cosa migliore è Manutencoop e anche qualche sua azienda... “sì sì lo so anche se hanno fatto un po' di alleanze eccessive con i ciellini”». Un asse che può apparire singolare, quello tra i due mondi: ma che si basa su due pilastri comuni, la vocazione sociale e il pragmatismo imprenditoriale. Di fatto, Cdo e Legacoop si ritrovano da tempo alleate in un'opera di lobbismo comune e trasversale per ottenere leggi che tutelino l'imprenditoria sociale. Questo ha generato contiguità e alleanze. E anche intrecci di poltrone: il caso più noto è quello di Massimo Ferlini, ex assessore comunista a Milano, che oggi è uno dei principali esponenti della Compagnia delle opere ma siede anche nel consiglio di amministrazione di Manutencoop. Così, in nome di un comune sentire, si saldano intese un tempo impensabili. Ancora Frigerio: «Anche Maurizio Lupi (ministro delle Infrastrutture, ciellino doc) è amico di quelli di Manutencoop». Scrive la Finanza: «Frigerio sostiene di conoscere bene i legami che ci sono tra Manutencoop e i ciellini tanto che negli ultimi anni, con Formigoni, sempre a dire dell'indagato Manutencoop avrebbe già ottenuto importanti lavori». E d'altronde in Lombardia non è un mistero che dopo la caduta di Formigoni le aziende della Cdo, rimaste orfane di protezione politica, si stiano ulteriormente avvicinando alle coop rosse. «Parlando con Levorato lui è un vecchio comunista, io un vecchio democristiano, quindi sappiamo come si parla tra noi», dice Frigerio di Claudio Levorato, il manager di Manutencoop per cui la Procura aveva chiesto l'arresto: e in questa frase c'è dentro un bel ritratto di storie simili cresciute su sponde diverse. D'altronde, dice sempre Frigerio, «ti manderò il capo delle coop (...) copriamoci perché sono le coop rosse e corrono meno incidenti. Prendeteveli perché sono rossi» . E fin qui potrebbe sembrare un semplice calcolo di opportunità o un preaccordo di spartizione. Ma quello che raccontano le carte è qualcosa di più, una sorta si compenetrazione tra mondi solo apparentemente distanti. C'è una matrice forse cattocomunista: basta guardare il profilo Linkedin di Fernando Turri, altro manager coop che compare nell'inchiesta, a capo della Viridia: studi dai salesiani, ma alle spalle il Quarto Stato di Pellizza. E c'è soprattutto una consapevolezza che i tempi sono duri, la spending review ha tagliato gli appalti, e così se si vuole sopravvivere bisogna abbattere vecchi steccati. Frigerio: «Manutencoop, aldilà di quello che pensa Rognoni, è “così” con Cl».

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

Politica e criminalità organizzata. L’arresto di Scajola e lo scoperchiamento del potere italiano, scrive Gad Lerner. Tra Scilla e Cariddi, fra le due rive dello Stretto: da una parte Amadeo Matacena (finito per caso a destra in Forza Italia) e dall’altra Francantonio Genovese (finito per caso a sinistra nel Pd). In comune il business dei traghetti con la società Caronte, ma non solo. Sono capoclan locali che con la loro dote di preferenze ottengono facilmente candidature al parlamento nazionale, usano i partiti come strumenti intercambiabili, entrano in relazione con i vertici dello Stato, ne ottengono protezioni e complicità. E’ in questo meccanismo che rimane impigliato oggi Claudio Scajola, a suo tempo ministro degli Interni e massimo dirigente organizzativo di Forza Italia. Un politico di razza, vecchio navigatore democristiano, a sua volta radicato su un territorio come il Ponente Ligure dove la ‘ndrangheta calabrese ha messo radici da parecchio tempo. Non è un caso che la magistratura abbia intercettato le manovre di Scajola per favorire la latitanza di Matacena nel corso di altre indagini sui rapporti fra il tesoriere della Lega Nord, Francesco Belsito, e alcune famiglie della malavita calabrese. Stiamo assistendo allo scoperchiamento di una parte rilevante del potere italiano, costituito dall’intreccio fra politica in cerca di consenso e interessi malavitosi bisognosi di protezione e riciclaggio. Sotto l’ombrello del berlusconismo (ma non solo, e non solo a destra) episodi come quello che ha portato all’arresto di Scajola sono numerosi. Guarda caso anche Matacena voleva scappare in Libano, come Dell’Utri. E Berlusconi che subito dichiara “non ne sapevo niente, povero Claudio”, non vi ricorda il proverbio secondo cui la prima gallina che canta ha fatto l’uovo?

In realtà sono rimasti identici solo i metodi dei magistrati e dei giornalisti, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Forse non vi siete accorti che nell'inchiesta Expo i politici e i partiti praticamente non ci sono: sono sullo sfondo assieme a fisiologici referenti (tanti) che vengono consultati da un gruppetto di affaristi che intascava mazzette e pilotava appalti. È come se dei mazzettari professionisti avessero lasciato l'azienda e si fossero messi in proprio, col dettaglio che frattanto le aziende abbandonate sono fallite tutte: come i vecchi partiti, come quella politica che manca non perché sia virtuosa, ma perché non conta più nulla. Primo Greganti, ventun anni fa, disse che rubava per sé e non per il partito, e non era vero: ora invece lo è, perché la «cupola» non alimentava il finanziamento illegale della politica, alimentava le proprie tasche; e i politici ne escono perlopiù gabbati, usati per promuovere carriere. Lo scandalo è sufficientemente grave da essere analizzato nel suo specifico, non servono riflessi tipo «Come prima, più di prima» (Corriere) o «Ora e sempre tangentopoli» (Repubblica) con ridicole interviste al vecchio pool di Milano. Servirebbe chiedersi se le manette fossero tutte necessarie (quisquilie da garantisti) ma soprattutto chiedersi che accidenti c'entrino certe intercettazioni, quelle in cui vengono sputtanate persone che non c'entrano niente su questioni che non c'entrano niente. Ma pare che, tra gli appalti pilotati, ci sia anche quello della libera stampa a Beppe Grillo.

Manette a gogò. Magistrati scatenati alla vigilia del voto. Arrestati in 20 tra cui Greganti e Scajola Sospetti di corruzione per l'Expo. L'ex ministro accusato di aver aiutato un latitante, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. Tecnicamente parlando si tratta di una manovra diversiva. Come arginare la verità fangosa che sta emergendo sulle porcate commesse dai magistrati, prima fra tutte quella sulle illegalità della Procura di Milano nell'inchiesta Ruby? Semplice, una bella retata all'alba. Anzi due, perché - come diceva Totò - meglio abbondare. Così in poche ore finiscono dentro in tanti, nomi eccellenti ovviamente, altrimenti addio titoloni. Da ieri mattina sono in carcere, tra gli altri, a Roma l'ex ministro degli Interni Claudio Scajola (accusato di intrattenere rapporti con la famiglia dell'ex deputato, oggi latitante, Matacena), a Milano, per tangenti, due ex politici (Stefano Frigerio e Primo Greganti, già coinvolti in Tangentopoli) e uno dei capi di Expo 2015. Pareva strano che il partito dei giudici si astenesse dal partecipare a questa campagna elettorale. E, infatti, eccoli, più decisi che mai: un colpo al Pd (Greganti), uno a Forza Italia (Scajola), insomma una secchiata di merda sui due partiti che stanno cercando di riformare il Paese. Grillo ringrazia e guadagna ancora qualche punto. Lui ai magistrati non fa paura, anzi, è lo strumento ideale per fermare l'asse Renzi-Berlusconi che ha già annunciato la riduzione degli stipendi d'oro dei magistrati e la riforma della giustizia. Le procure mandano a Renzi un segnale chiaro, in stile onorevole Antonio Razzi versione Crozza: «Amico, attento, te lo dico un'ultima volta: fatti li cazzi tuoi». Può essere, lo vedremo, che tra gli arrestati ci siano ladri e malfattori. Però mi fa strano il tempismo e il clamore, perché la verità sarà accertata solo a urne chiuse. E viste le tante inchieste spettacolo finite nel nulla, la cosa preoccupa perché falsa le regole del gioco democratico. Dicono che Bruti Liberati, capo della Procura di Milano, abbia le ore contate e sia al centro di una guerra tra le fazioni di pm che si contendono potere e successione a suon di accuse e controaccuse. Ieri un suo vice, Robledo, si è rifiutato di firmare gli ordini di arresto e non ha partecipato alla conferenza stampa. C'è il terribile sospetto che la resa di conti finale tra magistrati stia avvenendo sulla pelle di veri, presunti o falsi delinquenti. In un Paese normale, una procura così messa, delegittimata, divisa e incarognita, sarebbe già stata commissariata. Questi sono un pericolo vero, più pericolosi del più pericoloso tangentista.

La settimana terribile dell'Italia. Prima settimana di maggio 2014. Bacchiddu, Scajola, Expo, Nuova Tangentopoli, Genny 'a carogna. Il paese sprofonda inesorabilmente, senza la forza di cambiare davvero. Anche per colpa nostra, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Una settimana da dimenticare sta finendo, specchio di una vecchia Italia. Un’Italia che non cambia. Che va in retromarcia. Che guarda indietro. Non è più questione di ricambio generazionale (quello finalmente un po’ c’è, anche se a ben vedere l’arroganza di certi giovani non è inferiore a quella di certi anziani). Il problema è nazionale. Siamo noi italiani, forse, che abbiamo qualche problema con la storia e con noi stessi. Non riusciamo a esser seri, a concentrarci sulle cose da fare, a renderci conto della gravità dell’emergenza che stiamo attraversando, a prendere coscienza del declino che ci sta portando verso il baratro, del grado di inciviltà che viviamo nelle nostre città. C’è qualche tarlo che ci corrode, qualche virus che non vuol saperne di abbandonare la presa. Come si spiega altrimenti l’escalation di notizie da paura degli ultimi giorni? Siamo alla terzultima settimana prima del voto del 25 maggio che servirà a  ridisegnare il Parlamento europeo, tornata importante anche per la politica nazionale. Forse, ci si poteva aspettare che prendessero il sopravvento temi concreti e veri. Non so: l’economia, l’istruzione, l’Europa. Invece ci siamo dibattuti e abbiamo dibattuto sul “caso Bacchiddu”, sulle spacconate di Genny ‘a Carogna, su Greganti 2 la vendetta, la corruzione dietro l’Expo 2015 e le lotte fratricide tra i magistrati di Milano, per finire coi fischi di Grillo all’Inno di Mameli. Tutte robe che non ci cambiano la vita, che ci distraggono dai veri problemi, che peggiorano terribilmente l’immagine dell’Italia e di noi italiani in Europa. Che scoraggiano irrimediabilmente le persone per bene ed esasperano chi già non ne può più. La Lista Tsipras riesce a far parlare di sé solo perché il meccanismo dei media e della politica si tuffa sulla foto accattivante di una bella ragazza e una brava giornalista, Paola Bacchiddu, che in un clic di (auto)ironia posta su facebook una propria istantanea balneare con la motivazione scherzosa di voler usare ogni mezzo, ora che il giorno cruciale del voto si avvicina, e quindi invita a barrare la lista “L’Altra Europa con Tsipras”. Apriti cielo. Si scatena la polemica su “chiappetta rossa”, la gogna del web, l’assalto del branco (a sinistra, a destra), il groviglio di considerazioni femministe e/o machiste… 

Ed a proposito di questo..."Siamo tutti puttane". Un titolo spiazzante quello che Annalisa Chirico, giornalista e compagna di Chicco Testa, politico di sinistra e dirigente industriale italiano, ha deciso di dare al suo ultimo libro, scrive “Libero Quotidiano”. Ma già se si legge il sotto titolo ci si potrebbe fare un idea del concetto che sta alla base della lettura: "Contro la dittatura del politicamente corretto". Un libro che ha come bersaglio i perbenisti di sinistra e le femministe alla "Se non ora quando". La Chirico rivendica il sacrosanto diritto di farsi strada nella vita come ognuno può e vuole, e quindi, anche diventando una puttana. Un femminismo pro sesso, pro porno e pro prostituzione, sia per le donne sia per i maschi. Un dibattito a suo avviso che "ha diviso il Paese tra un popolo di sinistra moralmente irreprensibile e uno di destra, gaglioffo e sciocco". In un'intervista a Formiche.net del 7 maggio, la stessa giornalista alla domanda "È Berlusconi ad averla ispirata?", non risponde esplicitamente, ma il riferimento è chiaro. "Ho seguito da cronista il processo Ruby - afferma Chirico - dove nel tribunale di Milano, non di Riad o della Kabul talebana, trentatré ragazze sono state vivisezionate nella loro vita privata in qualità di semplici testimoni, senza alcun capo di imputazione a loro carico. Quando una democrazia smette di distinguere tra peccato e reato, si getta al macero l'abc della civiltà giuridica". Dunque nulla di male. Le famose "Olgettine", da Via Olgettina, le ragazze indagate dalla Procura di Milano per il caso Ruby, non hanno, a suo parere, la colpa di aver "conosciuto Silvio Berlusconi, il tycoon d'Italia, il capo di un impero mediatico, il presidente del Consiglio italiano". Un'occasione ghiotta di farsi notare e farsi apprezzare, per entrare nel mondo dell'apparire, della tv e dell'estetica da vendere. "E' stato un pornoprocesso, un rito a elevato tasso moraleggiante, oltre che erotico". Poi dal porno si passa all'erotico e a quelle foto di Paola Bacchiddu, il capo comunicazione della lista L’Altra Europa con Tsipras, che qualche giorno fa ha pubblicato una foto in bikini suscitando clamore. "Mi è sembrata la trovata goliardica di una ragazza intraprendente. In Italia ne sono nate le solite polemiche perché va di moda l’idea boldriniana che il corpo vada nascosto in un sudario di pietra. Per cui i concorsi di bellezza che si fanno in tutto il mondo da noi andrebbero proibiti. La donna invece è un soggetto che decide come usare il proprio corpo, sono le pseudofemministe a rappresentarla come un oggetto". Poi attacca Barbara Spinelli, candida la paladina delle donne e della guerra contro la mercificazione del loro corpo per Tsipras. "E' un esemplare del livello di oscurantismo che caratterizza il femminismo nel nostro Paese. Sono le donne che strumentalizzano le altre donne. La campagna talebanfemminista Se non ora quando aveva l’unico obiettivo politico di colpire l’allora presidente Berlusconi, ci ha fatto credere che il suo indomito fallo fosse il principale assillo delle donne italiane". Infine la frecciatina a Renzi incalzata dalla giornalista di Formiche.net che gli chiede se la convince "il femminismo alla Renzi": "Non esiste un femminismo alla Renzi - ha risposto la Chirico - ma una strategia comunicativa renziana. il premier ha capito che la sinistra del presunto primato morale era perdente. Perciò si è abilmente smarcato dalla linea dei suoi predecessori. E li ha rottamati".

Tornando alla riflessione di Ventura...Poi, sabato, lo spettacolo immondo e barbarico di una sparatoria in piena Roma, con tifosi che si confrontano in un delirio di violenza finché dentro lo stadio un energumeno tatuato con maglietta che chiede la liberazione dell’omicida di un poliziotto alza il pollice fischiando di fatto l’inizio di una tristemente memorabile finale di Coppa Italia tra Napoli e Fiorentina, sotto gli occhi e le bocche aperte, mute, delle più alte cariche di uno Stato ridicolizzato e impotente. Genny ‘a Carogna, imparentato con camorristi, detta legge. Le famigliole tremano. Renzi neanche s’accorge del tenore di quella maglietta insultante. E per finire, ecco l’ordalia giudiziaria come da copione: la raffica di arresti per presunte tangenti relative all’Expo 2015 di Milano accende i riflettori su un passato per nulla esaurito. Con l’aggiunta piccante di uno scontro interno alla magistratura per irregolarità additate dal procuratore aggiunto Robledo nell’assegnazione delle inchieste a chi non ne avrebbe avuto titolo. Come non bastasse, finisce in manette un ex ministro dell’Interno, Claudio Scajola. E Grillo si tuffa sugli arresti con la goduria del capobranco che assapora un punto in più il 25 maggio, perché la rovina dell’Italia significa la sua apoteosi. Un Grillo che si mette fra gli ultrà dello stadio dicendo che anche lui avrebbe fischiato l’Inno d’Italia e che mette in campo tutta la sua finezza di analisi affibbiando le solite trito-comiche etichette agli avversari, dal “pregiudicato Berlusconi” (dimentico d’esser lui stesso condannato in via definitiva per omicidio colposo, senza neppure esser vittima di chissà quale persecuzione giudiziaria) a “Renzi ‘a Menzogna” che evoca “Genny ‘a Carogna”. Questo, dopo avere ravvivato malamente la campagna elettorale con parabole che hanno per protagonisti gli ebrei della Shoah e i lager (riferimenti privi di qualsiasi pietà umana). Mamma mia, che Italia è questa. Che paura. Che futuro ci aspetta.

Dell'Utri. Sette anni di reclusione. Condanna confermata, scrive “Il Corriere della Sera”. Il verdetto della Cassazione per l’ex senatore Marcello Dell’Utri era atteso in serata del 9 maggio 2014. I giudici della Prima sezione penale si sono ritirati in Camera di consiglio per decidere se confermare o no il verdetto d’appello: 7 anni di reclusione, per concorso esterno in associazione mafiosa. Il Sostituto Procuratore Generale di Palermo Luigi Patronaggio ha già emesso un ordine di carcerazione per Dell’Utri. Il provvedimento verrà trasmesso al ministero della Giustizia che lo allegherà alla richiesta di estradizione alle autorità libanesi. Il caso giudiziario di Marcello dell’Utri dura da 20 anni. Era infatti il 1994 quando la Procura di Palermo avviò le indagini per mafia sull’ex senatore, che fu rinviato a giudizio nell’ottobre del 1996. Il primo processo, aperto il 5 novembre del 1997 davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Leonardo Guarnotta, era durato sette anni e si era concluso l’11 dicembre del 2004 con la condanna dell’imputato a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa, più due anni di libertà vigilata, l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e il risarcimento per le parti civili, il Comune e la Provincia di Palermo. «Vi è la prova», aveva scritto il collegio nella motivazione, «che Dell’Utri aveva promesso alla mafia precisi vantaggi in campo politico e, di contro, vi è la prova che la mafia, in esecuzione di quella promessa, si era vieppiù orientata a votare per Forza Italia nella prima competizione elettorale utile e, ancora dopo, si era impegnata a sostenere elettoralmente l’imputato in occasione della sua candidatura al Parlamento europeo nelle file dello stesso partito, mentre aveva grossi problemi da risolvere con la giustizia perché era in corso il dibattimento di questo processo penale». Quel verdetto era stato parzialmente corretto in secondo grado, in un processo assai più rapido del primo, iniziato il 16 aprile del 2010 e conclusosi il 29 giugno dello stesso anno quando la Corte di Appello, presieduta da Claudio Dall’Acqua, aveva ridotto a sette anni la pena per Dell’Utri, a fronte di una richiesta di 11 anni formulata dal procuratore generale Antonio Gatto. I giudici avevano ritenuto provati i rapporti tra Dell’Utri e la mafia fino al 1992 mentre lo avevano assolto «perché il fatto non sussiste» per i fatti successivi. Aveva però retto l’impianto accusatorio, ribadito anche oggi dal Pg della Cassazione, secondo cui Dell’Utri avrebbe fatto da mediatore tra Cosa nostra e Silvio Berlusconi, e lo avrebbe tra l’altro convinto ad assumere come stalliere ad Arcore il boss Vittorio Magano, morto di cancro in carcere.

E poi.....Scajola: io non so se ci rendiamo conto. Rischio di essere ripetitivo ma il rischio vale la candela, scrive Giulio Cavalli su “L’Espresso”. Ogni volta che scriviamo, discutiamo e parliamo di criminalità organizzata, di programmi di protezione, di “utilizzo” di testimoni di giustizia e collaboratori di giustizia o di un’appropriata legislazione antimafia non possiamo non tenere conto che Claudio Scajola (ma anche con ruoli comunque apicali  Cosentino, Dell’Utri, la lista è lunga e folta) sia stato non un politico qualsiasi ma un Ministro dell’Interno di questa Repubblica. Quindi sarebbe veramente ora che si trovi una narrazione che funzioni, un vocabolario leggibile per raccontare le mafia fuori da Corleone, Platì o Scampia e  che arriva sempre ai punti più alti dello Stato. Perché Scajola (quello che aiuta un latitante a trasferirsi in Libano) e i suoi sodali sono gli stessi che decidono se e come vanno presi in considerazione e protetti coloro che denunciano e quindi mi pare normale che chiunque provi ad “raccontare” il terzo livello (come lo chiamava Giovanni Falcone) non possa sentirsi sicuro in questo Paese. E dovremmo trovare il coraggio di insegnarlo nelle scuole, farne memoria tutti i santi giorni in tutti i santi posti che frequentiamo bucando questa coltre di presunto “allarmismo” che ci rovesciano addosso ogni volta che si alza il tiro contro la politica. Penso, oggi, a chi si ritrova in pericolo per avere denunciato il malaffare e legge l’arresto di un ex responsabile della propria incolumità. Non lo so, mi viene da pensare questa cosa qui, oggi, prima di tutte le valutazioni politiche. Questa ferita qui che sta più profonda di tutti gli editoriali di stamattina.

8 maggio 2014. Arrestato l'ex ministro Scajola. Avrebbe favorito la latitanza dell'ex parlamentare Amedeo Matacena, condannato a 5 anni per concorso esterno in associazione mafiosa, scrive Raffaello Binelli su “Il Giornale”. L’ex ministro Claudio Scajola è stato arrestato dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria. Tra le otto persone finite in manette figurano anche alcune persone legate al noto imprenditore reggino ed ex parlamentare Amedeo Matacena, colpito da provvedimento restrittivo insieme alla moglie Chiara Rizzo e alla madre Raffaella De Carolis. A seguito della condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (giugno 2013) Matacena si è reso latitante. Perquisizioni effettuate in Piemonte, Lombardia, Liguria, Emilia Romagna, Lazio, Calabria e Sicilia, oltre a sequestri di società commerciali italiane, collegate a società estere, per un valore di circa 50 milioni di euro. L'arresto di Scajola è avvenuto in un noto albergo della Capitale. Appresa la notizia Silvio Berlusconi, ai microfoni di Radio Capital, ha manifestato il proprio dolore: "Non so per quali motivi sia stato arrestato, me ne spiaccio e ne sono addolorato". Il Cavaliere ha tenuto a precisare che non aveva avuto alcun sentore dell'inchiesta, tale da giustificare la mancata candidatura alle Europee del politico ligure nelle liste di Forza Italia. "Avevamo commissionato un sondaggio su di lui che ci diceva che avremmo perso globalmente voti se lo avessimo candidato, ma abbiamo capito che la sua candidatura ci avrebbe fatto perdere punti". In serata, intervistato dal Tg1, ha detto di non credere che la vicenda avrà ripercussioni sui risultati di Forza Italia. Perché è stato arrestato? Come ha rivelato il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho, l’ex ministro avrebbe aiutato l’ex parlamentare Matacena a sottrarsi alla cattura per l’esecuzione della pena. L’inchiesta è nata nell’ambito di una indagine su tutt’altro argomento, i presunti fondi neri della Lega Nord, in cui la figura chiave sarebbe il faccendiere Bruno Mafrici. Grazie a un’intercettazione gli inquirenti sono venuti a conoscenza di rapporti fra l’ex ministro e la moglie di Matacena, Chiara Rizzo. La donna, secondo quanto emerso, si sarebbe adoperata per ottenere l’aiuto dell’esponente politico ai fini del trasferimento del marito, in Libano. Dalle indagini sarebbe emerso il ruolo di un’altra persona che avrebbe lavorato al trasferimento di Matacena nel paese dei cedri. Si tratterebbe dello stesso personaggio che avrebbe avuto contatti con Marcello Dell’Utri ai fini di una sua fuga nel paese mediorientale. "Amedeo Matacena - ha detto il procuratore De Raho - godeva e gode tuttora di una rete di complicità ad alti livelli grazie alla quale è riuscito a sottrarsi all’arresto". Scajola, secondo l’accusa, avrebbe aiutato Matacena a sottrarsi alla cattura in virtù dei rapporti che ha con la sua famiglia. Matacena è un noto imprenditore, figlio dell’omonimo armatore, noto per avere dato inizio al traghettamento nello Stretto di Messina e morto nell’agosto 2003. La frase incriminata. Lo spostiamo in "un posto più sicuro e molto migliore, ma più vicino anche". È questa una delle frasi pronunciate da Scajola in una conversazione telefonica con Chiara Rizzo, moglie di Matacena. La telefonata risale al 12 dicembre del 2013 alle ore 12.12. Nella conversazione, sostiene il giudice per le indagini preliminari di Reggio Calabria, emerge che "alcuni soggetti si stanno attivando per spostare Matacena da Dubai verso altro Stato". Dialoghi cifrati. "Poi ti racconto un po' di cose anch’io perché Daniele è andato a fare un viaggio sulle isole e ci sta fino al 28, è andato in giro, capito?". Così Scajola avrebbe informato la moglie di Matacena sugli spostamenti del marito, latitante dopo la condanna definitiva a cinque anni e quattro mesi. Il riferimento era, secondo gli investigatori, allo spostamento programmato per il 28 agosto dello scorso anno, data in cui Matacena è stato fermato a Dubai. Questa conversazione dimostrerebbe "la piena consapevolezza dello Scajola in merito agli spostamenti del latitante". In quegli stessi giorni si parlava ancora della vacanza di Daniele. La Rizzo chiedeva all’ex ministro "ma lì?", e lui rispondeva "per dieci giorni" "Daniele il mio amico, sai chi è Daniele?". E ancora: "E' andato in vacanza con Adele per dieci giorni a fare i bagni su.... Secondo il gip "si intuisce che è in difficoltà a parlare in quanto non vuole rivelare la località". A questo punto Chiara Rizzo esclamava "aaa ho capito! E tu glielo hai detto?". Scajola quindi rispondeva: "Nooo, no! Cercavo di dirlo a te in modo che tu lo sai che se dovesse mai farti venire qualche idea me lo dici, hai capito bene?". "Dite alla mia famiglia che sto bene, che sono tranquillo, la verità emergerà". Lo ha detto SCajola ai propri difensori, Giorgio Perroni ed Elisabetta Busuito. Gli inquirenti hanno perquisito a Imperia l’ufficio dell’ex ministro in viale Matteotti e la sua villa in via Diano Calderina. Si sarebbe interessata a Matacena anche la figlia di Amintore Fanfani, Cecilia. È quanto emerge dalle intercettazioni telefoniche disposte dalla Procura di Reggio Calabria. Il nome di Cecilia Fanfani era sulla lista dei passeggeri del volo proveniente da Dubai e diretto a Nizza il primo agosto dello scorso anno. Nei suoi confronti, e anche a carico del fratello Giorgio Fanfani, è stata disposta una perquisizione. Proprio a Dubai il 28 agosto scorso è stato fermato Matacena. Il rampollo della famiglia di armatori era appena giunto negli Emirati Arabi dalle Seychelles. Lì, secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, si era recato per incontrarsi con alcuni legali del posto "i quali - si legge nell’ordinanza di custodia cautelare - interessando i competenti uffici amministrativi, lo avrebbero assistito nelle operazioni di rinnovo del visto necessario al prolungamento della sua permanenza alle Seychelles". Di questa strategia sarebbero stati informati anche Carlo Biondi, figlio del politico Alfredo Biondi, ed Elvira Tinelli. A Cecilia Fanfani viene attribuita la scelta e la possibilità di usufruire dell’appoggio di uno studio legale per risolvere "il problema". Il fratello Giorgio Fanfani avrebbe presentato a Chiara Rizzo, moglie di Matacena, un avvocato.  I figli di Fanfani  non sono indagati e vengono definiti, nel provvedimento della Dda, "soggetti di interesse investigativo risultati in contatto e in rapporti anche di affari con gli indagati", insieme ad altre sette persone pure perquisite senza essere indagate.

Il patto Scajola-Matacena così la ’ndrangheta fece crescere Forza Italia. “L’ex ministro dell’Interno favorì gli interessi dei boss”. Ecco perché i pm volevano arrestarlo anche per mafia, scrive Attilio Bolzoni su “La Repubblica”. Perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano arrestare anche per favoreggiamento mafioso Scajola Claudio, nato ad Imperia il 15/01/1948, ivi residente, ex ministro dell’Interno? «Perché dopo la sentenza di condanna per concorso esterno di Amedeo Matacena lui è diventato la proiezione politico-istituzionale- imprenditoriale del primo che consapevolmente agevolava gli interessi della ‘ndrangheta nella sua composizione unitaria». Così scrivono i pm calabresi nella loro richiesta di custodia cautelare contro Scajola, erede in qualche modo — secondo loro — del potere economico e criminale del latitante eccellente riparato negli Emirati Arabi e in fuga verso il Libano. Una coppia al servizio di consorterie e cosche, logge, circoli segreti. Prima sicuramente uno, poi probabilmente anche l’altro. La proposta dei pubblici ministeri è stata respinta dal giudice delle indagini preliminari «per mancanza di un supporto indiziario idoneo», ma nelle carte che hanno depositato ricostruiscono contro Scajola — oltre alle accuse di aver tentato di occultare il patrimonio di Matacena, di averlo soccorso nella sua dorata irreperibilità, di avere pianificato il suo spostamento da Dubai a Beirut — il “profilo” di Matacena, tutti i suoi affari e i suoi legami con l’ex ministro degli Interni e soprattutto una lontana vicenda che riporta alla nascita di Forza Italia. È nelle prime pagine del documento dei magistrati della procura firmato dal capo Federico Cafiero De Raho e dai sostituti Giuseppe Lombardo e Francesco Curcio, una mezza dozzina di fogli ripescati da un’indagine palermitana (la numero 2566/98 contro Licio Gelli + 13) finita nell’inchiesta sulla famigerata trattativa Stato-mafia e poi girata a Reggio. È il racconto di un pentito che ricorda un summit al santuario della Madonna dei Polsi — luogo sacro per la ‘ndrangheta, tutti i suoi capi ogni anno si riuniscono lì a settembre per stringere alleanze, dichiarare guerre, decidere strategie criminali — avvenuta qualche mese prima della fondazione di un nuovo partito. Siamo alla fine dell’estate del 1991, il pentito si chiama Pasquale Nucera, uno della ‘ndrina dei Iamonte di Melito Porto Salvo. Confessa Nucera: «C’è stata una riunione al santuario di Polsi nel comune di San Luca, nel corso del quale si parlò di un progetto politico...». C’erano tutti i capi più importanti della mafia calabrese. C’era Anche Amedeo Matacena, l’amico dell’ex ministro dell’Interno Claudio Scajola. C’era anche un misterioso personaggio «che parlava italiano con un accento inglese o forse americano». È stato identificato come Giovanni Di Stefano, un affarista che negli anni passati ha provato a comprarsi gli studios della Metro Goldwyn Mayer, un sedicente avvocato (è stato denunciato poi anche per esercizio abusivo della professione) che comunque è riuscito a difendere in aula gente come Saddam Hussein, il suo braccio destro Tariq Aziz, Slobodan Milosevic, il leader paramilitare serbo Zeliko Raznatovic meglio conosciuto come la “Tigre Arkan”. Questo personaggio, finito nelle pieghe delle indagini siciliane sulle stragi, era presente al santuario di Polsi e fu lui a parlare per primo di «un “partito degli uomini” che doveva sostituire la Democrazia Cristiana in quanto questo partito non garantiva più gli appoggi e le protezioni del passato». Parole testuali del pentito Pasquale Nucera, che in un secondo momento si dichiarerà anche agente del Sisde, il servizio segreto civile italiano. In due interrogatori, ricorda uno per uno tutti i presenti al summit: «Seppure defilato, c’era anche Matacena, “il pelato”, appartato con Antonino Mammoliti di Castellace. Poi c’erano anche tutti i vari esponenti dei “locali” della ‘ndrangheta calabrese». Fa l’elenco: «Pasquale e Giovanni Tegano, Santo Araniti, uno dei Mazzaferro di Taurianova e uno dei Mazzaferro di Gioiosa Ionica, che abitava vicino al cimitero, Marcello Pesce, uno dei Versace di Africo, parente di un certo Giulio Versace, Antonino Molè, due dei Piromalli, Antonino Mammoliti ed altri…». I pm riassumono in una trentina di pagine le attività oscure di Matacena e i suoi rapporti con la ‘ndrangheta. Poi scrivono: «Emerge con univoca chiarezza dalle complessive acquisizioni, invero, che di tale rete di relazioni è membro di rilievo lo stesso Claudio Scajola, unitamente alle altre persone sottoposte ad indagine, il quale diviene funzionale nel complessivo panorama criminale oggetto di ricostruzione proprio in quanto interlocutore istituzionale proiettato verso una candidatura di rilievo alle prossime elezioni europee…». E riferendosi agli uomini e alle donne — compreso l’ex ministro degli Interni — che hanno protetto l’ex deputato latitante: «Nel caso in specie si comprende, quale dato di dirompente rilevanza, che l’attività di protezione svolta a favore del Matacena, finalizzata a preservarne la piena operatività, non è più rivolta a suo esclusivo vantaggio ma diviene il passaggio necessario a proteggere lo strumento indispensabile di agevolazione delle capacità economico-imprenditoriali del complessivo sistema criminale nella sua componente riferibile alla ‘ndrangheta reggina, di cui il politico/imprenditore (Matacena, ndr) è ormai componente essenziale e non sostituibile». Hanno favorito Amedeo Matacena e favorendo lui e il suo “sistema” hanno favorito tutta la ‘ndrangheta. Anche Claudio Scajola. Ecco perché i magistrati della procura della repubblica di Reggio Calabria volevano il suo arresto con l’aggravante dell’articolo 7. Dopo la decisione negativa del giudice, il procuratore capo Cafiero De Raho ha già annunciato appello.

Arrestato l'ex ministro Claudio Scajola: ha favorito la latitanza dell'ex deputato Pdl Amedeo Matacena. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Nelle intercettazioni liti furiose con Giovanni Toti, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. Poco più di tre mesi dopo l'assoluzione per la casa romana comprata “a sua insaputa”, l'ex ministro Claudio Scajola finisce in carcere come regista della latitanza di Amedeo Matacena junior, amico e compagno di partito. Ordine di arresto anche per la seconda moglie di Matacena, l'ex modella Chiara Rizzo, e la madre Raffaella De Carolis. Dalle perquisizioni della Dda di Reggio Calabria emerge una potente associazione segreta internazionale di stampo massonico animata da figure come Amin Gemayel, capo dei falangisti libanesi e candidato alle presidenziali tenute a fine aprile. Fra i perquisiti ci sono Emo Danesi, storico piduista mai uscito di scena, due figli dello statista democristiano Amintore Fanfani, Giorgio e Cecilia, e l'imprenditore calabrese Vincenzo Speziali, 39 anni, nipote dell'omonimo senatore di Forza Italia, che, grazie al suo matrimonio con una nipote di Gemayel, fa la spola fra Roma e Beirut. Le indagini, in parte ancora secretate, evidenziano anche gli incontri tra i supporter di Matacena e l'eterno Luigi Bisignani, vero erede del suo maestro di loggia Licio Gelli. Secondo gli investigatori, il ruolo del protagonista spetta a Scajola. Tenuto sotto intercettazione per mesi, l'ex ministro dello Sviluppo economico si è prodigato per Matacena, arrivando a coordinare gli aspetti logistici e finanziari di una latitanza lussuosa e dispendiosa, che ha richiesto un impiego di fondi ingenti mossi dai conti bancari di Montecarlo, dove risiedeva Matacena, figlio omonimo dell'armatore napoletano che ha inventato i traghetti privati sullo Stretto di Messina e che ha avuto un ruolo importante nei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971. Amedeo Matacena junior, deputato per due legislature ed ex coordinatore regionale di Forza Italia su indicazione proprio di Scajola, è in fuga dal giugno 2013, dopo che la Cassazione aveva confermato la sua condanna a cinque anni e quattro mesi per concorso esterno in associazione mafiosa con la famiglia Rosmini, una cosca fra le più potenti della 'ndrangheta reggina. In aggiunta, il cinquantenne Matacena ha anche una condanna in primo grado a quattro anni per corruzione. Scappato alle Seychelles, poi negli Emirati dove è stato arrestato in agosto e poco dopo rilasciato, Matacena stava per abbandonare Dubai. La metropoli araba era ormai insicura e i giudici sembravano orientati a concedere l'estradizione. La nuova meta di Matacena era Beirut, il porto franco dei latitanti mafiosi. La Direzione investigativa antimafia, coordinata dal sostituto procuratore di Reggio Giuseppe Lombardo e dal procuratore capo Federico Cafiero de Raho, è intervenuta prima che Matacena andasse a raggiungere il padre fondatore di Forza Italia, Marcello Dell'Utri, che da Beirut attende la pronuncia della Cassazione sulla sua condanna associazione mafiosa il 9 maggio. Il senatore palermitano è stato arrestato il 12 aprile in un albergo di Beirut, in piena campagna elettorale per le presidenziali che ancora non hanno indicato un vincitore. Ma il nuovo presidente potrebbe negare l'estradizione di Dell'Utri per motivi politici. Gemayel, uno dei candidati, ha già occupato la poltrona presidenziale del paese dei cedri in uno dei periodi più drammatici della storia del Libano (1982-1988), succedendo al fratello Bashir e governando la fase della guerra civile. I legami di Amin Gemayel con l'Italia sono di antica data. Il capo dei cristiano maroniti è stato fra i primi a rendere omaggio, l'anno scorso, alla tomba di Giulio Andreotti, sepolto al cimitero del Verano. Due anni fa, i giornali locali hanno dato rilievo alla sua visita privata in Calabria, dove è stato ospite dell'allora senatore Speziali, uno dei maggiori imprenditori calabresi con interessi in varie regioni italiane. Più di recente Gemayel, che è vicepresidente dell'Internazionale democristiana ed è molto legato anche al segretario Udc Lorenzo Cesa, è stato in Italia per incontrare Silvio Berlusconi. L'appuntamento, preso a Roma, è stato spostato a Milano all'ultimo momento suscitando le ire del politico falangista, il suo rientro in Libano e una sua piccata smentita quando Berlusconi ha dichiarato che Dell'Utri si era recato a Beirut per assistere Gemayel nella sua campagna elettorale. Le intercettazioni dell'inchiesta reggina rivelano retroscena di feroce contrapposizione politica tra i vecchi padri costituenti del berlusconismo e i rampanti della nuova Forza Italia. In particolare, ci sarebbero agli atti una serie di liti telefoniche furiose tra Scajola e l'astro nascente del forzismo, Giovanni Toti, alleato con le donne di Silvio nel bloccare o limitare gli accessi dell'ex ministro ligure e di Denis Verdini a palazzo Grazioli. Ma i vecchi avevano ancora molte carte da giocare, grazie alla solidità dei rapporti internazionali garantiti dalla rete massonica. Il collante dell'operazione “Matacena libero” è sempre quello della fratellanza fra liberi muratori. E qui è ancora da sviluppare appieno il ruolo di Emo Danesi, livornese di 79 anni, ex segretario del boss democristiano del Veneto Toni Bisaglia e sottosegretario alla Marina mercantile, espulso dalla Dc di Ciriaco De Mita e dal Grande oriente d'Italia in quanto iscritto alla loggia P2 (tessera 752). Dagli anni Ottanta, Danesi ha preferito il ruolo del burattinaio invisibile – Gelli docet – ed è emerso soltanto a tratti. Una prima volta nel 1996, in occasione della seconda Tangentopoli, come punto di riferimento del banchiere toscano-svizzero Chicchi Pacini Battaglia. Una seconda volta nel giugno del 2007, quando l'allora sostituto della procura di Potenza Henry John Woodcock ha tentato invano di incastrarlo per associazione segreta ex lege Anselmi insieme ad altri esponenti dell'Udc. Il prosieguo dell'inchiesta dirà se Danesi può essere considerato uno degli “invisibili”, un gruppetto ristretto che detta legge e i termini della politica internazionale usando clan mafiosi, servizi segreti e logge deviate. Su questa oligarchia potente e ristrettissima lavora da anni il pm reggino Lombardo. Di sicuro, Matacena a Beirut avrebbe ritrovato qualcosa di più di un compagno di partito. In una sua dichiarazione alla stampa in cui rivelava la delusione per essere stato estromesso dalle liste berlusconiane, il figlio dell'armatore affermava: “Ritengo di essermi comportato da amico con il presidente Berlusconi. Sono andato a Palermo a testimoniare al processo di Dell'Utri contro Filippo Alberto Rapisarda. Mi sono trascinato dietro altri testimoni che avevano perplessità a raccontare i fatti per come erano avvenuti. Ritengo che questa testimonianza sia stata fondamentale per smontare il teste Rapisarda. Poi su richiesta di Berlusconi sono andato a testimoniare a Caltanissetta contro la procura di Palermo”. Lo stesso favore gli è stato reso da Scajola che si è prodigato in testimonianze a favore dell'imputato Matacena durante il processo Olimpia. Oggi, fra Scajola, Dell'Utri e Matacena, l'unico a piede libero è proprio Matacena. Forse non per molto.

Da Scajola agli amici in Medioriente. Tutti i nomi dietro il "Circolo Matacena". Il decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria mette in luce un doppio binario diplomatico-finanziario per garantire la fuga dell'ex deputato Amedeo Matacena. Con personalità che vanno dalla massoneria alla politica. E l'arresto del già titolare dell'Interno è solo la punta dell'iceberg, scrive Gianfrancesco Turano su “L’Espresso”. La rete di Amedeo Matacena è impressionante. L'ex ministro Claudio Scajola è soltanto l'uomo più in vista di un network che spaziava fra l'Italia, il principato di Monaco e il Medioriente. Nel decreto di perquisizione della Dda di Reggio Calabria emerge un doppio binario diplomatico-finanziario per mettere in sicurezza l'ex deputato condannato per concorso esterno in associazione mafiosa. Ecco come la Procura di Reggio Calabria riassume la situazione: “Nel corso delle indagini sono emersi continui contatti e collegamenti fra i soggetti investigati e appartenenti a ambienti politici, istituzionali e imprenditoriali... La gestione di tali operazioni politiche, istituzionali ed economiche ha consentito alle persone sottoposte a indagini di diventare il terminale di un complesso sistema criminale, la gran parte di natura occulta e operante anche in territorio estero, destinato anche ad acquisire e gestire informazioni riservate fornite da numerosi soggetti in corso di individuazione”.Poco dopo le 11 l'ex ministro Claudio Scajola ha lasciato la sede della Dia di Roma per essere portato in carcere a Regina Coeli, dove è in arresto per aver favorito la latitanza dell'ex deputato Amedeo Matacena. All'uscita dell'edificio Scajola ha mostrato un momento di evidente sorpresa per la presenza delle telecamere e fotografi che lo attendevano nel breve tragitto verso l'auto delle forze dell'ordine. Insomma l'operazione conclusa all'alba dell'8 maggio con l'arresto di Scajola, della sua segretaria Roberta Sacco, della moglie di Matacena, Chiara Rizzo, e di altri cinque indagati è soltanto l'inizio. Indagato ma non arrestato risulta il trentanovenne Vincenzo Speziali junior, che in un colloquio con Scajola dice di sé: “io sono programmato per non sbagliare”. Speziali ha sposato la libanese Joumana Rizk, che risulta essere nipote di Amin Gemayel, ed è omonimo dello zio senatore ed ex presidente di Confindustria Calabria, oltre che presidente dell'aeroporto di Lamezia Terme su nomina di Giuseppe Scopelliti, governatore dimissionario e candidato Ncd alle Europee. Speziali senior è anche indagato per concussione all'Asp di Crotone. Molti degli amici del “circolo Matacena” sono semplicemente citati nei documenti della Dda reggina. Molti hanno cognomi storici o vicende giudiziarie alle spalle. Appena Matacena viene arrestato a Dubai, dove si è recato per rinnovare il visto di permanenza alle Seychelles nello scorso agosto, è Giorgio Fanfani, figlio di Amintore, ad attivarsi per trovare un legale italiano negli Emirati: Ottavia Molinari. La sorella Cecilia Fanfani è definita “buona amica” da Chiara Matacena. Al consulto legale partecipa anche Carlo Biondi, figlio dell'ex Guardasigilli e avvocato Alfredo. C'è poi Marzia Mittiga, moglie dell'armatore Manfredi Lefebvre d'Ovidio, anch'egli residente a Montecarlo come l'armatore Matacena. Marzia Lefebvre, secondo gli investigatori, ha prestato la sua mail per alcuni messaggi che Chiara doveva mandare al marito negli Emirati. Speziali junior è l'ufficiale di collegamento che organizza, l'11 febbraio 2014, l'incontro romano tra Chiara Matacena e Luigi Bisignani. Lo stesso giorno, Speziali pranza con un altro piduista, il livornese Emo Danesi, vicino all'Udc. Durante il pranzo, Speziali telefona a Scajola mentre l'ex ministro si trova al ristorante romano Le tamerici con Daniele Santucci e Giovanni Morzenti. Santucci, presidente dell'Agenzia italiana per pubbliche amministrazioni e socio di Pier Carlo Scajola, figlio di Claudio, sarà arrestato il 14 marzo 2014 con l'accusa di peculato per 7 milioni di euro. Bisignani finirà agli arresti il 14 febbraio, tre giorni dopo l'incontro per l'affaire Matacena, per gli appalti di Palazzo Chigi. Morzenti, ex presidente della Federazione italiana sport invernali (Fisi), è stato condannato in via definitiva per concussione nel febbraio 2013. Alla comitiva dell'11 febbraio di unisce a un certo punto anche l'ex deputata crotonese del Pd Marilina Intrieri. Ma l'aiuto più importante a Chiara Rizzo arriva sicuramente da Scajola. È lui che la moglie di Matacena chiama in lacrime alle 9 di mattina appena dopo l'arresto del marito a Dubai, il 28 agosto 2013, chiedendogli subito un incontro a Montecarlo. L'ex ministro glielo concede. Da lì in avanti le intercettazioni fra i due sono spesso criptiche, con il latitante che viene a volte indicato come “la mamma” oppure con il nome del figlio Athos. Quando poi, dopo una serie di incontri a Beirut e all'ambasciata romana del Libano, il circolo Matacena deciderà di tentare la carta dell'asilo politico sotto l'ombrello protettore di Amin Gemayel, Scajola parlerà al telefono di “scuola”. Peraltro, senza subito essere compreso da Chiara Matacena. Più complessa è l'articolazione del salvataggio economico. In previsione della fuga, Matacena organizza un reverse merger delle sue società (Amadeus con le sue tre motonavi, la finanziaria Solemar, la lussemburghese Xilo, la Mediterranea shipping, più le due liberiane Amshu e Athoschia) per evitare di essere coinvolto nel blocco dei beni. Anche la moglie subisce il blocco del suo conto al Monte dei Paschi di Siena per decisione della direzione a settembre del 2013. Il flusso di soldi, però, è proseguito.

BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.

Università, concorsi truccati. Indagati sessanta professori. A Milano parte l'inchiesta per le selezioni. Già coinvolto nella vicenda il docente barese Loiodice, scrive “La Gazzetta del Mezzogiorno”. La maxi inchiesta sui presunti concorsi universitari truccati si allarga e un filone investigativo finisce a Milano per competenza territoriale. Sono 35 i professori indagati nello stralcio inviato alla Procura lombarda dai pm baresi Renato Nitti e Francesca Romana Pirrelli, tra questi c’è anche il docente barese Aldo Loiodice. L’indagine trasmessa a Milano riguarda solamente le selezioni svolte in tutta Italia, tra il 2008 e il 2010, per posti da professori di prima e seconda fascia in diritto pubblico comparato. A Bari, invece, restano altre due indagini che si concentrano sui concorsi di diritto ecclesiastico e costituzionale svolti nello stesso periodo. Complessivamente, nella maxi inchiesta sono coinvolti una sessantina di docenti mentre sono nove le selezioni finite nel mirino della guardia di finanza. Il troncone dell’inchiesta che è rimasto Puglia è in fase di chiusura, i pm inquirenti a breve notificheranno gli avvisi di conclusione delle indagini. La Procura barese ipotizza i reati di associazione per delinquere finalizzata a corruzione, abuso d’ufficio e falso ideologico. Le carte che riguardano il concorso di diritto pubblico comparato sono state inviata a Milano perché, secondo i pm Nitti e Pirrelli, la presunta associazione per delinquere contestata agli indagati sarebbe stata costituita nel capoluogo lombardo. Tra i 35 nomi stralciati non figurano quelli dei cinque «saggi» incaricati nei mesi scorsi di supportare il governo Letta nella definizione delle riforme costituzionali. Il loro coinvolgimento nell'inchiesta emergerebbe dal contenuto di alcune intercettazioni telefoniche riportate nell'informativa conclusiva della guardia di finanza e depositata circa un anno fa. Secondo gli inquirenti, in una sorta di circoli privati si sarebbe deciso il destino degli aspiranti docenti attraverso accordi, scambi di favore, sodalizi e patti di fedeltà. Nell’ambito di questa inchiesta, nel marzo 2011, furono eseguite perquisizioni in 11 Atenei diversi: Milano, Bari, Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Piacenza, Macerata, Messina, Reggio Calabria e Teramo, e 22 docenti furono iscritti nel registro degli indagati. Nel corso delle verifiche il numero dei professori è salito, i 35 indagati nello stralcio finito a Milano rappresentano solamente un terzo del numero complessivo di docenti sotto indagine. L’inchiesta è partita nel 2008 grazie ad un esposto anonimo - finito nella mani della Pirrelli - nel quale veniva segnalato che quattro bandi da ricercatore all’università telematica Giustino Fortunato di Benevento avevano già i loro vincitori, ancora prima che venissero eseguite le prove. L’indagine ha così mosso i primi passi, ma poi scavando tra i documenti sequestrati, indagando e intercettando, gli inquirenti baresi hanno intrapreso altre strade fino a ricostruire la presunta rete non lecita di favori tra i docenti italiani. Secondo i pubblici ministeri, come le tessere di un grande puzzle, i vincitori dei concorsi universitari banditi in tutta Italia tra il 2008 e il 2010 si sarebbero andati ad incastrare a seconda dei desideri dei docenti. Le selezioni per posti di prima e seconda fascia, per ordinari e associati, all’interno dei dipartimenti di diritto costituzionale, canonico e pubblico applicato, sarebbero state decise a tavolino dagli stessi baroni ancora prima che venissero eseguite le prove. Come? Secondo la Procura attraverso uno «scambio di favori». I docenti avrebbero manipolato «l’esito di molteplici procedure concorsuali pubbliche bandite» attraverso «accordi, scambi di favore, sodalizi e anche patti di fedeltà». Secondo la magistratura inquirente pugliese, alcuni docenti provarono anche a fare pressioni sull’ex ministro Gelmini per bloccare alcune riforme.

Non solo Expo 2015, scrivono Emilio Randacio ed Attilio Bolzoni su “La Repubblica. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, Angelo Paris e gli altri arrestati e indagati nell’inchiesta milanese gestivano appalti anche nella Sanità lombarda. Intanto emergono nuovi particolari nell’indagine che ha portato all’arresto dell’ex ministro di Forza Italia Claudio Scajola. E da Dubai, dove si trova da latitante, Amedeo Matacena dice a Repubblica: faccio il maître, non tornerò in Italia. Ieri sera la Cassazione ha confermato la condanna a 7 anni di reclusione per Marcello Dell’Utri. La «cupola» o la «cordata»: così nelle carte della procura viene indicato il gruppo di sette persone finite in carcere a Milano per associazione a delinquere all’alba di giovedì. Un «circuito deflagrante e perverso», scrive sempre la procura, pilotato dagli gli ex parlamentari Luigi Grillo e Gian Stefano Frigerio insieme al «compagno G» Primo Greganti. Quest’ultimo, alla vista dei militari che gli notificavano l’ordinanza diciannove anni dopo quella che lo portò in cella durante Tangentopoli, è scoppiato in lacrime. Insieme al direttore generale degli acquisti Expo Angelo Paris, all’ex segretario Udc ligure Sergio Mattozzo (al quale i militari hanno trovato in casa 12.500 in contanti nascosti), puntavano a mettere le mani su appalti per mezzo miliardo. La fetta più corposa erano gli oltre 300 milioni che vale il progetto della “Città della salute”, le cui buste con le offerte dovevano essere segrete e sono invece state rinvenute e sequestrate durante gli arresti.

Expo e sanità, il sistema spiegato da un factotum dell’ex dc Frigerio. L’accordo con Greganti. «Ragazzi, adesso c’è la Città della Salute», scrive Luigi Ferrarella su “Il Corriere della Sera”. Il manuale d’istruzioni della catena di montaggio degli appalti truccati, l’autopsia in diretta dei «delitti» compiuti nei lavori della sanità o delle opere pubbliche come Expo: il Virgilio che guida in questo girone infernale è, in una impagabile intercettazione ambientale nel circolo culturale milanese «Tommaso Moro» dell’arrestato ex dc ed ex parlamentare berlusconiano Gianstefano Frigerio, il suo factotum di fiducia: l’indagato Giovanni Rodighiero, orgoglioso il 31 luglio 2012 di magnificare il sistema a un non identificato dirigente sanitario tanto desideroso di esservi ammesso. «I primari, i medici che gareggiano, vengono e vanno dai politici perché la Sanità è gestita dai politici - esordisce Rodighiero - . Allora se tu hai il santo protettore», che nel contesto sarebbe Frigerio, «il santo protettore ne prende atto (delle tue esigenze ndr ), ti chiede il curriculum e poi va a parlare con chi di dovere... Se gli garantisce il direttore generale che lo porta quello là, questo si afferma... fa la gara e vince lui...». Il risultato è che «lui è riconoscente a Gianstefano» e «Gianstefano è riconoscente al direttore generale». E «dato che soldi non ce ne sono sempre», o «si rompe le scatole al direttore generale di dargli un po’ di soldi o di mettere questo cavolo di macchinario che serve... capito?». Si può così passare alla fase due: la gara d’appalto per il tipo di fornitura in questione, e cioè - riassume il gip Fabio Antezza - «i meccanismi tramite i quali si riesce a predeterminare l’aggiudicazione a favore delle imprese per cui opera l’associazione, in primo luogo con il confezionamento ad hoc di bandi di gara e capitolati». Anche qui lo spiega Rodighiero, che fa l’esempio di una gara da 40 milioni di euro nella ristorazione in ambito ospedaliero: «C’è il provveditore e c’è l’ingegnere che stanno preparando il tutto, l’ingegnere l’ho fatto conoscere all’azienda. Come è pronto il documento (lo schema del bando ndr ), viene dato a una persona fidata, va in azienda, glielo dà, lo guardano... “questo non va bene e questo va bene... c’è da aggiungere questo questo e questo... farla su misura a me”... Viene ridato, l’ingegnere mette dentro e toglie (quello che l’impresa aveva chiesto di aggiungere e levare ndr ), il provveditore e l’ingegnere sono in sintonia. E quando è pronto il capitolato, è stato fatto su misura a te e non ad altri». Terzo tempo: adesso c’è da concordare il prezzo per la corruzione. «Se hai vinto, c’è un accordo a monte, che tu devi riconoscere ics...». Anche con rateizzazioni della mazzetta: l’appalto «viene dato a te, perché si chiude con l’accordo a te e tu sei l’uomo che deve andare dal direttore generale a dargli i soldi, ogni anno... Subito tutti non li hai... hai un anticipo annuale alla firma. Quando hai vinto l’appalto, un ics... ti tieni la tua parte e il resto gliela dai a quello là... l’anno prossimo quando fanno i pagamenti gli dai la rata... per nove anni». Quarta e ultima fase: il mantenimento degli accordi. E qui, per quanto buffo possa sembrare nel contesto tangentizio, la credibilità è tutto. L’importante è che l’accordo sia osservato qualunque cosa succeda, perfino se quel determinato manager statale corrotto dovesse cambiare posto: «Lui va via? Vai avanti a dargliela, eh?... è sempre stato così». Perciò i componenti dell’associazione a delinquere temono come la peste quegli imprenditori che non siano puntuali nel rispettare la tabella dei pagamenti programmati. Lo si ascolta, in un’altra intercettazione, quando il 15 marzo 2013 uno dei mediatori che collaborano con Frigerio, Walter Iacaccia, gli esprime l’irritazione per un imprenditore che non sta onorando una rata di 50.000 euro, che Frigerio a sua volta attende di dover poi consegnare a un pubblico ufficiale: «Io gli ho semplicemente detto (all’imprenditore inadempiente ndr ): non devi farmi fare figure di cacca... perché se tu fai così, non sai cosa ti precludi... ma soprattutto non puoi più chiedere favori... Ma che persona sei? Io ci metto la faccia sempre... ma porca miseria, ma tu pensi veramente di poter lavorare senza di noi?». Ieri, intanto, dai politici evocati «de relato» nelle intercettazioni sono arrivate altre smentite. Dopo aver letto che Frigerio asseriva «devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio Rognoni (allora direttore generale uscente di Infrastrutture Lombarde ndr ) per suggerirlo come presidente Anas», l’alfaniano ministro delle Infrastrutture ieri ha dichiarato «con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». Di «illazioni o millanterie» aveva già parlato anche l’ex segretario pd Pierluigi Bersani, citato il 7 settembre 2012 da Frigerio che aggiornava Rognoni sul progetto della Città della Salute a Sesto San Giovanni, del valore di 323 milioni e con stazione appaltante proprio Infrastrutture Lombarde: «Ho sentito un po’ a Roma Bersani e poi gli altri sulla Città della Salute, tu devi cominciare a fare delle riflessioni, poi, senza responsabilità tue, mi dici come far partire un colosso macello perché è una cosa grossa... Poi Bersani mi ha detto “a sinistra cosa fate?”, bisogna che senta, se Rognoni mi dice Manutencoop per me va bene». Ma per Bersani questo discorso non c’è mai stato. Le buste sigillate con le offerte relative alla gara ancora da aggiudicare per la realizzazione della Città della Salute sono fra le carte che l’altro ieri gli inquirenti hanno sequestrato a margine dei 7 arresti: a detta del gip, per l’associazione capeggiata da Frigerio era «necessario coinvolgere da subito un grande pool di imprese», procedendo «in accordo con Primo Greganti» e spingendo sulla «Cooperativa Manutencoop» (il cui indagato amministratore Claudio Levorato è una delle 12 persone per cui il gip ha respinto l’arresto per carenza di esigenze cautelari) «in quanto la coop ha i necessari collegamenti» a sinistra, là dove Frigerio si ritiene «coperto» appunto da Greganti, il «compagno G» già arrestato in Mani pulite vent’anni fa. Sin dal settembre 2012, ritiene quindi il gip, «il sodalizio imposta la consueta strategia di individuazione delle opzioni anche politiche in grado di assicurare un intervento efficace, e degli imprenditori da favorire con avvicinamento e corteggiamento». Che le intercettazioni possano sempre avere più spunti di lettura, del resto, affiora persino nel caso di Rognoni, sul cui conto l’arrestato Sergio Cattozzo (ex segretario dell’Udc ligure e collaboratore di Frigerio) il 20 gennaio di quest’anno esprimeva delusione dopo un iniziale periodo di abboccamenti reciproci, concordando con Frigerio su quanto fosse invece il caso di investire meno su Rognoni e più sul successore Angelo Paris, general manager di Expo 2015 pure arrestato giovedì: «...perché fra poco c’è la Città della Salute, ragazzi!... E siccome Rognoni a noi non ha dato niente, non abbiamo nemmeno debiti nei suoi confronti». Greganti, per parte sua, appare molto interessato a ritagliarsi un ruolo nella realizzazione del padiglione della Cina (con la quale ha noti legami d’affari) all’Expo 2015. Il 21 marzo scorso, al telefono con il liquidatore di Tempi Moderni S.r.l., Greganti - annota il gip - «sottolinea che la Cina ha intenzione di predisporre l’intero padiglione in modalità self-built», cioè costruendoselo da sola, «tuttavia Greganti riferisce di aver comunque rappresentato l’importanza della sua mediazione», per la quale sembrerebbe tenere rapporti con l’ambasciata di Pechino e mandare una memoria in Cina. Intanto le comiche, come talvolta accade, fanno capolino al confine di cose serie. E così giovedì, durante le perquisizioni Gdf contemporanee all’arresto delle 7 persone, Cattozzo è quasi riuscito a far sparire davanti ai militari, strappandoli da una agenda e nascondendoli nelle mutande, alcuni post-it. I foglietti, una volta recuperati dall’imbarazzante nascondiglio, si sono rivelati annotazioni di cifre e percentuali e nomi: forse proprio la medesima contabilità delle tangenti su una gara di Expo 2015 che i pm Antonio D’Alessio e Claudio Gittardi avevano ascoltato in una intercettazione.

Caso Expo, Greganti e la pista cinese. Come per Mani pulite la Cina è il cuore del business dell'ex tesoriere Pci: il suo braccio operativo è la società Seinco, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Sindrome cinese: scavi nell'Expo di Milano e sbuchi in Cina. Negli affari di Primo Greganti, il «compagno G» tornato in cella a ventun anni da Tangentopoli, riaffiora prepotentemente la potenza asiatica. Di Cina l'ex tesoriere del partito comunista torinese aveva già parlato nel 1993, quando aveva cercato di convincere i pm milanesi che i 621 milioni incassati da Panzavolta non erano destinati a Botteghe Oscure ma a cercare appalti nella Repubblica Popolare. E di Cina si torna a parlare nelle carte della retata che l'altro ieri rispedisce in carcere Greganti insieme al suo coevo dell'altra sponda, l'ex dc Gianstefano Frigerio.A stimolare l'interesse di Greganti è il padiglione che il governo di Pechino deve realizzare per l'esposizione universale milanese del 2015. Business di «grande interesse», secondo l'ordine di custodia, per il «compagno G», che tiene rapporti con l'Ambasciata cinese in Italia e manda memorie in Cina. «Beh i cinesi li abbiamo incontrati, li ho incontrati a Milano», dice Greganti in una intercettazione, «fanno fare tutto giù in Cina, qui c'è solo un problema di montaggio (...) Perché c'è un rapporto con le Istituzioni, con l'Amministrazione, un rapporto con le altre imprese che lavorano lì». «Comunque - aggiunge - in ogni caso, gli abbiamo detto noi siamo qua (...) che se avete bisogno noi ci siamo, insomma, vi assistiamo in tutto, voi state tranquilli, definiamo prima quali sono i costi, voi sicuramente risparmiate, accelerate i tempi e noi vi diamo una mano». D'altronde «la Cmc già c'ha un ufficio in Cina a Shangai». L'ultima affermazione è interessante, perché riporta a uno degli assi conduttori dell'inchiesta su Expo: il rapporto tra Greganti e le cooperative rosse, il ruolo del «compagno G» nell'assicurare alle coop fette rilevanti della torta milanese. Secondo la Procura, il braccio operativo di Greganti è una società torinese che si chiama Seinco. È a nome della Seinco, per esempio, che l'11 dicembre scorso Greganti telefona a Riccardo Casale, amministratore delegato di Sogin, il colosso pubblico dello smaltimento nucleare: «Sono della società Seinco, gli dica Primo Greganti, lui si ricorderà probabilmente». Oggi, negli uffici della Seinco i telefoni suonano a vuoto, la mail è irraggiungibile. Ma fino a pochi mesi fa la Seinco era pienamente operativa, il sito vanta appalti in Cina, a Cuba, lavori per le cooperative e per il gruppo Ferruzzi (sarà ancora la consulenza dei 621 milioni?). Per il giudice preliminare Fabio Antezza la Seinco è lo scherma dietro cui viaggiano le tangenti: «Il documento in oggetto - scrive il gip commentando uno scambio di mail tra Greganti e un dirigente della cooperativa Cmc - conferma il sovente (sic) utilizzo da parte degli associati di fittizi contratti di consulenza come mezzo attraverso cui giustificare la percezione delle indebite dazioni di denaro». Il confine tra consulenza e tangente può risultare esile: e proprio su questa linea è facile prevedere che si attesterà Greganti, quando dopodomani si troverà faccia a faccia col giudice che lo ha arrestato. Anche a lui, come vent'anni fa a Di Pietro, il tarchiato ex cassiere del Pci spiegherà di non essere un collettore di mazzette ma un semplice, scrupoloso cucitore di rapporti commerciali. D'altronde, anche a leggerle una per una, è impossibile trovare nelle intercettazioni una sola frase in cui Greganti si sbilanci. Mentre Frigerio ne dice di cotte e di crude, Greganti è sempre lui: attento, preciso, taciturno. È innocente, o ha semplicemente imparato la lezione?

C'è il compagno G, D'Alema si scopre garantista. L'ex premier freddo sull'inchiesta. E Lupi si difende sul pizzino di Frigerio: mai ricevuto, scrive Giannino della Frattina su“Il Giornale”. Dopo i sette arresti dell'alba di giovedì e le 80 perquisizioni in 15 città che hanno decapitato i vertici dell'Expo con il general manager Angelo Paris finito a San Vittore, Massimo D'Alema si riscopre garantista. Sarà perché questa volta alle patrie galere sono state associate anche due vecchie conoscenze di Mani pulite come l'allora segretario della Dc Gianstefano Frigerio e il cassiere del Pci Primo Greganti e quello erano tempi in cui «Baffino» era giovane e sognava per sé un futuro ben più radioso di quanto sia poi stato. O forse perché quando l'inchiesta cominciò a occuparsi delle tangenti rosse al Pci-Pds, fu proprio D'Alema a definire con disprezzo il pool «soviet di Milano». In realtà un soviet che si occupò di tutti fuorché dei comunisti, spianando loro la strada verso un potere che mai avrebbero conquistato. Son passati gli anni ed ecco D'Alema a difendere (forse per gratitudine) il «compagno G», quel «militante di scarsa fama, ma di sicura fede» che, arrestato nel '93, tenne testa ai magistrati negando che una tangente da 1,2 miliardi di lire fosse destinata al suo partito. Risparmiando così qualche guaio ai «rossi», ma arrecandone parecchi al nostro sventurato Paese. «Sono molto prudente a parlare di vicende giudiziarie che non conosco», ha detto ieri D'Alema presentando il suo Non solo euro al Salone del libro di Torino con il direttore del Tg3 Bianca Berlinguer. Tanto per non andare troppo lontano. «Ho imparato - ha assicurato iper garantista - che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Dicendosi perciò scettico sulla «smania di pronunciare sentenze su istruttorie parziali». E assicurando che «oggi sono finiti i partiti ma non la corruzione che è un fattore endemico nella società italiana». A Roma, intanto, un «biglietto» galeotto fa tremare il ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi che nella sfida dell'Expo si è buttato a capofitto. Perché molti lavori e finanziamenti sono di sua competenza, ma anche perché sogna di correre tra due anni per diventare sindaco di Milano dove fu assessore nella giunta Albertini. Allora formigoniano di ferro, oggi in rampa di lancio per prendere il suo posto al vertice di quella galassia ciellina da cui sta cercando di estromettere il Celeste, ormai troppo invischiato nelle vicende giudiziarie per essere un buon testimonial del nuovo corso dell'Ncd alfaniano. «Leggo che nell'ordinanza per gli arresti dell'indagine sugli appalti di Expo - si legge in una nota di Lupi - vengo citato da Gianstefano Frigerio. Il quale, il 29 aprile dell'anno scorso, affermava: Devo mandare un biglietto a Maurizio Lupi con il nome di Antonio per suggerirlo come presidente Anas. Posso dire con assoluta certezza di non aver mai ricevuto quel biglietto né alcun altro tipo di comunicazione». A parlare del biglietto è il gip di Milano Fabio Antezza nell'ordinanza di custodia cautelare, mentre l'Antonio di cui si parla è quel Rognoni arrestato un mese fa nell'inchiesta su Infrastrutture Lombarde. A Milano, intanto, il giorno dopo le manette il sindaco Giuliano Pisapia e il governatore Maroni spingono per accelerare al massimo la nomina del sostituto di Paris. «Purtroppo - dice Maroni - Paris faceva tutto e deve essere sostituito immediatamente con una persona che abbia due requisiti: grande competenza e professionalità e, visto questo rigurgito di Tangentopoli, magari se viene da fuori e non ha avuto rapporti con questi ambienti è meglio». Fretta e condizioni che sembra non siano piaciute al commissario Expo Giuseppe Sala a cui spetta la decisione. E martedì a Milano arriva il premier Matteo Renzi.

Come prima, più di prima, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. Per piacere: evitateci lo stupore scandalizzato, «chi se lo immaginava?», «non l’avrei mai detto...». Tutto sono, gli arresti di ieri per l’Expo 2015, tranne che una clamorosa sorpresa. Perché, ferma restando l’innocenza di tutti fino alle sentenze, le cose stavano procedendo esattamente come era andata troppe altre volte. Il solito copione. Recitato per i Mondiali di nuoto, le Universiadi, la World Cup di calcio, l’Anno Santo... Anni perduti nei preliminari, discussioni infinite sui progetti, liti e ripicche sulla gestione e poi, di colpo, l’allarme: oddio, non ce la faremo mai! Ed ecco l’affannosa accelerazione, le deroghe, il commissariamento, le scorciatoie per aggirare lacci e lacciuoli, le commesse strapagate, i costosissimi cantieri notturni non stop. Sono sei anni, dal 31 marzo 2008, che sappiamo di dovere organizzare l’Expo 2015. E anni che sappiamo, dopo i trionfi di Shanghai 2010 dove il nostro padiglione fece un figurone, che l’impresa è difficile se non temeraria. Eppure solo Napolitano, all’ultimo istante, si precipitò alla grandiosa esposizione cinese per ricevere il passaggio del testimone e mettere una toppa sulle vistose assenze del nostro governo. Dopo di allora, tanti proclami, annunci, rassicurazioni... Mentre cresceva, nonostante l’impegno generoso di tanti, la paura di non farcela. È una maledizione, la fretta. E ci caschiamo sempre. O forse è peggio ancora: c’è anche chi scommette sui ritardi e sulla accelerazione febbrile col cuore in gola. Quando il rischio che salti tutto fa saltare le regole che erano state fissate e i prezzi schizzano sempre più su, più su, più su. Proprio come previde nel 2010 la presidente degli architetti milanesi denunciando «perplessità in merito al rispetto delle scadenze per il completamento dei lavori, alla trasparenza delle procedure e alle modalità che saranno utilizzate per affidare gli appalti». Già la prima di quelle gare, del resto, fu un’avvisaglia: vinse un’impresa con un ribasso enorme da 90 a 58 milioni ma l’anno dopo già batteva cassa per averne 88. Per non dire delle infiltrazioni nei subappalti di imprese in odore di mafia: il capo della polizia Pansa, mesi fa, comunicò che 23 aziende erano state escluse. Lo stesso sindaco Pisapia, però, spiegò d’essere sulle spine: troppi, sei mesi di analisi burocratiche, per verificare la serietà di una ditta. Tanto più se la fretta si fa angosciosa. L’unica sorpresa, nella retata di ieri che segue il fermo un mese fa del direttore generale di Infrastrutture Lombarde Giulio Rognoni, sono i nomi di alcuni degli arrestati. Già tirati in ballo vent’anni fa, nella stagione di Mani pulite, come se non fosse cambiato niente. Dal costruttore Enrico Maltauro all’ex pci Primo Greganti fino all’ex dicì Gianstefano Frigerio, poi candidato da Forza Italia (lifting anagrafico...) col nome d’arte di Carlo. Ma come, direte: ancora? Ancora, accusano i magistrati. E parlano d’«una cupola» che «condizionava gli appalti» in favore di «imprese riconducibili a tutti i partiti». Cosa significa «tutti»? Mancano solo un paio di settimane alle elezioni europee. E un anno all’apertura dell’Expo: i dubbi su quello che è oggi il più grande investimento nazionale e rischia di trasformarsi da vetrina della speranza e del rilancio in una vetrina infangata devono essere spazzati via in fretta.

Romanzo criminale bipartisan, scrive Marco Lillo su “Il Fatto Quotidiano”. Gli arresti di Reggio Calabria nei confronti di Claudio Scajola (per aver favorito nella latitanza l’ex deputato di Forza Italia Amedeo Matacena) e quelli nei confronti di due ex democristiani passati a Forza Italia, Gianstefano Frigerio e Luigi Grillo, per gli appalti dell’Expo di Milano, insieme al compagno Primo Greganti, fotografano due momenti di un unica storia iniziata venti anni fa. Se le accuse saranno confermate non sarà poi tanto esagerato parlare di un ‘romanzo criminale’ che affianca e spesso si intreccia con la storia ufficiale del partito fondato e tuttora guidato nei fatti da Silvio Berlusconi. Claudio Scajola è stato arrestato, con l’accusa di avere favorito l’ex parlamentare calabrese di Forza Italia Amedeo Matacena nella sua latitanza. L’ex parlamentare calabrese che ha avuto un momento di gloria quando testimoniò in favore di Marcello Dell’Utri al suo processo, è stato condannato a 5 anni per i suoi rapporti con le cosche di Reggio. Voleva andare in Libano da Dubai dove era stato localizzato ed era in attesa di estradizione.    Nella sua ordinanza, il gip scrive che le investigazioni “vedono Scajola in pole position nell’impegno volto all’individuazione di uno Stato estero che evitasse per quanto possibile l’estradizione di Matacena o la rendesse quantomeno molto difficile e laboriosa. Tale Stato Scajola lo individuava nel Libano, impegnandosi con personaggi esteri di rango istituzionale per ottenere tale appoggio per tramite di importanti amicizie”. La storia è intrigante perché c’è un punto di connessione tra la fuga di Dell’Utri e quella del suo vecchio amico degli inizi di Forza Italia. Secondo il Procuratore della Repubblica di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho: “C’è qualche identità personale in relazione alle due indagini. Si tratta di un personaggio destinatario di perquisizione che ci risulta protagonista nella vicenda Dell’Utri, Speziali”, cioé Vincenzo Speziali, nipote e omonimo dell’ex senatore del Pdl, sarebbe lui l’uomo che aveva un gancio con l’ex presidente del Libano Gemayel, candidato alle prossime elezioni e in buoni rapporti con Silvio Berlusconi. L’indagine della Dia di Reggio Calabria racconta quindi che un ex ministro dell’interno nonché ex coordinatore del partito di Silvio Berlusconi, avrebbe favorito un condannato definitivo per concorso esterno con la ’ndrangheta nella sua fuga. Non solo. Ci racconta che la destinazione finale e il gancio della fuga di Matacena a Beirut sarebbero comuni con quella appena avvenuta del fondatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri. L’immagine di Scajola, ministro dell’Interno che guidò il Viminale nel triste momento del G8 di Genova nel 2001, che viene portato negli uffici della Dia di Roma e poi nel carcere di Regina Coeli è certamente inquietante ma almeno appartiene ormai al passato dell’Italia berlusconiana. Come anche l’immagine di Marcello Dell’Utri trattenuto in ospedale a Beirut o quella di Matacena, per ora libero di circolare a Dubai. L'altra indagine, quella di Milano sugli appalti delll’Expo, invece è molto più inquietante perché riguarda l’oggi. Non solo nel campo del centrodestra ma anche in quello del centrosinistra. L’ordinanza di arresto di Milano ha colpito quella che sembra, secondo la ricostruzione dell’accusa, una sorta di cupola bipartisan degli appalti. Sono stati infatti arrestati Primo Greganti, il compagno G simbolo del coinvolgimento del Pci nell’indagine Mani Pulite nel 1992 da un lato e Gianstefano Frigerio, simbolo della continuità tra le mazzette della prima repubblica e la politica della seconda repubblica, dall’altro lato. Frigerio infatti, nato nel 1939 a Cernusco sul Naviglio, è stato condannato definitivamente a tre anni e nove mesi per le mazzette sulle discariche lombarde (corruzione) e a due anni e undici mesi in altri due processi della Tangentopoli milanese. Era il capo della Dc a Milano ed è diventato deputato di Forza Italia grazie a Berlusconi nel 2001.    Primo Greganti, classe 1944, divenne famoso per il suo silenzio con i magistrati ai tempi di Tangentopoli. Il primo marzo 1993 venne arrestato su richiesta del pm Antonio Di Pietro, con l’accusa di corruzione, per aver ricevuto in Svizzera, tra il 1990 e il 1992, 621 milioni dal gruppo Ferruzzi per appalti Enel. Denaro che, secondo la magistratura, rappresentava la prima delle due quote riservate al Pci-Pds delle tangenti concordate con il sistema dei partiti (l’1,6 per cento sul valore delle commesse). Il compagno G. negò sempre ogni addebito e continuò a ripetere che si trattava di consulenze personali. Alla fine Greganti patteggiò solo una pena di 3 anni poi ridotta di sei mesi. Tra gli arrestati di ieri c’è anche un vecchio democristiano ligure, Luigi Grillo, poi passato a Forza Italia e decisivo nella nascita del primo Governo Berlusconi nel 1994. Grillo parlava al telefono con l’ex ministro della difesa del primo Governo Berlusconi. Non dei bei tempi del 1994 ma della nomina di un manager pubblico, Giuseppe Nucci, che aspirava a una nomina a Terna. Previti parla con Grillo dell’argomento Nucci e quest’ultimo parla con Greganti. Insomma, se Frigerio, Greganti e Grillo sono personaggi del passato. Gli affari di cui si occupavano sono quelli di oggi, dell’expo di Milano. In carcere è finito infatti anche il direttore dell’ufficio contratti dell’Esposizione di Milano, Angelo Paris. I pm contestano un’associazione a delinquere per pilotare bandi. In carcere è finito anche il genovese Sergio Catozzo, ex Cisl, ex Udc infine berlusconiano. Ai domiciliari Antonio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, già arrestato due mesi fa per presunte irregolarità negli appalti delle opere pubbliche. E’ indagato anche il ras della Manutencoop Claudio Levorato. Al presidente della cooperativa bolognese rossa, come si diceva una volta, i magistrati contestano l’associazione a delinquere finalizzata alla turbativa d’asta e al traffico di influenze. L’uomo della Manutencoop Levorato e l’amico di Berlusconi, Gianstefano Frigerio, sono stati intercettati il 7 novembre 2013 mentre parlavano dell’appalto della Città della Salute. Frigerio propone, mentre una cimice della Dia registra le sue parole, a Levorato di usare i suoi appoggi politici nel Governo di centrosinistra (allora guidato da Letta) per favorire la nomina di Antonio Rognoni, allora presidente della società Infrastrutture Lombarde che si occupa degli appalti dell’Expo, alla guida dell’Anas. Frigerio dice: “io gli ho detto che una mano gliela do, per quello che posso fare io , della parte di Governo con cui ho rapporti io. Questa è una carta che può servire anche a lei perché un pezzo di Govemo ce l’ha anche lei … forse anche di più”. Frigerio suggerisce di piazzarlo al posto di direttore dell’Anas e Levorato non si scandalizza. In una conversazione intercettata c’è anche una telefonata del febbraio scorso in cui Frigerio sostiene di volersi mettere in contatto con Lorenzo Guerini, il nuovo portavoce della segreteria, il volto nuovo del Pd di Matteo Renzi. Il 24 febbraio scorso Frigerio dice all’amico Cattozzo “devo parlarne con Guerini” e Cattozzo replica: “devo organizzare un incontro con te e Guerini così lo tiriamo dentro, stiamo parlando di sette miliardi di lavoro”. Ma Lorenzo Guerini dice al Fatto: “Non li ho mai visti né sentiti. Non so chi sia questo Cattozzo”. Anche Pierluigi Bersani è tirato in ballo da Frigerio. L’ex parlamentare berlusconiano racconta di avere parlato con lui degli appalti dell’expo. Bersani al Fatto dice: “Pura millanteria non ho mai incontrato questa persona. Non mi sono mai occupato di queste questioni”.

La giustizia è e rimane la vera questione politica in Italia, scrive Fabio Camilleri su “La voce di New York”. Gli ultimi “clamorosi arresti” quali monotone variazioni sul tema. E mettere la testa sotto la sabbia non serve, a meno di non volerla perdere. A Milano arrestano l’Expo, a Reggio Calabria arrestano l’ex ministro Claudio Scajola e, per non restare indietro con la campagna elettorale, arresta pure la Camera dei Deputati, autorizzando i ceppi per Francantonio Genovese, deputato del partito Democratico, già sindaco di Messina. Per una volta, provo a ritenere che siano stati raccolti sufficienti indizi di colpevolezza in ciascuno di questi casi. Solo che rinchiudere in prigione prima del processo, lo sanno ormai anche i muri, dopo ventidue anni di ManiPulite Continua, è possibile se ricorrono uno o più dei “pericoli” per il processo medesimo: e cioè che l’inquisito si dia alla macchia, oppure che ricada nel peccato, o, infine, che provi a strappare le carte del Pubblico Ministero. Gli stessi muri di prima sanno che queste ultime generalmente sono tutte previsioni (di legge) che si autoavverano. In concreto, il pericolo c’è se chi accusa lo afferma. Perciò non ci resta che giurare in verba magistri: se li hanno arrestati, evidentemente un motivo c’era. Così va in Italia e così, per una volta, vorrei provare a ritenere anch’io. Solo che la mia buona volontà Legge e Ordine viene subito messa alla berlina. Già Scajola ristretto (in via cautelare) perché avrebbe aiutato un condannato per un reato di dubbia oggettività (“vicinanza”, “sostegno intermittente”, “contatti” “conoscenze” e via enumerando da una secolare coscienza, si dice per dire, inquisitoria) a fuggire, da uno stato in cui era legittimamente libero (gli Emirati Arabi Uniti, che avevano rigettato le richieste italiane) ad uno (il Libano) in cui è invece possibile l’arresto (come per Dell’Utri), qualche scossone alle mie buone intenzioni lo dà subito. Ma il vero tormento viene da Milano. Perché il Procuratore Aggiunto Robledo ha formalmente espresso il suo dissenso sull’indagine Expo, e non ha controfirmato, come gli altri, l’ordinanza di custodia cautelare? Perché il Procuratore Capo di Milano, Edmondo Bruti Liberati ha ribadito che “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti”? Prima, possibile, risposta. Sono cosucce, miserie burocratiche; allora la conferenza stampa risulterebbe una tribuna vistosamente sproporzionata per una bega interna. Seconda, possibile, risposta. No, in effetti non sono proprio cosucce, tanto è vero che si è aperto un conflitto pure innanzi il Consiglio Superiore della Magistratura; allora non è chiaro in che cosa consista “l’impostazione dell’inchiesta”. Se le manette hanno fondamento, allora è grave che un alto magistrato, con funzioni direttive, faccia mancare la sua approvazione in un momento così delicato, qual è la presentazione al pubblico, sia pure al pubblico-bue dei risultati di un’indagine preliminare così significativa. Se è fondata l’opposizione, allora è grave che un altro alto magistrato con funzioni direttive abbia chiesto la custodia cautelare, nonostante un così incisivo dissenso sui contenuti dell’indagine. C’è una terza ipotesi, però. Che il contrasto non sorga realmente dai contenuti dell’indagine, ma che riduca questi ad un semplice sfondo spendibile sul piano formale, su cui possano ergersi maestose le supreme ragioni del “riparto dei fascicoli”. Sarebbe l’ipotesi peggiore, se possibile. Significherebbe la manifesta e totale strumentalità delle indagini rispetto a vicende di rango, se così si può dire, eminentemente personale. E le persone in galera? E noi che osserviamo? Insisto: se gli arresti per la vicenda Expo sono fondati, cioè vi sono elementi sufficienti di colpevolezza e così via, non si può discettare di “impostazione dell’inchiesta” e inscenare un improbabile aventino procuratorio; se, invece, “l’impostazione dell’inchiesta” non è questione di “incompetenza per scrivania”, ma è locuzione che tradisce verità contenutistiche, rimaniamo col dubbio che la libertà personale di un certo numero di persone sia stata impropriamente mutilata, senza però, che ci si spinga oltre una sorta di arbitrato interno, eretto, con regale indifferenza, su carne viva. E sorvolo sul timing. Questa ulteriore espressione di eccellenza istituzionale e civile dovrebbe interessare anche il Governo in carica. Invece, la custodia permessa nei confronti dell’On. Genovese, quanto al Partito Democratico, olezza di viltà preelettorale. L’indagine che lo riguarda è aperta da anni; ha già attinto alla moglie, amici, collaboratori e vari altri soggetti; aveva ripetutamente espresso l’autodafè contemporaneo (“dichiaro la mia piena fiducia nell’operato della magistratura”, o formula equivalente), gli indizi sono acquisiti e stanno ormai macerando come neanche i mosti d’annata; dunque, l’arresto preventivo serve per “comunicare”. Ignorare le implicazioni allusive delle “indagini sensibili” non serve, caro Renzi. Significherebbe riconoscere di essere sotto tutela. Se vuole fare qualcosa di nuovo, di veramente politico e nobile, il Presidente del Consiglio deve intestarsi la questione giustizia e calarvi con la scure di Gordio: carriere, CSM, responsabilità civile, nuovi codici, soprattutto, nuovo Ordinamento Giudiziario, non a carriera “automatizzata”: altrimenti, può già preparare il collo; e la testa non la salva nemmeno se la ficca cinque metri sotto la sabbia dell’ignavia. L’annunciato trionfo elettorale, se non agisce in questa direzione, servirà solo ad amplificare il tonfo della caduta. 

Ancora manette in favore di tv. L'arresto di Scajola e l'agghiacciante parabola di questi 20 anni. Da Renzi ci si aspetta il segno di una riforma intellettuale e morale, Fabrizio Rondolino su “Europa Quotidiano”. Il nostro codice di procedura penale, all’articolo 274, è molto chiaro: le «esigenze cautelari», cioè l’obbligo di arresto, necessitano di tre requisiti essenziali: il rischio di inquinamento delle prove («purché si tratti di pericolo concreto e attuale»), il rischio di fuga dell’imputato, il rischio di reiterazione del reato. È molto difficile ravvisare nell’arresto di Claudio Scajola la presenza anche di un solo requisito richiesto dal codice. Scajola non stava fuggendo (e, nel caso, sarebbe bastato ritiragli il passaporto come per esempio è accaduto con Berlusconi), non inquinava nessuna prova perché al momento prove contro di lui non ce ne sono, né tantomeno era in procinto di reiterare il reato. Già, il reato. Di che cosa è accusato l’ex ministro? Secondo la Dia di Reggio Calabria, Scajola avrebbe intrattenuto rapporti “sospetti” con Chiara Rizzo, la moglie dell’ex parlamentare del Pdl Amedeo Matacena, condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa (un reato a sua volta di assai incerta definizione), e avrebbe “interessato” un faccendiere italiano con interessi in Libano – lo stesso implicato nella fuga di Dell’Utri – per favorirne la latitanza. La parabola di questi vent’anni è agghiacciante. Nel fuoco di Tangentopoli un isolato deputato missino agitò le manette nell’aula di Montecitorio e fu, giustamente, subissato di critiche. E molti, se non tutti, si scandalizzarono alle immagini di Enzo Carra, allora portavoce di Forlani, ammanettato come un assassino colto in flagrante. Oggi la galera ha sostituito l’avviso di garanzia, fra gli applausi della plebe urlante (che spesso e volentieri magari passa col rosso, non paga le tasse e devasta gli stadi) e di mezzo sistema politico. Non era necessario arrestare Scajola, e tanto meno era necessario allestire una gogna pubblica, chiamando giornalisti, fotografi e telecamere come se si trattasse di una conferenza stampa o di un reality show. E non era neppure necessario richiedere l’arresto di Francantonio Genovese, il deputato del Pd coinvolto nell’inchiesta della procura di Messina sui finanziamenti alla formazione professionale: eppure la Giunta per le autorizzazioni, con il voto decisivo di un Pd evidentemente spaventato dalla campagna elettorale, ha concesso senza batter ciglio ciò che i pm chiedevano. Lasciamo da parte, per favore, la solita stucchevole retorica sulla presunzione d’innocenza e sulla piena fiducia nell’operato dei giudici. In Italia da molti anni non è così, le sentenze si emettono prima dei processi (mentre spesso i processi si concludono con un nulla di fatto) e vale invece, sempre, la presunzione di colpevolezza, tanto più se sei un politico. I politici, come per esempio sostengono ormai apertamente Travaglio o Grillo, si dividono in inquisiti e non ancora inquisiti. Ai primi le manette in favore di telecamera, ai secondi il sospetto incancellabile. Può andare avanti un paese così? No, non può. Non si cura la rabbia con la vendetta, non si placa l’indignazione (spesso giustificata) con l’esemplarità del gesto inquisitorio. Succede invece l’esatto contrario, in una spirale di rancore e di rivalsa dalla quale, alla fine, nessuno può sperare di salvarsi. Soprattutto, nessuno può sperare che così si ricostituisca una civiltà giuridica ormai dispersa e si gettino le basi di una nuova, indispensabile etica pubblica. Da Matteo Renzi, che alla sua ultima Leopolda prima di diventare segretario del Pd e presidente del consiglio aveva pronunciato parole importanti e impegnative sulla giustizia, ci si aspetta non una battuta più o meno polemica né tantomeno una guerra ideologica e personalissima “a la Berlusconi”, ma il segno di un cambiamento culturale, psicologico, emotivo – di una riforma intellettuale e morale.

La bufala della "giustizia a orologeria": nel 2014 almeno 27 fra condanne, arresti, indagini e prescrizioni, scrive Claudio Forleo su “International Business Times”. Ecco, puntuali come un orologio rotto che segna l'ora giusta solo due volte al giorno, arrivare i commenti dei soliti fenomeni che vedono negli arresti di oggi non una classe politica marcia fino al midollo, ma il solito complotto ordito dalle toghe politicizzate. E' la colossale balla della "giustizia ad orologeria", quella che si farebbe viva solo prima delle Elezioni, allo scopo di condizionare il voto.  Lo sostiene Elisabetta Gardini, candidata alle Europee nel partito di Berlusconi: "Avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente".  Le fa eco su Twitter Bruno Vespa, uno che ama solo i processi 'alla Cogne', non quelli ai politici. "Arresti eccellenti in campagna elettorale. Giusto per rendere il clima più sereno e trasparente". Chiaro, no? Se un ex ministro dell'Interno, fino all'altro ieri in corsa per un posto alle Europee, viene accusato di aver aiutato la latitanza di un condannato per mafia, chi se ne frega! Se si vota ogni anno (Politiche, Europee, Comunali, Regionali) e se la classe dirigente si fa arrestare, condannare o indagare almeno una volta al mese, è ovviamente colpa dei magistrati che fanno politica e che avvelenano il clima. Teoria riciclata anche quando le elezioni non sono alle porte. Qualsiasi arresto, sentenza o apertura di indagine è sempre 'a orologeria', che sia Ferragosto o Natale una 'spiegazione' si trova sempre. Purtroppo per questi teorici del complotto di serie Z notizie del genere sono le più frequenti quando si parla di politica in Italia, voto o non voto. Da gennaio ad oggi contiamo almeno 3 condanne, 6 rinvii a giudizio, 6 arresti o richieste di arresto (compresi i casi Scajola, Greganti e Frigerio) 10 aperture di indagini e 2 prescrizioni.

Parlamentari, ministri, candidati, consiglieri regionali, membri di spicco dei partiti (presenti e passati). Ecco il dettaglio:

2 maggioLuigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, poi senatore del PD, condannato a otto anni di carcere per appropriazione indebita. Avrebbe intascato 25 milioni di euro. 

16 aprileMaurizio Gasparri, ex ministro e vicepresidente del Senato, rinviato a giudizio per peculato. Si sarebbe appropriato di una somma pari a 600mila euro dell'allora gruppo PDL per intestarsi una polizza sulla vita.

11 aprile: richiesta d'arresto per Marcello Dell'Utri. Il braccio destro di Silvio Berlusconi che, pur non facendo più politica attiva, resta il padrino di Forza Italia che riscrive la Costituzione con Renzi. Ma la "persona perbenissimo" (copyright dell'ex premier) fugge a Beirut. La richiesta di estradizione è di 48 ore fa.

3 aprile: nuovo arresto per Nicola Cosentino, già reduce da svariati mesi a Secondigliano (solo dopo aver perso il seggio da parlamentare), poi tornato a fare politica attiva con Forza Campania e ad incontrarsi con Denis Verdini nei giorni che precedono la nascita del governo Renzi. L'accusa è di concorrenza sleale ed estorsione con metodo mafioso.

1° aprile: chiusa indagine sulle spese pazze nella Regione Campania e notifica dell'atto, che in genere precede la richiesta di rinvio a giudizio, per Umberto Del Basso De Caro (PD, sottosegretario alla Sanità), Domenico De Siano ed Eva Longo (senatori di Forza Italia). Per tutti l'accusa è di peculato.

31 marzoSilvio Berlusconi incassa l'ennesima prescrizione, la settima della sua 'carriera', nell'ambito del procedimento Fassino-Consorte. Dopo la condanna in primo grado ad un anno per rivelazione di segreti d'ufficio, la Corte d'Appello di Milano dichiara il reato estinto.

27 marzo: il governatore della Calabria Giuseppe Scopelliti, da poco passato con il NCD di Alfano, viene condannato a sei anni di reclusione e all'interdizione dai pubblici uffici per aver firmato falsi bilanci all'epoca in cui era sindaco di Reggio Calabria, Comune poi sciolto per infiltrazioni mafiose, il primo capoluogo di provincia nella storia d'Italia a subire questo provvedimento. Scopelliti, che avrebbe comunque dovuto lasciare la carica per effetto della legge Severino, non fa una piega, come il ministro degli Interni e leader del suo partito: candidato alle Europee.

27 marzo: l'ex tesoriere dell'UDC Giuseppe Naro è condannato ad un anno di reclusione per concorso in finanziamento illecito ai partiti: avrebbe intascato dall'imprenditore Di Lernia una tangente da 200mila euro. 

26 marzo: Lorenzo Cesa, segretario dell'UDC e candidato alle Europee, è indagato per finanziamento illecito nell'inchiesta su tangenti e fondi neri che coinvolge Finmeccanica e il SISTRI, il sistema di tracciabilità dei rifiuti mai entrato in funzione. 

19 marzo: richiesta d'arresto per il deputato del Partito Democratico Francantonio Genovese, re delle preferenze alle parlamentarie PD, ras di Messina e dintorni. portatore di conflitti di interesse e soprattutto re della formazione professionale in Sicilia. Lui si 'autosospende' dal partito, in compenso i colleghi della Giunta per le Autorizzazioni di Montecitorio se la prendono comoda: Genovese resterà al suo posto almeno fino a dopo le Europee. Ma guai a parlare di 'ritardi ad orologeria', sono solo molto scrupolosi.

3 marzo: l'ex presidente della Regione Lombardia, oggi presidente della Commissione Agricoltura nonchè 'diversamente berlusconiano', il Celeste Roberto Formigoni, viene rinviato a giudizio. per associazione a delinquere e corruzione nell'ambito dell'inchiesta sulla Sanità: la sua Giunta, nel corso degli anni, avrebbe adottato provvedimenti favorevoli ad aziende private, in cambio di viaggi e regali di varia natura. 

Marzo: al sottosegretario alla Cultura Francesca Barraciu, già indagata per peculato in Sardegna, vengono contestati altri 40mila euro di rimborsi non giusitificati ottenuti all'epoca in cui era consigliere regionale. La posizione della Barraciu si aggrava nonostante le rassicurazioni arrivate dal PD sul chiarimento che il sottosegretario avrebbe offerto ai magistrati. 

28 febbraio: il ministro per le Infrastrutture Maurizio Lupi è indagato per concorso in abuso di atti d'ufficio per la nomina all'Authority di Olbia di un ex deputato del PDL, Fedele Sanciu, il quale non avrebbe i titoli per ricoprire tale incarico.

27 febbraioFilippo Penati, accusato di concussione a Monza nell'inchiesto sulle tangenti del cosiddetto 'sistema Sesto' incassa la prescrizione nonostante avesse più volte dichiarato di volerci rinunciare.

21 febbraio: l'ex sindaco di Roma Gianni Alemanno e l'ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini sono indagati per finanziamento illecito relativamente ad una provvista di denaro di 25mila euro, che sarebbe stata "realizzata con false fatture di Accenture e destinata ad un falso sondaggio sulla qualità dei servizi scolastici".

28 gennaio: Nunzia De Girolamo, ex ministro delle Politiche Agricole, viene iscritta nel registro degli indagati nell'ambito dell'inchiesta condotta sulle nomine all'ASL di Benevento.

23 gennaio: Silvio Berlusconi è iscritto nel registro degli indagati dalla Procura di Milano nel terzo filone di inchiesta sul caso Ruby (per cui ha già ricevuto una condanna in primo grado a sette anni). Per lui e gli avvocati-parlamentari Longo e Ghedini l'accusa è di corruzione in atti giudiziari. 

16 gennaio: richiesta di rinvio a giudizio per l'ex presidente della Regione Piemonte Roberto Cota e per altri 39 consiglieri regionali. L'inchiesta è ancora sul grande scandalo delle spese pazze. 

14 gennaio: Davide Faraone, membro della segreteria PD, è indagato nell'ambito dell'inchiesta sulle spese pazze nella Regione Sicilia.

Una lista infinita, e abbiamo considerato solo l'anno in corso. Ma condanne, imputazioni o indagini a carico non limitano la carriera dei politici o dei manager che orbitano nella stessa galassia. Nonostante il rinvio a giudizio per la strage di Viareggio (disastro colposo plurimo), Mauro Moretti è stato scelto dal governo Renzi come AD di Finmeccanica. Paolo Scaroni ha guidato l'ENI per un decennio nonostante una condanna ricevuta durante Mani Pulite e altre indagini a carico. Come dimenticare le liste dei partiti per le prossime Europee, piene di impresentabili, come abbiamo riassunto nell'articolo dello scorso 17 aprile. Quella della giustizia ad orologeria è una bufala, mentre una bella indagine a carico, meglio ancora una condanna, fa curriculum.

Da Ruby a Tangentopoli bis: a Milano inchieste col trucco. Dalle carte del Csm sullo scontro tra Bruti e il suo vice Robledo spuntano anomalie anche per assegnare il caso Expo. Le nuove accuse del pg Minale. E il procuratore capo attacca i pm. Scomparsa gli indagati per mafia dal fascicolo sull'esposizione 2015, scrivono Michelangelo Bonessa e Luca Fazzo su “Il Giornale”. Che fine hanno fatto le accuse di associazione mafiosa che Ilda Boccassini ha utilizzato per conquistare la gestione dell'inchiesta sugli appalti dell'Expo? Di queste accuse, nell'ordine di custodia eseguito l'altro ieri mattina, quello che ha portato in carcere tra gli altri Primo Greganti e Gianstefano Frigerio, non c'è più traccia. E così anche di questo dovrà occuparsi il Consiglio superiore della magistratura, che la prossima settimana interrogherà tra gli altri proprio la Boccassini: e dovrà capire se lo scontro in corso a Milano sia figlio di protagonismi personali e di «populismo giudiziario», come sostiene ieri il procuratore Bruti Liberati. O se invece, come afferma il principale accusatore di Bruti, il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, a Milano una ristretta cerchia di magistrati, tutti più o meno legati a Magistratura Democratica, si impadronisca di tutti i fascicoli più delicati in violazione delle regole della stessa Procura. Nelle carte già in mano al Csm ci sono già alcuni dati di fatto da cui sarà impossibile distaccarsi. Sono i punti fermi che ha messo Manlio Minale, l'anziano procuratore generale, spiegando al Csm che in almeno due casi non è stata attivata la «necessaria interlocuzione» con Robledo, modo ostico per dire che il procuratore aggiunto è stato scavalcato, e che nell'inchiesta sulla Serravalle, che lambiva il Comune di Milano, il ritardo di Bruti nell'avviarla «ha pregiudicato le indagini». Ma davanti al Csm, Minale ha parlato anche di Expo, e qui le cose si fanno ancora più interessanti. Al Csm, Robledo aveva denunciato come una plateale anomalia il fatto che una inchiesta per reati di corruzione non fosse coordinata da lui, competente per questi reati, ma da Ilda Boccassini, ovvero dal pool antimafia. Ed ecco quanto dichiara Minale: «Robledo era portatore di un convincimento assoluto, che in quel procedimento ci fossero solo reati contro la pubblica amministrazione» e che dunque lui «fosse stato ingannato e messo da parte (...) tant'è che anche ultimamente ho detto: Guarda che io voglio essere tranquillo, mi sono fatto dare le iscrizioni e risultano iscritti alcuni indagati per 416 bis», cioè per associazione mafiosa. Così, con la presenza anche di un filone mafioso dell'indagine su Expo, si giustificherebbe la presenza della Boccassini nell'inchiesta. Ma l'altro ieri vengono eseguiti gli arresti, e nell'ordine di cattura non c'è traccia di accuse di mafia. Nella retata dell'Expo si parla di appalti, di tangenti, di politica, ma non di Cosa Nostra né di 'ndrangheta. E allora, che fascicolo venne fatto vedere a Minale, con le accuse di associazione mafiosa? Forse i vecchi fascicoli sulla penetrazione 'ndranghetista in Lombardia, da cui ufficialmente scaturisce l'inchiesta Expo. Ma è una parentela assai remota, passata per mille passaggi successivi. Non era certo di quei filoni, che Robledo si sentiva spodestato per scarsa affidabilità politica. Proprio ieri, per andare al contrattacco Bruti Liberati sceglie un convegno all'università Statale. E lì afferma esplicitamente che il «populismo giudiziario è un virus endemico nei corridoi delle Procure della Repubblica, ma da noi a Milano ha potenti antidoti». La frase di Bruti parte da una citazione di un libro di Luigi Ferrajoli, padre fondatore di Magistratura Democratica, che si riferiva soprattutto a Antonio Ingroia, capofila di quei pm che «cercano di costruire un consenso popolare non solo alle proprie indagini ma anche per la propria persona». Ma questo, per Bruti, è anche il caso di Alfredo Robledo. E quei «potenti antidoti» di cui parla ieri Bruti sembrano voler dire che il procuratore è convinto di uscire vincente dallo scontro, in cui si sente attaccato non in nome della trasparenza ma del «populismo» e dell'ambizione personale.

Stefania Craxi: "Ora l'Italia chieda scusa a mio padre". La figlia dello statista socialista accusa i metodi da «Mani pulite»: "Una vergogna le modalità dell'arresto di Scajola e i processi aperti sulla stampa per Expo 2015", scrive Paola Sacchi su “Panorama”. «In questo paese sarebbe venuta l’ora di chiedere scusa a Bettino Craxi….». Dopo l’ondata di arresti di giovedì 8 maggio 2014, che hanno resuscitato stili e metodi spettacolari da «Mani pulite» e che hanno fatto parlare di «una nuova Tangentopoli», Stefania Craxi in questa intervista a Panorama.it invita ad andare a rileggersi il celebre e inascoltato intervento dello statista socialista alla Camera nel luglio 1992.

Ora quelle parole cadute nel vuoto perché tornano secondo lei più che mai attuali?

"In un coraggiosissimo discorso di fronte al parlamento e alla nazione Craxi denunciò la degenerazione alla quale era arrivata la società italiana e chiamò la politica del tempo a porvi un rimedio. Ma seguì un vile silenzio. In questi vent’anni hanno fatto come le scimmiette: non vedo, non parlo, non sento.  Il degrado è andato avanti di pari passo con una Giustizia che utilizza spesso due pesi e due misure. Due fenomeni che sono andati a braccetto.  Certi magistrati dalla tentazione golpista, favoriti anche da una politica imbelle, hanno fatto avanzare la corruzione. Se prima c’era qualche corrotto, ma la politica era forte, ora non conta  più la politica, contano solo le lobby e gli affari.  L’Italia somiglia sempre più a un paese del Sudamerica che non  a un paese moderno e occidentale".

Che effetto le ha fatto rivedere le stesse scene di vent’anni fa e le paginate dei giornali che ricalcano gli stessi schemi del processo mediatico? Da una lato, l’ex ministro Claudio Scajola, arrestato di fronte a una marea di telecamere e fotografi, si dice avvisati per tempo, dall’altro ondate di verbali di intercettazioni riversate sulla stampa, da Scajola all’inchiesta Expo 2015…

"Il metodo dell’arresto di Scajola è una vera vergogna. E la vergogna  di processi che avvengono prima sulla stampa che nell’aula di tribunale continua. Anche un colpevole ha diritto a non avere la gogna. E poi i contorni dell’inchiesta Expo sono pochi chiari perché tutto avviene all’interno di uno scontro di potere dentro la mitica  Procura di Milano".

Che opinione si è fatta?

"I tempi e i modi di questi nuovi arresti non sono estranei a  questo scontro dove c’entrano protezioni, coni d’ombra. Tutto si consuma in una contrapposizione dove è emersa con molta chiarezza la voglia da parte di certi magistrati di protagonismo e di avere assegnate le inchieste di grido. Questa è la novità".

Gli arresti dell’8 maggio avvengono a meno di due settimane dal voto europeo. La tempistica fa sempre riflettere?

"Avvengono come al solito a pochi giorni dalla elezioni. C’è un uso improprio della custodia cautelare, che è anche un costo sociale abnorme per le nostre carceri e i cittadini.  A leggere i giornali italiani sembra la sceneggiatura della stessa telenovela,  con le medesime formule giornalistiche, tipo la cupola, la cupola massonica internazionale…Ma dove è?".

Che impatto politico avranno questi nuovi arresti?

"Questo spettacolo indecente è chiaro che favorirà Beppe Grillo che è un sintomo anche grave di un sistema malato.  La sinistra ha sparso il morbo giustizialista che è entrato nelle vene dell’elettorato italiano mischiandosi a un impasto di invidia sociale e odio verso i potenti, aggravato da una politica che non ha saputo dare risposte. Nella Prima Repubblica i difetti c’erano, non a caso mio padre parlò di Grande Riforma già nel 1979, ma c’erano anche le regole, a cominciare dall’articolo 68 della Costituzione sull’immunità parlamentare,  ora invece sono rimasti i difetti ma sono saltate le regole".

È un fatto che la giornata degli arresti avviene dopo che Silvio Berlusconi è tornato centrale per fare le riforme, non a caso è stata Forza Italia a salvare Matteo Renzi al Senato. Che ne pensa?

"Da un lato c’è un giustizialismo che ha offuscato le menti e generato mostri, e poi c’è sempre una regia da parte di poteri neppure tanto dichiarati. Quelle di Renzi sono riformicchie, riforme fatte un tanto al chilo, ma è chiaro che quello che è successo è volto a far saltare il banco. Questo premier che sembra uscito dalla penna di Collodi elude la riforma della Giustizia. E intanto il Pd l’altro giorno in commissione ha votato contro la responsabilità civile dei magistrati".

Expo all’italiana: tangenti, pizzini e liti in procura. Scrive Tommaso Caldarelli su “Giornalettismo”. Caos totale a Milano: spuntano nuovi appalti truccati. E in Tribunale i pm litigano. Expo Milano 2015, il lavoro per i magistrati sembra non avere fine: spuntano nuovi guai giudiziari, nuovi appalti truccati e nuove tangenti. Come se non bastasse, davanti al Consiglio superiore della Magistratura è compiutamente uscita fuori la frattura all’interno della Procura di Milano, con il Procuratore Generale Edmondo Bruti Liberati che replica alle accuse del suo vice Alfredo Robledo, sostenendo che egli abbia intralciato il corso delle indagini. Insomma, veleni in procura: ne abbiamo parlato ieri raccontando della guerra di note inviate al Csm che in qualche modo dovrà dirimere la patata bollente. Lo scontro fra i due cavalli di razza, Bruti Liberati e Robledo, con il primo che accusa il secondo di intralcio alle indagini (ricorda Paolo Colonnello sulla Stampa: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un’attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, ha disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della Guardia di Finanza” con il rischio che il pedinato scoprisse di esserlo. Solo l’abilità del personale operativo ha scongiurato questo rischio) e il secondo che accusa il primo di tenerlo fuori dall’indagine, attraverso un esposto al Csm che ha fatto finire, però, tutte le carte dell’inchiesta Expo sui giornali e sui settimanali come Panorama ben prima che fosse opportuno. Intanto i pubblici ministeri scoprono nuovi appalti truccati. Ancora il giornalista della Stampa racconta che l’imprenditore Enrico Maltauro da Vicenza, il principe delle tangenti della vicenda Expo Milano avrebbe versato a Giuseppe Cattozzo, esponente dell’UdC ligure, qualcosa come un milione di euro complessivamente, in più forme: contanti, fatture false, una bella Audi da 60mila euro. La domanda è: “Se Maltauro per un paio di appalti aveva versato quasi un milione e promessi altri 600mila euro, gli altri imprenditori per gli appalti sulal Sanità lombarda che rappresentano oltre il 90% di questa inchiesta, quanto hanno pagato?”. Sembra, moltissimi soldi, ed è per questo che una rogatoria con la Svizzera è già stata avviata. E con ogni probabilità si aprirà anche una “fase due dell’inchiesta”, con “file di imprenditori schierate in procura per confessare corruzioni e tangenti”. Secondo il sondaggio della Stampa “si è aperta una nuova tangentopoli”; ma non è tutto. Dall’ordine di arresto del manager Expo Angelo Paris risulta che la cupola degli appalti (i magnifici tre: Frigerio, Grillo, Greganti) aveva accesso libero ad Arcore, da Silvio Berlusconi, e buoni agganci a Palazzo Lombardia da Roberto Maroni: con sempre nelle mani i famosi “pizzini” sui quali sono annotati gli uomini delle tangenti e le percentuali da esigere. L’uomo del contatto è Gianni Rodighiero, collaboratore di Sergio Frigerio, che in più occasioni è ricevuto ad Arcore – e in un caso, lo stesso Frigerio è con lui: principalmente “di lunedì e di venerdì”, dicono i protagonisti dell’inchiesta; solo che, in tempi più recenti, bisogna stare più attenti, si dicono al telefono, per scansare “il cerchio magico di Silvio Berlusconi”. Per quanto riguarda Roberto Maroni e la regione, le carte riportate da Pietro Colaprico ed Emilio Randacio su Repubblica sembrano dimostrare che Roberto Maroni è stato agganciato una volta “per caso” e sarebbe stato proprio il presidente a sollecitare Frigerio “per il lavoro sulle vie d’Acqua”, aggancio che poi lo stesso Frigerio si rivendica, al telefono. Il figlio, Frigerio Gianluigi, “risulta essere un funzionario di Regione Lombardia”: insomma, Frigerio, in regione, possiede “maniglie solide” di cui non esita a vantarsi ogni volta che è possibile.

Una nuova tangentopoli su Expo 2015. Il blitz, scattato alle prime luci dell'alba del 8 maggio 2014, ha portato all'arresto di sette persone, tra cui il top manager Paris e l'ex parlamentare Grillo ma anche vecchie conoscenze come Greganti e l'ex dc Frigerio. L'accusa è di aver pilotato e gonfiato gli appalti dell'Esposizione universale, scrive “Panorama”. Primo Greganti, Gianstefano Frigerio, nomi che riportano indietro di oltre vent'anni le lancette dell'orologio della cronaca giudiziaria e, in parte anche di quello del Paese. C'è poi quello di Luigi Grillo, ex parlamentare ligure che i suoi guai giudiziari (per poi essere assolto in appello) li ebbe in tempi più recenti, con la scalata della Banca popolare italiana ad Antonveneta nel 2005, quella dei "furbetti del quartierino".  Greganti, Frigerio e Grillo ora sono in carcere per una complicata vicenda di appalti, legata anche ad Expo: Frigerio quale "capo, promotore ed organizzatore dell'associazione, con funzioni direttive e di coordinamento degli altri associati". Greganti e Grillo quali "organizzatori incaricati dell'attività di raccordo con il mondo politico, sia con finalità di copertura e protezione in favore dell'imprese di riferimento, sia con finalità di appoggio ai pubblici ufficiali coinvolti nelle procedure di appalto allo scopo di assicurare agli stessi sviluppi di carriera nell'ambito degli enti e delle società pubbliche quale corrispettivo del trattamento preferenziale riservato alle imprese". Tradotto: associazione a delinquere, turbativa d'asta, corruzione. Il blitz, imponente, che ha coinvolto oltre 200 finanzieri,  è scattato a Milano, alle prime luci dell'alba. Gli ordini di cattura sono sette. L'accusa, sostanziata anche da alcune intercettazioni definite clamorose dai pm milanesi, è quella di turbativa d'asta e associazione per delinquere per pilotare e gonfiare i prezzi degli appalti pubblici, tra cui quelli di Expo 2015. Tra coloro che sono stati raggiunti dall'ordine di custodia cautelare ci sono nomi pesantissimi. C'è Angelo Paris, 48 anni, il top manager di Expo. C'è l'ex dc ed ex parlamentare di Forza Italia, Luigi Grillo, passato armi e bagagli nelle fila dell'Ncd di Angelino Alfano.  Ci sono  vecchie conoscenze di Mani Pulite che avevamo dimenticato, come Primo Greganti,  il compagno G, l'ex cassiere del Pci che rifiutò ogni collaborazione con i magistrati nei primi anni 90. O Gianstefano Frigerio, l'ex segretario regionale della Democrazia cristiana, finito già allora in carcere con un passato anche come parlamentare di Forza Italia, arrestato insieme al suo collaboratore Sergio Cattozzo, ex segretario Udc Liguria. E ancora, il costruttore di riferimento del gruppo, il vicentino Enrico Maltauro (che versava secondo i pm «30-40mila euro al mese» in contanti o come fatturazione di consulenze alla «cupola degli appalti»);  Antonio Rognoni, di Infrastrutture Lombarde, la stazione appaltante voluta da Roberto Formigoni, già accusato - nell'ambito della stessa inchiesta - di aver pilotato appalti a favore di aziende amiche e gonfiato di almeno due milioni di euro di spese ingiustificate (mascherate come consulenze) i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza. Un gruppo di immobiliaristi, politici e faccendieri, secondo la ricostruzione dei pm  Claudio Gittardi (pool antimafia) e Antonio D’Alessio (anticorruzione), che - muovendosi per tempo sulla base delle informazioni riservate cui non avevano accesso i concorrenti - si intascavano percentuali di tangenti, si aggiudicavano grazie alle loro amicizie appalti pubblici chiave (come quello di Expo per l'assegnazione delle case per le delegazioni straniere o il progetto definito 'Le vie d’acqua') gonfiandone i prezzi e azzerando la concorrenza pulita. Avevano anche una sede, il circolo culturale «Tommaso Moro», che per dirla con Bruti Liberati «nemmeno la più fervida immaginazione avrebbe immaginato». L'inchiesta (un faldone di 600 pagine in cui compaiono anche i nomi, ma non sono indagati, di Maurizio Lupi, Silvio Berlusconi, Pierluigi Bersani e Cesare Previti) su cui i pm lavoravano da mesi ha subito un'accelerazione dopo che sono state registrate alcune intercettazioni compromettenti che sarebbero giunte fino ai primi mesi del 2014. "Io vi do tutti gli appalti che volete se favorite la mia carriera" avrebbe detto Angelo Paris, il direttore pianificazione e acquisti di Expo 2015 parlando con alcuni componenti dell’associazione per delinquere finiti agli arresti. Ne emerge, dagli incartamenti, una «cupola degli appalti» in Lombardia, con un meccanismo operativo definito dai pm molto semplice che puntava a intascarsi percentuali di guadagno sugli appalti pubblici chiave non solo di Expo ma anche di altri grandi lavori pubblici: quando c’era una gara d’appalto giudicata interessante, l’associazione diretta da Frigerio avvicinava il pubblico ufficiale competente, utilizzando gli appoggi e le amicizie politiche che poteva vantare. Al sodalizio criminale venivano comunicati in anticipo i bandi di gara interessanti, con le caratteristiche utili da presentare per poterseli aggiudicare rispetto a eventuali concorrenti. La squadra operava insomma «in modo coordinato», coinvolgendo aziende legate a diversi partiti politici nei quali trovavano protezione. La promessa di carriera e promozione  - secondo i pm - diventava la leva fondamentale per coinvolgere i nuovi adepti. Tra i lavori pubblici su cui il gruppo aveva rivolto le sue mire ci sono anche  (per un valore di bandi di gara di 323 milioni) i lavori della Città della Salute di Sesto San Giovanni, gli appalti e le presunte finte consulenze gonfiate per i lavori di ristrutturazione dell'ospedale San Gerardo di Monza, la Pedemontana  e la gestione dei servizi di supporto non sanitari rivolti alle due Fondazioni IRCCS Carlo Besta e Istituto Nazionale dei Tumori. «La politica non metta becco sulle indagini»  ha dichiarato Matteo Renzi a Genova, nell'ambito di un'iniziativa di Ansaldo Energia. 

La confessione di mister Expo. «Appalti in cambio di protezioni». Prime ammissioni di Paris, il manager chiave dell'inchiesta: «E' vero, ho favorito Frigerio e Greganti, perché ero isolato e mi servivano appoggi politici per la carriera. Ho sbagliato, ora mi dimetto». Oggi due interrogatori paralleli per l'industriale Maltauro e il politico Udc Cattozzo, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Prima svolta nell'inchiesta sugli appalti dell'Expo. Angelo Paris, il direttore tecnico arrestato per associazione per delinquere, ha confessato già nel primo interrogatorio i fatti fondamentali che gli vengono contestati dai pm milanesi: ha ammesso di aver fornito informazioni riservate sugli appalti dell'Expo alla cosiddetta “cupola” politica guidata dall'ex democristiano poi berlusconiano Gianstefano Frigerio e dall'ex comunista poi democratico Primo Greganti, entrambi ora in carcere. Paris ha anche confermato di aver chiesto, in cambio, l'appoggio dei due faccendieri politici per la sua futura carriera di manager pubblico, candidato in particolare a guidare la società regionale Infrastrutture Lombarde dopo il duplice arresto dell'ex numero uno ciellino Antonio Rognoni. In questo primo interrogatorio, molto sofferto, Paris ha ammesso di aver fatto questi «errori» e di volersene assumere la «responsabilità» presentando subito le dimissioni. L'ex manager, inoltre, ha cominciato anche a spiegare a grandi linee le ragioni che lo avevano spinto a mettersi a disposizione dei faccendieri della “cupola degli appalti”: Paris ha detto che si sentiva sempre più «isolato» nella struttura dell'Expo e di aver concluso che proprio personaggi come Frigerio e Greganti potevano garantirgli quelle «protezioni politiche» che gli sembravano necessarie. Dopo queste prime ammissioni, Paris verrà nuovamente interrogato lunedì prossimo, questa volta dai magistrati dell'accusa, per chiarire e approfondire tutti i fatti e spiegare meglio i motivi per cui un tecnico dell'Expo possa pensare di dover chiedere «protezione politica» a due noti pregiudicati per corruzione, concussione e finanziamenti illeciti come Frigerio e Greganti, entrambi condannati con sentenza definitiva come tesorieri delle mazzette nella storica Tangentopoli esplosa nel 1992-1994. Le ammissioni di Paris, che occupava il ruolo chiave di responsabile del settore costruzioni e dell'ufficio contratti, rappresentano un'importante conferma della solidità dell'inchiesta coordinata dai pm Ilda Boccassini, Claudio Gittardi e Antonio D'Alessio. Una svolta, arrivata già nel primo interrogatorio di garanzia davanti al gip Fabio Antezza, che contraddice i dubbi sollevati invece dal procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che nel suo durissimo scontro con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati aveva segnalato al Csm di non aver condiviso né firmato proprio le accuse rivolte a Paris. Per oggi sono fissati altri due nuovi interrogatori importanti: i pm, divisi in due squadre, sentiranno contemporaneamente Enrico Maltauro, l'industriale vicentino che ha già ammesso le prime tangenti, e Vito Cattozzo, il politico dell'Udc ligure che faceva da tramite tra Frigerio e l'ex parlamentare di Forza Italia Luigi Grillo, curando i rapporti con il centrodestra e con le banche. Gli interrogatori contemporanei serviranno ad impedire ai due arrestati di poter concordare versioni di comodo, mentre i pm potranno contestare subito all'uno le eventuali ammissioni dell'altro, favorendo così dichiarazioni meno reticenti. Maltauro è il re degli appalti che è stato videoregistrato dagli investigatori della Dia mentre concordava e pagava tangenti, fino a consegnare di persona l'ultima bustarella con 15 mila euro pochissimi giorni prima degli arresti.

Expo, Bruti Liberati: "Robledo è stato d'intralcio alle indagini", scrive “Libero Quotidiano”. Nuovo atto nella violenta guerra tra toghe che sta sconvolgendo il pool di Milano. A riferire davanti al Consiglio superiore della Magistratura tocca a Edmondo Bruti Liberati, procuratore capo della procura meneghina, il "grande accusato" dal collega Alfredo Robledo. Bruti Liberati, in riferimento alla vicenda Expo, ha affermato che "le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini". La vicenda affonda le sue radici allo scorso marzo, quando Robledo aveva denunciato al Csm "fatti e comportamenti in essere dal procuratore della Repubblica, Edmondo Brunti Liberati, che non ritengo possano essere più valutati come episodici e che, in considerazione del loro ripetersi, hanno turbato e turbano il regolare svolgimento della funzione nell'Ufficio e la sua normale conduzione". Le ragioni - In soldoni si tratta di un caso clamoroso che sta turbando la presunta armonia del pool di Milano: il magistrato (Robledo) denuncia il suo capo (Bruti Liberati). Perché? Perché Robledo si sente scavalcato a causa del fatto che, afferma, il capo assegnerebbe i fascicoli che riguardano reati contro la pubblica amministrazione (di cui sarebbe competente il suo ufficio) al pool reati finanziari, guidato dall'altro procuratore aggiunto, Francesco Greco, vecchia conoscenza di Mani Pulite. Oppure a Ilda Boccassini, la pm anti-Cav per eccellenza (la Boccassini è stata accusata dal pg di Milano, Manlio Minale, di non avere la titolarità dell'inchiesta Ruby; l'accusa è piovuta sempre nell'ambito dell'inchiesta avviata dopo l'esposto di Robledo). La battaglia - Lo scontro, in atto da mesi, è deflagrato nuovamente lo scorso giovedì, in parallelo all'esplosione dello scandalo Expo. Si è scoperto che Robledo non aveva firmato gli atti dell'inchiesta. Bruti Liberati, in una conferenza stampa in cui si era notata proprio l'assenza di Robledo, aveva spiegato che il collega "non ne condivide l'impostazione" e dunque "non ha vistato" gli atti dell'inchiesta Expo che non ha portato all'arresto di sette nomi di rilievo, e all'iscrizione nel registro degli indagati di altre dodici persone, nonché a perquisizioni a Milano, Roma, Torino, Vercelli, Alessandria, Pavia, Lecco, Vicenza e Bologna. Ultimo atto - Ora, dunque, l'ultimo atto di questa vera e propria battaglia che tiene banco tra i corridoi dei tribunali di Milano, ossia l'accusa del capo (Bruti Liberati) al suo magistrato (Robledo) di aver "ostacolato" l'inchiesta Expo che sta mettendo a repentaglio l'organizzazione dell'evento e sta facendo tremare la politica italiana. Un'accusa pesantissima, e che non farà altro che dilatare il conflitto. Bruti Liberati e Ilda Boccassini da un lato, Alfredo Robledo dall'altro.

Bruti Liberati, Robledo e il doppio pedinamento. La querelle tra magistrati al vertice della Procura di Milano finisce in guerra. Ma un po' anche in farsa: perché è stato chiesto un pedinamento che era già stato disposto, scrive Maurizio Tortorella su “Panorama”. Lo scontro al vertice della Procura di Milano si alza improvvisamente di livello e diventa guerra guerreggiata. Il procuratore Edmondo Bruti Liberati, in una nota destinata al Consiglio superiore della magistratura che da oltre un mese sta affrontando la querelle aperta dal suo procuratore aggiunto Alfredo Robledo, ha scritto che le  iniziative di quest'ultimo "hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sugli appalti dell'Expo, appena scoppiate con la retata dei mercoledì 7 maggio. Nella nota Bruti aggiunge che l'invio da parte di Robledo al Csm di copie di atti del procedimento ha anche "posto a grave rischio il segreto delle indagini". Ma qui, purtroppo, lo scontro scade in farsa. Perché Bruti cita un "doppio pedinamento" che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. Ecco che cosa annota il procuratore: "Robledo, pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati, svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di finanza". Il procuratore aggiunge che "solo la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Si attendono ora altri "capitoli" dello scontro tra Bruti Liberati e Robledo, e forse qualche conseguenza di tipo direttamente giudiziario. Robledo, qualche giorno fa, aveva spiegato al Csm le ragioni del suo mancato "visto" alle misure cautelari richieste per l’inchiesta sull'Expo: il numero 2 della procura aveva lamentato di non essere stato messo in condizioni dal procuratore Bruti Liberati, «in violazione della normativa», di fare una valutazione sulla posizione di uno degli indagati. In precedenza, Robledo aveva accusato il capo dell’ufficio Bruti Liberati di una serie di presunte irregolarità. Come il ritardo «di un anno» con cui era stato indagato Roberto Formigoni nell’inchiesta San Raffaele-Fondazione Maugeri e l'affidamento dell’inchiesta sul cosiddetto Rubygate, segnato a suo dire da gravi violazioni delle regole: l’assegnazione indebito del procedimento a Ilda Boccassini, procuratore aggiunto dell’antimafia di Milano, che secondo Robledo non avrebbe avuto la competenza per occuparsi di quel procedimento. Bruti Liberati si è difeso davanti al Csm sostenendo che tutte le accuse erano prive di fondamento.

Expo, ecco tutte le beghe fra Boccassini, Robledo e Bruti Liberati, scrive Edoardo Petti su “Formiche”. La ricostruzione dei dissidi fra i magistrati milanesi secondo i cronisti giudiziari dei principali quotidiani. Una lettura non troppo commendevole, come d'altronde quella sulle intercettazioni...Il terremoto giudiziario che si è abbattuto su Expo 2015 con la scoperta di una “cupola” trasversale finalizzata ad assegnare gli appalti in cambio di tangenti ha portato alla luce una ragnatela capillare di protezioni e intrecci affaristici tra manager, pubblici funzionari, politici e imprenditori, secondo le accuse dei pm. Ma ha fatto affiorare al contempo un conflitto radicale e reiterato fra le mura del Palazzo di Giustizia di Milano. A partire dallo scontro fra il capo della Procura Edmondo Bruti Liberati e il procuratore aggiunto Alfredo Robledo, che ha vissuto un crescendo di accuse incrociate risalenti all’attribuzione a Ilda Boccassini del fascicolo investigativo e processuale sul Rubygate. E dall’accusa, rivolta al massimo responsabile dell’ufficio giudiziario milanese, di aver rinviato di un anno gli accertamenti per i presunti pagamenti di mazzette dei vertici dell’ospedale San Raffaele a favore dell’ex governatore della Lombardia Roberto Formigoni. Tensione che ha assunto una rappresentazione plastica nella conferenza stampa sui fenomeni di corruzione legati a Expo. E che non è rimasta inosservata da parte dei giornali più attenti alle dinamiche della magistratura ambrosiana. È il Corriere della Sera a mettere in rilievo una frase emblematica pronunciata da Bruti Liberati nella giornata di ieri. Ai cronisti giudiziari che gli ricordavano come l’inchiesta sulle illegalità relative agli appalti per Expo 2015 fosse uno dei filoni investigativi citati dal procuratore aggiunto Robledo nell’esposto presentato contro di lui al Consiglio superiore della magistratura per irregolarità nella gestione e assegnazione dei fascicoli di indagine, il capo dei pm milanesi ha così risposto: “Robledo non ha condiviso l’impostazione dell’inchiesta e non ha vistato gli atti. Ma prima vi erano state numerose riunioni”. Argomentazioni che hanno provocato una risposta repentina e sdegnata da parte del numero due della Procura. Il quale ha spiegato come il dissenso riguardasse la posizione di un indagato, su cui non vi erano a suo avviso gli elementi per una misura cautelare rispetto ai reati di corruzione e turbativa d’asta. Ragionamento di cui “mise a conoscenza Bruti Liberati e Ilda Boccassini, senza ricevere risposta”. A tutto ciò Robledo ha fatto riferimento nell’esposto trasmesso a Palazzo dei Marescialli. Un documento nel quale ha puntato il dito contro il comportamento centralizzatore del procuratore capo, “che frena ogni autonoma iniziativa di inchiesta, intercettazione e pedinamento”. Ma l’accusa va ben oltre. Bruti avrebbe gestito i dossier giudiziari penalizzando il suo ufficio specializzato nei reati contro la pubblica amministrazione, a vantaggio della Direzione distrettuale anti-mafia guidata da Boccassini. Le cui competenze, osserva il magistrato, non rientrano nelle indagini sulle tangenti correlate a Expo. La risposta della pm già appartenente al pool Mani Pulite giunge sulle pagine di Repubblica. L’inchiesta, rileva Boccassini, rappresenta “una delle numerose costole” di un filone investigativo risalente al luglio 2010 e concernente le relazioni nel territorio lombardo tra cosche della ‘ndrangheta, personaggi politici e manager di ospedali. Fattispecie criminose che spetta ai magistrati anti-mafia appurare. Soltanto più tardi, precisa la pm, vennero alla luce ipotesi di reati contro la pubblica amministrazione: “Elementi che segnalai a Bruti per una sinergia con il dipartimento coordinato da Robledo”. A fornire una spiegazione sulle ragioni profonde della spaccatura nel Palazzo di Giustizia è un articolo apparso sul Giornale a firma Luca Fazzo. L’assenza fisica del procuratore aggiunto nella conferenza stampa dei magistrati milanesi, scrive il cronista, è legata agli orientamenti politico-ideologici dell’universo togato. Robledo, in breve, è estraneo all’entourage dei pm progressisti di Magistratura Democratica legati al capo della Procura. Figure tra le quali spicca la principale responsabile del pool anti-mafia, “capace di assumere la guida dell’indagine su Expo 2015 esattamente come fece nella vicenda Ruby. Un’inchiesta di cui non aveva la titolarità e che riguardava reati commessi da pubblici funzionari”. Ma vi è un dissenso più remoto, connesso al metodo di lavoro adottato dai capi dei due dipartimenti giudiziari: la scelta dell’organo di polizia giudiziaria cui affidare le indagini. L’ex pm del pool Mani Pulite, evidenzia Il Giornale, ha sempre  utilizzato una squadra assai ristretta di militari della Guardia di finanza in servizio alla Procura. Nell’inchiesta in corso la pm vuole in tutti i modi ricorrere a questo gruppo di propria fiducia. L’obiezione avanzata da Robledo riguarda il numero esiguo del personale investigativo. Poiché il materiale giudiziario è sterminato, i magistrati inquirenti rischiano di perdere il controllo su tutti gli spunti dell’inchiesta: “E sarebbero gli uomini delle Fiamme Gialle a stabilire con ampio margine di discrezionalità le intercettazioni da trascrivere”.

LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.

Gli arresti esaltano i manettari: "Nuova Mani pulite". M5S processa Scajola, la Lega chiede pulizia. Pd spiazzato, Forza Italia garantista, scrive Fabrizio De Feo su “Il Giornale”. C'è chi prova a salire sulla tigre giustizialista e a cavalcarla (probabilmente incrociando le dita, nella speranza di non trovarsi mai al posto degli indagati). E chi prova a far notare che c'è qualcosa che non va, che ci si trova di fronte a un canovaccio già visto, con una serie di eventi giudiziari a orologeria, dall'ampia eco mediatica, scoppiati a due settimane dal voto. Nel giorno del doppio affondo giudiziario - tra inchiesta Expo e arresto di Claudio Scajola - la politica si muove secondo schemi in qualche modo «identitari». I grillini partono subito all'attacco e in un post sul blog di Beppe Grillo, il capogruppo del Movimento 5 Stelle al Senato, Maurizio Buccarella, chiede l'approvazione «di una nuova e seria legge anti-corruzione». «Dopo Scajola», recita il post, «ecco la nuova Tangentopoli delle larghe intese sugli appalti Expo 2015. Il Movimento 5 Stelle in tempi non sospetti aveva denunciato con forza come l'Expo fosse un tangentificio a forte rischio corruzione e infiltrazioni mafiose: grandi opere... grandi tangenti!». Il Pd, invece, si muove in modo disordinato. C'è chi riflette sul clima dominante che oggi regna nel Paese e dice a mezza bocca: «Meno male che in giunta per le autorizzazioni a procedere abbiamo votato per l'arresto di Genovese, altrimenti oggi saremmo nel mirino». Nel partito, però, c'è anche chi teme che il voto in aula, che probabilmente ci sarà martedì o mercoledì, possa riservare qualche sorpresa. Matteo Renzi, comunque, invia un messaggio chiaro e invita tutti a stare alla larga dalla materia. «Massima fiducia nella magistratura e massima severità se sono stati commessi reati», chiarisce il presidente del Consiglio. «I politici facciano il loro lavoro e non commentino il lavoro della magistratura». Toni duri imbraccia, invece, la Lega con Matteo Salvini. «Su Expo vogliamo assoluta pulizia, spiace che certe facce del vecchio mondo siano ancora in giro». Chi non si tira indietro dal sollevare perplessità su modalità e tempistica degli eventi è Forza Italia. Una protesta che va al di là dei calcoli sull'opportunità tattica della presa di posizione e del timore che le manette possano tramutarsi in benzina versata sul fuoco grillino. «Il copione si ripete, non appena sono vicine le elezioni scatta la giustizia a orologeria quasi sempre verso esponenti di centrodestra anche quando, come nel caso di Scajola, non fanno parte di questa competizione elettorale. Forza Italia resta un partito garantista, Scajola dimostrerà la sua estraneità» dice Giovanni Toti. «Noi - prosegue - continueremo nell'azione di rinnovamento delle liste e dei quadri dirigenti del partito in modo totalmente indipendente dall'azione della magistratura». Gianfranco Rotondi invita ad approfondire e verificare dal punto di vista giuridico davvero la detenzione di Scajola sia una fattispecie contemplata dal codice, o non si sia esagerato con questa misura. Infine, Elisabetta Gardini, capolista nel Nord Est, non ha dubbi: «Non dico che ci sia un complotto, ma avvenimenti come l'arresto di Scajola impediscono di parlare di ciò che preme alla gente. Possiamo dire che c'è un cronoprogramma, un affollamento di questi avvenimenti sempre intorno alle campagne elettorali».

Quella barbarie delle manette facili. Indagare su Scajola è lecito ma metterlo dentro è barbarie, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Era scontato che la Cassazione confermasse la condanna a 7 anni per Marcello Dell'Utri, attualmente a Beirut, piantonato in un ospedale. Certi verdetti, anche se non si possono sapere in anticipo, si annusano. Evidentemente lo stesso Dell'Utri aveva subodorato che gli avrebbero inflitto una pena pesante, tant'è che, in attesa di conoscere il proprio destino, si era trasferito in Libano, le cui autorità ora decideranno se concedere l'estradizione. Il che non è automatico, poiché in quel Paese il reato di concorso esterno in associazione mafiosa non c'è e sarebbe una forzatura se esse, nonostante ciò, si piegassero alla richiesta italiana di rimandare in patria l'ex senatore del Pdl. In questi casi può succedere di tutto. Non siamo in grado di stabilire se Dell'Utri sia colpevole o innocente: la sua vicenda è talmente complicata anche per gli esperti di diritto, figuriamoci per noi semplici orecchianti. Se però consideriamo che i magistrati per arrivare alla sentenza definitiva hanno impiegato la bellezza di 20 anni, sorge il sospetto che i giudici abbiano faticato a capirci qualcosa. Insomma, la sensazione è che le accuse rivolte all'imputato non fossero poi così nette e sostenute da prove inoppugnabili. Pare che un processo durato quattro lustri meriti una citazione nel Guinness dei primati, essendo peraltro dimostrativo dell'inaffidabilità della nostra Giustizia, notoriamente bisognosa di urgente riforma, non solo perché lenta, ma pure incapace di apparire credibile. Il problema va oltre la tardiva e controversa condanna del cofondatore di Forza Italia. Come si fa a ostinarsi a tenere in piedi un sistema giudiziario barocco e farraginoso quale il nostro, che per giudicare una persona cui si attribuisce un reato le ruba preventivamente 20 anni di vita, costringendola a saltabeccare da un tribunale all'altro, a campare col cuore in gola per il terrore di essere imprigionata, a pagare parcelle su parcelle agli avvocati, ammesso che abbia i mezzi per saldarle? Non è già questa una pena dolorosa? Nossignori. A un certo punto, quando tale persona è stata distrutta nel morale e nel fisico, si trova a dover scontare 7 anni di galera. E ci si stupisce se taglia la corda e si rifugia in Medio Oriente allo scopo di non trascorrere gli ultimi sgoccioli di esistenza dietro le sbarre? È più scandalosa la fuga o la lungaggine mostruosa dei procedimenti che l'ha provocata? Domanda: se un giudizio si trascina per 20 anni, quanti secoli ci vorranno ancora per correggere i vizi e le storture della cosiddetta giustizia? In questi giorni campeggia sui giornali un'altra notizia di genere affine a quella che abbiamo esaminato sopra: l'arresto dell'ex ministro Claudio Scajola, accusato di aver ordito un piano finalizzato a consentire ad Amedeo Matacena di nascondersi all'estero, infischiandosene di una condanna definitiva (5 anni di carcere) per il solito concorso esterno in associazione mafiosa. Scajola, passato alla storia per la famosa casa ricevuta in dono a «sua insaputa» (assolto), sarebbe stato inchiodato da intercettazioni telefoniche (più ambigue che schiaccianti). Ovvio. Occorre fare chiarezza. Ed è ciò che i Pm tentano lodevolmente di fare. Ma qualcuno ci spiega dove sia la necessità di trattenere in cella uno le cui malefatte non sono ancora state verificate? In circostanze simili, la risposta è la seguente: pericolo di fuga, di inquinamento delle prove e di reiterazione del reato. Scusate. Il pericolo di fuga, come insegna l'esperienza, si presenta nel momento in cui scatta la sentenza definitiva, non durante l'indagine, altrimenti l'ex ministro sarebbe scappato anche quando era in corso l'inchiesta sulla casa. L'inquinamento delle prove è impossibile se è vero che esse sono contenute nelle intercettazioni telefoniche acquisite dal Pm. Infine, la reiterazione del reato, nella fattispecie, è improbabile a meno che Scajola non abbia cambiato mestiere e aperto un ufficio per l'espatrio dei pregiudicati. Altamente improbabile. Pertanto, i domiciliari sarebbero stati più che sufficienti. Senza contare che se il nostro tornasse a piede libero non avrebbe molte opportunità per intralciare le investigazioni. Non sarà che inconsciamente alcuni magistrati siano animati da una volontà punitiva insopprimibile per cui in dubbio pro manette? C'è di che turbarsi.

Ed ancora. Il caso Garlasco e l'inesauribile voglia di mostro. A sette anni o poco meno dal delitto, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia. Il clima in cui si celebrerà il processo non promette nulla di buono, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. A sette anni o poco meno dal delitto di Garlasco, se ne torna a parlare in un'aula di giustizia, quella della terza Corte d'assise di Milano. Non sono bastate due assoluzioni a scagionare il fidanzato della vittima, Chiara Poggi, dall'accusa di esserne stato l'assassino. Incredibile la lunghezza del giudizio definitivo. L'imputato, Alberto Stasi, vive in un incubo ogni dì rinnovabile. Domani egli sarà di nuovo alla sbarra, come si dice, per difendersi, poiché la Cassazione, qualche tempo fa, nell'esaminare la sentenza d'appello che lo sollevava da ogni responsabilità, ha ordinato una sorta di riesame. In altri termini, l'appello è da rifare perché i giudici di terzo grado sono convinti che non tutti gli indizi siano stati valutati appieno. Cosicché, nonostante Stasi sia stato processato con rito abbreviato una prima volta (assolto) e una seconda (assolto) con tutti i crismi della legalità, è ancora ai nastri di partenza, come se fino adesso le toghe avessero scherzato. Sette anni sono lunghi da passare. Ma non conta. Il nostro sistema farraginoso prevede sempre la possibilità di rifare tutto. In effetti, si ricomincia. Le torture non finiscono mai. Ricostruire tutti i passaggi processuali, con i vari dettagli, sarebbe per noi un'operazione troppo complicata, noiosa e forse inutile giacché i lettori puntano al sodo. E il sodo è che Chiara Poggi è stata ammazzata in casa sua con un'arma contundente (mai ritrovata). Da chi? Da una persona che conosceva bene, tanto che la mattina di buon'ora le aprì la porta. Che cosa sia accaduto poi in quella villetta non è dato sapere: lite, colluttazione, fuga e inseguimento? Chi può dirlo. È un dato che la ragazza è stata trovata morta al piano terra. Macchie di sangue dappertutto. L'indagine si svolge nel raggio di mezzo chilometro. Chi può essere stato se non il fidanzato? Gli inquirenti puntano su di lui. Come al solito, in vicende di questo tipo, si guarda nell'ambito familiare. Stasi finisce subito in galera gravato da pesanti sospetti. Perché la sera precedente l'aveva trascorsa con lei. Perché qui perché là. Perché lui quella mattina si recò a casa di lei e la scorse morta in fondo alla scala. Perché Alberto telefonò ai carabinieri e la sua voce non tradiva emozione. Insomma, i racconti divulgati dalla stampa e dalle tivù sono interpretati quali indici di colpevolezza. Pochi giorni dopo l'arresto, tuttavia, Stasi viene rimesso in libertà in mancanza di prove. Andiamo veloci. Seguono decine di programmi televisivi che sviscerano ogni dettaglio del giallo; l'opinione pubblica, tanto per cambiare, si divide in colpevolisti e innocentisti. Personalmente, difendo il ragazzo non perché sia simpatico; anzi, è odioso. Ma contro di lui ci sono solamente pregiudizi: ha gli occhi di ghiaccio (in realtà è solo miope), è un tipo strano, ha trascorso un mese a Londra mentre la morosa aveva principiato a lavorare a Milano (uno stage), gli piaceva compulsare il computer laddove c'è del porno. Un sacco di stupidaggini che non c'entrano nulla con l'assassinio. Tra la coppia non vi sono state telefonate in cui si percepiscano liti, non si rintracciano mail in cui emergano liti o battibecchi. Tutto normale, piatto, piattissimo. Non è finita. Lui non si è sporcato le scarpe sulla scena del delitto. Però vi sono sue impronte sul sapone del bagno. Capirai. Uno che frequenta abitualmente la casa della fidanzata si sarà talvolta, suppongo, lavato le mani nel gabinetto. Avete capito? Tutta robetta. Manco una prova. Che dico, una prova, nemmeno mezza. Il movente eventuale? Gli inquirenti si arrampicano sui vetri. Dicono: lei ha scoperto che lui osservava le schifezze sul computer, ecco la causa della lite che ha scatenato la furia omicida di Alberto. Congetture. Se contrasti fra i due ci fossero, non sono stati appurati. E allora? Stasi dal presunto reato di pedopornografia web è stato scagionato. Quindi le porcherie non possono essere state il movente: tra l'altro piacevano anche a lei. Non mancano le elucubrazioni degli avvocati di parte civile che vorrebbero incastrare il giovane, ma sono inconsistenti e, quando si arriva davanti al giudice del rito abbreviato, il professor Angelo Giarda non fatica a far risaltare l'innocenza del suo assistito, Stasi, che viene assolto. Il verdetto di secondo grado è la fotocopia del primo. Basta? Nossignori. La Cassazione rimette tutto in discussione: bisogna approfondire questo e quell'elemento. Le toghe indicano sette od otto punti da verificare. Nel frattempo sono trascorsi sette anni (sette). Siamo al delirio. Ovvio che i genitori di Chiara pretendano che l'omicida sia inchiodato e condannato. Anch'io sono dalla loro parte. Concordo. S'identifichi l'assassino; non ci si accontenti però di punire uno qualsiasi cui addossare a casaccio la colpa di aver ucciso. Come si fa ad accanirsi su un tizio contro il quale non vi sono che oscuri presentimenti e dubbi? Il clima in cui si celebrerà l'ennesimo processo non promette nulla di buono. Trasformare pallidi indizi - mezzi indizi - in elementi probatori è tecnicamente un gioco da bambini per magistrati esperti. Una sentenza di condanna spesso placa le coscienze anziché tormentarle. Questo è il costume italiota. Fossi in Alberto, sarei terrorizzato. Sento puzzo di verdetto pesante. Spero di sbagliare. Il suo destino è nelle mani del professor Giarda, che è un fuoriclasse, ma non un padreterno. Auguri.

Ma a proposito di Pubblici Ministeri. Parliamo di loro. Per esempio quelli di Milano.

Liti e denunce, scoppiano i pm anti-Cav. Dall’inchiesta sull’Expo a Ruby, i vertici regolano i conti al Csm. Il pm Robledo si affida alla Gdf, scrive Matteo Di Paolo Antonio su “Il Tempo”. Lui, lei, l’altro. Non è un triangolo sentimentale, quello che sta andando in scena alla procura di Milano, ma ci assomiglia per tanti aspetti. Le corna, qui, sono professionali, forse anche con coloriture politiche. E anche in questo caso, come in quello di Mani Pulite e tanti altri, una faccenda diciamo così «domestica», rischia di scoperchiare il famoso "vaso di Pandora" in salsa meneghina. Lui, lei e l’altro sono il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, l’aggiunto di fiducia Ilda Boccassini e quello che si sente scavalcato e messo da parte, l’aggiunto Alfredo Robledo, anche lui tra gli otto «vice» del capo. L’esposto di quest’ultimo al Consiglio superiore della magistratura, a metà aprile, è l’atto che ha aperto ufficialmente la guerra, provocando la dura reazione di Bruti Liberati, secondo cui Robledo sarebbe stato d’«intralcio» in molte indagini importanti, a cominciare da quella sull’Expo. Ma Robledo, che ha già denunciato gravi irregolarità, manifeste violazioni e colpevoli ritardi nell’assegnazione delle indagini da parte del procuratore Capo, ieri è ripassato all’attacco producendo atti che proverebbero come Bruti Liberati, sull’ormai noto caso del doppio pedinamento, abbia dichiarato il falso. Ma torniamo alle «corna». Secondo le denunce di Robledo al Csm, Bruti Liberati avrebbe ignorato le competenze e le regole interne, preferendo pm fidati e magari della sua corrente, cioè Magistratura democratica, soprattutto per vicende dal forte impatto politico-mediatico. Mentre Robledo non è certo di sinistra, è un «cane sciolto», semmai più vicino ai moderati: si è candidato (senza successo) anni fa per Magistratura indipendente alle elezioni dell’Anm milanese, pur non essendo iscritto alla corrente. La delicatissima inchiesta sul caso Ruby sarebbe l’esempio principe di questi favoritismi: Bruti l’ha assegnata all’aggiunto responsabile dell’antimafia Boccassini, mentre Robledo, che guida il dipartimento sui reati contro la pubblica amministrazione, ne rivendica la competenza. Al Csm anche Ferdinando Pomarici conferma «l’anomalia» di quella decisione. Bruti Liberati, dunque, volle che fosse proprio Ilda a condurre l’inchiesta che portò alla condanna a 7 anni di Berlusconi, per corruzione e prostituzione minorile. E poi ce ne sono altre di inchieste, finite sempre nelle mani dei pochi pm del «cerchio magico» del capo: quella sul San Raffaele, quella Sea-Gamberale. Fino all’ultima, la più esplosiva, quella che rischia di essere la nuova Tangentopoli per l’Epxo 2015 e sarebbe stata «scippata» a Robledo per finire anch’essa nelle mani di «Ilda la rossa». Robledo non ha voluto firmare le sette richieste di misure cautelari per altrettanti indagati, sostenendo di non essere stato informato dal procuratore e di non aver potuto compiere le sue valutazioni, «in violazione della normativa». E c’è anche, per altri versi, il caso-Sallusti, che avrebbe portato a una decisione «unicum» sui domiciliari (non richiesti) al direttore de Il Giornale , condannato per diffamazione. Una scelta in deroga alla prassi corrente e contestata dai pm: solo per questo diventata poi norma per tutti i casi analoghi, in seguito a una circolare che Bruti Liberati dovette firmare per placare la polemica interna. Il quadro è grave e può avere conseguenze pesanti non solo per i singoli, ma per la stessa procura. Il capo rischia quantomeno la mancata conferma alla scadenza dell’incarico, a luglio, se non un’indagine disciplinare. Il suo accusatore, Robledo, potrebbe essere invece trasferito ad altra sede per incompatibilità ambientale. La denuncia dell’aggiunto Robledo al Csm in queste settimane ha portato alle audizioni di tutti i protagonisti dello scontro e ognuno racconta la sua verità, rivelando scenari contraddittori. Del «cerchio magico» attorno a Bruti Liberati, per Robledo, fa parte anche l’aggiunto Francesco Greco, responsabile del pool sui reati finanziari. In questo caso, conteso è uno dei filoni dell’inchiesta San Raffaele, che per il grande accusatore ha portato a un ritardo di un anno nell’iscrizione dell’ex governatore della Lombardia, Roberto Formigoni, nel registro degli indagati. Per Bruti Liberati e Greco, invece, nessun ritardo: Robledo avrebbe voluto una sorta di spacchettamento dell’indagine, mentre il fascicolo era assegnato al pm Orsi che si era trasferito in quel periodo dal pool di Greco a quello di Robledo. Nell’audizione di Greco si è parlato di una vicenda molto delicata, quella che più di altri potrebbe prevedere sviluppi disciplinari per Bruti Liberati. É l’inchiesta Sea-Gamberale e il fatto che il procuratore Capo, come poi da lui stesso ammesso, avesse dimenticato il fascicolo in cassaforte. Per Greco, che difende Bruti Liberati, si è trattato di un episodio «incolpevole», ma Robledo insiste sul contrario. E al Csm la cosa viene valutata comunque come molto preoccupante. L’ultimo atto dello scontro interno è la controffensiva di Bruti nei riguardi di Robledo. In una lettera al Csm, che integra le sue dichiarazioni rilasciate a palazzo de’ Marescialli il 15 aprile, scrive che le iniziative dell’aggiunto «hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini» sull’Expo. In particolare, racconta che proprio per colpa del collega si è arrivati alla situazione «surreale» di un doppio pedinamento di un indagato, che avrebbe rischiato di compromettere l’inchiesta. Tesi accusatoria che Robledo ha smentito, accusando il Capo di falso: l’episodio del doppio pedinamento - spiega Robledo in una nota inviata al Csm, a cui ha chiesto anche di essere ascoltato - non è mai avvenuto. E a sostegno della sua tesi avrebbe fornito una prova documentale.

Nuovi scandali e luoghi comuni, scrive Enzo Carra su “Il Tempo”. Non c’è soltanto una rappresentazione di ordinaria, odiosa criminalità nelle vicende dell’Expo e in quelle della direttrice Roma-Beirut via Reggio Calabria. C’è purtroppo anche una nuova ondata di luoghi comuni. Tutto quello che serve a coprire le responsabilità di quanti, in oltre vent’anni da Mani Pulite, non hanno fatto abbastanza per bonificare i rapporti tra politica e affari e imporre sobrietà alla politica. L’elenco ha inizio con la ridicola domanda: questa è, o no, una nuova Tangentopoli? Ovvio che chi, come Di Pietro, allora era un magistrato rampante e oggi è un politico declinante rimpianga quel periodo. Altri tempi. C’è chi, invece, opta per un desolante giudizio sulla perversione dei nostri tempi: allora si rubava per i partiti, adesso si ruba per sé. I confronti, per nostra fortuna, non hanno ancora fatto imboccare agli spericolati opinionisti la scriteriata conclusione che si stava meglio quando si stava peggio. In attesa di arrivarci (non si sa mai) c’è chi invoca un’altra Mani Pulite. Come se le Procure italiane avessero ogni tanto bisogno di un evento speciale per dimostrare la propria efficienza anziché lavorare ogni giorno dell’anno. L’elenco comprende con il segnalato ritorno dei soliti noti, anche quello dei partiti che non ci sono più. Così, dirigenti locali della Dc come Frigerio vengono innalzati al ruolo di parlamentari di quel partito, mentre lo sono divenuti molti anni dopo, a Dc liquidata da tempo. Dietro il compagno G., come Greganti, si intravede lo scavo della vecchia talpa leninista ormai in letargo. Mancavano i socialisti, è vero. La loro assenza è stata tuttavia parzialmente riscattata dall’apprendere che la signora Matacena è figlia di un esponente socialista. In tanto discutere si fa però poca attenzione alla domanda più importante: chi ha rimesso in giro, e soprattutto perché, questi signori?

Inchieste e scontri di potere, scrive Stefania Craxi, figlia dell’ex premier Bettino, su “Il Tempo”. Caro direttore. Cui prodest? È questo il quesito che ci poniamo ogni qualvolta, nel pieno svolgimento di una competizione elettorale, assistiamo all’ormai abituale catena di arresti eccellenti. La risposta, questa volta, non solo è di più difficile individuazione ma è meno scontata del previsto. Se il caso Scajola dimostra ancora una volta l’uso selvaggio e improprio delle misure cautelari, le vicende che interessano il redivivo "Compagno G" e il mondo di "Infrastrutture Lombarde" vanno inquadrate in un contesto più ampio e articolato. Un’attenta lettura di questa vicenda è molto utile per comprendere in pieno le degenerazioni che interessano una parte della Magistratura da cui non è certo esente la Procura di Milano. Non bisogna essere dotati di grande intuito o fantasia per comprendere che talune indagini hanno subito un’accelerazione fulminea dopo l’esposto al Csm di Alfredo Robledo con il quale il procuratore aggiunto di Milano accusa senza mezzi termini il capo della Procura milanese, Edmondo Bruti Liberati, d’irregolarità nell’assegnazione e nella gestione dei fascicoli, denunciando, di fatto, un’ampia area di discrezionalità sui casi da perseguire e seguire. Non è questa una banale contesa sull’organizzazione interna. È uno scontro di potere tra «gruppi» dal quale emergono fatti inquietanti e si rivelano verità inconfessabili. Uno scontro in cui cadono i protetti e si spezzano gli equilibri di un sistema che fa scempio del diritto e della ragione in cui a farne le spese sono sempre e comunque i cittadini italiani. Un caso isolato? Affatto. Vi sono ormai fin troppi precedenti di conflitti interni il cui unico fine è l’accrescimento del potere personale. Eppure, nulla cambia. La riforma della giustizia continua a essere rinviata a un futuro futuribile senza che nessuno si interroghi sullo stato e la qualità del nostro sistema democratico, molto più simile ai modelli sudamericani che non alle liberal democrazie occidentali. Serve invertire la rotta. E subito. L’ordinamento giudiziario ha bisogno di mutamenti profondi e radicali. Se non ora, quando? Stefania Craxi.

Robledo vs Bruti Liberati: le tappe della guerra. Giorno per giorno, frase per frase, tutte le puntate della guerra interna a Palazzo di Giustizia di Milano, scrive “Panorama”. Da una parte Alfredo Robledo, classe 1950, procuratore aggiunto di Milano, massimo esperto di inchieste su politica e corruzione e legato a Magistratura indipendente (corrente di centrodestra). Dall’altra, Edmondo Bruti Liberati, classe 1944, Procuratore capo del tribunale di Milano vicino a Magistratura Democratica (corrente di centrosinistra). Al centro il Tribunale di Milano e le sue inchieste. ecco, passo dopo passo, le tappe della vicenda e della guerra tra i due:

- venerdì 14 marzo  2014. Robledo invia una lettera (11 pagine) al vicepresidente del Csm, Vietti. al presidente del Consiglio distrettuale milanese, Giovanni Canzio e al Capo della Procura generale di Milano, Manlio Minale, nella quale accusa il procuratore capo del Tribunale di Milano di  aver turbato“la regolarità e la normale conduzione dell’ufficio”nella gestione delle inchieste più scottanti. Robledo va giù pesante contro il suo capo ritenendolo responsabile di “violazione dei criteri di organizzazione vigenti nell’ufficio sulla competenza interna” e lo definisce “garante di una serie di equilibri politici” favorendo i colleghi Ilda Boccassini e Francesco Greco.

- mercoledì 19 marzo 2014. Viene alla luce una lettera del protocollo riservato nella quale Bruti Liberati ammette che un fascicolo del 2011 sull’inchiesta che vedeva Vito Gamberale accusato di turbativa d’asta, era rimasto in un cassetto“per sua deplorevole dimenticanza”. Non solo, l’inchiesta, invece di finire per competenza sulla scrivania di Robledo, viene assegnata al capo del pool dei reati finanziari, Francesco Greco che lo gira al pm Fusco e che, a sua volta, fa notare a Bruti Liberati che sarebbe stato meglio assegnarlo a Robledo.

- giovedì 20 marzo 2014. Robledo apre il coperchio alla nuova Tangentopoli milanese legata all’Expo. A finire in manette sono Antonio Giulio Rognoni, direttore generale di Infrastrutture Lombarde, e molto vicino al Roberto Formigoni, e altre sette persone. Era questa una delle inchieste a cui faceva riferimento Robledo nella lettera con la quale accusava Bruti Liberati. Lo scontro tra i due magistrati sembra passare in secondo piano vista l’importanza della vicenda o addirittura rientrare e per qualche giorno i due si ignorano.

- venerdì 28 marzo 2014. La procura di Brescia decide di aprire un fascicolo per calunnia ipotizzando una manovra “orchestrata” per screditare Robledo.

- martedì 15 aprile 2014. I due magistrati vengono ascoltati al Palazzo dei Marescialli a Roma. Le due audizioni sono un susseguirsi di accuse e contro accuse senza esclusione di colpi. Robledo: “Non ho nessun motivo personale nei suoi confronti, ma siamo arrivati a un punto limite, oltre il quale non è più possibile andare”. Bruti Liberati: “Sia ben chiaro che io lezioni sull'obbligatorietà dell'azione penale non le prendo”. Nel corso dell’audizione davanti al Csm emerge che anche l’assegnazione dell’inchiesta di Ruby non doveva essere affidata alla Boccassini e a sostenerlo è il presidente del Tribunale di Milano, Manlio Minale: “Il procuratore aggiunto del pool antimafia cosa c'entra? Non aveva titolarità”.

- mercoledì 7 maggio 2014. Robledo non si presenta alla conferenza stampa, nonostante un suo magistrato abbia seguito le indagini. Bruti Liberati dichiara: “l'indagine non è firmata anche da lui in quanto non ha condiviso l'impostazione: per questa ragione non è qui con noi”. Robledo risponde che Bruti Liberati non lo ha messo nella condizione di fare una valutazione sulla posizione di un indagato: “Ogni volta che bisogna prendere un'iniziativa di indagine bisogna avvertirlo prima e lui deve dare il consenso di tutto, anche di stralci e così via”.

- lunedì 12 maggio 2014. Bruti Liberati invia un esposto al Csm accusando Robledo di aver “determinato un reiterato intralcio alle indagini sull’Expo”. Al centro dell’accusa c’è un doppio pedinamento nei confronti di un indagato: “Robledo pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso un'attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati svolta da personale della polizia giudiziaria, ha disposto, analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Guardia di Finanza”.

- mercoledì 14 maggio 2014. Robledo che controattacca rispondendo al Csm: “Bruti Liberati dice il falso, ne ho le prove”. In effetti la Guardia di Finanza con un rapporto ufficiale conferma la tesi di Robledo spiegando che "non si sono registrati episodi di sovrapposizione operativa con altro personale di Polizia Giudiziaria presso la Procura di Milano".

Procura Milano, tutti contro tutti. Guerra Bruti Liberati-Robledo. Nuovo clamoroso scontro nella Procura di Milano. Il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati al Csm: da Robledo reiterato intralcio alle indagini. La risposta del pm: tutto falso, voglio essere sentito. Intanto l'Antimafia attacca Ilda Boccassini: "Con il suo arrivo i rapporti sono peggiorati", scrive “Affari Italiani”. "Le iniziative del procuratore aggiunto Robledo hanno determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Lo scrive il procuratore capo di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota trasmessa ieri al Csm. Bruti Liberati, in particolare, ricorda la "prospettazione di stralcio", avanzata da Robledo e da lui esclusa, che "non solo avrebbe fatto perdere la unitarietà di visione in questa vicenda specifica, ma avrebbe comportato sicuro intralcio e ritardo alle indagini". Inoltre, la trasmissione, da parte di Robledo, al Csm "di copie di corrispondenza interna riservata e di copie di atti del procedimento in delicatissima fase di indagine, con assunzione arbitraria della decisione delle parti da segretare, ha posto - scrive Bruti a Palazzo dei Marescialli - a grave rischio il segreto delle indagini". Il capo della Procura di Milano riferisce anche un'"ultima surreale situazione" avvenuta nell'ambito dell'inchiesta Expo: "Robledo - spiega Bruti - pur essendo costantemente informato del fatto che era in corso una attività di pedinamento e controllo su uno degli indagati", svolta da "personale della sezione di Polizia giudiziaria", ha "disposto analogo servizio delegando ad altra struttura della stessa Gdf". Solo "la reciproca conoscenza del personale Gdf che si è incontrato sul terreno - osserva Bruti - ha consentito di evitare gravi danni alle indagini". Con la sua nota inviata a Palazzo dei Marescialli, Bruti Liberati integra quanto esposto nell'audizione al Csm dell'aprile 2014 scorso. Dopo gli arresti avvenuti negli scorsi giorni, sono infatti venuti meno i segreti istruttori che non avevano permesso al capo della procura milanese di essere più preciso davanti all'organo di autogoverno della magistratura. La richiesta di misura cautelare diretta al gip nell'ambito dell'inchiesta Expo "fu vistata dal procuratore aggiunto Boccassini", ricorda Bruti, e Robledo "da me personalmente interpellato - aggiunge il procuratore capo - mi disse che dissentiva in ordine ad alcune contestazioni di reato relative all'indagato Paris e che non intendeva apporre il visto". Dunque, "ritenevo - spiega Bruti Liberati - anche ad evitare una delegittimazione dei sostituti, di apporre anche il mio visto sulla richiesta" che poi è stata "accolta dal gip sui punti non condivisi dal procuratore aggiunto Robledo". Quest'ultimo, "pur continuando ad essere costantemente informato di tutti gli sviluppi ulteriori delle indagini ai fini del coordinamento in atto - conclude Bruti - si era sottratto alla fase del procedimento cautelare e pertanto non gli fu sottoposto al visto la successiva integrazione della richiesta al gip". Bruti Liberati, infine, auspica una "sollecita definizione della vicenda" scaturita dall'esposto di Robledo, "consentendo alla Procura della Repubblica di Milano di svolgere il suo difficile compito in un clima di normalità, fuori dai riflettori sul preteso scontro nella Procura di Milano". Con una nota inviata al Csm, il procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo risponde alle accuse del procuratore capo Edmondo Bruti Liberati secondo il quale avrebbe "determinato un reiterato intralcio alle indagini" sull'Expo. Nella nota, Robledo afferma che l'episodio del doppio pedinamento, di cui ha parlato Bruti, non è mai avvenuto e, a sostegno della sua tesi, fornisce una prova documentale all'organo di autogoverno della magistratura. Alfredo Robledo chiede di essere sentito dal Csm in merito alle accuse che gli ha rivolto il procuratore di Milano Edmondo Bruti Liberati in una nota inviata all'organo di autogoverno della magistratura, nella quale lo accusa di avere intralciato le indagini su Expo. Bruti Liberati aveva citato anche l'episodio di un presunto doppio pedinamento che avrebbe potuto compromettere l'inchiesta. E' stata "anomala" l'assegnazione dell'inchiesta Ruby al procuratore aggiunto Ilda Boccassini, "palesemente estranea" a quel tipo di inchiesta. Questo, secondo quanto si è appreso, è uno dei passaggi dell'audizione del pm di Milano, Ferdinando Pomarici, sentito oggi al Csm nell'ambito della pratica avviata dalla prima e dalla settima commissione a seguito dell'esposto con cui l'aggiunto Alfredo Robledo ha denunciato presunte irregolarità nell'assegnazione dei fascicoli da parte del capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati. Pomarici è stato sentito per circa un'ora a palazzo dei Marescialli: davanti alle commissioni, riunite in seduta congiunta, ha ricordato di aver segnalato questi punti critici già in una lettera che aveva indirizzato proprio a Bruti Liberati. "Di tutto ha bisogno il sistema giudiziario, tranne che di delegittimazioni". Lo ha dichiarato il vicepresidente del Csm, Michele Vietti, poco prima del plenum con il guardasigilli Orlando, affrontando la questione dello scontro alla Procura di Milano. "Il Csm se ne sta occupando - ha aggiunto - quindi non entro nel merito, ma mi auguro che le commissioni arrivino ad una conclusione rapidissima dell'istruttoria e che si possa arrivare al plenum con una decisione definitiva". C'è una "tradizione di difficili rapporti tra la Dna e la Dda" di Milano, e con l'arrivo del procuratore aggiunto, Ilda Boccassini, alla guida del pool antimafia milanese, c'è stato un "arretramento". E' quanto emerge dall'audizione svolta la scorsa settimana al Csm del pm della Direzione Nazionale Antimafia, Filippo Spiezia, che fino all'ottobre 2013 è stato magistrato di collegamento tra la Dna e la Direzione Distrettuale Antimafia milanese. "Col passaggio di consegne - ha detto Spiezia al Csm - la dottoressa Canepa (il magistrato che prima di Spiezia svolgeva il coordinamento con la Dda milanese, e che oggi è tornata a svolgere tale ruolo, ndr) mi mette a disposizione tutto il suo patrimonio conoscitivo riguardante i rapporti con Milano, scrive nel suo resoconto che la dottoressa Boccassini ha manifestato perplessità connesse a ragioni di sicurezza e riservatezza in relazione all'implementazione della banca dati nazionali, quindi in questo la collega Canepa rilevava un arretramento rispetto alla posizione del dottor Pomarici (l'aggiunto che era a capo della Dda di Milano prima di Ilda Boccassini, ndr) che invece riteneva che la Banca Dati Nazionale venisse implementata con gli atti dei procedimenti in corso". Tale dato, aggiunge Spiezia, "io poi l'ho riscontrato nella pratica" e "si è riflesso poi nel livello qualitativo e quantitativo degli atti trasfusi nella Banca dati nazionale". Nel corso del suo mandato come magistrato di collegamento con la Dda di Milano, Spiezia afferma di non aver registrato alcun "cambiamento di rotta", ma "addirittura c'è stato un aggravamento rispetto ai dati che aveva registrato la dottoressa Canepa". Un "bilancio assolutamente negativo", sottolinea Spiezia nelle sue audizioni, riguarda il rilevamento della situazione sulle cosiddette "iscrizioni multiple": "nel 2013 - osserva il magistrato della Dna - sono state inviate fino all'epoca in cui mi sono occupato di questi rapporti, 49 segnalazioni di iscrizioni multiple ricevendo zero risposte". "Ci sono difficoltà che il Csm sta affrontando. Attendo il lavoro del Csm". Così il guardasigilli Andrea Orlando, al termine del plenum al Palazzo dei Marescialli, ha risposto ai cronisti in merito alla richiesta, avanzata dal togato Antonello Racanelli, di valutare l'invio degli ispettori alla Procura di Milano.  E poi: "Non considero che diverse opinioni nella Procura di Milano abbiano compromesso l'imparzialità". "I fatti vanno analizzati - ha aggiunto il ministro - il sistema prescinde da potenziali conflittualità. Anche alla luce dell'inchiesta Expo, non bisogna pensare che venga meno il ruolo e la funzione che la Procura di Milano ha effettuato e continua a svolgere".

«Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», scrive “Tempi”. «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Parola di Giovanni Fiandaca, giurista, candidato Pd alle Europee 2014. «Non si può fare l’ayatollah dell’Antimafia», dice oggi al Corriere della Sera Giovanni Fiandaca. Giurista palermitano, celebrato trai maggiori esperti di diritto penale, Fiandaca correrà nelle liste del Pd per le Europee. Il fatto è di straordinario interesse, soprattutto perché segnala che, anche a sinistra, qualcosa si muove nel campo di chi non ne può più di una politica asservita alla magistratura. Il fatto che poi Fiandaca sia un ex membro del Csm, maestro di Antonio Ingroia, uno dei penalisti di riferimento della sinistra, non fa altro che aumentare l’interesse per questa candidatura (molto osteggiata infatti dalle parti di Travaglio e manettari affini).
Nei mesi scorsi, l’ordinario di Diritto Penale all’università palermitana ha avuto
parole molto nette sia sulla trattativa Stato-Mafia sia sul suo allievo Ingroia che ha pesantemente criticato. Ma Fiandaca ha fatto anche un discorso di più ampio respiro sulla situazione della giustizia in Italia, coinvolgendo nelle critiche anche il mondo dell’informazione per la “drammatizzazione” eccessiva con cui si sofferma su indagini e processi solo per attizzare gli istinti più bassi e forcaioli. Al Corriere, dunque, Fiandaca spiega che l’Antimafia oggi va ripensata perché «nessuno può arrogarsi il diritto di decretare cosa è Antimafia autentica o fasulla». Così come un ripensamento va fatto sulla stagione che ha seguito Tangentopoli: «A vent’anni di distanza si deve prendere atto che è una vera illusione affidare alla magistratura le leve del cambiamento». Anche a Repubblica il professore dice: «La sinistra, per 20 anni, ha coltivato l’idea dell’intoccabilità dei magistrati. Da intellettuale non posso che criticare con forza questo appiattimento fideistico e dogmatico».

E poi c’è la coerenza, scrive “Lettera 43”. Grillo, spettacolo nel teatro sponsorizzato da Monte Paschi di Siena. Per lo show Beppe ha affittato il Mandela Forum di Firenze. Struttura sostenuta da Mps e Unicoop. Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. E anche l'integerrimo Beppe Grillo, in prima linea nella crociata contro lo strapotere delle banche, ha fatto un passo falso. Quando il leader M5s ha fatto irruzione all'assemblea dei soci della Monte Paschi di Siena il 29 aprile, non ha certo usato i guanti di velluto. «Questa è la mafia del capitalismo, non la Sicilia», ha sbottato il comico. «Qui siamo nel cuore della peste rossa e del voto di scambio. Mps è in tutti gli appalti». Concetto ribadito anche nel comizio di Piombino di sabato 26: «Noi siamo qui nel regno schifoso di questa peste rossa. Il Pd è la peste rossa e voi continuate e votarlo... Se credete ancora nei sindacati e nella politica io non voglio il vostro voto». Una «peste» della quale evidentemente Grillo non teme il contagio, visto che la tappa fiorentina del suo tour Te la do io l'Europa è stata organizzata il 12 aprile al Mandela Forum. La struttura è in gestione dell'associazione Palasport di Firenze, costituita da Claudio Bertini, Rosetta Buchetti e Massimo Gramigni, si legge nel sito. Ed è sponsorizzata tra gli altri anche da Monte dei Paschi e Unicoop Firenze. E anche sulle coop Grillo non ci è mai andato giù leggero: già nel 2009 quando in un post le definì «rosse sì, ma di vergogna». Nel 2012, a Budrio, in provincia di Bologna, il capo pentastellato in un comizio disse pure che il M5s non avrebbe vinto perché «stanno comprandosi i voti, stanno comprandoseli le cooperative». Certo è che né Mps né Unicoop hanno finanziato in alcun modo lo show. E che la struttura, a quanto risulta a Lettera43.it, è stata noleggiata dall'agenzia Ad Arte di Firenze al «solito costo e cioè l'8% dell'incasso netto», cifra che nessuno ha voluto dichiarare. Fatto sta che un affitto dagli «appestati» Beppe non l'ha disdegnato.

Codice di comportamento grillino: incoerenza a cinque stelle. Oggi tuona contro l'assenza del vincolo di mandato e minaccia una multa di 250 mila euro per i parlamentari grillini a Strasburgo che vengano sfiduciati dalla rete. Ieri difendeva l'articolo 67 della Costituzione con toni altrettanto accesi: ma qual è il vero Grillo? Scrive Paolo Papi  su “Panorama”. Il codice di comportamento per i futuri parlamentari europei (con annessa penalità da 250mila euro per quei dissidenti che rifiutano di dimettersi a seguito di una espulsione decretata dagli iscritti certificati del M5S) che Beppe Grillo ha pubblicato ieri sul suo blog (Comunicato pubblico numero 54 ) ripropone il tema, caro al MoVimento, dell'assenza del vincolo di mandato previsto da un articolo della Costituzione contro il quale il comico ha spesso polemizzato con toni infuocati e barricaderi: «L'articolo 67 della Costituzione della Repubblica italiana - tuonava Grillo in un recente post dal titolo Circonvenzione di elettoreconsente la libertà più assoluta ai parlamentari che non sono vincolati né verso il partito in cui si sono candidati, né verso il programma elettorale, né verso gli elettori. Insomma, l'eletto può fare, usando un eufemismo, il cazzo che gli pare senza rispondere a nessuno». Ora lasciamo perdere per un attimo la questione della palese illegalità di una norma tutta interna al Movimento  che obbligherebbe i parlamentari grillini a versare 250 mila euro qualora fossero espulsi e rifiutassero di dimettersi, sulla quale scrive oggi Pietro Salvatori dell'Huffington Post . Il punto è un altro e riguarda, come anche sostiene Grillo, l'omniscente memoria della rete, capace di conservare  dichiarazioni imbarazzanti in palese contraddizione con le nuove parole dei politici della Kasta, come la chiama, di cui a farne le spese sono stati negli anni quasi tutti i politici, da Matteo Renzi e Silvio Berlusconi. Peccato che in questo caso, a pagare pegno all'incoerenza, sia proprio Grillo   che, fino a qualche anno fa, difendeva l'articolo 67 della Costituzione sull'assenza del vincolo di mandato con toni tanto accesi quanto quelli che usa ora per chiederne l'abolizione. Il primo post è del 2010, ai tempi della furibonda polemica tra l'ex presidente della Camera Gianfranco Fini (di cui Berlusconi chiedeva le dimissioni) e il premier allora in carica. Scriveva Grillo: «L'articolo 67 della Costituzione è molto chiaro. Chi è eletto risponde ai cittadini, non al suo partito». Ancora più chiaro fu nel 2005 quando polemizzò in un altro post contro l'ex ministro Giovanardi, reo di avere dichiarato quello che oggi sostiene Grillo, e cioé che «Io non sono dipendente di nessuno se non dei miei elettori» e ancora «in democrazia ognuno risponde delle sue idee e degli elettori che lo hanno votato». Chiosava allora Beppe Grillo, nelle vesti allora di difensore dell'articolo 67 della Costituzione: «Se ne deduce che chi ha votato l’ex dipendente Giovanardi (ma come fa a sapere chi è se il voto è segreto?) deve pagargli lui solo lo stipendio, non tutti i cittadini italiani». Oggi, la nuova capriola. In nome di una coerenza che dura, come gran parte della classe dirigente, il tempo di un battito di ciglio.

LE MINACCE ED I RICATTI DELLE TOGHE A BERLUSCONI E L'IPOCRISIA DEGLI INDEGNI MIRACOLATI.

I giudici a Berlusconi: vietato parlare di noi. Il sostituto Pg di Milano, Antonio Lamanna, avverte il Cavaliere: "Affidamento a rischio, se attaccherà le toghe", scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Libero di fare la campagna elettorale, ma fino a un certo punto: se nei suoi interventi pubblici Berlusconi tornerà a prendersela con i magistrati (come fa con regolarità da vent'anni a questa parte) potrà venirgli revocato l'affido ai servizi sociali e scatterebbero gli arresti domiciliari. Trapelano oggi alcuni dettagli della requisitoria del procuratore generale Antonio Lamanna all'udienza del tribunale di sorveglianza chiamato a decidere sull'affidamento del Cavaliere ai servizi sociali. E si scopre che Lamanna ha in effetti dato parere positivo alla richiesta dell'ex premier, smentendo molte previsioni della vigilia: ma ha condito il suo via libera con una serie di condizioni che, se verranno fatte proprie dal tribunale, potrebbero limitare sensibilmente se non la libertà di movimento di Berlusconi la sua libertà di espressione. In particolare, Lamanna avrebbe ricordato che l'ammissione ai servizi sociali può essere concessa ma può anche essere revocata. E oltre alle violazioni degli obblighi consueti, ha inserito un'altra clausola che potrebbe spedire il Cavaliere agli arresti: se tornerà a "diffamare singoli magistrati", la Procura chiederà la revoca dell'affidamento. Se le polemiche del leader di Forza Italia riguarderanno la magistratura nel suo complesso, sembra voler dire Lamanna, questo verrà tollerato. Ma poi cita ad esempio delle violenze verbali del condannato un articolo del 7 marzo scorso del Corriere della sera in cui Berlusconi si lamenta del trattamento che gli viene riservato in genere. e parla di "mafia dei giudici": e pare di capire, che ce l'abbia con la magistratura complessivamente intesa. Si tratta dell'audio registrato durante una convention da parte di un dirigente di Forza Italia della Basilicata in cui Berlusconi afferma: «Dopo il 25 maggio, se non mi mettono in galera prima, vengo giù da voi. Ho detto, se non mi mettono in galera perché io sto davvero vivendo il periodo più brutto della mia vita perché dopo aver lottato per 20 anni per la libertà sono qui a difendermi da una mafia di giudici: il 10 di aprile mi diranno se mi mettono in galera o se mi mandano ai servizi sociali». In attesa di capire se e come il tribunale (la cui decisione è attesa a partire da martedì) recepirà l'input della procura generale, si apprende anche che il via libera all'affidamento è stato motivato da Lamanna con la frase "Non siamo né angeli custodi né angeli vendicatori". D'altronde, ha spiegato Lamanna ai giudici, siamo davanti a un condannato ultra settantenne, alla sua prima sentenza, a un reato fiscale che rientra tra quelli che non impediscono i benefici penitenziari, e a un sostanzioso risarcimento già versato alle vittime (in questo caso, il ministero della Finanze). "E noi dobbiamo trattare questo condannato come qualunque altro". Nel loro intervento i difensori del Cavaliere hanno ribadito al tribunale la richiesta che l'affidamento venga concesso con clausola sufficientemente ampie da garantire a Berlusconi la piena possibiità di svolgere il suo ruolo nella campagna elettorale per le europee. E, secondo quanto si è appreso oggi, le maglie dell'ordinanza attesa per la prossima settimana potrebbero essere ancora più ampie di quanto prevedono i moduli prestampati. A Berlusconi potrebbe venire concesso un permesso permanente per rientrare a casa anche dopo le 11 se spiegasse che i suoi impegni "lavorativi" si estendono anche alla sera. D'altronde quando Fabrizio Corona ottenne per un breve periodo l'affidamento, gli venne permesso di rientrare abitualmente alle tre di notte. Una libertà permanente di movimento anche fuori dalla Lombardia potrebbe venire concessa se Berlusconi spiegasse che la sua attività politica lo porta abitualmente anche in altre località. Al termine dell'affidamento l'ufficio Uepe dovrà stilare un rapporto sull'andamento dei colloqui con Berlusconi, e in base a questo il tribunale valuterà se considerare scontata la pena di un anno. Ma se prima di allora diventasse definitiva un'altra condanna, magari quella per il caso Ruby, l'indulto che ha ridotto a un anno la pena per il caso dei diritti tv verrebbe revocato, e il Cavaliere si troverebbe con altri tre anni da scontare.

Dall'adozione di questa misura i commenti non si contano.

Alessandro Sallusti contro Massimo D'Alema: "Ecco tutti i suoi scheletri nell'armadio", scrive “Libero Quotidiano”. La decisione di affidare Silvio Berlusconi ai servizi sociali, Massimo D'Alema ha mostrato tutto il suo disappunto, commentando così: "Normali cittadini vanno in prigione per reati minori". Baffino, insomma, sognava un Cavaliere in cella. Una frase che ha fatto discutere e infuriare Forza Italia. E una dura risposta a D'Alema è arrivata da il direttore de Il Giornale, Alessandro Sallusti, che in un editoriale si rivolge all'ex premier, ricordandogli in primis che "onestamente non conosco casi di normali cittadini che all'alba degli 80 anni scontano nove mesi di condanna chiusi in carcere". Chi non paga - Poi Sallusti alza il tiro: "Ma, ignoranza a parte, chiedo a D'Alema: un 'normale cittadino' che incastrato dai magistrati ammette di aver incassato e girato al partito una tangente da 20 milioni di lire deve restare a piede libero?". Il riferimento è alla mazzetta presa nel 1985, un reato "più che provato" che finì in prescrizione. "Già - continua Sallusti -, perché D'Alema non ha pagato il conto, né giudiziario né politico (è addirittura diventato primo ministro). Il direttore continua nel suo attacco: "Lui stesso (D'Alema) da sempre non si tratta da normale cittadino, prova ne è il caso di Affittopoli: casa di lusso ad affitto ridicolo da ente pubblico, alla faccia dei poveri cristi normali cittadini". E l'Ingegnere... Scheletro dopo scheletro, Sallusti arriva fino a far saltare fuori dall'armadio Filippo Penati, l'ex presidente della Provincia di Milano: "Colpisce poi che il rigore morale di D'Alema non sia emerso con forza quando il compagno Penati (...) venne beccato a intascare mazzette". "Penati l'ha sfangata: niente cella, niente condanna. Altra prescrizione nel silenzio di D'Alema". Ultimo, ma non ultimo, il riferimento a Carlo De Benedetti. "Nel 1993 - ricorda Sallusti - ammise di aver pagato 10 miliardi di lire in tangenti a partiti e funzionari per ottenere dallo Stato un appalto per la sua azienda, la Olivetti. Roba da prigione - sottolinea il direttore de Il Giornale -, per chiunque. Finì con un'ora, dicasi un'ora, di fermo in carcere e una assoluzione per prescrizione". Dunque, la conclusione. "Ha ragione D'Alema. Non tutti i cittadini sono uguali. Soprattutto se si chiamano Silvio Berlusconi: 43 processi in 18 anni sono davvero un trattamento eccezionale".

Il rigore prescritto di D'Alema. Le ipocrisie e gli scheletri nell'armadio della sinistra: anche Penati e De Benedetti sono "normali cittadini"? Scrive Alessandro Sallusti “Il Giornale”. Per Silvio Berlusconi può iniziare l'affidamento in prova per scontare la pena del processo Mediaset. Per nove mesi, una volta alla settimana, svolgerà servizi sociali presso una casa per anziani del Milanese. Per il resto, con qualche restrizione, potrà condurre la sua attività politica di sempre. Così ha deciso ieri il Tribunale di sorveglianza di Milano. La decisione non è piaciuta a Massimo D'Alema, che ha commentato: «Normali cittadini vanno in prigione per reati minori». Onestamente non conosco casi di normali cittadini che all'alba degli 80 anni scontano nove mesi di condanna chiusi in carcere. Ma, ignoranza a parte, chiedo a D'Alema: un «normale cittadino» che incastrato dai magistrati ammette di aver incassato e girato al partito una tangente da 20 milioni di lire deve restare a piede libero? E se questo «cittadino» fosse anche un politico, potrebbe continuare a farlo? Già, perché D'Alema non ha pagato il conto, né giudiziario né politico (è addirittura diventato primo ministro) per quella mazzetta presa nel 1985: guarda caso quel reato, più che provato, finì in prescrizione. Quindi se c'è uno che non è stato trattato da «normale cittadino» questo è proprio D'Alema. Del resto lui stesso da sempre non si tratta da «normale cittadino», prova ne è il caso di Affittopoli: casa di lusso ad affitto ridicolo da ente pubblico, alla faccia dei poveri cristi «normali cittadini». Colpisce poi che il rigore morale di D'Alema non sia emerso con forza quando il compagno Penati, ex presidente della Provincia di Milano e segretario di Bersani, venne beccato a intascare mazzette. Un «normale cittadino», ma direi anche un «normale politico» sarebbe finito diritto in carcere. Penati l'ha sfangata: niente cella, niente condanna. Altra prescrizione, nel silenzio di D'Alema. E per ultimo ricordo a D'Alema un altro caso di «non normale cittadino» che gli è sfuggito. Quello della tessera numero uno del Pd, Carlo De Benedetti. Nel 1993 ammise di aver pagato 10 miliardi di lire in tangenti a partiti e funzionari per ottenere dallo Stato un appalto per la sua azienda, la Olivetti. Roba da prigione per chiunque. Finì con un'ora, dicasi un'ora, di fermo in carcere e una assoluzione per prescrizione. Ha ragione D'Alema. Non tutti i cittadini sono uguali. Soprattutto se si chiamano Silvio Berlusconi: 43 processi in 18 anni sono davvero un trattamento speciale.

Tutti i segreti della D'Alema connection, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. Per inquadrare la sibilla D’Alema può esser utile soffermarsi sui rapporti tra l’ex leader ds e la magistratura pugliese, barese in primo luogo. Per farlo occorre lavorare pazientemente d’archivio, compulsare avvocati, carabinieri e pm locali non schierati, leggere con attenzione atti processuali e (suoi) proscioglimenti contestati, sfogliare un recentissimo libro dal titolo curioso (Toghe, patate e cozze, scritto da Tommaso Francavilla e Franco Metta) ma dai contenuti devastanti per l’immagine del preveggente ex leader ds. Che si è preoccupato di far eleggere in Parlamento alcuni corregionali pm, mentre altri se li è portati al governo, e uno l’ha messo addirittura a fare il sindaco nonostante fosse il titolare dell’inchiesta sugli sperperi miliardari della missione Arcobaleno dove figurava pure il suo nome. La storia è lunga. E ha natali lontani. Parte ovviamente dall’ondata giustizialista nazionale cavalcata dal Pci e portata avanti dai magistrati d’area, nei primi anni Novanta, tra avvisi di garanzia e carcerazioni preventive. Tra il 1990 e il 1995 cambiano cinque presidenti regionali, altrettanti sindaci baresi, non c’è giorno senza che più consiglieri comunali e funzionari di partito finiscano indagati o arrestati. Solo una parte (indovinate quale) è casualmente risparmiata dalle inchieste. Un’intera classe politica viene tolta di mezzo, e a nulla varrà la tardiva consolazione delle assoluzioni di massa degli indagati eccellenti e dei flop nelle aule di giustizia. Per l’ascesa in politica dei protagonisti pugliesi con la toga, gli esempi si sprecano. Il più eclatante riguarda la cosiddetta «Operazione Speranza», con riferimento al re delle cliniche private Francesco Cavallari e alle presunte tangenti elargite a destra come a sinistra. Tantissimi politici si ritirarono dalla politica attiva e bastò l’annuncio intimidatorio, poi rivelatosi inesatto, di una «seconda ondata», per bloccarne altri o per dirottarli all’improvviso altrove, come Pino Pisicchio pronto a candidare il fratello in Forza Italia, dopodiché riparò sotto Lamberto Dini (oggi è con Di Pietro). Si salvarono solo i comunisti, si salvò soprattutto D’Alema accusato d’aver intascato qualche soldarello pure lui quand’era ancora segretario del Pci pugliese e consigliere regionale. Il reato venne «derubricato» in «illecito finanziamento» datandolo prima dell’amnistia del 1989. Reato prescritto, pratica archiviata. Non tutti sanno che D’Alema, su quel finanziamento generosamente elargito dal boss della sanità, qualcosina aveva ammesso a verbale dopo che Cavallari al pm l’aveva tirato in ballo quale suo referente in Regione. Poi il re delle cliniche aggiunse: «Sa, signor magistrato. Non nascondo che in una circostanza particolare ho dato un contributo di 20 milioni al partito. D’Alema è venuto a cena a casa mia, e alla fine della cena io spontaneamente mi permisi di dire, poiché eravamo alla campagna elettorale 1985, che volevo dare un contributo al Pci». Accogliendo la richiesta d’archiviazione avanzata dal pm, il gip Concetta Russi il 22 giugno ’95 decise per il proscioglimento, ritenendo superfluo ogni approfondimento: «Uno degli episodi di illecito finanziamento riferiti – scrisse nelle motivazioni - e cioè la corresponsione di un contributo di 20 milioni in favore del Pci, ha trovato sostanziale conferma, pur nella diversità di alcuni elementi marginali, nella leale dichiarazione dell’onorevole D’Alema, all’epoca dei fatti segretario regionale del Pci (...). L’onorevole D’Alema non ha escluso che la somma versata dal Cavallari fosse stata proprio dell’importo da quest’ultimo indicato». Chi era il titolare dell’inchiesta che sollecitò l’archiviazione? Il pm Alberto Maritati, eletto coi Ds e immediatamente nominato sottosegretario all’Interno durante il primo governo D’Alema, numero due del ministro Jervolino, poi ancora sottosegretario alla giustizia nel governo Prodi, emulo di un altro pm pugliese diventato sottosegretario con D’Alema: Giannicola Sinisi. E chi svolse insieme a Maritati gli accertamenti su Cavallari? Chi altro firmò la richiesta d’archiviazione per D’Alema? Semplice: l’amico e collega Giuseppe Scelsi, magistrato di punta della corrente di Magistratura democratica a Bari, oggi titolare della segretissima indagine sulle ragazze reclutate per le feste a Palazzo Grazioli, indagine «anticipata» proprio da D’Alema. Il quale è stato generoso anche con un altro suo inquisitore: Michele Emiliano, attuale sindaco di Bari e segretario regionale del Pd, già titolare del procedimento sugli sperperi della missione Arcobaleno per aiutare i profughi kossovari che sfiorò proprio D’Alema e pezzi del suo governo, come il sottosegretario Barberi (rinviato a giudizio) e l’imputato sottosegretario diessino Giovanni Lolli, per il quale l’anno scorso il gip, su sollecitazione del pm Di Napoli, ha dichiarato il non luogo a procedere insieme a un altro ex ds, Quarto Trabacchi. L’inchiesta che per bocca del pm Emiliano inizialmente prometteva sfracelli e di cui poi chiese a sorpresa l’archiviazione (contestata dal procuratore Di Bitonto), col tempo s’è lentamente arenata fino alla contestuale candidatura del pm Emiliano – benedetta da D’Alema - a sindaco di Bari. Prima di entrare in politica, Emiliano ha iniziato a lanciare invettive politiche contro il sindaco precedente sulla scarsa lotta alla criminalità da parte dell’amministrazione cittadina eppoi s’è scoperto garantista di se stesso quando il suo nome comparve in una intercettazione telefonica con cui una famiglia mafiosa gli faceva la campagna elettorale, in vista di una vittoria che per la prima volta spostò a sinistra i quartieri più «a rischio» di Bari: oggi, insieme a Maritati, fa a gara a straparlare di pericolo di voto di scambio con la criminalità. Ma non c’è solo Bari nell’orbita di interesse della magistratura militante considerata vicina a D’Alema. C’è l’intera Puglia. C’è Taranto, dove la procura ha messo ripetutamente sott’inchiesta le ultime tre amministrazioni di centrodestra i cui rappresentanti sono stati «condannati a trascorrere decenni nelle aule di giustizia a discolparsi all’infinito da ogni genere di incriminazioni» – scrivono Metta e Francavilla –, senza riuscirci nel caso del povero Mimmo De Cosmo, ma solo perché morto anzitempo, stroncato dalle persecuzioni. In procura a Taranto, nel 2007, a ridosso delle amministrative, calò l’allora sottosegretario Maritati, insieme a esponenti locali dei Ds. Voleva perorare un’accelerazione delle inchieste a carico degli ex amministratori di centrodestra. L’unico a ribellarsi fu il procuratore capo che parlò di un assedio stalinista al suo ufficio, «volto a fargli aprire comunque inchieste anche in assenza di adeguati fondamenti». E c’è Brindisi, dove il potere dalemiano imperniato sul triangolo Bargone–La Torre-Di Pietrangelo «avrebbe fortissimi riferimenti nel palazzo di giustizia - si legge sempre nel libro-shock – e aveva scientificamente massacrato la vecchia guardia democristiana e socialista, con la quale pure aveva condiviso molte vicende, quali la gestione – tramite il vicepresidente dell’Enel Valerio Bitetto, che chiamò in causa D’Alema – dei succulentissimi appalti della centrale nucleare a costruirsi negli anni ’80...». L’inchiesta era quella sulle operazioni fatte intorno a un famoso rigassificatore inglese, inchiesta che si soffermò su alcune società off-shore in paradisi fiscali riconducibili a Bargone coinvolte nelle indagini che avevano inguaiato l’ex sindaco Antonino.
Intanto nella metà del 1995 inizia a far parlare di sé, anche per inchieste «politiche», un altro magistrato predestinato a sedere a Palazzo Madama col Partito democratico: Gianrico Carofiglio. Sul pm-giallista si è abbattuta l’ira del ministro pugliese Raffaele Fitto a causa della moglie del neoparlamentare che è nel pool sui reati contro la pubblica amministrazione, competente quindi a indagare «sul Comune di Bari guidato da un collega e amico del marito». Prima ancora la sinistra aveva puntato sul pm barese Nicola Magrone, oggi procuratore a Larino, autore di uno spettacolare arresto, «a ridosso delle elezioni politiche del 1994, con due imputazioni rivelatesi assolutamente fasulle, del Cda dell’Irccs “De Bellis” il cui presidente era stato designato quale possibile candidato del Polo. Fu il suo ultimo atto prima di mettersi in aspettativa in vista dell’elezione alla Camera». L’inchiesta poi abortì. Come sono abortiti tantissimi altri procedimenti nati nei confronti di esponenti del centrodestra a ridosso delle elezioni. Oggi l’andazzo si ripete a poche ore al ballottaggio dove concorre con qualche difficoltà l’ex pm della procura di Bari, Michele Emiliano. Sarà un caso, ma è sempre la stessa, identica storia. Stavolta con l’aggravante della sibilla D’Alema.

Ed i Grillini?

"Meetup 5 Stelle come covi di vipere". La verità sulla base grillina svelata da un attivista campano, scrive Claudia Daconto su “Panorama”. Questo articolo nasce da due lettere recapitate a Panorama e da una lunga conversazione con un attivista grillino che frequenta, da molto tempo, più di un Meetup in Italia. Pur preferendo rimanere anonimo, “per non essere espulso e perdere così la possibilità di scoprire e denunciare queste cose”, Antonio (lo chiameremo così per via della sua origine campana) ha deciso di descrivere “il covo di vipere” in cui si è ormai trasformato, a suo avviso, il Movimento 5 Stelle fondato da Beppe Grillo e Gianroberto Casaleggio. Perché lo ha fatto? I militanti che sui social network si scannano tra di loro e soprattutto scannano i presunti traditori o gli avversari politici, direbbero perché Antonio è una “spia”, uno che vuole gettare fango sul movimento attraverso noi giornalisti “pennivendoli”. Ma se Antonio ha deciso di fare, dalla base, quello che alcuni parlamentari hanno fatto dai palazzi a costo di essere sottoposti a processi-farsa, ostracizzati o costretti ad andarsene, è perché anche lui ha creduto, e in parte ancora crede, in Grillo e nel Movimento. Senza contare i tanti attivisti onesti, “vere vittime di un certo modo di far politica che risulta essere più vecchio del vecchio”, la verità è che, dopo aver investito tante speranze in un progetto, “oggi non è facile chiudere la porta e andare via”. Tuttavia, a differenza di quanto senatori e deputati ortodossi si sforzano di propagandare, il Movimento, in realtà, assomiglierebbe molto di più a un partito tradizionale con le se sue beghe, invidie e risse interne che a un gruppo di amici solidali tra loro dove ciascuno vale uno e le decisioni vengono prese collettivamente e democraticamente. “Le nostre riunioni sul territorio – spiega Antonio - a partire dai comuni più piccoli sino a quelle regionali, non sono consessi fraterni tra panini e bicchieri di vino, come si vuol far intendere a chi è là fuori. L’immagine di un Movimento più simile a una comunità francescana che a un partito tradizionale è la più grossa bugia che come un virus è stato inoculato nelle menti di tanti italiani che hanno votato e voterebbero oggi gli uomini e le donne di Grillo”. Come in qualsiasi altro partito, talvolta ciò che anima i dirigenti, ma anche la cosiddetta “base” che si dà da fare sul territorio, è l'ambizione di poter, un giorno, raccogliere i frutti della propria militanza. Per questo, secondo Antonio, gelosie, ripicche, addirittura guerre sarebbero all'ordine del giorno. “In fondo abbiamo un vice-presidente della Camera (Luigi Di Maio, ndr) che è uno studente fuori corso di giurisprudenza, perciò è normale che tutti gli altri pensino che se ce l'ha fatta lui può farcela chiunque”. Ma come? Antonio spiega la funzione strategica del Meetup, “il vero strumento per fare carriera”. Basta infatti versare 79 euro a semestre alla società americana che gestisce il social network, nominarsi – o farsi eleggere - “organizer” e il gioco sarebbe fatto. Per aprire un Meetup non serve infatti né il benestare di Beppe Grillo né un certo numero di iscritti “veri”. Teoricamente si può infatti inventare l'esistenza di 200 persone, fare un bonifico e usare liberamente il simbolo del Movimento. Oppure, circostanza verificata direttamente da Antonio, far iscrivere gente totalmente disinteressata “che però fa numero”. Il tutto finalizzato ad acquistare sempre maggiore visibilità in vista delle candidature, soprattutto quelle locali. Ma non solo. Quelle per le prossime elezioni europee sono state decise, come sempre, attraverso il voto in rete. Antonio racconta che già oltre un anno fa, prima del giugno del 2013, molti avevano iniziato a organizzarsi in vista dell'appuntamento del 25 maggio. Prove al momento non ce ne sono, ma pare che siano state fatte iscrivere al blog di Beppe Grillo, con il fine di esprimere la propria preferenza, anche persone vicine alla criminalità organizzata. La più votata in Campania è risultata, per esempio, una studentessa di 24 anni, Luigia Embrice, “talmente inadeguata e impreparata – dice Antonio - da avermi fatto rimpiangere le varie Nicole Minetti”. Insieme al fidanzato, la Embrice avrebbe girato tutta la regione “con un Mercedes da paura e a me è stato riferito che il suo futuro suocero, il padre del fidanzato Luigi Cirillo, sarebbe vicino ad ambienti malavitosi”. Ovviamente si tratta solo di voci, dicerie, su cui Antonio ammette di non aver mai avuto riscontri “altrimenti andrei dritto in Procura”. Ma per dare conto del clima interno, Antonio riferisce anche di ricatti, denunce per stalking e molestie tra attivisti dello stesso Meetup, di una situazione, insomma, che sfugge a qualsiasi controllo. Il paradosso sarebbe infatti proprio questo: mentre la stampa descrive Grillo e Casaleggio come dittatori che agiscono con il pugno di ferro e a suon di espulsioni, rispetto a ciò che accade a livello locale essi sono invece totalmente indifferenti, o disinformati, e pertanto ininfluenti. Grillo e Casaleggio eserciterebbero un potere, quasi assoluto, praticamente solo su poco più di cento persone, ossia i parlamentari eletti alla Camera e al Senato. Antonio racconta anche di aver scritto ai deputati e senatori campani decine di lettere senza mai aver ricevuto risposta. “Si pubblicizzano come diversi dagli altri, non si fanno chiamare onorevoli apposta, ma sono uguali a loro e da quando hanno messo piede in Parlamento, oltre a presenziare ad alcune iniziative, di quello che accade sul territorio si disinteressano completamente”. Chi comanda davvero, insomma, sarebbero i famigerati organizers, che aprono e chiudono le discussioni in rete, che censurano le critiche e il dissenso quando si manifesta sia on line che in occasione delle assemblee locali, che decidono le candidature. “E che spesso e volentieri raccolgono documentazione sugli iscritti per aver in mano un'arma di ricatto per azzittarli quando provano ad alzare la testa”. Anche se, di solito, almeno a giudicare dalle conversazioni pubbliche su Facebook, basta molto meno di un'attività di dossieraggio in grande stile. Proprio ciò che teme Antonio, sentirsi lanciare la solita “ragionata” proposta: “Se non ti sta bene così, vattene”.

E il nuovo centrodestra?

Quel bacio con il boss che imbarazza Angelino. L'Ora della Calabria pubblica una foto scattata nel 1996 alle nozze della figlia  del mafioso Croce Napoli. Alfano nega tutto, poi ricorda: "Ma non lo conoscevo", scrive Francesco Cramer su “Il Giornale”. È l'Ora dei baci per Angelino. Più che Perugina al curaro. Il quotidiano L'Ora della Calabria, infatti, scudiscia Alfano in prima pagina. Titolo: «Ora dice no ai voti mafiosi. Ma baciò il boss Croce Napoli». C'è tanto di foto: un giovane Angelino, sorridente e occhialuto, si abbassa a baciare un canuto signore; guancia sinistra e poi guancia destra. Uno scatto che scotta. La notizia, già nota, va inserita nel contesto: tra il quotidiano e gli uomini di Alfano da tempo son botte da orbi. Il senatore calabro e alfaniano Tonino Gentile, infatti, è accusato di aver fatto pressioni all'editore del quotidiano per stoppare l'uscita di un articolo dove si raccontava di un indagine sul figlio Andrea. Il direttore del giornale, Luciano Regolo, ha denunciato tutto e acceso la miccia che ha fatto scoppiare il caso. Tanto che Gentile, appena nominato sottosegretario ai Trasporti, ha fatto le valigie per dimettersi dal ministero a tempo di record. Agli alfaniani, calabri e non, non è andato giù. Così, ieri l'Ora della Calabria dà un'altra sberla ai diversamente berlusconiani. Ma come? «Al Palafiera di Roma Alfano urlava "non vogliamo i voti delle mafie" e in prima fila c'era il numero due dell'Ncd, Renato Schifani, indagato a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa». «Amnesie?», si chiede il giornale. Forse sì, come quel bacio scomodo quanto un sasso nelle scarpe. La vicenda è stata raccontata nel 2002 da Repubblica. Correva l'anno 1996 e Angelino, giovane e promettente consigliere regionale, viene pizzicato a un banchetto nuziale inopportuno. Si tratta del matrimonio di Gabriella, figlia del boss di Palma di Montechiaro, Croce Napoli, che festeggia a Villa Athena, spettacolare albergo della Valle dei Templi. Il boss agrigentino, sbaciucchiato da Alfano e deceduto nel 2001, ha un curriculum imbarazzante: manette per associazione mafiosa, concorso in sequestro di persona, omicidio. Inizialmente Alfano nega: «Mai conosciuto Croce Napoli. Mai partecipato al matrimonio della figlia». A chi cresce in un campo infestato da ortiche può capitare di pungersi. Anche inavvertitamente. E, va detto, senza alcuna responsabilità penalmente rilevante. Nega, però. Peccato che di quel bacio pericoloso ci sia pure un video, mandato in giro da qualche avversario politico di Angelino. Alfano si concentra meglio e quindi trova la memoria: «Ah, sì. Ora ricordo. Ricordo di esserci stato ma su invito dello sposo, non della sposa. Non conoscevo la sposa, men che meno suo padre che, ovviamente, mi fu presentato lì dallo sposo e che solo adesso apprendo essere tale Croce Napoli». «Mascariamento», la definisce Alfano: ossia la tecnica per la quale in Sicilia si getta un'ombra su una persona, facendola sospettare di collusione con la mafia. Nel suo libro La mafia uccide d'estate, Angelino ritorna su quelle nozze che definisce «La mia piccola croce». Racconta quell'inconsapevole passo falso: «Ricevevo numerosi inviti a eventi: matrimoni, battesimi, prime comunioni, cresime». A comprare regali per tutti, per cortesia che si usa al Sud, era la madre. Una sera Angelino sta uscendo per andare a un altro matrimonio ma la madre lo chiama: «I regali che ho comprato per te mi fanno confusione in casa: per favore, liberamene! E visto che stai andando al matrimonio di Germano, passa anche da villa Athena e consegna il regalo a un tale Francesco Provenzani che si sposa proprio stasera. Lo feci. Consegnai il regalo, feci gli auguri agli sposi e me ne andai». Di tale Francesco Provenzani, Alfano dice che gli sembrava un bravo ragazzo e penso che lo sia stato e lo sia ancora. «Ma non l'ho più visto. Ha sposato la donna che amava e dovuto subire l'effetto collaterale del suocero sbagliato». E il ministro dell'Interno gli effetti del party sbagliato.

Ed i leghisti?

Un vecchio detto: chi sputa in aria, in faccia gli cade. Report-Tosi, chiesto al prefetto lo scioglimento per mafia. Presentata una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona, scrive Sigfrido Ranucci (collaborazione di Giorgio Mottola) su “Il Corriere della Sera”. Dopo la puntata di Report del 7 aprile 2014, è stata presentata al prefetto di Verona una richiesta formale di accertamenti sulle infiltrazioni mafiose nel Comune di Verona. A chiederla è stato un parlamentare veronese di centrodestra, Alberto Giorgetti. Qualora l’indagine dovesse accertare le infiltrazioni, il Comune di Verona potrebbe essere sciolto per mafia. “Se le cose dette da Report sono vere – ha dichiarato Giorgetti – ci sarebbe un collegamento diretto tra la ‘ndrangheta e assessori o eletti appartenenti alla maggioranza di Flavio Tosi per cui ,secondo l’attuale normativa antimafia, sussisterebbero automaticamente i presupposti per lo scioglimento”. Nel corso dell’inchiesta di Report è emerso il ruolo di alcune famiglie di costruttori calabresi trapiantanti a Verona e molto vicini a esponenti di primo piano dell’amministrazione Tosi. In particolare il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha per la prima volta rivelato di aver partecipato alcuni anni fa a un summit in cui erano presenti boss della ndrangheta calabrese e rappresentanti di una famiglia di costruttori veronesi. In onda testimonianze su «appalti e favori», sotto accusa il sistema del sindaco, scrivono Angiola Petronio Alessio Corazza su “Il Corriere Veneto”. Tosi, il video e gli «amici» calabresi.

Bufera Report. La replica: spazzatura. In onda testimonianze su «appalti e favori», sotto accusa il sistema del sindaco. Roba da notte dei Mondiali. Con tanto di visione organizzata. Inviti pre e post prandiali. Schermi centa-pollici lustrati. Gruppi organizzati. Tamtam sui social network. Pizzerie al taglio con le bande svuotate. Roba da far venire la colina alla bocca degli ascolti, neanche si parlasse dello sbarco sulla luna. E alle 21,05 una sintonizzazione all’unisono. Una trasmissione e una città lunedì sera, Verona. E mica solo la città. E la provincia… E oltre… All’ora dell’imbrunire si sono armonizzati su un unico programma i televisori scaligeri. Quel «Report» di cui ormai da qualche mese a Verona si sente parlare come dell’aumento della benzina. Ogni tre per due. «Doveva essere un pezzo breve, partito come accade da una segnalazione che segnala appunto appalti anomali e l’ombra di un ricatto - dice la Gabanelli -. Il nostro Sigfrido Ranucci comincia il suo lavoro d’indagine, ma siccome l’ambito non è esattamente quello della foca monaca, ma un terreno un po’ più scivoloso, a metà strada succede questo». E il servizio parte con l’annuncio di Tosi sulla querela «preventiva» contro Ranucci, «reo» tra l’altro - secondo il sindaco - di aver offerto denaro in cambio di un fantomatico video hard con lui come protagonista. Peccato che le immagini mandate in onda da Ranucci dimostrino come siano stati quelli che poi si sono rivelati i «sodali» di Tosi, nel trappolone tirato a Report, a chiedere del denaro. In particolare quel Sergio Borsato che prima gli ventila il video e poi spiega che il depositario «dobbiamo pagarlo… ». Il depositario del video che poi sarà quello che filmerà Ranucci per consegnare il tutto a Tosi. Massimo Giacobbo, «un faccendiere - racconta un imprenditore intervistato da Ranucci - che faceva parte di un’organizzazione attraverso la quale venivano gestiti tutti gli appalti pubblici. E lui ha sempre vantato dei grandi appoggi politici… con la Lega Nord e in particolare ha sempre fatto anche il nome di Tosi». Quel video un anonimo ex dirigente provinciale del Carroccio dice di averlo visto. «C’è sempre ’sta situazione. Vestito da donna, truccato in maniera incredibile, sempre da donna…». Come dice la Gabanelli «delle preferenze sessuali non ce ne frega niente». «Ma - aggiunge - il punto era capire se questo video compromettente, presunto oggetto di ricatto per un amministratore pubblico, esiste o no e chi lo utilizza…». Il dubbio Report non lo ha dissolto. E del video non c’è neanche un fotogramma. Così si passa ad altro argomento. Gli eventuali rapporti tra Tosi e alcuni calabresi, indagati e invischiati in indagini sulla ’ndrangheta e la malavita organizzata. A partire da quelle cene a Crotone, con Tosi a fianco di Stanislao Zurlo, presidente della locale Provincia per il quale - spiega Ranucci - è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. «E’ stato tirato in ballo per accordi elettorali con una delle più potenti cosche calabresi, quella dei Vrenna », continua il giornalista di Report su quella cena organizzata da Katia Forte, consigliera comunale della Lista Tosi. E a capo di quella tavolata chi c’è? Quel Raffaele Vrenna, presidente del Crotone calcio che era stato condannato in primo grado per concorso esterni alla mafia e poi assolto. Con il capo della divisione distrettuale antimafia Antonio Lombardo che lo ha definito «un imprenditore border-line». Dopo la trasmissione, Katia Forte specifica: «La cena di Crotone è stata pagata da me e mio padre, non da un imprenditore border- line». E Ranucci spiega che di quel Raffaele Vrenna hanno parlato tre collaboratori di giustizia. Uno è Luigi Bonaventura che indica tra i boss «orbitanti al Nord» e in particolare a Verona un componente della famiglia Giardino. «Numerosa famiglia di costruttori di origini crotonesi - spiega Ranucci - alcuni dei quali con reati alle spalle come riciclaggio, rapina, detenzione di stupefacenti, truffa e ricettazione. A fianco di Antonio Giardino c’è Francesco Sinopoli. Quel Sinopoli candidato ed eletto nella Lista Tosi. I Giardino, secondo il racconto di un imprenditore, sono stati presenti nelle cene organizzate per la campagna elettorale di Tosi e del suo assessore di origine calabrese, Marco Giorlo». Parte l’intervista a un uomo che racconta che a quelle cene si parlava di appalti «con il sindaco Tosi» e al quesito se c’erano anche altri politici dice «c’era Casali, (l’attuale vicensindaco Stefano Casali, ndr) e Marco Giorlo». Ma Casali precisa che lui in Calabria non c’è mai stato. Nel servizio parte la sequela su quello che è ormai l’ex assessore allo Sport, trombato da Tosi proprio per le sue dichiarazioni «sventate» a Report. E anche per Giorlo c’è la parentesi a luci rosse con intervista a una donna romena che lo accusa di averle chiesto una prestazione sessuale in cambio di un lavoro e di aver ricevuto, per non denunciare, 5mila euro che - stando a quanto dice Ranucci - arriverebbero da uno dei calabresi presenti alle famose cene pre elettorali. Si parla poi del caso dei quadri di Barbara Pinna, esposti alla Gran Guardia. La Pinna moglie del comandante della Guardia di Finanza, Bruno Biagi. Su quell’evento è stato presentato un esposto alla Corte dei Conti. Poi è la volta degli incarichi alla sorella di Tosi. Quella Barbara assurta da amministratrice condominiale a consigliere di due Casse di Risparmio. E poi si arriva al nodo Agec. Intervista a Michele Croce, ex presidente dell’azienda. Di cui non vengono ricordate, però, le spese esorbitanti per l’ufficio, mentre gli viene riconosciuto il merito di «aver fatto interessare la procura e si scopre che i dirigenti dell’Agec avrebbero pilotato l’appalto per le mense scolastiche». Vicenda ormai nota ai veronesi. «Certamente rifarei le denunce al sistema che per primo ho fatto - ha commentato Croce dopo aver visto il servizio -ma la sensazione oggi è che si sia toccato il fondo. L’abisso, se pensiamo a certi rapporti con appartenenti ad associazioni malavitose». E Bertucco? «Per i veronesi - dice - il sistema di potere messo in piedi dal sindaco è cosa risaputa. Il problema sta nel fatto che Tosi non ha mai voluto chiarire certi aspetti. E mi chiedo come un uomo della sua esperienza abbia potuto fidarsi di gente come Borsato e Giacobbo». Due tosiani che preferiscono rimanere anonimi commentano: «Temevamo peggio». E Ranucci torna a testa bassa cui crotonesi e altri appalti. Come quello da 3 milioni preso da Roberto Forte, fratello di Katia. E poi sulla graticola ci finisce il tabaccaio ormai più conosciuto di Verona. Quel Maurizio Filippi la cui somma di cariche impressiona anche Ranucci. A parlare con il giornalista di Report dei legami tra Tosi e Filippi è anche Patrizia Badii, in questi giorni al carcere di Montorio con gli altri indipendentisti veneti accusati di terrorismo. E anche qui viene fuori il discorso del sesso. «Lui (Filippi, ndr) ha una foto, quella l’ho vista, in un night dove gh’è Filippi. Tosi, Culè, Paternoster... E gh’è un trans...». E ti pareva. «Ora - chiude la Gabanelli - se alla base di decisioni non proprio trasparenti e spiegabili c’è il mistero di video o foto hard, noi non lo sappiamo. Sappiamo che qualche interrogativo la sua amministrazione lo pone. Tosi ha preferito la strada delle querele preventive...». «Sono delle merde», il commento del sindaco in serata. Da ambienti a lui vicini trapelano altre considerazioni. «Borsato non ha cercato Ranucci, ma è stato Ranucci a cercare Borsato su indicazione della Badii. Inoltre, è stata trasformata una cena con delle istituzioni a Crotone in una cena di ’ndrangheta, quando anche i giornalisti di Report, sotto mentite spoglie, vi hanno potuto partecipare. Infine, Giacobbo non è conosciuto da queste parti. Il tutto per dire che quello che abbiamo visto è il classico esempio di giornalismo spazzatura».

Report, fra cene e appalti, la «Calabria connection». La tavolata con Vrenna a Crotone, i rapporti con le famiglie anche a Verona, l'anonimo che accusa: «Si parlava di lavori e assunzioni», scrive “L’Arena”. Il capitolo dell'inchiesta di Report relativa ai rapporti tra l'amministrazione Tosi e le famiglie calabresi in odore di criminalità si apre con le immagini di Crotone e dell'ormai famosa cena organizzata per ricevere sostegno alla fondazione Ricostruiamo il Paese. Sono presenti alla tavolata il sindaco Tosi e la consigliere comunale Katia Forte, figlia di Giovanni Forte Pompei, imprenditore del settore delle pulizie già coinvolto nella tangentopoli degli anni Novanta e originario appunto di Crotone. «Al fianco di Tosi», dice Ranucci con voce fuori campo, «siede il presidente della Provincia crotonese Stanislao Zurlo. Per lui è stato chiesto il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. È stato tirato in ballo per accordi elettorali con una delle più potenti cosche calabresi, quella dei Vrenna». A capo della tavolata siede Raffaele Vrenna, imprenditore leader nel campo dello smaltimento dei rifiuti e presidente del Crotone calcio. Gli onori di casa li fa Katia Forte che regala libri di Verona. Uno dei commensali racconta dei legami tra Raffele Vrenna e l'omonima cosca; si dice che tutta la serata è offerta da Vrenna e la stessa Katia Forte ringrazia «gli sponsor della serata in particolare Raffaele Vrenna amico carissimo», anche se poi continuerà a dire che il conto è stato pagato da suo papà Giovanni. Vrenna è stato condannato in primo grado, assolto in secondo grado nel 2010 ma viene definito dal capo della Dda di Catanzaro Antonio Lombardo un «imprenditore border line» sempre sul crinale tra «la criminalità organizzata e i legittimi rapporti di impresa con le istituzioni». Di Raffaele Vrenna parlano tre collaboratori di giustizia. Uno di questi è intervistato da Report. Si tratta di Luigi Bonaventura, reggente del clan Vrenna-Bonaventura. Uno che guidava il braccio armato della cosca e ha partecipato alle stragi della 'ndrangheta degli anni Novanta come piazza Pitagora. «Le aziende di Raffaele Vrenna si può dire tranquillamente che sono le aziende della famiglia Vrenna-Bonaventura. Quindi proventi di quelle aziende sono serviti a finanziare tante attività illecite della famiglia: soldi per acquistare armi, pagare medici, pagare avvocati». Armi per omicidi? «Anche e ad alcuni ho partecipato personalmente». Vrenna nega la ricostruzione di Bonaventura, ma Bonaventura parla anche di un summit delle cosche con imprenditori del Nord venuti appositamente da Verona nel 2006 (va detto che Tosi è stato eletto sindaco però nel 2007).
«Uno di questi boss orbitanti al Nord afferma a un altro affiliato che finalmente il partito che odia i terroni ce l'avevano in mano». E chi c'era di Verona in particolare? Risponde Bonaventura: «C'era un componente della famiglia Giardino». I Giardino, ricostruisce Report, sono una famiglia di costruttori di origine crotonese e da tempo vivono a Verona. Hanno la passione del soft air (guerre simulate). «Alcuni di loro hanno sulle spalle reati di riciclaggio, rapina, detenzione di stupefacenti truffa e ricettazione». Viene mostrata una foto dove a fianco di Antonio Giardino, c'è Francesco Sinopoli, candidato ed eletto nella Lista Tosi (è in quinta circoscrizione). I Giardino, prosegue Report, «secondo il racconto di un imprenditore sono stati presenti nelle cene elettorali della campagna di Tosi e dell'assessore Marco Giorlo, di origine calabrese, con il quale il sindaco passa le vacanze in Calabria». Parla l'imprenditore, oscurato in volto, sul ponte della Musica di Roma, intervistato da Ranucci. «C'erano i Giardino, i Paglia, i Marziano, il sindaco Tosi...». Si parlava di appalti in queste cene? «Con il sindaco Tosi». C'erano anche altri politici? «Casali e Marco Giorlo». Si parlava di assunzioni per i calabresi che avrebbero votato Tosi? «Sì, assunzioni nella Serit, ditta che collabora con l'Amia per i rifiuti. Sono andato anch'io a lavorare lì». Si raccoglievano fondi elettorali? Chi li raccoglieva? «A volte anche il segretario di Giorlo. Io ho dato 15 mila euro. In nero, ovvio». Parte l'intervista a Giorlo, sul campo del Bentegodi. Si parte dai voti: «Sì sono una macchina da voti». La comunità calabrese è numerosa vero? «Sì». Hanno raccolto finanziamenti per lei alcune famiglie? «No, finanziamenti no. Hanno fatto delle iniziative loro». Hanno raccolto soldi? «Non me lo ricordo, sinceramente. Io ho dichiarato tutto». In realtà nelle spese elettorali Giorlo non ha dichiarato proprio nulla. E i calabresi sono andati a festeggiare addirittura a Palazzo Barbieri dopo la vittoria elettorale. Ci sono le foto con bottiglie di champagne e alcuni capifamiglia calabresi. «Ma scusi, per un calabrese... No assolutamente no». Invece le foto dicono che il costruttore crotonese Antonio Paglia e un componente della famiglia Giardino sono in municipio e brindano alla vittoria del loro assessore. Lo sa che alcuni di loro utilizzano il nome di Giorlo per farsi dare dei lavori? «Non lo sapevo, sinceramente». Si tratta di Armando Marziano che si sarebbe portato a casa appalti per centinaia di migliaia di euro per la manutenzione delle case Ater. Ne vuole ancora e si rivolge al dipendente che si è rifiutato di favorirlo. E qui parla Matteo Castagna: «Mi è stato detto: se tu fossi in Calabria adesso saresti già in un pilone di cemento perché devi imparare a farti i c... tuoi». Anche in questo caso, si finisce a parlare della Lista Tosi. Armando Marziano è fratello di Pasquale Marziano, candidato nella lista del sindaco alle ultime elezioni. «Si vantava», ricorda Castagna, «di avere amicizia con il sindaco Tosi e amicizia e frequentazioni con l'assessore Giorlo». Ritorna in campo Giorlo. «Che siano arrabbiati perché non lavorano... Presentano il conto? Ma non puoi dare appalti». E poi parte una registrazione di Armando Marziano che ammette di avere un appalto grazie alle amicizie. Ma le somme più cospicue sarebbero nei lavori tra privati per far lavorare le ditte indicate. L'imprenditore oscurato afferma di aver avuto una proposta per costruire dieci appartamenti, ma che l'assessore Giorlo voleva una percentuale: «Voleva il 20 per cento, in nero: su un milione, 200 mila euro». Festini hard? «Sì organizzati per dare lo zuccherino per avere in cambio i lavori. C'era Marco Giorlo al mille per mille. Io non ho mai partecipato ma prendevo le donne e le portavo lì». E Giorlo che dice? «Invenzioni. Sono una persona corretta e sono sposato da 32 anni». E poi c'è il capitolo della ragazza rumena che lo aveva denunciato per tentata violenza e che poi l'ha ritirata dietro pagamento. La cifra sarebbe stata messa a disposizione da uno dei calabresi delle cene elettorali: 35 mila euro. La ragazza rumena dice di averne ricevuti solo 5 mila in banconote da 500. E il resto?

Le 9 domande del Pd M5S: «Si commissari». Benciolini: «Da anni governa la politica degli amici  degli amici». Borghesi: «Aperto il vaso di Pandora», scrive G.Coz. su “L’Arena”. Rispettivamente consigliere regionale e consiglieri comunale del Pd, Franco Bonfante e Michele Bertucco sono apparsi l'altra sera nel servizio di Report intervistati da Sigfrido Ranucci. Il giorno dopo la trasmissione dicono: «L'operazione con cui Tosi ha tentato di screditare i giornalisti di Report si è trasformata in un boomerang con l'effetto di moltiplicare i già tanti dubbi circa l'operato della sua amministrazione». E come Repubblica lanciò le 10 domande a Silvio Berlusconi dopo la scoperta del bunga bunga, ora Bonfante e Bertucco rivolgono a Tosi 9 domande pubbliche.

NOVE DOMANDE.

1) «Perché si è servito di due personaggi come Sergio Borsato e Massimo Giacobbo nell'operazione tesa solo a creare i presupposti della diffamazione e delegittimare l'inchiesta di Report?».

2) «Perché a distanza di giorni dall'anticipazione della trasmissione Report non ha ancora chiarito la natura dei suoi rapporti con Massimo Giacobbo, è singolare che Tosi non l'abbia nominato nel corso della sua conferenza stampa. Lo voleva tutelare? E perché?».

3) «Era a conoscenza che Massimo Giacobbo si è presentato per aiutare imprenditori in difficoltà in nome di rapporti privilegiati con la sua corrente politica e con Lei in particolare?».

4) «È vero che ha avuto contatti nel corso delle cene elettorali con esponenti della famiglia Giardino, i cui rappresentati avrebbero partecipato in qualità di imprenditori a un summit di mafia tenutosi a Crotone nel corso del quale secondo quanto emerso dalla trasmissione di Report i boss avrebbero parlato di un accordo con la Lega Nord?».

5) «Qual è la natura dei rapporti con gli altri imprenditori crotonesi presenti alle cene elettorali? Corrisponde al vero che si è parlato di appoggio elettorale in cambio di appalti e assunzioni presso un'altra società partecipata, la Serit, che veniva indicata come camera di compensazione?».

6) «È vero che nelle cene elettorali sono stati raccolti fondi in nero per la campagna elettorale del suo assessore Marco Giorlo?».

7) «Qual è la natura dei suoi viaggi a Crotone, con persone a nome della sua fondazione politica, e in particolare qual è la natura dei contatti con l'imprenditore Raffaele Vrenna, giudicato dal capo della Dda di Catanzaro un imprenditore border line?».

8) «È vero che niente è stato corrisposto per l'uso della Gran Guardia da parte della signora Barbara Pinna? Se è vero, perché tale beneficio ben sapendo che in questo modo avrebbe messo in una situazione di grave difficoltà e inopportunità il comandante della Guardia di Finanza di Verona? (marito della Pinna, ndr)».

9) «Vuole finalmente pubblicare i nomi dei finanziatori della sua fondazione e della sua ultima campagna elettorale, così da tener fede ai ripetuti propositi di trasparenza?».

BORGHESI. «Alla luce di quanto emerso dalla trasmissione e dopo l' arresto del suo vicesindaco, il sindaco Tosi dovrebbe trovare la dignità di fare un passo indietro». A sostenerlo è Antonio Borghesi, ex parlamentare e già presidente della Provincia che ricorda di aver negato, proprio nel corso del suo mandato, l'utilizzo di una sala della Provincia a Katia Maria Forte per una iniziativa del padre con imprenditori crotonesi all'epoca noti alle cronache giudiziarie. «Invito tutti i veronesi ad avere il coraggio di conoscere quanto da anni vedono: legami tra precise realtà imprenditoriali e l'amministrazioni. Le querele preventive non possono più tappare il vaso di Pandora». M5S. Risentiti per non essere tra gli intervistati da Report, i consiglieri del Movimento 5 stelle, attaccano: «Non siamo stupiti di quanto emerso dal servizio, è da tempo che sospettiamo che l'amministrazione abbia cose da nascondere visto che ci impedisce  l'accesso agli atti», dice Gianni Benciolini annunciando che il gruppo chiederà il commissariamento di Palazzo Barbieri. «Sono anni che le varie amministrazioni governano la città con la politica degli amici degli amici, è ora di fare chiarezza».

«Mafia, se c'è collusione sciogliere il Consiglio». «È necessario capire se ci sono rischi dal punto di vista economico e sociale». Anche Albertini e Salemi (Pd) chiedono un intervento urgente. Ed è scontro sull'Ater, scrive Enrico Giardini su “L’Arena”. Si alza il livello dello scontro dopo l'inchiesta di Report messa in onda lunedì sera su Rai Tre e seguita da tre milioni di telespettatori. Il deputato di Forza Italia Alberto Giorgetti ha chiesto al prefetto Perla Stancari di nominare una commissione di accesso agli atti per verificare se nel Comune di Verona ci siano infiltrazioni mafiose. Affinché, qualora venisse dimostrato che qualche esponente dell'Amministrazione fosse coinvolto, si proceda a sciogliere il Consiglio comunale. Giorgetti ha telefonato al prefetto per esporre la sua richiesta. «È evidente che dopo Report si pone un problema rilevante», spiega. «Sulla base delle testimonianze raccolte e della ricostruzioni operate dai giornalisti c'è il dubbio che l'Amministrazione comunale di Verona intrattenga relazioni dirette o indirette con persone della criminalità organizzata». E aggiunge: «La sentenza della Corte Costituzionale 103 del 1993 ha chiarito gli elementi in base ai quali si deve procedere allo scioglimento dei Consigli comunali, compresi quindi i sindaci. E questi elementi sono il collegamento diretto o indiretto degli amministratori con la criminalità organizzata o in alternativa eventuali condizionamenti che la criminalità impone alle amministrazioni». Quindi «appalti pubblici irregolari, concessioni e autorizzazioni amministrative, parentele, affinità o frequentazioni degli amministratori con rappresentanti appartenenti direttamente o indirettamente alla criminalità organizzata. Ebbene, da Report emerge che un consigliere comunale potrebbe essere coinvolto in frequentazioni con persone della criminalità organizzata». Puntualizza il deputato: «Io voglio essere certo e garantito, anche dalla Procura. Va chiarito se esistono o no commistioni fra Amministrazione e criminalità organizzata. Se restasse soltanto il dubbio che esistono, allora si porrebbe il problema di sciogliere il Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose».Ma come dovrebbe operare la commissione? «È il prefetto, rappresentante del Governo, a nominare tre membri, che hanno tre mesi per raccogliere elementi di valutazione, con possibile proroga di altri tre mesi per la relazione conclusiva. Questa va inviata poi al ministero dell'Interno il quale poi decide se sciogliere o meno il Consiglio comunale». L'obiettivo politico, conclude Giorgetti, «è sapere se ci sono o meno rischi, dal punto di vista economico e sociale, per la comunità veronese. Altre riflessioni in questa fase non servono. Va chiarito in modo inequivocabile che la norma venga applicata». Tosi, però, informato della richiesta di Giorgetti, dichiara che «per quanto riguarda gli appalti alla 'Ndrangheta, la trasmissione mi pare che abbia citato un solo ente: Ater, che non dipende dal Comune di Verona, ma anzi il soggetto che esercita la vigilanza è l'assessorato in Regione Veneto che fa capo a Massimo Giorgetti e quindi invito l'onorevole Alberto Giorgetti a chiedere delucidazioni al fratello». Pronta la replica di Massimo Giorgetti: «La Regione non ha competenze dirette sulla gestione delle Ater, le aziende territoriali per l'edilizia residenziale, che sono autonome e governate ognuna da un proprio Consiglio di amministrazione. D'altro canto», aggiunge, «Tosi non può non sapere dell'esistenza e della funzione dei cda delle Ater, in quanto è stato proprio lui, come sindaco, a nominare in rappresentanza del Comune di Verona Umberto Peruffo, già assessore leghista a San Bonifacio, nel cda dell'Ater veronese. Dovesse avere dubbi o bisogno di informazioni, Tosi si rivolga quindi a Peruffo. Dopo di che la Regione rimane a disposizione per qualsiasi iniziativa o azione finalizzata ad accertare la correttezza dell'operato di un'azienda pubblica». Nel Pd, i segretari provinciale Alessio Albertini e comunale Orietta Salemi condividono la richiesta di Alberto Giorgetti. «Il nome di Verona, la tradizione e la storia della città meritano ben altro. Se i fatti descritti da Report fossero confermati, e auspichiamo che gli organi competenti si attivino con la massima urgenza, sarebbe un duro colpo per Verona e i veronesi. La politica non avrebbe più alcuno strumento d'azione, ma sarebbe il prefetto a dover valutare lo scioglimento del Consiglio comunale per infiltrazioni mafiose».

Report attacca Tosi: affittopoli, parentopoli, mafia e video hard con i trans. Lui: "Tutto fango, anzi cazzate". Soldi per sputtanare Tosi: Report voleva "comprare" un leghista, scrive “Libero Quotidiano”. E' guerra a volto scoperto quella che da ieri sera si è aperta tra il sindaco di Verona Flavio Tosi e la trasmissione Report in onda su Rai Tre. Nella puntata del 7 aprile si è parlato di un video che immortalerebbe l'aspirante leader del centro destra in compagnia di transessuali, ma nessuna foto è stata mostrata e l’esistenza stessa della clip non è stata affatto provata. Un’inchiesta, quella di Sigfrido Ricucci, finita nell’occhio del ciclone ben prima di andare in onda. Per neutralizzarla, il 21 febbraio Tosi aveva presentato una denuncia alla Procura della Repubblica ("Notizie false, diffamatorie, comprate con denaro pubblico dalla tv di Stato allo scopo di distruggermi"). Secondo la ricostruzione del reporter Ranucci, il video renderebbe il sindaco “ricattabile”, ma il motivo non sarebbe il filmato hard, bensì temi come affittopoli, direttopoli, parentopoli. Dello stesso parere è la Gabanelli che in diretta ribadisce che "ora se alla base di decisioni non proprio trasparenti c’è il mistero di video o foto hard noi non lo sappiamo. Sappiamo che qualche interrogativo la sua amministrazione lo pone”. Ma andiamo con ordine, il punto di partenza è proprio quel presunto video a luci rosse, e proprio da li poi si sarebbero venute a sapere altre cose  sul sindaco. Per acquisirlo, Ranucci entra in contatto con Sergio Borsato, un cantautore di simpatie bossiane, che finge di collaborare con il reporter per cedere il video in cambio di soldi alla trasmissione Rai. Ma in realtà, da bravo cantastorie, racconta tutto al sindaco leghista e d’intesa con lui registra gli incontri con il giornalista a Roma. In tutto ciò anche l’inviato di Report filma i colloqui con l’informatore. Ecco allora Borsato annunciare a Ranucci l’arrivo del misterioso l’autore del video hard: "Ce lo siamo portati a casa dall’estero, ma attenzione, ha una fifa boia e dobbiamo vincere un po’ la sua paura, a questo qua gli fanno la pelle perché era presente, è quello che ha registrato il video". E continua: "Adesso dobbiamo ammorbidirlo, ma dopo bisogna pagarlo, i soldi gli servono per stare un altro po’ fuori dai coglioni". Come riporta il sito Il Mattino di Padova, "il cantante poi alza il tiro: afferma di conoscere il sistema di tangenti della Lega e chiama in causa la francese Siram, società specializzata in appalti nella sanità già additata dall’ex tesoriere del Carroccio Francesco Belsito come erogatrice di mazzette: la multinazionale smentisce, ora indaga la magistratura milanese". Ma nella storia c'è anche un pò di parentopoli, dal momento che la moglie di Tosi, Stefania Villanova, è balzata da impiegata e dirigente della Sanità a Palazzo Balbi. In attesa di accertare i fatti, spunta il nome dell’emissario segreto che affiancava Borsato negli incontri con i reporter: Massimo Giacobbo, imprenditore che, come afferma Ranucci, ha "agganci a Veneto Sviluppo", il fondo finanziario della Regione. Riguardo al video hard Borsato giura di averlo visto e offerto, senza successo, ai rivali bossiani in un colloquio a Vittorio Veneto. “L’ho visto, ho visto dei fotogrammi. C’è sempre ‘sta situazione. Vestito da donna, truccato in maniera incredibile, sempre da donna. Io l’ho sempre chiamato il bunga-bunga di Tosi, insomma”. I rapporti con la mafia di Tosi passerebbero da Crotone. Il Mattino di Padova ricorda "il tour di Tosi a Crotone, con la presentazione della Fondazione, fianco a fianco con il presidente della Provincia, Stanislao Zurlo, indagato per voto di scambio" e "le cene elettorali organizzate da Giorlo, di origini calabresi, dove 'si raccoglievano fondi e si parlava di affari'". La risposta furiosa di Tosi è arrivata su Radio24 al programma Effetto Giorno di Simone Spetia. "Mah, rispondere al fango e alla cacca...quella di ieri è una trasmissione di cacca, costruita in un certo modo, non dicendo nulla perché poi non è che hanno ipotesi di reato. Fango. Gli interlocutori sono gente buttata fuori dalla Lega, disperati. Ci fosse uno che ha dato una notizia vera". Poi parla anche in merito al presunto scandalo sessuale che lo riguarda attacca: "Io vestito da donna? Sono uno che non usa profumo, non mette braccialetti. Non ho quel tipo di tendenze. Chiunque può andare in televisione e dire: ‘Ho sentito che la Gabanelli fa la prostituta', non lo so, lo nego, magari è vero, magari no. Se cominciamo così è la macchina del fango per tutti". E a proposito dei contatti con la criminalità calabrese e alla cena con esponenti della 'ndrangheta replica così: "La realtà è che, andando sui dati, loro citano una cena alla quale sarebbe stata presente la 'ndrangheta calabrese. E' avvenuta in un luogo aperto al pubblico e c'erano il presidente della Provincia, il sindaco, tre assessori provinciali, tre consiglieri comunali, il presidente degli industriali, professionisti, artigiani, sei giornalisti, forze dell'ordine dentro e fuori per ragioni di sicurezza. La macchina del fango serve a qualcuno, si vede che il sottoscritto dà fastidio a qualcuno. Spiace che la televisione di Stato, perché Gabanelli e Ranucci lavorano per la Tv di Stato, utilizzi strumenti di diffamazione come questi. Ma ci vedremo in tribunale”.

Lega Nord, la confessione di un militante: "Report mi ha offerto soldi per sputtanare Tosi", scrive di Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Un giornalista Rai viene registrato mentre offre soldi a un militante: voleva ottenere un presunto video hard col sindaco. Che denuncia tutto in Procura. La Gabanelli: stavamo verificando una notizia. Flavio Tosi querela Report, la trasmissione di Milena Gabanelli che va in onda su RaiTre. Arriviamo subito al nocciolo: pur di ottenere un presunto video col sindaco nel bel mezzo di un festino hard, il giornalista e coautore  del programma, Sigfrido Ranucci, s’è detto disponibile a pagare. Con soldi della tv di Stato. Le sue parole sono state registrate di nascosto e consegnate ieri mattina al procuratore capo di Verona Mario Giulio Schinaia. La conduttrice di Report, Milena Gabanelli, ha risposto in serata. Escludendo che ci sarebbe stato il passaggio di denaro: spiega che erano tutte chiacchiere per ottenere il materiale. Ma andiamo con ordine. Da alcune settimane il pluripremiato cronista Ranucci stava  lavorando  sul cosiddetto «sistema Tosi».  Tra gli altri, avvicina un leghista che non stravede per il sindaco. Questo militante lo indirizza a Sergio Borsato, vicentino, che negli anni Novanta era uno dei pupilli di Umberto Bossi perché aveva realizzato alcune canzoni sulla Padania. Il Senatur caldeggiava la presenza di Borsato alle kermesse del Carroccio, presentandolo come «la più grande voce del Nord». A Borsato, Ranucci spiega di voler spiattellare tutte le grane di Tosi. Per confermare d’essere bene informato, gli confida che almeno tre procure lo starebbero braccando. Parla di tangenti e di regali da parte della ’ndrangheta. Rolex, quattrini per la campagna elettorale, festini hard. Il sindaco ricambierebbe con appalti alle famiglie calabresi. Secondo questo scenario, Tosi sarebbe pure ricattato. Si vocifera di un suo incontro sessuale immortalato da una telecamera. Ranucci riporta tutte queste indiscrezioni e chiede lumi. Soprattutto sul video hard. Qualcuno ce l’ha? Borsato prende tempo, poi avverte Tosi dicendosi «schifato» da Report. Il primo cittadino si rivolge a un avvocato e chiede a Borsato di registrare gli incontri. Scatta la trappola. Ai rendez-vous il cantante che piace a Bossi si porta un microfono nascosto (ma la stessa cosa, fanno sapere da Report, hanno fatto loro). Il nastro cattura la voce del giornalista mentre disegna un intreccio di prostituzione, affari, mazzette. Spunta l’immancabile trans. Ranucci conferma: se esce ’sta roba, Tosi è «tutto bruciato». Peccato che manchi il video... A questo punto Borsato finge di poter ottenere il filmino a luci rosse e organizza un pranzo a Roma col giornalista. Il leghista si porta dietro un complice. Che si spaccia per quello che ha materialmente girato il video. Vi risparmiamo i dettagli del banchetto, registrato integralmente. Da una parte c’è un giornalista, Ranucci, che affonda la forchetta in un piatto di pasta e snocciola il suo curriculum per rassicurare gli altri commensali. Garantisce massima copertura per le fonti. Si parla anche di soldi e del metodo di pagamento, tra i 10 e i 15mila euro che saranno versati dalla Rai con una procedura ad hoc per coprire l’identità degli informatori. «Questa sarebbe la ciliegina sulla torta» si dicono i tre, perché il segugio di Report precisa che la faccenda del filmato «riguarderà il 20-30% del nostro servizio». Promette che ne manderà in onda pochi secondi e che cancellerà tutti i volti dei protagonisti, Tosi escluso. «Dopo ’sta roba è finito» e comunque «gli sta franando addosso tutto» insiste il coautore della trasmissione Rai. Viene ricordato l’arresto dell’ex vicesindaco di Verona. Ranucci precisa che lo scopo del suo lavoro «è fare servizio pubblico». In nessun caso - ripete - metterebbe a rischio l’incolumità di chi gli fornisce il materiale. Anche perché l’amico di Borsato (cioè il presunto possessore del filmino) ripete di sentirsi in pericolo di vita. «Ho fatto servizi anche sul Pentagono e nessuno ha mai capito come avessi avuto le notizie!» assicura Ranucci, che aveva denunciato l’uso del fosforo bianco in Iraq. Tra una forchettata e l’altra, racconta anche di un presunto incontro tra Tosi e il fratello di un capocosca di Crotone. Al procuratore capo di Verona, il sindaco ha consegnato più di due ore di registrazioni, tra video e audio. Poi ha organizzato la conferenza stampa spiegando che il materiale «prova il tentativo del giornalista di Report di costruire notizie false e diffamatorie  con metodi illeciti e con l’uso di denaro pubblico». E ha aggiunto: «In sintesi un programma di inchiesta della Rai, pagato con i soldi dei cittadini, ha cercato di costruire una trasmissione per distruggere una persona ritenuta evidentemente un avversario politico». Inutile dire che Tosi ha negato tutte le voci riportate da Ranucci, a partire dal video hard e dai festini. Contattata da Libero, Milena Gabanelli risponde per le rime: «È una querela preventiva. Nulla è andato in onda. Stavamo verificando alcune notizie». La colonna di Report precisa che «in 17 anni di storia non abbiamo mai pagato un informatore», e anche nel caso del filmato di Tosi «non sarebbe avvenuto». Insomma, erano chiacchiere con l’obiettivo di vedere il materiale. «La nostra inchiesta riguardava gli appalti, non i gusti sessuali» di Tosi, ribadisce la Gabanelli. Che conferma la totale fiducia in Ranucci e parla di «incontro-trappola» organizzato da Borsato. Concetti che la giornalista ha poi ribadito alle agenzie di stampa. «Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto». Replica Tosi: «La documentazione audio e video allegata alla mia denuncia è integralmente quella che ci è stata fornita. Il video dal contenuto diffamatorio non è stato proposto al giornalista di Report ma che è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai». L’ultima parola toccherà alla magistratura.

Report attacca Tosi. Lui si ribella: "Sono delle merde". Va avanti il botta e risposta tra il sindaco di Verona e la trasmissione della Gabanelli, che lo ha preso di mira con un'inchiesta, scrive Franco Grilli su “Il Giornale”. Il programma tv Report, di Milena Gabanelli, ha realizzato un'inchiesta che ha suscitato un gran polverone molto prima di andare in onda. E' quella su Flavio Tosi, sindaco di Verona. IL quale, per cercare di evitare che venisse mandata in onda, ha presentato una denuncia parlando di notizie false e diffamatorie nei suoi confronti, "comprate con denaro pubblico dalla tv di Stato allo scopo di distruggermi". Denunce anche dal comandante dei vigili e da un assessore dimissionario. La conduttrice di Report non si è fermata e ha risposto a muso duro, dicendo che "in 17 anni a Report non abbiamo mai pagato una fonte né l’avremmo fatto a Verona". Ma cos'è che ha fatto tanto arrabbiare Tosi. Si parla di un presunto video a luci rosse con immagini imbarazzanti per Tosi. Filmato della cui esistenza si sarebbe già parlato, a scopo ricattatorio, prima che Tosi diventasse sindaco, quando era assessore regionale alla Sanità.  Per acquistare questo filmato il giornalista Sigfrido Ranucci si mette in contatto con Sergio Borsato, un cantautore di simpatie leghiste che finge di collaborare ma racconta tutto a Tosi e, d'accordo con lui, registra gli incontri con il giornalista, avvenuto a Roma. Una vera e propria spy story, con il giornalista che filma i colloqui. La storia, come racconta il Mattino di Padova, va avanti per un po', Borsato rivela a Ranucci che il video sta arrivando: "Ce lo siamo portati a casa dall’estero, ma attenzione, ha una fifa boia e dobbiamo vincere un po’ la sua paura, a questo qua gli fanno la pelle perché era presente, è quello che ha registrato il video". E va avanti nel racconto: "Adesso dobbiamo ammorbidirlo, ma dopo bisogna pagarlo, i soldi gli servono per stare un altro po’ fuori dai coglioni". Poi la "gola profonda" comincia a parlare di altre storie: dalle tangenti alla moglie di Tosi.  Al momento si tratta solo chiacchiere e sono già state presentate alcune denunce. Vedremo come andranno a finire. Intanto spunta il nome dell'uomo che affiancava Borsato per documentare gli incontri con Ranucci. Si tratta di un imprenditore, Massimo Giacobbo. E il video a luci rosse? Borsato dice di averlo visto e offerto ai "rivali" bossiani. Storie di spie, ricatti e tante altre cose. Tosi le liquida così: "Se uno va a vedere, chi mi getta fango addosso è gente disperata, ex leghisti espulsi, prove zero, reati zero". A Report, che ha citato a sostegno della propria tesi una cena a Crotone promossa dalla fondazione "Ricostruiamo il Paese", Tosi risponde che "la famosa ’ndrangheta rappresenta il presidente della provincia, il sindaco, tre assessori provinciali, tre consiglieri comunali, il presidente degli industriali, professionisti e un ristorante aperto al pubblico pieno di forze dell’ordine per ragioni di sicurezza. Ecco perché sono delle merde, perché uno che fa giornalismo così è una merda".

LA CASTA SI RIBELLA. DIFFAMAZIONE, NIENTE CARCERE, MA NON PER TUTTI.

Diffamazione, la Cassazione: "Niente carcere per i giornalisti", scrive “Libero Quotidiano”. No al carcere per i giornalisti ritenuti responsabili di diffamazione, se non in circostanze eccezionali. Così si è espressa la Corte di Cassazione in una sentenza depositata oggi, giovedì 13 marzo, nella quale i giudici della Suprema Corte hanno dichiarato che "la libertà di espressione costituisce un valore garantito attraverso la tutela costituzionale del diritto/dovere di informazione". La pena che potrà essere inflitta ai reporter potrà essere quindi solo un risarcimento, ma non l'arresto. Il caso - La Cassazione ha affrontato nuovamente il tema del carcere per i cronisti a causa di un processo a carico di due giornalisti del quotidiano La voce di Romagna, per un articolo pubblicato nel marzo 2006. Il direttore del giornale e il reporter che ha scritto il pezzo "incriminato" erano stati accusati di diffamazione ai danni di due militari, per aver scritto, contrariamente al vero, che erano responsabili di un furto ai danni di un collega. Iter giudiziario - I due giornalisti erano stati condannati dai giudici nei primi due gradi del processo, prima dal Tribunale di Cremona, poi dalla Corte d’Appello di Brescia, ma oggi la Cassazione ha ribaltato completamente la sentenza, impedendo che venissero incarcerati. Nei documenti del processo si legge che "anche laddove siano valicati i limiti del diritto di cronaca e/o di critica, (si deve) tener conto, nella valutazione della condotta del giornalista, dell'insostituibile funzione informativa esercitata dalla categoria di appartenenza, tra l'altro attualmente oggetto di gravi e ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare tale funzione". 

Cassazione: niente carcere per i giornalisti. Sono sotto attacco ingiustificato, scrive “Il Messaggero”. Niente carcere per i giornalisti quando commettono diffamazione, reato che deve essere punito - a meno che non ricorrano «circostanze eccezionali», tipo 'macchina del fango' - solo con una multa, come esige dall'Italia la Corte europea dei diritti umani. Lo chiede la Cassazione, con tutta la sua autorevolezza. Tra l'altro, la categoria - che deve poter svolgere liberamente il ruolo di «cane da guardia», proseguono gli ermellini - è, in questo momento, «sotto attacco ingiustificato da parte di movimenti politici». La mente corre al blog di Beppe Grillo che spesso ha inveito e aizzato contro i lavoratori dei media. L'esortazione alla magistratura è suffragata dal rilievo che il Parlamento intende riformare le sanzioni per gli illeciti professionali a mezzo stampa commessi tramite notizie infondate o, peggio, costruite a tavolino. Sulla scia di questi principi di diritto - dai quali sono state tratte varie massime giurisprudenziali - la Suprema Corte, con la sentenza 12203 della Terza sezione penale (presidente Gennaro Marasca, relatore Grazia Lapalorcia) ha accolto il ricorso del direttore del quotidiano 'La Voce di Romagna' e di un cronista della stessa testata, che erano stati condannati a sei mesi di reclusione - sospesi dalla condizionale - per un articolo pubblicato l'11 marzo 2006. Si trattava di un pezzo nel quale si dava notizia di due militari, dei quali non veniva nemmeno fatto il nome, ma si fornivano solo le iniziali, indagati per furto ai danni di un commilitone dopo il ritrovamento nei loro armadietti di parte della refurtiva. Invece pare si trattasse solo di «materiale di interesse per le indagini, poi non riconosciuto dal derubato». Nonostante - come ha riconosciuto la Cassazione - non si fosse trattato di una diffamazione grave, il Tribunale di Cremona, nel novembre 2010, non ci era andato leggero condannando i giornalisti al carcere (non si conosce l'entità della pena di partenza) e al risarcimento delle parti lese. In appello, la Corte di Brescia, il 21 gennaio 2013, aveva ridimensionato la condanna portandola a sei mesi e aveva limato il risarcimento (anche questo di entità non specificata). Su ricorso degli imputati, la Cassazione ha sconfessato i giudici di merito. «A contrastare l'applicabilità al caso di specie della pena detentiva, c'è l'orientamento della Corte Edu che - spiega il verdetto - esige la ricorrenza di circostanze eccezionali per l'irrogazione della più severa sanzione, sia pure condizionalmente sospesa». «Altrimenti - prosegue l'Alta Corte - non sarebbe assicurato il ruolo di cane da guardia dei giornalisti, il cui compito è comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle». Infine, gli ermellini osservano che non ricorrono gli estremi della gravità del fatto data anche la «cautela» usata scrivendo solo le iniziali dei militari e «così evitando di dare in pasto ai lettori il loro nome completo». E non ha nessun peso la circostanza che, successivamente, il quotidiano romagnolo non abbia dato notizia dell'archiviazione dell'inchiesta sui militari in quanto si tratta di un fatto successivo «inidoneo a riverberare i propri effetti sulla valutazione dell'entità del fatto». Ora un'altra sezione della Corte di Appello di Brescia, dovrà rideterminare - sotto forma di multa - la pena per gli imputati. Le statuizioni civili rimarranno invece invariate.

Cassazione: niente carcere ai giornalisti per diffamazione. La suprema corte, nelle motivazioni di una sentenza, invita anche il Parlamento ad agire in tal senso, seguendo anche la battaglia di Panorama. Niente carcere per i giornalisti in caso di diffamazione, scrive “Panorama”. A dirlo oggi è addirittura la Corte di Cassazione nelle motivazioni di una sentenza riguardante un giornalista ed il direttore della sua testata. Vicenda identica a quella che ha coinvolto un due giornalisti di Panorama condannati dal Tribunale di Milano per diffamazione per due diversi articoli ed il direttore, Giorgio Mulé condannato in entrambi i casi in primo grado ad 8 mesi per omesso controllo. Condanne dopo le quali Panorama ha cominciato una propria battaglia che ha portato il Parlamento all'approvazione alla Camera di una nuova norma che elimina appunto il carcere. Oggi poi arriva forte anche la voce della Corte Suprema. "I giornalisti - hanno detto i giudici - in quanto categoria sono attualmente oggetto di gravi ed ingiustificati attacchi da parte anche di movimenti politici proprio al fine di limitare la loro insostituibile funzione informativa". Lo sottolinea la Cassazione in una sentenza che esorta a non infliggere il carcere nel caso di condanne per diffamazione ma solo multe. La Suprema Corte, inoltre, ricorda che "'de iure condendo' anche il legislatore ordinario italiano e' orientato al ridimensionamento del profilo punitivo del reato di diffamazione a mezzo stampa". Con questo verdetto - sentenza 12203 della V Sezione penale - la Suprema Corte ha detto no alla condanna al carcere, seppure con pena sospesa, nei confronti di un giornalista e del direttore del quotidiano La Voce Di Romagna per un articolo che riportava informazioni imprecise di cronaca giudiziaria su un furto in una caserma. La sentenza della Cassazione che annulla la sanzione carceraria comminata ai danni di un giornalista per reato di diffamazione - evidenziando come, in questi casi, la reclusione debba essere prevista solo in circostanze eccezionali - rafforza la battaglia per l'affermazione di un principio di civiltà. Dopo una serie di richiami europei, la Camera ha approvato, in materia, un importante ddl in cui si contemperano la libertà di informazione, principio essenziale per una matura democrazia, e il diritto alla difesa. La sentenza di oggi è uno sprone affinchè anche il Senato acceleri l'iter di questa legge volta a sanare un vulnus che nel nostro Paese dura da troppo tempo". Lo dichiara la responsabile comunicazione di Forza Italia, on. Deborah Bergamini, prima firmataria della proposta di legge per l'abolizione del carcere per i giornalisti in caso di reato di diffamazione.

Vietato criticare le toghe: il giudice sequestra l'articolo. Che l’articolo sia diffamatorio non lo ha ancora deciso nessuna sentenza, ma per la toga non è rilevante, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Giornalisti in galera, anzi no. Tutto sta nell’avere fortuna, quando si arriva davanti all’Eccellentissima Corte di Cassazione. È andata bene ieri ai due giornalisti della Voce di Romagna , che per avere scritto un articolo ritenuto diffamatorio da due carabinieri si erano visti rifilare dalla Corte d’appello di Brescia sei mesi di galera: con la condizionale, fortunatamente, ma pronti a diventar esecutivi in caso di un’altra condanna. Nello spazzare via la condanna dei giornalisti alla galera, la Cassazione ha sancito principi fondamentali, richiamando i giudici di tutta Italia al rispetto di quanto da tempo ci predica l’Europa, e cioè che punire con la prigione i reati a mezzo stampa non è ammissibile. Bene, molto bene. Peccato che basti spostarsi di due sezioni della Cassazione, dalla terza alla quinta, per trovare quelli che i giornalisti al fresco ce li sbattono volentieri: come accadde nel settembre 2012 quando la Suprema Corte confermò l’anno di carcere inflitto al direttore del Giornale Alessandro Sallusti. A Sallusti, a differenza dei colleghi romagnoli, non venne concessa neanche la condizionale, arrivò la Digos ad arrestarlo in redazione e ci volle l’intervento del capo dello Stato per fare di nuovo del giornalista un uomo libero. Ora, i giudici della terza sezione scrivono il contrario di quello che hanno scritto quelli della quinta. A ben leggere, una finestrella aperta se la tengono, perché - puntualizzano - in «casi eccezionali » la galera si può usare. Ma il principio per il resto è sancito con tale nettezza che la sentenza viene accolta con legittima soddisfazione dall’Ordine dei giornalisti. Se su di loro pendesse la spada dell’arresto, «non sarebbe assicurato il ruolo di “cane da guardia” dei giornalisti, il cui compito è comunicare informazioni su questioni di interesse generale e conseguentemente di assicurare il diritto del pubblico di riceverle». Ad allarmare la Corte sui rischi che corre di questi tempi la libertà di espressione è stata, a leggere le motivazioni, una considerazione che in apparenza c’entra poco: il fatto che la stampa si trovi «sotto attacco ingiustificato da parte di movimenti politici», riferimento che ieri qualcuno interpretava come rivolto agli attacchi di Beppe Grillo. Ma, qualunque sia il motivo, è comunque un passo avanti. In attesa che si esprimano le Sezioni unite, il cui intervento a questo punto appare inevitabile, è però inevitabile notare che tra le toghe c’è chi, senza troppo preoccuparsi della Corte europea dei diritti dell’uomo, dei moniti del Quirinale e delle proteste dei giornalisti, viaggia nella direzione addirittura opposta. Ieri infatti un giudice ha firmato, in tema di libertà di stampa, un provvedimento senza precedenti. E anche qui, curiosamente, c’è di mezzo il processo ad Alessandro Sallusti, quello in cui la giustizia italiana fece vedere alla stampa la sua faccia più severa. Il giudice di Cassazione che scrisse la condanna di Sallusti, Antonio Bevere, si è ritenuto diffamato da un articolo sulla vicenda e ha sporto querela: niente di male e niente di strano, ci sarà un processo e si vedrà chi ha ragione e chi torto. Ma a Bevere non basta: ha chiesto a un suo ex collega (lui ormai è in pensione), il giudice monzese De Lillo, di sequestrare la pagina del sito del Giornale.it che lui ritiene diffamatoria. Che l’articolo sia diffamatorio non lo ha ancora deciso nessuna sentenza, ma per De Lillo non è rilevante. Il 7 marzo 2014 scorso, accogliendo la richiesta dell’ex collega, il giudice «autorizza il sequestro preventivo della pagina web di cui in narrativa con l’oscuramento di essa». E ieri mattina in via Negri arrivano i carabinieri con il decreto in mano e fanno presente: non ce ne andiamo fin quando non cancellate l’articolo dal sito. Non resta che obbedire. Ma attenzione:l’articolo si può ancora leggere sulla raccolta del Giornale in diverse biblioteche, almeno fino a quando l’ex giudice Bevere non le farà bruciare.

LE SPUTASENTENZE. LA GOGNA MEDIATICA, GLI AVVOLTOI DELL'INFORMAZIONE E LA POTENTE LOBBY GAY.

cerchiamo si svelare i tabù che attanagliano la nostra società ed in virtù di certi tabù si condannano gesti di quotidiana banalità.

I giovani sotto le lenzuola? Poco preparati, scrive “Libero Quotidiano”.Continuano le inchieste Sex and the teens di Beatrice Borromeo sul rapporto tra i giovani e il sesso. Dopo la ricerca sulle ragazze che si sentono delle sfigate se non perdono la verginità a 14 anni, questa volta il lungo articolo pubblicato su Il fatto quotidiano affronta "la difficoltà nel gestire relazioni basate sempre meno sui sentimenti e lo spaesamento provocato dall'intraprendenza, talvolta aggressiva, delle ragazze". La giornalista decide di affrontare il delicato tema dal punto di vista di un ragazzo di 15 anni, Mattia, che racconta i retroscena della vita sessuale degli adolescenti, divisi tra il voler (o dover) apparire e la paura di un fallimento. "Chi vuole un pompino?" - Il ragazzo intervistato si sfoga sulla sua delusione d'amore: a Capodanno la sua ex fidanzata, ubriaca, andava in giro a chiedere a tutti i ragazzi se volessero un pompino, prima di chiudersi in una stanza per partecipare a un'orgia. "L'ha fatto solo per farsi notare - ha spiegato Mattia - perché sapeva che c'erano i ragazzi più grandi. Me l'aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente". A sorpresa, sembra dai racconti di Mattia che i ragazzi siano degli inguaribili romantici e che il dover gestire questo genere di rapporti con le ragazze sia una costante fonte di angoscia. "Cerchiamo tutti una persona affidabile. Non una che cambia idea ogni settimana, che ti fa le corna e che non ha autocontrollo", sentenzia il ragazzo. Educazione sessuale - Considerando che un'unica intervista non descrive le tendenze comuni a tutti gli adolescenti e che quindi non può essere presa come esempio per tutti, il dato reale che viene fuori da questa inchiesta è che questi ragazzi non hanno le idee chiare sulla sessualità. Il problema è non solo la giovane età dei ragazzi di cui si parla, che hanno 14 o 15 anni, ma soprattutto nel fatto che non ricevono alcun tipo di educazione sessuale e che quindi vivono il sesso come un mezzo per apparire e farsi notare e ne vivono solo gli eccessi. 

Sesso a 14 anni: "Se non lo fai sei una sfigata", scrive “Libero Quotidiano”. Un'incursione nel mondo delle quattordicenni. Un'inchiesta sul sesso e i giovanissimi pubblicata da Il Fatto Quotidiano firmata da Beatrice Borromeo svela come le liceali siano assillate dall'esigenza di fare sesso per essere accettate dal gruppo. "Mi hanno stappata", ecco la frase con cui soprattutto il lunedì mattina le ragazzine si presentano a scuola per informare tutte le compagne che hanno avuto la loro prima esperienza. Una ragazzina ha spiegato che solitamente in quarta liceo solo tre o quattro si presentano già sverginate. "La regola è che bisogna liberarsene entro l'anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa giusto per non sforare i tempi perché a settembre si fa il bilancio". Il sesso come chiave d'accesso al gruppo. E se, entro il secondo anno di liceo, una ragazzina non ha ancora avuto esperienze con ragazzi, allora sono fuori. Vengono considerate delle sfigate. Sesso per il gruppo - Ai preliminari - si legge nell'inchiesta del Fatto - si dà poco peso. Se esci con un ragazzo per un paio di settimane è normale fargli almeno una sega". Non ci si stupisce più neanche per il sesso orale: "Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera". Spesso sono ubriache, ma nessuna si pente e non ricordano neanche più il nome del ragazzo con cui hanno fatto sesso orale nei bagni. Le ragazzine spiegano che si fa sesso "per diventare grandi", e quelle che resistono si sentono dire dalle amiche: "Guarda che se non la molli, lui...". e ancora: "Per chi te la stai tenendo?". Le paure - Il mondo dei ragazzi, invece, è diverso. Loro vivono il momento del primo rapporto sessuale con ansia. Hanno paura di essere giudicati e le ragazze sono spietate, se sbagliano in qualcosa sanno che la loro defaillance diventerà di pubblico dominio. Per quanto riguarda le precauzioni, molte usano la pillola concezionale (e ciò significa che condividono la loro vita sessuale con i genitori). Altre usano il preservativo, ma c'è anche chi il lunedì arriva a scuola nel panico perché non riesce più a ricordare se ha usato l'anticoncezionale. "In più non sanno chi è il ragazzo con cui hanno scopato" oppure spiega una ragazzina "si vergognano di chiarirlo per chiedere. Quindi le più furbe vanno in consultorio e prendono la pillola del giorno dopo e le altre aspettano e pregano che il ciclo arrivi".

Sesso, per i ragazzini è un incubo: "Queste a 14 anni aprono le gambe come niente e ci ribaltano". Un'inchiesta de "Il Fatto Quotidiano" racconta il rapporto fra i liceali e il sesso. Le ragazze sono troppo più esperte: "Non sappiamo che fare. Se vai male a letto sei finito". Per le ragazzine è un bisogno, quasi un dovere - "Se a quattordici anni non ti fai stappare sei una sfigata". Per i ragazzini è tutto diverso. E tutto tremendamente più difficile. Continua il viaggio di Beatrice Borromeo, per "Il Fatto Quotidiano", nel mondo del sesso fra gli adolescenti. Dopo la storia di Chiara, 15enne milanese simbolo delle giovani di oggi - disinibite e "sveglie" - il protagonista della puntata è Mattia, un 15enne liceale alle prese con le prime cotte e la sensazione di inadeguatezza di fronte alle ben più sfontate coetanee. "La mia prima volta? - dice il giovane - Vorrei fosse con una ragazza di cui sono innamorato. Non con una che mi salta addosso e mi ribalta". Poi Mattia racconta di una sera per lui da incubo. Litri di alcol stanno per salutare l'anno nuovo e c'è una festa alla quale partecipano ragazzi e ragazze, tutti adolescenti. In lui è forte il desiderio di rivedere la ex. "L’ho vista ubriaca, che girava e chiedeva ad alta voce: ‘Chi vuole un pompino?’. È stata una cosa orribile, tristissima", racconta lui. Ma il peggio arriva poco dopo. "C’erano quattro ragazzi e due ragazze, tutti di 16 anni, che facevano le loro cose al piano di sopra. Poi la mia ex, che ha solo 14 anni, si è aggiunta a loro.  A quel punto - dice Mattia, come riporta "Il Fatto Quotidiano" - i miei amici mi hanno portato via, ero disgustato". Non è stato solo l’alcol, però, a spingere l’ex nell’orgia ma la voglia di farsi vedere. "L’ha fatto solo per farsi notare, perché sapeva che c’erano i ragazzi più grandi. Me l’aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente – dice mordendosi il labbro – ma ci sono rimasto comunque malissimo". Mattia non è il tipico liceale: beve poco, non fuma, è ancora vergine. "Le ragazze ci provano, ma io non voglio che la mia prima volta sia con una che mi salta addosso e mi ribalta. Voglio che sia speciale, voglio essere innamorato". Innamorarsi di ragazze così, però, sembra difficile. "Non sappiamo bene cosa dobbiamo fare - ammette il 15enne - Metti che ci andiamo a letto e va male: diventa molto imbarazzante. Non fai a tempo a uscire dalla stanza che lei sta già messaggiando con le sue amiche per mandare un resoconto completo di tutto quello che abbiamo appena fatto. Descrivono ogni dettaglio e poi ti danno il voto, dicono se sei stato bravo o no. È davvero una sfida avere a che fare con queste cose". Una sfida alla quale Mattia, per ora, non è ancora pronto. 

Sesso, a quattordici anni è un dovere: "Se non ti fai stappare sei una sfigata". Inchiesta de "Il Fatto Quotidiano" sul sesso e i giovanissimi: chi arriva al secondo anno di liceo senza avere avuto un rapporto sessuale "è una sfigata". "A fine estate un sacco di noi vanno col primo giusto per non sforare i tempi", scrive “Today”. Fare sesso. Con chiunque e dovunque capiti: basta farlo. Una vera esigenza, un'ossessione, per le quattordicenni di oggi. Il passo, necessario e indispensabile, per essere accettate dal gruppo. Lo rivela un'inchiesta sul sesso e i giovanissimi pubblicata da "Il Fatto Quotidiano", a firma Beatrice Borromeo - e ripresa da "Libero" - che racconta come il rapporto sessuale sia diventato una sorta di "status" necessario alla società. Chi arriva al secondo anno di liceo senza avere ancora avuto un uomo è fuori, una sfigata. Il lunedì mattina, racconta la Borromeo, quasi come fosse un rituale, le ragazzine si incontrano davanti scuola e annunciano: "Mi hanno stappata". E' questa la frase con cui le giovani informano tutte le compagne che hanno avuto la loro prima esperienza. Una ragazzina spiega che solitamente in prima liceo solo tre o quattro si presentano già sverginate. "La regola è che bisogna liberarsene entro l'anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa giusto per non sforare i tempi perché a settembre si fa il bilancio". Ai preliminari - si legge nell'inchiesta del Fatto - si dà poco peso."Se esci con un ragazzo - racconta Chiara - per un paio di settimane, è normale masturbarlo almeno. Sì, lo racconti in classe, ma non è una gran notizia: nessuno si stupisce". Non si diventa popolari nemmeno per il sesso orale: "Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera. Poi ci ridono su: 'Tanto ero ubriaca', dicono". Magari il giorno dopo non sanno neanche chi fosse il lui. Ma lo fanno "per diventare grandi". E quelle che resistono si sentono dire dalle amiche: "Guarda che se non la molli, lui...". E ancora: "Per chi te la stai tenendo?".

Inchiesta "Sex and teens. Chiara, quinta ginnasio a Milano, dà la sua versione: "Il primo anno di liceo comincia la conta: entro 12 mesi bisogna 'darla via' altrimenti vieni emarginata". E i maschi? "Non ci pressano perché non ce n'è bisogno". Nessuna cura della contraccezione: "Il lunedì in classe c'è il panico: non ci si ricorda se il sabato, ubriache o fumate in discoteca, si è usato o meno il preservativo", scrive Beatrice Borromeo su “Il Fatto Quotidiano”. La partita di pallavolo è appena cominciata e seduti per terra, in palestra, ci sono un po’ di ragazzi che usano “l’ora buca” per fare un tifo svogliato. C’è anche la professoressa di educazione fisica, che annota con una bic blu le assenze sul registro. A interrompere tutti è una ragazza di quinta ginnasio, che invade il campo: “Finalmente mi hanno stappata!”, urla, correndo attorno alla rete con le braccia alzate. “Sì, sì: mi hanno sturata ieri sera”. È settembre 2013. E Margherita (nome di fantasia) celebra così, davanti a compagni di scuola più e meno intimi, la perdita della sua verginità. A raccontare l’episodio è Chiara, che studia nello stesso liceo milanese e che quella mattina giocava nel ruolo di alzatrice. Reazioni? “Non molte. La prof l’ha guardata male, la maggioranza di noi l’ha ignorata e qualcuno le ha fatto i complimenti”. In fondo, Margherita ci ha messo un anno intero per riuscire nella missione. Chiara spiega come funziona: “All’inizio della quarta ginnasio si fa la conta. Di solito, solo tre o quattro ragazze arrivano al liceo già sverginate. La regola è che bisogna liberarsene entro l’anno successivo. Per questo, a fine estate, ci sono un sacco di noi che vanno col primo che passa, giusto per non sforare i tempi. Perché a settembre si fa il bilancio”. Chiara, capelli biondi alle spalle, occhi castani col mascara nero sulle ciglia, stelline disegnate a penna sul polso, è una delle pochissime ragazze della sua classe a essere ancora vergine. “Se sei una persona sensibile, vivi molto male il fatto di non averla ancora data. È vero: se non sei carina, se non segui la moda, vieni un po’ emarginata. Ma è il sesso l’unico argomento che tiene banco, l’unica carta d’accesso per restare nel gruppo. O sai quello di cui parli, o ti escludono per davvero. Ti trattano come una bambina, ti lasciano fuori dal gruppo, ti prendono sempre per il culo, come fossi una sfigata”.

I PRELIMINARI. Le regole sono semplici e, anche se non valgono per tutti, finisce che tutti le rispettano. Ai preliminari, spiega Chiara, non si dà alcun peso: “Se esci con un ragazzo per un paio di settimane, è normale fargli almeno una sega. Sì, lo racconti in classe, ma non è una gran notizia: nessuno si stupisce”. Non si diventa popolari nemmeno per il sesso orale: “Le mie amiche lo fanno spesso nei bagni delle discoteche, il sabato sera. Poi ci ridono su: ‘Tanto ero ubriaca’, dicono. Anche perché, quando si esce, si parte subito con i vodka-pesca o gli shot di rum e pera, quindi non ci vuole molto per perdere il controllo. L’altra scusa è che si erano fumate tre o quattro canne, che erano ‘fatte’. Ma nessuna si pente, e pochissime si ricordano anche solo il nome del ragazzo a cui hanno fatto un pompino”. Se si incontrano il weekend dopo, spiega, i due nemmeno si salutano. E ancora, a scuola l’argomento non esalta un granché: “Una di quinta ginnasio ha avuto un rapporto orale a tre prima di perdere la verginità, per prepararsi, e il racconto non ha creato grande scalpore”. Poi, i ragazzi sono gli unici a beneficiare dei preliminari: “Su di noi? Figurati, i maschi non sanno nemmeno da che parte cominciare. Non ho mai sentito parlare di sesso orale su una mia amica. Magari se esci con quelli più grandi, ma dubito”.

IL SESSO.Scopare è come fumare una sigaretta”. In che senso? “È una piccola trasgressione, nulla di più. Si fa per diventare grandi. Non che gli altri ti vedano poi diversamente, ma tu stessa proietti un’immagine più matura e di conseguenza entri nel gruppo più figo”. All’inizio c’è la spinta delle amiche: “Per chi te la stai tenendo? Guarda che se non la molli ti molla lui… E poi a qualcuno la dovrai pur dare, o no?”. Chiara è molto carina, ha ai piedi stivaletti di cuoio, e addosso una magliettina di Zara e una felpa blu col cappuccio. Potrebbe avere 14 anni come 18. Parla di sesso come se, appunto, l’avesse studiato meticolosamente a scuola, pur non avendolo ancora mai provato. E descrive un mondo capovolto: “I ragazzi non ci pressano mai per andare a letto. Anzi, sono terrorizzati dal fare figuracce, perché non sanno bene cosa devono fare. Anche perché noi siamo cattive, se uno se la cava male poi rischia che lo roviniamo. Sono le femmine – spiega Chiara – a sentirsi in dovere di sverginarsi in fretta. E poi gli uomini non hanno bisogno di insistere, perché le ragazze sono indemoniate”. Quando decidi di farlo, lo annunci alle amiche: “Questo weekend ho deciso che scopo”. Poi c’è l’immancabile resoconto del lunedì: “Di solito dicono ‘mi hanno sfondata’, oppure ‘mi hanno aperta’”. Da quel momento in poi perdi l’inibizione: “Una volta che l’hai data, la tua vita sessuale diventa super attiva. Se sei a casa di un’amica e c’è un tipo carino, non è che te la meni. Gliela dai senza fare troppe storie. Il ragazzo neanche se l’aspetta, così lo stupisci”.

L’ORGASMO. Il sesso e il piacere non hanno proprio nulla a che spartire, nelle storie che raccontano Chiara e le sue amiche. L’obiettivo non è quello, e i ragazzi sono troppo inesperti. “A nessuna è mai piaciuto scopare. La prima volta fa stra-male, e anche le volte dopo, comunque, tutto è tranne che piacevole. Ripeto: non lo fai per venire, ma per liberarti di un peso. È una questione d’immagine, di status. Anche perché i ragazzi durano pochissimo”. Per quelle che decidono di affidarsi al primo fidanzato, il momento prescelto è quello di una gita fuori città: “Stai con uno da un paio di settimane e ti invita a passare il weekend da qualche parte? Gliela dai. Matematico”.

PANICO DEL LUNEDI’. Le precauzioni più usate, racconta Chiara, sono il preservativo e la pillola anticoncezionale. Chi prende quest’ultima, di solito, ha già condiviso la propria vita sessuale con i genitori. E le altre? “Non sai quanti lunedì mattina vedo le mie amiche completamente in paranoia. Il sabato erano strafatte e non riescono a ricordarsi se hanno usato il preservativo o no. In più, non sanno chi è il ragazzo con cui hanno scopato, oppure si vergognano a chiamarlo per chiedere. Quindi le più furbe vanno in consultorio e prendono la pillola del giorno dopo – succede ogni due o tre mesi – e le altre aspettano e pregano che il ciclo arrivi”.

Dopo Chiara parla il 15enne Mattia che evoca l’amore: "La mia prima volta? Vorrei fosse con una ragazza di cui sono innamorato. Non con una che mi salta addosso e mi ribalta. I preliminari non sappiamo farli e abbiamo paura: veniamo giudicati di continuo", scrive Beatrice Borromeo su “Il Fatto Quotidiano”. La delusione, per Mattia, è arrivata durante una festa di Capodanno, nella casa di un amico lasciata libera dai genitori, partiti per la montagna. I preparativi per festeggiare il 2014, in zona Navigli, a Milano, promettevano bene: c’erano birre, vodka, canne, potenti casse per pompare la musica e una trentina di amici tra i 14 e i 17 anni. Erano quasi tutti compagni di scuola, in un liceo artistico. E Mattia sbirciava per vedere se c’era anche la sua ex ragazza, con cui era uscito per qualche settimana, e che l’aveva da poco lasciato con un sms. Dopo la prima puntata della nostra inchiesta sulle abitudini sessuali degli adolescenti, che si focalizzava sull’esperienza di un gruppo di studentesse di un liceo classico milanese), Il Fatto Quotidiano esplora ora un altro punto di vista. Quello di un 15enne – e dei suoi amici – che raccontano le difficoltà nel gestire relazioni basate sempre meno sui sentimenti, e lo spaesamento provocato dall’intraprendenza, talvolta aggressiva, delle ragazze.

CHI VUOLE UN POMPINO? Passa quasi un’ora prima che Mattia incontri la sua ex. “L’ho vista ubriaca, che girava e chiedeva ad alta voce: ‘Chi vuole un pompino?’. È stata una cosa orribile, tristissima”, racconta lui. La parte peggiore però è arrivata poco dopo: “C’erano quattro ragazzi e due ragazze, tutti di 16 anni, che facevano le loro cose al piano di sopra. Toc. Toc. Toc… Il letto sbatteva contro il muro, era davvero fastidioso. Abbiamo alzato la musica al massimo per non sentire. Poi la mia ex, che ha solo 14 anni, si è aggiunta a loro. A quel punto i miei amici mi hanno portato via, ero disgustato”. Non è stato solo l’alcol, secondo Mattia, a spingere l’ex nell’orgia: “L’ha fatto solo per farsi notare, perché sapeva che c’erano i ragazzi più grandi. Me l’aspettavo, perché queste ragazze aprono le gambe come niente – dice mordendosi il labbro – ma ci sono rimasto comunque malissimo”.

LA DONNA IDEALE. Mentre racconta la sua storia, diventa chiaro che Mattia non è il tipico liceale: beve poco, non fuma, è ancora vergine e soprattutto “mi fanno schifo quelli che escono con una tipa perché ha un bel culo. Io vorrei solo che fosse dolce, possibilmente simpatica. Che le piacesse la mia stessa musica, metal soft, che condividesse i miei ideali. Poi, certo, dev’essere carina, però non è quella la priorità”. Ma guardando questo ragazzo di 15 anni, coi capelli lunghi, la giacca di pelle nera e un viso che ricorda un giovane Johnny Depp, tutto viene in mente tranne che non abbia successo con le ragazze. “Infatti loro ci provano, ma io non voglio che la mia prima volta sia con una che mi salta addosso e mi ribalta. Voglio che sia speciale, voglio essere innamorato, perché per me fare l’amore ha un significato. Altrimenti avrei già perso la verginità. E ho molti amici che la pensano come me”. Quando parla delle ragazze Mattia non vuole generalizzare: “Non sono tutte assatanate. Il problema è che più fanno cose elaborate a letto, più scalano la piramide sociale. Per questo passano la giornata a parlare di sesso mentre noi pensiamo alla musica, ai videogame e, certo, anche alle tipe, ma solo se ci interessano davvero”.

LE REGOLE DEL SUCCESSO. “Sappiamo tutti come funziona: se vuoi che le ragazze ci provino devi essere un truzzetto”. Che Mattia, sorseggiando un succo di pera (“il caffè non mi piace”) descrive così: pantaloni a vita molto bassa, coi boxer che s’intravedono. Capello corto, o testa rasata. Cappellino da rapper. Atteggiamento arrogante. “Se sei così – che poi è tutto quello che io odio – allora la tipa ce l’hai a disposizione. Ci fai quel che vuoi”. Ma anche i truzzetti, quando c’è da scegliere una fidanzata, sono perplessi: “Alla fine (e gli amici annuiscono, ndr) cerchiamo tutti una persona affidabile. Non una che cambia idea ogni settimana, che ti fa le corna, che non ha nessun autocontrollo e va a letto con altri quattro tizi. Non c’è niente di sexy in questo. Quelle come la mia ex infatti le odiamo tutti perché sono davvero eccessive”.

IL TERRORE. Avere a che fare con ragazze così aggressive è una costante fonte d’ansia. Per vari motivi: “Intanto non sappiamo bene cosa dobbiamo fare. Metti che ci andiamo a letto e va male: diventa molto imbarazzante”. Soprattutto perché, conferma Mattia, “non fai a tempo a uscire dalla stanza che lei sta già messaggiando con le sue amiche per mandare un resoconto completo di tutto quello che abbiamo appena fatto. Descrivono ogni dettaglio e poi ti danno il voto, dicono se sei stato bravo o no. È davvero una sfida avere a che fare con queste cose”. È più sicuro, spiega, sperimentare con chi conosci bene: “Se l’hai appena incontrata va a spifferare tutto, ma proprio tutto, di sicuro. Il ragazzo che non riesce, o non viene, o non è particolarmente dotato vive poi nel terrore”.

I PRELIMINARI. La versione delle ragazze che Il Fatto Quotidiano ha incontrato è che i preliminari contano talmente poco che, anche a scuola, parlarne non ti mette al centro dell’attenzione. Mattia svela qualche dettaglio in più: “Noi a loro non facciamo niente. Sono loro ad andare ‘di bocca e di mano’. Mi pare ovvio: loro ci osservano, giudicano ogni nostra mossa e movimento. E noi, per esempio il sesso orale, non sappiamo esattamente come farlo. Quindi non ce la sentiamo. Insomma, è un rischio inutile”. Mattia spiega il sesso come se fosse uno tra i pochi ad averne colto l’importanza. Racconta l’ansia che vivono i suoi amici prima di perdere la verginità, e il panico che li accompagna dopo, preoccupati dal finire intrappolati nella casella sbagliata, quella dello “sfigato”, “imbranato”, “effeminato”, di quello che “ce l’ha piccolo” o che “non ci sa fare”. Ci tiene a chiarire che per lui la differenza tra “scopare e fare l’amore” c’è eccome. E che anche tutto quello che accompagna e precede il sesso ha, per lui, un peso.

FIORI E SOLLIEVO. Ci sono due momenti in cui Mattia alza la voce. Quando parla della sua ex (“come fai passarti quattro ragazzi uno dopo l’altro? E non intendo limonare, ma andare di bocca”) e quando racconta un episodio successo il giorno prima, a scuola. “La mia compagna di banco aveva il sorriso stampato in faccia. Le ho chiesto perché fosse così felice e mi ha detto che le è venuto il ciclo, che per fortuna non è rimasta incinta”. Ma non è il rischio di una gravidanza indesiderata a farlo innervosire: “Quello che davvero non concepisco è che si sia sverginata con un tipo, che tra l’altro ha davvero la faccia da stronzo, con cui è uscita per una settimana, che l’ha mollata per un’altra e poi è tornato da lei. E la sera stessa in cui si sono rimessi insieme lei c’è andata a letto, senza precauzioni e senza il minimo rispetto per se stessa”. E per l’8 marzo, dice Mattia, non avrebbe senso regalare le mimose alle sue amiche: “I fiori non li vogliono. Le uniche ad apprezzarli sono le prof”.

Esistono nella nostra società troppe persone dalla condanna facile, meglio detti come individui sputasentenze, ovvero sapientone, saputello, saputo, presuntuoso, saccente, pedante, cacasenno. Per questi signori vi è un detto "chi sputa in aria gli ritorna in faccia". Ad Alessandra Mussolini è capitata una tragedia. Il marito è rimasto invischiato nel caso delle baby squillo dei Parioli a Roma. Non è stato attaccato lui per la sua presunta responsabilità penale, ma Alessandra Mussolini. Come si suol dire “in ogni casa c’è una croce”, quindi di fronte alle disgrazie che ci capitano non bisogna abbatterci, ma far buon viso a cattivo gioco.

Da quanto ricostruito dal quotidiano Il Messaggero, Alessandra Mussolini, avrebbe detto in lacrime al telefono: “La mia vita è distrutta”. Un filo di voce. «Cosa posso dire? Sono distrutta». Alessandra Mussolini risponde al telefono per un secondo, e si sente chiaramente che piange. Piange. Piange anche al telefono quando la giornalista del Messaggero riesce a farsi rispondere dopo giorni di chiamate a vuoto. "Cosa posso dire? Sono distrutta", dice ad Cristiana Mangani da casa della madre dove si è trasferita con i tre figli Caterina, Clarissa e Romano. "Devo pensare a loro, devo proteggerli", ha detto alle poche persone che sono riuscite a parlarle. Poi, si sarebbe rifugiata a casa della madre con i tre figli.  ”Devo pensare a loro” avrebbe raccontato alle persone che le stanno vicino. Floriani avrebbe comunque lasciato la casa di famiglia, sarebbe stato cacciato di casa.

Già, lei dice: “sono distrutta”. Quindi pensa solo a se stessa. Non dice riferito al marito: “Si è distrutto la vita”. E di convesso stargli vicino nel momento delle difficoltà. In questo caso, essendo paladino dei deboli, sto con il marito. Però non posso fare a meno di stare vicino a tutta la famiglia quando si muove la gogna mediatica.

«Vogliamo essere lasciati in pace». A pochi passi da Villa Torlonia, dove il Duce visse fino al tradimento, Alessandra Mussolini si trascina nel suo personalissimo dramma, scrive “Il Messaggero”.  È sera quando entra nella villetta ocra sulla Nomentana, a bordo di una piccola Citroen nera guidata dal domestico sudamericano. È «triste e distrutta». È stretta in un giubbotto nero. Nervosa, così tanto, da non trovare subito la serratura del cancello interno. «Non voglio parlare, basta». Le lacrime del giorno dopo non ci sono più, per la senatrice di Forza Italia. Ora c’è il peso della ingiusta gogna del web, di quel marito sposato nella familiare Predappio 25 anni fa e finito in una storia che indigna, come la prostituzione minorile (reato ammesso dall’indagato). Non si sa se Mauro Floriani sia stato o meno «cacciato di casa», come hanno fatto circolare nel circolo politico-mediatico di cui Alessandra Mussolini, la mamma Maria Scicolone e la zia Sofia Loren («Negli Usa ma vicina con il cuore») fanno parte. Nel primo pomeriggio quando il sole manda forti illusioni d’estate, l’ex capitano della Finanza, si materializza nella villetta vicino a Villa Torlonia. Va a casa. È in sella a uno scooter nero, Honda Sh 150. Dà gas fino al secondo accesso. È elegante e asciutto dietro gli occhialini da manager. Nel cortile interno c’è la Smart nera di Alessandra con il pass del Senato. Sarà in casa anche lei? Ci sarà la resa dei conti? O forse il perdono?  Dopo poco, venti minuti, eccolo di nuovo, Floriani. Versione papà metropolitano. «Non voglio parlare, zitti, c’è lui». E mima il gesto di cucirsi la bocca con l’ago e il filo come si fa all’asilo. Lui è il più piccolo dei tre figli. Ha il borsone ben ficcato in spalla della scuola calcio, che fa pendant con la tuta. E di fronte all’innocenza di questo bimbo con non ancora tutti i dentini in bocca, papà taglia corto. E si disegna una cerniera invisibile sulle labbra: «C’è lui, per l’amor del cielo». Inforcato lo scooter scompaiono. Ma dentro, nel cortile, rimane la Smart nera della nipote del Duce, che dopo poco viene portata via dal domestico a cui Floriani - con l’autorità di chi è ancora il padrone di casa - ha impartito disposizioni: «Vai a prenderla». E forse è riferito ad Alessandra oppure a una delle due figlie. Il campanello suona a vuoto. Forse Alessandra - «che tanto lo farà nero», come chiosano i portieri dei palazzoni della Nomentana - è dalla sorella, Elisabetta, il notaio. Oppure è andata a trovare conforto dalla mamma che fino a poco tempo fa stava dalle parti di corso Trieste: «Cercate di capirci - dice gentile ma ferma Maria Scicolone - Il mio consiglio da madre per Alessandra? In questi casi non ci sono consigli». Nella follia di Twitter intanto impazzano hashtag violenti contro la parlamentare, tanto che in serata le arriva la solidarietà bipartisan dei colleghi Fabrizio Cicchitto, Renato Schifani e Maurizio Sacconi (per l'Ncd) ma anche dei sottosegretari Simona Vicari e Riccardo Nencini. E se la rete lapida, in questo quartiere, dove i Mussolini sono di casa da sempre, ci sono finalmente raggi di solidarietà. Si spererebbe più ampia e trasversale. «Alessandra? È molto sensibile nella vita privata, differente da come appare in tv. L’ha presa male», spiega un vicino, un avvocato. Nel ristorante abruzzese di corso Trieste se la ricordano bene questa famiglia: «Sì, nostri clienti, uniti e felici». Un altro portiere: «Secondo me lo lascia». Il bar, la vineria, il negozio di tendaggi: tutti ce li hanno ben a mente. Lei, «la dura e simpatica», e lui «così slanciato e riservato». Allora bisogna ritornare a casa per capire se la parlamentare stia cercando la trattativa più difficile della sua vita. Davanti al cancello ecco Caterina, la figlia più grande, con un cane al guinzaglio: «Mettetevi nei miei panni, ho diciotto anni, è tutto il giorno che siamo tempestati. La mamma? Non c’è». E invece poco dopo arriva con la Citroen. Chissà se ritornerà papà.

Prostituzione minorile, la famiglia difende il marito della Mussolini. Le ragazze dell’inchiesta: «Ci davano i voti come alle macchine», scrive Maria Corbi su “La Stampa”. L’importante adesso è tutelare i figli. In casa Floriani-Mussolini tira una brutta aria, difficile anche pensare a cosa sia la cosa giusta da fare, soprattutto da dire. Alessandra Mussolini resta muta, ma chi pensa che il suo matrimonio sia finito sgretolato da questa storia di tradimento e baby squillo si sbaglia. Il colpo è stato duro ma la coppia è sopravvissuta a molte tempeste e, anche se questa è più aggressiva, sullo sfondo c’è una vita passata insieme, da quando erano ragazzini, e tre meravigliosi figli che devono essere salvaguardati dalla curiosità e anche dalla ferocia dei commenti sul web. I vicini di casa, nel quartiere Nomentano, raccontano di tre ragazzi molto legati al padre. E adesso lo difendono. Il fidanzato della più grande, su Facebook, posta una frase chiarissima: «Viviamo in un mondo dove regna la superficialità... La gente si accontenta della prima notizia, del primo fatto! La gente è invidiosa e non vede l’ora che qualcuno fa un passo falso per sputargli addosso come se niente fosse». Dunque nessuno ha abbandonato Floriani, e il silenzio è dettato da prudenza e dolore. Anche mamma Maria Scicolone preferisce non dire nulla, appoggiando come sempre le scelte della figlia. E se si torna indietro nel tempo si trovano dichiarazioni di Alessandra Mussolini che oggi sembrano interpretare questo silenzio: «Nel caso Marrazzo, io ho sempre detto di non pubblicare la lista dei nomi. Non diciamo le cose che non sono vere; così si rovinano le famiglie». E lei lotta per tenere insieme la sua, cercando di ripararsi dagli schizzi di verità scomode miste a fango. In un Paese morbosamente attratto dalle liste dove la privacy sul nome degli indagati è continuamente ignorata. Come il principio «innocente fino all’ultimo grado di giudizio». E intanto continua l’inchiesta sulle baby prostitute da cui emerge il ritratto di un mondo malato con adolescenti allo sbando e adulti a cui è difficile trovare un aggettivo. «Ci trattavano come macchine», ha detto una delle ragazzine agli inquirenti riferendosi all’abitudine dei clienti di recensirle sul web. Al gip una di loro ha spiegato: «Chiedevamo sempre di non avere ragazzi troppo giovani, per il fatto che magari li potevamo conoscere. Cioè, tipo di 18, 20 anni no, perché magari li potevamo conoscere. Questa era l’unica nostra preferenza». Ai clienti hanno sostenuto di aver sempre detto di essere maggiorenni: «Anche se mi è capitato che qualche cliente mi dicesse, vedendo le forme, “Ma sei sicura? Sembri più grande”. Noi più che altro ci mettevamo i tacchi e ci vestivamo più elegante possibile per sembrare più grandi. Quando poi abbiamo visto che ad alcuni clienti non gliene fregava niente, ci vestivamo normali. Ci truccavamo ma in modo normale. Io mi ero fissata in testa come se avessi proprio 18 anni, dentro di me non avevo più 15 anni, facevo come mi pareva».

Alessandra Mussolini: "Attaccata come politico ma umiliata come donna". Il dramma di una donna calpestato dal qualunquismo: quando le antipatie personali o politiche superano l'umanità, scrive Roberta Marchetti su "Today". Colpita due volte. La prima alle spalle, da un marito modello che per anni ha nascosto il marcio dentro fino a ritrovarsi sbattuto in prima pagina, nei titoli dei tg in prima serata che gridano al mostro. La seconda, come se non fosse già agonizzante, in faccia dopo aver preso bene la mira, da estranei oppositori politici, o più semplicemente non simpatizzanti, che aspettavano un passo falso per affondare il colpo. Sono loro i carnefici di Alessandra Mussolini e la uccidono orgogliosi ogni giorno, per la seconda volta, su web e social network. Sono militanti politici a cui ribolle il sangue solo a sentire quel cognome "pesante", facinorosi per cui ogni pretesto è buono, sostenitori dei diritti omosessuali a cui non è mai andato giù quel commento rozzo e ignorante del "meglio fascista che frocio" urlato a Vladimir Luxuria e soprattutto sono i media morbosi e accecati da una spregevole caccia alle streghe. Per loro non è tanto importante chi ha sbagliato, quanto picchiare duro senza pietà. "E' la giusta punizione", "Se lo merita", "Dio esiste", "Che bello così non la vediamo per un bel pò", "Chissà se proporrà la castrazione chimica anche stavolta" sono solo alcuni dei messaggi rivolti ad Alessandra Mussolini che si possono leggere in Rete, tra le decine e decine di articoli e post che gridano allo scandalo. Poco importa se dietro c'è un dramma familiare, poco importa se una donna (non un politico, una donna!) sta vivendo il momento più buio della sua vita da quando ha scoperto che il marito, con cui ha tre figli, è accusato di sfruttamento della prostituzione minorile. Nessun rispetto per una donna distrutta, nessuna compassione per una persona tradita nel profondo. Davanti a vicende come questa diventa tristemente palese che l'antipatia non conosce pietà, nè solidarietà umana per lo sgretolamento di un mondo intimo nel quale per anni si è trovato rifugio e dal quale improvvisamente si è costretti a scappare. E' giusto allora iniziare a delineare confini netti non solo tra pubblico e privato, ma tra politica e umanità, tra ciò che una persona rappresenta e ciò che è. Non è obbligatoria la solidarietà, ma quanto meno il silenzio.

Dall’Italia. Il caso delle baby squillo dei Parioli, che tanto ha indignato, continua a far discutere soprattutto da quando tra gli indagati è spuntato il nome di Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini, scrive Marianna Merola su “Lecce News”. Qualunque donna sarebbe distrutta se scoprisse, per caso, il tradimento del proprio uomo. Qualunque donna trasformerebbe poi il dolore in «sdegno» (per non dire «schifo») se l’altra persona coinvolta nel triangolo fosse in realtà, poco più di una bambina. Qualunque donna si sentirebbe offesa, lesa nella dignità di moglie o compagna, ferita….tradita, insomma! Perché la storia dovrebbe essere diversa se ti chiami Alessandra Mussolini? Il fatto di essere la nipote del Duce (come alcuni commenti su Twitter hanno ipotizzato) giustifica forse un paio di corna? Essere colei che si è battuta con tenacia, per anni, contro la pedofilia le fa in qualche modo meritare di essere finita in una vicenda che reputava, a ragione, lontana dalla sua famiglia? Non è sempre la moglie l’ultima a sapere? Certo, è innegabile che forse prima di parlare ognuno dovrebbe guardarsi un po’ intorno, dentro casa nel suo caso, ma ci sono situazioni che vanno al di là di ogni immaginazione. E poi le battaglie condotte anche facendo appello al pugno duro (come la castrazione chimica) perdono improvvisamente valore sol perché ti ritrovi accanto un marito diverso da come credevi che fosse? Fin da quando è partita l'inchiesta della Procura di Roma sulle baby squillo dei Parioli si era mormorato che tra i clienti ci fossero nomi importanti. Voci, indiscrezioni, che facevano “tremare” gli habitué di quell'appartamento romano dove due ragazzine di 14 e 16 anni avevano scelto di dar via il loro corpo in cambio di un po' di soldi per comprarsi scarpe e vestiti. Ora salta fuori che tra gli “insospettabili” che avrebbero varcato quel portone nel quartiere più chic della capitale, ci sarebbe Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini, ex ufficiale della Guardia di Finanza attualmente ai vertici delle Ferrovie dello Stato. Su di lui magistrati avrebbero raccolto «elementi probatori incontrovertibili». La notizia è trapelata sui giornali ed ecco che sul web, personaggi noti e meno noti, gente comune e vip si sono lanciati in battutine al vetriolo, frecciatine e commenti al veleno. L’ultimo in ordine di tempo è stato quello di Vladimir Luxuria. L'ex parlamentare di Sel non ha dimenticato le parole della Mussolini che qualche anno fa le disse «meglio fascista che fro***». Così ora passa al contrattacco e su twitter in 140 caratteri replica: «non mi piace infierire su un dramma in famiglia ma la vicenda Mussolini insegna che prima di giudicare gli altri è meglio guardarsi attorno». Lecito togliersi qualche sassolino dalla scarpa se non fosse che qualche minuto dopo ha ritwittato un cinguettio in cui le veniva consigliato di indossare una bella t-shirt con la scritta «meglio fro*** che pedofilo...». Un messaggio da recapitare direttamente alla Mussolini. A lei che tra le lacrime ha affermato di avere una «vita distrutta». A lei che piange al telefono quando la giornalista del Messaggero riesce a parlarle dopo giorni di chiamate a vuoto. A lei che ha cercato conforto a casa della mamma. A lei che ha cacciato di casa il marito. A lei che è stata tradita due volte: come donna e mamma di due figlie in primis e come politica poi. La deputata di Forza Italia, come diciamo noi salentini, forse non avrebbe dovuto dire "de quai nu passu" ma la cattiveria di cui è stata oggetto in questi giorni è talmente crudele e gratuita che rischia addirittura di offuscare le responsabilità in questa storia (accertate o da accertare) di quello che fino pochi giorni fa era il suo compagno di vita. Insultare e gioire del suo dramma facendolo passare per una sorta di meritato contrappasso fa orrore. Per cui, forse sarebbe bene considerare Alessandra Mussolini non come nipote di Sofia Loren o discendente di Benito Mussolini ma come qualunque altra donna tradita. Immaginarla a lanciare piatti contro il marito mentre gli urla parole irripetibili in un turpiloquio che farebbe invidia addirittura ad uno “scaricatore di porto”. Con la stessa determinazione e tenacia che hanno caratterizzato l’altra Alessandra, quella politica.

Baby-squillo romane: la gogna mediatica di Alessandra Mussolini, scrive Enrico Maria Secci. Alessandra Mussolini ci ha edotto per anni sulla moralità, sulla sessualità e sulla famiglia dalle poltrone di ogni salotto televisivo possibile, dalle tribune politiche, dai rotocalchi patinati e dai telegiornali. Con matriarcale veemenza ha bastonato ogni chi in ogni dove, praticamente senza sosta e senza pietà alcuna non dico per l’altrui sensibilità, che sarebbe stato chiederle troppo, ma nemmeno per le proprie corde vocali e per i timpani degli sventurati interlocutori. L’eloquio verace e insultante della Mussolini ha sparato a zero su omosessuali e famiglie di fatto, unioni civili e adozioni gay con quell’insistenza ossessiva di chi presume di possedere quella verità morale assoluta che, per diritto divino, non debba mai incontrare il dubbio e contaminarsi nel civile dibattito con chi, povero lui, non abbia bevuto alla pura fonte della dottrina mussoliniana. In questi giorni tutta questa sacrale saccenza si è frantumata sotto il peso della vergogna. Le cronache di prima pagina hanno distrutto in un attimo la persona e il personaggio diffondendo la notizia del coinvolgimento del marito di Alessandra Mussolini nel giro di baby-squillo romane. La vicenda, a base di prostituzione minorile, faccendieri d’alto bordo e cocaina è quanto di più immorale e sordido potesse colpire le immani certezze della predicatrice pubblica ma, per contrappasso, contiene anche il solo insegnamento morale che la signora Mussolini ci abbia impartito. Ovvero, che l’intransigenza morale, la rigidità marziale nel giudicare le altrui vite, scelte e condizioni, l’inflessibilità e l’arroganza nel difendere “politicamente” e aprioristicamente un modello eterocentrico e vaticaneggiante della società a discapito di chiunque non gli corrisponda è, come mostra la triste storia della donna e della politica, l’indice di una gravissima inconsapevolezza di se stessi e di una imperdonabile visione semplicistica dell’essere umano negli affetti, nella famiglia e nella società. Alessandra Mussolini è certamente incolpevole se il marito a sua insaputa ha indugiato con prostitute minorenni e non merita la lapidazione che sta subendo nei social-network. Purtroppo, è vittima di una sorta di “Legge del Taglione da Social-media” che le restituisce con gli interessi le offese, gli insulti e il cattivo gusto con cui la signora Mussolini ha trattato tutti coloro che mostrassero il minimo disaccordo con la sua grandiosa e immacolata moralità della Famiglia Perfetta e non solo. Non le si perdona il fatto di aver giudicato gli altri senza guardare in casa propria e, per quanto le reazioni del web siano esecrabili, non si possono definire propriamente gratuite. Una delle acquisizioni della psicologia è che una struttura morale rigida, assolutista e intransigente è spesso correlata a una profonda fragilità e, anche quando appare solida come il granito, è destinata a crollare fragorosamente, smentita dalla realtà. Perché quando ci si arroga il diritto di avere sempre l’ultima parola e possedere il “Verbo”, non si esprime un parere costruttivo ma si agisce un sintomo e occorrerebbe fermarsi, anziché continuare nell’inconsapevolezza più assoluta e nell’inconsistenza dei “valori” che si vogliono porre come gli unici e sovrani.
La vita presenta il conto ai moralisti, e lo fa in modo orribile e devastante. Perciò bisogna solidarizzare con Alessandra Mussolini, comprendere la portata della tragedia umana, politica, psicologica e morale che la ha travolta e tacere per riflettere sulla grande lezione che, seppure indirettamente, ci sta impartendo sull’inutilità di propugnare il moralismo anziché meditare sulla complessità della vita e dei sentimenti umani.

Alessandra Mussolini (ingiustamente) insultata sul web: lei non ha colpe, scrive Angela Vitaliano su “Il Fatto Quotidiano”. Alessandra Mussolini, da me lontanissima per posizioni politiche, da giorni è bersaglio, soprattutto sui “social”, di un’ondata di insulti e di affermazioni di becera soddisfazione per la triste vicenda che la vede coinvolta solo in quanto moglie di un tizio che aveva scelto, colpevolmente, di intrattenere rapporti sessuali con minorenni. L’odio messo in campo per insultare la signora Mussolini è talmente profondo che addirittura la figura colpevole del marito, la figura, ripeto, dell’unico colpevole, a volte, viene messa del tutto da parte. E trovo tutto ciò profondamente triste. Non che non comprenda le antipatie che Alessandra Mussolini possa aver collezionato in questi anni con i suoi atteggiamenti. Non che dimentichi le sue “criticabili” posizioni politiche e le sue manifestazioni pubbliche a favore di Silvio Berlusconi, altrettanto sensibile al “fascino giovanile”. La signora Mussolini, come ho detto, politicamente è per me l’antitesi di ogni mio principio. Quella, però, ricordo è “politica” che lei esercita in quanto, cittadini italiani, in virtù della propria libertà di voto, l’hanno eletta e continuano ad eleggerla da decenni. In più, aggiungo, che proprio perché mi colloco politicamente nel punto più distante da lei, rivendico il fatto che non mi appartengono atteggiamenti giustizialisti né voglie di liste di proscrizione o di pubblico ludibrio. Quelle sono cose dell’altra parte e nemmeno sempre. Io vedo una donna, madre di due figlie femmine, che è stata travolta da una tragedia familiare che annienterebbe i più e che, proprio per tutti i suoi trascorsi, a lei deve pesare, necessariamente, ancor di più. E in questa tragedia lei non ha colpe: lei non ha infranto la legge e lei non è andata con le minorenni. Insultare e gioire della cattiva sorte di una donna ferita perché pensiamo che quanto stia accadendo sia un meritato contrappasso mi fa orrore. In questi giorni in cui le donne sono al centro dell’attenzione con la mancata approvazione delle – così orrendamente definite – quote rosa, che mi vedono assolutamente contraria, io mando, virtualmente il mio abbraccio alla signora Mussolini. Che oltre la pena non merita l’insulto. Essendo innocente. 

Caso Mussolini: pietà l’è proprio morta, scrive Marina Terragni su “Io Donna”. Per aver scritto sulla mia pagina Facebook: “Ad Alessandra Mussolini è capitata una cosa tremenda. Non si può non solidarizzare con lei” (mi riferisco evidentemente alla vicenda del marito indagato per la vicenda delle baby-prostitute dei Parioli), sono stata duramente rampognata. La cosa più gentile che mi hanno risposto è “cazzi suoi“, e poi “è la legge del karma“, “Io non solidarizzo certo con chi ha urlato meglio fascista che frocio, con chi ha giustificato e votato un presidente del consiglio che andava a letto con una minorenne”, ” Un po’ di purgatorio (3000 anni?) se lo merita tutto”, “Che goduria ce la togliamo dagli schermi”, “Andasse a farsi ricostruire dal chirurgo plastico”, ” la Mussolini invocava la castrazione chimica per i pedofili... La applicherebbe oggi anche al marito?”, ” La mentalità di suo marito è la stessa grazie alla quale lei ha firmato un DDL che vorrebbe normalizzare la prostituzione senza dire una parola sui clienti che con la loro domanda sostengono un mercato per il quale vengono schiavizzate migliaia a migliaia di donne e bambine (milioni nel mondo)”. E così via. Oltre all’ovvio: si deve solidarizzare con le ragazzine, non con lei (come se le due solidarietà fossero in alternativa). E al non-ovvio: praticamente neanche una parola su quel marito che ha fatto tanto male a una ragazzina di 15 anni, e anche, dall’altro lato, alla sua famiglia e ai suoi figli. Chi mi conosce può intuire la mia vivissima antipatia politica per Alessandra Mussolini. Ma questo non mi impedisce un sentimento di umana compassione. Ti capita una cosa del genere e la tua vita deflagra. E’ un attimo, e non sai più chi sia l’uomo con cui hai condiviso la vita. Sei ridotta in poltiglia, ma devi mantenere la lucidità necessaria per parare il colpo ai figli. Non siamo nel prosaico del tradimento, che pure fa male: qui è l’apocalisse. Mi avventuro anche a fare un pensiero sul quell’inspiegabile -per me- che è la sessualità maschile. Che un uomo possa desiderare una fanciulla forse arrivo a capirlo. Che invece quel desiderio arrivi ad agirlo, pagando le prestazioni sessuali di una quasi-bambina, sapendo di commettere, prima ancora che un reato, un gesto umanamente violentissimo nei confronti di quella creatura, rischiando oltretutto di buttare all’aria la propria vita, quella della propria famiglia e dei propri figli, oltre a quella della ragazzina… be’, questo no. Questo non lo so proprio comprendere. L’incontrollabilità di quell’impulso mi sfugge. Mai provato nulla del genere nella mia vita. E grazie al cielo. Qui sono tutti vittime (le ragazzine, la moglie, i figli, le rispettive famiglie) di una sessualità maschile fuori controllo. Tornando a lei (sui SN viene fatta a pezzi, le si chiede che si dimetta da parlamentare, si sghignazza, le si augurano le peggio cose): in effetti sì, quello che le è capitato si potrebbe anche leggere come una nemesi, come “legge del Karma”. Come una tragica e beffarda messa alla prova. Il che non toglie nulla alla mia umana compassione. Io la provo. E se è una nemesi, forse la provo anche di più. Quando una persona cade, e cade così male, (in questo caso, quando cade perché gli è caduto addosso il marito a peso morto) io non festeggio, nemmeno se è un nemico. Non riesco a prendermi una soddisfazione: è troppo amara per il mio stomaco. Provo compassione per suo nonno, quando vedo le immagini del suo corpo appeso a un distributore a cento metri da casa mia. Figuriamoci per lei. Non intendo privarmi del sentimento risanante della compassione.

Il dramma di Alessandra Mussolini, il brusco risveglio della senatrice. Il marito coinvolto nello scandalo delle baby squillo. Tweet di Bassolino: io vicino alla mia ex avversaria scrive Anna Paola Merone su “Il Corriere del Mezzogiorno”. La coppia aveva già traballato su un presunto video hard. Venticinque anni di matrimonio sono un traguardo che non tutti raggiungono. Alessandra Mussolini stava quasi pensando di festeggiarli alla grande, prima di scoprire che il marito è indagato nell'inchiesta romana sulle baby squillo. Un brusco risveglio per la senatrice che, attraverso cinque lustri, ha governato la sua vita politica e quella familiare con lo stesso piglio deciso. Ha voluto fortemente e sposato — il 28 ottobre del 1989 a Predappio — Mauro Floriani, fascinoso ufficiale della Guardia di Finanza che, sette anni dopo le nozze ha cambiato lavoro. Una scelta definita all'epoca inopportuna per una serie di conflitti di interesse. Ma allora Alessandra, la leonessa, insorse. «Ora teniamo famiglia, abbiamo una figlia - disse la senatrice difendendo il marito -. Avremmo dovuto lasciarla crescere con una madre che sta sempre in giro a far politica e un padre sballottato continuamente da una caserma all'altra dell'Italia? Eh no, signori miei: abbiamo avuto l'occasione di mettere a posto le cose e non ce la siamo fatta sfuggire». Intanto la coppia ha tre figli — Caterina, Clarissa e Romano — e va avanti a gonfie vele con un equilibrio magari non convenzionale, ma efficace. È il 2009 quando la Mussolini finisce in un chiacchiericcio spiacevole. Si parlò di un suo video hard insieme con il leader di Forza Nuova Roberto Fiore. «Mio marito come ha reagito? — sbottò lei —. Ho chiesto a Mauro di andarmi a comprare Il Giornale in edicola. Poi lo abbiamo letto insieme. Non sapevo se ridere o arrabbiarmi. I miei figli? Sanno che faccio politica, che è un lavoro pericoloso. Siamo come negli anni Settanta. Prima gambizzavano. Ora fanno così: non lanciano pallottole, ma video hard. Anche nel caso Marrazzo, io ho sempre detto di non pubblicare la lista dei nomi. Non diciamo le cose che non sono vere; così si rovinano le famiglie». Su questa storia di baby squillo e clienti noti della Roma bene, però, la grintosa Alessandra non è venuta fuori con la consueta verve. Non ha convocato i giornalisti, non ha sbandierato le sue verità assolute. Difficile trovare le parole giuste quando per una vita si è tuonato contro la pedofilia, difficile parlare di un marito di cui si sussurra un coinvolgimento più significativo di quello ipotizzato nelle prime ore. Difficile anche perché Alessandra si sente tradita due volte: messa all'angolo come donna da un marito che ha incominciato a guardarsi intorno forse annoiato. E umiliata come politica che si è sempre battuta per punire — anche con la castrazione chimica — i pedofili. Mauro Floriani deve averci pensato molto prima di parlare con la sanguigna moglie del suo segreto più grande. Di quelle telefonate compromettenti, dell'indagine nella quale temeva di essere coinvolto. Ha deciso con lei — e con gli avvocati — di presentarsi spontaneamente ai carabinieri. Ma non basta una buona strategia difensiva per lenire una donna ferita profondamente. Le colpe dovranno essere eventualmente dimostrate dagli inquirenti, ma è certa la debolezza un uomo che ha perso di vista la famiglia, dimenticato di avere figlie che stanno vivendo malissimo questo polverone mediatico e che ha esposto la moglie a più di una frecciata. Tradita e umiliata, Alessandra desidera in queste ore solo il conforto di sua mamma Maria e di sua zia Sophia. Mentre affila gli artigli. «Duellammo in modo duro ma con reciproco rispetto, 20 anni fa. Ad Alessandra Mussolini esprimo la mia vicinanza umana». Lo scrive su Twitter Antonio Bassolino, che nel 1994 fu eletto sindaco di Napoli battendo proprio la Mussolini.

Alessandra Mussolini e la solita polemica del Web che fa orrore, scrive Alberto Grandi, Redattore e coordinatore della sezione Idee per Wired.it. Ci risiamo. Ieri Fiorello, oggi Alessandra Mussolini. Povere vittime di questo web cattivone che non risparmia  nessuno e gronda volgarità da ogni pixel. A difendere la bersagliata di turno, vittima del paradosso di aver inneggiato alla castrazione chimica contro i pedofili e di ritrovarsi, in casa un marito, coinvolto nel giro di clienti delle baby squillo dei Parioli, ci ha pensato la giornalista Maria Giovanna Maglie. Dopo Severgnini, ecco l’ennesima penna che soccorre il vip crocefisso dai 140 caratteri di Twitter e sulle pagine della testata che la ospita – Libero Quotidiano – scrive: “La cosa più disgustosa di tutte è il profluvio di insulti, sarcasmi, battutacce, soddisfazione sui cosiddetti social network, nei commenti agli articoli sui siti dei giornali e delle agenzie”,  e ancora:  ”un web immondizia che non mi stupisce ma mi fa orrore, perché al normale esercizio senza rete di personaggi quasi sempre nascosti da pseudonimi”. A dragare un po’ la rete si trovano gli insulti alla Mussolini, ma anche tanti tweet di solidarietà. Insomma, in questo caso, ma forse anche negli altri, a ben vedere, i social network sono stati usati come piattaforma sia per insultare sia per esprimere vicinanza a una donna che sta vivendo un momento difficile, al di là della simpatia o dell’antipatia che può ispirare. C’è da dire una cosa, però: se Maria Giovanna Maglie si stupisce e sdegna per il deplorevole linguaggio della rete, allora come si è sentita nelle varie occasioni in cui la Mussolini, con la rapidità e la violenza di uno dei tanti tweet incriminati e riportati a piè di pagina dell’articolo, si è rivolta a qualcuno e per giunta pubblicamente? Nel 2006, durante una puntata di Porta a Porta a cui era presente Vladimir Luxuria, Alessandra Mussolini disse: “Si veste da donna e crede di poter dire tutto quello che vuole… meglio fascista che frocio“. Nel 2013 durante una puntata di L’Aria che Tira, al giornalista Andrea Scanzi che aveva detto di non aver nessun rispetto per il nonno Benito, la nipote rispose: “Io devo stare qua a sentire questa testa di cazzo?. Sempre nel 2013, nel corso del quarto scrutinio dell’elezione del Presidente della Repubblica, per protestare contro la candidatura di Romano Prodi, era entrata nell’aula della Camera assieme alla collega senatrice Simona Vicari indossando magliette recanti le scritte “No questo no” e “Il diavolo veste Prodi“.In realtà il linguaggio politico della Mussolini è stato precursore di quello violento, aggressivo, di pancia che molti giornalisti della carta stampata imputano alla rete e ai social network. Come dice il proverbio? “Chi semina vento raccoglie tempesta”. Se Maria Giovanna Maglie, invece, seminando accuse al web voleva innescare un dibattito a colpi di tweet e post, guadagnando  visibilità, avrebbe dovuto inventarsi un hashtag per catalizzare il flusso di tweet e post che si aspetta, come aveva avuto la furbizia di fare Severgnini – #fiorelloincidente – a proposito di Fiorello.

Caso baby squillo, la Lucarelli contro la Mussolini su Facebook, scrive Sissi De Rosa. Selvaggia Lucarelli si scaglia contro la Mussolini su Facebook, a seguito della notizia che il marito dell’onorevole è indagato nel caso baby squillo di Roma. E’ di poche ore fa la notizia del marito della Mussolini indagato come possibile cliente nel caso baby squillo di Roma. Il commento di Selvaggia Lucarelli su Facebook non si fa attendere, ed utilizza parole molto dure sull’onorevole Alessandra Mussolini, sulla quale è stata gettata un’ombra per questo caso che sta scuotendo la cronaca italiana. Ecco cosa ha detto Selvaggia Lucarelli su Facebook a proposito della Mussolini e del marito indagato. La Lucarelli ha postato un lungo intervento sul social network, riguardo le baby squillo, che inizia così: “La Mussolini, quella che vuole la castrazione chimica per maniaci e pedofili, quella delle urla in tv contro la degenerazione dei costumi e delle famiglie, quella dei no al patteggiamento per chi va coi minori“. Sì perché la Mussolini è nota per le sue dure parole in casi del genere, ed ora si ritrova a fare i conti con un marito indagato per prostituzione minorile. E così la Lucarelli si scaglia contro questo perbenismo che si è ritorto contro all’onorevole, dicendo a proposito del marito che sembrerebbe essere “uno dei tanti clienti delle baby squillo. (pare, sì. Poi se le chiamava per farsi dire le date dei concerti di Justin Bieber non lo so)“. Con ironia e polemica, Selvaggia Lucarelli non le manda di certo a dire alla Mussolini. E così dice che sarebbe “meglio buttare un occhio in casa propria, prima di lanciarsi in crociate giustiziaste“. Naturalmente l’attacco alla Mussolini va preso con le pinze, perché la Lucarelli comunque afferma che l’onorevole potrebbe essere una vittima della vicenda baby squillo. E poi si chiede se la Mussolini invocherebbe ancora la castrazione chimica, sapendo che uno dei “mostri” che lei ogni volta mette alla gogna potrebbe essere proprio suo marito, che ogni sera cena con lei, dorme nel suo letto. Insomma, la vicenda è sicuramente controversa, e questo è il parere di Selvaggia Lucarelli sulle indagini che vedono protagonista il marito della Mussolini nel caso baby squillo. Avete letto il suo post su Facebook? Cosa ne pensate?

Ognuno, in questi giorni, ha rivendicato un motivo ritenuto giusto per denigrare Mussolini, subissata di battute di becera soddisfazione, scrive Corinna De Cesare su “Il Corriere della Sera”. Mauro Floriani, ai più, continua a essere un nome come tanti.  Perché nei giorni in cui, dall’attività investigativa degli inquirenti si è saputo che anche lui era nell’elenco dei clienti delle prostitute minorenni dei Parioli, il suo nome è stato sostituito con “il marito della Mussolini”. Di più: sui social network e nei commenti online degli articoli delle più importanti testate nazionali, il caso di un uomo, ex capitano della Finanza e padre di tre figli che avrebbe reclutato sul web una squillo 15enne, sembrava non interessare più di tanto. A finire in primo piano è invece stata sua moglie, Alessandra Mussolini. Insultata e ridicolizzata per la sua storia politica, per le sue partecipazioni al Family day,  i suoi legami di sangue, le sue battaglie più o meno condivisibili, per quella brutta frase “meglio fascista che frocio” urlata contro Vladimir Luxuria durante una puntata di Porta a Porta. Ognuno, in questi giorni, ha rivendicato un motivo ritenuto giusto per denigrare Alessandra Mussolini, che è stata subissata di battute di becera soddisfazione. Non solo: c’è chi le ha chiesto le dimissioni da parlamentare, chi le ha rinfacciato l’ipocrisia o il falso moralismo come se a essere indagata per prostituzione minorile fosse proprio lei. Lei e non il marito. Pochi quelli che sono andati al di là delle proprie convinzioni ideologiche, ancora meno quelli che più semplicemente hanno rispettato il dolore di una vicenda familiare incredibilmente dolorosa per una serie di ovvie ragioni. “Le sta bene”, il concetto espresso in dieci mila varianti da battutisti di professione (e non) che ormai si divertono a vomitare, in egual misura nella piazza virtuale e in quella reale, il loro livore e odio contro tutto e tutti. Meglio ancora se donne.

Dagospia e il format lercio e anche un po’ infame su Alessandra Mussolini.

OGNI VOLTA CHE QUALCUNO ADOMBRA IL SOSPETTO CHE DIETRO UNA BATTUTA, UN ATTACCO POLITICO, UN’IMITAZIONE, UNA VOLGARITÀ, UNO SBERLEFFO QUALSIASI, CI SIA QUESTA FAMIGERATA “CULTURA SESSISTA”, APRITI CIELO! SI SPALANCA IL CATALOGO DELLE IPOCRISIE DEL NOSTRO MONDO, IL MONDO DELLA POLITICA E DELL’INFORMAZIONE - 2. “MI ATTACCANO PERCHÉ SONO DONNA”. QUANTE VOLTE LO ABBIAMO SENTITO RIPETERE NELLE ULTIME SETTIMANE? E VA BENE COSÌ, PER CARITÀ. MA C’È ANCHE CHI VIENE ATTACCATO, ANZI, CHI SUBISCE UNA GOGNA MEDIATICA SPAVENTOSA E SENZA PRECEDENTI, SOLO PERCHÉ È IL MARITO DI UNA DONNA. DI UNA DONNA IN POLITICA DA SEMPRE. DI UNA DONNA DI DESTRA. DI UNA DONNA CON UN COGNOME CHE DIVIDE. MUSSOLINI. MUSSOLINI ALESSANDRA - 3. UNA DOMANDA PER I CHIERICI DEL POLITICAMENTE CORRETTO E LE PAPESSE DELLA PARITÀ’: SBATTERE IN PRIMA PAGINA UN PRESUNTO PUTTANIERE SOLO PERCHÉ’ MARITO DI UNA DEPUTATA, CHE COS'È? UN ALTRO GRAVE CASO DI INSOPPORTABILE SESSISMO? - Tratto da dagospia.com.

- La parità di genere nelle liste elettorali è una “questione di civiltà e qualità della democrazia” (Appello di novanta deputate).

- Basta con la “satira sessista” (Laura Boldrini sull’imitazione della Boschi).

- “Il sessismo, se da volgare battuta da bar sale nelle sfere politiche, se si esprime in Parlamento, se usando blog e siti si diffonde, legittimato da fonti autorevoli, diventa un virus da estirpare” (Giorgio Napolitano, per la festa della Donna).

- “Tutto il politicamente corretto è una cosa sbagliata; ma necessaria” (Michele Serra sulle quote rosa).

“L’insulto del deputato De Rosa esprime una cultura machista, sessista. Non mi fai una critica politica, nel merito, ma mi dici ‘taci che tu fai i pompini’. E’ anche un atto intimidatorio, molto violento. Credo sia senza precedenti” (Alessandra Moretti, Pd, intervistata da Repubblica).

DAGOANALISI. Il catalogo delle ipocrisie del nostro mondo, il mondo della politica e dell’informazione, potrebbe proseguire all’infinito. Queste, erano solo alcune frattaglie del “politicamente corretto” che è tutto intorno a noi. Battaglie da talk show contro questa famigerata “cultura sessista”. Levate di scudi generali ogni volta che qualcuno adombra il sospetto che dietro una battuta, un attacco politico, un’imitazione, una volgarità, uno sberleffo, ci sia un’inammissibile questione di genere. “Mi attaccano perché sono donna”. Quante volte lo abbiamo sentito ripetere nelle ultime settimane? E va bene così, per carità. Ma c’è anche chi viene attaccato, anzi, chi subisce una gogna mediatica spaventosa e senza precedenti, solo perché è il marito di una donna. Di una donna in politica da sempre. Di una donna di destra. Di una donna con un cognome che divide. Mussolini. Mussolini Alessandra. Oggi non la chiamano “Duciona” perché hanno rispetto del suo “grande dolore di madre e di moglie”. Come no. Ora pare che da alcuni tabulati telefonici, questo ex capitano della Finanza che lavora alle Ferrovie fosse cliente di una delle baby squillo dei Parioli. Storia che appassiona molto tutti i quotidiani nazionali per due ragioni: perché i lettori-genitori sono molto preoccupati per le loro figliole e perché vicende del genere sono illustrabili con meravigliose foto ammiccanti di Lolite pixellate, in lingerie e tacchi a spillo. Foto che tra l’altro s’intonano molto bene con certe pubblicità un po’ pedofile sulle quali si guadagna bene. Storie del genere, quando riguardano professionisti e manager, raramente finiscono sulle prime pagine del Corriere della Sera (“Il marito della Mussolini. La telefonata alla minorenne dei Parioli: ‘Ci vediamo?”, ieri) o del Messaggero (‘’Baby squillo: l’ammissione di Floriani”, oggi). Di solito ci si limita a quella penosa stiracchiatura di titoli come “Trema la Roma bene”, “Trema la Milano bene”, “Trema la Trapani bene” e via tremando. Ma in questa storia, no. Ci sono i cronisti asserragliati davanti alla casa del (presunto) manager puttaniere. Che a verbale ha detto di non aver compreso che andava con una minorenne. Tentano l’assalto alla “moglie Alessandra”. Tendono l’orecchio per capire se litigano o fanno la pace. “Forse lei lo caccia di casa”, mormorano e scrivono. Interpellano “i portinai della Nomentana” (Messaggero). Non si fermano neppure davanti al figlio piccolo che esce per andare alla scuola calcio. Vorrebbero un commento, una notizia (notizia?). Il padre fa segno che non può parlare e indica il bambino. Già, c’è sto cavolo di bambino, tra noi e la libertà di informazione. Questo cavolo di bambino. Questa maledetta infanzia “da tutelare” a cui si dedicano innumerevoli convegni e programmi tv. Gli stessi giornali che lottano in modo sconcio (perché la sconcezza è anche questa) per scovare notizie sul presunto papà puttaniere si sdilinquiscono per le parole di Bergoglio. E le vendono in edicola in ogni modo e con ogni mezzo. Che bello, scrivere che il Papa ha detto: “La Chiesa non rifiuta i peccatori. Pensare che sia solo per i puri è un’eresia”. Com’è aperto, il nuovo Papa. Com’e moderno, il nuovo Papa. Com’è buono, il nuovo Papa. E noi con lui. Poi c’è da occuparsi delle ragazzacce dei Parioli e dei loro clienti, e si passa a un altro format. Un format lercio e anche un po’ infame. Un format in cui ci si dovrebbe specchiare e basta. Un format dove alla fine non è chiaro il risultato “di genere”. Ossia se dobbiamo solidarizzare con la deputata Mussolini, sbattuta sui giornali solo ed esclusivamente per colpa del coniuge, oppure rallegrarci del fatto che finalmente i peccati dei maschi non resteranno impuniti. Ovviamente se “mariti di”.

Alessandra Mussolini e la vergogna senza fine. Il caso delle baby-squillo ha scatenato il peggio dell'opinione pubblica ma anche del mondo dell'informazione. Riflettiamoci - Gli attacchi su twitter - Alessandra, vittima non colpevole, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Mi vergogno. Ho letto gli articoli sui quotidiani e i tweet sulla vicenda che coinvolge Mauro Floriani, il marito di Alessandra Mussolini. Una vicenda di baby-squillo. Squallida come i fatti di cronaca che riguardano personaggi noti o anche no. Ma è chiaro che qui non è Floriani a stuzzicare la curiosità dei giornalisti e i sarcasmi del web. Qui è Alessandra, qui è la Mussolini, parlamentare di centro-destra e nipote del Duce. Solo che lei è quella che non c’entra. Richiamare i tradimenti del nonno, affondare la penna nel colore della storia ricamando su un suo personalissimo 25 luglio, insistere sulle battaglie di Alessandra come deputata contro la pedofilia, azzardare una legge del contrappasso evidentemente fraintesa nel suo significato (qui non c’è alcuna legge del contrappasso in azione), mi urta. Mi disgusta. Non mi piace. Non mi raccapezzo più. Sento (la sentivo da tempo) una crisi d’identità professionale. Mi vergogno come giornalista, mi vergogno di certi miei colleghi, mi vergogno della professione di cronista per ciò che è diventata. Un esercizio di maniera che affonda nel gossip, nell’indifferenza etica, nella morbosità pornografica. Mi vergogno per i danni che riusciamo a cuor leggero a produrre nella coscienza dell’opinione pubblica, ma prima ancora per il male che le nostre parole possono infliggere a una famiglia, a una donna, ai suoi figli. Leggo le cronache e inorridisco. Detesto l’assedio ai cancelli di una villa privata con l’obiettivo di stanare un padre e una madre circondati dai figli (la cui presenza non riesce neppure a fungere da scudo umano all’assalto). Quel figlio e quelle due figlie in giovane età non meritano l’accanimento giornalistico al limite dello stalking. Gli appelli del Garante della privacy vengono citati in fondo ai pezzi come fossero solo un altro elemento di cronaca, un orpello, una notiziola, non un invito a riflettere sul proprio lavoro, sulla deontologia professionale, sul pilastro della propria umana sensibilità, sul rispetto dovuto ai minori. Un trascurabile consiglio, niente più. Da cestinare nella chiusa dell’articolo. E poi, ancora, mi colpisce che questo accanimento possa consumarsi grazie alla trascrizione e divulgazione a mezzo stampa di interrogatori con tanto di virgolettati. Quindi mi vergogno non solo per i giornalisti, i miei “colleghi”, ma anche per tutti coloro che li hanno alimentati, foraggiati, aiutati a avere particolari piccanti che dovrebbero restare riservati. Sui quali sarebbe giusto e umano stendere un velo di pietoso silenzio. Non fanno parte delle sanzioni comminate dalla legge (oltretutto prima di qualsiasi processo) la gogna mediatica e l’assedio dei giornalisti a casa propria mentre tornano papà e mamma con i figli da scuola. Ecco perché sospetto che siamo noi cronisti, a volte, i nuovi barbari. Espressione di una barbarie che ci circonda. Siamo noi gli stalker e gli insensibili. Forse, in qualche caso, i potenziali criminali. PS: Mi chiedo chi abbia deciso di divulgare il nome di Floriani ma non quello di altri protagonisti dell’inchiesta come l’anonimo “funzionario di Bankitalia e il figlio di un parlamentare”. Lo hanno deciso i giornalisti o chi li ha generosamente premiati con pacchi di carte giudiziarie grondanti lacrime e squallore?

Il caso delle baby squillo dei Parioli continua a far discutere. Soprattutto dopo che tra gli indagati risulta il nome di Mauro Floriani, marito di Alessandra Mussolini è scoppiata una vera e propria bufera sulla testa dell'azzurra, scrive “Libero Quotidiano”. Polemiche, commenti al veleno e bordate su twitter. Il bersaglio è la Mussolini. Lei, che ha affermato tra le lacrime di avere una "vita distrutta", per le vicende del marito, ora è nel mirino di Vladimir Luxuria. L'ex parlamentare di Sel no  ha dimenticato le parole della Mussolini che qualche anno fa le disse "meglio fascista che fr...". Così ora passa al contrattacco e su twitter spara: "Non mi piace infierire su un dramma in famiglia ma la vicenda Mussolini insegna che prima di giudicare gli altri è meglio guardarsi attorno". Poi ritwitta una cinguettio al veleno: "Cara Vladimir, credo sia ora di una bella t-shirt del tipo 'meglio frocio che pedofilo...'Da recapitare direttamente alla Mussolini!". Insomma Luxuria specula sul dramma familiare della Mussolini. Che di certo, passata la bufera risponderà a Luxuria. Magari togliendosi qualche sassolino dalle scarpe...

Luxuria: "La Mussolini? Chi la fa l'aspetti", scrive “Libero Quotidiano”. La Mussolini? Chi sputa in cielo in faccia gli arriva, è il detto popolare per tradurre il modo di dire 'chi la fa l'aspetti'". Vladimir Luxuria continua a "godere" per i problemi familiari di Alessandra Mussolini. L'ex parlamentare di Sel in un'intervista ad Affaritaliani.it continua a "sparare" sull'azzurra che è finita nella bufera per il marito, Mauro Floriani, indagato per lo scandalo delle baby squillo dei Parioli. "Nei confronti delle persone ha sempre usato l'insulto e toni forti e ha voluto terrorizzare l'opinione pubblica equiparando i gay ai pedofili. Le consiglierei in questo periodo di dolore di ripensare al concetto di sacra famiglia e di famiaglia tradizionale come il bene rispetto al male rappresentato dalle coppie lesbo-gay. Non cerco vendetta e non gioisco per i drammi altrui. Ma più che giudicare gli altri, sputando veleno come ha fatto lei, forse è meglio guardasi dentro e soprattutto attorno". "Se lo merita" - Poi Luxuria parla anche del passato e dei suoi scontri con la Mussolini: "Non posso non ricordare la violenza verbale che è sempre stata il tratto più famoso della Mussolini. Sia in Parlamento sia nei talk show. Lei si è erta a paladina della famiglia tradizionale, dicendo ad esempio dalla D'Urso su Canale 5 di essere contraria al matrimonio tra le persone dello stesso sesso perché le faceva orrore che un bambino potesse vedere due uomini che si rotolano nel letto, alludendo alla pedofilia per le coppie omosessuali. Non posso non ricordare, perché la mia sarebbe un'omissione di opinione, la dichiarazione della Mussolini su di me a Porta a Porta, 'meglio fascista che frocio'. In qualsiasi paese democratico avrebbe portato all'espulsione di un parlamentare che dice una cosa del genere, ma l'allora ministro della Giustizia Castelli, presente in studio, non mosse ciglio". "Alessandra ha grinta" - Infine dopo aver goduto delle disgrazie altrui, Luxuria ha un momento di umanità per la parlamentare azzurra: "In questa vicenda ci sono tante sofferenze. Le sofferenze dei minorenni come sono i figli della senatrice e la sofferenza delle minorenni che si sono prostituite in un'età così giovane. E' un dramma familiare e la senatrice dovrà sbrigarsela da sola, avendo tutta la capacità e la grinta di farlo". 

La lobby omosessuale detta legge in Europa, scrive Matteo Pandini su “Libero Quotidiano”. Esiste una «lobby gay» nelle istituzioni europee? Se ne parla spesso, di solito quando si lanciano generiche accuse o si immaginano complotti ai danni di altre istanze culturali, ideologiche o religiose. Ma come agisce, da chi è spalleggiato e a cosa punta chi si batte - tra corridoi e finanziamenti, convegni e direttive - per quelli che ritiene i diritti del mondo omosessuale? Libero ha provato a sostituire ai tic linguistici un po’ di fatti, raccolti tra Roma, Bruxelles e Strasburgo. Nel tentativo di capire se davvero la «lobby gay» è la più potente in Europa. Primo fatto: l’intergruppo più nutrito del Parlamento europeo, cioè l’organismo che permette ai deputati di scambiarsi pareri su temi precisi, è quello che si occupa di gay e affini. Tema sintetizzato dalla sigla LGTB (omosessuali, lesbiche, transessuali e bisessuali, talvolta scritto LGTBI per comprendere anche gli «intersessuali»). Questo esercito di politici, dotato di una segreteria, è coordinato da 6 vicepresidenti e conta più di 150 eletti di tutti i partiti e Paesi dell’Unione, Italia compresa: ci sono Sonia Alfano, Francesca Barracciu (subentrata a Rosario Crocetta quando è diventato governatore siciliano), Roberto Gualtieri, Gianni Pittella, Niccolò Rinaldi, Gianni Vattimo, Andrea Zanoni. Tutti di centrosinistra. Tale gruppo di pressione ottiene effetti apprezzabili: negli ultimi 15 anni sono numerose le risoluzioni di Bruxelles a favore delle istanze omosessuali. Anche i gruppi partitici teoricamente più «insospettabili» - come gli euroscettici di “Europa delle Libertà e della Democrazia”, che accolgono pure la Lega Nord - hanno al loro interno membri gay. Il capogruppo è Emmanuel Bordez, belga, sposato con un uomo. Ci sono gay dichiarati anche tra i funzionari del parlamento, che a differenza dei politici sono inamovibili. Il Segretario generale della Commissione europea è Catherine Day, irlandese, considerata molto sensibile alle istanze omosessuali. Bazzica le istituzioni europee dal 1975, quando si occupò della Comunità economica per conto dell’associazione degli industriali del suo Paese. Un altro big ritenuto vicino all’universo gay è Klaus Welle, tedesco. Anch’egli è segretario generale. Nell’agosto 2011 un dipendente dell’Europarlamento ha annunciato le dimissioni inviandogli una mail, spedita in copia a tutti gli uffici di Bruxelles e Strasburgo, in cui lo accusava d’essere bisessuale e di assumere le persone che andavano a letto con lui. La mail è stata cancellata da tutti i pc dell’Europarlamento, grazie a un efficace e rigoroso sistema di controllo degli esperti informatici: la copia di quella letteraccia sopravvive solo perché qualcuno se l’era stampata, finché è finita sotto gli occhi di Libero. Le istanze omosessuali sono caldeggiate anche dall’Agenzia europea dei diritti fondamentali. Ha sede a Vienna ed è stata creata nel 2007. Incassa finanziamenti da Bruxelles e sostituisce il precedente Osservatorio europeo dei fenomeni di razzismo e xenofobia. Sul suo sito ufficiale riporta un sondaggio effettuato nei Paesi dell’Unione e in cui si chiede ai cittadini dei singoli Stati se da loro è diffuso un linguaggio offensivo verso «lesbiche, gay, bisessuali e o transessuali». La maglia nera è della Lituania. Dietro c’è l’Italia e quindi la Bulgaria. Sarebbero i Paesi che, stando alla rilevazione, sono più intrisi di omofobia. Altro fatto: malgrado lo scarso rilievo ricevuto tra i deputati italiani, l’influente associazione omosex chiamata Ilga Europe sta caldeggiando iniziative ad hoc «per l’uguaglianza LGBT nell’Unione europea» in vista delle prossime elezioni. Insomma, nelle istituzioni combattono a favore dei gay parecchi parlamentari, funzionari, organismi come l’Agenzia dei diritti fondamentali. Fuori dal Palazzo, i gay si fanno sentire con le loro associazioni. Ilga Europe è un’organizzazione internazionale non governativa. Riunisce 407 sodalizi provenienti da 45 dei 49 Paesi in Europa. Ha lanciato una mobilitazione per «il sostegno dei diritti umani e l’uguaglianza LGBTI tra i candidati per il prossimo Parlamento europeo e della Commissione europea», sollecitando le associazioni omosex dei singoli Paesi per «individuare» i candidati più sensibili e votarli. L’appello di Ilga chiede di riconoscere giuridicamente il genere trans, programmi contro le discriminazioni, progetti per le famiglie omosessuali. Tra chi s’è detto favorevole all’iniziativa ci sono dieci politici austriaci, cinque belgi, due ciprioti, tre danesi, tredici finlandesi, sette francesi, diciassette tedeschi, due greci, otto irlandesi, un lettone, tre lussemburghesi, quattro di Malta. E ancora: nove olandesi, tre polacchi, un portoghese, tre sloveni, sei spagnoli, quattordici svedesi, ventitré del Regno Unito. Si fa prima a elencare i Paesi che non hanno politici che hanno aderito all’appello di Ilga: oltre all’Italia, ci sono Croazia, Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Romania, Lituania, Estonia. Dal 1997 Ilga Europe gode dello status partecipativo nel Consiglio d’Europa e dal 2001 - come scrive l’associazione sul suo sito - «riceve il suo più grande finanziamento da parte della Commissione europea». Dal 2006 è riconosciuta nel Consiglio economico e sociale dell’Onu. Quando, nel 2004, il cattolico Rocco Buttiglione fu silurato dalla Commissione Giustizia dell’Europarlamento, l’allora ministro per gli Italiani nel Mondo Mirko Tremaglia non le mandò a dire: «Povera Europa, i culattoni sono in maggioranza». Un modo colorito, per non dire volgare, di tirare in ballo la famigerata lobby. La si può chiamare come si crede, ma a Bruxelles la sensibilità gay conta. Il 4 febbraio 2014, il giorno dopo l’altolà francese alla nuova legge sulle nozze gay, Bruxelles vota la risoluzione contro l’omofobia e la discriminazione. I cattolici provano a protestare ma non c’è partita. Voti a favore 394. Contrari 176. Astenuti 72. La relatrice Ulrike Lunacek (austriaca dei Verdi e lesbica dichiarata) esulta: «Molti di noi, lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali hanno vissuto, per troppo tempo, la propria vita nella paura», paura anche di «essere buttati fuori dalle nostre case, scuole o posti di lavoro». La Lunacek, come detto, è dei Verdi: ricordiamo che il copresidente dei Verdi europei è il tedesco Daniel Cohn-Bendi, attivo sia a Berlino che in Francia e colonna delle battaglie omosex. Tornando alle risoluzioni pro omosessuali, spesso vengono inserite in un discorso più ampio che chiede di azzerare le discriminazioni tutte. Comprese quelle che coinvolgono handicappati e minoranze etniche. Anche per questo le istanze gay faticano a trovare efficaci contraltari. Solo negli ultimi 15 anni, tra le altre cose, Bruxelles ha sfornato: nel 1998 la risoluzione «sulla parità di diritti per gli omosessuali nell’Unione»; nell’ottobre 2000 la risoluzione dell’Europarlamento per la «parità di trattamento in materia di occupazione»; nel 2001 un programma d’azione anti-discriminazione; nel 2005 una risoluzione per la protezione delle minoranze; nel 2006 una risoluzione anti-omofobia, riaggiornata un anno dopo per «l’intensificarsi della violenza razzista e omofoba»: nel 2007 altra risoluzione sull’omofobia; nel 2009 una sui diritti fondamentali. Nel 2011 ecco il documento su «violazione delle libertà di espressione e discriminazioni basate sull’orientamento sessuale in Lituania». Nel settembre 2011 viene votata una risoluzione su diritti umani e orientamento sessuale. Nel maggio 2012 altra dichiarazione contro l’omofobia. Nel luglio 2012 la risoluzione sulla violenza contro le lesbiche e per i diritti di «lesbiche, gay, bisessuali, transgender e intersessuali in Africa». Pochi mesi fa, alcuni parlamentari italiani hanno rinunciato a organizzare un convegno con Luca Di Tolve, già mister gay che ha dichiarato d’essere tornato etero a Medjugorje. Ora è sposato con una donna e racconta la sua storia di «conversione». E così si becca accuse pesanti dal popolo LGTB: nel maggio 2013 scatenarono una campagna per impedire un suo convegno in Veneto. Confidenza di un deputato a Libero: «Sa, qui in Europa siamo costretti a lavorare coi funzionari. E se decidono di boicottarci con la scusa che siamo anti-gay, per noi è la fine».

Premier gay Di Rupo: "Nudo per il Belgio". Polemiche nel paese fiammingo per una sequenza del documentario sulla sua vita, scrive “Libero Quotidiano”. Esplode la polemica in Belgio. Il Primo Ministro Elio Di Rupo, omosessuale dichiarato di 62 anni, ha fatto il passo più lungo della gamba: in un reportage dedicato alla sua vita, il premier belga di origine abbruzzese, si spoglia davanti la telecamera, mostrandosi nudo di spalle. Avvertendo nell'aria il calo di consenso politico, nel countdown verso le elezione di maggio, l'uomo ha deciso di mostrarsi (in parte) senza veli. E nonostante il documentario, di una decina di minuti, sia stato giudicato "scandaloso" da molti, è il portavoce di Di Rupo che chiarisce il significato di questo gesto: "Si tratta di un reportage rispettoso, la scena è stata girata il 21 luglio scorso, dopo una cerimonia e prima di un incontro pubblico". Pochi secondi di nudo che hanno scatenato il giudizio negativo degli spettatori: "Non sa proprio che altro inventarsi per far parlare di sé!", ha dichiarato un ragazzo belga, dopo aver visto il filmato. Non è mancato nemmeno il commento della trasmissione On refait le monde che ha espresso il suo punto di vista: "Perché il primo ministro ha bisogno di mettersi a nudo per far parlare di sé? Qual è il messaggio politico?". Elio Di Rupo, eletto Primo Ministro con il partito socialista, rischia ora di restare senza camicia, in tutti i sensi; sembra infatti, il suo avversario, l'indipendentista di Nva, sia il favorito per le prossime votazioni in Belgio.

Crocetta: "Sono gay però mi piacciono pure le donne". Il presidente della Sicilia: "Ci sono anche delle ragazze che mi...". Poi su Renzi: "Voleva fare il premier", scrive “Libero Quotidiano”. Poche idee e ben confuse. Non si parla di come amministrare la Sicilia da Palazzo d'Orleans, ma di sessualità. A parlare è Rosario Crocetta, presidente dell'isola, dichiaratamente omosessuale: "Sono gay - spiega ai microfoni di Un giorno da pecora su Radio 2 - ma ciò non significa che non mi piacciano le donne. Qualche donna che mi arrapa ci sarà pure". In ogni caso, continua, "la mia ormai è l'età della riflessione".

I GARANTISTI A GIORNI ALTERNI.

Magistrato morde magistrato: ora è guerra tra i giustizialisti. La discesa in campo di Grasso e Ingroia scatena sgambetti e schizzi di fango. E persino Caselli attacca l'ex pupillo oggi leader del movimento arancione, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Hai voglia a comporre schemi e disegnare frecce e seguire traiettorie. È da giorni che i quotidiani utilizzano come un navigatore vecchie rivalità e antiche contrapposizioni e, insomma, tutti gli appigli e gli spigoli possibili, per raccapezzarsi nel labirinto di guerra della magistratura italiana. Anzi, sia detto senza ironia, del partito dei giudici italiani. Con un manipolo di illustri magistrati ormai con un piede in Parlamento e la lingua a briglia sciolta. Ma è impresa vana, perché tutte le semplificazioni, tutte le spiegazioni, tutte le fenomenologie vengono cancellate dal magma impazzito che travolge tutto e tutti. Sì, siamo al tutti contro tutti. Ma proprio tutti. Perché se fino a ieri si poteva sostenere l'esistenza di una linea Violante-Grasso contrapposta all'altra Ingroia-Caselli, ora ci accorgiamo che anche questa divisione è sabbia al vento. Succede dunque, in una sorta di big bang, che Ingroia, freschissimo di leadership arancione, attacchi con parole affilate l'ormai ex procuratore antimafia Piero Grasso, che a sorpresa s'è infilato la casacca del Pd. Dice dunque Ingroia, neoleader dell'arancia meccanica: «Piero Grasso divenne procuratore nazionale perché scelto da Berlusconi grazie a una legge ad hoc che escludeva Gian Carlo Caselli». Come se non bastasse, Ingroia carica ancora, come in un duello nella polvere del West: «Grasso è il collega che voleva dare un premio, una medaglia al governo Berlusconi per i suoi meriti nella lotta alla mafia». Insomma, fango più fango e stilettate per sbarrare la strada alla concorrenza nata in casa. Si potrebbe proseguire a lungo con questa filastrocca velenosa, ma intanto esce allo scoperto Caselli che ringrazia Ingroia con parole gelide: «È un amico - è il bacio poco rassicurante che introduce l'intervista concessa alla Repubblica - ha ottenuto di recente un incarico importante dall'Onu in Guatemala. Penso che interromperlo sia un problema anche sul piano dell'immagine internazionale dell'Italia». Più chiaro di così. Altro che sodalizio. Ciascuno per la sua strada. Ma poi, già che c'è, Caselli regola i conti anche con Grasso: «È un fatto storico che ai tempi del concorso per nominare il successore di Vigna le regole vennero modificate in corso d'opera dall'allora maggioranza con il risultato di escludermi. Ed è un fatto che questo concorso lo vinse Grasso e che la legge che mi impedì di parteciparvi fu dichiarata incostituzionale». Non solo, Caselli, che ha buona memoria, non dimentica la ciliegina messa sulla torta in quel frangente da Grasso: «Grasso ha liquidato la vicenda con disinvoltura da bar dello sport». Dunque, la regola aurea è sempre quella. I pm dopo aver bacchettato la società tutta, ora si bacchettano fra di loro, rievocano pagine più o meno oscure, si contraddicono con metodo, si azzannano con ferocia. Luciano Violante, magistrato prestato alla politica e un tempo presunto burattinaio del partito delle toghe, dà il suo ok a Grasso e punta invece il dito contro Ingroia, sventolando il suo presunto «cedimento al protagonismo». Ingroia replica a sua volta provando a sporcare l'icona dell'ex presidente della Camera: «Violante la pensa su Grasso come il senatore Dell'Utri». E così i guardiani della legalità, le lame scintillanti della legge si graffiano, si tirano i capelli e recuperano episodi sottovuoto, dissigillando giudizi rancorosi. Uno spettacolo avvilente. E tocca citare Ilda Boccassini a proposito del suo amico Giovanni Falcone: «Non c'è stato uomo in Italia - disse a Giuseppe D'Avanzo nel 2002 - che abbia accumulato più sconfitte di Giovanni». Mortificato perfino nella corsa alla superprocura antimafia da lui stesso inventata. «Eppure - aggiungeva la Boccassini - le cattedrali e i convegni sono sempre affollati di amici che magari, con Falcone vivo, sono stati i burattini o i burattinai di qualche indegna campagna di calunnie». Purtroppo, la lezione non è servita.

Ingroia e i comunisti si litigano rimborsi d’oro. L’ex pm pretende 896 mila euro I soldi spesi per l’ultima campagna elettorale, scrive Valeria Di Corrado su “Il Tempo”. Guerra in tribunale tra le componenti della sinistra radicale «trombate» dalle ultime elezioni politiche di febbraio 2013. Antonio Ingroia chiede il conto ai suo ex compagni di avventura. L'associazione politica «Rivoluzione civile», nella persona del suo presidente, l'ex pubblico ministero ora convertitosi in avvocato, ha citato in giudizio il partito della Rifondazione comunista, il partito dei Comunisti italiani e la federazione dei Verdi, chiedendo il pagamento di 896 mila euro, come saldo delle spese sostenute in vista della competizione elettorale. Con atto notarile firmato a Roma il 29 dicembre 2012, Antonio Ingroia, Leoluca Orlando, Luigi De Magistris, Antonio Di Pietro, Oliviero Diliberto, Paolo Ferrero e Angelo Bonelli hanno costituito l'associazione politica «Rivoluzione civile», con «lo scopo di permettere alle persone fisiche, ai partiti e ai movimenti a essa aderenti una partecipazione congiunta alle elezioni politiche del 24 e 25 febbraio». Il 3 gennaio 2013 si sono riuniti, presso la sede dell'Italia dei valori, i rappresentanti e i tesorieri dei gruppi politici che avevano preso parte all'associazione. Ognuno di loro si era impegnato a versare una somma per costituire un fondo patrimoniale di 2.200.000 euro, destinato a finanziare l'ormai imminente campagna elettorale. In particolare, la ripartizione concordata prevedeva che l'Idv versasse un milione, Rifondazione comunista 600 mila euro, i Comunisti italiani 500 mila e i Verdi altri 100 mila. A fronte di un totale di 1.566.000 euro di spese elettorali (al netto delle numerose multe per affissione abusiva), i partiti hanno corrisposto a «Rivoluzione civile» soltanto un milione 354 mila euro. L'Italia dei valori ha saldato il conto. Mentre risultano ancora debitori il Prc per 300 mila euro, il Pdci per 496 mila euro e i Verdi per 100 mila euro (non avendo mai corrisposto nulla). Si arriva così alla cifra totale di 896 mila euro chiesta dall'associazione Rivoluzione civile, poi trasformata da Ingroia a maggio scorso nel movimento politico «Azione civile», a seguito del deludente risultato elettorale. Ieri c'è stata la prima udienza davanti alla terza sezione civile del Tribunale di Roma. Solo Rifondazione comunista si è costituita in giudizio, restano contumaci i Comunisti italiani e i Verdi. «Rivoluzione civile non ha la capacità di agire - spiega l'avvocato Francesco De Petris, legale di Prc - L'associazione si è estinta, in quanto non ha raggiunto lo scopo per il quale era stata creata: non è stato eletto nessuno dei suoi membri. Se poi c'è qualcuno che deve pagare non è certo Rifondazione. I Comunisti hanno versato solo 4 mila euro e i Verdi nemmeno un euro».

Beffa per Ingroia: subito sotto inchiesta da manager pubblico. Al primo atto da amministratore l'ex pm è già nei guai. Nel mirino della Corte dei conti per le 76 assunzioni alla "Sicilia e-Servizi", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Una società in liquidazione che invece di liquidare assume 76 persone. Selezionate con cura: la figlia del boss mafioso Bontate insieme a suo marito, un ex consigliere comunale Udc, il figlio dell'ex capo di gabinetto di Cuffaro, un indagato per tangenti, altri parenti (e parenti dei loro autisti e segretari), raccomandati ed ex politici vari. Ad assumerli è l'ex pm Antonio Ingroia, nominato dal governatore Crocetta commissario liquidatore di «Sicilia e-Servizi», uno dei tanti carrozzoni regionali siciliani che inghiottono soldi pubblici (intanto il bilancio della Regione Sicilia è una voragine da default). Si doveva liquidare e invece no, non si liquida più, la società da sciogliere è diventata improvvisamente «strategica», come stabilito dalla Finanziaria regionale appena approvata. E così succede che il grande indagatore di misteri e trattative, dopo appena qualche mese che non è più pm e alla prima prova da manager pubblico, finisce nel mirino di una Procura. Quella della Corte dei conti di Palermo, che ha acquisito la documentazione dei 76 contratti a tempo determinato fatti partire sotto la gestione Ingroia di Sicilia e-Servizi. I magistrati contabili vogliono accertare le modalità dell'assunzione, in particolare la legittimità della delibera regionale che ha dato mandato a Ingroia di «assorbire» i 76 impiegati provenienti dalla Sisev, una società privata, lì inquadrati con l'impegno di prenderli poi in Regione dopo un periodo di formazione detto «trasferimento di know how» (costato la bellezza di 66 milioni di euro). In sostanza la Sisev, appena scaduta la convenzione regionale (impiego interinale a condizioni fiscali vantaggiose) ha mandato a casa quell'esercito di persone, che la Regione Sicilia si è subito presa affidandoli ad una società formalmente in scioglimento. Il punto che la Corte dei conti vuole chiarire è come sia possibile l'infornata di assunzioni, visto che in Sicilia è in vigore il blocco delle assunzioni pubbliche. Una serie di anomalie, insomma, su cui i magistrati contabili vogliono vederci chiaro. Ma già che c'era, non poteva farlo Ingroia, chiamato da Crocetta proprio per far luce su sprechi e malversazioni nella gestione di Sicilia e-Servizi? Le giustificazioni dell'ex pm, chiamato dall'Onu in Guatemala per guidare l'unità investigativa sul narcotraffico, sembrano scritte da Crozza. «Abbiamo deciso di assumerli per evitare uno stop gravissimo del sistema informatico della Regione. Quei lavoratori sono gli unici in grado di utilizzare i software» spiega Ingroia. In sostanza, dice l'ex pm, tra i 28.796 dipendenti regionali siciliani, cinque volte la Lombardia, non si trovava nessuno che sapesse usare il computer. Fargli un corso accelerato, magari a qualcuno dei 1.836 dirigenti della Regione, uno ogni 9 impiegati? Macché, servivano questi altri 76 dipendenti altamente informatizzati. Non solo, Ingroia, dopo aver scoperto nomi, parentele e curriculum delle persone da lui assunte, ha annunciato una commissione d'inchiesta sulle sue stesse assunzioni. L'ex pm - racconta LiveSicilia - farà un'indagine da concludere entro due mesi, per stabilire che tipo di competenze hanno i 76 dipendenti appena assunti e se dunque potranno essere confermati dopo i quattro mesi di prova che seguono all'assunzione del commissario Ingroia. In pratica un'autoinchiesta. Il leader di Azione civile e commissario non liquidatore, però, è assolutamente sereno: «Prendo atto della richiesta di approfondimento della Corte dei Conti - dice Ingroia - e garantisco la massima disponibilità ai pm che hanno tutto il diritto di approfondire una vicenda certamente complessa e delicata. Noi abbiamo fatto rispettare le regole, garantendo la prosecuzione di un pubblico servizio e senza sperpero di denaro. L'Avvocatura distrettuale dello Stato ci ha detto che le assunzioni sono legittime, quei lavoratori sono stati selezionati attraverso un bando pubblico che prevedeva il transito alla Regione». L'ex grande inquirente che finisce in una indagine? «Non è un paradosso: era già successo in passato, quando mi denunciarono Dell'Utri e Berlusconi». Ma a Crocetta è andata bene: «Avrei potuto anche dimettermi, non l'ho fatto assumendomi la responsabilità di rimettere a posto la società». Altro flop in vista, dopo Rivoluzione civile e Guatemala?

Ingroia indagato per fuga di notizie. L'ex pm avrebbe riferito al "Fatto" il contenuto di un interrogatorio a Provenzano. Lui ironizza: "Dev'esserci stata una fuga di notizie dalla procura di Caltanissetta: non ne so nulla", scrive Chiara Sarra su “Il Giornale”. Umiliato alle urne, spedito in Val d'Aosta prima di essere cacciato dalla magistratura e ora pure indagato. Non se la passa bene Antonio Ingroia, finito nel mirino della procura di Caltanissetta per violazione del segreto istruttorio. L'ex pm avrebbe passato al Fatto Quotidiano delle informazioni sull'interrogatorio a cui era stato sottoposto a maggio Bernardo Provenzano, secondo quanto accusa un esposto presentato dal legale del boss Rosalba Di Gregorio su incarico dei figli del padrino corleonese. Il 5 giugno, infatti, sul quotidiano di Padellaro era stato pubblicato un articolo proprio sull’interrogatorio di Provenzano, condotto dallo stesso Ingroia. Solo due giorni dopo il contenuto del colloquio sarebbe stato trascritto. Secondo l'avvocato, quindi, solo l'ex pm avrebbe potuto riferire quello che era stato detto e addirittura lo stato di salute del boss mafioso. Nei giorni scorsi i magistrati di Caltanissetta hanno sentito sulla vicenda la giornalista Sandra Rizza, autrice dell’articolo. Il leader di Azione civile ironizza: "Se fosse vero sarebbe un fatto gravissimo e vorrebbe dire che c’è stata una fuga di notizia dalla procura di Caltanissetta perché al momento non ho ricevuto nessuna informazione", ha detto all’Adnkronos, "Qualora fosse vero si tratterebbe di un vecchio sistema dove gli imputati provano a mettere sul banco degli imputati i loro accusatori. Non è la prima volta:  una volta è accaduto su denuncia di Dell’Utri, una su denuncia di Berlusconi e se fosse vero ora anche su denuncia di Provenzano. Tutto è stato sempre archiviato".

"Ho sentito i nastri distrutti: Napolitano insultava Ingroia". Vittorio Sgarbi ospite della "Zanzara" lascia cadere la bomba sulle intercettazioni della procura di Palermo andate al macero. E Mancino confidò le sue paure sull'inchiesta, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Grazie a delle «fonti giudiziarie» Vittorio Sgarbi ha potuto ascoltare le telefonate segrete tra il presidente Napolitano e l'ex vicepresidente del Csm Nicola Mancino nel 2011, intercettate dalla Procura di Palermo che indaga sulla trattativa Stato-mafia. Alla Zanzara Sgarbi rivela il contenuto di una delle conversazioni tra Mancino e il presidente della Repubblica: «Mancino dice a Napolitano: "Sai, vorrei che fosse Grasso a occuparsi di me e non Ingroia". A quel punto il capo dello Stato risponde: "Caro Nicola, Ingroia è una testa di cazzo, uno stronzo". Per questo non ha voluto che fossero rese note. Non c'entra niente con la trattativa». In sostanza Mancino, indagato dai pm Ingroia e Di Matteo (per «falsa testimonianza») insieme ad altri undici indagati con l'accusa di «concorso esterno in associazione mafiosa» e «violenza o minaccia a corpo politico dello Stato», chiede di essere giudicato da un tribunale che considera più equo, quello della Direzione nazionale antimafia guidata allora da Pietro Grasso, attuale presidente del Senato. E domanda a Napolitano di adoperarsi per questo fine. Un intervento che non compete al capo dello Stato e che non viene fatto, perciò la registrazione viene giudicata penalmente irrilevante dalla Procura e distrutta. «Mancino ha vagamente provato senza riuscire a ottenere niente da Napolitano, perché dove si incardina l'inchiesta lì rimane, cioè a Palermo. Ma Mancino sa che chi lo giudica è un suo nemico politico, e vuoi essere giudicato da uno più equilibrato, mi pare giusto. C'erano una serie di registrazioni del parlato di Napolitano, che era colloquiale, con espressioni che si usano in una telefonata privata. Le telefonate sono ininfluenti, e non si capisce perché non le volessero far distruggere, anche perché i magistrati stessi hanno detto che non c'era niente di rilevante penalmente. E allora se non c'è niente di utile alle indagini perché devo sentire uno scambio privato dove c'è uno sfogo privato?» racconta Sgarbi. Che nella registrazione non ha trovato riferimenti ad altri personaggi di cui si era scritto nelle ricostruzioni (Salvatore Borsellino, Berlusconi, Di Pietro). «La telefonata fotografa una situazione di conflitto tra due procure, una garantista che era quella di Grasso (la Dna, Direzione nazionale antimafia, ndr), e l'altra giustizialista che è quella di Di Matteo e Ingroia. Che ha rinviato a giudizio Mancino, lo ha paragonato a Totò Riina, e Mancino si rivolge a Napolitano che prende atto di quello che dice Mancino ma non può fare niente e infatti non ha fatto niente. Non si capisce quale sia la necessità di sentire le telefonate tra i due dal momento che Mancino resta indagato da Palermo, prova del fatto non c'è stato alcun intervento». «Quindi la parolaccia al telefono con Mancino è perfettamente lecita - dice Sgarbi a Radio24 - ma pubblicandola verrebbe fuori che il presidente della Repubblica ha una certa animosità contro Antonio Ingroia. E questi sono cazzi suoi». Lo scontro tra le due procure si è materializzato pochi giorni fa nella relazione della Dna, che arriva a definire «preoccupante» il processo sulla «cosiddetta trattativa» (virgolettato testuale) Stato-mafia. Giudizio firmato tra l'altro da un magistrato, Maurizio De Lucia, che negli anni '90 ha lavorato proprio a Palermo come pm antimafia. «Tale processo - sottolinea la relazione della Dna - non può non destare oggettivi motivi di preoccupazione in relazione all'impostazione del processo sulla cosiddetta trattativa». Una bordata a cui ha risposto il pm Di Matteo: «È l'ennesima entrata a gamba tesa contro un processo che dà fastidio a tutti».

E poi c'è lui. Beppe Grillo è stato condannato a 4 mesi di carcere e al pagamento di 100 euro di multa dal Tribunale di Torino per la violazione dei sigilli alla Baita Clarea, un presidio costruito dai No-Tav in un'area destinata a diventare parte del cantiere per la costruzione della Torino-Lione e posta sotto sequestro per abuso edilizio nel 2010. La condanna è inferiore rispetto alla richiesta, che era di 9 mesi di reclusione. Ai tempi della richiesta avanzata dalla procura, il leader del Movimento 5 Stelle si era difeso con un video pubblicato sul suo blog, in cui mostrando delle manette ironizzava sul fatto che "9 mesi in carcere passano in fretta". Al momento della condanna di lunedì 3 marzo 2014, alcune decine di militanti No-Tav, presenti in aula, hanno inscenato una protesta, mostrando dei foulard con la scritta del movimento e urlando: "Giù le mani dalla Valsusa". Insieme a Beppe Grillo è stato condannato a 4 mesi anche il leader No Tav Alberto Perino. Su 21 imputati totali ci sono state 10 condanne e 11 assoluzioni.

Non convince la condanna contro Grillo e rischia di farlo diventare un martire, scrive Dimitri Buffa su “Italia 24 news”. Se si vuole fare diventare un martire pure Beppe Grillo da oggi siamo sulla strada giusta. Infatti, avergli affibbiato 4 mesi di reclusione, per avere violato i sigilli della baita Clarea a Chiomonte, diventata simbolo del movimento No Tav, rischia proprio di sortire questo effetto. E oltretutto non convince la solita tempestività di quel tipo di giustizia a orologeria che più volte si è vista in questi anni. Di Grillo tutti sanno dell’altra molto più imbarazzante condanna per omicidio colposo in seguito a un incidente stradale in montagna provocato dalla sua temerarietà. E quella è una condanna che dipinge tutto un tratto l’uomo Beppe Grillo senza dare adito ad interpretazioni ambigue. Quella ricevuta oggi per decisione del giudice monocratico Elena Rocci di Torino, invece, ha molto più il sapore di una sentenza politica. O almeno di verdetto facile da sfruttare politicamente. Per la cronaca la richiesta del pubblico ministero era stata di nove mesi di reclusione e 200 euro di multa per lui e per il leader No Tav Alberto Perino. I pm Antonio Rinaudo e Andrea Padalino sono due magistrati formatisi all’ombra della stagione di “mani pulite”. Ma per persone che hanno l’ideologia che connota Grillo, la sentenza di oggi è una medaglia da appuntarsi sul petto, oltre che un’ulteriore occasione per fare il pieno di voti alle europee. Non a caso il suo primo commento su twitter è stato di questo tenore: “Non mi arrendo. La vostra solidarietà è un grande aiuto”.

Se si continua così bisognerà essere garantisti anche con l’uomo che ha fatto del giustizialismo una bandiera di propaganda politica.

Certo, l’azione penale in Italia è obbligatoria. Ma l’autogol politico giudiziario non lo è necessariamente.

Grillo, Gentile e i garantisti a giorni alterni, scrive Michele Magno su “Formiche”. L’ex sottosegretario alle Infrastrutture Tonino Gentile non sarà uno stinco di santo, ma non si può essere garantisti la domenica e giustizialisti i giorni feriali. La verità è che il partito trasversale dei moralisti duri e puri ha (forse) perso il pelo, ma non il vizio. E, da Tangentopoli fino agli scandali odierni, il vizio è quello di considerare le sentenze dei giudici come gerarchicamente subordinate al giudizio – inappellabile – emesso dal tribunale dell’etica pubblica. Etica, quest’ultima, che riguarda appunto la “salus rei publicae”, ossia l’interesse generale contrapposto agli interessi particolaristici. Solo che nessuno – individuo, gruppo, giornale, partito – può pretendere di averne il monopolio della rappresentanza. Come ci ha insegnato Norberto Bobbio, la “salvezza della patria” ha infatti contenuti storicamente mutevoli, che danno sempre luogo a conflitti e interpretazioni divergenti. La democrazia – aggiungeva il grande filosofo del diritto – è quel regime che permette proprio il maggior avvicinamento tra la sfera della morale e la sfera della politica. E ciò per numerose ragioni, ma anzitutto perché la democrazia – per essere forte – ha bisogno del più largo possibile rapporto di fiducia reciproca tra i cittadini. Ha pertanto bisogno di bandire le pratiche della simulazione, dell’inganno, della menzogna, della frode. Pratiche che sono alla base di ogni pulsione plebiscitaria e populista. In questo senso, la cultura del garantismo è la quintessenza della democrazia, in quanto esige il rispetto della dignità altrui, si tratti di un imputato o di un avversario politico. Se Beppe Grillo sembra curarsene poco, non c’è motivo e neanche è vantaggioso rifargli il verso. Magari per unirsi alla schiera di quanti, a destra come a sinistra, si eccitano al tintinnio delle manette e preferiscono un innocente in galera a un colpevole fuori.

Andrea Orlando. Ecco chi dovrà rottamare la magistratura, scrive Alberto Cisterna su “Left”. Stazione Leopolda, 27 ottobre 2013. La battaglia per scalare il Pd è in pieno svolgimento. Matteo Renzi parla di processi e di uno in particolare: «La storia di Silvio ci dice che dobbiamo fare la riforma della giustizia». Si ferma, guarda con malizia la platea, si domanda come mai nessuno lo fischi o lo insulti e precisa: «La storia di Silvio Scaglia», il patron di Fastweb, l’uomo che torna in Italia e si consegna immediatamente ai giudici che vogliono arrestarlo e che, dopo un anno di custodia cautelare, viene assolto. Il programma di Renzi sulla giustizia penale, forse, è tutto li. Lo ha ripetuto al Senato, cercando di sfilarsi dallo scontro ventennale tra giustizialisti e garantisti: le posizioni sono «calcificate», ha detto, e nessuno ormai è disposto a convincersi delle ragioni altrui. Quindi tocca a lui, che venti anni fa stava al liceo, sbloccare la situazione. Le parole sono volutamente generiche, puntano solo a rimarcare un sentimento diffuso e, per ora, si sono tenute lontano dalle soluzioni: «C’è questa stanca rassegnazione per cui si parte dal presupposto che tanto quando si entra in un’aula di tribunale non si sa come se ne esce», ha detto Renzi. «Questo vale anche per la giustizia penale con ciò che comporta… esiste una preoccupazione costante nell’opinione pubblica (a prescindere dalle discussioni che sono state oggetto per 20 anni di dibattito politico) sul fatto che la giustizia in Italia corra il rischio di arrivare troppo tardi ed anche – permettetemi – di colpire in modo diverso». È una condanna senza appello del sistema giudiziario che certo necessita di una radicale ristrutturazione. Andrea Orlando, chiamato all’ultimo momento sullo scranno di via Arenula, ha chiara la percezione del vespaio in cui andrà ad infilarsi se a quelle parole dovessero seguire i fatti. La magistratura è una brutta gatta da pelare e non sarà un caso che, nei corridoi del potere, si attende da mesi la nomina del prossimo procuratore della Repubblica di Firenze. Per carità. Certo è solo la curiosità di sapere chi potrebbe mettere le mani nelle carte dell’Amministrazione guidata da Renzi sino a pochi giorni or sono. Sono le malizie del potere, ovviamente, che si diletta in dietrologie e chiacchiere. Ma è anche la cifra della centralità che l’apparato giudiziario ha conquistato nel Paese a discapito di ogni altra istituzione. Nel discorso di Renzi al Senato non si parla solo di giustizia penale, al centro di accuse di supplenza da parecchi decenni, ma anche di giustizia amministrativa. È un tema, questo, che era stato posto con durezza da Romano Prodi qualche mese or sono in un articolo pubblicato sul Messaggero e che era finito presto nel sottoscala della politica alle prese con altre rogne. Renzi lo ha riproposto e ne ha suggellato la rilevanza nel suo discorso di investitura. Ha pronunciato sul punto parole dure, mai ascoltate prima in Parlamento. La giustizia dei Tar è certo meritevole di cure, ma non si può cedere alle pressioni delle amministrazioni, centrali e locali, che si lamentano dell’invasività delle toghe pronte ad annegare le loro decisioni in un mare di carta bollata. Mettiamo insieme un paio di dati: siamo il primo paese dell’Unione per la corruzione, stimata in 60 miliardi annui. Se si rende marginale la giustizia amministrativa (come Prodi e, ora, Renzi sembrano suggerire) la corruzione è destinata ad esplodere. Siamo ancora più chiari: se la bolla corruttiva è così grande essa si traduce ovviamente in atti che aiutano Tizio (il corruttore) e danneggiano Caio (l’onesto). Caio ha un solo rimedio: andare innanzi al Tar e impugnare l’atto. Mandare in soffitta la giustizia amministrativa equivarrebbe a consegnare il Paese al far west dei corrotti: tutti pagherebbero perché non avrebbero alcuna altra, seria, tutela. E certo non lo è la giustizia penale che, a parte i suoi tempi biblici, non consegna all’onesto le sue ragioni, ma punisce (eventualmente) il colpevole. Quindi prudenza, e Orlando dovrà praticarne tanta in questo settore. Un conto sono i ricorsi defaticanti e strumentali, altro è lo sfascio morale ed organizzativo di molti pezzi della pubblica amministrazione che esige un ragionevole presidio giudiziario. Sul versante della giustizia penale le cose non stanno messe meglio. Renzi lo ha detto: il processo è una roulette e nessuno è certo di far valere le proprie ragioni, ci sperava Silvio (Scaglia) e si è fatto un anno di detenzione. Dovrebbe essere chiaro che la partita non si gioca, solo e soltanto, sul piano delle garanzie e dei tecnicismi procedurali. Anche la prossima legge sulla custodia cautelare, fortemente voluta dal Pd, rischia di non migliorare l’affidabilità del sistema penale che merita una profonda riscrittura del ruolo del pubblico ministero e del giudice e una contrazione rilevante dell’area dei reati. La separazione delle carriere, se non vuole essere percepita come una pura ritorsione della politica, dovrà essere discussa in un quadro ben più ampio di regole in cui se ne spieghino chiaramente vantaggi e costi. Il neoministro ha più volte subito su questi temi l’ostilità delle correnti dell’Anm, molto reattive anche sul tema della discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale. Una pura bolla speculativa se si riducono drasticamente i reati. Questioni comunque da affrontare e risolvere una volta per tutte, vista la raffica di scioperi proclamati negli ultimi anni da un’avvocatura esasperata dallo stato del processo penale. C’è da chiedersi se la primavera renziana farà i conti con le più potenti corporazioni del Paese (magistrati e avvocati) oppure metterà pannicelli caldi (si sprecano le chiacchiere sull’informatizzazione i cui vantaggi sono infinitesimali) su un corpo con evidenti segni di cancrena.

Gli indizi, le prove e i delitti irrisolti, scrive Gianluca Perricone su “L’Opinione”. Mettono spavento quelle menti che costruiscono il “loro” colpevole e hanno la faccia tosta di sostenerne pubblicamente la responsabilità fino all’inverosimile; così come è meglio tenersi lontani da quei soggetti intrisi da un giustizialismo indefesso che non smettono di condannare un soggetto ancor prima della sentenza di primo grado. Ed è altrettanto agghiacciante quando viene messo in croce il presunto responsabile, colui cioè che “ha tutta l’aria” di essere il colpevole e che, comunque, “non può che essere stato lui”. Inchieste, indagini, storie processuali molto spesso basate non su prove ma su indizi legati a valutazioni soggettive più che a certezze inconfutabili che, così ci gira, osiamo definire semplicemente come prove. Già, le prove: gli indizi, i sospetti, le dicerie, finanche le semplici sensazioni dei vicini di casa oramai costituiscono (anzi, sostituiscono) le prove schiaccianti che dovrebbero essere alla base della condanna di un soggetto criminale. Quando l’inchiesta arranca, si tende ad indagare sul soggetto che “più probabilmente”, più o meno “a naso”, è potenzialmente l’autore del reato. Si sta vedendo e assistendo a tutto: arrembaggi in alto mare per fermare la nave con la quale sta fuggendo l’assassino (che poi tale si rivelerà non essere), migliaia di (costosissime) analisi di dna con risultati pari allo zero, morsi sul seno impressi con una dentatura il cui arco dentario si è rivelato diverso da quello dell’accusato, intercettazioni delle quali si travisa (o, addirittura, non si capisce totalmente) il contenuto, computer analizzati nella loro attività per basare un’accusa sull’impiego o meno degli stessi al momento del delitto, coltello (probabile arma del delitto) sul quale spuntano tracce del dna della presunta omicida ma non quelle della vittima, e l’elenco potrebbe andare avanti all’infinito. Poi leggi Panorama e trovi anche un ex agente segreto che, tra l’altro, afferma che “la maggior parte dei casi di cronaca che sono rimasti insoluti in questi ultimi anni in Italia, sono stati solo oggetto di perizie e studi scientifici che in sede processuale sono risultati facilmente smontabili e non di vere e proprie indagini. Ovvero di ricostruzioni strutturate e logiche del delitto”. E il cerchio, come al solito, purtroppo si chiude: chi sbaglia impostazione (presunti colpevoli inclusi) di un’indagine non rende mai conto in nessun modo (e, anzi, spesso, spreca anche soldi pubblici rovinando, nel contempo, vite e carriere), mentre si allunga inesorabilmente la lista di delitti senza colpevoli.

Il Giornale al garantismo preferisce il randello giustizialista. Colpisce l’odierno titolo di apertura del Giornale berlusconiano, scrive “L’Opinione”. Colpisce ma non meraviglia l’editoriale del direttore da strapazzo, ormai sempre più incline ad emanare editti in stile Politburo del PCUS. Sguazzare nel torbido ed utilizzare il randello del giustizialismo, pur continuando a definirsi garantisti a tutto tondo. È questa la cifra distintiva del Giornale di Sallusti, che tira oggi le fila di una macchina del fango che in Italia rovina le vite e le carriere. Il Giornale di Indro Montanelli era la culla del garantismo…Quanta acqua è passata sotto i ponti.

La maledizione di questi 20 anni è aver fatto diventare ogni concetto generale ed astratto una categoria ad personam, scrive Antonio Sicilia. La Legge, la Destra, un Partito, un Principio. Pensate agli aggettivi garantista e giustizialista, macrocategorie di un manicheismo tutto all’italiana. Per anni questi aggettivi hanno indicato la posizione rispetto a Silvio Berlusconi, ignorando la tradizione garantista della sinistra italiana e le punte di giustizialismo della destra italiana: sei garantista se sei con Berlusconi, giustizialista se sei contro. Un relativismo dilagante, utile nella vita di tutti i giorni, disastroso nell’approccio con la tradizione e i principi fondamentali della nostra democrazia. L’idea che tutto sia flessibile, malleabile, anche le regole più dure, quelle fondamentali, l’art.138. Tutto si può cambiare per il bene di pochi e spacciarlo con un’accurata operazione di marketing come il bene di tutti. In un Paese in cui l’80% degli Italiani paga sulla propria abitazione al massimo 500 euro di Imu (cifra irrisoria rispetto alle odierne tasse sul lavoro), aver fatto credere agli Italiani che la patrimoniale è il “Male” è il capolavoro  comunicativo di questa stagione politica. La parola “sùbito”, parola chiave della propaganda berlusconiana, ci ha fatto perdere di vista i reali problemi di questo Paese. I 500 euro di IMU sono risparmiabili SUBITO e quindi permettono di fruire subito del “voto di scambio”, la riduzione delle tasse sul lavoro creerebbe invece degli effetti concreti e decisivi nel medio periodo, ma passato il medio periodo chi ha fatto quella riforma forse non governerà più, quindi che interesse ha a rifomare un settore senza prendersi direttamente meriti e voti di scambio?. Ma lo spettacolo non si è fermato all’ex-Cavaliere, è andato avanti. Si è oltrepassato l’uomo Berlusconi, perchè come sempre succede, c’è sempre qualcosa che supera in gravità un uomo politico e di solito finisce in -ismo. Ecco il Berlusconismo è andato oltre Berlusconi. La mentalità ad personam, l’idea di amministrare la res publica per il bene di pochi intimi ha invaso i palazzi e ha pervaso l’essenza dei concetti di giustizialismo e garantismo. Oggi esiste una regola aurea, che sembra rispettarsi ad ogni latitudine istituzionale: giustizialisti con i “giustiziati” dalla Società, i poveri e i senza lavoro, e garantisti con i “garantiti” dalla Società, elite e politici. Fulgido esempio il caso Cancellieri-Ligresti. Un’umanità, come l’ha definita la stessa Cancellieri, ad personam, che difende un rapporto personale fra le due famiglie. Il grande paradosso sembra compiersi e prende sempre più le sembianze di un orrendo mostro. Negli anni in cui la UE ci segnala ripetutamente la condizione terribile delle nostre carceri, anche l’umanità diventa un concetto relativo, una “medicina” per poter curare poche persone e di una certificata provenienza. Siamo giunti all’umanità relativa, ai carcerati di serie A e di serie B. Anche la pietà assume contorni oligarchici. Ed in questo relativismo dilagante, in un’etica a cui ogni uomo conferisce un’autonoma misura, il PD tace. Tace sulla Cancellieri, ma in realtà tace sui Ligresti. Si perchè ci sono poteri in Italia che hanno la possibilità di scegliere e influenzare nonostante il Porcellum. In democrazia il Governo e il Parlamento rispondono al Popolo sovrano. Ai tempi del porcellum, invece, il Governo e il Parlamento rispondono, si ma solo al telefono. La Democrazia senza potere di preferenza, senza scelta, è per pochi. E in una democrazia scelta da pochi anche l’umanità diventa un concetto relativo. E la cosa non mi fa dormire sereno.

LA MACCHINA DEL BACIO E LA MACCHINA DEL FANGO.

Franco Bechis: il Corriere, Renzi e il Vangelo. E' la "sorella della macchina del fango": viaggio nella stampa italiana che s'innamora alla follia del potente di turno. Ora tocca al mirabolante Matteo, idolo di via Solferino. La "macchina del bacio" è la sorella della macchina del fango, ma è assai più diffusa nella stampa italiana, assai incline ad innamorarsi alla follia del potente di turno (che viene tradito con il potente successivo).

Così si combatte il fango (secondo la sinistra, ndr), scrive Roberto Saviano su “La Repubblica”. Che cos'è la macchina del fango? È delegittimazione, attacco personale, screditamento attraverso il gossip, gogna pubblica di fatti privati come un calzino color turchese o una vecchia foto di vacanze su una spiaggia nudista. È un sistema semplice e antico che funziona talmente bene da diventare regola: chi si pone contro il governo o certi poteri, finirà infangato. Critichi? Ti opponi? Sarai delegittimato. Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari. Spesso si giustificano con la scusa dell'inchiesta. Ma esiste una differenza fondamentale tra diffamazione e inchiesta. L'inchiesta raccoglie una molteplicità di elementi per mostrarli al lettore. La diffamazione prende un singolo elemento privato e lo rende pubblico. Non perché si tratti di un reato e nemmeno di qualcosa che tiene al ruolo pubblico della persona nel mirino. Ma la mette in difficoltà, la espone, la costringe a difendersi. Così il fango intimidisce, ostacola la partecipazione, invita a evitare di rovinarsi l'esistenza. Utilizza ogni cosa e non solo qualcosa di privato che attiene alla tua sfera intima ma un tuo connotato che faccia ombra: un talento, un coraggio, un'ambizione, un'aspirazione alla bellezza. Qualunque cosa attenti alla selezione alla rovescia che è prevalsa nella vita pubblica, e che deve garantire la durata dei peggiori. I peggiori sono i peggiori, o, peggio, i migliori che hanno tradito e si sono traditi e non se la sentono più di cambiare, di risalire, e mirano a tirare giù gli altri. Il gossip, paroletta che vuole rendere leggera la brutalità della maldicenza e rendere carina la liquidazione della discrezione, è oggi uno strumento estorsivo sulla vita personale, un racket sulla privacy. Perché il fango mira alla tua sfera più intima. Ti costringe a difenderti da ciò che non è né colpa né crimine, ma solo la tua vita privata. È sacra la privacy su chi incontri, su chi frequenti, sul fatto che nessuno, tranne la persona amata, deve ascoltare una tua dichiarazione d'amore. Ma se candidi le tue amiche e puoi finire vittima di ricatti ed estorsioni, questo smette di essere un fatto privato e diventa invece condizionamento della vita pubblica di un intero Paese. La privacy è tutela della vita e della voglia di vivere. L'abuso di potere è un'altra cosa, scontata da altri. Lo scopo della macchina del fango è cancellare questa differenza fondamentale. Poter dire e ribadire: siamo tutti uguali, lo fanno tutti. E questo funziona benissimo, perché molti non comprendono la differenza, ma soprattutto perché è comodo pensarci tutti peccatori. Se siamo tutti uguali, nessuno è più costretto a fare uno sforzo per cercare di essere migliore. Questo meccanismo si nutre di una tendenza tipica del nostro Paese: se emergi, sarai stato favorito; se ti esponi, sei un narciso; se hai ambizioni, sei un opportunista. Più un potere è in crisi, più cercherà di portare nel proprio abisso tutto ciò che gli sta attorno. Viene in mente la massima: nessuno è un grand'uomo per il proprio cameriere. Il precetto di oggi che la macchina del fango impone dev'essere: nessun uomo, tutti camerieri. La libertà di stampa in Italia è compromessa dalla certezza che non verrai criticato per quello che dici, ma cercheranno di demolire la tua vita, la tua dignità, anche laddove non c'è ombra di reato. Ma non è un meccanismo che riguarda solo i giornalisti. La stessa cosa successe al presidente della Camera Fini, quando cominciò a dissentire da alcune posizioni a proposito di giustizia e legalità. Ma vale la pena ricordare soprattutto il direttore di Avvenire, Boffo, che aveva iniziato a criticare la condotta di Berlusconi. Nel maggio del 2009 aveva scritto: "Continuiamo a coltivare la richiesta di un presidente che con sobrietà sappia essere specchio, il meno deforme, all'anima del Paese". Subito entrò in azione la macchina del fango, riesumando una storia vecchia di anni che riguardava una multa pagata per chiudere una diatriba giudiziaria minima (telefonate a una persona che non voleva essere disturbata). Non solo: vi si aggiungeva un documento di supposta natura giudiziaria che diceva: "Noto omosessuale già attenzionato dalla polizia". La diffamazione si basava dunque su un documento falso, perché in nessun atto giudiziario Boffo risultava né omosessuale né tantomeno "attenzionato" dalla polizia. Ma, a parte questo, quale sarebbe il suo reato: l'omosessualità? Chi crede che l'omosessualità sia "da attenzionare" si comporta da sgherro di regime, regime qualsiasi. Boffo, per questo fango, è costretto prima a difendersi e poi a dimettersi. E il politico pdl Stracquadanio conia un termine sinistro che mostra come la diffamazione stia diventando metodo: il "trattamento Boffo", che richiama il "Trattamento Ludovico" di Arancia Meccanica. La macchina del fango è un meccanismo vecchio. Ci avevano provato anche con Giovanni Falcone, criticandolo non per il suo operato, ma per la sua immagine. Anche il fallito attentato all'Addaura dell'estate 1989 diventa pretesto per la diffamazione; nei salotti di Palermo, infatti, si dirà che la bomba l'ha fatta mettere lui stesso, per attirare l'attenzione su di sé a fini di carriera. Falcone conosceva bene l'Italia e il meccanismo secondo cui se la mafia non ti uccide, se l'attentato salta, si rischia di non essere credibili. Solo la morte può legittimarti. Dopo la diffidenza mostrata verso l'autenticità dell'attentato dell'Addaura, diventano pubbliche sei lettere anonime del "Corvo", indirizzate a diverse figure istituzionali. Nelle lettere il magistrato viene accusato di aver fatto rientrare dagli Usa il collaboratore di giustizia Contorno e di averlo usato come killer di Stato per stanare i corleonesi. Solo il 23 maggio 1992, giorno della strage di Capaci, le critiche personali cessano. La morte di Falcone azzera le polemiche, Falcone diventa eroe. Quasi che la morte fosse l'unica prova possibile dell'autenticità della sua lotta alla mafia. In Italia, la macchina del fango ha avuto un bersaglio prediletto in Pier Paolo Pasolini. Contro un intellettuale scomodo, indipendente, per giunta apertamente omosessuale, si tirava persino fuori un'accusa di rapina da cui lo scrittore è stato prosciolto con piena formula. Non solo attacchi da giornali di destra, ma anche giudizi sprezzanti di molti uomini della sinistra che trovavano scomoda la figura del Pasolini omosessuale. Lo scrittore subì innumerevoli denunce e 33 processi nel corso di 27 anni; non si sottrasse mai al processo. Lo stesso Pasolini scrisse su Paese Sera l'8 luglio 1974: "Mi hanno arrestato, processato, perseguitato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane non può saperlo... Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l'angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l'arrivo di una citazione del tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose relative alla sua persona...". Pasolini parla di paura, terrore: è questo che produce la macchina del fango e che spesso porta a non agire, a evitare di partecipare, a compiere uno sforzo per migliorare le cose. Una volta Enrico Deaglio nel ricordare Mauro Rostagno usò un detto siciliano: "I vermi non l'hanno a mangiare". I vermi, vale a dire, non avranno alcun potere se vivrà più forte il ricordo di un uomo che si è adoperato per il bene e per il giusto. Oggi vale purtroppo anche per i vivi. Se ti poni contro il potere i vermi della delegittimazione ti vengono gettati addosso. Ribadisco, l'unico modo per fermare la macchina del fango è non darle credito. Riconoscerla, dire: è fango, non mi interessa, non mi riguarda. Facendo muro contro la maldicenza, non diventandone un veicolo di diffusione, non riprendendo la notiziola su un compenso o su una relazione. Non è difficile avere la possibilità di impastarsi meno con il veleno. Basta ricordare come ci si sente quando si diventa oggetto di illazioni false, di pettegolezzi maliziosi, di mobbing fondato su presunte inadempienze, qualcosa che è capitato a tutti. La macchina del fango è un meccanismo persecutorio che non mira solo a distruggere un avversario, ma che sta scardinando ogni possibile patto di fiducia all'interno di questo Paese. Fermarla equivale a difendersi da un acido corrosivo. Nel maggio del 1924 Giacomo Matteotti denunciò i fascisti per i brogli elettorali e, terminato il discorso, disse: "Ed ora preparatevi a farmi l'elogio funebre". Sapeva che sarebbe stato ammazzato. Non sembri troppo drammatico il citare Matteotti se oggi la consapevolezza di chiunque si ponga contro il potere del governo sia quella di sentirsi "pronto alla più feroce delle campagne di delegittimazione e fango". Per ogni denuncia, per ogni critica, per ogni gesto di coraggio, per ogni resistenza, sai già cosa ti capiterà per cui senza paura dinanzi al "tutti facciamo schifo" risponderei come risposero i ragazzi di Locri alla bestialità ndranghetista: e ora infangateci tutti. (sintesi dell'intervento proposto alle 21 del 12 aprile 2011 al Festival internazionale del giornalismo di Perugia).

Il Paese dell'odio: un libro svela i segreti della macchina del fango. Giampaolo Pansa rilegge la guerra civile tra giornali. Nel 2008 Berlusconi vince le elezioni e Repubblica  si vendica con il caso Noemi. Incendiando il clima, scrive Marco Zucchetti  su “Il Giornale”. Sarà perché - come scriveva Balzac ­«non si esce puri dall’inferno della stampa », che Giampaolo Pansa ha dato alle stampe questo «libraccio da vera carogna » sul giornalismo italiano. Oppure sarà perché, dopo mezzo secolo passato nella categoria, ormai si è fatto un’idea chiara delle ipocrisie che scorrono sotto la palta dei titoloni. D’altronde, sempre per rimanere in metafora infernale, nel fango della palude Stigia erano puniti gli iracondi. E l’odio è decisamente il peccato favorito della stampa italiana. È il livore politico e personale la linfa che tiene in vita il quarto potere. Pansa ne segue il fluire in « Carta straccia - Il potere inutile dei giornalisti italiani», terza sua fatica sul mondo dei media, edita da Rizzoli e in libreria dal 4 maggio. Parte da lontano, dalle sorgenti dell’egemonia giornalistica di area Pci, Potere Operaio e Lotta Continua a fine anni ’70. E seguendo il corso della cattiveria settaria di sinistra, approda all’ultimo triennio, al delta di quel fiume che è l’anti-berlusconismo mediatico. E come in ogni foce che si rispetti, ecco tornare il fango. Quello che da mesi viaggia in tandem con Il Giornale nei monologhi di Saviano, nelle surreali denunce per stalking di Bocchino e negli anatemi della stampa progressista: la «macchina del fango» di cui saremmo spregevoli inventori. Pansa, che nel brago è stato sommerso per aver osato raccontare le ombre della Resistenza, affronta l’argomento senza manicheismi, perché mettere il dito nelle piaghe gli è sempre piaciuto. Tutto prende il via tra 2008 e 2009, dopo la vittoria elettorale di Berlusconi, offesa inaccettabile che causa una furia isterica nell’opposizione. Tutte le armi per deporre il Cav sono buone, e Repubblica usa l’intero arsenale nella campagna ossessiva sul caso Noemi. Intercettazioni, foto, interviste, 2.200 citazioni dell’affaire : una nube velenosa che invade i media. E che incendia il clima fino agli odiosi e inquietanti episodi dell’attentato di Tartaglia, delle scritte contro Marchionne, del pestaggio a Capezzone, dei petardi a Bonanni, dei raid contro Schifani e Dell’Utri. All’attacco del quotidiano di Ezio Mauro, che cavalca lo scandalo di «papi» Silvio anche per recuperare copie, replicano le tre testate di centrodestra, Il Giornale, Libero e Il Tempo : «Tre mosche bianche su fondo rosso, isolate nel coro imponente dei media anti berlusconiani ». Ad azione, reazione. Solo che, se l’inchiesta parte da destra, subito diventa killeraggio, dossieraggio, insulto, servilismo, chiacchiera da bar, «neogiornalismo» da ultrà. È l’«avversione rossiccia» per il lavoro altrui, quella supponenza elitaria da Migliori, unici con diritto di cittadinanza nel mondo dorato degli eroi della libertà stampata. Sono Repubblica , «quotidiano di guerriglia», e Il Fatto , «setta infuriata » capitanata da Beria-Travaglio. Sono loro a imbarbarire il clima, salvo poi urlare al crucifige per il «caso Boffo», per Pansa uno scoop che ogni direttore avrebbe pubblicato. Fatto sta Il Giornale finisce nel tritacarne, messo all’indice come una Spectre di fascistoni. La furia cieca dilaga in maniera grottesca nel caso del presunto «dossier Marcegaglia », occasione in cui Bocchino conia il termine «macchina del fango»: «Chi è prigioniero di una nevrosi - e secondo Pansa l’antiberlusconismo ormai è patologico - non ragiona più». E quindi aprite le gabbie, ognuno dia fondo al peggio: credere, obbedire e combattere il Cav. E pazienza se anche giornalisti avversi al premier come Antonio Padellaro riconoscono che l’inchiesta sulla casa di Montecarlo è «eccellente ». Ogni cosa pubblicata dalle «mosche bianche» è automaticamente feccia, linciaggio, ventriloquio del Padrone. Campione di queste tesi pre-fabbricate, secondo Pansa, è Repubblica, che dall’esplodere dei sexy-gate berlusconiani ha guadagnato decine di migliaia di copie. Ripetere di continuo un unico concetto, secondo Pansa, giova: «Il pensiero unico (ma modesto) funziona». E in questo disco rotto gorgheggiano un po’ tutti, dall’Ingegner De Benedetti, arcinemico del Cav, fino all’antipatico Gad Lerner; dai «sultani Rai» Santoro e Fazio fino a D’Alema; da Floris a Di Pietro. Tutti smaniosi di bisbigliare parole d’ordine violente alle pericolose frange lunatiche della sinistra. Insomma, Berlusconi causerà anche imbarazzo con il suo comportamento non consono a un presidente, ma è obiettivamente vittima di una persecuzione gonfia di eccessi da parte di certi giornalisti militanti: «Hanno svenduto la loro libertà a un settarismo incontinente, prigionieri inconsapevoli della faziosità». Eppure, conclude Pansa, «lo hanno battuto come un materasso, ne hanno assassinato la figura pubblica, ma non lo hanno sconfitto». Il loro potere è «inutile », la loro carta è «straccia». E il sangue del Cav non è ancora quello dei «vinti».

Macchina del fango? "Invenzione". L'anti-Saviano si chiama Pansa. "Carta straccia" è primo in classifiche davanti a "Vieni via con me". Spiega ciò che la sinistra ignora, scrive Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”. Da mesi, forse anni, il centrodestra si arrovella per trovare un “anti-Saviano”, un giornalista o uno scrittore che sia in grado di offrire al pubblico una lettura della realtà differente dalle consuete invettive contro il governo oppressore, contro la Lega che interloquisce con la mafia e contro i giornali “di regime” che agiscono a comando del premier per annichilire i suoi nemici politici. Adesso è chiaro che un antidoto alle dissertazioni savianesche sulla Macchina del fango esiste, e pensare che l’avevamo qui a portata di mano. I lettori di Libero lo conoscono bene, per la verità anche quelli di Repubblica e tutti gli altri: si chiama Giampaolo Pansa, un signore che ha firmato articoli per i principali giornali italiani e che da due settimane è in testa alle classifiche di vendita con il suo nuovo libro. “Carta straccia. Il potere inutile dei giornalisti italiani” (Rizzoli) è al primo posto della lista dei bestseller di Arianna, probabilmente la più attendibile delle graduatorie. Nel fine settimana svettava in cima alla classifica della Stampa, era secondo in quella di Repubblica, di nuovo primo in quella del Corriere. Ha surclassato non solo i libri di cucina della Parodi, ma pure le tirate indignate di Stephane Hessel e di Don Gallo.  Ha lasciato indietro lo stesso Saviano, che da settimane imperversava con “Vieni via con me” (Feltrinelli), il volume che raccoglie gli interventi letti in tivù durante la trasmissione realizzata in coppia con Fabio Fazio. Pansa ha venduto oltre centoventimila copie in quindici giorni, per un totale di nove edizioni: un successo clamoroso anche per un autore conosciuto come lui. Il dato più interessante, però, riguarda il contenuto del suo libro. Che ovviamente non si riduce a una risposta all’autore di “Gomorra”, tuttavia presenta un quadro della situazione italiana molto diverso da quello dipinto ogni giorno dalle testate del gruppo Espresso, dai Santoro e dai Travaglio. Saviano ha conquistato le folle ripetendo ad libitum la sua tiritera sulla Macchina del fango, cioè “il meccanismo con cui si arriva a diffamare qualsiasi persona”. Ha spiegato che “c’è differenza fra diffamazione e inchiesta” e ha gridato che “la democrazia è letteralmente in pericolo” poiché i media asserviti alla dittatura imperante di centrodestra hanno assaltato prima il direttore di “Avvenire” Dino Boffo, poi il cofondatore del Pdl Fini. I servizi di Libero e del Giornale, dunque, non erano inchieste, ma diffamazione. Anche se nel caso Boffo c’era una condanna e in quello di Fini si parlava di una casa sottratta al partito (Alleanza Nazionale) e di soldi pubblici da versare nelle tasche di amici e famigliari. “Cosa succede in Italia quando si dà fastidio a chi comanda?”, teorizzava Saviano, “Si attiva una macchina fatta di dossier, di giornalisti conniventi, di politici faccendieri che cercano attraverso media e ricatti di delegittimare gli avversari”. Bene, Pansa in “Carta straccia” analizza la vicenda Boffo e le sue conseguenze. Mettendo in fila i fatti, dimostra che si è trattato di un’inchiesta a tutti gli effetti. Stesso discorso per la famigerata casa di Montecarlo. Racconta il clima di ostilità feroce che si è sviluppato attorno a Vittorio Feltri, Maurizio Belpietro e a tutti gli altri giornalisti che non si limitavano a prendere per oro colato il vangelo di Repubblica. Suggerisce che i giornalisti conniventi al potere economico e giudiziario vanno cercati in altre redazioni che la nostra. Va oltre: si concentra sul ruolo politico che Carlo De Benedetti, patron del giornale di Largo Fochetti, ambisce ad esercitare. Narra come Ezio Mauro abbia trasformato il suo quotidiano in un organo di orientamento ideologico, in una corazzata militante. Va a toccare i santini progressisti come Santoro, Fazio e Travaglio, non risparmia nessuno. Infatti l’Espresso e Repubblica hanno bellamente ignorato la sua opera. Sono argomenti che Pansa tante volte ha affrontato nel suo Bestiario su Libero, ma che raccolti in un solo tomo hanno interessato migliaia di persone. Tra i suoi lettori ci saranno sicuramente tanti simpatizzanti del centrodestra, ma visto il numero di copie vendute devono essercene per forza anche parecchi che votano a sinistra e magari sono stanchi del “giornale guerrigliero” di Ezio Mauro, dei “postriboli televisivi” di Lerner e Santoro, delle notizie a senso unico del Tg3. Gente che magari ha comprato “Vieni via con me” e i libri di Travaglio e che desidera sentire una campana che non suoni a morto. In queste ore di nuovo si parla di invasione dei mezzi di comunicazione da parte di Berlusconi, di campagna elettorale dai toni drammatici per colpa del Pdl e della Lega, si ripetono i copioni raffermi già squadernati in prima serata su Raitre e Raidue. Beh, chi ha letto Pansa ha capito che la Macchina del fango non esiste, che i giornalisti puntano ad esercitare un’azione politica ma spesso e volentieri falliscono (e non per questo cessano di azzannare il Cavaliere) e che le divinità progressiste non sono infallibili, anzi, spesso raccontano balle fin troppo evidenti. Centomila e più italiani - e speriamo che il numero sia destinato ad aumentare - hanno compreso come funzionano davvero i media qui da noi e quanto poco Berlusconi possa fondare su di essi il proprio consenso. La risposta agli show manettari e ai video processi ce l’abbiamo sotto il naso. E non si paga milioni di euro come alcuni programmi televisivi nei quali il centrodestra ha investito le sue speranza di rivalsa. Costa 19 euro e 90 centesimi più qualche ora di tempo da dedicare alla lettura. E un pò di coraggio, perché a mettersi contro alla macchina del ridicolo di Saviano e soci ce ne vuole.

GIORNALISTI. COSA NON SI FA PER SPUTTANARE? PAGARE…..LE FONTI.

La Rai paga per "sputtanare" Tosi?

La puntata di Report su Verona non è ancora andata in onda, ma Flavio Tosi ha già sporto querela, scrive Alessio Corazza su “Il Corriere della Sera”. Ieri mattina il sindaco si è presentato in procura, per un colloquio con il procuratore Mario Giulio Schinaia, cui ha affidato una denuncia per diffamazione nei confronti del giornalista Sigfrido Ranucci, che sta lavorando alla trasmissione della Rai in questi giorni. Ne ha dato notizia lui stesso in una conferenza stampa, ieri pomeriggio a Palazzo Barbieri. In due distinte registrazioni (una audio e una video, entrambe allegate alla denuncia) carpite dal cantautore ed ex leghista Sergio Borsato, contattato dallo stesso Ranucci per ottenere un video compromettente su Tosi, il giornalista - sostiene il sindaco di Verona - fa affermazioni di una «gravità inaudita». Tra le altre cose, «ha affermato di poter utilizzare fondi riconducibili alla Rai, per costruire una trasmissione con il chiaro intento diffamatorio, per distruggere, con notizie false, politicamente e personalmente un avversario politico, attraverso una trasmissione della televisione pubblica di Stato». Un riferimento, questo, alla trattativa che si coglie dalle registrazioni per l’acquisto del video in questione. «Ho piena fiducia in Sigfrido Ranucci - ribatte l’autrice di Report, Milena Gabanelli - In 17 anni di Report non abbiamo mai pagato un informatore e mai lo pagheremo. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti dei soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione». Gabanelli assicura in ogni caso che «nessun acquisto avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo mai visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Nuova controreplica di Tosi: «Dalle registrazioni risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario ». Ovvero il video «dal contenuto diffamatorio» non è stato proposto al giornalista, «ma è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive ». Infine, il sindaco invita la Gabanelli a presentarsi in procura «e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Secondo Tosi, il giornalista di Report ha contattato Borsato «presumendo che avesse documenti contro di me e che fosse mio nemico». L’ex leghista e cantautore vicentino sarebbe stato agganciato tramite un leghista dissidente di Rovigo. Borsato ha finto di avere il video e di essere motivato a divulgarlo dall’intento di annientare politicamente Tosi. Ha incontrato due volte Ranucci, in un bar a Vicenza e in un ristorante a Roma ed ha registrato tutto. Tra le altre cose, si sente il giornalista affermare di avere rapporti con tre diverse procure (Verona, Padova e Venezia) e di avere accesso al massimo canale investigativo del Veneto. Ma le affermazioni che Tosi ritiene «gravissime» sono altre: «Dice che io avrei rapporti con la ’ndrangheta, che avrei ricevuto in regalo dei rolex d’oro, che avrei partecipato a festini hard, ricevuto soldi sporchi per la campagna elettorale. Cerca un filmato compromettente con il sottoscritto, afferma che la ’ndrangheta ha questo filmato e con questo mi ricatta. Tutte cose false». Di qui la querela «preventiva ». «Non è la prima volta che ci succede - spiega Gabanelli - non ci interessano storie hard su Tosi, ma solo questioni di interesse pubblico. Continueremo a lavorare alla puntata».

Ciak, si gira e rigira. Verona set di un film a puntate giornaliere. Con continui colpi di scena. L'Amministrazione comunale, a guida Flavio Tosi, nell'occhio...dei cicloni, scrive Enrico Giardini su “L’Arena”. Dopo l'arresto dell'ex vicesindaco Vito Giacino e della moglie Alessandra Lodi in un'inchiesta per concussione e nuova corruzione, e il caso dell'assessore Marco Giorlo che minacciava le dimissioni dopo un'intervista rilasciata a un videogiornalista di Report giovedì della settimana prima, il 21 febbraio 2014 a mezzogiorno il sindaco ha depositato in Procura una denuncia per diffamazione contro il giornalista Sigfrido Ranucci della trasmissione della Rai Report, diretta da Milena Gabanelli. L'esposto — una querela per diffamazione — consegnato nelle mani del procuratore capo Mario Giulio Schinaia, è stato accompagnato dalle registrazioni di file audio, di un'ora e mezza, e video, di un'ora, consegnati anche alla stampa insieme con la trascrizione. Materiale che secondo Tosi «prova il tentativo del giornalista di Report di costruire notizie false e diffamatorie nei miei confronti, cercando di acquisire la necessaria documentazione con metodi illeciti, e con l'uso di denaro pubblico», come ha detto nella conferenza stampa convocata in Comune. Ma quale sarebbe questo tentativo? Secondo quanto riferito dal sindaco — raccontando una vicenda svoltasi dal 6 febbraio in avanti — Ranucci, in questi giorni in città per svolgere un servizio sull'Amministrazione Tosi (da mandare in onda dal 30 marzo; è lui ad aver intervistato anche l'assessore Giorlo) avrebbe contattato tramite alcuni intermediari Sergio Borsato, un ex leghista residente in provincia di Vicenza, ritenendo che potesse accedere a copie di alcuni filmati. Questi proverebbero che la N'drangheta, l'organizzazione criminale calabrese, ha rapporti con Tosi, che avrebbe fatto diversi regali fra cui un orologio Rolex. Uno dei filmati sarebbe un video hard con Tosi protagonista. Il sindaco ha raccontato poi che Borsato, contattato dal giornalista che riteneva fosse un nemico di Tosi, lo ha a sua volta chiamato per informarlo. E successivamente ha registrato con una microtelecamera due incontri con il giornalista (l'ultimo, quello di un'ora e mezza, il 14 febbraio) presente un'altra persona, per trattare la consegna del materiale. Questo d'accordo con Tosi, quindi, per smascherare le intenzioni dell'autore del servizio. «Questo materiale ovviamente non esiste», dice il sindaco, «non c'è alcun filmato. Dalla trascrizione delle immagini e delle conversazioni si ricava che l'intervistatore pagherebbe con soldi pubblici questi video e inoltre che l'obiettivo politico da colpire è il sottoscritto. Inoltre, addirittura il giornalista dice di avere contatti diretti con alcune procure e con i Ros». Stando ad alcuni passaggi, verrebbero offerti dai 10 ai 15mila euro per comprare questo materiale, che secondo il testo avrebbe a disposizione, fra gli altri, anche il leghista Maurizio Filippi, presidente del Parco Star. «In sintesi», spiega ancora Tosi, «un programma di inchiesta della Rai, pagato con i soldi dei cittadini, ha cercato di costruire una trasmissione per distruggere una persona ritenuta evidentemente un avversario politico». Da noi contattato al telefono, il giornalista Sigfrido Ranucci così replica: «Noi non abbiamo mai chiesto soldi per Report. Invece ci erano stati chiesti da Borsato. Noi abbiamo la registrazione completa degli incontri avuti con lui e quelli diffusi ieri sono stati manipolati. A noi poi non interessano notizie sulla vita privata di Tosi, ma avevamo voci di un filmato in cui si parla di spartizione di appalti pubblici a Verona. Per quanto riguarda i presunti nostri contatti con le Procure e i Ros», prosegue Ranucci, «li abbiamo millantati perché la persona che avrebbe avuto a disposizione i filmati diceva di essere stata minacciata. E andiamo avanti». E Milena Gabanelli, conduttrice di Report, ha diffuso una nota di agenzia in cui dice che «non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti soldi». Aggiunge la Gabanelli: «Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione. Nessun acquisto comunque avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi», conclude la giornalista, «Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». In serata il sindaco Tosi ha controreplicato: «La documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato in Procura è integralmente quella che ci è stata fornita. E risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora Gabanelli afferma». Tosi invita la giornalista «a presentarsi subito alla Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso».

L'incontro tra il giornalista che lavora per conto di Report e l'esponente leghista è tutto filmato e trascritto, continua “L’Arena”. Il giornalista cerca in particolare un filmino a luci rosse che metta in difficoltà il sindaco Tosi tanto che afferma: «L'obiettivo è Flavio». Il colloquio tocca molti punti delicati. Vediamoli.

RELAZIONI PERICOLOSE. Il giornalista afferma di avere «filmati» su incontri «con il capo mafia di Crotone Vrenna» in occasione delle trasferte del sindaco in Calabria. Poi afferma di «averlo beccato» al «bar Filò con uno che gestisce tutta una catena di nightclub in Romania». Poi fa anche i nomi delle famiglie calabresi che avrebbero contatti con Verona e regalerebbero Rolex d'oro al sindaco: «Le famiglie calabresi Giardino, Papalia della Soveco, Paglia» e in questo contesto rientra anche l'intervista fatta all'assessore Giorlo («i calabresi festeggiano con Giorlo in Comune, abbiamo la documentazione») e che infatti nei giorni scorsi ha creato un altro caso in Giunta. E poi viene citato anche un tale Furfa, sempre calabrese.

I RICATTI. Contro Tosi il giornalista punta a raccogliere di tutto. «Ma lo sai che è già ricattato da due persone» e fa i nomi di un leghista che avrebbe foto compromettenti. E poi escort e festini a luci rosse in zona Filippini con esponenti della giunta.

LE PROCURE. Il giornalista assicura di avere fonti di prima mano e che su questi temi lavorano «la Procura di Verona, Venezia e Padova». L'obiettivo è dichiarato: «Quando tu esci che c'ha i contatti con i calabresi, prende in soldi in nero, prende i rolex dal campo degli appalti, i festini delle escort, quello che dice che è ricattabile... all'indomani di sta roba... hai buttato il fosforo, cioè tutto bruciato». Ma l'obiettivo è Flavio o qualcuno attorno a lui? Risposta: «L'obiettivo è Flavio».

LA CILIEGINA. Sulla torta manca la ciliegina: il presunto filmato. E parte la trattativa per 15 mila euro. Facendo fattura a terze persone. «Va fatta una fattura con qualcuno che ha una partita Iva». La consegna del cd con il video era prevista per oggi. Però il regalo sarà diverso.

Tosi in una conferenza stampa nel municipio di Verona, ha consegnato copia dei file audio e video di due incontri tra Ranucci e Borsato avvenuti a Padova e a Roma. Copia dei file audio e video è stata consegnata ovviamente anche in Procura: alcuni passaggi salienti delle conversazioni registrate di nascosto con il cronista di Report sono pubblicate su tgverona.it. Tosi ha spiegato che "Ranucci era alla ricerca di un video da comprare, nel quale ci sarebbe la prova dei miei contatti con la 'ndrangheta". "Ha detto - ha aggiunto - che ci sono indagini di tre Procure - Venezia,Verona e Padova -, di avere fonti investigative di altissimo livello; ha parlato in modo esplicito e ripetuto del comandante del Ros del Veneto, dei servizi segreti. Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe". Tosi ha poi spiegato che nell'incontro con l'ex militante leghista "Ranucci ha parlato delle primarie del centrodestra ed ha affermato ripetutamente che l'obiettivo è Flavio Tosi. Sostiene di avere un rapporto assolutamente paritario con Milena Gabanelli, che Report è una 'repubblica a parte' e che pur non potendo usare fondi Rai, dichiara di poter acquistare il presunto filmino ricorrendo a fondi "paralleli". "Per questo abbiamo consegnato tutto alla Procura - ha concluso -, non so se quella di Verona risulterà competente, ma intanto l'indagine farà il suo corso e i magistrati valuteranno se ci sono gli estremi anche per altri reati".

Tosi affonda la corazzata Report con un video-esca, scrive Alessandro Ambrosini su “Notte Criminale”. Offerti 15.000 euro da fondi "paralleli" della Rai per creare uno scoop che eliminasse Tosi dalla scena politica. Tutta la trattativa registrata. Querela per diffamazione nei confronti del giornalista. Quante volte abbiamo visto svelare retroscena inquietanti dai giornalisti di Report? Quante volte abbiamo sentito Milena Gabanelli parlare di etica, di equidistanza politica, di bisogno di rigore nell’informazione? Tante, mai abbastanza. Vero è, che lo stesso rigore, alcuni dei suoi giornalisti non sempre l’hanno usato, non sempre hanno tenuto comportamenti corretti nei confronti dei loro colleghi, che erano anche fonti. Il confine tra l’eticamente corretto e la scorrettezza è una linea di demarcazione  che spostano volentieri a seconda del bisogno, a seconda dell’occasione. Oggi non ci sono colletti bianchi o politici corrotti sul banco degli imputati. Oggi, come migliaia di altre volte,  sul banco degli imputati finisce proprio la trasmissione della Gabanelli e uno dei loro giornalisti: Sigfrido Ranucci. Oggi, non è la solita querela. Il film che viene trasmesso lascia poco all’immaginazione. Nelle prime ore del pomeriggio, il sindaco di Verona Flavio Tosi ha portato la querela per diffamazione al Procuratore della Repubblica Mario Giulio Schinaia, allegando registrazioni di file audio video di una certa gravità. Queste provano il tentativo del giornalista di Report di costruire delle notizie false e diffamatorie a scapito del sindaco scaligero, cercando di acquisire il materiale necessario con metodi illeciti e con l’uso di denaro pubblico. Andiamo nel dettaglio: Da giorni, Sigfrido Ranucci, si trovava nella città scaligera per fare un servizio sull’amministrazione locale e i presunti scandali in cui è stata investita ultimamente. Alla ricerca di un punto debole, o di qualcuno che volesse togliersi qualche sasso dalla scarpa, contattò Sergio Borsato, ex leghista dell’ala bossiana. Il giornalista chiese del materiale. Informazioni che potessero mettere in difficoltà il sindaco veronese ma, vista la finalità della richiesta, l'ex militante padano avvertì Tosi. Dopo aver concordato il video- bluff, Borsato si incontrò due volte con Ranucci, a Roma e  Padova. Con una microtelecamera.  Durante questi briefing, l’ex leghista, affermò  di essere in possesso di un video che avrebbe provato i rapporti di Tosi con la ‘ndrangheta, festini hard e tutto quello che poteva far cadere l’amministrazione. Esca succulenta che, proprio nella microtelecamera troverà l’amo più letale.  Queste registrazioni audio-video con microtelecamere, come ben sapete, sono una delle armi più usate da molti giornalisti per riuscire a “rubare” qualche indiscrezione lontano dai microfoni. Cose che si vedono spesso nei servizi in tv  e che molte volte hanno generato buoni risultati. Ma questa volta, a finire nella rete, è finito Sigfrido. Con tutte le scarpe. Nel video il giornalista di Report cercò di acquisire il materiale che gli poteva permettere di confezionare lo scoop nei confronti del sindaco:«L’obiettivo è Flavio», questo era il target da colpire. Il colloquio toccò molti punti delicati. Presunte relazioni pericolose con la 'Ndrangheta, presunti ricatti nei confronti del sindaco, incontri hard e relative foto compromettenti. Infine, la richiesta e la trattativa per la consegna del presunto filmato hard in cambio di 15 mila euro. La costruzione di un finto scoop su un finto-video, esilarante. In queste registrazioni sono poi svelate, dallo stesso Ranucci, i  rapporti con tre Procure venete ( Venezia, Verona e Padova) e di avere fonti investigative di primissimo livello. Più volte parlò esplicitamente del comandante del Ros del Veneto e dei servizi segreti. Affermazioni di una gravità inaudita per ruolo e implicazioni. Un fiume calmo ma in piena, questo è il sindaco Tosi che ha continuato dicendo: “Ha fatto affermazioni gravissime, dichiarando che la 'ndrangheta mi avrebbe regalato Rolex d'oro, organizzato festini hard, raccolto fondi per la campagna elettorale. Per questo era alla caccia di questo fantomatico filmino con il quale la 'ndrangheta mi ricatterebbe”. Un suicidio quasi in diretta per il coautore della Gabanelli con cui dichiarò di avere un rapporto paritario all’interno della redazione, almeno a quanto afferma. Parlò di una “repubblica a parte”quando spiegò la struttura della trasmissione. Struttura che possiede fondi “paralleli” la cui provenienza è data da distrazioni all’interno del servizio pubblico televisivo. Un bluff? Un momento di mitomania? Fatto sta che quel video-esca era pronto a comprarlo. E’ un fatto. Report non ha fatto attendere molto la sua replica, anche se la difesa è un po’ debole. Un comunicato della stessa conduttrice all’Ansa ribatte:« Non è la prima volta che ci arriva una querela preventiva. Mi preme chiarire che in 17 anni di vita di Report non abbiamo mai speso un solo euro per pagare un informatore. Ci è stato proposto un video nel quale si parla di appalti pubblici, e che in passato sarebbe stato oggetto di ricatto. Per questo video ci sono stati chiesti soldi. Si è fatto intendere, come normalmente avviene in questi casi, una eventuale disponibilità, al solo fine di poter vedere i contenuti di questa registrazione. Nessun acquisto comunque - aggiunge Gabanelli - avrebbe in ogni caso avuto seguito. Sta di fatto che il video non lo abbiamo visto e nulla abbiamo mai comprato. Gli incontri-trappola organizzati da Tosi, li abbiamo registrati anche noi e se sarà necessario a tempo debito verranno trasmessi, ma integralmente. Al contrario di ciò che sostiene Tosi, Report non è una trasmissione politica e non ha simpatie o antipatie politiche, noi facciamo il nostro lavoro investigativo, le verifiche, e alla fine ciò che viene trasmesso sono solo le evidenze». Più decisa la controreplica di Tosi che sempre tramite l’agenzia stampa ribatte « La documentazione audio e video allegata alla denuncia che ho presentato oggi al Procuratore della Repubblica di Verona e che ho diffuso alla stampa è integralmente quella che ci è stata fornita. Da essa risulta chiaramente e in modo inconfutabile che è vero esattamente il contrario di ciò che la signora Gabanelli afferma - aggiunge Tosi - che il video dal contenuto diffamatorio non è stato proposto al giornalista di Report Sigfrido Ranucci ma che è stato lui a cercare di chiedere insistentemente di acquistarlo con fondi Rai che sarebbero stati utilizzati in maniera irregolare come lui stesso descrive. Invitiamo la signora Gabanelli - conclude Tosi - a presentarsi domani alla Procura della Repubblica e a fornire immediatamente alla stampa la documentazione in suo possesso». Una brutta storia per la trasmissione d’inchiesta più seguita e più pungente della televisione italiana. Una vicenda che rischia seriamente di minare la credibilità acquisita negli anni. Anni che hanno visto Report essere l’innesco per fare affiorare malaffare e corruzione nel nostro Paese. Sarà la magistratura a chiarire il tutto. Sarà un vaso di Pandora che si aprirà dopo questo scandalo o ci sarà un capro espiatorio ?  Passerà tutto per un bluff o tutto rimarrà soffocato tra il nuovo Governo Renzi e il Festival di Sanremo?

IL PARLAMENTO DEI POMPINI E DELLE BOTTE DA ORBI.

Ciononostante negli anni 2000 inoltrati c'è ancora qualcuno che simpatizza per una ideologia del millennio precedente. "Non prova imbarazzo ad avere il padre fascista?". La domanda è come un boomerang e questa volta torna indietro a colei che per prima l'aveva scagliata come fosse un dardo all'indirizzo del deputato M5S Alessandro Di Battista ospite delle sue "Invasioni Barbarie", scrive Libero Quotidiano. Daria Bignardi, infatti, è lei stessa figlia di un padre fascista. Lo fa notare Marco Travaglio, sul suo editoriale, raccontando lo "scandalo" dell'interessamento di Enrico Letta al tweet di Rocco Casalino che chiedeva alla Bignardi se prova imbarazzo per il suocero Adriano Sofri, condannato a 22 anni perché mandante del delitto Calabresi. "Nessuno meglio di lei può raccontare", puntualizza Travaglio sul Fatto Quotidiano, "visto che è così interessata, cosa si prova ad avere un fascista e un assassino in famiglia. Dunque che le salta in mente di chiederlo ai suoi ospiti?". Anzi uno solo: Di Battista. Travaglio fa notare che il giochino, esteso ad altri ospiti del programma, potrebbe innescare scene davvero imbarazzanti, visto che "fino al 1945 gli italiani erano quasi tutti fascisti: compresi il fondatore del giornale su cui scrive Sofri e, absit iniuria verbis, il presidente della Repubblica in carica e in ricarica". Ma quello che più fa imbestialire il vice direttore del Fatto non è tanto la domanda della Bignardi. "La polemicuzza", scrive in prima pagina,"potrebbe finire lì, fra un Casalino e una Bignardi, eventualmente anche un Sofri (nel senso del padre del marito della Bignardi, il quale comunica sul Foglio che lui è, sì, un condannato per omicidio, ma non è un omicida: un po’ come Berlusconi che è, sì, un pregiudicato per frode fiscale, ma non è un frodatore fiscale)". Quello che proprio non va giù a Travaglio è che da Doha, "si fa inopinatamente vivo – si fa per dire – il presidente del Consiglio, per stigmatizzare a nome del governo e delle più alte cariche dello Stato il tweet del Casalino e solidarizzare con la famiglia Bignardi-Sofri, parlando di “frasi folli” e di “barbaria senza fine”, poi tradotta in 'barbarie'". "E doveva pure essere sobrio", ironizza l'editorialista, visto che l’uso e abuso di alcolici nei paesi islamici è severamente vietato. Il che spiega lo sguardo interrogativo e allarmato degli emiri presenti alla scena". Il pezzo di Travaglio si chiude con la domanda: "Cosa prova Letta ad avere quello zio?".  

Quegli insulti a senso unico che non indignano la sinistra. Da Berlusconi alla Carfagna, da anni gli esponenti del centrodestra vengono offesi nei modi più volgari ma Napolitano non ha sentito il dovere di difenderli, scrive Andrea Cuomo su “Il Giornale”. Mettiamola così: la barbarie non è uguale per tutti. Ci sono offese come quelle dei grillini contro Laura Boldrini che sollevano l'indignazione (sacrosanta, intendiamoci) delle vergini immacolate di cui è sempre piena la sinistra italica. E altre derubricate a quisquilie, equivoci. E so' ragazzi. Parliamo di offese alle donne, no? Ebbene negli ultimi anni ce ne sono state tante contro quelle del Pdl senza che mai dal Colle rotolasse non diciamo il masso dello sdegno ma nemmeno il sassolino del fastidio. Prendete Mara Carfagna. Di lei Sabina Guzzanti disse, in una pubblica piazza: «Tu non puoi mettere alle Pari Opportunità una che sta là perché ti ha succhiato l'uc...lo!». La comica romana fu condannata a un risarcimento di 40mila euro ma sul piano dell'immagine non pagò pegno. Sempre la Carfagna si beccò un «la signora ha usato il suo corpo per arrivare dove è arrivata» da Carla Corso, rappresentante delle lucciole, quando firmò un ddl che inaspriva le pene contro la prostituzione. Napolitano brillò per il suo silenzio allora e quando Maria Luisa Angese scrisse su Sette di Giorgia Meloni che «con quella faccia da ET sarebbe indicata per scrivere una fenomenologia dei buchi neri». E quando Lidia Ravera nel 2004 sull'Unità fece le seguenti notazioni fisiognomiche su Condoleeza Rice, segretaria di Stato Usa: «Con quelle sue guancette da impunita è la lìder maxima delle donne-scimmia». Ancora donne insultate e abbandonate: quelle del Pdl se ne sentirono dire di tutti i colori l'11 maggio 2013 durante una manifestazione a Brescia da parte di militanti di Sel. Richiesta di un cenno di solidarietà, la Boldrini, che con Vendola è stata eletta a Montecitorio, fece la gnorri. Le ragazze del Rubygate, interrogate con domande intime oltre ogni necessità investigativa da Ilda Boccassini. Francesca Pascale, definita lesbica da Michelle Bonev in una puntata di Servizio Pubblico di ottobre scorso che non rappresentò la pagina più alta della carriera giornalistica di Michele Santoro. L'atleta russa Elena Isinbayeva, che per avere goffamente difeso le leggi anti-gay di Putin si beccò questo augurio da parte di un esponente del Pd sardo: «Per me possono anche prenderti e stuprarti in piazza». Né sono mai state considerate barbare le prese in giro di malattie, handicap o difetti fisici. Umberto Bossi ne sa qualcosa, le conseguenze del suo ictus sono state spesse ridicolizzate: Beppe Grillo ad Annozero ne parodiò la parlata affannata. Renato Brunetta non è stato risparmiato per la sua statura, né Giuliano Ferrara per la sua stazza. Anche di Berlusconi si è preso spesso di mira l'aspetto fisico, giustificando tutto come salubre espressione di satira. Sarà. Ma certo non furono satiriche le parole di Umberto Eco nel 2011 a Gerusalemme: «Berlusconi come Mubarak e Gheddafi? No, intellettualmente parlando il paragone potrebbe essere fatto con Hitler: anche lui giunse al potere con libere elezioni». Agghiacciante. E a proposito di paragoni indecenti c'è quello inventato di nuovo da Grillo dopo un colloquio Napolitano-Berlusconi: «È come se Herbert Hoover, presidente degli Usa negli anni Trenta, avesse invitato Al Capone per discutere del mercato degli alcolici». Ah, a proposito: il settimanale tedesco Spiegel nel 2003 dedicò al Cav una copertina con il titolo: «Il Padrino». Come si dice in tedesco barbarie?

Grillini contro la Bignardi Svelata la barbarie degli intoccabili alla Sofri. La conduttrice finisce nel mirino del Movimento per le domande sul padre fascista di Di Battista. Ma il caso del suocero resta tabù, scrive Maurizio Caverzan su “Il Giornale”. Questione di barbarie. Più o meno barbariche. Più o meno rozze, ingenue e viscerali. Oppure, astute e suadenti. Barbarie glamour, ci sono anche quelle. Lo scontro tra il Movimento Cinque Stelle e il mondo dell'informazione, oltre che delle istituzioni, non accenna a placarsi, anzi, in un'escalation vertiginosa e un tantino deprimente. Ieri ci ha pensato Rocco Casalino che lavora alla comunicazione pentastellata a gettare benzina sulla fiamma della polemica. «Cara Daria Bignardi», ha scritto Casalino in una lettera aperta pubblicata sul blog di Grillo, «come sarebbe per te se ti invitassi a una trasmissione tv e le domande fossero: come si sente tuo figlio a scuola ad avere il nonno mandante di un assassino? Come è l'aver sposato il figlio di un assassino? E se insistessi su questa domanda come hai fatto tu per il padre ex fascista di Di Battista?». Nella sua lettera, l'ex concorrente del primo Grande Fratello peraltro condotto proprio dalla Bignardi, Casalino chiede cosa penserebbe se, dopo averla avuta come ospite invitasse «uno scrittore che invece di parlare del suo libro raccontasse di cosa è stato Lotta Continua e di cosa pensa di te? E se questo scrittore utilizzasse il suo tempo non per parlare del suo libro ma per denigrare te che, oltretutto, saresti impossibilitata a difenderti?». Domande di carta vetrata, alle quali la conduttrice ha preferito non rispondere. Ma alle quali, ha invece sorprendentemente replicato da Doha, dove si trova in missione, il premier Enrico Letta stigmatizzandole come «frasi folli», esempio di «una barbarie senza fine». Il fatto è che di barbarie ce ne sono di diversi tipi. Grevi, intollerabili e indigeribili come quelle uscite in questi giorni dalle bocche dei cosiddetti «cittadini» di militanza grillina. Il «boia» con cui si è etichettato il presidente Napolitano. «I pompini» la cui arte di saperli fare avrebbe spalancato alle deputate Pd le porte del Parlamento. E il video su «Cosa fareste soli in auto con la Boldrini?» che ha scatenato i peggiori insulti in Rete. Rozzezze che si squalificano da sole. Poi c'è un genere di barbarie, più sottili e sofisticate e rivendicate anche nei titoli dei talk show che fanno tendenza. Trucchi giornalistici, trappole e faziosità che non vengono avvertite come tali proprio perché realizzate col marchio del conduttore o del giornalista doc. Barbarie barbariche, invasioni barbariche, interviste barbariche. Alcune più e alcune meno, a seconda della simpatia, dell'antipatia, dall'empatia. Se c'è da intervistare Carlo Cracco che fa figo, prego faccia come fosse nel ristorante suo. Se tocca conversare con Barbara D'Urso, conduttrice e collega pop, via libera alle strizzatine d'intesa. Con Alessandro Di Battista detto "Dibba", possibile candidato premier del Cinquestelle, zero complicità. Con il demonio del momento, la barbarie barbarica indossa il guanto di velluto. «Non posso non parlarne - premette Bignardi - visto che è uscita in tantissimi siti, se ne parla tanto in Rete. Avrà visto che c'è questa intervista in cui suo padre Vittorio Di Battista si dice orgoglioso di dichiararsi fascista, di indossare la camicia nera, di essere un camerata... Non è in imbarazzo?». «Mio padre è mio padre e io sono io», replica Di Battista. Ma la Bignardi non molla: davvero niente imbarazzo? «Siamo diversi, ma sono fiero di essere figlio di mio padre. Un uomo onesto...». Non basta. «Ma visto che lei è in politica suo padre non poteva evitare di dire di essere un fascista?». Signora mia. Alla fine, congedato Di Battista, se non fosse stato ancora chiaro, ci ha pensato Corrado Augias a esplicitare la presunta e latente accusa di continuità tra fascismo e grillismo. Ma qui siamo all'esercizio intellettuale e la barbarie diventa capziosa. Quel che invece è chiaro è che le colpe dei padri ricadono sempre sui figli. Soprattutto se stanno dalla parte sbagliata. Mentre ricordare quelle di suoceri e nonni che stanno dalla parte giusta, quella sì sarebbe vera barbarie. O no?

E' intervenuto addirittura il presidente del Consiglio in difesa di Daria Bignardi. Ha definito "barbarie" quella frase pronunciata dal grillino Rocco Casalino, ex gieffino ("Come ti senti ad aver sposato il figlio di un assassino?")  contro la giornalista legata sentimentalmente a Luca Sofri, figlio di Adriano, condannato in Cassazione per essere stato il mandante dell'assassinio del commissario Luigi Calabresi. L'attacco del grillino era in qualche modo una piccola vendetta per la domanda che Daria, durante la sua Intervista Barbarica" aveva fatto al pentastellato Alesaandro Di Battista sul fatto che suo padre fosse fascista. Sul caso è intervenuto anche il direttore di Libero Maurizio Belpietro che, nel suo editoriale, punzecchia la Bignardi chiedendole e chiedendosi in cosa consiste l'offesa. Scrive: "Non è forse vero che Adriano Sofri, padre di Luca e compagno di Daria Bignardi, è stato condannato con sentenza passata in giudicato per l’omicidio del commissario milanese? Del caso si sono occupati tutti i giudici possibili e per l’ex capo di Lotta continua si è riaperto il processo e si è spostato il giudizio dalla sua sede naturale, come mai è successo: neppure a Berlusconi. E però, alla fine, la Cassazione ha confermato la condanna e dunque Sofri è da ritenersi a tutti gli effetti il mandante dell’assassinio. Dunque, se Daria chiede al grillino i trascorsi del babbo (che non ha ucciso nessuno ma semplicemente simpatizzava per i fascisti), perché qualcuno non può chiedere alla conduttrice sempre così politicamente corretta dei trascorsi del suocero che esultò alla notizia dell’agguato al poliziotto? Dove sta la barbarie di cui parla Letta?".

Gli insulti e le volgarità targati 5 Stelle – scrive Marco Travaglio – sono noti e arcinoti, anche perché giornali e tv non perdono l’occasione per amplificarli e, talvolta, ingigantirli. O, quando non ci sono, inventarli. Molto meno noti sono gli insulti, le volgarità, le falsità e le calunnie subiti dai 5 Stelle, che passano quasi sempre sotto silenzio.

L’editoriale sul Fatto Quotidiano: Eccone una succinta antologia, a campione. Fascisti. “Grillo mi ricorda Mussolini” (Giampaolo Pansa, l'Espresso, 16-9-2007). “Berlusconi e Grillo uniti sotto spoglie diverse in un unico disegno… In un impeto suicida la festa dell’Unità ha aperto le porte all’appello squadristico di Grillo” (Mario Pirani, Repubblica, 20-9-07). “Anche i fasci di combattimento fascisti, nel 1919, si proponevano di mandare a casa tutta la vecchia classe politica democratica e poi fondare nuovi partiti: ne fondarono uno solo e proibirono gli altri” (Eugenio Scalfari, Tv 7, 22-9-07). “Un movimento potenzialmente eversivo… Si può paragonare Grillo a Mussolini? Con molte cautele, sì. Mussolini ha usato il manganello e l’olio di ricino, Grillo la volgarità” (Giuseppe Tamburrano, Unità, 21-9-07). “Benito Grillo” (Tony Damascelli, il Giornale, 26-4-08). “Il Grillo che aizza le piazze è uno squadrista che fa paura” (Giuliano Ferrara, il Giornale, 24-2-12). “Il camerata Grillo” (Repubblica, 29-8-12). “Grillo è un fascista del web” (Pier Luigi Bersani, 25-8-12). “Nel discorso di Grillo si trovano tracce di ‘ linguaggio fascista’” (Luigi Manconi, Unità, 7-9-12). “Il Duce Beppe” (Libero, 12-12-12). “Antifascismo, Grillo attacca la Costituzione. In questo Paese spesso si tenta di negare il fascismo come esperienza terribile. Purtroppo il comico è in buona compagnia” (Carlo Smuraglia, presidente Anpi, l ’ Unità, 15-1-13). “Quelle tracce destrorse, dalle nozze gay a Casa Pound” (Toni Jop, l ’ Unità, 8-2-13). “L’elettorato di Grillo è di destra populista” (Giuseppe Fioroni, 20-2-13). “‘ Il popolo italiano – nella sua parte migliore – si è dato un governo al di fuori, al di sopra e contro ogni designazione del Parlamento’. Molto probabilmente Beppe Grillo non ha mai letto queste parole. Si tratta di Benito Mussolini in un famoso discorso del 1922” (Claudio Tito, Repubblica, 8-6-13). “Il no al voto segreto sul Cav? Pd e Grillo copiano il Duce” (il Giornale, 17-10-13). “Grillo squadrista contro l’Unità” (Unità, 7-12-13). “Quale differenza passa tra Beppe Grillo e Benito Mussolini? In apparenza nessuna” (Giampaolo Pansa, Libero, 2-2-14). Nazisti. “Grillo mi ricorda i fascisti, anzi i nazisti: ha la violenza verbale di Göbbels. Un fascio-comunista” (Guido Crosetto, Fratelli d’Italia, 27-4-12). “Grillo ha una logica vicina al nazismo” (Antonio Pennacchi, Corriere, 28-8-12). l dottor Gribbels” (Giuliano Ferrara, il Foglio, 2013-14). “Grillo parla come Hitler, con lui scappiamo all’estero” (Riccardo Pacifici, comunità ebraica di Roma, il Giornale, 23-3-13). “Grillo si metta il cuore in pace: non sarà lui a riuscire dove fallirono fascisti e nazisti, Mussolini e Hitler, Starace e Göbbels” (Oreste Pivetta, Unità, 29-3-13). “Adele Gambaro si è svegliata di colpo, bruscamente: ‘ Questo è una specie di nazismo informatico’” (Tommaso Ciriaco, Repubblica, 20-6-13. Lo stesso giorno la Gambaro avverte sulla sua pagina facebook: “L’intervista apparsa oggi su Repubblica che mi riguarda non è mai stata rilasciata. È totalmente inventata”). “La politica di Beppe Grillo usa le forme, i modi e i contenuti che questo Paese ha conosciuto nel ventennio più buio, che non è quello di Berlusconi come ci siamo abituati a ripetere con colpevole leggerezza, ma quello di Mussolini e delle camicie nere, delle squadracce coi manganelli e l’olio di ricino… Non ci sono solo i picchiatori, gli uomini forti dal pugno facile: ci sono anche i suggeritori, le spie, i delatori, quelli che il 16 ottobre ‘ 43 indicavano ai nazisti chi erano e dove abitavano gli ebrei del ghetto di Roma” (Luca Landò, Unità, 7-12-13). Alba dorata. “Grillo vuol costruire un ‘ movimento 12 stelle ’ con Alba dorata e simili. Pronto il tour europeo” (Michele Di Salvo, Unità, 24-7-13. La notizia è destituita di ogni fondamento). “Grillo e Casa-leggio non sono stati ancora circoscritti e ben identificati. È vero che non sono Alba Dorata ma, in un certo senso, sono peggio perché lì almeno funziona la profilassi ideale e culturale, come è sinora accaduto in Francia con Le Pen. Mentre qui c’è una complicità diffusa e una sottovalutazione, come fossero solo troll del web e non teppisti pericolosi, goliardi ingenui e non eversori malati, comici e non drammatici… I capi sono miei coetanei inaciditi che innescano, danno fuoco alle polveri e nella black list dove oggi stanno i giornalisti domani metteranno i manager, gli artisti, le figure pubbliche… sino a quando non arriveranno al vicino di casa” (Francesco Merlo, Repubblica, 10-12-13). Lepenisti. “Le Pen: Beppe, incontriamoci. La destra xenofoba tifa 5 Stelle” (Toni Jop, Unità, 3-4-13).”Il telefono di Le Pen e il Duce in cucina” (Toni Jop, Unità, 9-4-13). “Grillo va a lezione di destra. I 5 Stelle incontrano la Le Pen. Prove d’intesa Grillo-Le Pen: asse a destra per le Europee. La testimonianza: ‘ Un deputato del Front national in visita segreta a Casaleggio’. Contatti tra parlamentari” (Giornale, 2-12-13). “Populisti di tutta Europa uniti. E Lady Le Pen corteggia Grillo. ‘ Contatti ’ sarebbero intercorsi tra Marine Le Pen e Beppe Grillo” (Unità, 13-11-13. Nessun incontro né contatto è mai avvenuto fra il partito di Le Pen e il movimento 5 Stelle. Marine Le Pen, anzi, ha spregiativamente definito Grillo “tribuno sfiatato” e i 5 Stelle “un’eruzione cutanea”). Berlusconiani. “Incarnazione post-berlusconiana spacciata per novità” (Ezio Mauro, Repubblica, 23-5-12). “Grillo come Silvio” (Toni Jop, l ’ Unità, 21-12-12). “Grillo, con tutto il suo populismo, trasversalismo ideologico, ‘ casapoundismo’, antisindacalismo e antiparlamentarismo, il culto della persona, le nuotate nello Stretto fiume giallo, con tutto il suo ciarpame di rete e i suoi stracci da pataccaro internauta, i suoi argomenti da bar, la sua ‘ cacolalia’… è l’erede di Berlusconi… È il Berlusconi dopo Berlusconi” (Francesco Merlo, Repubblica, 27-1-13). “Patto Grillo-Berlusconi per fermare il cambiamento” (Unità, 28-3-13). “Grillo fa la lista nera dei giornalisti: obiettivo la sinistra” (Toni Jop, l ’ Unità, 5-6-13. Infatti i telegiornalisti più faziosi per i commentatori sono Giovanni Toti del Tg 4 e Bruno Vespa). “Nasce lo strano asse Forza Italia-Grillo” (Libero, 6-12-13). “Asse tra il Cav e Grillo” (Unità, 8-12-13). “Berlusconi e Grillo col forcone” (Unità, 11-12-13). “La marcia degli eversori. Berlusconi minaccia, asse con Grillo contro il Quirinale” (Unità, 13-12-13. Finora gli unici patti con B. li hanno siglati il Pd per rieleggere Napolitano, Enrico Letta per il governo e Renzi per la legge elettorale. Leghisti. “Grillo e la Lega alleati: via l’euro” (Unità, 10-9-12). “Lo strano corteggiamento tra Lega e Cinque Stelle” (Unità, 28-8-13). Montiani. “Grillo sbraita, ma aiuta solo Monti” (Magdi Cristiano Allam, Giornale, 11-2-13). Lettiani. “Aria di soccorso grillino per il governo (Letta, ndr)” (Libero, 8-1-14) Disabili. “Buuu… dategli il foglio giusto… buuu!” (cori di insulti dai banchi della maggioranza Pd-Sc-Pdl mentre parla alla Camera il M 5 S Matteo Dall’Osso, che ogni tanto si interrompe in quanto affetto da sclerosi multipla, 25-7-13). Pedofili. “Grillo raschia il fondo e va a caccia di minorenni” (Libero, 30-5-13) Terroristi. “Che accadrebbe se un mattino qualcuno, ascoltati gli insulti di Grillo, premesse il grilletto?” (Mauro Mazza, direttore Tg 2, 9-9-2007). “Grillo dalle 5 stelle alle 5 punte” (Libero, 3-1-12). “Grillo avvocato dei terroristi anti tasse” (Giornale, 3-1-12). “La sinistra eversiva ha scelto: ‘ Votate 5 Stelle’. Il Carc esce allo scoperto: ‘ È l’unico modo per sviluppare la ribellione’” (Giornale, 23-2-12). “Grillo ammazzerà i partiti. E poi l’Italia” (Giampaolo Pansa, Libero, 20-5-12). “Populismo eversivo” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 4-11-12). “Omicidio, Bin Laden e Islam: quello che non si dice di Grillo” (Annamaria Bernardini de Pace, Giornale, 8-11-12). “Grill Laden sgancia missili su Israele” (Francesco Borgonovo, Libero, 26-6-12). “La linea politica è fissata con i comunicati che il famous comedian mette in rete con la numerazione progressiva, come le Br” (Francesco Merlo, Repubblica, 12-11-12) “Volevano il morto e Grillo sta con loro” (Giornale, 15-11-12). “No global, anti Tav, violenti: così Grillo prepara il ‘ golpe’” (Giornale, 16-11-12). “Grillo porta in Parlamento i black bloc” (Silvio Berlusconi, 22-2-13). “La sinistra eversiva ha scelto: ‘ Votate 5 Stelle’. Amici dei brigatisti” (Giornale, 23-2-13). “Golpe grillino: Parlamento occupato” (Giornale, 10-4-13). “Cinque stelle rosse. Echi, slogan, sogni di rivoluzione. C’è un filo che porta da Grillo agli anni Settanta. Da Toni Negri a Rossanda. Dai Cobas ai no global” (Espresso, 25-4-13). “Il paragone che mi sento di fare è ad esperienze della nostra storia recente, quando cioè Nar e Br realizzavano precisi volantini con foto, nomi e indirizzi, e semmai professione, dei bersagli da abbattere, generando così un diffuso senso di terrore e avvertimento mafioso a chiunque avesse idea di schierarsi apertamente contro. E spesso bastava, e non serviva nemmeno poi gambizzare… Oggi Grillo fa la stessa cosa” (Michele Di Salvo, Unità, 11-12-13). Comunisti. “Grillo sta con i comunisti” (Alessandro Sallusti, Giornale, 2-11-12). “Democrazia dal basso da Corea del Nord” (Giuliano Ferrara, Foglio, 12-12-12). “Sembra il Pcus di Stalin. Quelli scelti dall’ex comico sono i metodi in voga nell’Unione sovietica degli anni 30. Il grillusconismo è veterobolscevico” (Luca Telese, Pubblico, 13-12-12). “Chi vota Grillo si ritrova falce e martello” (Alessandro Sallusti, Giornale, 9-2-13). “Il segreto di Grillo. Sotto le cinque stelle la falce e il martello. Ex Psiup, No Tav, Cobas e nostalgici del Pci” (Giornale, 9-2-13). “Tra i grillini monta la rabbia: ‘Come nel Kgb’” (Stampa, 15-5-13). “Quando Beppe urlava: votate falce e martello” (Giornale, 24-2-12). “Il M 5 S è demagogicamente di sinistra” (Piero Ostellino, Corriere, 27-2-13). “Beppe come Ceausescu” (Libero, 20-6-13). “Pericolo: governo demogrillino. Pronto il ribaltone rosso per scaricare il Pdl e dare vita all’esecutivo più a sinistra della storia” (Maurizio Belpietro, Libero, 16-6-13). “Asse Pd-Grillo sulle nozze gay” (Franco Bechis, Libero, 19-12-13). Massoni. “Grazie a Casaleggio i massoni votano M 5 S” (Libero, 28-3-13). Yankees. “Beppe l’amerikano. ‘ Dietro il fenomeno M 5 S ci sono Cia e Goldman Sachs’. Bisignani rivela i dispacci del 2008 dell’ambasciatore Spogli a Casa Bianca e 007: ‘ Per noi è credibile’. Sull’agenzia di rating: ‘ Si tradì con gli elogi’. I soldi di Soros” (Libero, 29-5-13). Castali. “I grillini ci costano come la Casta. Privilegi a 5 stelle: dicono di non volere soldi, ma da onorevoli incasseranno per legge 30 milioni l’anno” (Giornale, 1-11-12). “Grillo candida portaborse e trombati” (Giornale, 9-12-12). “Grillo epuratore è peggio dei partiti” (Maria Giovanna Maglie, Libero, 13-12-12). “Portaborse e No Tav. Ecco i candidati di Grillo” (Libero, 15-2-13). “I grillini acchiappa poltrone: ‘ Posti pronti per i trombati’” (Libero, 20-3-13). “I grillini duri e puri sedotti (come tutti) da soldi, tv e poltrone” (Giornale, 8-5-13). “Grillo controlla la Rai” (Giornale, 6-6-13). “Bossi, Berlusconi, Grillo: i nemici della casta sono i suoi migliori amici” (Curzio Maltese, Venerdì di Repubblica, 27-12-13). “Voi 5 Stelle siete la Parentopoli e venite a darci lezioni: ma vaffanculo” (Pina Picierno, Pd, 25-9-13). “L’opinione pubblica prova ormai disgusto nei confronti dei partiti ‘ arraffoni ’ (compresi, come si è visto in Emilia Romagna, i nuovi arrivati, anch’essi famelici, del M 5 S)” (Pierluigi Battista, Corriere, 13-12-13. Falso: il consigliere dell’Emilia Romagna coinvolto nello scandalo dei rimborsi è un “ex”, fuoriuscito dal gruppo M 5 S, mentre i parlamentari M 5 S han rinunciato ai rimborsi elettorali; ma questo Battista non lo dice). Matti. “Grillo è fuori di senno o è un demagogo” (Eugenio Scalfari, Espresso, 7-6-12). “Disturbati” (Scalfari, Repubblica, 4-11-12). “Luci spente e benzina vietata. Ecco cosa accadrà a chi sceglie Grillo” (Giornale, 10-2-13). “Una setta di mezzi matti” (Giuliano Ferrara, Repubblica, 26-2-13). “Grillo e Casaleggio intendono abolire le auto, ridurre lavoro e stipendi, chiudere le banche e le carceri, rivalutare Karl Marx. Le case? In bambù. E quanto al sesso…” (Maurizio Belpietro, Libero, 21-3-13). “Masnada di dementi” (Giuliano Ferrara, Foglio, 23-3-13). “Un mio amico di cui non farò il nome ha avuto occasione di pranzare con Casaleggio… Gli poneva domande politiche… Il suo commensale rispondeva con poche parole, ma tra una portata e l’altra guardava il suo modernissimo telefonino seguendo un programma di videogiochi… Il suo interlocutore per uscire da un crescente disagio… gli chiese che cosa fosse quel videogioco… La risposta fu finalmente cordiale: ‘ Il tema è quello della distruzione dell’Universo. Venga a vedere’. Infatti. È un gioco americano che insegna ai giocatori come si può ottenere la distruzione delle singole stelle, dei loro pianeti, delle costellazioni e delle galassie usando alcuni gas, alcune particelle elementari e alcuni campi magnetici… Vince chi realizza la distruzione totale nel minor tempo possibile… Dio ce la mandi buona, ma temo il peggio se avremo nella stanza dei bottoni un governo che avrà come ideologia un videogioco di quel genere” (Eugenio Scalfari, Espresso, 19-3-13. Replica Casaleggio: “Scalfari colleziona una serie di panzane degne dell’avanspettacolo. Devo precisare che non amo i videogiochi, non ho un modernissimo telefonino, ma un antiquato apparecchio iPhone 3 G di qualche anno fa e rispetto i miei interlocutori”). Nemici di Martin Mistère. “Martin Mistère contro Grillo. Provocazioni: il creatore del celebre fumetto e il pantheon esoterico dei Cinque Stelle. Andate oggi a (ri) vedervi il video di Casaleggio. La democrazia si distrugge con la democrazia” (Alfredo Castelli, creatore di Martin Mistère, Corriere-Letture, 28-4-13). Brutti. “Sono mediamente brutti, malvestiti secondo le regole basilari degli abbinamenti cromatici, con pettinature da carcerati o da sfigati di provincia, parlano un italiano da balera misto a burocratese, leggono solo il blog di Grillo e avallano dietrologie complottistiche da tara psichica, si muovono in branco, non hanno un pensiero” (Filippo Facci, Libero, 31-1-14). Lombrosiani. “Un telefilm Usa: quel serial killer che somiglia al leader 5 Stelle” (Libero, 12-5-13). Fannulloni. “Incapaci e lavativi. Crolla il mito del M 5 S” (Libero, 22-3-13). “Beppe santifica i fannulloni a 5 Stelle. I suoi deputati e senatori sono tra i più improduttivi” (Panorama, 22-1-14). Vigliacchi. “Calabraghe a 5 stelle” (Vittorio Feltri, Giornale, 20-3-13). “Il vigliacco qualunquismo di Beppe” (Luigi Cancrini, Unità, 15-12-13). Coglioni. “Mezzo coglione, mo ’ se non te ne vai t’appizzo un pugno che t’ammazzo” (Angelo Cera, Scelta Civica, al deputato M 5 S Angelo Tofalo, 19-6-13). “Coglione intero” (Cera ad Alessandro Di Battista, 19-6-13). In tournée. “Il leader torna showman: tournée in Australia” (Corriere, 13-6-13. Della tournée in Australia non si troverà mai alcuna traccia). “La missione di Grillo Oltreoceano: pronta una tournée in America” (Repubblica, 1-7-13. Anche della tournée americana non si avrà più notizia). Cancronesi. “Si continua con il ‘ Cancronesi ’ con cui Grillo, paladino della cosiddetta ‘ cura Di Bella’, bollò con disprezzo Umberto Veronesi, accusato di boicottare non meglio precisate cure alternative nella guerra contro i tumori” (Pierluigi Battista, Corriere, 4-3-13. Falso: Grillo disse Cancronesi in polemica con la difesa a spada tratta fatta dell’illustre oncologo degli inceneritori, che emettono nanoparticelle cancerogene). Ladri. “Grillo è un personaggio di brutale avidità” (Ernesto Galli della Loggia, Corriere, 25-9-2007). “A Grillo 10 milioni in nero per la festa dell’Unità” (Giovanni Guerisoli, ex Cisl, Radio 24 e Giornale, 30-8-12. Segue smentita del segretario Raffaele Bonanni, con tanto di ricevuta e scuse). “Lady Grillo prende casa a Malindi. I lussi della signora anti-Casta imbarazzano il comico” (Libero, 18-11-12). “Considerato ciò che si legge sulla stampa su società off shore, investimenti e strane operazioni finanziarie in paradisi fiscali, inseriti nella black list, sarebbe opportuno che Grillo chiarisca cosa sa e come lo riguardino certe iniziative e in che modo siano compatibili con la trasparenza che tanto predica e con i principi sulla base di quali si presenta al paese e al Parlamento” (Davide Zoggia, Pd, 8-3-13. Il riferimento è alla copertina dell’Espresso “L’autista, la cognata e il Costarica” su 13 società aperte in Costarica dall’autista di Grillo, Walter Vezzoli, e dalla sua compagna, cognata di Grillo. Ma l’investimento totale è risibile: 20. 220 dollari. E Vezzoli ha abitato e lavorato in Costarica per una decina d’anni, gestendo una discoteca, aprendo un negozio di prodotti biologici e tentando invano di costruire un resort. Grillo non c’entra nulla, avendo visto il Costarica solo in cartolina). “Voti Grillo, incassa Beppe. Beppegrillo. it visitato da 5 milioni di utenti ogni mese. Il comico genovese guadagna a ogni clic” (Panorama, 20-3-13). “Gli affari di Casaleggio & C.: tu vai sul blog, loro incassano. L’esperto: ricavi milionari” (Giornale, 25-3-13). “Così guadagna il partito-azienda di Grillo” (Michele Di Salvo, Unità, 4-4-13. In realtà il blog di Grillo è stato in perdita, come la Casa-leggio Associati, fino al 2012, quando – grazie a piccole pubblicità – la società di Casaleggio ha registrato un utile di 69. 500 euro). “Grillo: ‘ Restituiti i finanziamenti, ma non so dove sono finiti’” (Repubblica, 21-6-13. Falso: i surplus non spesi di diarie e indennità dei parlamentari M 5 S – circa 2, 5 milioni a trimestre – vengono depositati su un conto per il microcredito alle imprese in difficoltà). “Vacanze a scrocco. I viaggi regalo della Valtur sono uno spaccato dell’Italia che vive di favori. E, tra politici e vip, negli elenchi dei ‘ favoriti ’ spunta a sorpresa Beppe Grillo” (copertina Panorama, 3-7-13). “Cinque stelle al prezzo di una. Beppe scroccone. E poi fa il moralista” (Libero, 27-6-13. In realtà, diversamente dai politici, le vacanze in questione si riferiscono ad anni precedenti il 2007, quando Grillo era solo un comico e soggiornava con lo sconto in cambio di spettacoli nei villaggi Valtur). “Nasce la tv di Grillo: il decoder costa 60 euro” (Michele Di Salvo, Unità, 10-9-13. Mai nata una tv di Grillo col decoder da 60 euro). Affamatori del popolo. “Pagamenti alle imprese: per il M 5 S è una ‘ porcata’” (Unità, 27-3-13. Falso: anzi, proprio grazie a una mozione M 5 S vengono sospese le cartelle esattoriali per le imprese in credito con lo Stato). “Grillo contro i terremotati” (Unità, 22-6-13). “Perde Grillo, l’Emilia respira” (Unità, 23-6-13). “Il cinismo del guru… il vergognoso ostruzionismo del gruppo Cinque stelle ha rischiato di far cadere importanti norme e finanziamento a favore delle popolazioni colpite dai terremoti di Emilia e Abruzzo” (Claudio Sardo, Unità, 23-6-13. Falso, anzi i 5 Stelle devolvono ai terremotati dell’Emilia i 420 mila euro avanzati dai contributi raccolti in campagna elettorale). “Ostruzionismo M 5 S, può tornare la seconda rata Imu” (Repubblica, 29-1-14). “5 Stelle, ostruzionismo sul decreto Imu”, “Barricate grilline: torna il rischio Imu” (Unità, 29-1-14. Falso: l’ostruzionismo dei 5 Stelle riguarda il regalo di 4, 5 miliardi alle banche, non la seconda rata dell’Imu, infilata in maniera incostituzionale dal governo nello stesso decreto). Plebei. “Il V-Day? Un carnevale plebeo e volgare … sentimenti beceri e forcaioli” (Sergio Romano, Corriere, 13-9-07). Vespisti. “La parabola del buffon prodigo … Rasputin Casaleggio sta trattando con Vespa” (Francesco Merlo, Repubblica, 27-1-13. Poi Grillo non va né da Vespa né in nessun’altra tv). Razzisti. “Grillo anche razzista: schiaffi ai marocchini. In Rete un video del 2006 in cui dà consigli ai carabinieri su come sistemare i migranti. Niente di nuovo: ce l’ha con gli zingari” (Toni Jop, l ’ Unità, 4-9-12). “Grillo esorta a trattare con ‘ due schiaffetti ’ in caserma, lontano da occhi indiscreti, ‘ i marocchini che rompono i coglioni’” (Pierluigi Battista, Corriere, 4-3-13. Falso: Grillo denunciava alcuni poliziotti che avevano preso a botte un immigrato). “Omofobi e razzisti, i ‘ 5 Stelle ad honorem ’ di Londra” (l ’ Unità, 6-6-13). Antidemocratici. “Chi inneggia al ‘ Vaffanculo ’ partecipa consapevolmente a quelle invasioni barbariche… Mi viene la pelle d’oca: dietro al grillismo vedo la dittatura” (Eugenio Scalfari, Repubblica, 10-9-07). “Il brutto ghigno antidemocratico dietro la farsa dei ‘ soliti ignoti ’ di Grillo” (Paolo Cirino Pomicino, Foglio, 5-3-13). “Casaleggio & Grillo neoscuola dei dittatori” (Bruno Gravagnuolo, Unità, 26-6-13). “Con Grillo usciamo dalla democrazia” (Pier Luigi Bersani, 21-2-13). “È l’Hugo Chávez di casa nostra” (Pierluigi Battista, Corriere, 5-11-12). Epuratori. “Grillo si traveste da Robespierre: taglia le teste e grida al complotto” (Giornale, 13-12-12). “Grillo-epurator. Chi vi ricorda?” (Toni Jop, Unità, 4-1-13). “Scatta la ghigliottina” (il Giornale, 1-5-13). “Scatta la purga” (il Giornale, 12-6-13). “La purga” (Libero, 13-6-13). “Minculpop 5 Stelle” (Giornale, 13-6-13). “Epurazioni. Quando la politica non tollera il dissenso. Una vecchia pratica di partito che si aggiorna con la lapidazione a colpi di ‘ post’” (Francesco Merlo, Repubblica, 20-6-13). “Da Silla a Stalin la sindrome del ‘ purificatore’” (Repubblica, 20-6-13). “Inquisizione” (Repubblica, 18-6-13). “Grillo ordina il repulisti” (Repubblica, 19-6-13). “Fobie, paranoie e gogne online: la sfida politica diventa mobbing” (Repubblica, 19-6-13). “La fatwa di Grillo” (Repubblica, 13-12-12). “Grillo vara la purga” (il Giornale, 20-6-13). Impostori. “Grillo non è un comico: è un grosso impostore… Fa la guerra… annuncia il bagno di sangue” (Adriano Sofri, Repubblica, 22-2-13) Menagramo. “Se Casaleggio fosse più iettatore che guru?” (M. N. Oppo, Unità, 23-7-13). Stercorari. “Scarabei stercorari” (Filippo Facci, Giornale, 11-11-2008). Impotenti. “Grillo fa dichiarazioni da puttaniere, dimostra di avere un pisello piccolo” (Giuliano Ferrara, Twitter, 16-7-12) Sfigati. “I suoi veri elettori sono pochi sfigati” (Filippo Facci, Libero, 17-5-12) Maiali. “Grillo urla, emette grugniti al posto di pensieri” (Nichi Vendola, 2-5-12). Menateli pure. “(Il questore Stefano Dambruoso che ha picchiato la M 5 S Loredana Lupo, ndr) ha esercitato una forza legittima. Bravo Dambruoso… Se blocchi una che sta facendo una cosa violenta puoi non controllare il gomito” (Pierluigi Battista, Twitter, 30-1-14). Rottinculo. “Ciao rottinculo” (saluto dei deputati Pdl ai colleghi M 5 S, testimonianza della deputata Patrizia Terzon, 2013). “Vi faccio un culo così” (Mario Ferrara di Gal a Vincenzo Santangelo e Paola Taverna di M 5 S, Montecitorio, 22-11-13). Merde & C. “Stronzo, coglione, venite fuori, quattro pezzi di merda, moralisti del cazzo” (deputati Pd e Pdl ai 5 Stelle, Montecitorio, 10-9-13) Finti morti. “Se trovassimo Grillo steso per terra, penseremmo: guarda cosa deve fare per tirare a campare un povero professionista del ridicolo” (Francesco Merlo, Repubblica, 4-9-12). In galera. “Grillo è un fuorilegge della democrazia, parassita malato delle polemiche… Dovrebbe essere bandito dalla scena pubblica con metodi rigorosi ed estremi… È un mostro antidemocratico di volgarità e di menzogna… un’infusione di bestialità… Deve essere eliminato dal finto gioco delle regole e delle parti” (Giuliano Ferrara, Foglio, 3-2-14). Bagasce. “Ciao bagascia” (due deputati del Pdl alla collega Paola Pinna del M 5 S, 30-6-13).

Oh sì, davvero inqualificabile il comportamento dei parlamentari grillini. Si sono addirittura lanciati col bavaglio contro i banchi del governo, e qualcuno sotto lo scranno più alto della Camera ha insultato la presidente Laura Boldrini, scrive Marco Ventura su “Panorama”. Come se a Montecitorio non ci fossero mai stati insulti, risse, lanci di oggetti. Mio nonno era deputato dc, degasperiano, anni ’50-60. Conservo una sua foto mentre tiene alta sulla testa una sedia (oggi sarebbe impossibile, è tutto inchiavardato come sulle navi in tempesta), pronto a scagliarla contro il comunista Giancarlo Pajetta che scavalcava gli scranni verso lo scontro fisico. Francamente, prima delle intemperanze degli ultimi giorni in aula e sul web, mi hanno scandalizzato l’intervento della parlamentare grillina che chiedeva di commemorare il kamikaze di Nassiriya, e la bandiera italiana e i fantocci dei nostri soldati bruciati nelle manifestazioni dell’estrema sinistra. Ma anche, in modo diverso, le bugie sulle tasse nelle conferenze stampa a Palazzo Chigi. Non mi piace, ma non mi scandalizza, la prova muscolare del Movimento 5 Stelle a Montecitorio, se è vero che nel paese c’è ben altra angoscia, ben altra violenza che cova. Guardiamoci intorno, ogni giorno vedremo questa violenza strisciante, e l’ingiuria volante e la maleducazione imperante, per strada, sui luoghi di lavoro, in tv, sul web. È la volgarità di un paese che vive di livore. Che non riesce a guardare avanti con serenità. Ma la colpa è dei grillini? Loro esprimono il furore di cittadini mal governati che scivolano ogni giorno di più nella povertà. Il teatrino della politica è esasperante. La perdita di tempo nelle Camere è un insulto peggiore dei video rimossi dal blog di Grillo. Il sabotaggio delle riforme, del cambiamento, è smaccato in quella fascia di popolazione che è arroccata in privilegi non più difendibili mentre i giovani, le partite IVA, i pensionati al minimo, gli imprenditori sono costretti a scappare all’estero, chiudere i battenti, scendere a patti con le raccomandazioni. Sì, questo è scandaloso. Come l’incapacità di guardare la realtà di un ceto medio che soffoca e s’immiserisce, da parte di chi continua a introitare cifre fuori dal mondo per pensioni, indennità e stipendi d’oro garantiti (che, quelli sì, sono un insulto).

Porte sbarrate, spintoni, occupazioni: un’altra giornata convulsa in Parlamento, scrive Online News. E l’ufficio della presidente della Camera Laura Boldrini sbarrato. Prosegue la protesta M5S, a Montecitorio, dopo il caos scoppiato mercoledì sul decreto Imu-Bankitalia per la «ghigliottina» all’esame del provvedimento messa dalla presidente della Camera, Laura Boldrini. I grillini hanno annunciato ricorso alla Corte costituzionale per sollevare conflitto di attribuzione nei confronti della presidente della Camera e dei presidenti delle Commissioni Affari costituzionali e Giustizia.Obiettivo: ottenere l’annullamento delle ultime votazioni su dl Bankitalia, legge elettorale e dl Carceri. Boldrini replica: «Mi sono assunta una responsabilità derivante da comportamenti altrui, da rigidità contrapposte di diverso segno che hanno scaricato l’onere di una decisione assai difficile sulla Presidenza della Camera». Il tutto mentre i deputati del M5S presentano la loro richiesta di impeachment a Napolitano, con il Colle che commenta: «Lo stato d’accusa? Faccia il suo corso». La giornata è iniziata con la Commissione Giustizia che non è riuscita neanche ad iniziare la seduta convocata per le 8.30 al quarto piano di Montecitorio perché il deputato di M5s, Vittorio Ferraresi, si è fatto trovare seduto ai banchi della presidenza: ha spiegato alla presidente Donatella Ferranti che non se ne sarebbe andato fin quando non ci fossero state le dimissioni di Laura Boldrini e del questore Stefano Dambruoso accusato dai grillini di aver preso a schiaffi una parlamentare. Netta la posizione del segretario del Pd, Matteo Renzi: «Ieri i grillini, anziché cercare di lavorare per il bene del Paese, hanno trasformato il Parlamento in un ring, facendo ostruzionismo e bloccando la democrazia».Il tutto mentre viene reso noto che il M5S non prenderà parte ai lavori dell’Aula del Senato ora incentrati sulla discussone generale del dl Delega fiscale. La vicenda degli schiaffi in Aula continua a far discutere. La deputata del Movimento Cinque Stelle Loredana Lupo in Aula ha chiesto le dimissioni del Questore e collega Dambruoso che l’ha schiaffeggiata per impedirle di salire sui banchi del governo durante la bagarre in Aula (qui la fotosequenza) . Da parte di Dambruoso è arrivato un accenno di scuse: «Non mi riconosco in quell’immagine. Chiedo scusa per quel gesto che è stato percepito come un gesto di violenza, io non lo avevo inteso così».Ma Lupo replica: «Non ho ricevuto una telefonata e neppure una parola di scuse, né da lui né dalla presidenza della Camera».La deputata ha sporto denuncia e si dice delusa anche dalle altre forze politiche. «Mentre Dambruoso mi ha alzato le mani, un collega del Pd urlava addirittura: «Ha fatto bene, fascista!».I colleghi del Movimento si sono presentati nel pomeriggio in conferenza stampa con i cartelli «via i picchiatori». E, intanto, il Movimento 5 Stelle ha formalmente depositato, in entrambi i rami del Parlamento, la denuncia per la messa in stato d’accusa del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Lo ha annunciato in Aula il capogruppo di Palazzo Madama, Maurizio Santangelo. L’atto è stato notificato dal presidente del Senato Grasso alla presidente della Camera Laura Boldrini ed ha iniziato il suo iter. Durante una conferenza stampa in Sala Nassiriya al Senato Luigi Di Maio, vicepresidente della Camera, ha difeso l’operato dei colleghi e ha spiegato le ragioni dell’impeachment (qui il testo presentato dai Cinque Stelle) . «Napolitano da arbitro è diventato giocatore, i vertici di maggioranza ormai si fanno al Quirinale», ha dichiarato Di Maio. Nei confronti di Napolitano, viene ipotizzato l’alto tradimento per la grazia concessa a Joseph Romano militare Usa condannato per il caso Abu Omar. E il presidente è anche accusato di ingerenze nei confronti della magistratura e della procura di Palermo. «Ben tornati ai tempi di Luigi XIV, sul regno di Luigi XIV non calava mai il sole», invece su questa «monarchia presidenziale sembra calare qualche ombra inquietante» ha chiosato Paola Taverna (peccato che il regno a prova di ombra fosse quello di Carlo V d’Asburgo, conquistatore delle Americhe (di qui la frase immortale, che per l’appunto fa riferimento alla diversità di fuso orario) e regnante dal 1516 al 1555. E ancora strascichi di polemiche arrivano dal Pd. Saranno tredici le querele nei confronti del deputato M5S Massimo De Rosa, che nel parapiglia che ha animato mercoledì sera la commissione Giustizia si è rivolto alle parlamentari Democratiche con un: «Siete arrivate qui solo perché sapete fare bene i p…». Dichiarazione che le deputate Pd non hanno affatto gradito: «Ha offeso la dignità delle donne del Pd e delle donne italiane – sottolinea la responsabile Giustizia dei Democratici Alessia Morani – Stanno impedendo l’esercizio delle democrazia». «Vanno oltre il diritto della minoranza», ha aggiunto la democratica Maria Chiara Gadda. E Morani ha proseguito: «Si può dissentire ma non impedire il lavoro del Parlamento». «È evidente che questo è un tentativo di ostacolare la legge elettorale – ha sottolineato ancora Gadda – hanno paura di una politica che inizia a fare».

Noi, insultate a Montecitorio, scrive Michela Marzano su “La Repubblica”. All’Ansa alcune parlamentari Pd mostrano la denuncia per ingiuria presentata contro De Rosa. Doveva essere una sera come tante. Una seduta notturna in Commissione Giustizia per lavorare al decreto sui diritti dei detenuti e il sovraffollamento carcerario. Due volumi pieni di emendamenti ostruzionistici presentati dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle, cui però ormai si è fatta l'abitudine. E invece è andato tutto per traverso. Gli emendamenti, la seduta, i voti, il dibattito. Perché invece di discutere, si è finito con il litigare. Invece di votare, si è occupata l'aula della commissione. Invece di licenziare il provvedimento, si sono licenziati l'educazione e il rispetto. Le cose hanno cominciato a mettersi male fin dall'inizio. Quando la Presidente Ferranti ha aperto la seduta e i deputati del M5S hanno cominciato ad accalcarsi davanti la porta. A differenza di quanto accade di solito, anche chi non fa parte della commissione pretende di assistere ai lavori, e non accetta che per ragioni di sicurezza non sia possibile entrare in un'aula già stracolma. Mentre la Presidente cerca una soluzione, il malcontento aumenta. C'è chi sbuffa esasperato dalla giornata interminabile. C'è chi provoca. C'è chi rincara la dose. E pian piano è solo una grandissima confusione. Tutti parlano. Ci si accusa reciprocamente di intolleranza e di violenza. Nessuno ascolta. "Noi rappresentiamo i cittadini", urla un collega del M5S. "E noi chi rappresentiamo invece, nessuno? E i nostri elettori?", risponde uno del Pd. "E la violenza contro la collega Lupo?". "E gli insulti contro la Boldrini?". Ma è solo l'inizio. Prima dell'arrivo di altri grillini, prima del "voi del Pd siete il male", prima dei "fascisti" gridati che volano da una parte e dall'altra della sala, prima dei commessi che cominciano a temere per l'incolumità generale. È a questo punto che la Presidente, nonostante le proteste della Lega e del M5S, decide di annullare la seduta e di riconvocarla per l'indomani mattina. Massimo De Rosa è uno tra gli ultimi ad andarsene. A "me non fa né caldo né freddo essere chiamato fascista" dice sbattendo la porta. Poi ci ripensa. Ma quando sta per entrare di nuovo con in mano il casco della moto, un commesso lo blocca. "Voi del Pd siete tutti collusi", urla allora. Poi, rivolto a noi donne, aggiunge con scherno: "E voi siete qui solo perché siete brave a fare i pompini". De Rosa è paonazzo, ma sembra finalmente contento. Io smetto per qualche secondo di respirare. Poi mi volto e vedo occhi sgranati e sguardi vuoti. Siamo tutte senza parole. Con gli insulti, è sempre così. Lasciano di stucco, almeno in un primo momento. È per questo che i filosofi del linguaggio ne parlano come di una forma di hate speech, discorso dell'odio. Quando si insulta una persona, non si cerca né di dialogare, né di manifestare il proprio disaccordo. Quando la si insulta, si cerca solo di farla tacere. Che cosa si può mai rispondere quando qualcuno ci insulta d'altronde? Che non si è d'accordo? Che chi ci insulta sta sbagliando? Che non è affatto vero che le donne del Pd sono "brave solo a fare pompini"? Chi insulta lo sa. Ed esulta dell'umiliazione che provoca, proprio come uno schiaffo in pieno viso che continua a far male anche dopo molto tempo. Allora sì, l'altra sera anche io sono rimasta ammutolita. Silenziosa e impotente di fronte agli insulti di De Rosa, nonostante questa storia dell'hate speech la insegni da anni ai miei studenti per spiegare come nel momento in cui si insulta un interlocutore non è più una questione di diversità di idee o di opinioni, ma sempre e solo un gesto di violenza. Quando ci si trova di fronte alla violenza, tutto è più complicato. Molto più complicato delle teorie. Ecco perché, con le altre colleghe, ci abbiamo messo un po' prima di reagire, prima di fare comunicati e dichiarazioni, prima di andare al commissariato e sporgere querela. Ora però è fatta. E anche se De Rosa non si è nemmeno degnato di chiedere scusa, noi ci siamo riappropriate della nostra parola. Anche se sui social network c'è chi rimette in discussione quanto accaduto ("avete registrato?" "qualcuno è testimone?" "non starete mica inventando tutto, vero?") e c'è persino chi osa rincarare la dose - spiegando che è proprio così, e che è evidente che De Rosa dice ciò che pensano tutti - , noi abbiamo rivendicato il rispetto della nostra dignità. Basta con la violenza nei confronti delle donne. Basta con gli insulti. Ma basta con gli schiaffi. Perché se De Rosa ha mostrato che il "nuovo" può anche essere terribilmente "vecchio", il questore Dambruoso, con lo schiaffo alla deputata del M5S Lupo cui va tutta la mia solidarietà, ha mostrato che per molti, oggi, è veramente difficile meritare quell'"onorevole" di cui si dovrebbe invece cercare di essere fieri.

Parolacce ed insulti, calci e spintoni, bagarre tra i banchi della politica. Non solo cattivo gusto e risonanza mediatica, a volte qualcuno si è fatto male.

Quando l'aula diventa un ring. Le risse in 60 anni di Repubblica, scrive “La Repubblica”.  L'aggressione del senatore Tommaso Barbato al collega Nuccio Cusumano é soltanto l'ultima aggressione avvenuta nelle aule del Parlamento. Una lunga serie di episodi delle stesso genere ha costellato i 60 anni di storia della Repubblica. Dal 1949 al 2008 le aule parlamentari si sono più volte trasformate in un ring, dagli occhiali rotti di Sgarbi alla sospensione per dieci sedute di 14 deputati della Lega.

18 marzo 1949 - Alla Camera si vota l'adesione dell'Italia alla Nato. Quando il presidente dell'assemblea Giovanni Gronchi proclama l'esito del voto, il deputato del Pci Giuliano Pajetta (fratello del più noto Giancarlo) si lancia "a catapulta" (come si legge nel resoconto parlamentare) contro un collega, dando inizio a una rissa che vede anche un cassetto volare nell'emiciclo.

1 aprile 1952 - Il deputato Dc Albino Stella, coltivatore diretto, si getta contro il monarchico popolare Ettore Viola, agricoltore, colpendolo con un pugno.

29 marzo 1953 - La "legge truffa" viene approvata dal Senato ma in aula succede di tutto. In una rissa senza precedenti volano cassetti e banchi, il ministro Randolfo Pacciardi rimane ferito e l'opposizione abbandona compatta l'aula.

4 dicembre 1981 - Durante la discussione sullo scioglimento delle associazioni segrete (P2) il radicale Tessari attacca un questore del Pci e scoppia una rissa tra parlamentari dei due gruppi. Vola qualche calcio e i commessi intervengono per separare i contendenti. Il radicale Cicciomessere spicca un salto sul banco del governo ma cade a terra e i commessi riescono a respingere alcuni deputati del Pci, che volevano aggredirlo.

20 novembre 1991 - Mentre la Camera discute i provvedimenti di attuazione del pacchetto per l' Alto Adige, il missino Giuseppe Tatarella si alza e si avvicina all'esponente della Svp Johann Benedikter, che sta parlando, strappandogli di mano i fogli del suo intervento e gettandoli in aria.

16 marzo 1993 - Durante il dibattito sulla questione morale, il leghista Luca Leoni Orsenigo espone in aula un cappio da forca, agitandolo verso i banchi del governo. Alcuni deputati cercano di raggiungere i banchi della Lega Nord e solo un fitto cordone di commessi impedisce il contatto fisico.

19 maggio 1993 - Durante la discussione della riforma Rai, il deputato missino Teodoro Buontempo cerca di parlare in aula con un megafono e, all'ordine di consegnarlo, scappa per le scale dell'emiciclo rincorso dai commessi. Il vicepresidente lo richiama e poi lo espelle insieme al collega di partito Marenco che ha urlato "ladri-ladri" e altro.

21 settembre 1994 - Il progressista Mauro Paissan, relatore del decreto "salva-Rai", è interrotto da un boato di proteste provenienti soprattutto dai banchi di Alleanza Nazionale. Un gruppo di deputati di An travolge il muro di commessi piazzati nell'emiciclo e ad avere la peggio è Francesco Voccoli, Prc, messo ko da un pugno mentre faceva scudo a Paissan. Anche un commesso deve ricorrere alle cure dell'infermeria.

2 agosto 1996 - Scambi di insulti e strattoni tra deputati di Polo e Lega nella discussione sul finanziamento dei partiti. Il leghista Cavaliere salta un banco e cerca di raggiungere il deputato Giovine e altri esponenti di Forza Italia. Rotti gli occhiali a Vittorio Sgarbi.

17 novembre 1997 - Rissa alla Camera con fascicoli bruciati, portaceneri rotti, insulti, urla e scontro fisico evitato per pochissimo. Gli incidenti avvengono in Transatlantico tra Enrico Cavaliere, Mario Borghezio e Luciano Dussin della Lega da un lato e Famiano Crucianelli (Comunisti Unitari), Ugo Boghetta e Ramon Mantovani di Prc dall'altro.

29 aprile 1998 - Uno scontro verbale su Juventus-Inter tra il deputato di An Gramazio e l'ex calciatore e deputato Ds Massimo Mauro si trasforma in scontro fisico. Gramazio scatta verso i banchi della maggioranza, Mauro cerca di allontanare con un calcio l'avversario, che intanto lo strattona e cerca di colpirlo. Gran lavoro dei commessi per sedare la rissa.

9 luglio 2003 - Durante la seduta della Camera, alcuni leghisti mostrano t-shirt con la scritta "io non sto con Abele" e "Caino sconti la pena". Il presidente Casini richiama due volte il capogruppo Alessandro Cè, Dario Galli, Luciano Dussin, Andrea Gibelli, Sergio Rossi e Luciano Polledri e poi li espelle. Un esponente del Carroccio si strattona da solo fingendo una sorta di colluttazione con uno dei commessi: "Sì, sto facendo anch'io resistenza. Da qui non mi sposto...".

31 luglio 2004 - Dopo un alterco per alcune battute su Tangentopoli e "nani e ballerine" con alcuni socialisti dei due schieramenti, Davide Caparini (Lega) tenta di sfondare il cordone dei commessi e di avvicinarsi a Roberto Giachetti (Margherita). Per Caparini scatta l'espulsione. Renzo Lusetti (Margherita) finisce in infermeria.

14 giugno 2007 - I deputati leghisti si siedono nei banchi del governo sventolando il titolo della Padania: "Governo fuori dalle balle". Seduta sospesa, poi l'occupazione, per circa un'ora, con i leghisti che urlano slogan e insulti alla maggioranza e quindi la rissa con i deputati del centrosinistra. L'ufficio di presidenza sospende 14 deputati della Lega per dieci sedute. Un record per Montecitorio.

15 novembre 2007 - Un senatore di Forza Italia cerca di prendere a testate un parlamentare del centrosinistra che viene circondato dai colleghi e portato in salvo fuori dall'emiciclo dal presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi. Dai banchi di Forza Italia parte anche un sonoro "vaffanculo".

Onorevoli deputati: 65 anni di risse in Aula. Sia a Montecitorio che a Palazzo Madama sono diversi gli episodi che hanno portato senatori e deputati alle mani. Eccoli, scrive “Libero Quotidiano”. La rissa scoppiata in Aula ieri può aver fatto dire a molti frasi del tipo: "Cose mai viste". In realtà non è così. Da quando si è insediato il Parlamento ad oggi, sia la Camera che il Senato si sono trasformate in un ring. Ecco una lista degli episodi più significativi raccolti dall'archivio di Repubblica (fino al 2007): si va dagli occhiali rotti di Sgarbi alla sospensione per dieci sedute di 14 deputati della Lega, dalla litigata per la partita Juve-Inter ai documenti bruciati nell'emiciclo.

18 marzo 1949 - Alla Camera si vota l'adesione dell'Italia alla Nato. Quando il presidente dell'assemblea Giovanni Gronchi proclama l'esito del voto, il deputato del Pci Giuliano Pajetta (fratello del più noto Giancarlo) si lancia "a catapulta" (come si legge nel resoconto parlamentare) contro un collega, dando inizio a una rissa che vede anche un cassetto volare nell'emiciclo.

1 aprile 1952 - Il deputato Dc Albino Stella, coltivatore diretto, si getta contro il monarchico popolare Ettore Viola, agricoltore, colpendolo con un pugno.

29 marzo 1953 - La "legge truffa" viene approvata dal Senato ma in aula succede di tutto. In una rissa senza precedenti volano cassetti e banchi, il ministro Randolfo Pacciardi rimane ferito e l'opposizione abbandona compatta l'aula.

4 dicembre 1981 - Durante la discussione sullo scioglimento delle associazioni segrete (P2) il radicale Tessari attacca un questore del Pci e scoppia una rissa tra parlamentari dei due gruppi. Vola qualche calcio e i commessi intervengono per separare i contendenti. Il radicale Cicciomessere spicca un salto sul banco del governo ma cade a terra e i commessi riescono a respingere alcuni deputati del Pci, che volevano aggredirlo.

20 novembre 1991 - Mentre la Camera discute i provvedimenti di attuazione del pacchetto per l' Alto Adige, il missino Giuseppe Tatarella si alza e si avvicina all'esponente della Svp Johann Benedikter, che sta parlando, strappandogli di mano i fogli del suo intervento e gettandoli in aria.

16 marzo 1993 - Durante il dibattito sulla questione morale, il leghista Luca Leoni Orsenigo espone in aula un cappio da forca, agitandolo verso i banchi del governo. Alcuni deputati cercano di raggiungere i banchi della Lega Nord e solo un fitto cordone di commessi impedisce il contatto fisico.

19 maggio 1993 - Durante la discussione della riforma Rai, il deputato missino Teodoro Buontempo cerca di parlare in aula con un megafono e, all'ordine di consegnarlo, scappa per le scale dell'emiciclo rincorso dai commessi. Il vicepresidente lo richiama e poi lo espelle insieme al collega di partito Marenco che ha urlato "ladri-ladri" e altro.

21 settembre 1994 - Il progressista Mauro Paissan, relatore del decreto "salva-Rai", è interrotto da un boato di proteste provenienti soprattutto dai banchi di Alleanza Nazionale. Un gruppo di deputati di An travolge il muro di commessi piazzati nell'emiciclo e ad avere la peggio è Francesco Voccoli, Prc, messo ko da un pugno mentre faceva scudo a Paissan. Anche un commesso deve ricorrere alle cure dell'infermeria.

2 agosto 1996 - Scambi di insulti e strattoni tra deputati di Polo e Lega nella discussione sul finanziamento dei partiti. Il leghista Cavaliere salta un banco e cerca di raggiungere il deputato Giovine e altri esponenti di Forza Italia. Rotti gli occhiali a Vittorio Sgarbi.

17 novembre 1997 - Rissa alla Camera con fascicoli bruciati, portaceneri rotti, insulti, urla e scontro fisico evitato per pochissimo. Gli incidenti avvengono in Transatlantico tra Enrico Cavaliere, Mario Borghezio e Luciano Dussin della Lega da un lato e Famiano Crucianelli (Comunisti Unitari), Ugo Boghetta e Ramon Mantovani di Prc dall'altro.

29 aprile 1998 - Uno scontro verbale su Juventus-Inter tra il deputato di An Gramazio e l'ex calciatore e deputato Ds Massimo Mauro si trasforma in scontro fisico. Gramazio scatta verso i banchi della maggioranza, Mauro cerca di allontanare con un calcio l'avversario, che intanto lo strattona e cerca di colpirlo. Gran lavoro dei commessi per sedare la rissa.

9 luglio 2003 - Durante la seduta della Camera, alcuni leghisti mostrano t-shirt con la scritta "io non sto con Abele" e "Caino sconti la pena". Il presidente Casini richiama due volte il capogruppo Alessandro Cè, Dario Galli, Luciano Dussin, Andrea Gibelli, Sergio Rossi e Luciano Polledri e poi li espelle. Un esponente del Carroccio si strattona da solo fingendo una sorta di colluttazione con uno dei commessi: "Sì, sto facendo anch'io resistenza. Da qui non mi sposto...".

31 luglio 2004 - Dopo un alterco per alcune battute su Tangentopoli e "nani e ballerine" con alcuni socialisti dei due schieramenti, Davide Caparini (Lega) tenta di sfondare il cordone dei commessi e di avvicinarsi a Roberto Giachetti (Margherita). Per Caparini scatta l'espulsione. Renzo Lusetti (Margherita) finisce in infermeria.

14 giugno 2007 - I deputati leghisti si siedono nei banchi del governo sventolando il titolo della Padania: "Governo fuori dalle balle". Seduta sospesa, poi l'occupazione, per circa un'ora, con i leghisti che urlano slogan e insulti alla maggioranza e quindi la rissa con i deputati del centrosinistra. L'ufficio di presidenza sospende 14 deputati della Lega per dieci sedute. Un record per Montecitorio.

15 novembre 2007 - Un senatore di Forza Italia cerca di prendere a testate un parlamentare del centrosinistra che viene circondato dai colleghi e portato in salvo fuori dall'emiciclo dal presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi. Dai banchi di Forza Italia parte anche un sonoro "vaffanculo". 

26 ottobre 2011 - La seduta è stata sospesa dal Presidente di turno, On.Bindi, a seguito di scontri “fisici” tra parlamentari leghisti  e parlamentari di Futuro e liberà, il tutto di fronte alle scolaresche in visita a Montecitorio che dalle balconate hanno assistito incredule all’accaduto.

15 Dicembre 2011 - Seduta sospesa alla Camera per le proteste della Lega che hanno esposto alcuni cartelli contro la manovra. Il presidente della Camera Gianfranco Fini ha espulso Gianluca Bonanno e Fabio Rainieri, che li hanno alzati davanti al banco del Governo. 

E alla fine fu sdoganata anche la parola “pompino”, scrive Francesco Maria del Vigo su “Il Giornale”. Con grandissima disinvoltura. Ora almanaccano tutti di fellatio. Buttarlo lì quel termine, biasimando la volgarità dei seguaci di Grillo, è diventato quasi (radical) chic. Se ne parla ovunque: in tv, nei siti web dei quotidiani e sui loro genitori cartacei. Il dizionario di Youporn ha invaso l’opinione pubblica. Non si parla d’altro. Da quando i grillini hanno accusato le donne democratiche di occupare i loro scranni in virtù di irriferibili doti orali, politici, opinionisti e giornalisti fanno a gara per parlarne. La sempre composta ed elegante Alessandra Moretti, una delle donne ferite dagli strali grillini, ha ripetuto la frase in diretta tv su la7 di fronte alla stupita Lilli Gruber. Ovviamente il video impazza in rete. Ma il meglio lo mette in pagina la Repubblica di oggi. Il barbuto quotidiano, solido bacchettatore di ogni sguaiatezza, si lancia in un’acrobatica intervista al non particolarmente onorevole Massimo De Rosa, il parlamentare che avrebbe insultato le deputate dem. “Non gli ho dato delle pompinare”, attacca lui. “Ha definito pompinare le deputate del Pd”, lo incalza il giornalista. Lui ci riprova: “A un certo punto ho detto, rivolgendomi a tutti e non alla Moretti: la gente entra qui dentro perché conosce qualcuno o ha fatto un pompino a qualcuno”. Il giornalista non molla: “Si deve scusare”. De Rosa, spericolato, insiste nella sua autolesionista linea difensiva: “Mi scuso per quell’insulto. Mi dispiace, era una giornata faticosa e hanno iniziato loro a insultare. Ma voglio che sia chiaro che facevo un ragionamento generale, non è vero che gli ho dato delle pompinare. Ci mancherebbe”. Quattro volte in cinquanta righe. Un piccolo record. Ma ormai l’argine è rotto. Così la deputata piddina Giuditta Pini twitta ironica: “ho preso 7100 preferenze in 3 giorni. mi fa ancora male la mascella”. Che i grillini non fossero degli azzimati nipotini di Lord Brummel lo sapevamo già. Ma che quella roba lì avesse libera circolazione nella fascia protetta del pensiero e della cronaca politica è l’ultima novità di un Paese bizzarro. Per carità, lungi da me, nessun intento moralisteggiante, anche perché questa storia non ha i tratti di una tragedia ma, piuttosto, di una commedia all’italiana. Di quelle con gli spioncini delle porte violati da occhi voraci e le maestre che durante le lezioni fanno sbucare il reggicalze dalla gonna. Che è sempre meglio dell’Italia di certe pellicole tristemente (e sinistramente) pensose… Ps1. Gli insulti a sfondo sessuale sono sempre diretti alle donne. Come se il sesso fosse loro esclusivo appannaggio. Come se gli uomini, in questo caso i parlamentari, fossero degli anacoreti che hanno rinunciato ai piaceri della carne. Come se in Parlamento, come in qualunque posto di lavoro, non arrivassero uomini per raccomandazione, scambi politici, inconfessabili sotterfugi e, perché no, favori sessuali. Ps2. Quando Sabina Guzzanti, su un palco in una pubblica piazza, imbucò le medesime accuse all’indirizzo dell’allora ministro Carfagna, nessuno si stracciò le vesti. Probabilmente era un giorno di sciopero delle superstiti femministe da modernariato.

Filippo Facci: Fa-sci-sti. Urlano, insultano, spintonano. E poi sono brutti, ignoranti, complottisti: voi come chiamereste quelli del Movimento 5 Stelle? Ignorano i regolamenti e i galatei anche minimi, hanno quest’aria severa da ottusi convinti, fiaccano i dibattiti televisivi con sparate generiche di bassa demagogia, nell’emiciclo fanno gestacci tipo «emendami questo», dicono «boia» al Capo dello Stato, provocano, interrompono, urlano, spingono, strattonano, colpiscono e graffiano i questori, fanno i pagliacci con bavagli e striscioni, fanno ripresine in aula, inventano aggressioni dopo averle fatte, bloccano i lavori parlamentari, si avventano sui tavoli delle presidenze, occupano aule e commissioni, ne impediscono l’ingresso, disertano il Senato, costringono la Boldrini a chiudersi a chiave in ufficio, gridano «siete solo merda» ai parlamentari e «sapete solo fare pompini» alle parlamentari, interrompono i colleghi mentre rilasciano dichiarazioni alle telecamere, accusano come niente di «assassinio» e gridano «la mafia è nello Stato» anche si sta discutendo di cipolle, inoltre - scusate, ma è vero - sono mediamente brutti, malvestiti secondo le regole basilari degli abbinamenti cromatici, con pettinature da carcerati o da sfigati di provincia, parlano un italiano da balera misto a burocratese, leggono solo il blog di Grillo e avallano dietrologie complottistiche da tara psichica, si muovono in branco, non hanno un pensiero e sono servi di un ex comico che non è mai stato in Parlamento. Come vorreste chiamarli?

Grillo non ha inventato nulla: le risse sono nel dna dell'Aula. Niente di nuovo tra i banchi del Parlamento: dal 1949 intemperanze e violenza sono una costante. Ma oggi il risultato è assicurato: si finisce in tv e sui giornali, scrive Paolo Guzzanti  su “Il Giornale”. Se la rivoluzione non è un pranzo di gala, come diceva Lenin, neanche la vita parlamentare è roba per stomaci deboli: pugni, schiaffi, insulti, corse su e giù per i banchi inseguiti dai commessi, parolacce da mercati generali, risse violente e qualche mal represso impulso omicida fanno parte della tradizione italiana. È ormai mezzo secolo che frequento il Parlamento, quarant'anni come giornalista e una decina come senatore e deputato, poi di nuovo come ex. Ed è mezzo secolo che sono testimone delle piccole e grandi turpitudini e violenze nelle aule parlamentari. Dico l'opinione che mi sono fatto. Gli italiani si dividono in due: parlamentari e antiparlamentari e tutte e due le categorie detestano il Parlamento. Non che in Francia, Germania, Regno Unito o Svizzera non scoppino delle risse e non volino gli stracci insieme alle parolacce, ma quel che è sempre successo da noi da un secolo in qua (mettiamoci anche l'Italietta giolittiana e poi le sanguinose risse fra fascisti, socialisti e comunisti) non si è visto quasi mai in altri Paesi di lunga tradizione e anche di antico patriottismo parlamentare. Non ricordo risse ed epiteti da banco del pesce al Congresso americano, alla Camera dei comuni o al Bundestag tedesco, dove pure le urla non mancano.
Quando nel 1949 fu votata l'adesione alla Nato, presiedeva la Camera Giovanni Gronchi, futuro inquilino del Quirinale. Volarono per la prima volta insieme agli insulti anche gli schiaffi quando Giuliano Pajetta, fratello del più noto e sanguigno Giancarlo, si precipitò come un ariete contro un collega dando inizio a una rissa. Il vecchio Pci di Palmiro Togliatti rispettava la democrazia parlamentare e le sue regole, ma lo faceva a corrente alternata non dimenticando mai la tradizione rivoluzionaria e anche manesca, come facevano del resto i neofascisti del Msi che scendevano dai loro banchi per rafforzare con la forza dei pugni le loro opinioni. Del resto si faceva a botte anche sulle piazze del Paese: gli studenti si picchiavano nelle università, i lavoratori in sciopero facevano a botte con la Celere del ministro Scelba e il Parlamento, specialmente la Camera era prima di tutto un luogo di scontro e propaganda. Facendo un salto in avanti di quasi trent'anni ricordo Aldo Moro (che sarebbe stato rapito, imprigionato ed ucciso di lì a poco) gridare con voce ferma che «la Dc non si farà processare nelle piazze» (si riferiva allo scandalo Lockheed) e ricordo i furori di comunisti e socialisti, ma anche missini. I presidenti della Camera erano quasi tutti politici di lungo corso, alcuni dei quali salirono poi al Quirinale, come il già citato Gronchi, Leone e Pertini: sapevano governare le assemblee con mano ferma, come del resto Ingrao, Jotti, Violante, tutta gente cresciuta nel Pci. Il clima in quei decenni era spesso rancoroso (non meno di oggi) ma molto più composto. Parlavano sempre e soltanto i capi, i leader, grandi vecchi di tutti i partiti della Prima Repubblica al cui passaggio nel salone detto Transatlantico si aprivano le ali dei giornalisti obbligati ad indossare - come i deputati del resto - giacca e cravatta e a mantenere un atteggiamento discreto e sottomesso. Certo, all'occorrenza scorreva anche il sangue, ma erano quattro gocce per le grandi occasioni come quelle che sgorgarono dalla fronte di Randolfo Pacciardi al momento dell'approvazione della «legge truffa» (una sorta di Porcellum dell'epoca) colpito da cassetti e tavolini divelti nella bagarre. Se si va su internet si scoprono tracce di antiche scazzottature non passate alla storia, come quella con robusto ceffone che si beccò il pacifico deputato monarchico nonché agricoltore Ettore Viola, raggiunto dal democristiano Albino Stella. Ma tutto il lungo periodo della guerra fredda, quasi calda, che va dal 1948 agli anni Ottanta, fu una stagione di insulti feroci, postribolari, assalti bloccati dai commessi i quali si prendevano la loro dose di botte. Arrivarono poi i radicali e non dettero prova di pacifismo gandhiano. Le questioni roventi della P2 e delle associazioni segrete spinsero il radicale Cicciomessere a saltare olimpionicamente sul banco del governo, salvo mancarlo e accasciarsi sul pavimento dove alcuni deputati del Pci accorsero non per aiutarlo ma per riempirlo di calci. Il pestaggio fu bloccato dai commessi, che ebbero la loro parte di calci e gomitate, mentre il deputato Tessari, radicale anche lui partiva in quarta contro un questore del Pci accendendo un altro focolaio di rissa. Fra i ricordi personali, quello della lunga notte in aula dopo una contestazione di noi di Forza Italia contro il presidente del Senato Marini (quello che poi fu silurato dai «democrats» durante la votazione per il Quirinale) quando partimmo come schegge verso la Presidenza che secondo noi usava il regolamento con due pesi e due misure. Il senatore Lucio Malan, con lancio preciso, fece atterrare una pesante copia del regolamento sul tavolo del presidente del Senato e si scatenò l'inferno. I commessi intervennero e noi rivoltosi occupammo l'aula per qualche ora dopo la chiusura. Gli episodi di intemperanza, maleducazione, violenza verbale e il lancio di insulti gravissimi - gli stessi che si usano d'abitudine sotto il semaforo - non fanno notizia. Anzi, proprio la necessità di «fare notizia» fu oggetto di accurate ricerche di tecnica della comunicazione specialmente da parte dei radicali nel momento del loro primo fulgore - Pannella imbavagliato, i cartelli subito rimossi da commessi - e poi dai leghisti. Si vide che qualsiasi violazione dei regolamenti commessa attraverso le immagini e non soltanto con le urla, diventava telegiornale e giornale. La scena è sempre la stessa: i deputati (più raramente i senatori) entrano in aula nascondendo l'armamentario prestabilito (cartelli, oggetti, indumenti...) e al segnale convenuto li estraggono. I commessi ogni volta sono già avvertiti e corrono stancamente per sequestrare il materiale mentre il presidente di turno interrompe i lavori. I fotografi scattano, i cameramen riprendono e il gioco è fatto. L'indomani siamo su tutti i giornali e telegiornali, magari anche sulla stampa internazionale sempre famelica di vicende italiane: dopo gli spaghetti-western, lo spaghetti-Parlamento. I più grandi successi di happening di questo genere, più vicini alla pop art che alla pratica democratica, sono stati i famosi cappi della Lega: ecco Luca Leoni Orsenigo agitare il nodo del boia sotto il naso del governo, mentre una pattuglia di deputati di maggioranza scatta al suo inseguimento. Ed eccone un altro memorabile: quello del missino Teodoro Buontempo che scappa urlando «ladri-ladri» in un megafono introdotto di contrabbando, inseguito dai commessi per essere poi espulso insieme al suo camerata Marenco. Una vera rissa con groviglio umano? Quella del 23 luglio 2004 quando scesero sul ring dell'emiciclo Davide Caparini della Lega, che puntò Roberto Giachetti della Margherita, bloccato dal solito cordone dei commessi, cosa che non impedì lo scontro fisico con successivo ricovero di alcuni deputati in infermeria, fra cui Renzo Lusetti. Anche il «vaffanculo politico» non è un'invenzione di Grillo: il 15 novembre 2007 questo fu l'invito rivolto da alcuni senatori di Forza Italia al presidente della commissione Giustizia Cesare Salvi, dopo uno scontro a testate fra opposte fazioni e ossa craniche. Si potrebbe continuare. Poco c'è di nuovo sotto la luce del sole, come si vede, salvo le accuse alle deputate renziane di fare carriera attraverso il sesso orale, per sua natura accuratamente distinto dal sesso scritto.

"Servo", "cornuto", "cretina": 65 anni di insulti a Palazzo. Un libro raccoglie le cadute di stile e le scene peggiori della Repubblica. A destra e a sinistra, passando per la Lega, tutte le volte che il confronto è diventato triviale, scrive “Il Giornale”. Epiteti irripetibili, degni di una caserma o di un bar di quart'ordine. La storia della Repubblica è fin troppo ricca di dimostrazioni delle cadute di stile degli «onorevoli» eletti. E non manca l'antologia, raccolta da Sabino Labia. Si chiama Tumulti in aula. Il presidente sospende la seduta (Aliberti editore, 2009). Sottotitolo: «Da De Gasperi a Berlusconi, da Togliatti a Prodi sessant'anni di risse in Parlamento». Sulla copertina subito l'esempio degli insulti rivolti da un senatore a un collega in Aula: «Sei un cesso corroso! Sei una merda! Sei una merda! Sei una merda!». Eccone altri, tratti dal libro.

«Comunisti! Bastardi!»: Alfredo Covelli ai colleghi dell'Assemblea costituente, 3 dicembre 1947. Rispondono dai banchi del Pci: «Fascisti! Tornate nelle fogne!».

«Voi sapete in quale campo manovrare: fra i pregiudicati e le sgualdrine!»: Umberto Tomba ai colleghi della sinistra, 9 giugno 1948 alla Camera.

«Assassini!»: Giorgio Almirante rivolto ai colleghi comunisti, 12 ottobre 1948 alla Camera. I deputati comunisti rispondono: «Cacciatelo! Carogna! Traditore! Servo dei tedeschi!».

«Portatelo via con quattro carabinieri e fatelo uscire dalla porta delle latrine!»: Giancarlo Pajetta rivolto ad Almirante, 12 ottobre 1948 alla Camera.

«Cerruti non cerrutare!»: Albino Donati a Carlo Cerruti, 29 marzo 1953 al Senato. Cerruti risponde: «Non faccia interruzioni così villane».

«Venduto! Mascalzone! Vattene! Vattene! Servo dei gesuiti! Porco!»: comunisti e socialisti rivolti a Meuccio Ruini, 29 marzo 1953 al Senato. Ancora dai banchi della sinistra: «Canaglia! Venduto! Sudicione!».

«Dopo il voto avrete un nuovo Piazzale Loreto!»: Velio Spano a Giulio Andreotti, 29 marzo 1953 al Senato.

«Sei un pezzo di merda, checca!»: Vincenzo Zaccheo a Mauro Paissan, 20 ottobre 1994 alla Camera.

«Sporco bastardo, maiale!»: Francesco Marengo a Paissan, 20 ottobre 1994 alla Camera.

«Quella checca di Paissan mi ha graffiato con le sue unghie laccate di rosso, io non l'ho toccato! Vi sfido a trovare le mie impronte digitali sul suo culo!»: Francesco Storace a Paissan, 20 ottobre 1994 alla Camera.

Rincarano Teodoro Buontempo: «Io non gli ho fatto niente, perché non mangio i finocchi!» e Stefano Morselli: «Paissan, fai bene a farti scortare. Porco, pederasta e busone! Guardate, è un pusillanime, gli ho dato del porco e non ha avuto nemmeno il coraggio di reagire!».

«Ma avete visto che la Bindi gridava "A me, a me", ma nessuno ha avuto il coraggio di saltarle addosso?»: Pietro Di Muccio a Rosy Bindi nella stessa seduta della Camera. Rispondono Sandra Bonsanti: «I topi sono usciti dalle fogne!» e Fabio Mussi: «Già, sono tornati al naturale: cioè fascisti!».

Storace continua con le barzellette: «Lo sapete perché il Ppi rimane piccolo? Perché lo ha in mano Rosy Bindi!». Conclude la giornata Maurizio Gasparri: «Io alla rissa non c'ero, ma posso dichiarare lo stesso che Paissan è una testa di cazzo!».

«Buffone a chi? Ma chi cazzo sei? Sei uno stronzo! Tu sei un buffone! Pezzo di merda! Anche tu sei stato pagato dalla Fiat!»: Domenico Gramazio a Massimo Mauro, 29 aprile 1998 alla Camera.

«Ma stai zitta, cretina»: Ugo Parolo a Chiara Moroni, 24 giugno 2004 alla Camera.

«Sei un pezzo di merda! Fatti i cazzi tuoi, bastardo! Faccia di culo!»: Alessandro Cè a Roberto Giachetti, 24 giugno 2004 alla Camera.

«Puttana, ladri socialisti!»: Cè alla Moroni. E lei: «Aiuto, questo mi ammazza!», 24 giugno 2004 alla Camera. Il povero Renzo Lusetti ha paura e urla: «Chiamate la polizia!», poi si prende un pugno e aggiunge: «Questi sono matti! Proprio a me che non ho mai fatto a botte, neppure da ragazzo!».

«Sei un cesso corroso e frocio! Sei una merda! Sei una merda! Sei una merda!»: Nino Strano a Nuccio Cusumano, 24 gennaio 2008 al Senato. E ancora: «Sei un frocio mafioso! Sei una checca! Sei una checca! Sei una checca squallida! Venduto!».

«Cornuto! Sei un cornuto e venduto! Pezzo di merda!»: Tommaso Barbato sempre a Cusumano, 24 gennaio 2008 al Senato. È il giorno del prosecco e delle fette di mortadella. Il presidente Franco Marini sbotta: «Togliete via quella bottiglia, non siamo mica all'osteria!».

TUTTI I GUAI DI BEPPE GRILLO.

Grillo condannato per diffamazione, "Io come Mandela e Pertini". Un anno per le parole pronunciate contro un professore modenese in un comizio sul nucleare del 2011. "Il giudice mi ha tolto la condizionale", scrive “La Repubblica” il 14 settembre 2015. Un anno di reclusione per aver diffamato un docente dell'Università di Modena: è la condanna inflitta oggi dal Tribunale di Ascoli Piceno a Beppe Grillo. Il leader di M5S doveva rispondere di diffamazione aggravata nei confronti del professor Franco Battaglia, docente del Dipartimento di Ingegneria dell'Università di Modena e Reggio Emilia. In un comizio per il referendum sul nucleare tenuto l'11 maggio 2011 a S. Benedetto del Tronto, Grillo si era scagliato contro un intervento di Battaglia ad Anno Zero. Denunciando quanto accaduto sul suo blog, Grillo attacca: "Forse fa paura che il Movimento 5 Stelle si stia avvicinando al governo? Se Pertini e Mandela sono finiti in prigione potrò andarci anch'io per una causa che sento giusta e che è stata appoggiata dalla stragrande maggioranza degli italiani al referendum". Grillo ricorda che la condanna deriva dalle parole da lui pronunciate in un comizio contro il nucleare: il leader M5s disse "che il professor Franco Battaglia, docente di Chimica ambientale del Dipartimento di Ingegneria Enzo Ferrari dell'Università di Modena e Reggio affermava delle coglionate in merito al nucleare". "'Vi invito a non pagare più il canone, io non lo pago più perché - dissi davanti al pubblico del comizio - non puoi permettere ad un ingegnere dei materiali, nemmeno del nucleare, parlo di Battaglia, un consulente delle multinazionali, di andare in televisione e dire, con nonchalance, che a Chernobyl non è morto nessuno. Io ti prendo a calci nel c...o o e ti sbatto fuori dalla televisione, ti denuncio e ti mando in galera", dissi riferendomi alla partecipazione di Battaglia ad una puntata di Anno Zero", riporta Grillo. "Il Pm aveva chiesto una multa di 6.000 euro. Il giudice mi ha invece tolto la condizionale condannandomi a un anno di prigione e a 50.000 euro di risarcimento. Io sono fiero - rivendica Grillo sul suo blog - di aver contribuito a evitare la costruzione di nuove centrali nucleari in Italia. E' un'eredità che lascio ai nostri figli che potranno evitare incidenti come Chernobyl e Fukushima". A Chernobyl non è morto nessuno?", chiede il leader M5s. Segue un post scriptum in cui Grillo puntualizza come, "contrariamente a quanto riportato da alcuni organi di informazione, la pena non è stata sospesa". Quella stabilita dal tribunale piceno non è la prima condanna per diffamazione per Beppe Grillo. Risale a 12 anni fa il patteggiamento in una causa intentata contro di lui dal premio Nobel Rita Levi-Montalcini, definita dal leader una "vecchia p...", insinuando che la scienziata avesse ottenuto il premio grazie a una ditta farmaceutica. Nel 2012 è arrivata la condanna in appello per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo di otto anni prima sulla testata Internazionale (50mila euro di risarcimento del danno patrimoniale). Due anni fa la condanna definitiva in Cassazione per diffamazione nei confronti di Giorgio Galvagno, ex sindaco di Asti e parlamentare di Forza Italia: Grillo, durante uno spettacolo nel teatro cittadino, lo definì "un tangentista". Ancora, sempre nel 2013 la condanna in primo grado per la causa indetta dal tesoriere del Pd Antonio Misiani: la sua faccia compariva sul blog in una foto segnaletica sul blog del comico ligure.

Tutti i guai giudiziari di Beppe Grillo. La procura di Torino oggi ha chiesto la condanna a 9 mesi nel processo sulle proteste dei No-Tav. Ed altre procure lo indagano per istigazione alla disobbedienza, scrive Nadia Francalacci su “Panorama”. La procura di Torino ha chiesto per Beppe Grillo la condanna a 9 mesi di reclusione nel processo sui disordini al cantiere della No-Tav in Piemonte. Una richiesta arrivata nel corso di una giornata caotica per il leader del Movimento 5 Stelle. Da diverse procure d'Italia arrivava infatti la conferma dell'iscrizione nel registro degli indagati per il reato di "istigazione alla disobbedienza" in merito al famoso invito rivolto agli agenti di Polizia di non proteggere più i politici ed i palazzi della politica.

Ma la lista dei suoi guai giudiziari è lunga.

- Omicidio Colposo. Il giorno più nero per Grillo è quello del 7 dicembre 1981 quando perse il controllo del suo fuoristrada mentre percorreva la strada militare che da Limone Piemonte porta sopra il Colle di Tenda. Il veicolo scivolò su un lastrone di ghiaccio e cadde in un burrone profondo ottanta metri. A bordo con Grillo c'erano quattro suoi amici genovesi con i quali stava trascorrendo il fine settimana dell'Immacolata. Grillo si salvò gettandosi fuori dall'abitacolo prima che l'auto cadesse nel vuoto e, contuso e in stato di choc, riuscì a chiamare i soccorsi. Tre dei suoi amici rimasti nell'auto persero la vita: i coniugi Renzo Giberti e Rossana Guastapelle, rispettivamente di 45 e 33 anni, e il loro figlio Francesco di 9 anni. Il quarto, Alberto Mambretti, 40 anni, fu ricoverato con prognosi riservata a Cuneo. Tre settimane dopo l'incidente, per Grillo scattò l'incriminazione per omicidio plurimo colposo. Nell'ottobre 1982 la perizia ordinata dal giudice istruttore suggerì che Grillo era colpevole di non aver fatto scendere i suoi passeggeri prima di affrontare il tratto di strada più pericoloso. Per questo il 28 settembre 1983 il comico genovese viene rinviato a giudizio. Il processo di primo grado si concluse con l'assoluzione di Grillo per insufficienza di prove. Poi, in appello, il 14 marzo 1985 Grillo fu condannato per omicidio colposo a quattordici mesi di reclusione con il beneficio della condizionale.

- Abuso edilizio. Poi c’è l’abuso edilizio. Questo risale al periodo in cui Beppe Grillo decise di andare a vivere a Sant’Ilario, zona lussuosissima di Genova, in una bellissima villa rosa salmone che si affacciava sul Monte di Portofino, con ulivi e palme. Ma alla villa del comico mancava la piscina. Così Grillo non ne fece scavare una ma ben due. La cosa piacque poco ai vicini e soprattutto al dirimpettaio Adriano Sansa che era già poco entusiasta del terrazzo di 100 metri quadri che il futuro leader del Movimento 5 stelle fece interamente ricoprire inciampando in un clamoroso abuso edilizio cui pose rimedio con uno di quei condoni contro cui è solito scagliarsi.

Condanne per diffamazione. Nel 2003, patteggiò una causa per diffamazione aggravata intentata contro di lui da Rita Levi Montalcini. Durante uno spettacolo, Beppe Grillo chiamò "vecchia puttana" la Montalcini, all'epoca 94enne, vincitrice del Premio Nobel 1986 in Medicina, insinuando che la scienziata torinese avesse ottenuto il Nobel grazie a una ditta farmaceutica che materialmente le aveva comprato il premio.

Nel 2012 in appello Grillo viene condannato nuovamente per aver diffamato a mezzo stampa la Fininvest in un suo articolo pubblicato nel 2004 sulla rivista "Internazionale". Il risarcimento del danno patrimoniale, pari a 50.000 euro, oltre alle spese processuali, è stato stabilito dai giudici della prima sezione della corte d'appello del tribunale di Roma.

Nel settembre 2013 viene condannato in Corte di cassazione per avere diffamato l'ex sindaco di Asti, e parlamentare per Forza Italia, Giorgio Galvagno. Nel 2003, Grillo aveva definito l'ex primo cittadino "un tangentista", durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti. Grillo dovrà versare a Galvagno 25.000 euro e gli interessi a partire dal 2003, come risarcimento del danno, oltre al risarcimento per le spese legali.

Il 12 dicembre 2013 è stato condannato dal Tribunale di Genova in primo grado per diffamazione nei confronti di Antonio Misiani, in qualità di Tesoriere del Partito Democratico. La vicenda risale al maggio 2012, quando Grillo pubblicò sulla home page del proprio blog un mosaico di immagini con le foto stile "segnaletiche" degli amministratori di PdL (Rocco Crimi), PD (Antonio Misiani) ed UDC (Giuseppe Naro), insieme a quelle degli ex di Lega Nord (Francesco Belsito) e Margherita (Luigi Lusi). Il giudice ha riconosciuto a titolo provvisorio un risarcimento di 25.000 euro in favore di Misiani ed un risarcimento in favore del Partito Democratico di 5.000 euro.

SCHADENFREUDE: PERCHE’ SI GIOISCE DELLE DISGRAZIE ALTRUI?

Il concetto di Schadenfreude potrebbe anche venire parafrasato come "compiacimento malevolo". Il termine deriva da Schaden (danno) e Freude (gioia). In tedesco il termine ha sempre una connotazione negativa. Esiste una distinzione tra la "schadenfreude segreta" (un sentimento privato) e la "schadenfreude aperta" (Hohn). Un articolo del New York Times del 2002 ha citato una serie di studi scientifici sulla Schadenfreude, che ha definito come "delizia delle disgrazie altrui". Molti di questi studi si basano sulla teoria del confronto sociale, l'idea è che quando le persone intorno a noi hanno avuto eventi sfortunati, guardiamo meglio noi stessi. Altri ricercatori hanno scoperto che le persone con una bassa autostima sono più propensi a provare Schadenfreude rispetto a persone che hanno una grande autostima. Schadenfreude. Alzi la mano chi sa che cos’è. Quasi nessuno? Strano. Perché se chiedessi chi l’ha provata, tutti dovremmo alzare non una ma entrambe le mani. Non me la voglio tirare: so che cosa sia la Schadenfreude solo perché ne ho sentito parlare per radio e, ravanando un po’ su Google, sono poi riuscito a risalire alla pagina di Wikipedia che ne parla. Il termine è tedesco, e indica il piacere infame provocato dalla sfortuna altrui. Pensate che occorra essere precisi come i tedeschi per dare un nome a un sentimento così meschino e diffuso? Errorissimo. In lingue diverse ha nomi diversi, dall’arabo al cinese, e compare in numerosi proverbi che spiegano come la Schadenfreude sia l’unica vera gioia, quella che arriva dal più profondo del profondo. Ma perché si gode delle disgrazie degli altri? Studi basati sulla teoria del confronto sociale affermano che se intorno a noi ci sono persone maltrattate dalla sfortuna, si finisce col guardare meglio a se stessi. Ci si sente migliori, in altre parole. Altri ricercatori hanno invece notato che le persone con un’autostima sotto i piedi provano più facilmente la Schadenfreude rispetto a chi ha di sé un’immagine più positiva. Per far capire ancora meglio che cosa sia la Schadenfreude voglio citare un esempio per comporre il quale è stata indispensabile l’enciclopedica conoscenza del calcio del mio amico Luca Ceste. Che, da juventino qual è, specifica che i “cugini” granata son più contenti quando perde la Juve che quando vince il Toro (non che godano spesso, nell’uno o nell’altro caso...). Comunque: al termine del campionato 1999- 2000 il Toro è condannato alla serie B. Ma all’ultima giornata la Juventus è sconfitta nella “piscina di Perugia”, il campo allagato da un violento nubifragio. La Lazio invece vince, sorpassa i bianconeri e acchiappa lo scudetto: sai che Schadenfreude per i torinisti! Ognuno provi a chiedersi quand’è l’ultima volta che ha provato Schadenfreude. E poi se lo tenga per sé, dato che probabilmente non sarà cosa di cui vantarsi. E infatti il filosofo Arthur Schopenhauer ci ricorda che «Provare invidia è umano, godere della Schadenfreude è diabolico». Come opposto voglio invece citare il concetto di mudita che, nel Buddhismo, è la felicità per la buona sorte dell’altro. E’ la forma più perfetta dell’amore: come il marito che è contento per il successo della moglie o il genitore che gioisce per la felicità del figlio. Perciò credo che le cose andrebbero meglio per tutti, se nel nostro quotidiano ci fosse più mudita e meno Schadenfreude.

Gli americani a volte usano l’espressione «Roman holiday», con un chiaro riferimento ai crudeli giochi gladiatori. I tedeschi hanno un termine ancora più preciso per descrivere la gioia malevola che si può provare davanti alle sofferenze degli altri. Schadenfreude, scrive Anna Meldolesi su “Il Corriere della Sera”. È il rovescio della medaglia dell’empatia, e probabilmente il più vigliacco dei sentimenti. In italiano non esiste una parola del genere, ma non c’è dubbio che anche noi siamo capaci di avvertire un perverso piacere quando vediamo cadere qualcuno nel fango. Tanto più se era potente e riverito prima di finire in disgrazia, e se a difenderlo non c’è rimasto nessuno. È una miscela tossica di insoddisfazione di sé, risentimento e sadismo, che a volte sporca il più nobile dei sentimenti: il desiderio di giustizia sociale. Pensiamo ai blitz della guardia di finanza a Cortina e nei luoghi della movida milanese. Erano utili e necessari, anche dal punto di vista simbolico. Ma quanti di noi, invece di limitarsi ad approvare l’operato dell’Agenzia delle entrate, hanno gongolato? Oppure prendiamo la tragedia della Costa Concordia. Davvero i balbettii di Schettino, mentre veniva strigliato dall’implacabile De Falco, andavano trasmessi e ascoltati tutte quelle volte, morbosamente, fino a diventare uno slogan da t-shirt? E la pioggia dimonetine fuori dal Raphael ai tempi di Tangentopoli, era isterica rivolta morale o linciaggio puro? Storici e primatologi testimoniano che un maschio alfa può essere deposto da una coalizione di primati di basso rango. Gli psicologi sociali, d’altronde, sanno che i gruppi possono esprimere una violenza che moltiplica i tassi di aggressività individuali. Ma il piacere per le sventure altrui è già annidato nel cervello dei singoli, in ciascuno di noi. Soprattutto in chi ha una bassa autostima, come confermano diversi lavori scientifici, l’ultimo dei quali pubblicato a dicembre su «Emotion». I neuroscienziati che lo studiano hanno adottato la parola tedesca nata dalla fusione di avversità e gioia (Schaden più Freude) e hanno appurato che la Schadenfreude è parente stretta di uno dei sette peccati capitali: l’invidia. I meccanismi cognitivi dello shakespeariano mostro dagli occhi verdi sono stati rivelati sulla rivista «Science» da Hidehiko Takahashi, con l’aiuto della risonanza magnetica funzionale. Il gruppo giapponese ha scoperto che quando si è invidiosi del successo di qualcuno si attiva la corteccia cingolata anteriore, nel circuito neurale del dolore. Quando si gioisce della sfortuna altrui, invece, si attiva lo striato, che fa parte del circuito della ricompensa. Lo stesso che dispensa dopamina e piacere quando ci concediamo vizi e svaghi gratificanti. La sventura altrui rappresenta per l’invidioso ciò che la cioccolata è per il goloso e il sesso per il lussurioso. Il nostro cervello, infatti, tratta le esperienze sociali e quelle fisiche inmodo più simile di quanto si pensi. Chi ha sete chiede acqua. Chi ha freddo, un riparo. Chi non è soddisfatto di se stesso anela a sentirsi migliore attraverso la svalutazione degli altri. Quando sentiamo piagnucolare un comandante che ha abbandonato la nave per primo, chiunque può pensare: io valgo di più. Ma resta il fatto che non tutti ce ne compiaciamo allo stesso modo. I soggetti studiati da Takahashi mostrano gradi variabili di attivazione dei centri dell’invidia, una volta messi di fronte a un soggetto che possiede qualità superiori alle proprie, così come dei centri della Schadenfreude quando il loro termine di paragone cade in disgrazia. Chi più soffre nella prima fase, più gioisce nella seconda. Spesso l’invidioso ha la sensazione di non poter raggiungere con le proprie forze ciò che vorrebbe per sé e per riportare l’equilibrio nel confronto sociale deve passare per la distruzione materiale o simbolica dell’altro, come spiega la neuropsicologa olandese Margriet Sitskoorn nel suo I sette peccati capitali del cervello, appena pubblicato da Orme. Se Otello è il simbolo universale della gelosia, l’invidia ha le sembianze di Iago. È invidioso del potere, delle virtù, della bella moglie del moro di Venezia, ed è invidioso di Cassio che è stato promosso al suo posto. Per salvare l’amor proprio, trasforma la felicità altrui in tragedia. Nella realtà, le dimostrazioni di questo perverso gioco di dolore e piacere possono essere ben più banali: piacciono le foto delle star immortalate senza trucco, piace vedere una multa sul cruscotto di un Suv. Ma non sempre l’invidia è così sciocca o così pericolosa. A volte l’attenzione ossessiva verso le qualità e i difetti degli altri diventa una molla per migliorare. Altre volte quella che sembra invidia è piuttosto un risentimento per le ingiustizie subite. Sono celebri gli esperimenti in cui Frans de Waal ha dimostrato che sia gli scimpanzé che le scimmie cappuccine si ribellano ai trattamenti iniqui. Se gli si offre un pezzo di cocomero come premio per aver svolto un compito, gli animali sono ben contenti. Ma se si accorgono che a un altro esemplare viene data dell’uva, non sono più disposti ad accettare una ricompensa che considerano meno appetibile. Le ingiustizie sono ovunque anche nella nostra vita: c’è chi nasce ricco e ha la strada spianata, chi lo diventa con la spregiudicatezza, chi non paga le tasse, chi lavora meno di noi e ottiene di più. Infastidirsi è normale, soprattutto se il fortunato ci assomiglia: magari abita nell’appartamento vicino, ha fatto la nostra stessa scuola, ha scelto la nostra stessa carriera. Insomma ci ricorda quello che avremmo potuto essere e non siamo. Ma giornali e tv hanno allargato la nostra comunità di riferimento, aumentando esponenzialmente anche il numero di confronti sociali con persone di cui spesso non conosciamo né gli sforzi né le pene. E allora diventa facile pensare: quel politico non ha il mio curriculum e guarda dov’è arrivato. Se viene travolto da uno scandalo, non ce ne rammarichiamo più di tanto. Secondo Sitskoorn, comunque, l’invidia non ha a che fare tanto con l’ingiustizia quanto, più in generale, con la disuguaglianza. Scatta soprattutto quando l’altro possiede più di noi perché è migliore di noi, anche se non sempre siamo disposti ad ammetterlo. Attenzione, ammonisce la neuropsicologa, il travestimento dell’invidia con i panni dell’ingiustizia può risultare talmente perfetto che alla lunga finiamo noi stessi per crederci.

Chi gode delle disgrazie altrui certamente è Marco Travaglio, che ha sempre un giudizio su tutti.

Travaglio dà i voti al 2013: Napolitano, Renzi e Letta, sfottò per tutti. Il vicedirettore del Fatto: "Che emozione questo anno quasi finito, che svolta generazionale. E nel 2014 arrivano le riforme...", scrive “Libero Quotidiano”. Non c'è mai stato anno più bello di questo 2013. Anzi, forse solo il 2014 potrà batterlo. Usa il sarcasmo, Marco Travaglio, per compilare il suo pagellone sull'anno che si sta chiudendo. Naturalmente, insufficienze per tutti tranne che per "quei brubru antipolitici dei 5 Stelle". Il vicedirettore del Fatto quotidiano si mette nei panni di un simpatizzante di Enrico Letta, finge di abboccare alle promesse del premier su "svolte generazionali" e "riforme in arrivo" e parte con la contraerea. Tanti bei finti complimenti al "pischello Napolitano", che ha messo l'Italia "alla pari dello Zimbabwe di Mugabe", al Letta nipote di Gianni ("unico caso di nipote più anziano dello zio"), ad Alfano "maggiordomo di B.", al ministro della Giustizia Annamaria Cancellieri ("la colf dei Ligresti"), al "frugoletto Amato alla Consulta", ai presidenti di Camera e Senato Boldrini e Grasso, "pronti a zittire chiunque osi nominare Napo invano". Il sospetto che, tra un'ironia e una velenosa battuta, il 2013 sotto sotto sia un po' piaciuto a Marco Manetta viene quando, naturalmente, si finisce a parlare di Silvio Berlusconi. "Il 1° agosto i soliti giudici che non si fanno mai i cazzi loro han rischiato di far saltare tutto con quell'assurda condanna". E invece, finge di gioire Travaglio, le larghe intese hanno resistito. Risultato: il governo dei favori e delle stangate. "L'Imu non la pagheremo più perché ora si chiama Tasi e ci costa di più". "I concessionari di slot dovevano 98 miliardi al fisco, ma il governo gli farà pagare 400 milioni, così imparano ad evadere. In compenso, un sacco di fondi neri per finanziare la politica, soprattutto dal 2017". E poi arriva Matteo Renzi, che attacca l'articolo 18 come avevano fatto Berlusconi, Monti, Fornero: "Ma loro, quando lo aggredivano, non avevano mica 38 anni". Se il rinnovamento dei quarantenni promesso da Letta è questo, suggerisce Travaglio sfregandosi le mani, ci divertiremo ancora per qualche anno. Gli italiani decisamente meno.

Ed ancora, Travaglio contro Liguori: "Alla tua scuola di giornalismo imparano a leccare". Marco Manetta attacca il master in giornalismo di Mediaset. Ma scorda qualcosa...scrive “Libero Quotidiano”. A poche ore dalla sentenza per il processo Mediaset, gli attacchi di Marco Travaglio al Cav percorrono strade mai battute prima. Marco "Manetta" non risparmia nessuno pur di mettere nel mirino Silvio Berlusconi (e la sua azienda). Nella mattinata di lunedì 29 luglio, Travaglio, con un editoriale tra il serio e il faceto, ha puntato il dito contro la scuola di Giornalismo dell'Università Iulm di Milano che è in consorzio con Mediaset e che ogni anno sforna 15 giornalisti professionisti da inserire nel mercato del lavoro. Travaglio citando un'intervista a Panorama dell'amministratore delegato della scuola, Paolo Liguori,  tra le righe, ma nemmeno troppo, lascia intendere che la scuola di Mediaset-Iulm crea dei giornalisti che sanno "usare la lingua". Imparano "tutto con la lingua", scrive il vicedirettore del Fatto Quotidiano.  Ecco il virgolettato dell'editoriale: "Li(n)guori afferma: 'Un giornalista oggi deve saper fare tutto. Noi formiamo giovani giornalisti 2.0, nella teoria e nella pratica. I partecipanti al master imparano ad adattare la prosa e il linguaggio a seconda del media su cui devono comunicare". Qui arriva la prima bacchettata del professor Travaglio, che sottolinea come al singolare si dica "medium" e non "media". La consueta superbia di chi immaginia di essere infallibile. Non finisce qui. Travaglio prosegue e continua con la citazione di Liguori: "I partecipanti al master imparano a condurre notiziari, montare servizi per la tv, come pure a scrivere per quotidiani, portali internet o uffici stampa". Fin qui le parole di Liguori. A questo punto arriva la stoccata al veleno di Travaglio che aggiunge: "Sì, i ragazzi imparano tutto con la lingua". Per Travaglio chiunque faccia il giornalista dopo aver studiato per due anni alla scuola Mediaset-Iulm sarebbe con un doppio senso, un "lecchino di professione". Peccato che proprio al Fatto Quotidiano, sia alla redazione web sia a quella del cartaceo di Roma, arrivino ogni anno stagisti proprio dalla scuola dello Iulm-Mediaset. Ragazzi che comunque fanno il loro mestiere onestamente e usano la lingua solo per parlare. Ma non è tutto. Alcuni di questi ragazzi - di cui per ovvie ragioni non facciamo i nomi - hanno ottenuto un contratto di collaborazione al sito e all'edizione cartacea del Fatto, e qualcuno addirittura è in lizza per un'opportunità lavorativa a Servizio Pubblico, il quartier generale del giornalismo "travaglino", dove "regna" il comandante Michele Santoro. Il chiodo fisso di attaccare il Cav è storia vecchia per Travaglio. Ma per farlo ormai non guarda in faccia nessuno. Nemmeno qualche ragazzo che ha speso soldi e ha fatto sacrifici per riuscire a scrivere. Magari proprio sul Fatto Quotidiano. Travaglio lo sa, o fa finta di niente?

Il tengo amici di Travaglio continua... Lo “strabismo ammiccante” da Di Pietro ad Ingroia, arrivando a Grillo, scrive l’Ufficio di Presidenza della “Casa della Legalità e della Cultura”. Marco Travaglio continua nella sua pratica di giornalista di parte, piega e mistifica realtà e fatti, non per informare i cittadini ma per tutelare gli amici, quindi, indirizzare l'opinione pubblica nel "credo" da lui amato. Comportamento legittimo, per carità... ma che ben poco ha a che fare con la veste di giornalista indipendente che vorrebbe incarnare. Così c'è la volta che parte alla carica di chi osa toccare i suoi amici, c'è la volta che si sovverte la realtà per giustificare certi comportamenti o atti, c'è la volta che indossa la divisa del pompiere... basterebbe che lo dicesse: tengo amici, e gli amici miei non si devono toccare. Ed invece no... lui che ci ha abituati a dire cose serie su molti protagonisti e misfatti della politica italiana, poi, quando si tratta dei suoi amici, di coloro per cui gode di simpatia politica, si mette a fare propaganda e contropropaganda, a seconda del bisogno, così che in tanti, troppi, ci cascano e pensano che anche in quel caso, di giornalista militante e non quindi di giornalista indipendente, lui parli con obiettività. Ed ora, sulla questione Grillo, ha superato se stesso, oltre ogni limite di decenza, assumendo quella veste di amico avvocato difensore, che non solo non guarda ai fatti, ma che attacca senza freno chi osa guardarli ed indicarli, come avviene con l'editoriale odierno contro Antonio Amorosi ed il Tg3. Ed allora parliamone un attimo...Marco Travaglio è stato, per anni, il miglior ufficio stampa e propaganda (non pagato, bisogna dirlo) di quel che fu l'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro. Quello che se lo facevano gli altri era uno scandalo indecente e intollerabile, quando veniva fatto da Di Pietro ed i suoi era invece irrilevante, giustificabile, una “bazzecola”, quasi quasi un merito. A Di Pietro era sempre tutto da perdonare, agli altri no. Un normale atteggiamento da giornalista schierato politicamente, quello di Travaglio... soltanto che Travaglio faceva (come fa ancora oggi) intendere che lui lo diceva dall'alto della propria indipendenza, così da mascherare e nascondere quello strabismo, dei due pesi e delle due misure, adottato nelle proprie valutazioni. E così se Di Pietro gestiva il partito con moglie ed amica tesoriera, alla faccia della democrazia che deve avere un partito, andava tutto benissimo così... (partiti antidemocratici e familisti lo sono altri, Di Pietro aveva una sorta di lasciapassare per contraddire nei fatti ciò che predicava). E così se massoni e piduisti approdavano nell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, come nel caso di De Iorio, si muoveva in prima persona per la difesa assoluta) sono massoni e piduisti buoni, mica come i massoni e piduisti che stanno con gli altri, che sono brutti e cattivi. E così, ancora, quando la 'ndrangheta stringeva patti con esponenti dell'Italia dei Valori (benvoluti da Di Pietro, che, anche in questo caso, scendeva in prima persona nel difendere l'indifendibile) sono cose che capitano, probabilmente – addirittura - ordite proprio per danneggiare il povero Di Pietro, come se gli amici dei mafiosi li selezionasse e sostenesse lui, ma a propria insaputa). E così, inoltre, per fare un altro esempio, quando i suoi uomini (scelti da lui, nel partito personale) finivano in scandali ed inchieste, bisognava lasciare correre, perché i faccendieri degli altri son brutti e cattivi, ma quelli con Tonino erano devoti alla causa, quindi, immuni da critiche e valutazioni etiche e politiche... e certamente vittime di attacchi giudiziario-mediatici. E, in ultimo, se per gli altri partiti (la nota kasta) era scandaloso il prendere e sperperare i noti “rimborsi elettorali”, quelli che prendeva Di Pietro (e che gestiva con moglie ed amica tesoriera), erano soldi santi, necessari, gestiti benissimo... anche quando entrati nelle casse dell'Italia dei Valori venivano girati come affitti alla società personale di Antonio Di Pietro (l'Antocri) che, così, pagava i mutui degli immobili che poi andavano a consolidare il patrimonio immobiliare di Antonio Di Pietro (non dell'Italia dei Valori). Tutto giusto, santo e pure pio secondo Travaglio che, in ogni circostanza difendeva a spada tratta il Di Pietro ed il suo partito, contribuendo, così, nei fatti, alla degenerazione totale di quel partito che alla fine è imploso su se stesso, sotto il peso di quelle contraddizioni di indecenze dilagati che il Travaglio contribuì a minimizzare, giustificare, quando non a negare. Di Pietro, per Travaglio, era solo vittima delle circostanze, del fato... Un fato cinico e baro che valeva, ovviamente, solo per Tonino, perché per gli altri non c'era possibilità di appello, condanna definitiva, anche se, in molti casi, così come la storia dell'Italia dei Valori, di penalmente rilevante vi era ben poco. Un destino cinico e baro che il buon Travaglio, palco dopo palco, uscita dopo uscita, palco dopo palco (pagato dall'IdV nelle grandi mobilitazioni spacciate da "società civile") cercava di esorcizzare facendo incontrare Grillo a Di Pietro, e facendo sì che il primo appoggiasse il secondo, mentre entrambi idolotravano lui, il sommo maestro del giornalismo (di partito, senza giornale di partito). Mai una parola, ad esempio, ancora, da Travaglio, sul fatto che al pool di Milano, quello di Mani Pulite, di fatto, ad un certo punto, “commissariarono” il Di Pietro perché lo stesso aveva una particolare “amicizia” che lo avvertiva pure di ispezioni. Quell'amicizia era quella di Cesare Previti (lo stesso che poi, nel suo studio, ospitava gli incontri tra Di Pietro e Berlusconi)... ma se per altri i contatti con Previti o, faccendieri come Paccini Battaglia, erano ingiustificabili e senza appello, per Di Pietro non contavano nulla... lui era benedetto, più che da Dio, da Travaglio, e scusate se è poco.  Marco Travaglio ha un altro amico, Antonio Ingroia. Così, come per Di Pietro, tutto ciò che è gradito all'amico è giusto, da sostenere, anche quando certi teoremi e certe valutazioni non stanno in piedi. Nel caso di assecondare l'Ingroia pensiero Tavaglio di prodiga su più fronti... perché una difesa semplice gli pare poco, probabilmente, o, sa benissimo, si scioglierebbe come neve al sole. Ed allora eccone una rassegna...
Si parte con l'ultima intervista di Paolo Borsellino, quella ai francesi. Per Travaglio l'intervista vera è quella della videocassetta “sintetica”, poco conta che quella sia una versione “manipolata” dell'intervista di Paolo Borsellino, dove al magistrato di Palermo vengo messe in bocca, con taglia e cuci, parole che non ha mai detto. Con la “manipolazione” a Borsellino viene fatto dire che c'era una telefonata tra Mangano e Dell'Utri, intercettata, in cui parlano di consegna di “cavalli”, cioè droga, in un albergo di Milano. Nella versione reale, integrale, invece, Borsellino non solo non dice quello ma lo smentisce, affermando che in quella telefonata Mangano parla con un'esponente della famiglia Rinzevillo e non, quindi, con Dell'Utri. Arriva una sentenza che accerta che quella della cassetta aveva un contenuto manipolato, ma Travaglio parte in quarta: è uguale! Ma come: è uguale? E poi, come se nulla fosse, pubblica e diffonde con il Fatto (a pagamento) la versione integrale dell'intervista, quella dove Borsellino smentisce, di fatto, con le sue parole, quel “è uguale” di Travaglio, ma il dettaglio sfugge! Si passa all'attacco a Pietro Grasso. Anche qui, con una serie di illazioni e mistificazioni senza ritegno, smentite dai fatti. Come quando, si affretta, Travaglio, ad affermare che quella della “non firma” dell'appello su Andreotti da parte di Grasso perché questi era stato testimone in primo grado, era null'altro che una balla. Peccato che quella di Grasso non fosse una balla ma la verità, comprovata dagli Atti del processo (come abbiamo recentemente documentato). Ma Grasso non condivide i teoremi di Ingroia ed allora per aiutare l'amico occorre attaccare chi non lo asseconda: Grasso. E così giù altre mistificazioni, come quella del far apparire Grasso come quello che “graziò” Cuffaro, quando invece, con la scelta compiuta da Grasso, di contestare i reati provati, senza buttarsi in un campo incerto senza adeguate prove, ed arrivando al risultato di far condannare (si badi: far condannare!) Cuffaro, allora potente Presidente della Regione Sicilia, si dimostra che la tesi di Travaglio non è solo debole, ma ridicola... tanto che, per rinforzare la tesi “Grasso cattivo, Ingroia bravo” deve chiamare in causa uno che la verità (sic) la dispensa a destra e a manca e che, per curriculum, ha sempre avuto a cuore la Giustizia: Marcello Dell'Utri. Si passa alla fabbricazione del nuovo simbolo dell'antimafia: il Ciancimino jr. Un mafioso figlio d'arte, che occulta e ricicla soldi sporchi, di quel tesoretto di papà “don Vito”, che cerca di screditare lo Stato, producendo cosiddette prove tarocche, fa identikit di tal “signor Franco” che però non si trova da nessuna parte, racconta di tutto e di più, in contraddizione con se stesso e con le risultanze certe di altri procedimenti e persino di sentenze definitive, se la ride di aver in mano i pm di Palermo e di riuscire così a salvare il malloppo marchiato Cosa Nostra. Viene smascherato per le calunnie, per i soldini (tanti) occultati e riciclati... gli trovano anche la dinamite, a sua insaputa, nel giardinetto di famiglia... Ma se piace ad Ingroia, Ciancimino jr, piace anche a Travaglio... Se è bocca della verità per il primo, lo diviene anche per il secondo, in automatico, alla faccia dei fatti e delle prove che, dovrebbero essere l'unico elemento per stabilire l'attendibilità di certe dichiarazioni e che, nel caso del figlio di “don Vito”, dimostrano che questi mente con la stessa naturalezza del respirare. Si giunge all'apoteosi del “complottone” per fermare il processo sulla fantomatica “trattativa”. Qui davvero Travaglio ha mostrato di essere capace anche di ciò che appare impossibile. Davanti ad un'indagine che si fonda, come prove, sulle dichiarazioni del già citato Ciancimino jr, e che richiama l'inchiesta “Sistemi Criminali”, che se uno la legge si rende conto che smentisce totalmente i pilastri della c.d. inchiesta sulla “trattativa Stato-Mafia” che ora va a processo a Palermo, Travaglio non ha dubbi: colpevoli. Non ci sono le prove, non conta. Conta che l'indagine, quell'indagine, senza prove, è uno dei prodotti dell'amico Ingroia. Ma se appare impossibile offrire una percezione di realtà così tanto difforme dai fatti reali, Travaglio va oltre e, con una serie di illazioni, di urli al “compottone”, che riesce nel far credere l'opposto della realtà. E siamo, qui, nel capitolo delle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino. Travaglio vuol far credere al popolo che in quelle intercettazioni c'è la prova del “peccato”. E, essendo lì la prova chiave della colpevolezza degli indagati da Ingroia, è evidente che le si vuole distruggere, quelle intercettazioni, per negare la prova-madre. Travaglio quindi indica un complotto che va dal Csm al Parlamento, passando per Corte Costituzionale, Quirinale e Governo. Praticamente il mondo intero è parte di un complotto, tutti tranne Ingroia e chi sostiene il suo teorema. Ed in tanti ci cascano... vedono lì, materializzato il complotto universale disegnato da Travaglio. Peccato che la verità, i fatti, smentiscano – già a priori – questa tesi dell'avvocato difensore dell'amico Ingroia. E, si badi, non fatti prodotti dagli attori e partecipi del presunto “complottone”, ma fatti indicati dalla stessa Procura di Palermo, dove c'è il suo amico Ingroia! Infatti è la stessa Procura di Palermo che, nero su bianco, scrive che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino sono prive di qualsiasi rilievo penale e non rappresentano nemmeno alcuno spunto investigativo! Ecco: questo dice la Procura di Palermo! Non basta. Quella stessa Procura dice che quelle intercettazioni delle telefonate tra Napolitano e Mancino potrebbero essere utili solo per la Difesa di Mancino, ovvero il principale imputato! Questi i fatti. Ma Tavaglio li capovolge e fa credere che invece la distruzione di quelle intercettazioni sia un aiuto a Napolitano e Mancino per fermare l'inchiesta! Un delirio totale. Una mistificazione radicale che però, nell'opinione pubblica fa breccia. Così come si vorrebbe capovolgere lo Stato di Diritto e quei principi costituzionali, di cui Travaglio e amici si dichiarano grandi difensori. Infatti ecco lì che si mette in discussione che una regola (per cui il Presidente della Repubblica non possa essere intercettato) bisogna ignorarla e visto che la Corte Costituzionale dice che le norme ed i principi della Costituzione non possono essere calpestati, così, come già aveva abituato Berlusconi, ecco che parte l'urlo, questa volta da Ingroia & C: sentenza politicizzata!  Marco Travaglio ha ora, sullo scacchiere politico, un solo amico, Beppe Grillo. Di Pietro, così come Ingroia, sono rimasti fuori dal Parlamento e quindi gli resta solo il M5S ed il suo amico padre-padrone. Grillo lo ha ospitato con il “passaparola” dandogli un palcoscenico nei momenti di stanca dal piccolo schermo. Grillo, con la Casaleggio, ne ha prodotto i Dvd. La base “grillina” è un buon mercato che, si sa, se osi non chinarti al “verbo” di Grillo (lo chiama “il verbo” da diffondere lui stesso, molto umilmente), sei un traditore e cadi in disgrazia, che se devi vendere giornale e libri non è una bella prospettiva. Ed allora ecco che, ancora una volta, tutto ciò che per gli altri sarebbe “peccato” quando riguarda Grillo e pentastellati diviene un “pregio”, anzi una garanzia!
Travaglio, che ha tanto a cuore la questione “legalità”, non si è nemmeno accorto che nel programma (e nemmeno nelle “stelle”) del movimento del suo amico Grillo, questo punto è latitante! Non c'è una proposta che sia una in materia di anticorruzione, antiricilaggio... nemmeno su prevenzione e contrasto delle mafie, così come nulla sulla necessaria riforma della Giustizia. Il silenzio colpevole degli altri, quando è silenzio di Grillo e dei “5 stelle” diventa un bello... E così un “sacco bello” diventa anche il negazionismo e le sortite deliranti sulla mafia che Grillo dispensa e che i “grillini” assimilano. Anche qui, se mai l'affermazione “La mafia non uccide” l'avesse fatta un Berlusconi o un chicchessia qualsiasi di altri partiti, apriti cielo (giustamente), ma visto che l'ha fatta Grillo ed i “grillini” l'hanno assunta a “verbo” allora va bene, è giusto così, “la mafia non uccide”. Ed ancora se mai un Casini, un Crisafulli o Dell'Utri avessero detto che ormai la mafia non ricicla più nel cemento si sarebbero aperte (giustamente) le critiche più pesanti, ma visto che lo sostiene Grillo allora è vero, la mafia nel cemento non ci azzecca più nulla... anche se la realtà dice l'esatto opposto. E poi, i programmi, la credibilità dei candidati e della loro azione, che tanto sta a cuore in generale a Travaglio, per il movimento di Grillo, sono bazzecole che non occorre valutare. Ed allora, quando ti trovi in realtà dove, ad esempio, la 'ndrangheta condiziona pesantemente economia, politica e pezzi delle istituzioni e pubbliche amministrazioni, e i partiti della “kasta” tacciono, negano o minimizzano, si deve (giustamente) denunciare tale scellerato atteggiamento, ma se a tacere, negare o minimizzare sono Grillo ed il M5S allora va bene così, di certe cose non è poi mica necessario parlare! E, di esempi, ce ne sono. Guardiamo alla terra della Liguria, quella di Grillo. Ebbene qui a Genova, delle collusioni tra 'ndrangheta e pezzi determinanti dell'economia locale, così come della politica e delle pubbliche amministrazioni, ce ne sono quanti se ne vuole, ma il M5S su questo “dettaglio” tace. A Bordighera, Comune la cui amministrazione è stata sciolta per mafia e che vede l'ex sindaco indagato per concorso esterno, si è andati ad elezioni ma sul punto 'ndrangheta dal M5S il silenzio è stato assoluto, anche davanti alle sparate di Vittorio Sgarbi che, nostalgico di Niscemi, è giunto per sostenere che il problema a Bordighera non è la mafia, bensì l'antimafia. E così a Imperia, la città di Scajola e del Porto di Caltaggirone, costruito con le ditte di 'ndrangheta, silenzio sul punto, così come a Sestri Levante dove grande imprenditore e consigliere comunale uscite è il Santo Nucera che, dagli atti, risulta affiliato alla criminalità organizzata calabrese... e poi, ancora più a levante, a Sarzana, dove ha sede uno dei “locali” della 'ndrangheta, di nuovo, sempre, costante, silenzio sul tema! A Grillo ed al suo movimento è perdonato tutto ciò che agli altri non sarebbe lasciato passare nemmeno per sbaglio. Travaglio è così, gli amici sono amici e vanno difesi, a prescindere. Si può modificare la realtà, offrendone una percezione radicalmente difforme, pur di difendere l'ultimo amico sullo scacchiere politico. Ed allora alla propaganda di Travaglio per Grillo, come di prassi, come già accaduto per Di Pietro e per Ingroia, si indossano gli abiti di avvocato difensore che mostra i denti a chi osa toccar l'amico. Già davanti ai risultati elettorali si è potuto assistere al salto mortale del tramutare, da parte di Travaglio, una sonora sconfitta in una gloriosa vittoria, ma visto che non bastava, e visto che occorre serrare le fila nella difesa dell'amico in difficoltà, Travaglio supera, ancora una volta, se stesso con l'ultimo editoriale, quello di oggi. Travaglio attacca Antonio Amorosi reo di aver parlato della nostra articolata e documentata inchiesta sulla gestione dei fondi da parte del M5S. Travaglio si guarda bene dall'entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo pubblicato ed inviato alle Autorità competenti Non lo fa perché sarebbe dura smentire le fonti di questa inchiesta che sono, tutte, una dopo l'altra, tutte fornite dai vari siti del M5S e quindi, ovviamente, non considerabili “ostili” allo stesso. Non lo fa perché Travaglio sa bene che un partito non può gestire i propri fondi (siano quelli derivanti dai rimborsi elettorali, quelli derivanti dai fondi pubblici a cui attinge o quelli derivanti da donazioni e sottoscrizioni) su conti privati di terzi, eludendo ogni contabilizzazione da parte del partito e quindi ogni tracciabilità dei movimenti in entrata ed in uscita. Se si leggesse un articolo di Travaglio che dice “gestire i fondi del partito su miriadi di conti privati, senza iscriverli a bilancio e usandoli facendo fatture intestate ad altri è bello e giusto” è ovvio che si sobbalzerebbe sulla sedia e il strabismo sarebbe evidente ai più... e quindi lui evita di entrare nel merito dell'inchiesta che abbiamo fatto e attacca chi osa parlarne, reo, come detto, di lesa maestà, cioè il portatore del “verbo”, l'amico Beppe Grillo. Travaglio attacca Amorosi che riporta un passaggio della nostra inchiesta (che nemmeno Grillo ed alcuno del M5S ha smentito, né nelle anticipazioni, né nella sua pubblicazione (anche sulle bachece facebook di Grillo, anche se in diversi gli hanno postato sul blog la questione ed i link). Grillo non risponde, il M5S non risponde... anche perché è dura dare smentita ai fatti... ma parte all'attacco Travaglio, così da porre il suo "bollino di qualità" che, senza smentire, fa dire: smentita è fatta!
Travaglio crea, come sempre, il paradosso affermando che si accusa Grillo di “rubare” per esorcizzare e nascondere una verità di fatti documentata: una gestione del M5S, il secondo partito italiano, inquietante e fuori da qualsivoglia norma. Poi per cercare di rappresentare al meglio la sua illazione-difensiva la butta sul “giudiziario”... ovvero se non c'è un'inchiesta della magistratura (e poi chi lo dice, con certezza, che non ci sia?) allora va tutto bene, dimenticando che c'è una questione politica grande come una casa: un politico - il suo amico Grillo - che sbraita di trasparenza, democrazia e di politica senza soldi, e che ha un movimento - il M5S – che di trasparenza non ne ha nemmeno l'ombra, di democrazia non ne parliamo visto che è un partito in mano a Grillo, nipote e commercialista (unici tre soci e dirigenti), in cui ogni decisione è presa da Grillo (e staff, alias Casaleggio), e di soldi ne ha quanti ne servono per le proprie attività, ma gestiti come “fondi neri” (in quanto non contabilizzati e gestiti in entrata ed uscita su conti correnti personali e non quindi del M5S), tanto che pubblica persino un rendiconto falso dello Tsunami Tour. Immaginate se una gestione così l'attuassero gli altri partiti, quelli della “kasta”? Sarebbe il finimondo. Sarebbe un giusto attacco ad una gestione inquietante della democrazia interna, delle scelte e della gestione dei fondi... ma già come fu per il partito familiare dell'amico Di Pietro, anche in questo caso, per Travaglio, essendo in causa l'amico Grillo, non solo propaganda, ma difende a prescindere dai fatti e attacca chi osa criticare il suo ultimo uomo nello scacchiere politico.
Non si chiama come Fede, ma anche lui si dimostra “fido” agli amici... E' ammiccante e accattivante, con il suo sguardo e la sua battura ed il falso detto bene diventa verità, in Italia... vale per gli altri e vale per il popolo fedele di Travaglio che, non guarda ai fatti, ma si affida alla loro libera interpretazione del vendicatore dalla penna pungente. In Italia ci sono le tifoserie, si sà... e non conta la verità, anzi non la si vuole la verità. Si vuole quella percezione di verità che ci fa stare bene, ad ogni tifoseria la propria, quella che avvalla il dogma, il credo, la fiducia nel "salvatore". E Travaglio ha la sua curva di tifosi, non può tradirla e quindi l'asseconda dicendo ciò che vogliono sentire, difendendo l'amico, tanto i fatti non contano, siamo nel campo della propaganda! E' così da tempo, purtroppo e guai a ricordarlo, è molto permaloso, perché per lui la verità è ciò che si presta a darli ragione, ma se una verità lo smentisce allora questa è deve essere cancellata, senza se e senza ma, perché nell'ambito della fede non conta la logica ma solo l'acquiescenza anche alle bufale più conclamate. Non a caso, come il suo maestro Montanelli, anche lui – come ha avuto modo di ricordare anche pubblicamente – votava DC turandosi il naso, perché la DC era il meno peggio... infatti nella DC del meno peggio c'erano persona per bene, come il buon vecchio “don Vito”, papà del nuovo eroe dell'antimafia, e tanti altri personaggi che ben conosciamo, mentre dall'altra parte, quella "del peggio" c'erano gente come Enrico Berlinguer che, per carità, era il demonio.  L'Italia è il Paese del "tengo famiglia", ma anche quello del "tengo amici"... e noi di amici ne abbiamo pochi ed anche con questo pochi, quando c'è qualcosa di dire, la diciamo. Ecco, noi l'opportunismo e la convenienza personale, così come la pratica del piegare i fatti per agevolare qualcuno nello scacchiere politico, non ce l'abbiamo. Altri, come Travaglio, dimostrano, giorno dopo giorno, di stare bene, invece, in questa Italia, del tengo famiglia e del tengo amici... Lui si dice indipendente ma poi ci casca sempre nello smentirsi con le dichiarazioni di voto, lo fa per il popolo che pende dalle sue labbra... per lui informazione è propaganda, non è fornire gli elementi oggettivi perché poi ognuno, in propria coscienza e ragionamento, valuti e decida. E' un Ufficio Stampa gratuito per gli amici, ed in tempo di "crisi" non conosce crisi, anche questa, in Italia, è una "qualità"! P.S. Ma perché Travaglio non dice apertamente di essere un giornalista militante, ovvero uno che fa il giornalista e presta questa sua penna alla difesa degli amici? Sarebbe più corretto del mostrarsi “indipendente” quando questa indipendenza non c'è manco di striscio.

In contrapposizione a Travaglio ci troviamo Grasso. Aldo Grasso: "Per il 2014 meno talk show e più X-Factor". Il critico del Corriere elenca i suoi desiderata per l'anno nuovo: "Basta talk show che non approfondiscono nulla. Meglio Fiorello e il talent per chi canta", scrive “Libero Quotidiano”. "Meno Santoro e più X Factor". E' questa la tv che sogna Aldo Grasso per il 2014. In un editoriale su Oggi, il critico televisivo del Corriere della Sera fa l'elenco dei suoi "dieci desideri per la televisione del 2014". Grasso mette nel mirino subito i talk show che ormai affollano i palinsesti dal lunedì al sabato. Grasso critica soprattutto quelli d'approfondimento politico ed è facile leggere oltre le righe un riferimento a Servizio Pubblico di Michele Santoro e Ballarò di Giovanni Floris: "Mi piacerebbe che ci fossero meno talk di approfondimento, che tanto non approfondiscono più niente, sono solo passerelle per i politici o gente che si vuole mettre in mostra". Insomma Grasso vuole un palinsesto libero dai santorini di turno e spinge per una tv che sappia riscoprire "X Factor e Fiorello": "Verrà mai il giorno in cui la Rai, il Srvizio Pubblico farà un varietà bello come X Factor? Tornerà Fiorello?", scrive Grasso. Infine il critico mette nel mirino Vespa: "Non vorrei più vedere, per fare un esempio, un Matteo Renzi in un programma di Bruno Vespa. Il nuovo esiste solo quando si confronta con il nuovo".

E poi ci sono i giustizieri della rete. Ragazza malata pubblica messaggio a favore della sperimentazione animale, coperta d'insulti: "Dovevi morire bambina". Caterina ha 25 anni e studia Veterinaria. Ma ha 4 malattie genetiche e senza ricerca scientifica sarebbe morta a 9 anni. Ma per il popolo del web questa è una colpa, scrive “Libero Quotidiano”.

"Dovevi morire a 9 anni, meglio gli animali di te, crepa" e giù insulti. Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria a Bologna afflitta da quattro malattie genetiche, è stata raggiunta da oltre 30 auguri di morte e 500 offese personali per aver pubblicato su Facebook un messaggio a favore della sperimentazione animale dei farmaci. Caterina ha avuto la colpa, a giudizio di quelli che lei stessa, con una certo ironia, ha definito i "nazianimalisti", di fotografarsi attaccata a un respiratore e con il cartello: "Io, Caterina S., ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro". Le reazioni - "Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te" scrive tale Giovanna. "Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose", rincara la dose un altro utente, "Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta" rilancia un terzo. E' questo il tenore dei messaggi ricevuti da Caterina, tutti finiti in un dossier presentato alla Polizia Postale per avere ragione delle violenze verbali subite. Il linciaggio mediatico della ragazza  è partito dopo la sua foto è stata rilanciata sui social dal gruppo "A favore della sperimentazione animale", cosa che le ha dato maggiore visibilità. "Non capisco il perché di tanta cattiveria - si chiede ora che l'incidente è avvenuto -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali". La Simonsen ora chiede che Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e l'ex ministro Michela Vittoria Brambilla prendano le distanze e stigmatizzino l'incidente. Nel frattempo si gode i 14mila like che comunque il web le ha tributato.

«Per me puoi pure morire domani. Non sacrificherei nemmeno il mio pesce rosso per un’egoista come te»: firmato Giovanna. E’ solo uno degli oltre 30 auguri di morte e 500 offese ricevuti su Facebook (e denunciati) da Caterina Simonsen, studentessa di Veterinaria all’Università di Bologna, colpita da quattro malattie genetiche rare, e divenuta il bersaglio di estremisti animalisti sul social network dopo avere pubblicato una foto che la ritrae con il respiratore sulla bocca e un foglio in mano, scrive invece “Il Corriere della Sera”. «Io, Caterina S. - recita la scritta - ho 25 anni grazie alla vera ricerca, che include la sperimentazione animale. Senza la ricerca sarei morta a 9 anni. Mi avete regalato un futuro». Il post, rilanciato su Facebook dal gruppo «A favore della sperimentazione animale», ha ricevuto oltre 13mila «mi piace», ma ha suscitato anche una pioggia di «insulti, apprezzamenti, di tutto e di più», spiega la ragazza che con due video risponde a chi la attacca e lancia un appello a Partito animalista europeo, Lega antivivisezione (Lav) e Michela Vittoria Brambilla, affinché si dissocino dagli auguri di morte e prendano provvedimenti. «Se crepavi anche a 9 anni non fregava nulla a nessuno, causare sofferenza a esseri innocenti non lo trovo giusto», è il messaggio di Valentina. Concorda Mauro: «Per me potevi pure morire a 9 anni, non si fanno esperimenti su nessun animale, razza di bestie schifose». Insulti anche da Perry: «Magari fosse morta a 9 anni, un essere vivente di m... in meno e più animali su questo pianeta». Materiale che Caterina ha consegnato alla polizia postale, con nomi e cognomi degli autori dei post. «Non capisco il perché di tanta cattiveria - replica la giovane -. Loro non sanno chi sia io, cosa faccia io, e probabilmente sono così ingenui da non sapere che tutti i farmaci che prendono, che danno ai loro figli e che danno ai loro animali sono stati testati sugli animali». Caterina non mangia carne e il suo sogno è laurearsi in Veterinaria per «salvare gli animali». Seduta sul letto, circondata dalle decine di farmaci che deve assumere e dai macchinari che le permettono di respirare, la ragazza spiega a chi la attacca come trascorre la sua giornata tipo. Una lotta quotidiana contro quattro malattie rare (immunodeficienza primaria, deficit di proteina C e proteina S, deficit di alfa-1 antitripsina, neuropatia dei nervi frenici), abbinate al prolattinoma, un tumore ipofisario, e a reflusso gastroesofageo, asma allergica e tiroidite autoimmune. Per poter sopravvivere passa dalle 16 alle 22 ore al giorno attaccata a un respiratore, deve utilizzare un’apparecchiatura che le fa vibrare i polmoni aiutandola a eliminare muco, assume montagne di medicinali spray, per bocca e in vena. Tra i quali, tiene a evidenziare, anche alcuni indicati per curare cani, gatti, furetti, rettili e uccelli. Quattro volte Caterina è finita in rianimazione, a un passo dalla morte. Solo nell’ultimo anno ha accumulato 12 settimane di ricovero e 20 di terapia endovena, e per poter dare gli esami all’Università segue un programma studiato appositamente per lei. «Mi dicono “meglio 10 topi vivi di te viva”, ma io spero di avervi fatto capire quanto ci tengo a vivere», dice la giovane nei video. Questo è il suo appello: «Invito Brambilla, Lav e Partito animalista europeo a combattere contro l’utilizzo degli animali dove non è fondamentale per l’esistenza umana: la caccia, i macelli, gli allevamenti di pellicce. Anziché fare tanto rumore mediatico, e ostacolare il lavoro dei ricercatori potreste raccogliere fondi e investire soldi per cercare un metodo alternativo valido agli esperimenti sugli animali. Una volta trovati questi metodi, per legge dovranno sostituire i test sugli animali. Vi chiedo di chiedere all’Aifa di mettere grande sulle confezioni dei farmaci che il medicinale è testato sugli animali a norma di legge, così che chi si cura possa fare una scelta consapevole». A chi vorrebbe fosse morta, infine, la ragazza augura «il meglio», e «buona domenica». «È una vergogna quello che sta succedendo a Caterina. Non è ammissibile che persone disinformate e prepotenti si permettano di minacciare e augurare la morte a una persona gravemente malata». Così Dario Padovan, presidente di Pro-Test Italia (associazione non profit per la difesa della ricerca bio-medica), che bolla come «inaccettabili» gli insulti diretti alla ragazza. «Chiediamo che le associazioni animaliste prendano pubblicamente le distanze da questi comportamenti vergognosi e incivili di chi si professa sostenitore della loro stessa causa» conclude.

I MORALISTI DEGLI AFFARI ALTRUI.

Il moralista spesso è disonesto. Peire Cardenal diceva che gli intellettuali si fanno predicatori morali, assassini che sembrano santi. Il moralista che dice: Ricchi perché disonesti. Ricchi perché spietati. Ricchi in quanto senza morale oppure, peggio, furbi. Il moralista è un comune esemplare appartenente alla fauna urbana che infesta reality show, programmi scandalistici tipo pomeriggio cinque e persino ristoranti di lusso. Pratiche diffuse tra i moralisti sono il rompimento di coglioni, la predica e la sentenza. Chiunque può diventare un moralista. Purtroppo, anche tu dato che sembrerebbe che nessuno di questi sia munito di buon senso e intelletto. Un moralista è uno scrittore che propone, in maniera discontinua, riflessioni sui costumi, le usanze e i modi di essere degli uomini, i loro caratteri e modi di vivere. Il moralista, in senso generico, è anche colui che «per carattere, per educazione o per cultura è portato a esaminare e valutare l’aspetto morale di qualsiasi questione o situazione» o chi, nel senso di "moralizzatore", pretende, attraverso le sue parole, presunti insegnamenti e, più raramente, il suo esempio, di dare lezioni di comportamento morale.

La moda del moralismo, scrive Gianni Pardo. La morale ha come base le necessità fondamentali del genere umano. L'intelligenza della nostra specie ci ha inoltre fatto capire che staremo tutti meglio se osserveremo un numero molto maggiore di regole rispetto a quelle che ci detta la natura: dal non fare rumore la notte per non disturbare i vicini al pagare le tasse; dal fare la coda allo sportello evitando discussioni alla cura dei vecchi, visto che vecchi diventiamo tutti (si spera) una volta o l'altra. Questo affinamento dei doveri consigliati dalla convivenza è molto meno cogente dell'istinto e infatti in questo ambito le società non sono tutte uguali. Si potrebbe dire che esistono società più o meno morali. Mezzo secolo fa chiesi ad una ragazzina, in Francia, che cosa avrebbe pensato di una compagnetta che a scuola avesse copiato il compito. E lei non ebbe dubbi: "Qu'elle est malhonnête", che è disonesta. Da noi invece anche i candidati al concorso per magistrato cercano di copiare. Dunque "la società scolastica francese è (era?) più morale dell'italiana". La morale nasce dalla società ma diviene un fatto individuale. Chi è abituato ad un certo comportamento finisce col considerarlo naturale. Quella bambina non si strapazzò a dichiarare che lei non avrebbe mai copiato come in Italia nessuno oggi si vanta dicendo: "Io non sputo per terra".  Eppure un secolo fa tanta gente lo faceva. L'uomo morale lo è senza proclami, mentre il moralista si considera degno di particolare stima. E questo è preoccupante. Chi dice mai: "Io non rubo" se non chi ha frequentato dei ladri o chi deve lottare contro la tentazione di rubare? Per questo Ernest Renan ha scritto: "Ho conosciuto molte canaglie che non erano moraliste, non ho conosciuto moralisti che non fossero canaglie". L'Italia, per cause remote, è poco morale. Il rispetto della collettività è evanescente; il sentimento religioso è tenue; il senso civico pressoché inesistente; le regole si rispettano se non se ne può fare a meno. In compenso, in passato i costumi erano tolleranti. Gli italiani (e i cinesi) furono sbalorditi quando gli americani pretesero le dimissioni di Richard Nixon solo perché aveva mentito. Dall'alto di una saggezza e di un pessimismo millenari trattavamo con indulgenza gli errori e i peccati altrui. Pensavamo, con Terenzio, che non ci è alieno niente che sia umano. Purtroppo nell'ultimo mezzo secolo noi italiani non siamo diventati più morali ma solo meno tolleranti. Dei vizi altrui. Fra i più accaniti moralisti ci sono coloro che non hanno molte possibilità di comportarsi male: per esempio i professori. Non possono imbrogliare sul peso, emettere fatture false o frodare il fisco e perciò sono più arcigni e severi di Girolamo Savonarola. Nel frattempo non si accorgono che le raccomandazioni sono un atto di disonestà. Non capiscono che, se dànno una lezione privata e non la dichiarano al fisco, sono evasori, come lo sono quando non chiedono la fattura all'idraulico per non pagare l'Iva. "Per somme minime!", esclamano. Come se si fossero volontariamente astenuti dall'ingannare il fisco per milioni di euro. Il moralismo italiano è una moda. Dimentichiamo le lezioni della storia e arriviamo all'assurdo di sostenere che i politici "devono dare l'esempio". Per non interferire col corso della Giustizia (più infallibile di Salomone) devono rinunciare a quella prescrizione cui nessun cittadino rinuncerebbe. A cominciare dai moralisti. Gli statisti non che arricchirsi dovrebbero rimetterci; gli amministratori degli enti pubblici dovrebbero essere impermeabili alle raccomandazioni per gli appalti mentre i privati raccomandano i figli a scuola e gli amici per qualche impiego. Ognuno depreca vivamente i peccati che, per una ragione o per l'altra, non può commettere, e scusa quelli che commette con la solita, imbattibile giustificazione: "Lo fanno tutti". I moralisti sono quelli che vorrebbero imporre a tutti gli altri una virtù sublime mentre usano un diverso metro per sé e per i loro cari. Il mondo dei media è pieno di questa fastidiosa genia. Siamo al punto che coloro che sono sul serio eccezionalmente morali non dovrebbero mai predicare la virtù: nessuno potrebbe distinguerli dai moralisti.

I moralisti che raccomandano agli uomini di soffocare le passioni e di dominare i desideri per essere felici, non conoscono affatto il cammino della felicità. Émilie du Châtelet, Discorso sulla felicità, 1779.

Non c'è un solo moralista che non possa essere convertito in un precursore di Freud. Emil Cioran, L'inconveniente di essere nati, 1973.

Colui che predica la morale limita di solito le sue funzioni a quelle d'un trombettiere di reggimento, che dopo aver sonata la carica e fatto molto rumore, si crede dispensato di pagar di persona. Charles Lemesle, Misophilanthropopanutopies, 1833.

Un moralista è il contrario di un predicatore di morale; è un pensatore che vede la morale come sospetta, dubbiosa, insomma come un problema. Mi spiace di dover aggiungere che il moralista, per questa stessa ragione, è lui stesso una persona sospetta. Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, 1869/89.

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. Pitigrilli (Dino Segre).

I moralisti han torto. La sessualità non si vince soltanto con l'astinenza ma anche con la lussuria. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

Diventerò moralista il giorno in cui uno mi dimostrerà di aver pensato durante il coito alla generazione futura. Italo Tavolato, Contro la morale sessuale, 1913.

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità. Filippo Turati, Discorso parlamentare, 1907.

Un uomo che moraleggia è di solito un ipocrita, una donna che moraleggia è invariabilmente brutta. Oscar Wilde, Il ventaglio di lady Windermere, 1892.

Citazioni sulla morale.

Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante. (Indro Montanelli).

Di conseguenza, le opinioni degli uomini su ciò che sia degno di lode o di biasimo sono condizionate da tutte le molteplici cause che ne influenzano i desideri riguardanti l'altrui condotta [...]. Dovunque vi sia una classe dominante, la morale del paese emana, in buona parte, dai suoi interessi di classe e dai suoi sentimenti di superiorità di classe. (John Stuart Mill).

Fino ad ora, sulla morale ho appreso soltanto che una cosa è morale se ti fa sentire bene dopo averla fatta, e che è immorale se ti fa star male. (Ernest Hemingway).

Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì. (Tiziano Terzani).

Il moralista borghese è l'uomo della lettera anonima (Mario Mariani).

Il peggior criminale che abbia mai camminato su questa terra è moralmente superiore al giudice che lo condanna alla forca. (George Orwell).

Il peso materiale rende prezioso l'oro, quello morale l'uomo. (Baltasar Gracián y Morales).

L'onestà è lo stato allotropico della morale. (Carlo Maria Franzero).

La ferocia dei moralisti [...] è superata soltanto dalla loro profonda stupidità! (Filippo Turati).

La loro moralità, i loro principi, sono uno stupido scherzo. Li mollano non appena cominciano i problemi. Sono bravi solo quanto il mondo permette loro di esserlo. Te lo dimostro: quando le cose vanno male, queste... persone "civili" e "perbene", si sbranano tra di loro. Vedi, io non sono un mostro; sono in anticipo sul percorso. (Il cavaliere oscuro).

La morale comune cambia, a seconda di dove si vive. (Allan Prior).

La morale è l'intera scienza del soggettivo e dell'obbiettivo morale. – La conoscenza del dovere per ciò che è dovere senza alcun riguardo a qualsiasi conseguenza. (Victor Cousin).

La morale è la cognizione de' nostri veri e solidi interessi. (Antoine-Louis-Claude Destutt de Tracy).

La morale è la debolezza del cervello. (Arthur Rimbaud).

La morale è semplicemente l'atteggiamento che adottiamo nei confronti di individui che, personalmente, non ci piacciono. (Oscar Wilde).

La morale è sempre la stessa, non si modifica a seconda del suo essere applicata alla sfera pubblica o alla sfera privata. Ma la morale tiene sempre conto dell'oggetto, della realtà a cui si applica. (Georges Marie Martin Cottier).

La morale è un fondo sociale che viene accresciuto lungo il doloroso corso delle epoche. (Jack London).

La morale non è altro che l'arte attiva e pratica di viver bene. (Pierre Gassendi).

La moralità, ciò che la società chiama «morale» di per sé non esiste. (Carlo Maria Franzero).

La moralità consiste nel rispettare le cose con la volontà, secondo il pregio ch'elle hanno. (Augusto Conti).

La moralità è il rapporto tra il gesto e la concezione del tutto in esso implicato. (Luigi Giussani).

La ricerca esclusiva dell'avere diventa un ostacolo alla crescita dell'essere e si oppone alla sua vera grandezza: per le nazioni come per le persone, l'avarizia è la forma più evidente del sottosviluppo morale. (Papa Paolo VI).

La Rivoluzione sociale sarà morale, oppure non ci sarà. (Charles Péguy).

La vera moralità consiste non già nel seguire il sentiero battuto, ma nel trovare la propria strada e seguirla coraggiosamente. (Mahatma Gandhi).

La vergogna è un sentimento fondamentale. Vergogna viene da vere orgognam: tempo l'esposizione. Oggi l'esposizione non la si teme più. E allora cosa succede: se io mi comporto in una modalità trasgressiva, bè che male c'è. Vado incontro ai desideri nascosti di ciascuno di noi e li espongo, quanto son bravo. E allora a questo punto non sono più visibili con chiarezza i codici del bene e del male. C'era Kant che diceva che il bene e il male ognuno le sente naturalmente da sé, usava la parola sentimento. Oggi non è più vero. Semplicemente se uno ha il coraggio anche di mostrarsi vizioso, se ha il coraggio anche di mostrarsi trasgressivo è un uomo di valore, almeno lui ha il coraggio, ha interpretato i sentimenti nascosti di ciascuno di noi. Questo ormai significa, non dico il collasso della morale collettiva, ma persino di quella individuale, quella interna, quella psichica. Quindi la fine dei tempi. (Umberto Galimberti).

L'entusiasmo non è altro che ubriachezza morale. (George Gordon Byron).

Le passioni umane si fermano solo dinanzi a una potenza morale che rispettino. Se manca una qualsiasi autorità di questo tipo, la legge del più forte regna e, latente o acuto, lo stato di guerra è necessariamente cronico. (Émile Durkheim).

L'etica è più una questione di opinioni che una scienza. La morale è una consuetudine più che una legge naturale. (Robert Heinlein).

Il cedimento morale di tanti cristiani anzi, la crisi stessa della Chiesa hanno una causa. E questa causa è, per dirla chiara, l'indebolimento della fede. È impossibile vivere la morale cattolica se non si è più convinti, e fino in fondo, che Gesù Cristo è il figlio di Dio e che nel vangelo è contenuto il progetto divino per l'uomo. (Benedetto XVI).

L'indignazione morale è in molti casi al 2 per cento morale, al 48 per cento indignazione, e al 50 per cento invidia. (Vittorio De Sica).

L'intelligenza è una categoria morale. (Theodor Adorno).

Nella morale come nell'arte, nulla è dire, tutto è fare. (Ernest Renan).

Non può esserci agire morale, lì do­ve non ci sia l'altro, riconosciuto in tutto lo spessore irriducibile della sua alterità. (Bruno Forte).

Non resta altro mezzo per rimettere in onore la politica, si devono come prima cosa impiccare i moralisti. (Friedrich Nietzsche).

Non si può essere felici finché intorno a noi tutti soffrono e si infliggono sofferenze; non si può essere morali fintantoché il procedere delle cose umane viene deciso da violenza, inganno e ingiustizia; non si può neppure essere saggi fintantoché l'umanità non si sia impegnata nella gara della saggezza e non introduca l'uomo alla vita e al sapere del più saggio dei modi. (Friedrich Nietzsche).

Ogni disordine morale è un atto di guerra. (Carlo Gnocchi).

Ogni moralità trae la sua origine dalla religione, perché la religione è soltanto la formula della moralità. (Fëdor Dostoevskij).

Pensavi che potessimo essere persone per bene in questi tempi in cui tutto è male, ma ti sbagliavi. Il mondo è spietato, e l'unica moralità in un mondo spietato è il caso. Imparziale, senza pregiudizi, equo. (Il cavaliere oscuro).

Per i moralisti, tu sei naturalmente cattivo. La bontà sarà una disciplina imposta dall'esterno. Tu sei un caos e l'ordine deve essere instaurato da loro; saranno loro a portare l'ordine. E hanno fatto del mondo intero un pasticcio, una confusione, un manicomio, perché hanno continuato a fare ordine per secoli e secoli, a disciplinare per secoli e secoli. Hanno insegnato così tanto che coloro cui è stato insegnato sono impazziti. (Osho Rajneesh).

Per mettere in chiaro i veri princìpi della morale, gli uomini non hanno bisogno né di teologia, né di rivelazione, né di divinità: hanno bisogno solamente del buon senso. (Paul Henri Thiry d'Holbach).

Per morale o etica particolare od applicata s'intende quella parte di morale, la quale tratta del sommo bene e dell'onesto, ovvero dei doveri e della virtù in tutte le loro applicazioni e relazioni. Questa parte è la morale veramente pratica, quella che per alcuni forma tutta la scienza dell'etica, appunto perché in essa deve apprendere lo spirito ad operare. (Baldassarre Poli).

Più profittevole al mondo è chi abbia lasciato un solo precetto di morale, una sola sentenza riguardante la vita, che non un geometra, avesse egli pure scoperte le più belle proprietà del triangolo. (François-René de Chateaubriand).

Quando il tempo è denaro, sembra morale risparmiare tempo, specialmente il proprio. (Theodor Adorno).

Quando mi trovavo a Motiers andavo a degli incontri mondani dai miei vicini portandomi in tasca sempre un bilboquet per giocarci per tutto il tempo per non parlare quando non avevo niente da dire. Se ognuno facesse altrettanto, gli uomini diventerebbero meno malvagi, i loro commerci diventerebbero più sicuri, e io penso, più agevoli. Infine, che qualcuno rida se vuole, ma io sostengo che la sola morale disponibile nei tempi odierni sia la morale del bilboquet. (Jean Jacques Rousseau).

Quando t'imbatti in un moralista, consideralo con rispetto, ad una prudente distanza, perché la morale è come la trichina: vive nella carne del porco. (Pitigrilli).

Quello che diciamo praticamente morale, non è altro da quello che teoricamente diciamo filosofia. La distinzione deriva, a nostro modo di vedere, dal concepire astrattamente il bene, che è oggetto della morale, e la verità, che è oggetto della filosofia. (Giovanni Gentile).

Rivoltatela come più vi pare, | prima viene lo stomaco, poi viene la morale. (Bertolt Brecht).

Se la morale non urtasse, non verrebbe lesa. (Karl Kraus).

Si diventa morali non appena si è infelici. (Marcel Proust).

Tutti noi abbiamo bisogno di un coinvolgimento morale che vada oltre le meschine contingenze della vita quotidiana: dovremmo prepararci a difendere attivamente questi valori ovunque siano scarsamente sviluppati o siano minacciati. Anche la morale cosmopolita deve essere mossa dalla passione; nessuno di noi avrebbe nulla per cui vivere se non avessimo qualcosa per cui valga la pena morire. (Anthony Giddens).

Vilfredo Pareto: I precetti morali sono spesso volti ad assodare il potere della classe dominante, spessissimo a temperarlo. La morale tipo è stata considerata come alcunché di assoluto; rivelata od imposta da Dio, secondo il maggior numero; sorgente dall'indole dell'uomo, secondo alcuni filosofi. Se ci sono popoli i quali non la seguono ed usano, è perché la ignorano, e i missionari hanno l'ufficio di insegnarla ad essi e di aprire gli occhi di quei miseri alla luce del vero; oppure i filosofi si daranno briga di togliere i densi veli che impediscono ai deboli mortali di conoscere il Vero, il Bello, il Bene, assoluti; i quali vocaboli sono spesso usati sebbene nessuno abbia mai saputo cosa significassero, né a quali cose reali corrispondessero. Vi sono certi fenomeni ai quali nelle nostre società si dà il nome di ETICI o MORALI, che tutti credono conoscere perfettamente, e che nessuno ha mai saputo rigorosamente definire. Non sono mai stati studiati da un punto di vista interamente oggettivo. Chi se ne occupa ha una qualche norma che vorrebbe imporre altrui, e da lui stimata superiore ad ogni altra.

Moralisti e manettari. Provare a spiegare a uno straniero che cosa sia il rapporto tra certa magistratura è certa stampa in Italia è impossibile, scrive “Il Giornale”. Come si fa per esempio a raccontargli ciò che sta accadendo in queste ore sul cosiddetto «caso Panama». C'è Valter Lavitola al quale hanno notificato un altro provvedimento di arresto per un tentativo di estorsione ai danni di Impregilo. Ma non è questa la notizia, ovviamente. E la notizia non è neanche un'altra: cioè che lui avrebbe danneggiato Silvio Berlusconi, usato come esca inconsapevole per la grande azienda di costruzioni che voleva fare affari a Panama. No, per i giornali la notizia sarebbero i presunti filmini hard che lo stesso Lavitola avrebbe girato dopo aver procurato - dice lui - delle prostitute a Berlusconi. Così ieri i giornali erano tutti pieni di questa notizia condita con intercettazioni senza alcuna rilevanza processuale e penale che però sono stati sbattuti nell'ordinanza di arresto e che a quel punto sono finiti alle redazioni. È la vergogna che si ripete: le vittime di possibili reati trattate come colpevoli, la privacy e il rispetto stracciati, l'ossessione delle altrui vicende sessuali che porta a spiattellare tutto senza distinguere ciò che è notizia vera da ciò che invece non lo è. La cosa più grave, come sempre, è il silenzio: nel Paese dei moralisti a gettone, dei garantisti a chiamata nessuno che si sia alzato in piedi per dire che questo è uno scandalo. Una vergogna della quale l'Italia si macchia da vent'anni e della quale non si riesce a liberare. I verbali contengono il nulla su Berlusconi, ma non importa. Non appena compare il suo nome in un'inchiesta, anche come vittima, viene trasformato in autore di misfatti dei quali neanche è a conoscenza. Chi li ha letti dovrebbe essere indignato per il solo fatto che quegli atti siano stati pubblicati. Di più: per il fatto che siano stati inseriti nell'inchiesta. Ecco, se quello straniero ha comprato Repubblica o il Fatto Quotidiano avrà pensato che Berlusconi sia stato considerato responsabile di chissà quale nefandezza. Il numero di pagine dedicate dai giornali al fatto è talmente sproporzionato da far dedurre al povero forestiero che la cosa sia grossa e molto importante. Neanche la lettura degli articoli può averlo aiutato, tanta e tale la bile sprigionata dalle gazzette delle procure. Vagli a spiegare che se qualcosa di vero c'è, Berlusconi è la vittima. Non è possibile perché la militanza di magistrati e giornalisti manettari è così forte da uccidere la verità. E poi parlano di giustizia.

I FRIGNONI ED I VOLTAGABBANA.

I nuovi moralisti manettari e i frignoni italici .

"Qui piove e gli italiani si lagnano". Vittorio Feltri è una furia contro i piagnoni di casa nostra. Questa volta a far sbottare il fondatore di Libero è il meteo. In un editoriale su il Giornale, Feltri attacca chi si lamenta del freddo e della pioggia sotto le feste. Feltri guarda in Europa e afferma che in altri paesi come Inghilterra, Francia e Germania non c'è nessuno che "piange per il maltempo". "Siamo portati a dare una valenza politica a tutto, perfino ai fenomeni naturali, come se dipendessero dagli umani, in particolare se eletti e seduti in poltrona. Da quando non crediamo più in Dio, crediamo all'onnipotenza degli uomini. Siamo ridicoli", scrive Feltri. Insomma per Vittorio il motto "piove, governo ladro" è roba del secolo scorso. E così rincara la dose sugli italiani: "Per quanto riguarda la tempesta di Natale non si segnalano invece manifestazioni di protesta degli inglesi e dei francesi che hanno fatto i conti con tragedie non certo inferiori a quelle che periodicamente ci toccano". Infine la stoccata: "Vi sarà pure un motivo per cui il nostro popolo è incline a trovare un capro espiatorio al quale addossare la responsabilità di ogni guaio grosso o piccolo che sia. Probabilmente siamo talmente sospettosi nei confronti di qualunque autorità da temere che anche la furia degli elementi sia manovrata dal palazzo allo scopo di dimostrare che siamo ancora sudditi...". 

Politici postdatati vs cittadini retroattivi, scrive Nicola Porro. Per capire l’innesco, la sceneggiatura, di una rivoluzione borghese, o se preferite della classe media impoverita, basta tradurre in pagina il comportamento della nostra classe dirigente. Per se stessa applica il principio del «postdatato», mentre per il resto del mondo quello del «retroattivo». Andiamo al dunque. Si chiede a gran voce la riduzione (non fosse altro che per motivi di sobrietà istituzionale) dei costi della politica. I nostri geni si adeguano, producono una legge che avrà effetti nel prossimo futuro. Con il retropensiero che, passata la nottata, si possa sempre cambiare la norma al momento della sua esecuzione. Si taglia il finanziamento pubblico ai partiti, per dirne una, ma a partire dal 2017. Quando però la norma riguarda la gente comune, l’esecuzione è retroattiva. Altro che postdatata. Si applica una patrimoniale sui conti di deposito, ma a valere da ieri. Quindi è impossibile scappare. Si alzano le aliquote dell’Imu a dicembre, ma riguardano l’anno appena trascorso. Sono riusciti a inventarsi un acconto sulle imposte future superiore al 100 per cento di quanto presumibilmente dovuto. Le norme fiscali, nonostante lo Statuto dei contribuenti, sono spesso retroattive. Inchiodano al passato, senza dare la possibilità ai contribuenti di mutare, anche opportunisticamente, i propri comportamenti. L’Italia è l’unico Paese al mondo in cui una norma fiscale restrittiva si applica anche per il periodo in cui essa non era ancora vigente. Ecco, non c’è bisogno di scomodare lo scrittore Ballard per capire i motivi dell’insofferenza e della rabbia che ci invade, basta fare una telefonata al commercialista.

I voltagabbana. ''Marco Pannella dice che non andrà in piazza. Ma ci andrà comunque la Bonino, insieme al giustizialista Di Pietro. Se i radicali oggi fossero davvero liberi e capaci di fare una cosa liberale, dovrebbero molto semplicemente rompere l’alleanza (anche nel Lazio) con Di Pietro e con le liste di sinistra comunista e massimalista. Ma non lo faranno. Il resto sono solo chiacchiere e fumisterie, nel vano tentativo di nascondere l’alleanza sempre più strutturale di Bonino e Pannella con forze illiberali, giustizialiste e manettare''. Lo dichiara Daniele Capezzone, portavoce del Pdl, sottolineando che è un ''triste epilogo della storia radicale: si passa da Sciascia a Travaglio, da Tortora a De Magistris, da Pannunzio a D’Avanzo, da Ernesto Rossi a Gioacchino Genchi. Auguri''.

In politica la tattica è (quasi) tutto, scrive “Libero Quotidiano”. Pertanto, la sterzata manettara di Matteo Renzi non stupisce. Da essa, il rottamatore deriva una triplice utilità nell’immediato: a) vellica i settori di elettorato più buttachiavi presenti sia a destra sia a sinistra; b) picchia sul nervo scoperto del rapporto tra piani alti del Pd e Giorgio Napolitano; c) costruisce un altro tassello della propria persona congressuale di strenuo avversario delle larghe intese (e del Pd che, Enrico Letta in testa, nelle larghe intese sguazza vieppiù apparecchiando le inconfessabili pastette col Caimano). Un politico, specialmente uno attento alla propaganda come Renzi, che non cogliesse al volo un’opportunità tanto evidente sarebbe un politico dalle discutibili abilità e scaltrezza. Detto questo, la giravolta forcaiola di Renzi una certa tristezza riesce comunque a metterla. Prima di tutto perché certifica che il sindaco di Firenze sarà innovatore finché si vuole ma non lo è al punto di sapersi sottrarre alla dittatura dei sondaggi che tanto piagò la seconda repubblica: i contrari a indulto e amnistia sono al 60%? Ebbene, sia dia loro contrarietà a indulto e amnistia, e per pensare al resto il tempo si troverà.

Il motivo vero per cui la folgorazione mozzorecchi del rottamatore arreca il magone, però, è un altro. E cioè il tradimento plateale di uno degli elementi del renzismo primigenio che meglio avevano fatto sperare: la possibilità di dare vita ad una nuova sinistra in grado di fare politica senza sventolare manette e brogliacci di tribunale. Prometteva benissimo, Renzi, al punto da fare intravedere la rivoluzione copernicana persino nei confronti del nemico numero uno (quante volte l’avrà ripetuta la famosa frase su Berlusconi «che va battuto alle elezioni e non nei tribunali»?). E invece niente da fare, tutto buttato alle ortiche in nome della convenienza del momento. Purtroppo per il sindaco, le tracce della piroetta sono ben visibili. Una, bellissima, l’ha trovata ieri Blogo.it: è una schermata dell’account ufficiale di Renzi su Twitter risalente al 18 dicembre 2012. C’è scritto solo «#iostoconMarco». Il Marco in questione era Panella, il quale era impegnato in uno dei periodici scioperi della fame per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inferno delle carceri e chiedere adeguati provvedimenti di clemenza. E Renzi stava con lui.

Un radicale fiorentino tira fuori la lettera di Renzi che nel 2005 scriveva: “Aderisco alla battaglia di Pannella per l’amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana”. Anche nel 2012 appoggiava le battaglie di Marcolone - Ma non era diseducativa? - Idem per Grillo, che nel 2005 firmava appelli…

1. QUANDO MATTEO RENZI VOLEVA L'AMNISTIA, tratto da  giornalettismo.it. Matteo Renzi dice di non essere contrario all'amnistia per ragioni elettorali, e non si fa fatica a credergli. Perché soltanto uno che se ne frega totalmente del ridicolo in cui potrebbe finire direbbe oggi di essere contrario all'amnistia quando appena qualche tempo fa - mentre era presidente della Provincia di Firenze - era invece favorevole, come ricordano i radicali fiorentini. Questo il testo della lettera inviata da Massimo Lenzi nel 2005: Caro Presidente, l'auspicio a Lei caro "il futuro non può attendere" spesso impone una pronta attenzione al presente. Ed oggi l'auspicio di un futuro migliore si incarna nella decisione di Marco Pannella di attuare una forma estrema di lotta nonviolenta, lo sciopero totale della fame e della sete, per chiedere alle nostre istituzioni un'amnistia generalizzata per la popolazione carceraria. Giunto ormai al nono giorno della sua drammatica iniziativa, Pannella ha ribadito pubblicamente il senso di questa sua ennesima forma di lotta nonviolenta: «A queste istituzioni che si genuflettono dinanzi al Pontefice mi rivolgo chiedendo loro un atto di coerenza, di riconoscenza nei confronti del Papa. Un risarcimento, perché no?, con un fatto concreto. Mi chiedo: quale dev'essere l'atto di compassione nei confronti di quest'uomo? Tutte le nostre istituzioni - ha spiegato Pannella - hanno avuto parole di riconoscenza nei confronti del Papa. Sarebbe davvero un atto di riconoscenza varare l'amnistia. E' tradizione un atto di clemenza per festeggiare i nuovi re e i nuovi papi. Un'amnistia in ottemperanza a quello che lui chiese. Sarebbe anche un momento di dolcezza...». Come Lei sa, un deciso e straordinario provvedimento di amnistia e indulto, oltre a raccogliere la richiesta di clemenza reiterata dal Pontefice, consentirebbe di ripristinare l'esercizio effettivo della amministrazione giurisdizionale e giudiziaria, ponendo un argine contro la degenerazione in atto nella giustizia italiana, che, con sempre maggior evidenza, si traduce in ingiusta discriminazione di classe. Per questa ragione, caro Presidente, Le chiedo di schierarsi a favore dell'iniziativa di Marco Pannella, manifestando un significativo segnale di attenzione da parte dell'istituzione che Lei rappresenta. Caro Lenzi, la richiesta di Marco Pannella di ricordare Giovanni Paolo II, non coi manifesti celebrativi ma con un gesto concreto, nobile e giusto, mi sembra doverosa e bella. Conosci le mie opinioni e sai che sono spesso distanti da alcune delle battaglie storiche che Marco Pannella ha condotto e conduce. Ma sono pronto, nel mio piccolo, a fare la mia parte perchè la sete di giustizia che anima il leader radicale trovi una fonte soddisfacente. Aderisco, allora, alla battaglia di Pannella per l'amnistia, impegno morale, civile sociale della comunità italiana. Un caro saluto, Matteo Renzi. Ah, il tempo che passa. A questo punto, voi direte: «Ma Renzi ha detto che non bisogna fare un'altra amnistia dopo quella del 2006, mica che è pregiudizialmente contrario». Ebbene, non è passato molto tempo, invece, dal dicembre 2012, quando Renzi, insieme ad Enrico Rossi, scriveva a Marco Pannella: Le tue richieste sono giuste e legittime, nella loro immediatezza oltre che nel loro contenuto." Da dieci giorni seguiamo con seria preoccupazione i bollettini medici sul tuo stato di salute e proprio per questo vogliamo farci carico della lotta per l'amnistia, per la giustizia e per la libertà, per il ripristino della legalità e del rispetto della dignità all'interno delle nostre carceri, per interrompere una violenza che riguarda tutti i cittadini, non solo i detenuti; per ristabilire i principi della Costituzione, depredati nella loro completezza laddove prevedono che le pene non possano consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e ne sancisce la funzione rieducativa; convinti che laddove siano stati violati o ignorati dei diritti, laddove venga meno la legalità, lo stato di diritto, esista anche, e tu lo sai bene, strage di popoli. Con grande apprensione e la piena solidarietà, da oggi introdurremo nelle nostre priorità istituzionali le necessarie misure affinché si possa limitare e riparare al collasso della giustizia e della sua appendice ultima delle "catacombe" carcerarie, luoghi di sofferenze atroci, di tortura e di morte quotidiana. Armati di nonviolenza, con i nostri corpi, con il ruolo che ricopriamo, intraprenderemo, a staffetta, uno sciopero della fame, sperando, con forza e caparbietà, che il Parlamento italiano conceda un provvedimento di amnistia e si attivi con atti urgenti per porre rimedio all'emergenza carceraria, al vergognoso sovraffollamento delle nostre strutture penitenziarie, non come soluzione ma come punto di partenza per una riforma strutturale della giustizia, con misure alternative alla carcerazione, in primis per i tossicodipendenti. Il testo è tratto da una lettera aperta a Marco Pannella scritta dal consigliere regionale della Toscana Enzo Brogi. Tra le prime adesioni quelle del presidente della Regione Toscana Enrico Rossi, del sindaco di Firenze Matteo Renzi, del consigliere regionale Marco Taradash, di Sergio Staino, Alessandro Benvenuti e dei cantanti Dolcenera e Erriquez (Bandabardò). E insomma: all'epoca Renzi prometteva anche uno sciopero della fame. O tempora, o mores.

2. QUANDO BEPPE GRILLO PARLAVA DI AMNISTIA (OSPITANDO PANNELLA SUL SUO BLOG) - E FIRMAVA L'APPELLO DEL 2005 PER L'AMNISTIA, tratto da giornalettismo.it. Oggi Beppe Grillo e il Movimento 5 Stelle protestano con veemenza contro l'amnistia o l'indulto chiesti esplicitamente dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per risolvere la «questione scottante» dell'emergenza carceri. Alcuni esponenti del partito del comico genovese hanno prontamente bollato la proposta del capo dello Stato come un provvedimento salva-Berlusconi. Qualcuno, come il deputato Manlio Di Stefano, ha chiesto addirittura le dimissioni di Napolitano. Il vicepresidente della camera Luigi Di Maio, invece, ha sostenuto che il presidente della Repubblica «se ne frega» delle opposizioni. Eppure qualche tempo fa era proprio Grillo a difendere la battaglia di Marco Pannella contro le morti in carcere e il sovraffollamento dei penitenziari, a favore dell'amnistia. Scriveva il leader 5 Stelle sul suo blog il 24 giugno 2011: Marco Pannella si sta battendo per una causa giusta, contro le morti in carcere, ogni anno più di 150, molte di queste oscure e riportate purtroppo con regolare cadenza su questo blog. Non ci vogliono più carceri, ma meno detenuti. Va abolita la legge Fini-Giovanardi che criminalizza l'uso delle marijuana. I reati amministrativi vanno sanzionati con gli arresti domiciliari e un lavoro di carattere sociale. Inoltre, quando questo sia possibile, gli stranieri, extracomunitari o meno, devono poter scontare la pena, qualunque essa sia, nel loro Paese di origine, vicino alla famiglia. Il carcere in Italia non serve a riabilitare nessuno, ma a uccidere. E', di fatto, una scuola di criminalità. Basta nuove carceri e che le istituzioni (ma quali? questo è il problema) ascoltino Marco Pannella. Grillo, nello stesso post, pubblicava poi una lettera dello staff di Pannella in cui si faceva chiaro riferimento all'amnistia. Si leggeva tra le righe: Marco Pannella è dovuto arrivare, dopo due mesi di sciopero della fame, al digiuno totale della fame e della sete, per richiamare l'attenzione delle istituzioni su due questioni: la necessità e l'urgenza di una amnistia quale primo passo per affrontare la crisi della giustizia (tempi lunghi e prescrizioni la rendono di fatto inesistente) e l'emergenza del sovraffollamento delle carceri (solo negli ultimi 10 anni ci sono stati più di 650 suicidi in carceri che oggi contengono oltre 68 mila detenuti a fronte di 44 mila posti regolamentari!); il silenzio dell'informazione e l'assenza di ogni confronto democratico su questa come su ogni altra questione che interroghi la coscienza dei cittadini e richieda importanti decisioni politiche e gravi scelte legislative. Come si cambia, è il caso di dire. Edit: come ci fa notare Francesco nei commenti, Beppe Grillo firmò nel 2005 un appello per l'amnistia proposto dai radicali. Il suo nome figura tra gli artisti.

Segreteria Pd, i giovani di Renzi sono un'Armata Brancaleone. Gaffe, bocciature, vizi da vecchia Casta: le prime settimane della nuova segreteria democratica sono tutte da ridere...scrive di Francesco Borgonovo su “Libero Quotidiano”.  Sarà che con Matteo Renzi l’Italia cambia verso, ma qua si odono sempre gli stessi ragli. La nidiata di renzini giovani e carini in pochi giorni ha già dato prova del proprio valore, dimostrando di non avere nulla da invidiare ai ferrivecchi in stile Massimo D’Alema. Il Divino Matteo promette battaglia sui costi della politica e mena fendenti alla Casta? Ecco che Debora Serracchiani - presidente della Regione Friuli - Venezia Giulia, uno dei volti più noti del suo esercito - inaugura la nuova era di sobrietà salendo su un volo di Stato da Trieste a Roma. Per fare cosa? Per andare a Ballarò. Doveva accomodarsi nel salotto di Giovanni Floris e ha pensato bene di scroccare un passaggio a Enrico Letta sul suo aereo. Probabilmente, la simpatica Debora ha preso molto sul serio l’esempio di Laura Boldrini, che si è fatta accompagnare dal fidanzato ai funerali di Mandela in Sudafrica, ovviamente a bordo di un velivolo gentilmente sovvenzionato dai contribuenti. Mica si è scusata, la Serracchiani. Anzi, ha detto che le sembrava tutto normale. Brava, così si fa: nel pieno solco della grande tradizione politica italiana. A quanto pare, l’Italia cambia verso: sì, quando prende il volo di ritorno. Poi c’è Marianna Madia, a cui va il premio «Fulmine di guerra» 2013. La riccioluta signorina (ex veltroniana, ex bersaniana, ex lettiana) è da poco entrata nei magnifici dodici della segreteria del Pd. Non avendo lavorato un giorno un vita sua, giustamente le hanno affidato l’incarico di responsabile del lavoro. L’altro giorno, come rivelato dal Tempo, doveva recarsi in via Veneto per incontrare il ministro Enrico Giovannini, che appunto di lavoro si occupa. Che ha fatto la Madia? Si è presentata al cospetto di Flavio Zanonato, al ministero dello Sviluppo economico. Si è seduta e si è messa a ripetere il compitino che si era attentamente studiata. Zanonato l’ha ascoltata per parecchi minuti, poi le ha fatto timidamente notare che si era sbagliata: la sede del ministero del Lavoro, le ha detto, sta dall’altra parte della strada. Ecco la soluzione: bastava cambiare verso, guarda un po’. Già ci vuole un bel coraggio a guardare in faccia Flavio Zanonato e a pensare che sia un ministro. Ma parlargli per venti minuti pensando che sia un’altra persona è un colpo di genio. La Madia avrebbe potuto cavarsela con una scusa: «Lo so che sei Zanonato, volevo solo provare il mio discorso, adesso vado a riferirlo al ministro vero». E invece  pare che se ne sia uscita balbettando: «Ma ministro, tu non ti occupi di lavoro?». No, e  a quanto vediamo dai risultati, non se ne occupa neppure la Madia. Ma non dimentichiamo Filippo Taddei, scelto da Renzi come responsabile economico del Pd. Lauree e master come se piovesse, poi l’hanno bocciato al concorso per diventare professore associato di Politica economica. La commissione ministeriale ha stabilito che le sue pubblicazioni non erano sufficienti. Fortuna che dovrebbe essere una delle menti che ridaranno impulso all’economia italiana.  A questo punto, tanto valeva tenersi Romano Prodi. O Piero Fassino, visto che Renzi sta già pensando a come salvare il potere del Pd dentro Mps. L’Italia cambierà anche verso, ma nel Pd vanno sempre nella stessa direzione. Ci permettiamo solo un consiglio a Matteo e soci. Magari, invece di convocare le riunioni alle sette di mattina, converrebbe svegliarsi un paio d’ore più tardi onde evitare il rincoglionimento nel corso della giornata. Con un po’ di sonno in più, forse la Madia avrebbe riconosciuto Zanonato. Per la Serracchiani, invece, non ci sono problemi: se è stanca, si appisola in aereo.

I VOLTAGABBANA E GLI APPESTATI. BERLUSCONI E CRAXI.

Berlusconi: “Ho letto trenta pagine del libro su Craxi, lo finirò in galera”. Il Cavaliere ricorda l’ex leader socialista: «Buono, giusto, generoso. Non si arricchì». Poi attacca i pm: «Tolgono la libertà, in Italia niente democrazia». Silvio Berlusconi scherza nel corso del suo intervento alla presentazione del libro “Bettino Craxi dunque colpevole”, di Nicolò Amato. Ti consigliamo: «Ho letto le prime 30 pagine di questo libro, leggerò le altre quando sarò in galera...». Lo ha detto il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi, in occasione della presentazione del libro di Nicolò Amato su Bettino Craxi. È una battuta, quella del Cavaliere, ma amarissima. «Solo l’ironia ci può aiutare, perché la situazione è drammatica» dice.  Poi, tornano le bordate ai magistrati. «L’Italia non è una democrazia. C’è un ordine dello stato a cui è stato conferito il terribile potere di togliere la libertà o il patrimonio ai cittadini e che da ordine dello stato si è via via trasformato in potere dello stato. Anzi, in contropotere capace di sovrastare gli altri veri poteri dello stato, il legislativo e l’esecutivo». Quella di Craxi, ragiona Berlusconi, « non è stata una latitanza ma un esilio doloroso. Non è stato un esilio dorato. Anch’io ho provato quella indignazione e quel dolore quando, il 1 agosto mi hanno condannato con sentenza ingiusta». Parlando ancora del leader socialista Berlusconi lo descrive come «buono, giusto e molto generoso» sottolineando che «non si è arricchito lasciando la sua famiglia non in una situazione agiata ma neanche nel benessere...». «Bettino - ricorda ancora Berlusconi - era il contrario di quanto veniva scritto nella stampa: non mi ha mai chiesto nessun finanziamento, anzi quando glielo offrii - stavamo passeggiando nel parco di Arcore - mi disse che se gli avessi fatto ancora un’offerta del genere non sarebbe più venuto a trovarmi», è stato distrutto dal «comunismo, una ideologia la più criminale della storia dell’uomo, aveva ragione a dirlo. Il suo non era una latitanza, ma un esilio non certo durato, ha subito un’infamia, tanto dolore e indignazione. Purtroppo da allora la storia non è cambiata».  Il Cavaliere garantisce che non pensa all’esilio: «Non farò mai una cosa del genere per evitare una carcerazione. Sarei colpevole nei confronti di chi mi ha dato il voto» dice. Ma non nasconde le preoccupazioni: c’è un «accordo Pd-Giudici per assassinarmi» .

1 - 1992: MIELI, FELTRI, BOSSI, RUTELLI, OCCHETTO, PAOLO ROSSI: DE PROFUNDIS CRAXI - BETTINO: "MI HANNO GIÀ SEPPELLITO. MENO MALE CHE HO FATTO I BUCHI NELLA BARA E CONTINUO A RESPIRARE", scrive Filippo Facci per "Libero".  Mancano cinque giorni al decennale eccetera. Paolo Mieli sul "Corriere della Sera" del 16 dicembre 1992, giorno successivo al primo avviso di garanzia a Craxi: «Ha perso la sua partita, indipendentemente da quella che sarà la sentenza dei giudici». Comunicato della Lega Nord, stesso giorno: «L'avviso a Craxi cessa di essere un fatto politico e diventa solo uno squallido episodio di cronaca nera». Achille Occhetto sulla Repubblica, stesso giorno: «Siamo alla fine del regime ». Francesco Rutelli su Repubblica del 2 dicembre 1993: «Voglio vedere Craxi consumare il rancio nelle patrie galere». Vittorio Feltri sull'Indipendente del 9 gennaio 1993: «Se è vero che anche un politico è innocente fino a prova contraria, è anche vero che questa vicenda non è un giallo e non si tratta di aspettare l'ultimo capitolo per capire chi è l'assassino». Strofa della canzone «Hammamet» cantata dal comico Paolo Rossi nel 1993: «Oh Hammamet, e la prigione mia più bella sei tu. Silvio consentimi... che prima o poi, vedrai, ci vieni anche tu». Umberto Bossi, 26 luglio 1993, mesi prima che Craxi lasciasse l'Italia: «Quando scoppiano le rivoluzioni, i re non sono mai destinati alla galera. Salgono sulla ghigliottina o muoiono in esilio. Craxi ha già scelto l'esilio». Bettino Craxi, 29 dicembre 1992: «Mi hanno già seppellito. Meno male che ho fatto i buchi nella bara e continuo a respirare. I nervi sono saldi, è del cuore che non mi fido».

2 - QUEI RAMPANTI AL POTERE - SOLO ORA SI COMINCIA A INTRAVEDERE COME I VIZI DELL´ERA DI CRAXI FOSSERO L´ALTRA FACCIA DELLE SUE VIRTÙ, scrive Filippo Ceccarelli per "la Repubblica". Per farsi un´idea del craxismo cogliendolo ai suoi albori, primavera 1981, congresso di Palermo, gigantesco garofano collocato da Panseca in cima al monte Pellegrino, primitivi giubbotti, embrioni di belle donne e di piduisti in platea, proto religione garibaldina e anticipo di culto della personalità del leader, semi-plebiscitato con opportune forzature carismatiche... Insomma: per capire quello che a quei tempi ancora non si chiamava craxismo occorre forse ricordare il pallore e la misoginia dei dorotei; così come si deve ripescare, sempre dai cassetti della memoria, l´espressione arcigna con cui nella nomenklatura comunista era accolto qualsiasi accenno al nuovo segretario socialista e ai suoi "rampanti" seguaci. Ecco. Senza le curiali mollezze democristiane e la grigia severità in vigore a Botteghe Oscure l´avventura dei craxiani sarebbe stata certamente più noiosa. Mentre invece - sia detto qui senza alcuna malignità - se la spassarono così alla grande che nessuno di loro oggi ammetterà mai di aver sbagliato. Quattrini, certo, ché in politica sono indispensabili. Ma anche balli, canti, letti, avventurieri, nobildonne, ambasciatori, zoccole, viaggi esotici, pranzi con l´Avvocato, vita d´albergo, gli asciugamani per terra, le briciole sul divano. E poi le terrazze, le griffe, il salotto di Adelina Tattilo, la Gbr di Ania Pieroni, il libro sulle discoteche del ministro De Michelis, la villa sull´Appia antica ribattezzato da Martelli "I giardini di Politeia", i casali nelle terre di Ghino di Tacco. A un certo punto si comprarono pure un cinema, il Belsito, per farne il loro tempio: è ancora lì, abbandonato. Fu una scommessa durata appena dieci anni e solo ora si comincia a intravedere come i vizi del craxismo fossero l´altra faccia delle sue virtù. Non c´entrano né il whisky, né il poker, né i primissimi lifting. È che questi irriconoscibili socialisti fecero scandalo, ruppero piatti, seppellirono la falce e martello e tagliarono la barba al profeta, cioè a Marx, per qualche mese intestandosi un Proudhon che quasi nessuno di loro aveva letto. E nel frattempo tolsero un certo numero di Casse di Risparmio alla Dc. Nel 1977 alcuni di loro continuarono a civettare con l´estremismo e anche con l´autonomia; però l´anno seguente, di punto in bianco, si misero in testa di salvare Moro; quindi fecero di tutto per segnalarsi al di là dell´oceano, erano gli anni di Reagan, offrendosi come alternativa possibile a quei conigli dei loro alleati e concorrenti democristiani. A quel punto il craxismo, misurato secondo i parametri delle già declinanti culture politiche, fece l´effetto della televisione a colori rispetto al vecchio bianco e nero. Come sia andata a finire dopo l´epopea di Palazzo Chigi lo sanno tutti: malissimo, con il vecchio e glorioso Psi cancellato dal paesaggio. Forse non fu solo Mani Pulite. Sta di fatto che il centenario venne drammaticamente ricordato fra prestanomi, fughe, voltafaccia, monetine, fratricidi, carcere, esilio - o latitanza che sia. E però. Alla sconfitta politica, che ai vecchi padri sarebbe sembrata rovinosa ed esemplare, corrisponde una vittoria che con le dovute cautele e senza nemmeno troppa ironia si potrebbe designare come "morale". E che magari se ne sta nascosta dietro l´ambigua retorica della "modernizzazione": nel senso che il craxismo, la sua gloria lampo e ritardata, hanno anticipato il presente. Concezione del comando e della politica, fiducia cieca nella comunicazione, ansia di vitalismo e conseguente stile di vita. Incertezza, infine, del futuro. Primum vivere, diceva del resto Craxi, ed era implicito che si viveva una volta sola. (Anche per questo è vano rimpiangere sia il latte bevuto che quello versato).

Io che azzannai il Cinghialone e non vidi gli orrori dei giudici. Vittorio Feltri ricorda la caduta dell'uomo politico socialista. Confessa la propria disillusione e smaschera le inchieste a senso unico. Per gentile concessione dell'editore, pubblichiamo uno stralcio della prefazione di Vittorio Feltri al libro di Nicolò Amato Bettino Craxi, dunque colpevole (Rubbettino, pagg. 346, euro 16) che rievoca la vicenda giudiziaria del leader socialista, ma - come scrive l'autore (magistrato, ex direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria) - «senza riaprire le vecchie polemiche, bensì proponendo una riflessione serena: ora che i Tribunali degli uomini hanno esaurito il loro compito, sia il Tribunale della Storia a esprimere un giudizio obiettivo». Dico subito grazie a Nicolò Amato. È uno che ha rischiato la pelle da magistrato, con le sue indagini sul terrorismo, poi come campo del Dap (Direzione amministrazione penitenziaria); quindi ha rischiato la pelle e le palle quando da avvocato ha assunto la difesa del nemico Numero 1 (lui: Bettino), senza mai smettere di palesarsi anzitutto suo amico. E perciò pagando il prezzo dell'isolamento e dell'esclusione da quei mondi cui apparteneva: la magistratura e la sinistra. Memorabile e istruttivo l'episodio di fine 1993 rievocato nel libro, allorché Francesco Rutelli, candidato vincente a sindaco di Roma, gli pose l'aut aut: se difendi ancora Craxi, non farai l'assessore a Roma. C'est la vie. Soprattutto: c'est l'Italie. Poteva dire, italianissimamente: tengo famiglia. Scelse l'amico. Per fortuna c'è chi interpreta vita e Italia come Amato (Nicolò, non Giuliano, che apprendo essere stato oggetto di un'opera d'arte di Craxi dal titolo Becchino. E non penso fosse satira). Uno dice: ma Feltri come può c'entrare con un libro che sin dal titolo mostra la convinzione dell'autore? E cioè: Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in partenza non per dei fatti criminali o perché si fosse accertato un reato, ma perché sì, perché era lui, era Bettino, aveva messo in crisi l'apparato di potere della sinistra e della magistratura, per di più pretendeva che la vera sinistra fosse il suo socialismo autonomista e non quella orfana dell'Urss, un attrezzo occidentale di tipo socialdemocratico. Era Bettino e dunque colpevole, non solo perché aveva idee diverse e pericolose per le caste rosse, ma perché era semplicemente Bettino, una cosa unica come unici sono tutti gli uomini, ma lui di più. Era fatto di una pasta da capro espiatorio ideale, gigantesco, un ariete perfetto da veder ruzzolare a terra dopo la sua inutile carica, e sgozzarlo felici. Esagero con le immagini truculente, ed è un modo anche questo per espiare il fio, introducendomi a meditare in che razza di compagnia mi fossi infilato dandogli addosso, diventando uno della banda di babbuini digrignanti e ridenti intorno al Bestione. È arcinoto. Ho partecipato alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo a fianco di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedicato i titoli più carogna della mia vita professionale al tempo dell'Indipendente. Del resto Bettino non fece nulla per sottrarsi ai colpi. Incurante di essere considerato il simbolo della politica ladra e corrotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sarcasmi. Ho sbagliato. Non scriverei più festosamente davanti alla «rivolta popolare» che accolse Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall'hotel Raphaël a un passo da piazza Navona.
Mi sento definito da quanto scrive Nicolò Amato a proposito dei magistrati di Milano: «Hanno fatto errori, ma in buona fede». I giudici non so, di certo alcuni non sono stati in buona fede quando hanno salvato i compagni del Pci e della sinistra Dc. Io sì, ero convinto di quanto scrivevo e dicevo, ero in buona fede, ma peggio mi sento. Non sono stato cinico, ma cieco. Perché avrei dovuto alzare lo sguardo. Mettere a frutto l'esperienza acquisita quando seguendo il processo contro Enzo Tortora mi accorsi della parzialità dei Pm e delle loro trombe giornalistiche e denunciai l'infamia. Nel caso di Craxi non vidi. Non avrei dovuto fidarmi di chi, con la scusa di ripulire il mondo dai mascalzoni, prenotava la propria statua del condottiero a cavallo. Se avessi fatto lavorare come si deve i miei cronisti, o anche solo applicato l'intuito, avrei accertato che il «popolo» delle monetine a Craxi era in gran parte costituito da militanti i quali stavano un attimo prima al comizio di Occhetto a piazza Navona. Avrei dovuto sospettare e denunciare subito come sarebbe finita. Un repulisti che salvava i peggiori, che oltre alle tangenti si erano divorati i rubli. Quando finivano in carcere i tesorieri sconosciuti e le mani lunghe del Pci, ma i capi mai, ci limitavamo a credere che fosse per la razza dei compagni, usi obbedir tacendo e tacendo morir, eroici come Salvo D'Acquisto. A tal punto funziona la sudditanza psicologica in questa provincia dell'Impero. Balle. Craxi non poteva non sapere, mentre per i compagni vigeva un'altra legge, fu applicata loro l'immunità della Santa Ignoranza, i leader rossi sono immacolati avendo lo sguardo perso verso il sol dell'avvenir. Altro che uguaglianza e imparzialità della giustizia. Gli Occhetto, i D'Alema furono solo sfiorati a Milano da una Pm, Tiziana Parenti, subito trattata da colleghi e stampa come una scema. Risultato: Craxi, Forlani, Gava, Darida, Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, persino Sterpa, La Malfa e Bossi conobbero l'onta o del carcere o dei processi. I compagni di grosso calibro, mai, solo i manutengoli. Mi fidai delle promesse di Di Pietro, il quale assicurò che avrebbe provveduto anche a sinistra. Non feci bene tutto il mio mestiere. Ne interpretai solo una parte: il fiuto. Percepivo nell'aria il crollo del sistema, la voglia della gente comune di allestire tante belle pire in tante piazze per eliminare tra fiamme purificatrici una classe politica che allegramente aveva caricato l'Italia di un enorme debito pubblico, e invece di rimediare rubava non solo per i partiti ma anche ai partiti medesimi. Colpa grave di un politico è non capire cosa agita il sentimento dei cittadini. Questo non significa che per forza si debba massaggiare la pancia della marmaglia, ma prendere le contromisure sì. Invece anche Craxi non capì. Si arroccò. Questo ti rimprovero tuttora Bettino, se mi ascolti, ma non credo (a differenza tua, che sul finire della vita, tra le palme da dattero scrivesti preghiere anche in arabo a Dio, io resto per ora ateo). Un grande politico come te, come fece a non capire? Stavi troppo lontano dalla gente, frequentavi solo la tua corte. Hai fatto grandi cose, mettendo alla frusta i democristiani delle Magna Grecia, impedendo il compromesso storico, abbattendo la scala mobile che ci avrebbe condotto a un fallimento argentino già negli anni Ottanta, ti sei agitato come un leone ferito quanto i comunisti ti hanno ucciso l'amico Walter Tobagi e gli assassini comunisti dopo un battere di ciglia sono stati mandati in libertà. Ma non hai capito niente delle forche che si stavano preparando per te. E ti chi hanno appeso. Un po' per colpa di una magistratura strabica e pervenuta, ma anche per l'indignazione popolare mossa dai latrocini e dall'illegalità diffusa. Quando si sentiva odore di politica somigliava a quello della fogna, e il fiore che vi galleggiava pasciuto era il garofano. Come hai potuto lasciar fare? Il tuo discorso potente del luglio del 1992, quanto chiamasti a correi tutti i deputati presenti a Montecitorio per il finanziamento illecito alla politica, e insaponasti così la corda della tua impiccagione, nasconde un'imperdonabile colpa di omissione. Bettino, sei stato presidente del Consiglio. Non avevi da far altro che proporre norme per dare trasparenza ai finanziamenti, legalizzandoli. Invece ti sei limitato ad acconsentire a un'amnistia sul tema, in data 1989, con risultato di rendere candido come la neve il torrente insanguinato dei rubli del gulag, finito nei forzieri comunisti. Complimenti. Sono sarcastico anche se sei defunto. Ma te lo devo, per l'affetto che col tempo ho maturato per te, Bettino. Come scrive Nicolò Amato citando Voltaire: «Ai vivi si devono riguardi; ai morti di deve soltanto la verità». Non ho rispettato ai tempi la prima parte di questa massima liberale. È anche questa una verità che devo al morto. Come si sarà notato, mi sono battuto il petto, senza esagerare, sono vecchio, per il mea culpa. Questo non mi risparmierà l'esibizione dei campioni dello sport più facile e stupido dopo il curling: quello di mettere in paragone i giudizi di ieri con quelli di oggi, deducendo l'incoerenza dell'autore. La quale incoerenza viene attribuita alla vendita se non della propria anima, almeno del deretano. Amen. Non citerò la solita frase secondo cui solo i cretini non cambiano idea. Io non ho cambiato idea. Ho semplicemente aperto gli occhi. Detesto come e più di prima i ladri di ogni provenienza, destra o sinistra o centro. Non che mi ritenga superiore, semplicemente più che la forza dei precetti morali in funzione la paura dei carabinieri. Un attimo dopo però, quanto Bettino rimase ferito, costretto alla latitanza, che per uomini come lui giustamente si chiama esilio, e fu consegnato al dileggio da gente che aveva tasche e coscienze grondanti di moneta sovietica, rinunziai a bastonare lo sconfitto. Nel 1999, gli ultimi mesi della sua vita, cercai di muovere la politica italiana perché gli concedesse la grazia, o almeno la possibilità di curarsi in Italia. Chiesi a Giulio Andreotti di scrivere sul tema per il Quotidiano Nazionale che allora dirigevo. Lo fece di buon grado. Chiese la grazia e usò parole nobili per l'antico avversario, che di lui aveva sentenziato: le volpi finiscono in pellicceria. Non arrivò nulla di nulla dal Quirinale, solo ipocrisia.

Vittorio Feltri ricorda la caduta di Bettino Craxi. Confessa la propria disillusione e smaschera le inchieste a senso unico. (…) Uno dice: ma Feltri come può c’entrare con un libro che sin dal titolo mostra la convinzione dell’autore? E cioè: Craxi era un colpevole predestinato, odiato e dunque condannato in parten­za non per dei fatti criminali o perché si fosse accertato un rea­to, ma perché sì, perché era lui, era Bettino, aveva messo in crisi l’apparato di potere della sini­stra e della magistratura, per di più pretendeva che la vera sini­stra­ fosse il suo socialismo auto­nomista e non quella orfana del­l’Urss, un attrezzo occidentale di tipo socialdemocratico. Era Bettino e dunque colpevole, non solo perché aveva idee di­verse e pericolose per le caste rosse, ma perché era semplice­mente Bettino, una cosa unica come unici sono tutti gli uomi­ni, ma lui di più. Era fatto di una pasta da capro espiatorio idea­le, gigantesco, un ariete perfetto da veder ruzzolare a terra dopo la sua inutile carica, e sgozzarlo felici. Esagero con le immagini tru­culente, ed è un modo anche questo per espiare il fio, introdu­cendomi a meditare in che raz­za di compagnia mi fossi infilato dandogli addosso, diventando uno della banda di babbuini di­grignanti e ridenti intorno al Be­stione. È arcinoto. Ho partecipa­to alla battuta di caccia al Cinghialone. Nel 1992 stavo a fian­co di Antonio Di Pietro e di altre toghe. A Bettino Craxi ho dedica­to i titoli più carogna della mia vi­ta professionale al tempo del­l’Indipendente .Del resto Bettino non fece nul­la per sottrarsi ai colpi. Incuran­te di essere considerato il sim­bolo della politica ladra e cor­rotta, circondato da ometti che non facevano nemmeno lo sforzo di togliersi la giacca da gangster, non smetteva di ergersi senza ripararsi. Non schivava i colpi, e io pensavo fosse alterigia: quindi via con le ironie, le indignazioni e i sar­casmi. Ho sbagliato. Non scrive­rei più festosamente davanti al­la «rivolta popolare» che accol­se Bettino la sera del 30 aprile del 1993 fuori dall’hotel Raphaël a un passo da piazza Na­vona. Mi sento definito da quanto scrive Nicolò Amato a proposito dei magistrati di Milano: «Han­no fatto errori, ma in buona fe­de ». I giudici non so, di certo al­cuni non sono stati in buona fe­de quando hanno salvato i com­pagni del Pci e della sinistra Dc. Io sì, ero convinto di quanto scri­vevo e dicevo, ero in buona fede, ma peggio mi sento. Non sono stato cinico, ma cieco. Perché avrei dovuto alzare lo sguardo. Mettere a frutto l’esperienza ac­quisita quando se­guendo il pro­cesso contro Enzo Tortora mi ac­corsi della parzialità dei Pm e delle loro trombe giornalistiche e denunciai l’infamia. Nel caso di Craxi non vidi. Non avrei do­vuto fidarmi di chi, con la scusa di ripulire il mondo dai mascal­zoni, prenotava la propria sta­tua del condottiero a cavallo. Se avessi fatto lavorare come si deve i miei cronisti, o anche so­lo applicato l’intuito, avrei ac­certato che il «popolo»delle mo­netine a Craxi era in gran parte costituito da militanti i quali sta­vano un attimo prima al comi­zio di Occhetto a piazza Navo­na. Avrei dovuto sospettare e de­nunciare subito come sarebbe finita. Un repulisti che salvava i peggiori, che oltre alle tangenti si erano divorati i rubli. Quando finivano in carcere i tesorieri sco­nosciuti e le mani lunghe del Pci, ma i capi mai, ci limitavamo a credere che fosse per la razza dei compagni, usi obbedir ta­cendo e tacendo morir, eroici co­me Salvo D’Acquisto. A tal pun­to funziona la sudditanza psico­logica in questa provincia del­l’Impero. Balle. Craxi non pote­va non sapere, mentre per i com­pagni vigeva un’altra legge, fu applicata loro l’immunità della Santa Ignoranza, i lea­der rossi sono im­macolati aven­do lo sguar­do perso verso il sol del­l’av­venir. Altro che uguaglianza e impar­zialità della giustizia. Gli Occhet­to, i D’Alema furono solo sfiora­ti a Milano da una Pm, Tiziana Parenti, subito trattata da colle­ghi e stampa come una scema. Risultato: Craxi, Forlani, Gava, Darida, Pomicino, De Lorenzo, De Michelis, persino Sterpa, La Malfa e Bossi conobbero l’onta o del carcere o dei processi. I compagni di grosso calibro, mai, solo i manutengoli. Mi fidai delle promesse di Di Pietro, il quale assi­curò c­he avreb­be provvedu­to anche a sinistra. N o n feci bene tutto il mio mestiere. Ne in­terpretai solo una parte: il fiuto. Percepivo nell’aria il crollo del sistema, la voglia della gente co­mune di allestire tante belle pire in tante piazze per eliminare tra fiamme purificatrici una classe politica che allegramente aveva caricato l’Italia di un enorme de­bito pubblico, e invece di rime­di­are rubava non solo per i parti­ti ma anche ai partiti medesimi. Colpa grave di un politico è non capire cosa agita il sentimento dei cittadini. Questo non signifi­ca che per f­orza si debba massag­giare la pancia della marmaglia, ma prendere le contromisure sì. Invece anche Craxi non capì. Si arroccò. Questo ti rimprovero tuttora Bettino, se mi ascolti, ma non credo (a differenza tua, che sul finire della vita, tra le palme da dattero scrivesti preghiere anche in arabo a Dio, io resto per ora ateo). Un grande politi­co come te, come fece a non capi­re? Stavi troppo lontano dalla gente, frequentavi solo la tua corte. Hai fatto grandi cose, met­tendo alla frusta i democristiani delle Magna Grecia, impeden­do il compromesso storico, ab­battendo la scala mobile che ci avrebbe condotto a un fallimen­to­ argentino già negli anni Ottan­ta, ti sei agitato come un leone fe­rito quanto i comunisti ti hanno ucciso l’amico Walter Tobagi e gli assassini comunisti dopo un battere di ciglia sono stati man­dati in libertà. Ma non hai capito niente delle forche che si stava­no preparando per te. E ti chi hanno appeso. Un po’ per colpa di una magistratura strabica e pervenuta,ma anche per l’indi­gn­azione popolare mossa dai la­trocini e dall’illegalità diffusa. Quando si sentiva odore di poli­ti­ca somigliava a quello della fo­gna, e il fiore che vi galleggiava pasciuto era il garofano. Come hai potuto lasciar fare? Il tuo discorso potente del lu­glio del 1992, quanto chiamasti a correi tutti i deputati presenti a Montecitorio per il finanzia­mento illecito alla politica, e in­saponasti così la corda della tua impiccagione,nasconde un’im­perdonabile colpa di omissio­ne. Bettino, sei stato presidente del Consiglio. Non avevi da far al­tro che proporre norme per dare trasparenza ai fi­nanziamenti, le­galizzandoli. In­vece ti sei limita­to ad acconsenti­re a un’amnistia sul tema, in data 1989, con risulta­to di rendere can­dido come la ne­ve il torrente in­sanguinato dei rubli del gulag, fi­nito nei forzieri comunisti. Com­plimenti. Sono sarcastico anche se sei defunto. Ma te lo devo, per l’affetto che col tempo ho maturato per te, Bettino. Come scrive Nicolò Amato citando Voltaire: «Ai vivi si devono riguardi; ai morti di de­ve soltanto la verità». Non ho ri­spettato ai tempi la prima parte di questa massima liberale. È an­che questa una verità che devo al morto (…).

IL NUOVO CHE AVANZA.

 “Io e Marco (Travaglio) siamo stati tenaci. C’è stato un periodo in cui eravamo soli contro tutti, guardati male anche all’interno dei nostri giornali perché eravamo quelli sommersi dalla querele dei potenti e di Berlusconi in particolare“. Lo rivela Peter Gomez in un ritratto a tutto tondo reso ad Andrea Scanzi nel suo programma “Reputescion”, in onda su La3, scrive Gisella Ruccia. “Eravamo visti come dei pazzi che scrivevano libri” – continua il direttore de ilfattoquotidiano.it – “e venivamo accusati da destra e da sinistra di essere dei giustizialisti. Poi le cose sono cambiate”. Gomez nega la definizione di “house organ di Beppe Grillo” affibbiata al “Il Fatto Quotidiano”: “A differenza di altri, noi non attacchiamo Grillo a prescindere. Tutte le notizie negative sul Movimento 5 Stelle o il 90% di queste sono state date in anteprima dal fattoquotidiano.it”. E cita qualche esempio: “Dal caso Tavolazzi ai referendum sulla democrazia interna al M5S fino alla decisione di Beppe di mettere sul suo blog in maniera piuttosto maleducata il mio indirizzo email privato, sperando in un mail-bombing che poi non ci fu”. A Scanzi che gli chiede se Il Fatto sopravviverà a un’uscita di Berlusconi dalla scena politica risponde: “È scientificamente dimostrato, ci siamo occupati talmente tanto degli altri, siamo abbastanza bravi ad occuparci di tutti per cui il pubblico è in grado di accorgersene. La nostra differenza” – continua – “è che non abbiamo né padrini né padroni, L’unico modo per vendere i giornali e far frequentare i siti internet è avere le notizie. E finchè avremo le notizie, noi vivremo”. Gomez poi esprime il suo personale giudizio sui alcuni colleghi: “Santoro è un fuoriclasse, come Maradona: il più bravo di tutti. Formigli ha tanto talento, le sue ultime trasmissioni, in particolare quest’anno, sono giornalisticamente perfette, però non è Maradona. Marco Travaglio è una rockstar del giornalismo. Calcisticamente è Messi. Io sono Oriali”. E su Alessandro Sallusti svela: “E’ come Darth Fenner, l’ho conosciuto sulla strada, era uno dei più bravi cronisti che ci fossero in circolazione. Poi ha conosciuto il Lato Oscuro della Forza e si è fatto riprendere. Con Vittorio Feltri” – continua – “ho buoni rapporti. Ma entrambi hanno fatto delle scelte che sono in antitesi con il giornalismo. Sono dei grandi professionisti, Feltri è bravo a vendere i giornali, ma il giornalismo non è vendere i giornali”.

Ma proprio dal Fatto “Quotidiano arriva uni scoop: Oggi fanno i moralisti, ma ecco cosa facevano Peter Gomez e Marco Travaglio solo pochi anni fa: un filmato in Rete dimostra in maniera inequivocabile la militanza dei due cronisti fra le file di Forza Italia. Il Fatto Quotidiano non esisteva ancora e Silvio Berlusconi, come ama ripetere Daniela Santanchè, non era il loro “core business” come oggi. Ma questo video, complice la band milanese Elio e le storie tese, getta una luce inquietante sul passato del direttore del sito e del vicedirettore del giornale. Che siano sempre stati tutti d’accordo? Altro che larghe intese, altro che inciucio, Travaglio, Gomez e Berlusconi sono stati protagonisti di una trattativa ancora più indecente di quella fra lo Stato e la mafia. La redazione del fattoquotidiano.it è entrata in stato di agitazione.

Ho cominciato la mia carriera di giornalista come cronista giudiziario all'Avanti! di Milano nei primi anni Settanta, scrive Massimo Fini. Ogni giorno vedevo passare nei grandi androni del Palazzo di Giustizia non solo qualcuno in manette ma file di detenuti tenuti insieme dagli "schiavettoni" e da catene sferraglianti come dei deportati alla Cajenna. Ogni tanto quando c'era un delitto particolarmente importante, in genere rapine perché allora la classe dirigente non si era ancora così corrotta come sarebbe stato negli anni Ottanta e dimostrato nei Novanta con le inchieste di Mani Pulite, arrivavano, oltre ai fotografi, anche le Televisioni. Da neofita me ne stupivo. Non tanto delle manette, che soprattutto nei trasferimenti di più detenuti sono necessarie, ma dell'esposizione pubblica di queste persone, senza alcun rispetto, senza ritegno, senza protezione (anche quando non ci sono le tv non deve essere piacevole farsi vedere in manette dalle centinaia di persone che transitano ad ogni ora in un grande Palazzo di Giustizia qual è quello di Milano) ma allora nessuno sembrava curarsene, tantomeno i politici e gli opinionisti. In fondo la cosa non riguardava che degli stracci. Il 4 marzo del 1993, in piena Mani Pulite, ci fu l'episodio di Enzo Carra, l'ex portavoce di Forlani, fotografato in manette. I più feroci furono Bibì e Bibò, alias Vittorio Feltri e Maurizio Belpietro, direttore e vicedirettore dell'Indipendente, che spararono la foto in testa alla prima pagina, ingrandendola il più possibile e indicando Carra al ludibrio della folla inferocita di quei giorni. Il più pietoso fu il "giustizialista" Antonio Di Pietro, ai tempi pubblico ministero, che ordinò agli agenti penitenziari di togliere immediatamente le manette a Carra. Del resto allora Bibì e Bibò erano dei forcaioli assatanati, sarebbero diventati dei "garantisti" a 24 carati quando passarono nella scuderia di Silvio Berlusconi. Se la prendevano anche coi figli degli imputati. Per esempio quelli di Craxi. Toccò a me scrivere sull'Indipendente una lettera aperta a Vittorio ("Caro direttore, ti sbagli su Stefania Craxi", 11/5/1993) ricordandogli che i figli non hanno i meriti ma neanche le colpe dei padri. Così come toccò a me, nel momento della caduta, mentre una legione di improvvisati fiocinatori si accaniva sulla balena ferita a morte, scrivere, sempre sull'Indipendente, un articolo intitolato "Vi racconto il lato buono di Bettino" (17/12/92), in cui, benché tempo prima Craxi mi avesse definito, nientemeno che dagli Stati Uniti dov'era in visita, "un giornalista ignobile che scrive cose ignobili", ricordavo che oltre all'uomo sfigurato, sconciato che vedevamo, con orrore, in quei giorni drammatici, ce n'era stato anche un altro che aveva suscitato speranze in molti. Passata la stagione euforica di Mani Pulite, l'immagine di Enzo Carra in manette è passata alla storia come l'emblema della "gogna mediatica" che non avrebbe dovuto ripetersi mai più (come dopo il "caso Valpreda" si giurò che mai più nessuno sarebbe stato chiamato "mostro"). Il Garante della privacy emanò alcune regole di comportamento per i media e parve affermarsi una maggior sensibilità per il rispetto della dignità dei detenuti. Ma solo per alcuni. Lo dice il recente episodio che ha visto protagonista Fabio De Santis, l'ex provveditore alle Opere pubbliche toscane, uomo di fiducia di Angelo Balducci, insomma uno della "cricca". Con un cellulare De Santis è stato portato in manette, come gli altri quattro detenuti che erano con lui (due spacciatori di droga, un ladro, un rapinatore) dal carcere fiorentino di Sollicciano al Tribunale del Riesame. Quando è sceso dal cellulare De Santis ha dovuto percorrere una ventina di metri sotto l'occhio delle telecamere. Solo due telegiornali però hanno mandato in onda quella scena. La giustificazione più farsesca e farisaica è stata quella di Mauro Orfeo, direttore del Tg2: "Volevamo denunciare una gogna che ricorda certe immagini di Mani Pulite". Denunciava la gogna mentre lo stava mettendo alla gogna. Il Garante della privacy è intervenuto, molti politici e opinionisti si sono indignati. Molto giusto. Ma nessun Garante della privacy ha battuto ciglio e nessun politico si è indignato, nessun opinionista ha alzato il dito quando tutti i telegiornali, solo per fare, fra i tanti possibili, l'esempio ricordato ieri da Travaglio, mostrarono, con evidente compiacimento, le immagini di tre rumeni in manette accusati di stupro (e poi assolti). Molti politici, in particolare donne, dichiararono: "Per questi soggetti ci deve essere la galera subito e poi, processo o non processo, buttare via la chiave". Che cosa significa tutto ciò? Che si sta sempre più affermando in Italia un doppio diritto, di tipo feudale e peggio che feudale. Quello per i "colletti bianchi", per i vip, per "lorsignori", che oltre ad essersi inzeppati il Codice di procedura penale di leggi talmente "garantiste" da rendere quasi impossibile l'accertamento dei reati loro propri (fra poco non potranno nemmeno essere intercettati se non con mille limitazioni - parlo dei limiti posti alle indagini della polizia giudiziaria e della magistratura, non di quelli, a mio parere sacrosanti, alla loro divulgazione), van sempre trattati con i guanti. Per tutti gli altri, per coloro che commettono reati da strada, che sono quelli dei poveracci, non vale nemmeno la presunzione di innocenza. C'è la "tolleranza zero". Ma questa è la vecchia, cara e infame giustizia di classe.

Giorni a sentire di quanto è legittima la protesta della piazza, settimane a ripetere ossessivamente che anche le gente che manifesta ha le sue ragioni… e poi? E poi alla prova dei fatti tutto s’è concluso con una manciata di manifestanti che non sapevano neppure quel che volevano sullo sfondo di una Piazza Plebiscito vuota, scrive Conte Zero su “Il Movimento dei Caproni”. Secondo la questura (cito i dati riportati da Repubblica) in piazza sono circa tremila persone: per loro lo stato ha stanziato duemila agenti, in pratica ogni manifestante avrà il suo poliziotto personale. A pensarci ora viene da ridere… nel passato le proteste in Italia (ed in Italia si manifesta con una certa regolarità) sono state ben più consistenti eppure mai s’è dato così tanto peso a questo genere d’operazioni, anzi spesso e volentieri gli organizzatori si sono seccati perché le loro proteste non hanno avuto risalto mediatico mentre in questo caso c’è stata più ribalta che fatto in sé. Questa volta sembra che i giornali ed i giornalisti non avessero altro di cui discutere. Eminenti politologi, commentatori politici, talk show e tribune politiche hanno fatto a gara per accaparrarsi almeno un “forcone” da esporre e far parlare. Ovunque era il festival del “alla fine anche loro hanno le loro ragioni”… una specie di messa quotidiana in cui, girando da un canale all’altro (o da un giornale all’altro) la litania era sempre la stessa : “la gente non ce la fa più”. Andiamo ai fatti: quanti erano? Perché quando i sindacati manifestavano per motivi oggettivamente più sensati non se li filava nessuno mentre qui tizi come Calvani hanno collezionato apparizioni in TV in cui hanno ribadito fino alla nausea luoghi comuni ed ovvietà misti a discorsi che non stanno né in cielo né in terra ?

Possibile che nessuna trasmissione (da Agorà a La gabbia) si sia accorta di quanto sconclusionati, vacui ed approssimativi sono questi manifestanti e le “idee” (ma c’erano delle idee ?) che portavano avanti ? Possibile che nessuno si sia accorto che questi qua non se li filava nessuno ? Nessuno ha visto che quelli fermati per il volantinaggio tutto volevano tranne che “fraternizzare”? Il discorso va fatto seriamente perché il problema non sono solo i forconi in sé, nel computo ci sono anche e soprattutto i media che hanno provato a “montarli” come fossero qualcosa di serio e sensato (fallendo miseramente per questioni di scarsità del materiale umano). Probabilmente è credibile che qualcuno, preso alla sprovvista dall’emergere del “gentismo” (populismo becero) ora ecceda nel senso opposto ma il grosso dell’informazione non può cavarsela così a buon mercato. Qualcuno ha provato a manipolare l’opinione pubblica per far crescere l’idea del forcone, per creare il caso e per alimentare l’idea che il malessere sia diffuso e che ci fosse il rischio di ribellismo (cit.Alfano). Qualcuno voleva che i forconi fossero rilevanti ed ha provato a gonfiarli per sfruttarli per i propri fini. “Chi” possiamo immaginarlo, ma a questo punto il “chi” non ha alcuna importanza. La rivelazione, di un certo peso, è che oramai la TV non è più in grado d’incanalare e legittimare alcunché (con buona pace di quelli che ci vanno per sponsorizzare i propri referenti), oggi in pochi hanno fiducia nel messaggio televisivo e se è vero che molti ascoltano la TV è altrettanto vero che sempre meno gente è disposta ad accettare passivamente notizie ed opinioni, con buona pace di tribune politiche e talk show in cui eminenti nulla a gettone presenza vengono invitati per dare la loro inutile opinione sulle cose (nella speranza che l’elettore “fidelizzato” riconosca il membro del suo “branco” e copi il messaggio). Ci siamo francamente stufati dei vari Cacciari, degli Emiliano, dei Feltri, dei Belpietro, dei Travaglio, dei Gomez e dei Panebianco che ci dicono cosa pensano di ogni argomento dello scibile umano anche quando, è evidente oggi, ne sanno ancora meno di noi e toppano clamorosamente nel percepire gli umori ed i sentimenti della gente. Se non sono bravi neanche a rendersi conto di cosa pensa e cosa vuole l’italiano allora che senso hanno ? a chi si rivolgono sui loro giornali e nelle trasmissioni se non riescono neppure a percepire il vero stato del paese, le sue necessità, i suoi bisogni e quel che realmente pensa? La domanda sorge spontanea… erano lì a cercare d’interpretare l’opinione pubblica o cercavano di dare loro, al pubblico, un opinione che la gente avrebbe dovuto far propria? Voglio dire… io quando sentivo la signora che dice “non ce la si fa più, troppe tasse. devono andare tutti a casa, vogliamo eleggere gente pulita” lo capivo che ‘sta qua non sapeva manco di che parlava, perché non ci voleva molto ad accendere il cervello ed arrivare alla conclusione che chi sta in parlamento oggi è stato eletto da tutti (pure da lei) pochi mesi fa. Quando vedevo gente con la mimetica e lo stemmino dell’Italia (il tizio di Casapound andrebbe arrestato anche solo per le fesserie che ha osato dire indossando la bandiera del paese) che diceva “devono dimettersi, devono farsi processare, al loro posto dobbiamo metterci gente competente nei rispettivi campi” lo capivo anch’io che il tizio non aveva la benché minima idea del perché manifestava al di fuori del “annamo a menà”. Quando ho sentito la diretta TV con un tizio col megafono che se la prendeva con chi da i permessi per i parcheggi riservati ai disabili a chi disabile non è ho pensato pure io “si ma che c’azzecca ? (c) 1997 Antonio Di Pietro. Poi Calvani che parla dei cavoli suoi perché gli hanno pignorato l’impresa, quell’altro che “lavoravo. mi hanno licenziato, quindi lo stato deve dimettersi perché nessuno ci tutela”, l’inno italiano a sproposito, la bandiera italiana (poverina) trascinata suo malgrado in questa pagliacciata… troppo per una persona mentalmente normodotata. Ma dico io… non s’è accorto nessuno che questi hanno la lucidità mentale di un pesce rosso che nuota nell’olio d’oppio? Possibile che la massima parte di giornalisti, opinionisti, politologi e politici si sia fatta prendere per il naso per giorni mentre io dal basso delle mie basse capacità mentali ho subito subodorato che si trattava solo di una palese azione fatta per far casino e montata ad arte. Voglio dire, io sono un semplice cittadino seduto davanti al PC, loro (politologi, esperti televisivi e via dicendo) no, loro sono PAGATI con gettoni presenza, percepiscono lauti stipendi per scrivere su giornali a tiratura nazionale, hanno trasmissioni in prima serata e si fregiano continuamente d’avere il polso del paese… questi in un giorno prendono cifre superiori al mio stipendio di un mese per andare in TV a SPIEGARCI le cose… e non sono in stati in grado di rendersi conto di quello che a me che sono un povero terrone era evidente fin dal primo giorno? Avessero un minimo di coraggio dovrebbero restituire tutti i gettoni presenza nei vari talk (e, nel caso dei conduttori, il loro stipendio) perché, manifestatamente, guadagnati ingiustamente. Questa sarebbe una giusta restituzione: ridate i soldi che si sono presi per ammorbarci (peraltro contro la nostra volontà) di notizie false e pareri del tutto sbagliati. Tuttavia non tutti hanno sbagliato in buona fede. La verità è che almeno qualcuno un po’su queste cose cerca di viverci, è il caso di referenti di certe “entità politiche” che si presentano a tutti gli spettacoli e, fingendo di commentare una manifestazione, recitano invece precise litanie tese a favorire i propri referenti: per anni, con Berlusconi al potere, qualcuno recitava “la crisi non esiste” o “la crisi ce la siamo lasciata alle spalle”, ora invece va di moda il “va tutto male” e si campa d’ingigantimenti. Ad esempio c’era Barbara Spinelli: Ora lo vediamo faccia a faccia: è l’insurrezione formidabile, generalizzata, di chi patisce ricette economiche che piagano anziché risanare.…come c’era Marco Travaglio: Governo e partiti fanno gli stupidi e gli indignati: dopo aver trasformato un popolo tranquillo e paziente, a volte rassegnato e disperato, in una polveriera pronta ad esplodere alla prima scintilla si meravigliano se centinaia di migliaia di cittadini protestano.…beh, erano 0.02 centinaia di migliaia, un insurrezione della magnitudo di quando alla sagra del cinghiale di Chianni finisce il cinghiale (mortacci loro!). Oh, ma non sono solo loro, loro sono solo quelli più rappresentativi, ma il fenomeno è più diffuso di quanto si pensi. Li abbiamo visti, in questi giorni, perdersi in profonde discussioni sul “questo governo ha fallito” (infatti è noto che se la gente se la passa male è solo per gli eventi dall’inizio del 2013 ad oggi, prima era “tutta salute”) al “la gente sta sempre peggio”, il tutto senza uno straccio d’analisi in merito, solo il trito e ritrito ripetere gli slogan (di plastica) delle piazze, un “se ne devono andare tutti a casa” che a sua volta è riciclato dal Movimento 5 Stelle, un partito di rivoluzionari con tendenze poltroniste. Non che i commentatori siano stati i soli, anche alcuni conduttori hanno provato a montare la cosa per guidare precisi attacchi (sempre agli stessi), ed i perché sono fin troppo evidenti e riassumibili in una sola parola: audience. Questa storia dei forconi ci dice molte cose, intanto che pochi disgraziati se vogliono possono fare molti più disagi di quanti non si creda, e che spesso le forze dell’ordine per tutelare il legittimo diritto alla protesta si scordano che ci sarebbero anche i diritti di chi protestare non vuole e c’ha sicuramente di meglio da fare, a dicembre inoltrato, che essere fermato in autostrada per ricevere un volantino da chi s’immagina i colonnelli al potere. La notizia principale è comunque quella che finalmente la TV non è più in grado di polarizzare e montare l’opinione pubblica: per giorni qualcuno ha cercato di spingere la gente in piazza a manifestare con un persistente innuendo di negatività e rilanci televisivi… e nonostante tutto in piazza non c’è voluto andare nessuno (fatta eccezione per alcuni centri sociali ed i soliti universitari trentacinquenni di sinistra che, provvidenzialmente, si sono presi le manganellate diligentemente schivate da quelli di Casapound: e questa volta se le sono cercate). Dall’alto delle foto di quella piazza vuota la gente ha parlato, non vogliono più essere manipolati dai mass media e dalla volontà di danneggiare questo o quel governo… specie quando queste azioni hanno lo stampo ed i modi dell’estrema destra: se c’è da fare politica fatela in parlamento, non rompete le scatole alla gente normale che ha una vita da portare avanti. Con gli eventi di questi giorni qualcuno dovrà accettare (con buona pace di chi campa di piazze e prove canotto) che la politica non si fa nelle strade ma nei palazzi, non con urli e slogan ma con proposte di legge, discussioni ed accordi… coi FATTI e non con le URLA. La pietra dei due milioni ed ottocentomila elettori alle primarie del PD è ancora lì, monito di come non è vero che la gente non è interessata alla politica, semplicemente non è interessata alle sceneggiate ed al casinismo fine a sé stesso. Per anni ci siamo fatti condizionare da una TV che imponeva argomenti del giorno, discussioni, posizioni e soluzioni, ora non funziona più; la gente famosa ed annoiata che discute di problemi del paese che non conoscono oramai ci suggerisce solo noia, ne abbiamo piene le scatole degli emicicli delle tribune politiche in cui i rappresentanti sono chiamati secondo logiche precise e siamo francamente stufi dei tribuni che parlano senza contraddittorio e dei giornalisti chiamati perché “in quota” a questo o quel partito. Perché sì, i giornalisti vengono chiamati su indicazione dei partiti, per cercare di mantenere una specie di “par condicio” nei talk… ora sapete perché giornali con tirature striminzite hanno sempre quattro o cinque giornalisti chiamati qua e là a fare bella mostra di sé (e, in certi casi, della propria chincaglieria): perché ufficiosamente chi fa i palinsesti chiama le figure deputate dei partiti e queste indicano chi invitare, giornalista o politico. Per cui ora che vi abbiamo scoperto ed abbiamo capito chi siete e cosa volete ci siamo immunizzati dalle vostre “opinioni” e dai vostri “ragionamenti”. C’è voluto un trentennio, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. A questo punto il problema è per chi ha pensato di poter continuare a dettare l’agenda (e guadagnare consenso) sfruttando TV e giornali perché non glielo lasceremo fare di nuovo. Abbiamo capito che i media (tutti i media, anche internet) non sono fonti della verità e che bisogna ragionare anziché farsi passare la verità infusa da questo o quell’opinionista: ora se volete il nostro interesse ed i nostri voti smettetela con questo circo itinerante di gente che cerca di dirci di cosa e come pensare ed iniziate a lavorare davvero e seriamente per il paese. Non che i forconi non abbiano aiutato a riconoscere la “sola”, uno che fosse credibile in TV o nei giornali non c’era, dal sufi del “respiro consapevole” a Calvani passando per il tizio in mimetica che parla in piazza di tribunali per i politici, viene il dubbio che in questa manifestazione (il cui vero leit motif era probabilmente “ridateci Berlusconi, è per il nostro interesse”) nessuno abbia voluto metterci la faccia col risultato che hanno dovuto mandare avanti gli impresentabili. Ora però la questione è chiusa, i forconi si sono estinti (e non ne sentiremo la mancanza) ed a piangerli rimangono solo quelli della jihad via web, i tantissimi urlatori da tastiera che in queste settimane sono stati lì a tifare rivolta. Chi sono ? Sono quelli che non riescono a convivere con la loro mediocrità, gente che per non accettare il fatto che questa è la vita continua a sperare (ed in alcuni casi a pregare) che fra poco ci sarà “l’evento” che farà tabula rasa di tutto (Grillo lo profetizzava come il default, i forconi come la rivolta, a loro va bene uno qualsiasi). Sono dei poveretti insoddisfatti che trovano sollievo dalla loro grama vita semplicemente scrivendo su internet, credendosi rivoluzionari da tastiera e precursori del nuovo ordine che profetizzano dietro l’angolo… convinti che essendo i primi a profetizzarlo saranno quelli che più godranno di un eventuale “rivoluzione”. Sono convinti che la normalità come la conosciamo stia per finire, un comodo escamotage per liberarsi di una quotidianità grigia ed insipida… e non si rendono conto che il mondo che li circonda è grigio e opprimente anche perché la maggior parte della loro vita è passata davanti ad una tastiera a leggere, scrivere e sperare in cataclismi prossimi venturi. Ora questi dovranno fare i conti, un altra volta, con il fatto che il default di fine anno (il classico di Grillo) non c’è stato, il governo è ancora in carica (e pare che ci rimarrà per un bel po’) e la rivolta popolare “coi forconi” a volerla sono solo quelli collegati in streaming (lì dove le manganellate non arrivano), non sarà una bella giornata.

20 anni di studi sociologici su disfunzioni e vizi del sistema che nessuno osa sanare. Libertà e democrazia paralizzati da privilegi e poteri intoccabili di una casta fossilizzata. Sui media prezzolati e/o ideologicizzati si parla sempre dei privilegi, degli sprechi e dei costi della casta dei rappresentanti politici dei cittadini nelle istituzioni, siano essi Parlamentari o amministratori e consiglieri degli enti locali. Molti di loro vorrebbero i barboni in Parlamento. Nessuno che pretenda che i nostri Parlamentari siano all’altezza del mandato ricevuto, per competenza, dedizione e moralità, al di là della fedina penale o delle prebende a loro destinate. Dimenticandoci che ci sono altri boiardi di Stato: i militari, i dirigenti pubblici e, soprattutto, i magistrati. Mai nessuno che si chieda: che fine fanno i nostri soldi, estorti con balzelli di ogni tipo. Se è vero, come è vero, che ci chiudono gli ospedali, ci chiudono i tribunali, non ci sono vie di comunicazione (strade e ferrovie), la pensione non è garantita e il lavoro manca. E poi sulla la giustizia, argomento dove tutti tacciono, ma c’è tanto da dire. “Delegittimano la Magistratura” senti accusare gli idolatri sinistroidi in presenza di velate critiche contro le malefatte dei giudici, che in democrazia dovrebbero essere ammesse. Pur non avendo bisogno di difesa d’ufficio c’è sempre qualche manettaro che difende la Magistratura dalle critiche che essa fomenta. Non è un Potere, ma la sinistra lo fa passare per tale, ma la Magistratura, come ordine costituzionale detiene un potere smisurato. Potere ingiustificato, tenuto conto che la sovranità è del popolo che la esercita nei modi stabiliti dalle norme. Potere delegato da un concorso pubblico come può essere quello italiano, che non garantisce meritocrazia. Criticare l’operato dei magistrati nei processi, quando la critica è fondata, significa incutere dubbi sul loro operato. E quando si sentenzia, da parte dei colleghi dei PM, adottando le tesi infondate dell’accusa, si sentenzia nonostante il ragionevole dubbio. Quindi si sentenzia in modo illegittimo che comunque è difficile vederlo affermare da una corte, quella di Cassazione, che rappresenta l’apice del potere giudiziario. Le storture del sistema dovrebbero essere sanate dallo stesso sistema. Ma quando “Il Berlusconi” di turno si sente perseguitato dal maniaco giudiziario, non vi sono rimedi. Non è prevista la ricusazione del Pubblico Ministero che palesa il suo pregiudizio. Vi si permette la ricusazione del giudice per inimicizia solo se questi ha denunciato l’imputato e non viceversa. E’ consentita la ricusazione dei giudici solo per giudizi espliciti preventivi, come se non vi potessero essere intendimenti impliciti di colleganza con il PM. La rimessione per legittimo sospetto, poi, è un istituto mai applicato. Lasciando perdere Berlusconi, è esemplare il caso ILVA a Taranto. Tutta la magistratura locale fa quadrato: dal presidente della Corte d’Appello di Lecce, Buffa, al suo Procuratore Generale, Vignola, fino a tutto il Tribunale di Taranto. E questo ancora nella fase embrionale delle indagini Preliminari. Quei magistrati contro tutti, compreso il governo centrale, regionale e locale, sostenuti solo dagli ambientalisti di maniera. Per Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, arrivano all’apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”. Pubblichiamo ampi stralci dell’intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati L’ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa). Livadiotti è anche l’autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L’altra casta. La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l’Espresso e autore di Magistrati-L’ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d’interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all’epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta». Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale? «L’attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall’aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all’apice dell’inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica». E come si spiega? «Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell’anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l’ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!». Tutto questo indipendentemente dagli incarichi? «Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell’Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani». Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia. «Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d’ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all’anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più». Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari? «Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano». Quali dati? «Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c’è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 – un dato che fa impressione – sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm». Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no? «Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati… nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio». Ma c’è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito! «In teoria sì, è la legge 117 dell’88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati». E com’è andata, questa legge? «Nell’arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l’8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l’1 per cento delle pochissime domande di risarcimento». Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano? «Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all’anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo». TRALASCIANDO L’ABILITAZIONE UNTA DAI VIZI ITALICI, A FRONTE DI TUTTO QUESTO CI RITROVIAMO CON 5 MILIONI DI ITALIANI VITTIME DI ERRORI GIUDIZIARI. MAGISTRATI CHE SONO MANTENUTI DAI CITTADINI E CHE SPUTANO NEL PIATTO IN CUI MANGIANO. Chi frequenta assiduamente le aule dei tribunali, da spettatore o da attore, sa benissimo che sono luogo di spergiuro e di diffamazioni continue da parte dei magistrati e degli avvocati. Certo è che sono atteggiamenti impuniti perché i protagonisti non possono punire se stessi. Quante volte le requisitorie dei Pubblici Ministeri e le arringhe degli avvocati di parte civile hanno fatto carne da macello della dignità delle persone imputate, presunte innocenti in quella fase processuale e, per lo più, divenuti tali nel proseguo. I manettari ed i forcaioli saranno convinti che questa sia un regola aurea per affermare la legalità. Poco comprensibile e giustificabile è invece la sorte destinata alle vittime, spesso trattate peggio dei delinquenti sotto processo. Tutti hanno sentito le parole di Ilda Boccassini: “Ruby è furba di quella furbizia orientale propria della sua origine”. «E’ una giovane di furbizia orientale che come molti dei giovani delle ultime generazioni ha come obbiettivo entrare nel mondo spettacolo e fare soldi, il guadagno facile, il sogno italiano di una parte della gioventù che non ha come obiettivo il lavoro, la fatica, lo studio ma accedere a meccanismi che consentano di andare nel mondo dello spettacolo, nel cinema. Questo obiettivo – ha proseguito la Boccassini – ha accomunato la minore “con le ragazze che sono qui sfilate e che frequentavano la residenza di Berlusconi: extracomunitarie, prostitute, ragazze di buona famiglia anche con lauree, persone che hanno un ruolo nelle istituzioni e che pure avevano un ruolo nelle serate di Arcore come la europarlamentare Ronzulli e la europarlamentare Rossi. In queste serate – afferma il pm – si colloca anche il sogno di Kharima. Tutte, a qualsiasi prezzo, dovevano avvicinare il presidente del Consiglio con la speranza o la certezza di ottenere favori, denaro, introduzione nel mondo dello spettacolo». Fino prova contraria Ruby, Karima El Mahroug, è parte offesa nel processo. La ciliegina sulla torta, alla requisitoria, è quella delle 14.10 circa del 31 maggio 2013, quando Antonio Sangermano era sul punto d’incorrere su una clamorosa gaffe che avrebbe fatto impallidire quella della Boccassini su Ruby: “Non si può considerare la Tumini un cavallo di ….”, ha detto di Melania Tumini, la principale teste dell’accusa, correggendosi un attimo prima di pronunciare la fatidica parola. Ancora come esempio riferito ad un caso mediatico è quello riconducibile alla morte di Stefano Cucchi. “Vi annuncio che da oggi pomeriggio (8 aprile 2013) provvederò a inserire sulla mia pagina ufficiale di Facebook quanto ci hanno riservato i pm ed avvocati e le loro poco edificanti opinioni sul nostro conto. Buon ascolto”, ha scritto sulla pagina del social network Ilaria Cucchi, sorella di Stefano. E il primo audio è dedicato proprio a quei pm con i quali la famiglia Cucchi si è trovata dall’inizio in disaccordo. «Lungi dall’essere una persona sana e sportiva, Stefano Cucchi era un tossicodipendente da 20 anni,…….oltre che essere maleducato, scorbutico, arrogante, cafone». Stavolta a parlare non è il senatore del Pdl Carlo Giovanardi – anticipa Ilaria al Fatto –, ma il pubblico ministero Francesca Loy, durante la requisitoria finale. Secondo lei mio fratello aveva cominciato a drogarsi a 11 anni…”, commenta ancora sarcastica la sorella del ragazzo morto. Requisitoria che, a suo dire, sembra in contraddizione con quella dell’altro pm, Vincenzo Barba, il quale “ammette – a differenza della collega – che Stefano potrebbe essere stato pestato. Eppure neanche lui lascia fuori dalla porta l’ombra della droga e, anzi, pare voglia lasciare intendere che i miei genitori ne avrebbero nascosto la presenza ai carabinieri durante la perquisizione, la notte dell’arresto”. Beati coloro che hanno fame e sete di giustizia perché saranno giustiziati. “Il carcere uno stupro. Ora voglio la verità”, dice Massimo Cellino, presidente del Cagliari calcio, ad Ivan Zazzaroni. «Voglio conoscere la vera ragione di tutto questo, i miei legali l’hanno definito “uno stupro”. Cassazione e Tar hanno stabilito che non ci sono stati abusi, dandomi ragione piena. – Ricorda: riordina. – La forestale s’è presentata a casa mia alle sette del mattino. Ho le piante secche?, ho chiesto. E loro: deve venire con noi. Forza, tirate fuori le telecamere, dove sono le telecamere? Siete di Scherzi a parte. L’inizio di un incubo dal quale non esco. Sto male, non sono più lo stesso. A Buoncammino mi hanno messo in una cella minuscola, giusto lo spazio per un letto, il vetro della finestra era rotto, la notte faceva freddo. Un detenuto mi ha regalato una giacca, un altro i pantaloni della tuta, alla fine ero coperto a strati con in testa una papalina. Mi hanno salvato il carattere e gli altri detenuti. Un ragazzo che sconta otto anni e mezzo perché non ha voluto fare il nome dello spacciatore che gli aveva consegnato la roba. Otto anni e mezzo, capisci? “Se parlo non posso più tornare a casa, ho paura per i miei genitori”, ripeteva. E poi un indiano che mi assisteva in tutto, credo l’abbiano trasferito come altri a Macomer. Mi sento in colpa per loro, solo per loro. Ringrazio le guardie carcerarie, si sono dimostrate sensibili… Mi ha tradito la Sardegna delle istituzioni. Ma adesso voglio il perché, la verità. Non si può finire in carcere per arroganza». Una situazione di straordinario strazio per un uomo fin troppo diretto ma di un’intelligenza e una prontezza rare quale è il presidente del Cagliari. «Non odio nessuno (lo ripete più volte). Ma ho provato vergogna. Non ho fatto un cazzo di niente. Dopo la revoca dei domiciliari per un paio di giorni non ho avuto la forza di tornare a casa. Sono rimasto ad Assemini con gli avvocati, Altieri e Cocco – Cocco per me è un fratello. E le intercettazioni? Pubblicatele, nulla, non c’è nulla. Mi hanno accusato di aver trattato con gente che non ho mai incontrato, né sentito; addirittura mi è stato chiesto cosa fossero le emme-emme di cui parlavo durante una telefonata: solo un sardo può sapere cosa significhi emme-emme, una pesante volgarità (sa minchia su molente, il pene dell’asino). Da giorni mi raccontano di assessori che si dimettono, di magistrati che chiedono il trasferimento. Mi domando cosa sia diventata Cagliari, e dove sia finita l’informazione che non ha paura di scrivere o dire come stanno realmente le cose. Cosa penso oggi dei magistrati? Io sono dalla parte dei pm, lo sono sempre stato!» VEDETE, E’ TUTTO INUTILE. NON C’E’ NIENTE DA FARE. SE QUANTO PROVATO SULLA PROPRIA PELLE E SE QUANTO DETTO HA UN RISCONTRO E TUTTO CIO’ NON BASTA A RIBELLARSI O ALMENO A RICREDERSI SULL’OPERATO DELLA MAGISTRATURA, ALLORA MAI NULLA CAMBIERA’ IN QUESTA ITALIA CON QUESTI ITALIANI.

Due indizi non fanno una prova neanche dalle parti - sbrigative - dell’Italia dei valori, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Il primo indizio l’ha raccontato ieri l’Espresso: una 31enne ha denunciato d’esser stata vittima di avances e ricatti da parte del senatore Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all’Idv. Una storia che ne ricorda un’altra che Libero teneva nel cassetto da un po’: una denuncia per «mobbing e stalking» che venne mossa al senatore Stefano Pedica da parte di una ragazza che però ha un nome e un cognome: si chiama Monia Lustri ed è una 35enne originaria di Avezzano (Abruzzo) che ora vive a Roma dove milita nell’Udc, che l’ha delegata alle politiche femminili e alla sicurezza nei luoghi di lavoro, questo dopo aver ricoperto gli stessi incarichi anche per l’Udeur di Clemente Mastella. Dal febbraio 2008 e per un anno circa, però, aderì all’Italia dei valori che la candidò alla Camera (collegio Lazio 1) e in maggio la fece «responsabile organizzativa regionale». Poi, a fine marzo 2009, è successo qualcosa. «Quando cercai di rinnovare l’iscrizione all’Idv,  mi tornò indietro un fax con scritto “rifiutata”. Senza altre motivazioni».

Parliamo dell’Associazione Italia dei valori o del Partito?

«Del Partito. Ho scoperto solo in seguito che c’era una differenza tra la scatola vuota a cui venivano iscritti tutti e il soggetto economico retto dai tre soci fondatori, cosa che trovo scandalosa».

Bene, ma che problema c’era stato?

«Ho militato nell’Idv romana dal 13 febbraio 2008, invitata dall’onorevole Gabriele Cimadoro; poi diciamo che ho avuto dei problemi col senatore Pedica, col quale ho avuto un rapporto strettamente confidenziale».

Allora. Stefano Pedica è un senatore, sposato, separato con figli, che è un ex qualsiasi cosa (Dc, Ccd, Udeur, Democrazia Europea, Dc di Rotondi, ora Idv) e che è balzato agli onori delle cronache anche perché ottenne un alloggio del Vaticano tramite Angelo Balducci. Questa almeno è stata l’accusa, secondo la quale l’appartamento doveva spettare a Di Pietro - in via Paolo Emilio 57, quartiere Prati, in un palazzo umbertino che risulta nell’elenco dei lavori fatti da Diego Anemone nel 2007 - anche se alla fine ci andò Pedica, appunto.

«Pedica, sul Fatto quotidiano, ha dichiarato che in quell’appartamento non ci ha mai vissuto: ma non è vero, ci ha vissuto con certezza almeno dal marzo all’agosto 2008. Lo so perché ci sono stata un sacco di volte».

Quando avevate una relazione?

«Sì».

Si parla dell’appartamento pluri-restaurato con vetri blindati, telecamere interne ed esterne, finiture di lusso.

«Confermo. Lui mi disse che gli era stato dato completamente arredato e sistemato da uno studio di architetti, e che per spese varie, affitti e trasloco compresi, non aveva speso un centesimo. Lui poi ha cambiato casa».

Lei nel novembre 2008 ha presentato una querela, assieme al suo avvocato, contro il senatore Pedica.

«Io, ufficialmente, ho sporto una querela contro ignoti».

Sì, ma nella seconda pagina della querela lei allega l’indirizzo web del senatore Pedica dell’Idv, «cioè colui», mi ha scritto, che mi ha perseguitata perché a maggio 2008 l’ho lasciato, una sorta di mobbing con un pò di stalking».

«L’ho fatto per evitarmi una contro-querela immediata. Ho pensato che Pedica, semmai, l’avrebbero messo in mezzo i magistrati».

Senta, ma che cosa intendiamo per mobbing e stalking?

«Io sono stata insieme a Pedica appena entrata nel partito, precisamente dal 27 marzo 2008. Abbiamo cominciato a uscire insieme e a fare vari giri per il Lazio. Fu un errore mio».

Perché?

«Perché a me in realtà non interessava granché. Però pensai che, se l’avessi respinto, mi avrebbe buttata fuori dal partito. Ci siamo visti per un paio di mesi, poi a maggio ho scoperto che tipo di persona era e allora gli ho detto, per telefono: lasciamo stare la parte privata, vediamoci solo, come dire, politicamente. Lui mi disse che mi avrebbe fatto terra bruciata, che avevo finito di fare politica. Da quel giorno lui ha cominciato a spedire email con ingiurie e diffamazioni contro di me».

Tutto perché lei l’aveva lasciato ?

«Sì, ma mi risulta che non sia nuovo a certi comportamenti. Ha fatto cose del genere anche con chi gli aveva chiesto più trasparenza nella gestione del partito a livello regionale».

Da capo: e il mobbing? Lo stalking?

«Nel 2008 io ero iscritta nell’Idv, poi nel 2009 non mi hanno più voluta iscrivere: fecero un atto di sospensione “necessario e urgente” solo perché avevo proposto la mia candidatura alla regione Abruzzo. Fece tutto Pedica, dopo che l’avevo lasciato. Un venerdì sera mi arrivò un suo sms : “Ti sto diffidando”, “stai per ricevere una sospensione”. Io feci subito subito ricorso, allora lui mi convocò e mi disse che se avessi ritirato la candidatura lui avrebbe ritirato l’atto di sospensione».

E poi?

«Poi ho frequentato privatamente alcuni parlamentari dell’Idv che mi hanno avvicinata, inizialmente, con la scusa di aiutarmi a risolvere i miei problemi causati da Pedica. Risultato: mi hanno portata a letto passando da un invito a cena, poi più nemmeno da quello».

Di chi parla?

«Di due persone molto in alto, anche più in alto di Pedica. Con uno andai a cena solo la prima volta. Lo vidi altre due volte, dopodiché rifiutai i suoi inviti. L’altro, con cui andavo a cena prima di passare a casa sua, lo frequentai dalla sera del 22 dicembre 2008 sino a fine febbraio-inizio marzo 2009, quando presi atto, dopo avergli parlato degli abusi di Pedica, che non avrebbe fatto nulla. Diceva sempre che Pedica aveva molti limiti, “però lavora”. Litigammo. Mi disse che Pedica non doveva sapere di noi due, una frase che non mi piacque. Da una parte difendeva Pedica, anzi, se gli parlavo male di Pedica diventava una bestia; dall’altra frequentava di nascosto la sua ex ragazza. Alla fine decisi di dire tutto a Pedica. Fatto questo, l’altro non mi ha più chiamata, non ha più risposto agli sms, appena dicevo “Monia” chiudeva il telefono».

Chi di morale ferisce di morale perisce, questo il detto che si appropria di più al caso di giornata: i deputati  del movimento 5 stelle di Grillo, i duri e puri della politica che si sollevano indignati contro gli incalliti protagonisti della casta, aggrappati, anzi incollati ai loro privilegi, al centro di una bufera per una presunta (?) parentopoli in cui vengono assegnati incarichi e stipendi da collaboratori a compagni, fidanzati e figli di essi. Il tutto proprio adesso che i maggiori sondaggisti davano di nuovo il Movimento al di sopra del 20%, scrive Giuseppe Bini. Ma andiamo nello specifico: Barbara Lezzi e Vilma Moronese finiscono agli onori delle cronache non per qualche illuminata iniziativa parlamentare ma bensì perchè in quanto la prima assume come collaboratore la figlia del compagno, la seconda invece non va tanto per il sottile e assume direttamente il fidanzato. Ma non era stato firmato un codice etico stilato appositamente per la questione in oggetto, che vietata l'assunzione di parenti fino al quarto grado? Fatto sta che ai vecchi vizi della politica ancora rimedio efficace non è stato trovato, e il vaccino a cui i pentastellati sono stati sottoposti dal focoso leader sembra non garantire una efficiente immunità. Quindi punto e a capo, il nuovo assume le terribili incaccellabili vesti del vecchio e la politica italiana continua il suo cammino verso un imputridimento etico e morale degno delle più olezzose paludi agropontine e maremmane di fine ottocento. Chissà se ci sarà bisogno di un nuovo Mussolini per provvedere alla bonifica? Ai posteri l'ardua sentenza. Beppe Grillo intanto si infuria, grida, sbraita e avvalla la decisione di non divulgare via streaming la riunione che ha visto volare gli stracci in casa 5 stelle, con tanto di pianti, smentite e richieste di perdono. Ammissione di colpa per la senatrice Barbara Lezzi che licenzia immediatamente lo scomodo collaboratore, del resto, come qualcuno pignolamente osserva, essere fidanzato (o compagno che dir si voglia) non prefigura un legame di parentela. Senza dubbio, come senza dubbio appare la cavillosa ricerca di giustificazioni e scusanti da prima Repubblica, che ormai la travolgente onda moralizzatrice portata avanti proprio dai pentastellati non riesce più a concepire e sopportare. A noi cittadini, elettori, pennivendoli e subalterni di ogni tipo non resta che osservare e metabolizzare (o per lo meno cercare di farlo), attoniti, stupiti e disgustati. 

Lettera aperta. I Grillini in Parlamento e la restituzione del finanziamento Pubblico. L’Italia è retta da un sistema di disinformazione e di discultura che rincoglionisce gli italiani. Le lobbies finanziano la politica e la politica finanzia le lobbies. In ogni caso i canali editoriali sono in mano loro. Informazione e cultura corrotta. Poi c’è un movimento politico ad ideologia indefinita che ha solo una fonte di informazione: quella del suo “Guru” e dei suoi “Paraguru”. Quel movimento è quello dei “5 Stelle” di Beppe Grillo. Un marasma di soggetti con pensieri indotti da teorie complottistiche dedotte dai siti web del loro Guru. Soggetti provenienti dalla Rete. E la Rete si sa, che dietro l’anonimato, nasconde menti contorte ed inconsistenti, propensi alla polemica fine a se stessa, ovvero, ove anonimato non vi sia, lì si dissimula lo spirito di protagonismo. Proprio il Movimento 5 Stelle, a detta dei loro detrattori, ha posto una lista di proscrizione per i giornalisti ostili e corrotti. Bene, detto questo, parliamo del finanziamento pubblico ai partiti che i penta stellati aborrono. Finanziamento pubblico e privato che serve altresì a sostenere censura e disinformazione a vantaggio del sistema politico esistente. Solo nel 2013 sono stati già spesi 120,45 milioni di cui 40 erogati da privati e circa 80 dai rimborsi. Pdl e Pd hanno ricevuto rispettivamente 37,16 milioni e 25,34 milioni, mentre il Movimento 5 Stelle ha rifiutato i 9,29 milioni di euro cui aveva diritto. Una domanda sorge spontanea. I Grillini in Parlamento anziché restituire il finanziamento pubblico a quello Stato che molti definiscono ladrone, ovvero a quelli italioti che sperperano e spandono a danno di altri italioti ignavi, perché con quei fondi non sostengono l’informazione e la cultura libera asfittica in modo che gli italiani non siano più i coglioni che sono stati fatti diventare? O il Guru non vuole che si finanzi altra fonte che sè?

INDULTO ED AMNISTIA SECONDO CONVENIENZA.

Carceri, alla ribalta le ipotesi di amnistia e indulto: contrari Lega e M5S, scrive “Il Quotidiano Italiano”. Punto e a capo. Dopo il contestato provvedimento di indulto dell’allora ministro della Giustizia Mastella nel 2006, torna in primo piano il problema del sovraffollamento delle carceri italiane. A scendere in campo, stavolta, sono anche la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo e il presidente Napolitano, che chiede un nuovo ricorso ad amnistia e indulto. La procedura attuale per l’approvazione di amnistia o indulto impone la sussistenza di una maggioranza di due terzi in entrambe le camere. Circostanza questa che, alla luce anche delle polemiche roventi scatenate dal messaggio di Napolitano, rende più difficoltoso l’iter di delibera. «L’Italia viene a porsi in una condizione umiliante sul piano internazionale per violazione dei principi sul trattamento umano dei detenuti», sono le parole del presidente della Repubblica, che prosegue: «È necessario intervenire nell’immediato con il ricorso a rimedi straordinari», citando successivamente indulto e amnistia. A insorgere per prima, la Lega Nord, che già aveva espresso un compatto voto contrario all’indulto del 2006: «La Lega Nord è contraria a qualsiasi forma di indulto o amnistia», è la risposta secca del segretario Roberto Maroni, che incalza: «Il problema del sovraffollamento carcerario si risolve costruendo nuove carceri e non rimettendo in libertà decine di migliaia di delinquenti». Il messaggio di Napolitano comprende anche proposte a lungo termine come la costruzione di nuove carceri ma anche un’idea rilanciata a suo tempo proprio dalla Lega, ossia la possibilità che i delinquenti stranieri scontino le loro pene nel proprio Paese. Sono comunque le ipotesi di amnistia e indulto a tenere banco, scatenando anche la reazione dei parlamentari Cinque Stelle che le ritengono proposte tagliate su misura per Silvio Berlusconi, in procinto di scontare un anno di arresti domiciliari o di servizi sociali. «Napolitano è sotto ricatto del Pdl, proponendo l’indulto o peggio l’amnistia diventa il padrino di un salvacondotto per Berlusconi», è il tweet del deputato grillino Fraccaro, mentre si parla apertamente di “napolitanocrazia” nei profili telematici del gruppo M5S della Camera. Mentre l’ultimo provvedimento di indulto è relativamente recente – 2006, governo di centrosinistra – si deve risalire fino al 1989-1990 per trovare l’ultima amnistia varata in Italia, voluta dall’allora presidente della Repubblica Francesco Cossiga.

Certo che a sentire quelli della Lega vien da dire: da quale pulpito vien la predica.

«La Lega Nord è contraria a qualsiasi forma di indulto o amnistia. Il problema del sovraffollamento carcerario si risolve costruendo nuove carceri e non rimettendo in libertà decine di migliaia di delinquenti». Dopo Salvini, il segretario della Lega Nord, Roberto Maroni, attacca Napolitano per il suo messaggio al Parlamento sulle carceri, scrive “L’Unità”. «L'Italia è umiliata dalle parole di Napolitano». Così il vice segretario federale della Lega Nord, Matteo Salvini, commenta il messaggio del capo dello Stato. «Napolitano dice che l'Italia è umiliata agli occhi del mondo? Sono gli italiani fuori dalle galere, i poliziotti e le forze dell'ordine ad essere umiliati da colui che non è il mio presidente», ha continuato Salvini, contattato al telefono. «In un Paese civile, se le carceri sono sovraffollate, ne costruisci altre, non depenalizzi e apri le porte»«, ha concluso, ribadendo il no del Carroccio a provvedimenti come amnistia o indulto. Poco prima Salvini aveva attaccato il ministro Kyenge parlando a La Zanzara. «A cena con la Kyenge? Non la inviterei, perchè ho poco tempo e poi non mi sta molto simpatica. La sento in tv ma dopo dieci minuti non capisco cosa dice, mi sembra la supercazzola», dice Salvini a La Zanzara su Radio 24. «Tra lei e Calderoli - dice ancora Salvini - non c'è paragone, lui è sei spanne sopra». «Ci sono donne di colore che sono di una bellezza straordinaria - dice ancora Salvini - ma non è il caso della Kyenge, non credo di incorrere nel reato di razzismo. Tra la Kyenge e la castità meglio la seconda, basta avere sani principi». E fosse l'ultima donna rimasta su un'isola?: «Leggo un libro, ci dividiamo metà dell'isola e ognuno resta dalla sua parte». Salvini non risparmia nemmeno gli immigrati. «Quelli che arrivano con i barconi sono senza diritto e permesso di arrivare quindi possiamo chiamarli invasori, numeri alla mano si, possiamo chiamarlo così». Lo dice Matteo Salvini, eurodeputato della Lega Nord, a La Zanzara su Radio 24. «Ormai c'è la tv ovunque e le informazioni circolano - sostiene Salvini - dunque l'hanno capito che è rischioso, la soluzione è evitare che partano spendendo soldi in quei paesi piuttosto che qui. Paghiamo 100 milioni di euro per l'assistenza sanitaria ai clandestini - dice ancora Salvini - e sarebbe meglio iniziassero a pagare loro. Se non possono si manda fattura ai paesi di provenienza . Non è più il paese della cuccagna. Ci sono ragazze extracomunitarie che fanno sette aborti di seguito, usano gli ospedali come contraccettivo, non sanno che esistono dei metodi diversi. C'è un limite a tutto, fanno spendere un sacco di soldi. Al terzo aborto bisogna dirgli che ci sono altri metodi per non rimanere incinta».

Indulto e amnistia, i voltafaccia del Pdl, scrive Susanna Turco su  “L’Espresso”. Nel corso del ventennio berlusconiano, l'orientamento del centrodestra sul tema è cambiato parecchio. Dall’impronta legge e ordine, alla grande pacificazione di oggi. Ecco una cronistoria delle dichiarazioni, da Alfano a  Gasparri. Prima no, poi sì. O addirittura prima no, poi sì, poi no, poi sì. Nel corso del ventennio berlusconiano, il centrodestra (Lega esclusa) sul tema di indulto e amnistia è cambiato parecchio. Dall’impronta legge e ordine, alla grande pacificazione (anche pro-Silvio) di oggi. Una mutazione diluita nel tempo, rispetto alla quale fa impressione leggere le parole, profetiche (o direbbe Alfano “monomaniache”), del diessino Giovanni Berlinguer nel lontano 2002, due giorni prima che il Papa chiedesse alla Camera il famoso atto di clemenza: “E’ assolutamente giusto un provvedimento che cancelli o permetta di uscire a persone che hanno commesso reati minori. Io temo però che dietro questa tendenza a liberare tutti, a cancellare tutti i reati, ci sia un’ulteriore pressione di Berlusconi per liberare sé e gli altri imputati di reati contro la pubblica amministrazione”. Eventuali “ulteriori pressioni” a parte, ecco taluni autorevoli esempi di mutazione, virgolettato dopo virgolettato.

BERLUSCONI. “Io non sono tra quelli che vogliono l’amnistia (…) Non sono tra quelli che la vogliono perché con l’amnistia non si accerta la verità”. (Silvio Berlusconi, rispondendo alle domande dei giornalisti della stampa estera, 15 luglio 1998). “Eravamo perplessi prima, siamo perplessi allo stesso modo ora. La nostra perplessità sull’opportunità di un indulto è la stessa di prima” (Silvio Berlusconi, a margine di una conferenza stampa a Milano, 25 maggio 1999). “Le ipotesi finora enunciate collegate all’indulto non appaiono in grado di risolvere i gravi problemi che si determinerebbero per la sicurezza dei cittadini” (Dichiarazione congiunta di Silvio Berlusconi, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini, al termine di un incontro a Palazzo Grazioli, 28 giugno 2000). “Oggi ci sono le ragioni, le forze politiche dovrebbero trovare un accordo generalizzato e trasversale per un forte e grande atto di clemenza” (Silvio Berlusconi, da premier, in visita a Skopje, 15 novembre 2002). “Quella favorevole all’indulto è una scelta che non cambierei perché stavano per scoppiare le carceri” (Silvio Berlusconi alla festa dei giovani di An, Roma, 13 settembre 2007). “Sull’indulto sono consapevole che è una sconfitta dello Stato. E’ però contato anche il voto dei cattolici che dovevano rispondere all’appello del Papa”. (Silvio Berlusconi al Parlamento del nord, Vicenza, 29 settembre 2007). “Le carceri fanno schifo, sono indegne. Quando io parlo di condono e di amnistia si alzano le critiche dei moralisti della domenica”. (Silvio Berlusconi, a Palermo in campagna elettorale, 16 febbraio 2013). “Se gli italiani mi daranno la maggioranza assoluta proporrò l’amnistia in Parlamento” (Berlusconi in tv, durante la campagna elettorale, 8 febbraio 2013).

ALFANO. “Gli effetti dell’indulto sono stati del tutto provvisori”. (Angelino Alfano, da Guardasigilli, alla festa della Polizia Penitenziaria, Roma, 15 ottobre 2008). “Abbiamo escluso la via di ulteriori provvedimenti di indulto e di amnistia e ne abbiamo scelta un’altra: la strada di costruire nuove carceri” (Angelino Alfano, da Guardasigilli, a margine del convegno “Più carcere, più sicurezza”, Milano, 13 luglio 2009). “E’ stato illusorio l’effetto dell’indulto”, varato nel 2006, “è svanito nel giro di pochi anni”. (Angelino Alfano, da Guardasigilli, nel corso della relazione al Senato sull’amministrazione della giustizia, 20 gennaio 2010). “L’indulto per Berlusconi? Qualsiasi cosa si dica, la scaricano in una direzione. Si tratta proprio di un fatto monomaniacale. Qui invece c’è un dato che emerge con grande evidenza, da un messaggio forte, ponderato, grave e molto ben pensato dal presidente della Repubblica”. (Angelino Alfano, da vicepremier, dopo il consiglio Ue degli affari interni, Lussemburgo, 8 ottobre 2013).

CASINI. “Sull’indulto la nostra posizione non è contraria: è contrarissima (…) Lo Stato moderno non è un sovrano d’altri tempi che dispensa benefici a capriccio. Ha un dovere di giustizia, di equità e di rigore cui l’indulto verrebbe meno” (Pier Ferdinando Casini, da segretario nazionale del Ccd, 1 agosto 1997). “Sono d’accordo con D’Alema quando afferma che la forza dello Stato non è nella ferocia ma nell’efficienza: a differenza di lui, però, non credo proprio che un provvedimento di clemenza possa restituire efficienza alle istituzioni” (Pier Ferdinando Casini, da segretario nazionale del Ccd, a proposito dell’indulto per gli ex terroristi, 24 maggio 1999). “La proposta di indulto avanzata dalla maggioranza è lacunosa e porterebbe gravi disagi ai cittadini per la loro sicurezza. Esiste certamente un modo più organico per affrontare la questione (Pier Ferdinando Casini, da presidente del Ccd, 28 giugno 2000). “Il problema del sovraffollamento delle carceri c’è”. (Pier Ferdinando Casini, da presidente della Camera, alla festa della polizia penitenziaria, 25 ottobre 2002). “Io non posso dirvi come voterà, ma vi posso dire che il Parlamento voterà, rispondendo a chi ci ha chiesto di avere finalmente una parola di certezza (…) Nessuno può più ignorare o sottovalutare il degrado e l’inadeguatezza che purtroppo caratterizzano molti dei nostri istituti di pena. (…) Ciò che una classe politica seria deve fare, davanti ad una umanità disperata, è di assumersi le proprio responsabilità” (Pier Ferdinando Casini, da presidente della Camera, davanti ai detenuti del carcere di San Vittore, Milano, 13 dicembre 2002). “Non saprei dire se l’indulto sia stato un male necessario o un male e basta, certo è che si è trattato di una esperienza da non ripetere. Oggi il problema in Italia non è quello di svuotare temporaneamente le carceri, ma di costruirne di nuove” (Pier Ferdinando Casini, da leader Udc, in un’intervista al Quotidiano Nazionale-Resto del Carlino, 8 settembre 2007). “Il messaggio del presidente Napolitano alle Camere sul sovraffollamento delle carceri italiane deve essere accolto e tradotto in concreto dal Parlamento, senza ulteriori indugi (…) La politica negli ultimi vent’anni sull’emergenza carceri ha colpevolmente ridimensionato il proprio ruolo, preferendo inseguire facili consensi piuttosto che perseguire l’interesse generale del Paese” (Pier Ferdinando Casini, da presidente della commissione Esteri del Senato, 8 ottobre 2013). “Se oggi davvero si vuol voltare pagina, occorre mettere da parte gli interessi contrari e contingenti e superare timori e tentazioni strumentali, per rispondere a un preciso dovere civile e morale” (Pier Ferdinando Casini, da presidente della commissione Esteri del Senato, 8 ottobre 2013).

GASPARRI. “Sono fortemente contrario a tutte queste ipotesi buoniste. Invece di approvare il pacchetto sicurezza che facciamo, approviamo un’amnistia? Non mi sembra serio. Se il problema è il sovraffollamento, si costruiscano altre carceri. Liberare 15 mila detenuti sarebbe un errore” (Maurizio Gasparri, da parlamentare di An, in un’intervista a “La Stampa”, 29 giugno 2000). “Non mi pare che la gente, che chiede più sicurezza, voglia maggiori scarcerazioni” (Maurizio Gasparri, da ministro delle Comunicazioni, 22 gennaio 2003). “Il messaggio del Papa non può essere strumentalizzato. Io allora voglio una legge contro l’aborto. Perché su questo non si usa la stessa forza? (Maurizio Gasparri, da ministro delle Comunicazioni, commentando la posizione sull’indulto dell’“Osservatore romano”£, 23 gennaio 2003). “Diremo 10,100, 1000 volte no ad amnistia e indulto” (Maurizio Gasparri, da deputato An, 3 giugno 2006). “Approvare l’indulto costituisce un atto di irresponsabilità (…) è una pagina oscura della storia del Parlamento” (Maurizio Gasparri, da deputato An, 24 luglio 2006). “Bisogna cancellare l’indulto, altro che imprimere l’impunità con l’amnistia. E invece si propone l’amnistia per mandare al macero processi, eventuali condanne e la sicurezza dei cittadini. Di male in peggio: così si cancellerebbero nuove eventuali pene accessorie e comunque si rafforzerebbe il messaggio di impunità per il crimine già contenuto nella sventurata scelta dell’indulto (Maurizio Gasparri, da deputato An, 8 novembre 2006). “L’Italia ha bisogno di sicurezza e di certezza della pensa, non di perdonismo e di leggi svuota carceri” (Maurizio Gasparri, da deputato An, 21 novembre 2006). “Chi ha votato l’indulto ha contribuito a questo eccidio. Complimenti. E’ un’ulteriore conseguenza drammatica di una scelta sciagurata. Bisognerebbe perseguire, come favoreggiatori di quest’autentica strage, quanti dissennatamente hanno votato l’indulto” (Maurizio Gasparri, da deputato An, commentando la strage di Erba, 12 dicembre 2006). “Chi votò l’indulto fece male. Vorrei ricordare che An ha la coscienza pulita. Abbiamo avuto il merito, la scorsa legislatura, di bloccare chi nella Casa delle libertà voleva approvarlo” (Maurizio Gasparri, deputato An, 8 settembre 2007). “I dati diffusi dal ministero sulle conseguenze dell’indulto sono catastrofici. Vorremmo sapere chi risarcirà quegli italiani che hanno subito reati da quel 25 per cento di delinquenti liberati e tornati in carcere: dovrebbe essere lo Stato a risarcirli (..) a causa dell’indulto, le rapine in banca sono aumentate del 40 per cento, mentre è esplosa la cosiddetta criminalità di strada. (Maurizio Gasparri, parlamentare di An, 21 settembre 2007). “Nessuna emergenza consentirà di prendere in considerazione l’ipotesi di un indulto. Non c’è spazio per ipotesi del genere”. (Maurizio Gasparri, da capogruppo del Pdl al Senato, 15 agosto 2011). “La riflessione sull’amnistia e l’indulto deve essere estesa alla riforma complessiva della giustizia. Bisogna colpire i reati di grave allarme sociale, ma porre fine indubbiamente all’emergenza carceri”. (Maurizio Gasparri, da vicepresidente del Senato, 9 ottobre 2013). “L’amnistia può essere utile se è un atto di pacificazione. Dovrebbe valere anche per Berlusconi” ”. (Maurizio Gasparri, da vicepresidente del Senato, alla trasmissione radiofonica “Un giorno da pecora”, 9 ottobre 2013).

SANDRO BONDI. “Non mi sembra che ci siano in questo momento le condizioni per parlare di indulto e di amnistia” (Sandro Bondi, da coordinatore di Forza Italia, 20 agosto 2004). ''E’ stato soltanto grazie al senso di responsabilità di Forza Italia ed alla sua centralità politica se il provvedimento sull’indulto ha potuto avere una conclusione positiva in parlamento. Approvarlo era un dovere morale” ( Sandro Bondi, da coordinatore di Forza Italia, 28 luglio 2006). “Un’amnistia sarebbe un provvedimento inutile, anche per mitigare il problema di sovraffollamento delle carceri. (…) tornerebbero a riempirsi in tempi brevissimi” (Sandro Bondi, da coordinatore di Forza Italia, 6 giugno 2006). “Se due membri autorevoli del governo affrontano con serietà e lungimiranza il problema dell’amnistia, ciò ha un valore che non può essere eluso, sottovalutato o accantonato da chi ha a cuore le sorti dell’Italia” (Sandro Bondi, da senatore Pdl, dopo che il Guardasigilli Cancellieri e il ministro Mauro si erano detti favorevoli all’amnistia, 23 agosto 2013).

Amnistia, Travaglio grazia Ingroia e condanna Napolitano: giù insulti. Il Fatto dedica un trafiletto all'inchiesta sull'ex pm. In compenso, editoriale durissimo contro il Colle. "Amnesia e insulto", ma le amnesie sono anche quelle di Marco Manetta, scrive “Libero Quotidiano”. Ingroia graziato, Napolitano no. Si parla di giustizia e non si può fare un po' d'ironia sul trattamento riservato dal Fatto quotidiano a due notizie. La prima è l'inchiesta aperta ai danni dell'ex pm per rivelazione di segreto istruttorio. Avrebbe spifferato ai cronisti del Fatto dettagli riservati di un interrogatorio al boss di Cosa Nostra Provenzano. Questione imbarazzante, per il quotidiano di Antonio Padellaro, che non a caso di Antonio Ingroia parla solo in una spallina di pagina 15, con titolo un po' criptico ("Provenzano denunci. Ingroia indagato"). In prima c'è spazio, eccome, per Giorgio Napolitano e il suo invito al Parlamento a lavorare su amnistia o indulto. Il Fatto, naturalmente, sposa la linea grillina e va giù duro: "Svuota le celle e salva B.", è il titolone. E Marco Travaglio, nel suo editoriale, è caustico: "Amnesia e insulto". A quale amnesia e insulto si riferisca, non è chiaro. Sicuramente, c'entrano i suoi. Insulti al capo dello Stato, definito "il massimo rappresentante di una classe politica incapace e cialtrona che da vent'anni non fa altro che inventare reati inutili e riempire vieppiù le carceri - scrive il vicedirettore - per gabbare la gente, vellicarne i più bestiali istinti e nascondere la propria inettitudine". Quindi snocciola la carriera politica ai massimi livelli dell'attuale inquilino del Colle per arrivare alla seguente conclusione: se dopo 60 anni di poltrone parla di amnistia e indulto, è per salvare Berlusconi. Naturalmente, con l'appoggio del Pd che cederà al ricatto del Pdl con cui dovrà votare in Parlamento reati e pene comprese nelle eventuali misure svuota-carceri (per amnistia e indulto serve una maggioranza qualificata di due terzi delle Camere). Dimentica, Travaglio, che in attesa di capire se amnistia o indulto si faranno, non è detto che il Pd troverà un accordo con il Pdl (sulla decadenza del Cavaliere, per esempio, in Giunta non è successo: come la mettiamo?). E, ultimo punto, il Pdl ancora non ha iniziato a parlare di reati e pene. Astio preventivo, quello del Fatto, che non fa mai male. Ma l'amnesia di Travaglio tocca l'apice quando parla di come risolvere l'emergenza-carceri. Il sogno di Marco Manetta è la cancellazione di alcune leggi varate dal governo Berlusconi (la ex Cirielli, la Fini-Giovanardi sulla detenzione di sostanze stupefacenti, il pacchetto-sicurezza di Maroni), dimenticando però che l'iter sarebbe lunghissimo ed accidentato. Ma il colmo è quando scrive di "riaprire i carceri di Pianosa e Asinara" e tutti quelli inutilizzati, oppure "riconvertendo le caserme rimaste vuote dopo la fine della leva obbligatoria per ospitarvi i detenuti meno pericolosi". Dimentica, anche qui, che non sono misure a costo zero. Servono soldi, e tanti, per mantenere a un livello minimo di sicurezza le strutture (in alcuni casi, restaurandole) e pagare il personale carcerario in cronica difficoltà. Con quali soldi attuare il miracolo travagliesco, non è dato sapersi. "Prima o poi - avverte il vicedirettore -, nel loro piccolo, anche gli onesti s'incazzano". Magari però prima non prendeteli per il naso.

A Servizio Pubblico si è parlato, tra le altre cose, di amnistia e indulto, scrive Nicola Chiappinelli. A intervenire sull’argomento naturalmente è stato anche Marco Travaglio, con il suo consueto monologo santoriano questa volta incentrato su “tutte le bugie della politica” riguardo al tema delle leggi cosiddette “svuotacarceri”, di cui si sta parlando molto ultimamente in seguito all’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che ha accolto le condanne fatte in questi anni dalla Corte europea dei diritti dell’uomo al nostro Paese: “C’è un intollerabile divario tra capienza e detenuti, lo spazio vitale non è garantito. In gioco c’è l’onore dell’Italia, nessuno deve negare l’emergenza”. A dibattere con Travaglio è stata soprattutto la giornalista di Panorama Annalisa Chirico, che ha voluto contestare al vicedirettore de Il Fatto l’idea per cui migliorare il sistema carcerario italiano significhi essenzialmente voler liberare Berlusconi. A cui Travaglio risponde però dicendo che la collega “ha detto tante cazzate”. La contesa ha lasciato un certo imbarazzo nei confronti del giornalista, certamente noto per le sue posizioni giustizialiste, ma ormai avvolto in maniera eccessivamente anti-berlusconiana e autocompiaciuta, oltre che poco utile, sulla radicalità delle sue idee. In tanti, su Twitter e non solo, non hanno gradito il tono con cui Travaglio ha espresso il proprio punto di vista, e poiché parliamo di un nome che gode di fama ampia e spesso indiscutibile nell’opinione pubblica del Belpaese, abbiamo pensato di dare voce a chi ha evidenziato le cadenti doti dialettiche dell’opinionista di Santoro, per di più su una questione in cui continua ad esserci in ballo il rispetto dei diritti umani dei detenuti.

Nella puntata di Servizio Pubblico andata in onda il 10 ottobre 2013, scrive “Giornalettismo”, in un suo intervento Travaglio parla di amnistia: «L’amnistia cancella il reato e quindi il processo non si fa, l’indulto è uno sconto di pena e il processo si fa. Napolitano li vorrebbe tutti e due, l’amnistia per  reati minori, l’indulto per gli altri». Aggiunge poi che con l’ultimo indulto uscirono 25 mila condannati e circa un terzo tornarono dentro e che l’Italia ha meno detenuti degli altri paesi, ma i detenuti sono troppi rispetto ai posti cella. Inoltre in  Italia restano chiuse 40 carceri e strutture che potrebbero aprire per pochi soldi. Per Travaglio Napolitano vuole un indulto come quello del 2006, infatti il governo starebbe lavorando a un testo praticamente gemello e riguarderebbe anche Berlusconi. Per liberare 24 mila detenuti bisognerebbe fare come 7 anni fa, quando fu dato uno sconto di 3 anni di pena a tutte le persone che erano state condannate fino a quel momento. Per la condanna Mediaset potrebbe risparmiarsi un anno di servizi sociali e tornare libero. Se invece glielo negassero potrebbe conservarlo come bonus per il caso Ruby, sostiene Travaglio, il quale aggiunge che l’indulto e l’amnistia farebbero schizzare alle stesse la percezione di impunità. I carcerati uscirebbero dalle carceri e non troverebbero lavoro, visto che tanto non lo trovano nemmeno i giovani laureati, quindi tornerebbero a delinquere. Per Travaglio più che fare indulto e amnistia bisognerebbe abolire quelle leggi che riempiono le carceri, come la Cirielli, la legge Fini Giovanardi sulle droghe, o fare un indulto di 6 mesi. Secondo Travaglio i politici fanno l’indulto no tanto per svuotare le carceri, ma per non far entrare politici, finanzieri e gente che in carcere ci dovrebbe andare. La Chirico ha detto che non è possibile affrontare ogni argomento con l’ossessione di Berlusconi e che l’amnistia e indulto sarebbero importanti, ma si dice d’accordo sul fatto che abolire leggi come la Fini Giovanardi sia giusto. Sostiene poi che tra gli indultati e gli amnistiati vi sia un tasso di recidività abbastanza basso. 3 su 10 sarebbero tornati dentro, mentre 7 su 10 non lo hanno fatto. Travaglio ribatte dicendo che magari quei 7 su 10 non sono stati beccati. La Chirico poi, parlando di Napolitano che nel 2005 già si stava muovendo per l’indulto sostiene che Berlusconi in quel periodo non rischiava nessuna pena, mentre per Travaglio Berlusconi ha sempre rischiato i domiciliari. La Chirico dice che ridurre il livello del dibattito a Berlusconi è  irrispettoso nei confronti di quelli che vivono la tragedia del carcere e che il parlamento europeo ha contestato all’Italia il fatto di non rispettare l’articolo 3, il divieto di tortura e si chiede come si possa dibattere sul fatto che Berlusconi sconterà fino all’ultimo di carcere. Travaglio chiede  «e il primo quando l’ha scontato?». Il vicedirettore del Fatto Quotidiano poi fa notare alla Chirico di non aver dimostrato niente di quanto detto fino a quel momento nel corso della puntata (...hai detto cazzate). Parlando dell’indulto e dell’amnistia, Travaglio sostiene che  non si tratti di una soluzione, per il giornalista si potrebbe fare anche un’amnistia del 100% così le galere si svuoterebbero, basta che qualcuno se ne prenda la responsabilità  «Non ho niente contro un’amnistia o un indulto che salvino Berlusconi, ma non possono mentire agli italiani dicendo che Berlusconi on c’entra perché Berlusconi c’entra. I politici stanno mentendo perché dicono tutti che Berlusconi non c’entra. Ogni volta che si parla di indulto o amnistia, non ho mai sentito nessuno dire che ci si occupa del sovraffollamento delle carceri e quindi ci occupiamo solo delle persone che stanno in carcere. Ogni volta veniva introdotta la concussione, l’evasione fiscale, il riciclaggio. Hanno lasciato incancrenire il problema delle carceri per usare i detenuti che stanno dentro al fine di non far entrare quelli che stanno fuori. Bisogna dire la verità, la verità è che non costruiscono nuove carceri e fanno chiudere anche quelle che ci sono per far esplodere il problema ed avere dei salvacondotti per la classe dirigente. Il parlamento ha ora 70 imputati che dovranno decidere se i loro reati entreranno o no nell’indulto e nell’amnistia, è il più grande conflitto di interesse, i detenuti non c’entrano nulla».

Indulto e amnistia: Travaglio e quella morale un po' reazionaria, scrive Massimo Adinolfi su “L’Unità”. C’è un argomento, di sana e robusta costituzione, che si può sempre mettere avanti, per contrastare qualunque proposta di indulto e amnistia, in ogni tempo e in ogni luogo formulata: chi ha sbagliato deve pagare. Va detto proprio così, senza giri di parole, senza neppure rivestimenti giuridici di sorta: al fondo, non si tratta che di questo. Un bisogno di giustizia non elaborato, a cui anzi ogni ulteriore elaborazione toglierebbe chiarezza e rigore. Ed è un peccato che Marco Travaglio giri tanto intorno al nocciolo vero della questione, tirando in ballo Berlusconi, e il tentativo di mandarlo libero, non potendolo più mandare assolto. È un peccato, perché il pezzo condito dal sarcasmo, dalla derisione e dall’indignazione Travaglio lo detta ogni giorno, lo ripete da anni, e sarebbe in grado di scriverlo anche in caso di collisione di un meteorite sulla Terra: tutti scappano, vuoi vedere che il meteorite è precipitato per consentire a Berlusconi di farla franca? Neanche l’orbita di un meteorite potrebbe sfuggire alla vigilanza di Travaglio, figuriamoci il presidente Napolitano. Ma sfrondate l’articolo di Travaglio di tutto quello che appartiene al repertorio, e vi troverete quella dura ed elementare verità morale: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. Walter Benjamin scomodava il mito per spiegare in quale vicinanza questo ruvido e inflessibile senso di giustizia si tiene con la vendetta, ma non c’è bisogno di alcun corredo di favole mitiche per avvertire questa inquietante prossimità: basta tenere ben desto tutto ciò che nella coscienza moderna del diritto ha portato il senso di umanità e il rispetto della dignità della persona. Ma se umanità e dignità vi appaiono semplici imbellettamenti, formule da azzeccagarbugli, meri pretesti, pallide scuse o addirittura veri e propri imbrogli, e insomma maniere per sottrarre alla giustizia la sua inesorabile severità, allora ritroverete un’altra volta, nella sua forma più pura, la verità di Travaglio: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. La troverete dove la trova chi accantona qualunque considerazione moderna di filosofia della pena: e cioè dalle parti della più cieca reazione a codesta modernità. E così non c’è sovraffollamento delle carceri che tenga. Non c’è trattamento degradante, non c’è condizione al limite della tortura, non c’è contrasto coi principi costituzionali che valga un messaggio del presidente della Repubblica alle Camere: chi ha sbagliato deve pagare. Punto. È così semplice, così evidente: deve stare in carcere. Deve marcire in galera (perché non c’è espressione più appropriata, viste le condizioni detentive dei nostri penitenziari). Purtroppo però di verità morali ce n’è più d’una, altrimenti i filosofi non avrebbero di che campare. Così, per ogni implacabile giustizialista che brandisce con la necessaria spietatezza la sua verità, e quindi pure per il principe di tutti loro, Travaglio in persona, si troverà sempre qualcuno che di verità ne conoscerà almeno un’altra: è più ingiusto commettere ingiustizia che subirla. E dunque non si può commettere ingiustizia neanche per riparare a un torto. Ma il giustizialista vendicatore non vuol sentir ragioni: vuol vedere tutti in galera, tutti quelli che hanno «grassato e depredato l’Italia». Questo sentimento è così prepotente, che perfino Berlusconi diventa uno dei tanti. Agli occhi di Travaglio, il che è tutto dire. E se per tenerli tutti in galera bisognerà sacrificare l’umanità della condizione carceraria tanto meglio: in fondo non si tratta che di delinquenti (o detenuti in attesa di giudizio, anche se Travaglio questi poveri cristi nemmeno li menziona): E se poi nei toni, nell’immagine di un’Italia «paradiso dei delinquenti» dove gli immigrati clandestini vengono a frotte perché sanno che possono «farla franca», si finisce col cadere nei luoghi comuni del leghismo più becero o della destra più reazionaria, poco importa: chi ha sbagliato deve pagare. Punto.

ANCHE I MANETTARI PIANGONO.

Beppe Grillo attacca Pd e Pdl dal suo blog, ribadendo che i 5 Stelle non vogliono condannati in Parlamento, ma prontamente gli risponde il senatore Pd Francesco Russo, che in una lettera aperta lo invita a non parlare più a nome del suo movimento: "Quello condannato in via definitiva sei tu, non i parlamentari del Pd", scrive TMNews. Nel suo blog l'ex comico ha scritto: "Ieri, alla Camera, alla richiesta del M5S di espellere i delinquenti, si è levato alto il grido 'moralisti del cazzo'. I nominati del pdl e del pdmenoelle si sono indignati. E' un paradosso che invece di accompagnare alla porta Berlusconi, un delinquente condannato in via definitiva, i nominati dai capibastone del pdmenoelle e dal truffatore fiscale, volessero buttare fuori noi, i cosiddetti moralisti (del cazzo). Siamo fieri di essere moralisti del cazzo e soprattutto di starvi sul cazzo". Diretta la replica del senatore Russo: "Io mi sono tagliato lo stipendio, vengo in Aula in metropolitana, porto i miei figli a scuola in autobus, ho il 96% di presenze in Parlamento, non rubo, non ho conflitti d'interesse, non sono in Parlamento da 20 anni, mantengo la parola data, ho vinto la battaglia per abolire i fax alla pubblica amministrazione, non voglio tornare a votare con il Porcellum", ribatte nella lettera aperta inviata a Grillo. "Eppure - aggiunge Russo - sono un senatore del Pd e non del M5S. E ne vado fiero, sono orgoglioso di appartenere a un partito in cui: il pluralismo è un valore e non un virus da debellare, i processi decisionali sono chiari e trasparenti, il candidato premier viene eletto da 3 milioni di persone, il mio leader non è né pregiudicato né condannato in via definitiva. Perciò, se credi davvero che l'onestà debba tornare di moda e il Parlamento riconquistare la centralità decisionale perduta, allora comincia a dare il buon esempio: smettila di parlare sempre tu a nome del Movimento e passa il testimone. Perché tu in Parlamento non ci sei. E perché, fino a prova contraria, quello condannato in via definitiva sei tu, non i parlamentari del Pd".

E anche Grillo resta sotto i colpi della Cassazione. Beppe, che nei giorni scorsi ha ripetuto con ossessione e vanto "Berlusconi è un delinquente", "il Cav è un pregiudicato", ora si trova nella stessa condizione di Sivio: pure lui è stato condannato in via definitiva. La Cassazione lo ha condannato a risarcire l'ex sindaco di Asti Giorgio Galvagno per "danni da lesione alla reputazione". A stabilirlo è stata la sesta sezione civile della Suprema Corte, rigettando il ricorso presentato dalla difesa di Grillo contro la sentenza della Corte d'Appello di Torino. «Danni da lesione alla reputazione». Per Beppe Grillo è arrivata la condanna definitiva per le accuse contro l''ex sindaco di di Asti Giorgio Galvagno fatte durante uno spettacolo nel 2003, scrive “Il Corriere della Sera”. Per i giudici non si trattò di satira ma di diffamazione. Per questo la sesta sezione civile della Cassazione, rigettando il ricorso presentato dalla difesa di Grillo contro la sentenza della Corte d'Appello di Torino, ha stabilito che il comico genovese dovrà risarcire con 25 mila euro l'ex sindaco di Asti Giorgio Galvagno per avergli attribuito comportamenti dei quali non era responsabile. I fatti risalgono al 2003, quando durante uno spettacolo al Teatro Alfieri di Asti, Grillo diede del tangentista a Galvagno, all'epoca parlamentare Pdl. In particolare il comico lo accusò di «aver ricevuto indebitamente denaro o altre utilità da smaltimento illegittimo di rifiuti tossici». Nella sentenza depositata dalla Suprema Corte si ricorda che «uno dei limiti che la satira non può travalicare concerne proprio, come nel caso di specie, l'attribuzione ad altri di un fatto illecito». «Viene fatta giustizia. Grillo quella volta offese senza fare satira perché la frase venne detta senza un contesto grottesco - spiega l'avvocato Luigi Florio che ha difeso Galvagno - la Cassazione ha confermato così le sentenze di primo secondo grado che non avevano mai accolto la tesi difensiva di Grillo». Il leader penstastellato sul caso prima aveva negato di aver dato del tangentista a Galvagno, poi dopo alcune testimonianze aveva invocato la discriminante del diritto di satira. Ora Grillo dovrà versare come risarcimento 25mila euro, oltre alle spese legali di tutti e tre i gradi di giudizio.

Incidente Grillo, sopravvissuta rompe il silenzio: "Dimmi come è morta la mia famiglia". Cristina Gilberti perse i genitori e il fratello nell'auto guidata dal fondatore del M5s finita in un dirupo. Per quell'incidente Grillo venne condannato per omicidio colposo. Dopo 30 anni, la donna fa un pubblico appello a "Vanity Fair", scrive “TGCOM 24”. Cristina Gilberti, che all'età di 7 anni perse i genitori e il fratello che si trovavano in un'auto condotta da Beppe Grillo, oggi chiede di incontrare il leader del M5s. Dalle pagine di Vanity Fair rompe il silenzio di una vita chiedendo solo di conoscere la verità su quella tragedia per la quale Grillo venne condannato per omicidio colposo. Lo fa pubblicamente perché lui in privato non le ha mai risposto e non ha mai chiesto scusa. Cristina Gilberti continua a pensare a quel 7 dicembre 1981 quando Beppe Grillo è a Limone Piemonte, ospite dei Giberti. Renzo, suo vecchio amico, e la moglie Rossana con i figli Francesco, 9 anni, e Cristina, 7. Dopo pranzo decidono di andare a prendere il sole, per un paio d'ore, in quota, al Duemila, una baita raggiunta da una strada stretta e non asfaltata. Tutti salgono sulla Chevrolet di Grillo. Solo Cristina resta a casa per vedere un cartone animato a casa di un'amica. Quasi a destinazione, dietro una curva, un lungo lastrone di ghiaccio è la trappola mortale per la famiglia Gilberti. L’auto slitta all’indietro, diventa ingovernabile, urta una roccia, si gira, cade con il muso nel burrone. All’ultimo momento Grillo riesce a spalancare la portiera e a buttarsi. Per i tre Giberti non c’è niente da fare. Il comico verrà infine condannato per omicidio colposo, e per questo non si candiderà, sulla base del regolamento del Movimento 5 Stelle che esclude i condannati. Oggi, Cristina - come riporta Vanity Fair in edicola mercoledì 6 febbraio - ha un altro cognome: quello del marito della sorella della madre, che la adottò dopo la tragedia. È diventata madre, ha 38 anni, fa volontariato per l’infanzia. Trentun'anni dopo chiede di incontrare Grillo. "Fra tutti quelli che in questo periodo sentono continuamente parlare di lui e vedono la sua faccia e leggono ovunque le sue parole ci sono anche io, e lui dovrebbe ricordarselo, e dovrebbe capire l’effetto che mi fa. Ogni giorno penso a come sarebbe la mia vita se i miei genitori e mio fratello fossero ancora con me", dichiara al settimanale. La donna chiede anche, d'ora in poi, di essere lasciata in pace da stampa e fotografi. Poi spiega di aver parlato pubblicamente in questo caso dopo tanti tentativi di contattare Grillo privatamente. Solo un nipote del fondatore del Movimento 5 stelle le ha risposto: "Mi ha spiegato che tutta la sua famiglia aveva sofferto per l’incidente, che non era il momento di ritornare sull’argomento. Ma per me il momento è questo: sono cresciuta, sono mamma, sono pronta per sapere e per parlare". "Non ho mai avuto occasione di sentirmi raccontare come sono andate le cose direttamente da lui, l’unico che possa davvero farlo. Mi conosceva bene, era amico dei miei, frequentava la nostra casa: come è possibile che in tutti questi anni non abbia mai sentito l’esigenza di vedermi, di chiedermi scusa, almeno di telefonare ai miei genitori adottivi per sapere come stavo?", si chiede la donna.

Il cavillo non salva Travaglio: diffamò Previti, condannato, scrive “Il Giornale”. La prescrizione non salva Marco Travaglio: il vicedirettore del Fatto Quotidiano è stato condannato ieri in via definitiva per diffamazione ai danni di Cesare Previti: accusandolo di avere partecipato a un summit dove non aveva messo piede. Il processo sembrava destinato a svanire nel nulla, grazie ai tempi lumaca: articolo del 2003, cinque anni per la prima sentenza di condanna, altri due per l'appello. Il giudice impiega un anno a scrivere le motivazioni e il reato si prescrive: anche perché Travaglio non rinuncia al beneficio. Ieri in Cassazione la sorpresa: Previti, difeso dall'avvocato Salvatore Pino, ottiene che il ricorso sia dichiarato inammissibile. E la condanna torna definitiva.

Minzolini vince: Travaglio va processato. La Cassazione dà ragione al senatore Pdl e pungola i giudici che hanno graziato il vicedirettore del "Fatto, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale”. Trascinare in tribunale Marco Travaglio con una querela per diffamazione è davvero dura. La Cassazione è dovuta intervenire per ben due volte, bacchettando i giudici che si opponevano alla richiesta di Augusto Minzolini di avere giustizia dopo essere stato accusato dal fustigatore de Il Fatto, con la giornalista del Tg1 Grazia Graziadei, di aver «sparato cifre a casaccio», «dati farlocchi», «balle sesquipediali», «truffaldine» e «ridicole», in un servizio tv sulle intercettazioni. Solo 3 anni dopo, grazie alla pronuncia della Suprema Corte di venerdì scorso, si torna al punto di partenza. Con un giudice che, forse, rinvierà a giudizio l'intoccabile Travaglio. E lui, dopo una lettera di Minzolini a Dagospia sulla vicenda, che fa? Annuncia: «Con le sue insinuazioni calunniose e false, il cosiddetto onorevole Minzolini, detto Mazzancolla, si è guadagnato un nuovo processo. Sarà un piacere ritrovarlo in tribunale, cioè nel suo habitat naturale». Che finisca dritto in tribunale per Travaglio non c'è dubbio: è sicuro che per lui non ci sarà bisogno di due gup e due ricorsi in Cassazione. Ma partiamo dall'inizio. Luglio 2010: l'attuale senatore Pdl dirige il primo telegiornale Rai quando Travaglio si scaglia contro il servizio firmato dalla Graziadei. Ma i dati contestati dal Fatto sono quelli ufficiali del ministero della Giustizia su numero e costi delle intercettazioni e parte la querela. Il pm è convinto che ci voglia il processo, ma il giudice non la pensa così. «Le richieste di rinvio a giudizio presentate dalla pubblica accusa vengono accolte nel 93 per cento dei casi- fa notare Minzolini nella lettera a Dagospia - ma con Travaglio è quasi impossibile avere giustizia». Più di un anno fa il gup di Roma decide il non luogo a procedere. Non dice che il reato non c'è, anzi riconosce il contrario citando frasi manifestamente diffamatorie. Però, cavilla sul fatto che il pm non ha citato proprio quelle frasi ma altre, nella sua richiesta. Anche se c'è allegato tutto l'articolo. Un altolà eccezionale, ma la cosa non finisce qui. Con caparbietà il pm e il legale di Minzolini e Graziadei, Viglione, si rivolgono alla Cassazione. E vincono: dichiarato illegittimo il non luogo a procedere, perché il giudice è «effettivamente incorso in un errore di interpretazione del capo di imputazione», visto che il pm aveva ritenuto diffamatorio l'intero articolo, nessuna frase esclusa. Ma non si va in tribunale neppure stavolta. Perché un secondo gup fa muro in difesa di Travaglio. Altro non luogo a procedere e secondo ricorso in Cassazione. Con la stessa conclusione a favore di Minzolini e Graziadei, arrivata due giorni fa. «Per ottenere il rinvio a giudizio del beniamino dei magistrati di un certo tipo - scrive Minzolini - bisogna chiederlo a due gup e rivolgersi due volte in Cassazione. Ancora non basta. Intanto però (Travaglio è ferrato sull'argomento, ma solo quando riguarda gli altri) maturano i tempi di prescrizione». La bacchettata bis degli ermellini deve aver dato molto fastidio all'editorialista del Fatto. Per Minzolini, un segnale di tanta irritazione sta in una strana coincidenza: il suo quotidiano, infatti, all'indomani della sentenza della Cassazione riaccende i riflettori sulla controversia giudiziaria dell'allora direttore del Tg1 con la Rai per la questione delle note spese e dei pranzi a base di pesce. Lo fa con un servizio in prima pagina, con «tutti i menu», sul ricorso in appello dopo l'assoluzione di Minzolini a febbraio dall'accusa di peculato. «Perché Il Fatto pubblica oggi (sabato, ndr) - chiede il senatore Pdl - un ricorso che la Rai ha presentato a giugno? La spiegazione è nella natura di quel giornale».

Giornalisti del Fatto Quotidiano perquisiti per scoop su Riina. Le abitazioni di tre giornalisti palermitani, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Rizza e Riccardo Lo Verso, sono state perquisite alle 7.30 dai carabinieri del Nucleo investigativo del Comando provinciale di Catania che hanno eseguito un provvedimento del sostituto procuratore della Repubblica di Catania, Carmelo Zuccaro, scrive “Live Sicilia”. La perquisizione sarebbe scaturita da una presunta fuga di notizie relativa ad una indagine sul capomafia di Corleone, Salvatore Riina che  dal carcere continuerebbe a guidare Cosa nostra. L’articolo firmato da Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza è stato pubblicato sul “Fatto Quotidiano”, mercoledì 9 ottobre, mentre Lo Verso ha riportato la stessa notizia sul sito d’informazione “Live Sicilia”. I carabinieri hanno perquisito le abitazioni dei tre cronisti, e hanno analizzato i personal computer, gli smartphone, le memorie digitali, i tablet e le agende dei giornalisti. Il Fatto Quotidiano aveva titolato lo scoop così: “La Juve è una bomba. Totò Riina lancia nuova stagione di stragi”.

Violazione del segreto d'ufficio con l'aggravante di aver favorito la mafia. E' contro ignoti, ma ha un titolo di reato pesantissimo il fascicolo della Procura di Catania ha aperto per la pubblicazione di notizie relative al boss Totò Riina. L'ordine dei giornalisti: "Vittime di contrasti e contrapposizioni tra i diversi uffici giudiziari", scrive Giuseppe Pipitone su “Il Fatto Quotidiano”. Sono arrivati alle prime ore del mattino e per quattro ore hanno passato al setaccio gli appunti, i personal computer, i telefoni cellulari e le agende. È scattata di prima mattina la perquisizione a tappeto nella abitazioni di tre giornalisti palermitani: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza del Fatto Quotidiano e Riccardo Lo Verso di livesicilia.it. A suonare il campanello dei tre cronisti sono arrivati intorno alle sette e trenta del mattino i carabinieri del nucleo investigativo di Catania, su ordine di Carmelo Zuccaro, procuratore aggiunto della città etnea. La perquisizione nelle abitazioni dei giornalisti è scaturita da un’inchiesta aperta nei giorni scorsi dalla procura di Catania su una presunta fuga di notizie. Perno centrale dell’indagine è la notizia esclusiva, pubblicata dal Fatto Quotidiano il 9 ottobre scorso, di un possibile nuovo attentato progettato dal superboss di Cosa Nostra Salvatore Riina. “La Juve è una bomba” avrebbe detto il padrino corleonese durante un colloquio in carcere con i figli. Parole che potrebbero contenere un ordine di morte per il pm palermitano Antonino Di Matteo, destinatario nel marzo scorso di una lettera anonima in cui si delineava il progetto stragista di Riina. La notizia era comparsa sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di mercoledì scorso a firma di Lo Bianco e Rizza, nella stessa giornata in cui Lo Verso aveva riportato la medesima cronaca sul quotidiano on line livesicilia.it. Secondo la procura di Catania, che indaga sui reati commessi e subiti da magistrati della procura di Caltanissetta, la fonte che avrebbe fornito la notizia ai cronisti si sarebbe macchiato di violazione di segreto d’ufficio, con l’aggravante di aver favorito la mafia. I giornalisti non sono indagati dato che l’inchiesta è a carico di ignoti, ma gli inquirenti hanno provveduto a far scattare la perquisizione a sorpresa per cercare di rintracciare indizi che potessero condurre alla fonte. È per questo che hanno passato ai raggi X ogni angolo delle abitazioni dei cronisti: dai supporti elettronici, agli appunti, fino alle automobili e qualsiasi altro luogo di pertinenza dei tre giornalisti. Pronta è arrivata la nota di solidarietà dell’Unci, l’unione nazionale dei cronisti italiani, che ricorda come “appena ieri il commissario per i diritti umani della Unione Europea, Nils Muiznieks, ha direttamente criticato l’Italia per l’arretratezza delle sue norme sul diritto all’informazione e per non essersi ancora uniformata alla giurisprudenza che promana dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Il Governo italiano se vuole cancellare questo primato negativo deve allineare subito la legislazione alle più civili e liberali norme europee”. L’Ordine dei giornalisti pone invece l’accento sulle uniche colpe di cui si sarebbero macchiati i cronisti, ovvero “aver pubblicato notizie di rilievo, ma probabilmente sono anche vittime di contrasti e contrapposizioni tra diversi uffici giudiziari”. Tanto basta però per subire una minuziosa perquisizione di prima mattina.

Travaglio si arrabbia ogni qualvolta viene ritirata fuori la vicenda della sua vacanza con un personaggio condannato per vicende di mafia, l’ex maresciallo della Guardia di Finanza Ciuro, scrive “Il Fazioso”. Il caso esplode nel 2008, quando D’Avanzo racconta su Repubblica quella villeggiatura comune del giornalista con il finanziere che nel novembre del 2003 sarà poi arrestato con l’accusa di essere una talpa a servizio di uomo legato alla mafia, Michele Aiello. Si parlò addirittura di vacanza pagata al giornalista poi come sempre quando si parla di vicende legate a “campioni della sinistra” il tutto si sgonfiò velocemente. Resta il fatto che Travaglio fu protagonista del primo caso di “a sua insaputa”, una vacanza pagata/non pagata con un semimafioso. E questo lo fa terribilmente arrabbiare, uno come lui che è esaurito con il controllo preventivo dei fatti che si fa beccare sotto l’ombrellone con un criminale non è proprio il massimo…

Il metodo Travaglio applicato a Travaglio, scrive Alessandro Spanu su “The Front Page”. Se, per assurdo, dovessimo applicare il “metodo Travaglio”, basato su allusioni, sospetti e menzogne, allo stesso Travaglio, forse potremmo processare anche lui, al pari di Dell’Utri, per concorso esterno in associazione mafiosa, un reato molto fumoso, simile alla stregoneria, poco suscettibile di essere provato in un dibattimento, ma efficace per mettere alla gogna l’indagato per anni in tv e sui giornali come “mafioso” o supposto amico di mafiosi. Infatti il Nostro, nonostante attacchi l’odiato Cainano per fatti avvenuti 30 o 40 anni fa come l’assunzione di Mangano, pare abbia trascorso le vacanze del 2002 e del 2003 (non nel secolo scorso!) col maresciallo Ciuro, componente della polizia giudiziaria di Palermo, condannato per favoreggiamento, e pare (dico: pare) che il conto delle ferie del 2003  sia stato pagato direttamente dall’imprenditore Aiello, condannato per mafia a 14 anni, il quale, verosimilmente, do ut des, voleva fare un favore al suo amico Ciuro (il quale, secondo il Tribunale, era una talpa della mafia al palazzo di giustizia, in quanto informava su cosa stessero facendo i magistrati). Ma che frequentazioni discutibili, per dirla con un eufemismo, ha il Robespierre di Servizio Pubblico: secondo il “metodo Travaglio” anche lo stesso Travaglio sarebbe amico dei mafiosi…P.S. E pensare, inoltre, che lo stesso Ciuro al palazzo di giustizia di Palermo divideva la stanza col procuratore Ingroia! Sì, proprio lui, il persecutore di Dell’Utri, il barbuto magistrato spesso ospitato in tv per inveire contro il “Giaguaro” e le sue torbide trattative con la mafia. Ma come possono pretendere di essere credibili nel fare la lotta alla mafia questi pm, oggi per fortuna lontani dalla Sicilia, in centramerica oppure ad Aosta, se, per tanni anni, non si accorgono nemmeno di avere tutti i giorni un amico di mafiosi a pochi metri dalle loro poltrone?

Il matrimonio tra il vice direttore del Fatto Quotidiano e il leader del Movimento 5 Stelle si chiude sull'emendamento sul reato di immigrazione clandestina, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. "Siamo amici da vent'anni, non è certo un mistero". Era giugno 2012 e Marco Travaglio, ospite de L'intervista su SkyTg24, certificava e rivendicava il sodalizio con Beppe Grillo. Il tutto pochi giorno dopo l'intervista realizzata dal vicedirettore del Fattoquotidiano al leader del M5S. Intervista che destò numerose polemiche per il grado di benevolenza mostrato dal semprecinico Travaglio. Che però quando si trovò di fronte l'ex comico genovese preferì deporre la penna affilata sostituendola con una dolce di piuma. Nessun quesito scomodo, nessuna domanda sull'ambiguo ruolo di Casaleggio. Niente di niente. Roba che se l'avesse fatto qualcun altro sarebbe subito stato tacciato di servile genuflessione. Ma il Fatto quotidiano è l'organo ufficiale del Movimento 5 Stelle? Alla domanda posta da molti lettori ha dovuto scendere in campo Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del quotidiano: "Non l'ho trovata un'intervista-zerbino, non siamo e non saremo l'organo di Grillo", tuttavia, "se mai l'avessi scritta io, quell'intervista, forse avrei pubblicato qualcosa di diverso. Magari ho qualche punto interrogativo in più". Insomma, il matrimonio tra Grillo e Travaglio andava a gonfie vele (il giornalista ha pure ammesso candidamente di aver "votato due volte Grillo"). Ma oggi la storia è cambiata. "C'eravamo tanto amati", si potrebbe intitolare il nuovo capitolo. Perché la tirata d'orecchi di Grillo ai senatori del M5S sull'emendamento che prevede l'abolizione del reato di immigrazione clandestina nel rapporto tra i due ha allargato una crepa già aperta da tempo. "Grillo e Casaleggio hanno perso una buona occasione per stare zitti. Male hanno fatto a bacchettare i loro senatori, disconoscendo il disegno di legge per l'eliminazione del reato. I parlamentari hanno obbligato Pd e Sel a votare con loro un provvedimento perfetto per tempistica rispetto a quanto è accaduto in questi giorni", si legge nell'editoriale di Travaglio di oggi. E manco a farlo apposta, sempre oggi sul blog di Grillo va in scena un vero e proprio attacco al Fatto quotidiano, giornale considerato  - almeno fino a qualche tempo fa - vicino al Movimento: "Possente campagna sul Fatto Quotidiano, che ha sostituito l’Unità come organo del PD (menoelle), ricca di battute e insulti contro Beppe Grillo (nuovo leghista...) e parte della rete M5S che non si prostra alle gonnelle piddine e all’ipocrisia del momento sul tema immigrazione". La critica sul blog, firmata da Ernesto Leone Tinazzi, attivista romano, si fa poi più caustica: "Con articoli di basso livello e mediocri ricchi di insulti, velate porcate e accuse di xenofobia, borghezio oriented e invito a mandare a fare in c...o i garanti dell’M5S, nonché sobillare i nostri senatori e deputati. Inutile linkare, potete andare a leggere sul loro sito. Sempre vero: meglio nemici diretti, che falsi amici. Posso solo non acquistare il fatto quotidiano; piu’ serio comprare l’Unità o nulla (come faccio da tempo), giornale di partito non mascherato che non ti prende per il c...o". Insomma, anche i giornalisti del Fatto non sono più amici. In realtà un anticipo di divorzio tra Grillo e Travaglio si era consumato sempre a ottobre, ma di due anni fa, quando in un post apparso sul suo blog Grillo i giornalisti del Fatto venivano considerati "schierati, residuati dell'Unità che ha sempre vissuto di contributi pubblici che attaccano il sistema con la forza di un cane da pagliaio". Lo scontro è molto aspro perché Grillo accusa Il Fatto di ospitare pubblicità a lui poco gradite: "Chi non prende i finanziamenti pubblici e fa paginate di pubblicità dell'Eni, Telecom, dell'Expo è ancora peggio di chi prende i finanziamenti pubblici". Padellaro rispose minimizzando: "Si tratta della battuta di un vecchio comico che non fa più ridere". E adesso Grillo sembra un politico che non ha più seguito, almeno di  Travaglio. Il giornalista, già nel giugno scorso, con un editoriale dal titolo "I grullini", paragonava Grillo a Ceaucescu in merito all'espulsione della senatrice Gambaro: "Intendiamoci: cacciare, o far cacciare dalla “rete", una senatrice che ha parlato male di Grillo, manco fosse la Madonna o Garibaldi, è demenziale, illiberale e antidemocratico in sé, non è nemmeno il caso di esaminare l’oggetto del contendere, cioè le frasi testuali pronunciate dalla senatrice nell’intervista incriminata a Sky, perché il reato di lesa maestà contro il Capo è roba da Romania di Ceausescu". Boom. Un amore finito?

La storia d'amore tra Beppe Grillo e Marco Travaglio finisce sull'emendamento del M5S per l'abolizione del reato di immigrazione clandestina continua “Libero Quotidiano”. "Grillo e Casaleggio hanno perso una buona occasione per stare zitti". Marco Travaglio nell'editoriale di oggi, sabato 12 ottobre, sul Fatto Quotidiano, critica aspramente il leader del M5S e il guru Gianroberto Casaleggio per il loro "no" alla proposta dei parlamentari grillini sull'immigrazione. Il tema è sempre quello del reato di clandestinità, tornato prepotentemente alla ribalta con la tragedia di Lampedusa (e pure con l'affondamento di un altro barcone di disperati ieri pomeriggio). Secondo Travaglio Grillo e Casaleggio hanno fatto male a bacchettare i loro senatori, disconoscendo il disegno di legge per l'eliminazione del reato. Perchè, spiega Travaglio, i parlamentari pentastellati hanno agito con grande tempismo, "obbligando Pd e Sel a votare con loro un provvedimento perfetto per tempistica rispetto a quanto è accaduto in questi giorni". Travaglio stigmatizza la frase con cui Grillo ha censurato i suoi: "Se avessimo incluso l'abolizione del reato di clandestinità nel nostro programma, alle passate elezioni avremmo avuto un risultato da prefisso telefonico". E ce l'ha pure coi 'piani quinquennali' del Movimento: "Va bene - concede - la coerenza nei confronti degli impegni presi con gli elettori, che significa fare le cose scritte nel programma, ma nel corso di una legislatura si possono presentare delle situazioni impreviste, delle emergenze rispetto alle quali una forza politica non può restare passiva. E questo hanno fatto i senatori 5 stelle: agire con tempismo per dare una risposta a una esigenza impellente". Insomma una bocciatura senza se e senza ma della linea dei due leader pentastellati. La risposta di Beppe non si fa attendere. Ma non è il leader a sporcarsi le mani, tanto meno il socio Gianroberto Casaleggio: a coprire di insulti il vicedirettore del Fatto  è il commento di Ernesto Tinazzi Leone dal titolo eloquente: "I falsi amici".  Solo un commento? Non proprio, perchè il testo è stato estrapolato e incastonato in bella vista nella home del sito. Una chiara scelta editoriale. "Possente campagna sul Fatto Quotidiano, che ha sostituito l'Unità come organo del PD (menoelle, ndr), ricca di battute e insulti contro Beppe Grillo (nuovo leghista...)". Il blog di Grillo accusa l'ex amico Marco di insultare anche quella "parte della rete M5S che non si prostra alle gonnelle piddine e al'ipocrisia del momento sul tema immigrazione". La denuncia è quella di una vera e propria campaga stampa (il Fatto usa la macchina del fango?) basata su "articoli di basso livello e mediocri ricchi di insulti, velate porcate e accuse di xenofobia, borghezio oriented". L'intento del Travaglio&co, secondo il blog di Grillo, è sovversivo: rappresenta cioè un "invito" ai sostenitori del 5 stelle "a mandare a fare in culo i garanti dell'M5S, nonchè sobillare i nostri senatori e deputati". Le conclusioni sono spietate: "Sempre vero: meglio nemici diretti, che falsi amici - scrive Tinazzi -. Posso solo non acquistare il fatto quotidiano (sic); più serio comprare l'Unità o nulla (come faccio da tempo), giornale di partito non mascherato che non ti prende per il culo. I giornalisti del Fatto sono falsi, sobillatori e amici del Pd". La base si ribella -  Insomma Grillo regola subito i conti con Travaglio e il Fatto, ma la base dei Cinque Stelle insorge contro il leader e lo fa proprio sul blog di Grillo. "Beppe, Casaleggio, ma un po' di autocritica voi 2 mai?!?" chiede Massimo Melpi. "Bravi, siete fantastici - rimprovera Filippo Gatti -, se volete affossare l'unica speranza contro il monopolio politico degli ultimi 20 anni state operando nella maniera più giusta". Nell'eco dei sostenitori più fedeli della coppia di leader, si stagliano però le voci più critiche: "Travaglio, Scanzi, gli eletti in parlamento, una moltitudine di elettori e di iscritti - ricorda Mauro Caputo -, vi stanno dicendo ( a chiare lettere ): "Sapete che c'è caro Beppe e caro Casaleggio? Avete fatto una minchiata."

TRAVAGLIO. DELINQUENTE A CHI?

“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente”. Aforisma di Bertolt Brecht.

Travaglio, senti chi parla: anche lui è un delinquente. Il giornalista insulta di continuo l'ex premier, ma una sentenza lo inchioda: con una condanna definitiva sul groppone è tecnicamente un pregiudicato, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Delinquente. Pregiudicato. Ancora delinquente. Travaglio & co fanno rullare per h24 i tamburi della loro soddisfazione manettara e infarciscono il Fatto quotidiano come e più di un panino dagli ingredienti forti. Da quando Antonio Esposito ha letto la sentenza che coronava i sogni inseguiti per un ventennio, il travaglismo è tutto un rotolare stentoreo di sostantivi questurini. E, diciamo la verità, c'è tutto un giornalismo ebbro che sta affogando nel linguaggio cupo e burocratico dei mattinali. Il 10 settembre 2013, nel corso del programma di Gianluigi Paragone, la Gabbia, in onda su La7, Daniela Santanchè gioca maliziosamente con i punti esclamativi, le manette virtuali e il lampeggiante perennemente acceso di Travaglio e l'attacca usando la stessa moneta. La Pitonessa, più Pitonessa che mai, esibisce davanti alle telecamere un pacco di fogli, si presume una sentenza, poi attacca: «Travaglio chiama sempre il mio leader Berlusconi delinquente. Bene, Travaglio è condannato in terzo grado di giudizio e quindi per me è un delinquente e diffamatore». Poteva pure finire lì. Ma l'idolo del giustizialismo italiano evidentemente va a nozze con un mondo che sta tutto nei verbali, negli interrogatori, nei lunghi corridoi mal spolverati di caserme e palazzi di giustizia. Così risponde alla provocazione, invece di riflettere e fermarsi un istante prima: «Se la Santanchè vuol sapere qualcosa su giornalisti delinquenti si rivolga in famiglia». Allusione chiara al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, punito, pure lui, in via definitiva con 14 mesi. Nello studio volano gli insulti, anzi in studio ci sono solo le stoccate e i colpi proibiti perché i due contendenti sono fisicamente lontani e collegati via video. «Godo da bestia a chiamarlo delinquente», insiste lei. Travaglio diventa puntiglioso e prova a spiegare la differenza fra i reati fiscali, quelli di cui è accusato il Cavaliere, e la diffamazione, una sorta di malattia professionale del giornalismo: «Quella condanna mi è costata mille euro di multa. Mille euro in trent'anni di professione. Mi reputo fortunato». Come no, ma è vero che a voler essere coerenti fino in fondo l'Italia è una gabbia, altro che quella di Paragone, strapiena di pregiudicati, delinquenti e recidivi. Basta poco per essere marchiati. Come è capitato a molte firme nobili del giornalismo e molti personaggi da prima pagina, per i motivi più disparati. Certo, ha ragione Travaglio nel sostenere che non tutti i reati sono uguali: l'omicidio volontario non è paragonabile all'omicidio colposo che è costato un verdetto di colpevolezza ad un altro protagonista della politica italiana, Beppe Grillo. Ma il problema è un altro. L'imbarbarimento del vocabolario e del resto quella sintassi, ingolfata di termini giudiziari e parapolizieschi, esprime l'ideologia di chi a sinistra ha coltivato l'eliminazione di Berlusconi per via processuale. Ora che i risultati sono arrivati ci si accorge anche di come si è degradato l'orizzonte di tante gazzette e gazzettieri: per anni si è parlato solo e soltanto di avvisi di garanzia, inviti a comparire, leggi ad personam, leggi bavaglio e salvacondotti. Ora siamo alle sentenze irrevocabili, ai pregiudicati, ai delinquenti. E alla decadenza del Cavaliere. No c'è nessun tentativo di pesare il valore di una storia politica che ha segnato questo Paese e ha calamitato milioni di voti. Niente. Solo deposizioni. Solo pentiti e stallieri. Solo prestanome. E la complessità del mondo schiacciata nel buco della serratura di una cella. Nient'altro. Poi ricomincia lo scambio di complimenti e spagnolismi per la gioia di Paragone: «Godo da bestia a chiamarlo delinquente. E poi come tratta le donne - rilancia la Santanchè- ho dei dubbi che gli piacciano». «Le assicuro che non avrà mai modo di provarlo con me», contraccambia lui gentilmente. Prima di chiudere in bellezza: «Qui ci vuole il Tso. Mettetele la camicia di forza».

Bene, allora cari italiani: TUTTI DENTRO, CAZZO??? QUASI TUTTI!!!!

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

GIUDICI IMPUNITI.

I giudici impuniti: risarcito un innocente su 100. Quattro detenuti su dieci, nelle 206 carceri italiane, sono «in attesa di giudizio»: sono in cella per un ordine di custodia cautelare, quello che prima della riforma del codice del 1989 si chiamava più onestamente «ordine di carcerazione preventiva». Per l’esattezza, calcola l’associazione Antigone, i reclusi che non sono ancora stati processati sono 26.804 su un totale di 66.685. Nessun Paese europeo ha statistiche così elevate e sconvolgenti: la media generalmente non supera il 10-15 per cento.

Su 400 cause intentate dal 1988 per ingiusta detenzione l’errore è stato riconosciuto soltanto 4 volte. Solo l'1 per cento dei ricorsi contro i magistrati per ingiusta detenzione si risolve con una condanna della toga , scrivono  Gian Marco Chiocci e Pier Francesco Borgia su “Il Giornale”. Se si vuole parlare concretamente della responsabilità dei giudici e degli errori giudiziari partiamo dai numeri: solo l’1% dei giudizi ha visto lo Stato «pagare» i danni del lavoro del giudice. Insomma la «montagna» della cosiddetta legge Vassalli, che ha introdotto a partire dal 1988 la responsabilità dei magistrati come richiesto dalla stessa Costituzione (articolo 24), ha partorito un «topolino». A offrire un bilancio dei primi 23 anni della legge è la relazione presentata in Commissione giustizia della Camera da Ignazio Caramazza, Avvocato generale dello Stato. In buona sostanza soltanto l’1% dei ricorsi contro magistrati per ingiusta detenzione si è risolto con una condanna della toga. «Dai dati raccolti dall’Avvocatura dello Stato - si legge nella relazione - risultano proposte poco più di 400 cause. Di queste 253 sono state dichiarate inammissibili, 49 sono in attesa di pronuncia sull’ammissibilità, 70 sono in fase di impugnazione di decisioni di inammissibilità e 34 sono state dichiarate ammissibili». Solo in 4 di queste si è arrivati alla condanna dello Stato. Insomma la percentuale è veramente bassa. Quattro condanne su 406 casi. E con un grande lavoro del filtro dell’ammissibilità che ne ha rigettate subito 253 (62%). Secondo l’Avvocatura dello Stato «emerge una eccessiva operatività» di questo «filtro». Questo «difettoso funzionamento della legge» porta, secondo Caramazza, a una abrogazione sostanziale di parti qualificanti della norma che ne stravolgono il senso. L’audizione dell’Avvocato generale dello Stato in Commissione giustizia porta quindi un nuovo punto di vista sulla legge Vassalli e sulla necessità di riformulare la normativa che dà un senso compiuto all’indirizzo proposto dalla stessa Carta costituzionale nell’articolo 24. Vale forse la pena di ricordare, a questo punto, quanto scritto nel comma 4: «La legge determina le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari». E non solo per colpa grave o dolo. Quindi anche un errore di interpretazione normativa può recare danni a chi viene sottoposto a giudizio. E il senso dell’emendamento proposto dal leghista Gianluca Pini non solo intende rispondere ai desiderata della Costituzione ma anche ai diktat dell’Unione Europea. L’emendamento chiama i giudici a rispondere per «ogni manifesta violazione del diritto». Lo stesso Caramazza auspica una riforma in tal senso e ricorda che il nodo a una equa applicabilità della legge Vassalli è proprio l’articolo 2 della stessa legge che spiega come «nell’esercizio delle funzioni giudiziarie non può dar luogo a responsabilità l’attività di interpretazione di norme». Più prudente il parere espresso dai vertici del Consiglio nazionale forense nel corso di una conferenza stampa. Guido Apa, presidente del Cnf mette le mani avanti: «Dobbiamo ancora capire in che modo il principio dell’emendamento è conforme ai principi costituzionali e se il giudice possa in questo modo applicare serenamente la legge». Situazione per così dire paradossale. Da un lato c’è l’Avvocatura generale dello Stato che, chiamata a esprimersi dalla Commissione giustizia, dà un suo pur prudente assenso. Dall’altro ci sono gli avvocati che, con il loro temporeggiare, sembrano ancora incerti sul valore dell’emendamento. Eppure sarà la prima a difendere i magistrati nelle cause mentre saranno i secondi ad assistere i singoli nelle azioni contro lo Stato.

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

«Berlusconi aveva assunto lo stalliere Vittorio Mangano per far entrare Cosa Nostra dentro la sua villa. Il patto sancito in una cena a Milano alla quale avevano partecipato lo stesso Cavaliere e diversi esponenti della criminalità organizzata siciliana». Le motivazioni (pesantissime) della condanna d'appello per Dell'Utri. «E' stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi (tre mafiosi) avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a Cosa nostra per ricevere in cambio protezione (...)». E poi: «Vittorio Mangano non era stato assunto per la sua competenza in materia di cavalli, ma per proteggere Berlusconi e i suoi familiari e come presidio mafioso all'interno della villa dell'imprenditore». Sono parole pesantissime quelle che i giudici della terza sezione penale della Corte di appello di Palermo nelle motivazioni della sentenza con cui Marcello Dell'Utri è stato condannato il 25 marzo 2013 a sette anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa. Parole pesanti verso lo stesso Dell'Utri, che «tra il 1974 e il 1992 non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti», e «ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento», ma anche verso l'ex premier dato che Dell'Utri viene definito «mediatore contrattuale» del patto tra Cosa Nostra e lo stesso Berlusconi. Secondo i giudici, «è stato acclarato definitivamente che Dell'Utri ha partecipato a un incontro organizzato da lui stesso e Cinà (mafioso siciliano) a Milano, presso il suo ufficio. Tale incontro, al quale erano presenti Dell'Utri, Gaetano Cinà, Stefano Bontade, Mimmo Teresi, Francesco Di Carlo e Silvio Berlusconi, aveva preceduto l'assunzione di Vittorio Mangano presso Villa Casati ad Arcore, così come riferito da Francesco Di Carlo e de relato da Antonino Galliano, e aveva siglato il patto di protezione con Berlusconi». «In tutto il periodo di tempo in oggetto (1974-1992) Dell'Utri ha, con pervicacia, ritenuto di agire in sinergia con l'associazione e di rivolgersi a coloro che incarnavano l'anti Stato, al fine di mediare tra le esigenze dell'imprenditore milanese (Silvio Berlusconi) e gli interessi del sodalizio mafioso, con ciò consapevolmente rafforzando il potere criminale dell'associazione», è scritto poi nelle motivazioni. Dell'Utri quindi è «ritenuto penalmente responsabile, al di là di ogni ragionevole dubbio, della condotta di concorso esterno in associazione mafiosa dal 1974 al 1992» e la sua personalità «appare connotata da una naturale propensione ad entrare attivamente in contatto con soggetti mafiosi, da cui non ha mai mostrato di volersi allontanare neppure in momenti in cui le proprie vicende personali e lavorative gli aveva dato una possibilità di farlo» .

Per i magistrati è più utile considerare Berlusconi un mafioso, anziché considerarlo una vittima dell’inefficienza dello Stato che non sa difendere i suoi cittadini. Una vittima che è disposta ai compromessi per tutelare la sicurezza dei suoi affari e della sua famiglia.

Chi paga il pizzo per lo Stato è un mafioso. E se non ti adegui ti succede quello che succede a tutti. Una storia esemplare:

Valeria Grasso: “Ho denunciato la mafia, ora denuncio lo Stato”, scrive Paolo De Chiara su “Resto al Sud”. “Una vergogna, una vergogna senza fine”. Con queste poche parole si può descrivere la situazione dei Testimoni di Giustizia in Italia. Dove lo Stato non riesce a fare il proprio dovere. Fino in fondo. Sono troppe le storie drammatiche, che restano nel silenzio. Troppi gli ostacoli, le difficoltà, i pericoli, i drammi. I testimoni di giustizia, fondamentali per la lotta alla criminalità organizzata, devono essere protetti e sostenuti. Nel Paese delle mafie lo Stato abbandona i suoi testimoni. Lo ha fatto in passato e sta continuando a farlo. Non stiamo parlando dei "pentiti", dei collaboratori di giustizia. Di chi ha commesso dei reati e ha deciso, per qualsiasi ragione, di "collaborare" con lo Stato. Anche i "pentiti" (quelli credibili) servono, sono necessari per combattere le organizzazioni criminali. Ma i testimoni sono un’altra cosa. Sono semplici cittadini, che non hanno commesso reati. Hanno visto, hanno subito e hanno deciso di "testimoniare". Per dovere civico, perché è giusto comportarsi in un certo modo. Nel BelPaese il dovere civico è poco apprezzato. I testimoni di giustizia, in Italia, denunciano le stesse problematiche. Ma nessuno ascolta, risponde. Si sentono abbandonati. Prima utilizzati e poi lasciati in un "limbo" profondo. Senza luce e senza futuro. “Non mi pento della scelta fatta, quella di denunciare i miei estorsori”. È la voce di Valeria Grasso, imprenditrice palermitana, donna coraggiosa. Oggi presidente di Legalità è Libertà, associazione antiracket, antiusura e mobbing. Si è ribellata alla mafia, al sistema mafioso, alla prepotenza di gente senza scrupoli. Ha denunciato, ha fatto arrestare i suoi estorsori. Gli appartenenti al clan mafioso dei Madonia. Cosa Nostra siciliana. “Ci sentiamo lasciati soli, il programma di protezione non funziona”. Un concetto espresso da molti testimoni di giustizia. “Più che un programma di protezione – si sfoga Valeria – sembra una punizione, una distruzione per la denuncia”. Valeria, per aver fatto il proprio dovere, continua a ricevere minacce, intimidazioni, avvertimenti. L’ultima ha coinvolto sua figlia, di 11 anni. Alle minacce degli uomini del disonore (o pezzi di merda, come li definisce il collega siciliano, il direttore di TeleJato Pino Maniaci), si aggiungono le strane e discutibili decisioni dello Stato. “Mi sento presa in giro, mi hanno sospeso il contributo di sopravvivenza, senza nessuna comunicazione. Avevano già tolto quello per mia figlia”.

Il presidente di Azione Civile, Antonio Ingroia ha affermato: “Quanto accaduto all’imprenditrice palermitana Valeria Grasso, testimone di giustizia, inserita nel programma di protezione per aver denunciato e fatto arrestare i suoi estorsori, non è degno di un Paese civile”. Cosa ti è accaduto?

«Sono nel programma di protezione e vivo in località protetta. Mia figlia, la maggiore, ha avuto gravi problemi di salute e si è dovuta staccare dalla località protetta ed è arrivata a Palermo nel mese di gennaio. Questa sua situazione di salute si è aggravata e a maggio, con regolare autorizzazione, sono dovuta tornare a Palermo, provvisoriamente, per assistere mia figlia. E’ stata ricoverata in ospedale dodici giorni, una depressione causata da tutta una serie di situazioni che abbiamo vissuto in località protetta, come la casa avuta dopo un anno e il vivere in alberghi.»

E cosa succede?

«Il 2 agosto mi accorgo che non mi è stato accreditato il contributo mensile. Il testimone di giustizia che vive in località protetta non potendo più lavorare ha un sussidio che serve alla sopravvivenza del nucleo familiare. Mi dicono, al telefono, che mi era stato sospeso.»

Una questione di soldi?

«Il problema è come viene trattata la gente. Questo programma di protezione sembra un programma di punizione. Tutto quello che deve essere garantito lo devi sudare, devi combattere. Come se la tua famiglia fosse un peso, da punire. Non esiste che al tuo nucleo familiare, improvvisamente e senza preavviso, viene sospeso il contributo di mantenimento. Ma se è previsto dalla legge, che la famiglia ha un sussidio per vivere, come fai il due agosto, senza una comunicazione… c’è malafede.»

Perché parli di malafede?

«La legge non prevede la sospensione del contributo, c’è qualcuno all’interno del Servizio che ha preso una decisione che non è legale. Come dice il dott. Ingroia, determinate decisioni vengono prese in Commissione, la revoca del contributo viene fatta se c’è un motivo gravissimo. Per esempio l’abbandono della località, la fuoriuscita dal programma. Ma non è possibile che a una madre, giù in Sicilia, per motivi gravi della famiglia venga sospeso il contributo. Ma di cosa stiamo parlando?»

Secondo te perché si comportano in questo modo con i testimoni di giustizia?

«Perché non c’è un controllo, nessuno controlla il sistema del servizio di protezione. Non c’è all’interno una volontà di incentivare la figura del testimone di giustizia, sempre costretta ad essere vista come una figura poveretta che deve stare lì ad elemosinare, piuttosto che una risorsa della società civile. In questo modo sei continuamente a gridare allo Stato tutto quello che ti spetterebbe di diritto. E’ una battaglia, mi trovo a lottare contro coloro che dovrebbero aiutarmi a ridare equilibrio a casa mia.»

Tu sei una testimone di giustizia perché hai fatto arrestare degli estorsori del clan Madonia…

«Gestivo una palestra, un bene confiscato di proprietà della famiglia Madonia. Per certi personaggi la parola ‘confisca’ non esiste. Alle prime richieste di estorsione mi ero opposta tassativamente, non volevo pagare, ero molto spaventata. Madre di tre figli e separata. Ci sono momenti molto difficili, soprattutto, sapendo chi sono i personaggi.»

Chi sono?

«Madonia è stato colui che ha ucciso Libero Grassi, ha fatto parte dei mandanti della strage di via D’Amelio. La moglie di Madonia, Maria Angela, è definita il boss in gonnella. Si può ben capire di chi stiamo parlando.»

Quindi cosa succede?

«Ho provato anche a vendere l’attività per cercare di tutelare la mia famiglia, ero riuscita a venderla a un ragazzo di vent’anni. Dei personaggi, mandati da loro e arrestati grazie alle mie denunce, pretendevano che io da vittima diventassi estorsore. Pretendevano che io andavo dalla persone che aveva comprato la mia palestra per ritirare 500euro al mese, diventando un loro esattore. A quel punto è stata inevitabile la scelta, sono andata a denunciare. Oggi ho ripreso la palestra, ho restituito i soldi a quel ragazzo che l’aveva presa e ho tentato di riattivarla. Gli atti di intimidazione sono stati talmente tanti che la Procura di Palermo ha predisposto l’inserimento urgente nel programma per un pericolo imminente di vita.»

Le minacce non sono terminate. Tua figlia di 11 anni, poco tempo fa, è stata "avvicinata".

«È stata minacciata al cellulare dalla voce di un tizio che, poi, si è  presentato come Pietro e che ha detto in siciliano: "So chi sei e so chi è tua madre". Più che un messaggio a lei è stato un messaggio a me.»

Ritorniamo al programma di protezione…

«Un business, un’invenzione. Non ha assolutamente la funzione che dovrebbe avere. Mi sento presa in giro da questo sistema. Smetterò di sentirmi presa in giro quando chi di dovere, dopo le mie continue denunce, si degni di ricevermi così come ha fatto il presidente Crocetta (Presidente della Regione Sicilia, ndr), che alla vigilia di ferragosto, appena ha letto quello che stava succedendo tramite il dott. Ingroia, che è stato il mio magistrato, ha voluto incontrarmi. Garantendo chiarezza su questa storia. Ho scritto alla presidente Boldrini, telefono continuamente alla segreteria del Ministro, ma di che cosa parlano? Come vogliono che l’Italia, la Sicilia cambi o si combatta la mafia quando quelle persone che dovrebbero essere il megafono della legalità diventano il megafono di uno Stato che non funziona.»

Una situazione difficile…

«Che mi stimola sempre di più ad andare avanti per combattere contro questo sistema. Non ci dobbiamo isolare, dobbiamo continuare a denunciare e a combattere questo sistema che non funziona. Mi aspetto che il Ministro intervenga e che qualcuno cominci a volerci vedere chiaro come funziona il sistema di protezione, chi lo gestisce, chi sono i direttori del Servizio e come mai prendono della decisioni che non vengono autorizzate, per esempio, dalla Commissione. È necessario che qualcuno faccia un immediato intervento, perché altrimenti ci si sta prendendo tutti quanti in giro.»

“La mafia, come ci è inculcata dalla stampa di regime, è un’entità astratta, impossibile da debellare, proprio perché non esiste.”

Lo scrittore Antonio Giangrande sul fenomeno “Mafia” ha scritto un libro: “MAFIOPOLI. L’ITALIA DELLE MAFIE. QUELLO CHE NON SI OSA DIRE”. Book ed E-Book pubblicato su Amazon.it e che racconta una verità diversa da quella profusa dai media genuflessi alla sinistra ed ai magistrati.

«L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.»

Continua Antonio Giangrande.

«La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: "Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!"

“La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera”. Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

“Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa”. “In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere”.  Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Questi sono solo pochi esempi di dichiarazioni ufficiali.

Abbiamo una Costituzione catto-comunista predisposta e votata dagli apparati politici che rappresentavano la metà degli italiani, ossia coloro che furono i vincitori della guerra civile e che votarono per la Repubblica. Una Costituzione fondata sul lavoro (che oggi non c’è e per questo ci rende schiavi) e non sulla libertà (che ci dovrebbe sempre essere, ma oggi non c’è e per questo siamo schiavi). Un diritto all’uguaglianza inapplicato in virtù del fatto che il potere, anziché essere nelle mani del popolo che dovrebbe nominare i suoi rappresentanti politici, amministrativi e giudiziari, è in mano a mafie, caste, lobbies e massonerie. 

Siamo un popolo corrotto: nella memoria, nell’analisi e nel processo mentale di discernimento. Ogni dato virulento che il potere mediatico ci ha propinato, succube al potere politico, economico e giudiziario, ha falsato il senso etico della ragione e logica del popolo. Come il personal computer, giovani e vecchi, devono essere formattati. Ossia, azzerare ogni cognizione e ripartire da zero all’acquisizione di conoscenze scevre da influenze ideologiche, religiose ed etniche. Dobbiamo essere consci del fatto che esistono diverse verità.

Ogni fatto è rappresentato da una verità storica; da una verità mediatica e da una verità giudiziaria.

La verità storica è conosciuta solo dai responsabili del fatto. La verità mediatica è quella rappresentata dai media approssimativi che sono ignoranti in giurisprudenza e poco esperti di frequentazioni di aule del tribunale, ma genuflessi e stanziali negli uffici dei pm e periti delle convinzioni dell’accusa, mai dando spazio alla difesa. La verità giudiziaria è quella che esce fuori da una corte, spesso impreparata culturalmente, tecnicamente e psicologicamente (in virtù dei concorsi pubblici truccati). Nelle aule spesso si lede il diritto di difesa, finanche negando le più elementari fonti di prova, o addirittura, in caso di imputati poveri, il diritto alla difesa. Il gratuita patrocinio è solo una balla. Gli avvocati capaci non vi consentono, quindi ti ritrovi con un avvocato d’ufficio che spesso si rimette alla volontà della corte, senza conoscere i carteggi. La sentenza è sempre frutto della libera convinzione di una persona (il giudice). Mi si chiede cosa fare. Bisogna, da privato, ripassare tutte le fasi dell’indagine e carpire eventuali errori dei magistrati trascurati dalla difesa (e sempre ve ne sono). Eventualmente svolgere un’indagine parallela. Intanto aspettare che qualche pentito, delatore, o intercettazione, produca una nuova prova che ribalti l’esito del processo. Quando poi questa emerge bisogna sperare nella fortuna di trovare un magistrato coscienzioso (spesso non accade per non rilevare l’errore dei colleghi), che possa aprire un processo di revisione.

Non sarà la mafia a uccidermi ma alcuni miei colleghi magistrati (Borsellino). La verità sulle stragi non la possiamo dire noi Magistrati ma la deve dire la politica se non proprio la storia (Ingroia). Non possiamo dire la verità sulle stragi altrimenti la classe politica potrebbe non reggere (Gozzo). Non sono stato io a cercare loro ma loro a cercare me (Riina). In Italia mai nulla è come appare. Ipocriti e voltagabbana. Le stragi come eccidi di Stato a cui non è estranea la Magistratura e gran parte della classe politica del tempo.

Chi frequenta bene le aule dei Tribunali, non essendo né coglione, né in mala fede, sa molto bene che le sentenze sono già scritte prima che inizi il dibattimento. Le pronunce sono pedisseque alle richieste dell’accusa, se non di più. Anche perché se il soggetto è intoccabile l’archiviazione delle accuse è già avvenuta nelle fasi successive alla denuncia o alla querela: “non vi sono prove per sostenere l’accusa” o “il responsabile è ignoto”. Queste le motivazioni in calce alla richiesta accolta dal GIP, nonostante si conosca il responsabile o vi siano un mare di prove, ovvero le indagini non siano mai state effettuate. La difesa: un soprammobile ben pagato succube dei magistrati. Il meglio che possono fare è usare la furbizia per incidere sulla prescrizione. Le prove a discarico: un perditempo, spesso dannoso. Non è improbabile che i testimoni della difesa siano tacciati di falso.

Nel formulare la richiesta la Boccassini nel processo Ruby ha fatto una gaffe dicendo: "Lo condanno", per poi correggersi: "Chiedo la condanna" riferita a Berlusconi.

Esemplare anche è il caso di Napoli. Il gip copia o si limita a riassumere le tesi accusatorie della Procura di Napoli e per questo il tribunale del riesame del capoluogo campano annulla l'arresto di Gaetano Riina, fratello del boss di Cosa nostra, Totò, avvenuto il 14 novembre 2011. L'accusa era di concorso esterno in associazione camorristica. Il gip, scrive il Giornale di Sicilia, si sarebbe limitato a riassumere la richiesta di arresto della Procura di Napoli, incappando peraltro in una serie di errori e non sostituendo nella sua ordinanza neanche le parole «questo pm» con «questo gip». 

Il paradosso, però, sono le profezie cinematografiche adattate ai processi: «... e lo condanna ad anni sette di reclusione, all'interdizione perpetua dai pubblici uffici, e all'interdizione legale per la durata della pena». Non è una frase registrata Lunedì 24 giugno 2013 al Tribunale di Milano, ma una battuta presa dagli ultimi minuti del film «Il caimano» di Nanni Moretti. La condanna inflitta al protagonista (interpretato dallo stesso regista) è incredibilmente identica a quella decisa dai giudici milanesi per Silvio Berlusconi. Il Caimano Moretti, dopo la sentenza, parla di «casta dei magistrati» che «vuole avere il potere di decidere al posto degli elettori».

Tutti dentro se la legge fosse uguale per tutti. Ma la legge non è uguale per tutti. Così la Cassazione si è tradita. Sconcertante linea delle Sezioni unite civili sul caso di un magistrato sanzionato. La Suprema Corte: vale il principio della discrezionalità.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano.

Così come in fatto di mafia c’è qualcun altro che la sa lunga. Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

Lo strumento per addentrarsi nei gangli del potere sono gli esami di Stato ed i concorsi pubblici truccati.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio. «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..» E poi, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, ci trovi i «siffatto contesto normativo», gli «allorquando», gli «in buona sostanza», che accidentano la lettura. Ed ancora la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Linguaggio giuridico? Bene anch’io ho fatto Giurisprudenza, ed anch’io mi sono scontrato con magistrati ed avvocati ignoranti in grammatica, sintassi e perfino in diritto. Ma questo, cari miei non è linguaggio giuridico, ma sono gli effetti di un certo modo di fare proselitismo.

Ecco la prova: i giudici fanno politica. Lo studio di due ricercatori svela: i magistrati di sinistra indagano di più la destra. Ecco la prova: i giudici fanno politica. La persecuzione degli avversari rilevata in un saggio scientifico, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Alla fine, la questione può essere riassunta così, un po' cinicamente: ma d'altronde il convegno si tiene nella terra del Machiavelli. «Chiunque di noi fa preferenze. Se può scegliere se indagare su un nemico o su un amico, indaga sul nemico. È l'istinto umano. E vale anche in politologia». Parola di Andrea Ceron, ricercatore alla facoltà di Scienze politiche di Milano. Che insieme al collega Marco Mainenti si è messo di buzzo buono a cercare risposte scientifiche a una domanda che si trascina da decenni: ma è vero che in Italia i giudici indagano in base alle loro preferenze politiche? La risposta Ceron e Mainenti la daranno oggi a Firenze, presentando il loro paper - anticipato ieri dal Foglio - in occasione del convengo annuale della Società italiana di Scienza politica. È una risposta basata su tabelle un po' difficili da capire, modelli matematici, eccetera. Ma la risposta è chiara: sì, è vero. La magistratura italiana è una magistratura politicizzata, le cui scelte sono condizionate dalle convinzioni politiche dei magistrati. I pm di sinistra preferiscono indagare sui politici di destra. I pm di destra chiudono un occhio quando di mezzo ci sono i loro referenti politici. Una tragedia o la conferma scientifica dell'esistenza dell'acqua calda? Forse tutte e due le cose insieme. Ventidue pagine, rigorosamente scritte in inglese, intitolate «Toga Party: the political basis of judicial investigations against MPs in Italy, 1983-2013». Dove MPs è l'acronimo internazionale per «membri del Parlamento». I politici, la casta, quelli che da un capo all'altro della terra devono fare i conti con le attenzioni della magistratura. Racconta Ceron: «Nei paesi dove i magistrati sono eletti dalla popolazione, come l'America o l'Australia, che si facciano condizionare dalla appartenenza politica è noto e quasi scontato. Ma cosa succede nei paesi, come l'Italia, dove in magistratura si entra per concorso e dove non c'è un controllo politico? Questa è la domanda da cui abbiamo preso le mosse». Ricerca articolata su due hypothesis, come si fa tra scienziati empirici: 1) più l'orientamento politico di un giudice è lontano da quello di un partito, più il giudice è disposto a procedere contro quel partito; 2) i giudici sono più disponibili a indagare su un partito, quanto più i partiti rivali aumentano i loro seggi. Come si fa a dare una risposta che non sia una chiacchiera da bar? Andando a prendere una per una le richiesta di autorizzazione a procedere inviate dalle procure di tutta Italia al Parlamento nel corso di trent'anni, prima, durante e dopo Mani Pulite; catalogando il partito di appartenenza dei destinatari. E andando a incrociare questo dato con l'andamento, negli stessi anni e negli stessi tribunali, delle elezioni per gli organi dirigenti dell'Associazione nazionale magistrati, l'organizzazione sindacale delle toghe, catalogandoli in base al successo delle correnti di sinistra (Magistratura democratica e Movimento per la giustizia), di centro (Unicost) e di destra (Magistratura indipendente); e dividendo un po' bruscamente in «tribunali rossi» e in «tribunali blu». «Il responso è stato inequivocabile», dice Ceron. Ovvero, come si legge nel paper: «I risultati forniscono una forte prova dell'impatto delle preferenze dei giudici sulle indagini. I tribunali dove un numero più alto di giudici di sinistra appartengono a Md e all'Mg, tendono a indagare maggiormente sui partiti di destra. La politicizzazione funziona in entrambe le direzioni: un aumento di voti per le fazioni di destra fa scendere le richieste contro i partiti di destra». I numeri sono quelli di una gigantesca retata: 1.256 richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di 1.399 parlamentari. Di queste, i due ricercatori hanno focalizzato quelle relative ai reati di corruzione e finanziamento illecito: 526, per 589 parlamentari. Fino al 1993, come è noto, l'autorizzazione serviva anche per aprire le indagini, oggi è necessaria solo per arrestare o intercettare. Ma, secondo la richiesta di Ceron e Mainardi, non è cambiato nulla: almeno nella componente ideologica dell'accusa, che i due considerano scientificamente e platealmente dimostrata. Dietro due grandi alibi, che sono la mancanza di risorse e la presunta obbligatorietà dell'azione penale, di fatto vige la più ampia discrezionalità. È un pm quasi sempre ideologicamente schierato a scegliere su quale politico indagare. E quasi sempre dimentica di dimenticarsi le sue opinioni. «L'analisi dei dati - spiega Ceron - dice che i comportamenti sono lievemente diversi tra giudici di sinistra e di destra: quelli di sinistra sono più attivi nell'indagare gli avversari, quelli di destra preferiscono risparmiare accuse ai politici del loro schieramento». Ma in ogni caso, di giustizia piegata all'ideologia e all'appartenenza politica si tratta. Unita ad un'altra costante, di cui pure qualche traccia si coglie a occhio nudo: fino a quando un partito è saldamente al potere, i pm sono cauti. Ma quando il suo potere traballa e si logora, allora si scatenano.

Circola in Italia una strana idea di legalità, scrive Antonio Polito su “Il Corriere della Sera”. I suoi cultori chiedono alle Procure di esercitare il ruolo improprio di «controllori» ma non appena possono premiano l'illegalità, per demagogia o per calcolo elettorale. È il caso di Napoli, città-faro del movimento giustizialista visto che ha eletto sindaco un pm, dove è stata appena approvata, praticamente all'unanimità, la sanatoria degli occupanti abusivi delle case comunali. Nel capoluogo partenopeo si tratta di un fenomeno vastissimo: sono circa 4.500 le domande di condono giunte al Comune per altrettanti alloggi. Per ogni famiglia che vedrà legalizzato un abuso, una famiglia che avrebbe invece diritto all'abitazione secondo le regole e le graduatorie perderà la casa. Non c'è modo migliore di sancire la legge del più forte, del più illegale; e di invitare altri futuri abusivi a spaccare serrature e scippare alloggi destinati ai bisognosi. Ma nelle particolari condizioni di Napoli la sanatoria non è solo iniqua; è anche un premio alla camorra organizzata. È stato infatti provato da inchieste giornalistiche e giudiziarie che «l'occupazione abusiva di case è per i clan la modalità privilegiata di occupazione del territorio», come ha detto un pubblico ministero. In rioni diventati tristemente famosi, a Secondigliano, Ponticelli, San Giovanni, cacciare con il fuoco e le pistole i legittimi assegnatari per mettere al loro posto gli affiliati o i clientes della famiglia camorristica è il modo per impadronirsi di intere fette della città; sfruttando le strutture architettoniche dell'edilizia popolare per creare veri e propri «fortini», canyon chiusi da cancelli, garitte, telecamere, posti di blocco, praticamente inaccessibili dall'esterno e perfetto nascondiglio per latitanti, armi e droga. Non che tutto questo non lo sappia il sindaco de Magistris, che a Napoli ha fatto il procuratore. E infatti ha evitato di assumersi in prima persona la responsabilità di questa scelta. L'ha però lasciata fare al consiglio comunale, Pd e Pdl in testa, difendendola poi con il solito eufemismo politico: «Non è una sanatoria. Io la chiamerei delibera sul diritto alla casa». E in effetti è una delibera che riconosce il diritto alla casa a chi già ce l'ha, avendola occupata con la forza o l'astuzia.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

IL CSM ASSOLVE IL GIUDICE ROSSO CHE ANDAVA A CACCIA CON I BOSS.

Il Csm assolve il giudice rosso che andava a caccia con i boss.

Mancuso, ex capo della Procura antimafia di Napoli ed esponente di Md, salvato dal tribunale della categoria. Ignorate le intercettazioni in cui parlava con i camorristi, scrive Stefano Zurlo  su “Il Giornale”. Era il coordinatore della procura antimafia di Napoli, ma andava a caccia in Albania con camorristi e criminali. Anzi, uno di loro, Andrea Spiezia, fornisce nel 2004 il più granitico degli alibi ai carabinieri che sono piombati a casa sua dopo l'ennesimo omicidio fra i clan di Napoli: «Non sono stato io, io ero a caccia con il procuratore in Albania». Vero, Paolo Mancuso, allora a Napoli e oggi alla guida della procura di Nola, aveva una certa dimestichezza non con uno ma con ben tre soggetti legati o sospettati di appartenere alla malavita. Ma il 20 ottobre 2006 la sezione disciplinare del Csm, scioglie questo nodo increscioso, ai limiti dell'incredibile, e assolve Mancuso, pezzo grosso di Magistratura democratica in Campania, ai vertici del Dap, le carceri italiane, fra il luglio 97 e il luglio 2001, e gli restituisce la carriera e la possibilità di conquistare nuovi traguardi. Mancuso aveva addirittura vistato il provvedimento di cattura nei confronti di uno dei tre. Irrilevante, dicono i giudici del Csm, perché Mancuso ne firmava centinaia. Figurarsi se poteva ricordarsi tutto. È una vicenda surreale quella del magistrato napoletano per cui, secondo il Csm, non valgono nemmeno le intercettazioni telefoniche raccolte in un procedimento penale. No, non si possono «traslocare» dal penale al disciplinare le telefonate ascoltate dalla polizia. Sacrosanto. Peccato che lo stesso tribunale, con gli stessi membri, il 10 marzo del 2009, affermi l'esatto opposto: come no, le intercettazioni possono essere trasferite da un'inchiesta al procedimento disciplinare. E infatti sono le intercettazioni a fregare Vincenzo Barbieri, militante centrista di Unicost, ex dirigente del ministero della Giustizia, portato ai vertici di via Arenula da Roberto Castelli e confermato da Clemente Mastella, poi procuratore ad Avezzano. Due pesi e due misure? Le sentenze fanno a pugni come nemmeno in una finale mondiale di boxe. Però si resta a disagio a leggere quelle pagine. Mancuso ama la caccia e partecipa a battute fra la Puglia e l'Albania. Fra i suoi compagni di avventura ci sono anche alcuni personaggi non proprio immacolati: Stefano Marano, condannato per omicidio colposo, violazione dei sigilli, violazioni della legge urbanistica. Ma questo è niente rispetto ai sospetti degli investigatori che nel '96 l'hanno proposto per la sorveglianza speciale, ipotizzando una sua contiguità con i Licciardi: il procedimento non ha avuto seguito ed è stato archiviato, anche con l'intervento dello stesso Mancuso; poi c'è Andrea Spiezia, ricettatore, al centro di un'infinità di procedimenti, uno dei quali, per truffa, è passato tanto per cambiare per l'ufficio di Mancuso; e poi ancora c'è Giovanni Pellecchia, indagato per associazione a delinquere, truffa e falso, con iscrizione nel registro degli indagati all'epoca in cui Mancuso era coordinatore della Direzione distrettuale antimafia. Non è chiaro quando Mancuso abbia conosciuto i tre, o meglio ciascuno dei tre, pare abbia incrociato Spiezia solo una volta, ma la frequentazione complessiva va avanti per anni e anni. Quasi dieci. Fra la metà degli anni Novanta e il 2004. Mancuso va a caccia, nelle intercettazioni lo chiamano «Il bimbo», ma non si accorge di nulla. Nulla di nulla. Meglio di Sherlock Holmes. La procura lo intercetta con grande imbarazzo. Nulla. Finché si arriva al paradosso dei paradossi. Il 21 novembre 2004 si riaccende la faida di Scampia e muore Francesco Tortora. I carabinieri sono convinti che fra gli assassini ci sia Andrea Spiezia e vanno a casa sua sottoponendolo anche al prelievo stube. Ma lui ha un alibi inattaccabile. È appena arrivato dall'Albania, dove era a caccia con Mancuso e con un funzionario di polizia. Le indagini confermano e Spiezia viene scagionato. Però parte l'informativa. E si scopre che i personaggi poco raccomandabili con cui Mancuso è andati a caccia sono addirittura tre. Non ci sono risvolti penali. Mancuso non avrebbe alterato o forzato le indagini, anzi, a quanto pare, i camorristi gli davano al telefono del «voi» e non si sarebbero mai azzardati a chiedergli favori. Una bella consolazione per il Csm che liquida la pratica alla voce imprudenza. E trova il sistema per scagionare Mancuso da ogni accusa. È vero che aveva incrociato i colleghi di caccia nel loro percorso giudiziario, ma come si fa a ricordare tutto quando si vistano centinaia di provvedimenti? E poi le date non sono sincronizzate: come si fa a sapere se nel '96, quando Marano era stato proposto per la sorveglianza speciale, Mancuso l'avesse già incontrato con la doppietta in mano? Mistero. Insolubile. Mancuso per il Csm è inconsapevole. Un capo perfetto dell'ufficio che combatte la criminalità organizzata in una terra difficile come Napoli. Non c'è che dire. E le intercettazioni? Per la Disciplinare il legame era puramente venatorio, ma in ogni caso non si possono utilizzare. Devono restare confinate nel recinto del penale. Così per il procuratore aggiunto di Napoli, alto esponente di Magistratura democratica, vice di Giancarlo Caselli al Dap, oggi procuratore a Nola e in corsa, via Tar, per ottenere proprio la ben più importante procura di Napoli. Diversa la sorte di Vincenzo Barbieri, già dirigente al ministero della Giustizia e attivista di Unicost. Si mette nei guai chiedendo favori, segnalando amici e pratiche, insomma mettendo il naso dove non dovrebbe. Le intercettazioni questa volta possono essere utilizzate e travasate dal penale al disciplinare. Disco verde. Va giù pesante il tribunale disciplinare: «Le condotte addebitate all'incolpato sono proprio le numerose telefonate di raccomandazioni, sollecitazioni ed altro, effettuate a vario titolo con magistrati, cancellieri, ufficiali dei carabinieri, spesso avvalendosi delle linee telefoniche in sua dotazione e della particolare posizione di potere che gli derivava dall'essere direttore generale». L'esatto contrario di quanto affermato il 20 ottobre 2006 nel procedimento Mancuso: «Se quindi i risultati delle intercettazioni legittimamente disposte nell'ambito di un procedimento penale non possono essere utilizzati nell'ambito di altro procedimento penale... anche e a maggior ragione deve valere in una procedura diversa da quella penale ed in particolare in quella disciplinare». Due pesi e due misure: Mancuso assolto, Barbieri condannato alla sanzione della censura. Chissà quale delle due sentenze merita maggior rispetto.

Mancuso ha già provato a tutelare la sua immagine.

Con poco più di una pagina Rosalba Liso, gip del tribunale di Roma, ha archiviato la querela presentata nel novembre 2006 da Paolo Mancuso, oggi procuratore capo a Nola, contro il giornalista Roberto Paolo e il direttore responsabile del Roma Antonio Sasso, scrive Iustitia.it. All’origine della querela un articolo, pubblicato dal Roma il 21 ottobre 2006 e firmato dal redattore capo Roberto Paolo, centrato sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura di archiviare l’azione disciplinare, per frequentazioni ‘discutibili’, avviata nei confronti di Mancuso, all’epoca procuratore aggiunto a Napoli. L’occhiello del servizio è: “Giustizia e Veleni / Il procuratore aggiunto napoletano ora ha la via spianata per diventare capo del Dap, il vertice delle carceri italiane”; il titolo: “Il Csm scagiona Mancuso”; il sommarione: “Un magistrato può andare a caccia con pregiudicati, imputati di camorra o persone indagate dal proprio ufficio: nessun illecito disciplinare”. Il gip di Roma, accogliendo la richiesta del pubblico ministero Carlo Luberti, ha respinto l’opposizione all’archiviazione presentata dall’avvocato di Mancuso, Giuseppe Fusco. “Appaiono ravvisabili nel caso in esame – scrive il giudice Liso – i tre presupposti dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca indicati dalla giurisprudenza per la sua esistenza, cioè il pubblico interesse o meglio l’interesse diffuso, riscontrabile nell’attenzione che può suscitare la correttezza istituzionale di un magistrato, e la veridicità della notizia, poiché i soggetti con i quali il Mancuso era entrato in contatto erano di fatto indagati e nei cui confronti, sia pure limitandosi ad apporre un visto, costui aveva esercitato una supervisione ed un controllo nel corso delle indagini”. “Anche la continenza dell’espressione, nel caso in esame, rileva la correttezza di contenuto e forma, essendo state utilizzate nel riferire i fatti espressioni di per sé non offensive, né di particolare significato evocativo ed insinuante”. Del resto, annota il gip, “non può non rilevarsi come nella querela l’opponente (Mancuso) in realtà abbia lamentato solo e unicamente l’effetto lesivo della valutazione sottesa alla descrizione dei fatti offerta nell’articolo, mentre in realtà egli non ha mai contestato la veridicità degli eventi, nella sostanza fornendo una versione dei fatti non del tutto lontana da quella riportata nell’articolo”. Un’affermazione sulla quale è in totale disaccordo la difesa del procuratore Mancuso, che ha già presentato ricorso in Cassazione. Due i punti al centro delle nove pagine del ricorso firmate dall’avvocato Fusco: “l’inosservanza di norma processuale stabilita a pena di nullità”; “l’inosservanza ed erronea applicazione di legge penale”. Sul primo punto “la pacifica e non contestata ammissibilità dell’opposizione (all’archiviazione) – sostiene il legale di Mancuso – avrebbe imposto la fissazione della camera di consiglio anche perché non ricorrevano le condizioni per la pronuncia di un decreto de plano”. Più articolata e complessa l’analisi del secondo punto che parte da una premessa: “la capacità e potenzialità oggettivamente diffamatoria delle espressioni usate dal giornalista nell’articolo denunciato sono riconosciute come sussistenti dallo stesso pubblico ministero”. Nel servizio del Roma, osserva Fusco, “si afferma che Mancuso, non solo era frequentatore di ‘persone condannate per gravi reati’, ma che era addirittura andato a caccia "con pregiudicati imputati di camorra" e anche "con presunti fiancheggiatori del clan Di Lauro, indagati o condannati per gravi reati (fra essi Stefano Marano)" e frequentava persone indagate per camorra o condannate per droga, ricettazione e estorsione“. Ma, secondo l’avvocato del magistrato, sono affermazioni inesatte. “Dalla lettura del capo di incolpazione (al Consiglio superiore della magistratura) – puntualizza Fusco nel ricorso in Cassazione – risulta che Marano Stefano era stato più volte condannato ma ‘per plurime violazioni della legge urbanistica, per omicidio colposo, per violazioni dei sigilli’; era stato inoltre sottoposto a processo, conclusosi in primo grado con l’assoluzione per i delitti di cui agli articoli 416 bis, 640, 629 del codice penale (associazione camorristica, truffa e estorsione, ndr) e aveva subito altro procedimento per il delitto di cui all’articolo 416 bis definito con l’archiviazione”. E l’avvocato continua: “nessun riferimento vi è, invece, sempre nel capo di incolpazione a una vicenda, pur essa riferita nell’articolo, secondo la quale Mancuso in altre occasioni andò a caccia con un esponente di primo piano di un clan del foggiano, attualmente detenuto con l’accusa di omicidio”. Dal tribunale capitolino, quindi, è stato assegnato il primo round al Roma; per il secondo bisognerà attendere la decisione della Suprema corte. Poi tempi certamente lunghi per il giudizio civile promosso da Mancuso contro il Roma per una lunga serie di articoli chiusa proprio dal servizio dell’ottobre 2006 sulla decisione del Consiglio superiore della magistratura.

La vicenda inizia nel novembre 2004. Dopo gli omicidi di Francesco Tortora e Domenico Riccio, vittime della mattanza di Secondigliano, viene fermato Andrea Spiezia. Prima di essere sottoposto all'esame dello stub per accertare tracce di polvere da sparo l' uomo dichiara: «L' analisi sarà certamente positiva perché il 21 novembre, giorno dei delitti, ero a caccia in Albania». A quella battuta hanno partecipato anche Paolo Mancuso e un funzionario della questura. Non è l' unica. Più volte il magistrato, grande appassionato di attività venatoria, va a caccia con Stefano Marano, imprenditore molto conosciuto a Napoli. Marano ha il telefono sotto controllo perché in passato ha affittato una casa ad uno dei figli di Paolo Di Lauro, il boss di Secondigliano. Ha rapporti con alcuni esponenti della criminalità, viene sollecitato a chiedere notizie al magistrato. Effettivamente lo contatta più volte, ma durante le conversazioni non ottiene informazioni sulle inchieste. Poi, parlando con uno dei suoi interlocutori, Marano afferma: «Allora non hai capito che al telefono non bisogna parlare?». E' questa la frase che viene adesso contestata a Mancuso. Il sospetto dei magistrati romani è che sia stato proprio lui ad avvisare l' amico che l' utenza era intercettata. Una tesi che lascia aperti alcuni interrogativi. Se Mancuso era a conoscenza dell' indagine su Marano, come mai decise di continuare a frequentarlo, sia pur per condividere la passione per la caccia? Ad informare il procuratore aggiunto che il suo nome era comparso in alcune intercettazioni sarebbe stato un funzionario della polizia. E lui ne chiese conto ai colleghi titolari del fascicolo sull' attività del clan Di Lauro che poi hanno trasmesso gli atti a Roma. Se era già informato dei contenuti dell' inchiesta, che bisogno aveva di esporsi?

Questo basta? No!

Mancuso multato per caccia illegale a Foggia attirava quaglie con un registratore vietato, scrive “La Repubblica”. Lui la prende con sportività, tra l'imbarazzato e il divertito: «Lo ammetto, ho avuto la contravvenzione. Ma la contesterò». Il nome di Paolo Mancuso, procuratore aggiunto di Napoli, uno dei magistrati più in vista d'Italia, è in un rapporto inviato alla Procura di Foggia. Nei suoi confronti, infatti, le guardie forestali hanno comminato una sanzione penale per caccia irregolare. Niente di grave: Mancuso, cacciando insieme a due amici napoletani a Carapelle, in provincia di Foggia, nelle vicinanze del parco del Gargano, avrebbe utilizzato un registratore che attira le quaglie riproducendone il verso. La legge italiana ritiene che non è leale far fuori in questo modo i gustosi volatili che abbondano sulle colline pugliesi e ha vietato «l' utilizzo di richiami elettromagnetici ai fini dell'attività venatoria». Passi per le quaglie, ma la legge, hanno ricordato le guardie a Mancuso, vale davvero per tutti.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi. L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

LE DINASTIE DEI MAGISTRATI.

LA FAMIGLIA ESPOSITO

Qualcuno potrebbe definirla una famiglia “particolare” scrive “Libero Quotidiano”. Al centro c'è Antonio Esposito, giudice della Corte di Cassazione che in una telefonata-intervista al Mattino anticipò le motivazioni della condanna inflitta a Silvio Berlusconi per frode fiscale nel processo Mediaset. E che in più occasioni è stato “pizzicato” da testimoni a pronunciare frasi non proprio di ammirazione nei confronti del Cavaliere. Poi c'è la nipote Andreana, che sta alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui i legali di Berlusconi vorrebbero far ricorso contro la sentenza emessa dalla Cassazione. Paradosso: a passare al vaglio la sentenza pronunciata da Esposito potrebbe essere la nipote. Non bastassero loro, c'è il papà di Andreana, che come scrive, mercoledì 28 agosto,  su Libero Peppe Rinaldi, è stato fotografato mentre prende il sole e fa il bagno presso il Lido Oasi di Agropoli, nel Cilento. Il problema è che il lido è abusivo ed è stato soggetto a indagini, interpellanze, ordinanze di abbattimento. In zona tutti sanno. Curioso che Vitaliano Esposito, ex procuratore generale della Cassazione, non sappia di mettersi a mollo in uno stabilimento balneare fuorilegge (abusivo a sua insaputa). Infine, della famiglia fa parte anche Ferdinando Esposito, Pubblico Ministero a Milano, che tempo fa finì sotto indagine del Csm (che poi archiviò) per le cene a lume di candela del giudice (ma va, anche lui?) in Porsche con Nicole Minetti, allora già imputata per istigazione alla prostituzione insieme a Lele Mora ed Emilio Fede.

Una famiglia, gli Esposito, una delle tante dinastie giudiziarie, che non fosse altro dimostra come la magistratura sia una vera, autentica, casta.

Ciononostante viviamo in un’Italia fatta così, con italiani fatti così, bisogna subire e tacere. Questo ti impone il “potere”. Ebbene, si faccia attenzione alle parole usate per prendersela con le ingiustizie, i soprusi e le sopraffazioni, le incapacità dei governati e l’oppressione della burocrazia, i disservizi, i vincoli, le tasse, le code e la scarsezza di opportunità del Belpaese. Perché sfogarsi con il classico  "Italia paese di merda", per quanto liberatorio, non può essere tollerato dai boiardi di Stato. E' reato, in quanto vilipendio alla nazione. Lo ha certificato la Corte di cassazione - Sezione I penale - Sentenza 4 luglio 2013 n. 28730!!!

Ma non di solo della dinastia Esposito è piena la Magistratura.

LA FAMIGLIA DE MAGISTRIS.

La famiglia e le origini, secondo “Panorama”. I de Magistris sono giudici da quattro generazioni. Ma Luigi, l’ultimo erede, della famiglia è stato il primo a essere trasferito per gli errori commessi nell’esercizio delle funzioni. Il bisnonno era magistrato del Regno già nel 1860, il nonno ha subito due attentati, il padre, Giuseppe, giudice d’appello affilato e taciturno, condannò a 9 anni l’ex ministro Francesco De Lorenzo e si occupò del processo Cirillo. Luigi assomiglia alla madre Marzia, donna dal carattere estroverso. Residenti nell’elegante quartiere napoletano del Vomero, sono ricordati da tutti come una famiglia perbene. In via Mascagni 92 vivevano al terzo piano, al primo l’amico di famiglia, il noto ginecologo Gennaro Pietroluongo. Ancora oggi la signora Marzia è la sua segretaria, in una clinica privata del Vomero. Un rapporto che forse ha scatenato la passione del giovane de Magistris per le magagne della sanità. Luigi Pisa, da quarant’anni edicolante della via, ricorda così il futuro pm: "Un ragazzino studioso. Scendeva poco in strada a giocare a pallone e già alle medie comprava Il Manifesto". Il padre, invece, leggeva Il Mattino e La Repubblica. Il figlio ha studiato al Pansini, liceo classico dell’intellighenzia progressista vomerese. Qui il giovane ha conosciuto la politica: le sue biografie narrano che partecipò diciassettenne ai funerali di Enrico Berlinguer. All’esame di maturità, il 12 luglio 1985, ha meritato 51/60. A 22 anni si è laureato in giurisprudenza con 110 e lode. L’avvocato Pierpaolo Berardi, astigiano, classe 1964, da decenni sta battagliando per far annullare il concorso per entrare in magistratura svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo "apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti") e quindi non "furono mai esaminati". I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: "Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione". Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. Uno dei commissari, successivamente, ha raccontato su una rivista giuridica l’esame contestato, narrando alcuni episodi, fra cui quello di un professore di diritto che, avendo appreso prima dell’apertura delle buste della bocciatura della figlia, convocò il vicepresidente della commissione. Non basta. Scrive l’esaminatore: "Durante tutti i lavori di correzione, però, non ho mai avuto la semplice impressione che s’intendesse favorire un certo candidato dopo che i temi di questo erano stati riconosciuti". Dunque i lavori erano anonimi solo sulle buste. "Episodi come questi prevedono, per come riconosciuto dallo stesso Csm, l’annullamento delle prove in questione" conclude con Panorama Berardi. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, Luigi de Magistris.

LA FAMIGLIA BORRELLI.

Biografia di Francesco Saverio Borrelli. Napoli 12 aprile 1930. Ex magistrato (1955-2002). Dal 1992 al 1998 capo della Procura di Milano, divenne noto durante l’inchiesta del pool Mani pulite. Dal 1999 alla pensione procuratore generale della Corte d’appello milanese, in seguito è stato capo dell’ufficio indagini della Federcalcio (maggio 2006-giugno 2007) e presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (marzo 2007-aprile 2010). Due fratelli maggiori e una sorella minore, Borrelli nacque dal secondo matrimonio del magistrato Manlio (figlio e nipote di magistrati) con Amalia Jappelli detta Miette. «Fino a sette anni non sapevo che i miei fratelli avessero avuto un’altra madre, morta quando erano piccolissimi. Nessuno mi aveva mai detto nulla. Me lo rivelò un uomo stupido ridacchiando: “Ma che fratelli, i tuoi sono fratellastri”. Fu uno shock tremendo. Corsi a casa disperato. Volevo sapere, capire. I miei avevano voluto salvaguardare l’uguaglianza tra fratelli: non dovevo sentirmi un privilegiato perché io avevo entrambi i genitori. Mi chetai, ma mi restò a lungo una fantasia di abbandono, il timore, che più tardi ho saputo comune a molti bambini, di essere un trovatello. Tremavo nel mio lettino e pregavo che non fosse così». Dopo due anni a Lecce, nel 1936 la famiglia traslocò a Firenze: maturità al liceo classico Michelangelo, laurea in giurisprudenza con Piero Calamandrei (titolo della tesi Sentenza e sentimento) prese il diploma di pianoforte al conservatorio Cherubini. Dal 1953 a Milano, dove il padre era stato nominato presidente di Corte d’appello, nel 1955 vinse il concorso per entrare in magistratura. Dal 1957 sposato con Maria Laura Pini Prato, insegnante di inglese conosciuta all’università che gli diede i figli Andrea e Federica, passò vent’anni al Civile, prima in Pretura, poi in Tribunale occupandosi di fallimenti e diritto industriale, infine in Corte d’Appello. Passato al Penale, dal ’75 all’82 fu in corte d’Assise, nel 1983 arrivò alla Procura della Repubblica, nel 1992, l’anno dell’inizio dell’indagine Mani pulite, ne divenne il capo. Quando, nell’aprile del 2002, Borrelli andò in pensione, a Palazzo Chigi c’era nuovamente Silvio Berlusconi. Il 3 gennaio di quell’anno, aprendo il suo ultimo anno giudiziario, l’ex procuratore capo di Milano aveva lanciato lo slogan «Resistere, resistere, resistere». Nel maggio 2006, in piena Calciopoli, Guido Rossi lo chiamò a guidare l’ufficio indagini della Federcalcio: «Rifiutare mi sembrava una vigliaccata». Nel marzo 2007 divenne presidente del Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano (la più prestigiosa università musicale d’Italia): «È una nuova sfida, l’ennesima che affronto con gioia e un certo tremore». In contemporanea annunciò l’addio alla Figc: «Per ora mantengo il posto in Federcalcio, non c’è incompatibilità. Se sono uscito dall’ombra lo devo solo a Guido Rossi. Dopo la nomina del calcio mi riconoscono tutti, i taxisti e anche i più giovani. Ma a luglio, con il nuovo statuto da me suggerito, l’ufficio indagini confluirà nella Procura federale. Non voglio fare il Procuratore federale: c’è Stefano Palazzi, è molto più giovane di me». Nell’aprile 2010 il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, cui spetta la nomina della carica di presidente degli istituti musicali, gli negò il secondo mandato triennale alla presidenza del Verdi: «Ragioni evidentemente politiche. Appartengo a una corporazione che è in odio alle alte sfere della politica. Evidentemente non devo essere gradito agli esponenti del governo. Ma la mia amarezza è soprattutto quella di aver saputo della mia mancata conferma in modo indiretto, senza comunicazione ufficiale. Sono sempre stato abbastanza umile da accettare le critiche, ma ciò che mi offende è il metodo. Ho lavorato con passione in questi anni». (Giorgio Dell’Arti Catalogo dei viventi 2015.

ALTRA DINASTIA: LA FAMIGLIA BOCCASSINI.

In tempi in cui la magistratura si può accanire contro un Premier e questo, anziché intervenire sulle anomalie del sistema, personalizzando li accusa di essere sovversivi e comunisti, ci si chiede cosa accadrà al povero cristo. Intanto su “Il Giornale” del 27 gennaio 2011 esce quest’articolo “ La doppia morale della Boccassini”, di Anna Maria Greco su "Il Giornale". Nel 1982 la Boccassini venne sorpresa in "atteggiamenti amorosi" con un giornalista di Lotta Continua. Davanti al Csm si difese come paladina della privacy. E fu assolta. Ora fruga nelle feste di Arcore, ma allora parlò di "tutela della sfera personale". “Ve la immaginate l’agguerrita pm dello scandaloso «caso-Ruby», che ha frugato nelle feste di Arcore e ascoltato le conversazioni pruriginose delle ragazze dell’Olgettina, nelle vesti della paladina della privacy? Eppure, per difendere se stessa al Csm da accuse boccaccesche, che definisce «un’inammissibile interferenza», Ilda Boccassini dichiara: «Sono questioni che attengono esclusivamente alla sfera della mia vita privata, coperta, come tale, da un diritto di assoluta riservatezza». Succede molti anni fa, nel 1982, quando l’allora giovane sostituto alla Procura di Milano viene sottoposta a procedimento disciplinare. L’accusa, si legge negli atti del Csm, è di «aver mancato ai propri doveri, per aver tenuto fuori dell’ufficio una condotta tale da renderla immeritevole della considerazione di cui il magistrato deve godere, così pure compromettendo il prestigio dell’ordine giudiziario». Diciamo subito che, l’anno dopo, la Boccassini viene assolta a palazzo de’ Marescialli. E proprio in nome della tutela alla riservatezza della vita personale. La sezione disciplinare del Csm, infatti, «nel ribadire il proprio orientamento in materia di diritto alla privacy del magistrato, ritiene che il comportamento della dottoressa Boccassini non abbia determinato alcuna eco negativa né all’interno degli uffici giudiziari, come provano le attestazioni dei colleghi della Procura, né all’esterno». Il fatto di cui si parla appare banale, perché riguarda abbracci e baci con un uomo per strada, a due passi dal Palazzo di Giustizia. «Atteggiamento amoroso», lo definiscono con scandalo nel rapporto di servizio due guardie di scorta ad un pm aggiunto della Procura. Il «lui» in questione non è uno sconosciuto, ma un giornalista di «Lotta continua», accreditato presso l’ufficio stampa del tribunale. Salteranno fuori altri episodi e si parlerà anche di rapporti con un cronista dell’Unità. Il tutto va collocato in un contesto preciso: quello degli Anni di piombo, di scontro, tensioni, sangue e forte militanza politica anche da parte di magistrati e giornalisti sulla linea che lo Stato doveva tenere verso i terroristi. Poco prima di questi fatti, nel 1979, uno dei pm di Milano e cioè Emilio Alessandrini, era stato ucciso da esponenti di Prima linea mentre andava a Palazzo di Giustizia. Lo ricorda il Procuratore capo Mauro Gresti, quando si decide a segnalare la questione e a chiedere il trasferimento d’ufficio della Boccassini, parlando di altri episodi «disdicevoli» dentro la Procura, legati a «presunti comportamenti illeciti», tra l’autunno 1979 e l’inverno 1980, che prima non aveva denunciato. A segnalare incontri molto ravvicinati, violente liti, riunioni serali in ufficio erano stati un ex-carabiniere addetto alle pulizie e un tenente colonnello dell’Arma. Gresti sottolinea che a farlo muovere non fu tanto «lo sconcerto procuratomi dall’esibizione di affettuosità più consone all’intimità di quattro mura che alla pubblicità di una via, ma piuttosto lo sconcerto per la constatazione che l’oggetto delle affettuosità della Boccassini era una persona solita a frequentare gli ambienti della Procura di Milano per ragioni della sua professione giornalistica». Una persona che più volte aveva «manifestato il proprio acido dissenso verso la linea della fermezza adottata dai magistrati della Procura nella lotta al terrorismo e alle sue aree di supporto», con un «atteggiamento di critica preconcetta all’operato delle istituzioni». Sembra che il Procuratore si preoccupi di legami personali che possano favorire fughe di notizie o, addirittura, l’ispirazione di articoli e campagne di stampa contro il suo ufficio. In particolare, critica la politicizzazione di magistrati come la Boccassini (già allora aderente alla corrente di sinistra Magistratura democratica), che avevano anche sottoscritto un documento di solidarietà per un imputato di terrorismo che, con lo sciopero della fame, chiedeva di essere trasferito in un carcere normale. E contro le carceri speciali, sottolinea il Procuratore allegando alcuni articoli, contemporaneamente scriveva anche il giornalista amico di Ilda. Per Gresti, quell’iniziativa dei pm era stata «un proditorio attacco all’atteggiamento di intransigente e ferma lotta all’eversione proprio dei magistrati dell’ufficio stesso che trattavano di terrorismo, nonché una chiara manifestazione di dissenso dalla loro linea, del tutto inopportuna e tale da poter sottoporre a pericoli la loro incolumità personale». In sostanza, dice con durezza il Procuratore, va bene la libertà d’opinione, ma così si poteva anche involontariamente «additare come obiettivi da colpire i magistrati impegnati nella difesa intransigente delle istituzioni». E qui Gresti ricorda proprio Alessandrini, «barbaramente trucidato dai terroristi in un vile attacco». Questa lettera al Procuratore generale della Cassazione e al Pg della Corte d’appello è del giugno 1982, mentre si celebra il processo disciplinare iniziato a dicembre, che si concluderà con l’assoluzione. È provocata dall’iniziativa di 27 pm (c’è anche Alfonso Marra, quello dimessosi per la P3), che a marzo insorgono in difesa della Boccassini, «ingiustamente offesa anche nella sua dignità di donna» anche da una «pubblicità di per sè umiliante». Parlano di «pettegolezzo» che incide nella «sfera della riservatezza personale» e di rischio per tutti di «inammissibile interferenza nella vita privata». Il primo a firmarla è Armando Spataro, collega della Boccassini alla Procura e suo difensore a Palazzo de’ Marescialli. È lui a redigere la memoria difensiva dell’aprile ’82, in cui spiega che la pm non è voluta entrare nel merito delle accuse rivoltele in nome della privacy, ritenendo «umiliante» dover spiegare e giustificare rapporti personali con un giornalista, di cui Spataro difende la correttezza. E aggiunge: «Il concreto esplicarsi della vita privata del magistrato, come quella di ogni cittadino, non può essere soggetto a limiti o divieti precostituiti per legge». Dunque, non può essere sanzionato alcun rapporto personale con persone che lavorano nello stesso ambito. Sempre che non si arrivi a comportamenti scorretti, come «la rivelazione ad un giornalista di notizie coperte da segreto istruttorio». La difesa non convince e c’è il rinvio a giudizio della Boccassini. Ma il Pg della Cassazione, Sofo Borghese, chiede la «perentoria censura» con il trasferimento, non per questioni di sesso, moralità o decoro. Per lui i comportamenti del pm sono gravi «non certo per il compiaciuto scambio di vistose affettuosità» vicino al Palazzo di Giustizia, ma perché l’altro è un giornalista accreditato al tribunale. «Intuibili perciò - afferma il Pg - le facili battute, il pettegolezzo spicciolo, le maliziose insinuazioni e, soprattutto, il sospetto - fondato o meno non importa - nell’ambiente giornalistico, forense o in altri a questi vicini, che la pubblicazione di talune notizie possa ricollegarsi a privilegiate confidenze». Per Borghese «urge» intervenire, per «evitare prevedibili intollerabili malintesi o capziose strumentalizzazioni tali da non consentire di amministrare giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario». Il sostituto pg Antonio Leo sostiene l’accusa, si svolge l’istruttoria, si ascoltano i testi, si ricostruiscono altre vicende. Tutto per appurare se il pm ha tenuto «in ufficio o fuori una condotta tale che comprometta il prestigio dell’ordine giudiziario». Per smontare il capo d’accusa, Spataro fa stralciare gli altri episodi e sostiene che si tratta solo di un fatto privato che non si è svolto «secondo modalità illecite o anche solo sconvenienti». È «non soltanto perfettamente lecito, ma anche assolutamente normale». La sentenza di assoluzione della sezione disciplinare del Csm, guidata dal vicepresidente Giancarlo de Carolis, arriva ad aprile ’83.”

Boccassini, una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia, scrive “Imola Oggi”. Il paragone fra certi p.m. di Magistratura Democratica e gli estremisti della Brigate Rosse è sicuramente improprio ma il fanatismo e la propensione agli affari degli uni e degli altri è sicuramente simile. Ilda Boccassini appartiene, secondo la stampa, a una delle famiglie di magistrati più corrotte della storia d’Italia. Suo zio Magistrato Nicola Boccassini fu arrestato e condannato per associazione a delinquere, concussione corruzione, favoreggiamento e abuso di ufficio perchè spillò con altri sodali e con ricatti vari 186 milioni di vecchie lire a un imprenditore. (vendeva processi per un poker repubblica). Anche suo padre Magistrato e suo cugino acquisito Attilio Roscia furono inquisiti. Suo marito Alberto Nobili fu denunciato alla procura di Brescia da Pierluigi Vigna, Magistrato integerrimo e universalmente stimato per presunte collusioni con gli affiliati di Cosa Nostra che gestivano l’Autoparco Milanese di via Salamone a Milano. (attacco ai giudici di Milano Repubblica) (Brescia torna inchiesta autoparco). Non se ne fece niente perchè la denuncia finì nelle mani del giudice Fabio Salomone, fratello di Filippo Salomone, imprenditore siciliano condannato a sei anni di reclusione per associazione a delinquere di stampo mafioso. L’Autoparco milanese di via Salomone era un crocevia di armi e di droga ha funzionato per 9 anni di seguito (dal 1984 al 1993), fu smantellato dai magistrati fiorentini e non da quelli milanesi e muoveva 700 milioni di vecchie lire al giorno. A Milano tutti sapevano che cosa si faceva lì dentro. Visto ciò che è emerso a carico del marito per l’Autoparco e visto ciò che sta emergendo a carico del giudice Francesco Di Maggio (anche lui della Procura di Milano) relativamente alla strage di Capaci anche il suo trasferimento a Caltanisetta nel 1992 appare sospetto. In realtà a quel tempo sei magistrati massoni della Procura di Milano appoggiavano il progetto di Riina e Gardini, i quali erano soci, di acquisire Eni e poi di fondare Enimont e quindi da un lato favorivano l’acquisizione di denaro da parte di Cosa Nostra tutelando l’Autoparco (700.000.000 di vecchie lire al giorno di movimento di denaro) tutelando i traffici con il c.d. metodo Ros (502.000.000 di euro di ammanchi) e simulando con altre inchieste minori (Duomo Connenction, Epaminonda) un contrasto alla mafia che in realtà non c’era, dall’altro con Di Maggio intervennero pesantemente in Sicilia già nel 1989 per contrastare un attacco della FBI americana contro i corleonesi attraverso il pentito Totuccio Contorno e facendo ricadere la responsabilità delle lettere del corvo su Falcone, poi attentato simulatamente dalla stessa Polizia. Poi nel 1992 sempre con uomini di Di Maggio contribuirono alla strage di Capaci ove morì Giovanni Falcone il quale si opponeva acchè il progetto Enimont, a quel tempo gestito da Andreotti e da Craxi, tornasse nelle mani di Gardini e di Riina. Ora è noto ormai che anche le Brigate Rosse eseguirono il sequestro Moro per affarismo e rifiutarono dieci miliardi di vecchie lire da parte del Papa Paolo VI per liberare Aldo Moro perchè qualcun altro le remunerò di più. Napolitano ha ben fatto appello più volte a questi Magistrati di moderarsi. Palamara non c’entra niente con questo discorso perchè è un buon Magistrato ed è affiliato a Unicost, una corrente di magistrati seri e responsabili e non a M.D. Il tutto sembrerebbe discutibile se il parente che si è messo in condizione di essere criticato fosse solo uno. Ma qui i parenti chiacchierati sono tre. Fra l’altro osservo che Alberto Nobili, dopo che si è separato dalla Boccassini, è tornato a essere un magistrato stimato, per cui viene il dubbio che nei casini ce lo abbia messo lei.

LE COLLUSIONI CHE NON TI ASPETTI. AFFINITA' ELETTIVE.

VENDEVA PROCESSI PER UN POKER

Punta sul rosso, bluffa con una doppia coppia..., scrive Enzo D’Errico su “Il Corriere della Sera”.  C'è una serata che fila per il verso giusto e altre, tante altre, in cui va tutto storto: le carte non entrano, i numeri non escono... E alla fine, quando si tratta di tirare i conti, t'accorgi che in rosso ci sei finito tu. E' capitato così anche a Nicola Boccassini, procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, un paesino dell'entroterra salernitano. Aveva trovato il modo di turare le falle, il magistrato: quel che perdeva al gioco, lo riguadagnava vendendo processi, condoni edilizi e provvedimenti d'ogni tipo. Si faceva addirittura pagare soggiorno e scommesse a Saint Vincent, dove era cliente fisso del casinò. E, come se non bastasse, in cambio dei suoi servigi chiedeva favori: un posto di lavoro per una figlia, una perizia tecnica da assegnare al genero, un appalto per qualche parente. Però, gli agenti della Dia di Napoli l'hanno arrestato su mandato del Gip Luigi Esposito. Le accuse: corruzione, concussione, favoreggiamento e abuso d'ufficio. Con lui sono finite in galera altre 6 persone, coinvolte a vario titolo nel giro d'affari del procuratore. Sarebbero stati emessi anche 7 avvisi di garanzia, uno dei quali riguarderebbe Anacleto Dolce, procuratore aggiunto a Vallo della Lucania e fratello di un altro magistrato, Romano Dolce, arrestato a Como nelle scorse settimane. Il sospetto è che il numero due della procura abbia spalleggiato gli imbrogli di Boccassini. Nella rete degli investigatori, comunque, è caduto l' avvocato Mario Siniscalco, ex consigliere comunale socialista di Salerno: era lui, secondo gli inquirenti, a fare da mediatore fra il magistrato e i suoi "clienti". Avevano messo in piedi una piccola ma efficiente società del malaffare. Siniscalco, tra l'altro, è stato a lungo presidente della commissione edilizia di Salerno, organismo di cui ha fatto parte anche Boccassini. E lì dentro i due hanno concesso più di un condono sospetto. L'inchiesta prende il via dalle dichiarazioni di Mario Pepe, un pentito della camorra, e dell'imprenditore Elio Graziano, ex presidente dell'Avellino, coinvolto tempo fa nello scandalo delle "lenzuola d'oro". L'industriale ha raccontato che, sborsando una trentina di milioni, ottenne dal procuratore il condono edilizio per la sua villa. E che Boccassini, all' epoca sostituto a Salerno, aggiustò un processo d'appello in cui Graziano era imputato di omicidio colposo per la morte in fabbrica di un operaio: condannato in primo grado, assolto in seconda istanza. L'imprenditore pagò l'intercessione assumendo una figlia del magistrato e scucendo altri milioni. "C'erano giorni in cui Siniscalco mi chiamava e mi diceva: "Prenotaci una stanza a Saint Vincent" ed io ero costretto a pagare albergo e casinò", ha detto in sostanza Graziano. Manette anche per i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia. Si vantavano di poter condizionare i processi e furono messi sott'inchiesta da Boccassini per millantato credito. Sembra, però, che quell'indagine servì solo ad accordarsi coi due e coinvolgerli nel giro d'affari. Arrestate, infine, Laura e Liliana Clarizia, titolari dell'agenzia pubblicitaria "First Agency", di cui era socia un'altra figlia del procuratore. L'azienda, grazie a Boccassini, ricevette dalla comunità montana Lambro Mingardo la fornitura di 20 mila depliant pubblicitari. Non a caso, in cella è finito pure il sindaco di Ascea, Angelo Criscuolo, ex presidente della comunità montana.

Ottavio Ragone, "La Repubblica", 15 giugno 1994. Ai tavoli verdi di Saint Vincent, Nicola Boccassini era un volto conosciuto. Tra un poker e uno chemin de fer, il procuratore della Repubblica di Vallo della Lucania, grosso centro del Salernitano, trascorreva intere notti al casinò. Amava giocare d'azzardo Boccassini, ma era un perdente, sperperava milioni, accumulava debiti su debiti. Per pagarli - sostiene l'accusa - il giudice vendeva i processi, garantiva assoluzioni a archiviazioni al miglior offerente. Oppure chiedeva un posto di lavoro per le figlie. Ieri Boccassini è stato arrestato in casa, a Salerno, in un'operazione che ha portato in carcere altre sei persone. I detective della Dia gli hanno mostrato un ordine di custodia cautelare per corruzione, concussione, abuso d'ufficio, favoreggiamento. Si è scoperto che quel giudice sempre elegante, frequentatore dei salotti buoni di Salerno, era stato per dieci anni il temutissimo ras della procura di Vallo della Lucania. "Boccassini andava al casinò e io dovevo pagargli la stanza d' albergo", ha raccontato l'industriale Elio Graziano, ex presidente dell' Avellino calcio, che dopo l'arresto di tre mesi fa ha scelto di collaborare. "Una sera gli consegnai un milione, lo perse in mezz' ora con puntate sballate". Boccassini apriva inchieste a suo piacimento, le usava come armi di ricatto per rastrellare denaro. E assegnava perizie d'ufficio al suo futuro genero Attilio Roscia pagandogli di persona le consulenze, affinché mettesse qualcosa da parte in vista del matrimonio con la figlia. Mesi fa, dopo le prime accuse dei pentiti tra cui il camorrista Mario Pepe, il Csm aveva sospeso Boccassini dalle funzioni e dallo stipendio, ordinando il trasferimento d'ufficio. Cionostante il giudice frequentava ancora loschi personaggi, come provano le foto scattate dalla Dia. Ma i sospetti investono pure un'altra toga di Vallo della Lucania, il sostituto procuratore Anacleto Dolce, fratello di Romano Dolce, il magistrato di Como arrestato settimane fa nell'inchiesta su un traffico di armi e scorie nucleari. Dolce ha ricevuto un'informazione di garanzia per abuso d'ufficio: anche lui avrebbe affidato perizie a Roscia e liquidato le parcelle. Si parla di un terzo giudice inquisito, ma sul nome c'è riserbo. Oltre a Boccassini, che oggi sarà interrogato dal gip Luigi Esposito, la procura di Napoli ha arrestato l'avvocato Marco Siniscalco, ex consigliere comunale psi a Salerno, amico e "socio" di Boccassini con cui spendeva un patrimonio al casinò; Angelo Criscuolo, presidente della Comunità Montana Lambro e Mingardo e sindaco di Ascea, nel Cilento; i faccendieri Franco Ferolla e Antonio Sabia; le sorelle Laura e Liliana Clarizia, titolari della "First Agency" di cui era socia una figlia di Boccassini e dove si vedeva spesso anche la moglie del giudice. Si è scoperto che la "First Agency" ottenne un lucroso appalto dalla Comunità Montana, la fornitura di 20 mila depliant turistici, un "omaggio" del presidente Criscuolo ai familiari di Boccassini. Ferolla e Sabia chiesero venti milioni ad una coppia per "aggiustare" un processo nel tribunale di Vallo, si sospetta con la regìa del procuratore. L' avvocato Siniscalco faceva parte della commissione comunale per il condono edilizio, di cui era membro pure Boccassini. Si misero d' accordo e dietro compenso fecero in modo che non fosse demolita la villa abusiva di Elio Graziano, imprenditore, anni fa coinvolto nello scandalo delle "lenzuola d' oro" delle Ferrovie. Proprio Graziano ha raccontato i segreti di Boccassini. I due si conobbero quando il giudice era sostituto procuratore generale a Salerno. Graziano, condannato per omicidio colposo per la morte sul lavoro di un suo operaio, fu assolto in appello grazie all' intervento del magistrato. Dopo la sentenza Boccassini avvicinò l'imprenditore: "Mia figlia cerca lavoro", disse. E Graziano, pronto: "Eccellenza, sono a disposizione". La ragazza fu assunta ma secondo l'industriale intascava lo stipendio senza presentarsi in ufficio: "In pratica le pagavo gli studi", ha spiegato l'ex presidente dell'Avellino, aggiungendo che Siniscalco e Boccassini pretesero un mutuo di settanta milioni per l'acquisto di una casa. Il giudice volle un altro prestito di trenta milioni dalla Cassa rurale di Omignano Scalo, presieduta fa Fernando Cioffi: l'istituto era sotto inchiesta, ma il solerte Boccassini chiese l'archiviazione del fascicolo.

ATTACCO AI GIUDICI DI MILANO

Luca Fazzo, "La Repubblica", 14 novembre 1993. Il magistrato Alberto Nobili è uno dei quattro pm sui quali, secondo le dichiarazioni del pentito, i giudici fiorentini starebbero indagando. Sarebbe accusato di non aver arrestato Giovanni Salesi in occasione dell'inchiesta sulla morte di un pregiudicato gelese. Nobili coordinò la recente operazione. "Nord-sud" che coinvolse il generale dei carabinieri Delfino. Tre paginette di verbale, dettate da un mafioso catanese, mettono una contro l'altra due tra le Procure più importanti d'Italia, quella di Milano e quella di Firenze, portando in piazza storie vere o inventate di giudici corrotti, di inchieste nascoste, di contatti inconfessabili tra gli uomini dello Stato e i suoi nemici. Otto giorni fa, il 6 novembre, il "pentito" catanese - sconvolto, quasi in lacrime - si presenta dai giudici lombardi con cui collabora da tempo e dice: mi hanno chiamato i giudici di Firenze Pierluigi Vigna e Giuseppe Nicolosi, quelli che indagano sull'autoparco milanese in mano alla mafia. Loro, e i loro amici della Guardia di finanza, mi hanno detto che sanno che i giudici di Milano sono corrotti. Mi hanno chiesto conferme, altre rivelazioni, particolari. Non hanno messo niente a verbale. Ma mi hanno fatto dei nomi: Antonio Di Pietro, Armando Spataro, Alberto Nobili, Francesco Di Maggio. Scoppia il finimondo Ieri le affermazioni del pentito vengono riportate dal Corriere e dal Giornale. E scoppia il finimondo. Francesco Saverio Borrelli, il capo della Procura, parla a nome di tutti: "Reagiremo - dice - con la massima fermezza. Da sempre, e in particolare da qualche anno, la Procura di Milano è impegnata su più fronti nell'accertamento di fatti gravissimi di criminalità mafiosa, la recente brillante operazione guidata da Alberto Nobili ne è la riprova, e nel campo della pubblica amministrazione. Essendo questo impegno evidente, ed essendo evidente anche l'esistenza di interessi assai cospicui che vengono posti a repentaglio dall'attività dei magistrati di Milano, era prevedibile ma non perciò meno deplorevole che si sarebbero infittiti i tentativi di gettare discredito. Noi contro questo tentativo, che non sappiamo ancora da quale direzione provenga, reagiremo con la massima fermezza ma anche con la massima serenità perché siamo certi, graniticamente certi, della nostra assoluta trasparenza e aggiungo, quale responsabile dell' ufficio, che ben conosco la professionalità altissima dei miei aggiunti e dei miei sostituti. In questa situazione, come sempre, i miei sostituti avranno da me la massima copertura". Del pentito che ha incontrato i giudici di Firenze dice: "E' un collaboratore della Procura e non si discute la sua credibilità verso quello che dice a noi nell' ambito delle nostre indagini. Questa vicenda invece è tutta da accertare". Borrelli conferma di avere partecipato personalmente all' interrogatorio del pentito e di avere chiesto per iscritto chiarimenti al collega Pierluigi Vigna: una lettera rimasta, finora, senza risposta. Passano le ore, senza che si riesca ad afferrare il bandolo della vicenda. I contatti tra i magistrati intanto continuano frenetici. Ma l'impressione è che un tentativo di chiarimento sia in corso. Alle otto di sera, al termine di questa giornata campale, Francesco Saverio Borrelli appare più rilassato che durante il briefing di mezzogiorno. Signor procuratore, molte cose non quadrano. Lei ha spiegato di avere scritto a Vigna per chiedere spiegazioni, il suo collega di Firenze dice invece di avere appreso delle rivelazioni del pentito solo dai giornali. "Ho parlato al telefono con Pierluigi Vigna all'inizio del pomeriggio. Mi ha detto di non avere ancora ricevuto la mia lettera, e questo è comprensibile visti i tempi delle poste italiane. Mi ha confermato che mi risponderà immediatamente. Io attendo per martedì o mercoledì prossimi i chiarimenti che gli abbiamo chiesto nello spirito di correttezza che contraddistingue i nostri rapporti". Le affermazioni del pentito, per la verità, non descrivono un quadro di grande correttezza. "Nel merito di queste dichiarazioni preferirei non entrare. Voi pretendete valutazioni immediate, invece vi sono delle circostanze in cui è necessario approfondire". Però lei stamane ha rivendicato l' attendibilità di questo personaggio. "Attenzione, io ho semplicemente fatto presente che il contributo dato da questo collaboratore alle inchieste della Procura di Milano si è rivelato n contributo serio. Non ho detto, né potevo dire, che questo signore dice la verità qualunque argomento tratti. Voglio dirle anche che io penso da sempre che la comunicazione è qualcosa di complicato, a volte le parole invece che veicolare il pensiero lo confondono. Vi è stato un incontro, e bisogna capire chi ha detto e cosa ha detto, e l' altro come ha recepito questo messaggio. E' difficile, ed anche per questo io non vorrei drammatizzare". Stamane lei sembrava molto preoccupato. "Certo, perché in un passaggio periglioso per le istituzioni, in cui la magistratura, e non solo quella milanese, ha assunto tanta importanza bisogna tenere gli occhi bene aperti per evitare di cadere in trappola. Bisogna però anche evitare ogni precipitazione, perché potrebbe essere segno di debolezza mentre noi siamo molto tranquilli". Vigna le scriverà, spiegherà cosa è accaduto quel giorno durante l' interrogatorio. Ma se alla fine, come è possibile, la situazione fosse del tipo: la parola del pentito contro la parola di Vigna, voi a chi credete? "Mi sembra un paragone improponibile. E' chiaro che non possono esistere dubbi". Il clima creato nel tribunale milanese dall' esplodere della vicenda è molto pesante, anche perché i nomi che compaiono nei verbali sono quattro dei nomi più noti e rispettati del palazzaccio di corso di Porta Vittoria. Uno, Francesco Di Maggio, è diventato quest' anno vicedirettore generale delle carceri. Gli altri tre sono ancora in Procura: Antonio Di Pietro è il simbolo dell' Italia che cambia, Alberto Nobili e Armando Spataro sono due tra i magistrati di punta della Direzione distrettuale antimafia, autori delle più importanti inchieste degli ultimi tempi contro il crimine organizzato in Lombardia. Dall' ufficio del procuratore capo Saverio Borrelli partono telefonate a raffica verso tutti i protagonisti della vicenda. Ma, con il passare delle ore, la situazione invece di chiarirsi si complica sempre di più. Giulio Catelani, procuratore generale a Milano, durante un convegno conferma integralmente le anticipazioni dei due quotidiani. "Mi scappa da ridere", dice (ma senza nemmeno l' ombra di un sorriso) Armando Spataro. "Mi aspettavo il tritolo o le calunnie - commenta Alberto Nobili - e per adesso sono arrivate le calunnie". Antonio Di Pietro e Francesco Di Maggio si chiudono nel silenzio. Ma ormai anche le forme, che di solito racchiudono le polemiche tra giudici, sono saltate. Molto preciso I magistrati di Milano fanno sapere che il racconto del "pentito" sul suo incontro con i giudici fiorentini è preciso in modo impressionante, che la sua attendibilità è considerata altissima, e accusano senza mezzi termini i colleghi fiorentini di indagare su di loro in modo clandestino, fuori da ogni regola del codice e con ipotesi di reato gravissime. Si viene a sapere che uno dei magistrati chiamati in causa ha chiesto al procuratore Borrelli che l' interrogatorio del "pentito" sia trasmesso subito alla procura di Bologna, competente per i reati commessi dai giudici di Firenze: l' ipotesi di reato sarebbe, nel migliore dei casi, quella di abuso d' ufficio, per avere interrogato il catanese senza metterne a verbale le dichiarazioni. I fiorentini ribattono facendo capire che è in corso una manovra per screditarli, per togliere attendibilità alle scoperte compiute in questi mesi dal Pm Nicolosi sulla penetrazione della mafia a Milano e sui suoi contatti - attraverso una loggia massonica - con gli apparati dello Stato. E' l' inchiesta sull' autoparco milanese di via Salomone, la stessa che ha portato poche settimane fa Vigna e Nicolosi a fare arrestare cinque poliziotti milanesi tra cui un vicequestore, Carlo Iacovelli, indagato per associazione mafiosa.

BRESCIA, TORNA L' INCHIESTA 'AUTOPARCO'

Cinzia Sasso, "La Repubblica" del 16 novembre 1996. Ruota intorno al costruttore Antonio D'Adamo, ai rapporti con il suo difensore Giuseppe Lucibello e con il cliente più famoso di quest' ultimo, Francesco Pacini Battaglia, l'ultima trincea dell' inchiesta su Antonio Di Pietro. I magistrati di Brescia avevano già ricevuto dai colleghi di La Spezia i pacchi di intercettazioni telefoniche, i rapporti del Gico e pure i riscontri dei rapporti patrimoniali fra il banchiere e D'Adamo. Rapporti di denaro, molto denaro, transitato estero su estero, da società di Pacini a società di D'Adamo. E D'Adamo è, dai vecchi tempi, un buon amico di Di Pietro. Tanto amico da aver dato in uso a Susanna Mazzoleni, moglie dell'ex pm, un telefono cellulare nell'epoca in cui il portatile era uno status symbol per pochi. Ma a Brescia è stata riaperta nei giorni scorsi anche un'altra vicenda che rischia di provocare un nuovo terremoto: quella sull' Autoparco di via Salamone a Milano, l'autoparco della mafia scoperto dal Gico di Firenze e all' origine del rancore tra la Procura di quella città e quella di Milano. Da Bologna, dov' era finito protocollato a modello 45, è arrivato a Brescia il nuovo rapporto del colonnello Giuseppe Autuori (sollevato dall'incarico di comandante del gruppo Gico di Firenze e trasferito a Bologna), compilato nel '95 e incentrato sui sospetti di coperture da parte degli ambienti investigativi e giudiziari milanesi a quella che è stata ritenuta una base della mafia al nord. Sono passati due anni dalla chiusura di un' altra inchiesta, a Brescia, su alcuni aspetti di quella vicenda. Un pentito aveva accusato - e poi ritrattato le accuse - un pm al di sopra di ogni sospetto, Alberto Nobili, della Dda milanese. L'indagine si era chiusa con un'archiviazione per Nobili e l'apertura di un procedimento per calunnia contro il pentito che l' aveva accusato. Ma nel rapporto di Autuori non si parla solo di Nobili: si parla anche di Di Pietro, ai tempi commissario al quarto distretto di polizia, nella competenza del quale rientrava l'Autoparco, e di altri magistrati e investigatori milanesi. Per Giancarlo Tarquini, da poco arrivato a dirigere la Procura di Brescia, i grattacapi non finiscono qui: i primi giorni di ottobre, dal gip di Roma Maurizio Pacioni, è arrivata una relazione su presunte irregolarità compiute dal pool milanese di Mani pulite quasi al completo più l'ex gip Italo Ghitti a proposito di un' inchiesta - cominciata a Milano e finita a Roma con un'archiviazione - su un appartamento-tangente dato dalla Fiat al senatore democristiano Giorgio Moschetti. A Roma era stato il pm Francesco Misiani a occuparsene e aveva avuto non poche difficoltà a ottenere le carte dai colleghi di Milano. In questo caso i magistrati di Milano sono stati iscritti al registro degli indagati per abuso d' ufficio. La vicenda è molto complessa e riguarda anche Filippo Dinacci, figlio dell'ex capo degli ispettori ministeriali Ugo Dinacci (sotto processo a Brescia per la presunta concussione ai danni di Di Pietro). Quell'appartamento della Fiat - valore 2 miliardi e 400 milioni - sarebbe poi stato messo a disposizione, secondo il dirigente della Fiat Ugo Montevecchi che denunciò il caso, del figlio di Dinacci (che ha sempre smentito). Oggi, a Brescia, si ricomincia. "Il confronto con i colleghi di La Spezia - ha detto alle 20.15 il procuratore Tarquini rientrato in Procura - è stato utile, come lo sono sempre i confronti con i colleghi". E si ricomincia da Antonio D' Adamo, dal suo ruolo che a Brescia era già stato al centro dell' attenzione. Già secondo il pm Fabio Salamone c'era D'Adamo dietro molti misteri del caso Di Pietro. Le carte di La Spezia pare gli stiano dando ragione.

TRATTATIVA E 41 BIS, UN PASSATO CHE NON VUOLE PASSARE.

Scritto da Fabio Repici e Marco Bertelli. Da qualunque parte si prenda, questa storia sembra il prodotto malato della mente di uno sceneggiatore horror. Una storia così inverosimile che risulterebbe irricevibile per qualunque produttore cinematografico che si rispetti. Una storia all’apparenza del tutto inventata, se solo non fosse fondata su fatti e documenti mai smentiti, anzi puntualmente riscontrati ogni volta che sono stati sottoposti a verifica. Allora è doveroso raccontarla, avvertendo i lettori che è una storia che non ha ancora trovato la sua conclusione, se mai la troverà, e che si intreccia con la stagione che cambiò per sempre la nostra vita, il biennio stragista 1992/93. E conviene raccontarla partendo dagli spunti di cronaca.

1993, l'anno delle bombe e delle prime revoche del 41-bis.

Da un paio d’anni – più o meno da quando il braccio destro dei fratelli Graviano, Gaspare Spatuzza, ha iniziato a collaborare con la giustizia – le Direzioni distrettuali antimafia di Caltanissetta e Palermo stanno cercando di capire quali apparati dello Stato abbiano condiviso con Cosa Nostra la strategia eversiva a suon di bombe che ha spalancato le porte alla cosiddetta Seconda Repubblica e quali siano stati i tempi e gli strumenti che hanno permesso l’insana interlocuzione, più correttamente chiamata ‘Trattativa’, fra Stato e antiStato. Con imperdonabile ritardo, sulla scia delle rivelazioni di Spatuzza e del figlio minore di don Vito Ciancimino, numerosi personaggi istituzionali hanno avuto riverberi di memoria su due snodi decisivi della Trattativa. Il primo: lo sciagurato dialogo a partire dal mese di giugno 1992 fra il Ros dei Carabinieri (nelle persone degli ufficiali Mario Mori e Giuseppe De Donno, con la copertura del generale Antonio Subranni) e Vito Ciancimino, che ha visto dall’estate 2009 la resurrezione della memoria di Luciano Violante, Claudio Martelli e Liliana Ferraro. Il secondo: i provvedimenti di revoca o mancata proroga susseguitisi nel 1993, in favore di uomini di Cosa Nostra, del regime detentivo speciale previsto dall’art 41-bis dell’ordinamento penitenziario, sui quali i ricordi a scoppio ritardato sono stati soprattutto quelli dell’allora ministro di grazia e giustizia Giovanni Conso, che il 12 febbraio 1993 sostituì il dimissionario Claudio Martelli nel primo governo di Giuliano Amato e che fu confermato il 28 aprile 1993 nel successivo governo di Carlo Azeglio Ciampi. Conso ha rivelato l’undici novembre 2010 agli attoniti membri della Commissione parlamentare antimafia di avere assunto il 5 novembre 1993 in completa solitudine la decisione di venire incontro alle esigenze di detenuti mafiosi, per fornire un segnale di pace all’ala provenzaniana di Cosa Nostra, che in quel momento aveva adottato una linea strategica contraria a quella stragista sostenuta da Leoluca Bagarella: “Nel 1993 non rinnovai il 41 bis per 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi... La decisione non era un’offerta di tregua o per aprire una trattativa, non voleva essere vista in un’ottica di pacificazione, ma per vedere di fermare la minaccia di altre stragi. Dopo le bombe del maggio ’93 a Firenze, quelle del luglio ’93 a Milano e Roma, Cosa nostra taceva. Cosa era cambiato? Totò Riina era stato arrestato, il suo successore, Bernardo Provenzano era contrario alla politica delle stragi, pensava più agli affari, a fare impresa; dunque la mafia adottò una nuova strategia, non stragista”. Come l’algido giurista sabaudo avesse avuto contezza dell’esistenza di due tendenze contrapposte all’interno di Cosa Nostra, circostanza che gli investigatori avrebbero scoperto molto tempo dopo l’intuizione di Conso, rimane tuttora un mistero. Gli inquirenti titolari dell’inchiesta palermitana sulla Trattativa tra 'pezzi' dello Stato e 'pezzi' dell'antiStato hanno accertato che in realtà Conso in quell’occasione non rinnovò altri 194 provvedimenti di regime carcerario 41-bis, per un totale di 334 detenuti ai quali non fu prorogato il carcere duro. Testimoniando il 15 febbraio davanti ai giudici della Corte d’assise di Firenze nel processo a carico del boss Francesco Tagliavia, Conso ha perfino peggiorato la sua indifendibile posizione: “A me di intese (tra pezzi dello Stato e pezzi della mafia) non risulta assolutamente nulla, anche perché ero chiuso nel mio bunker. L’idea di una vicinanza mafiosa mi offende nel profondo. Dopo tutta una vita dedicata al diritto, sentirmi sospettato di aver trattato… Ma nemmeno lontanamente, abbiate pazienza!”. Ha poi incredibilmente aggiunto con tono sibillino: “A me non risulta che ci fossero dei mediatori, ma certo non posso escludere che fra due funzionari, magari una sera a cena, si possa aver detto ‘facciamo un ponte’”. Parole dal sen fuggite, quelle sull’intesa “fra due funzionari una sera a cena” o un preciso messaggio? Se di messaggio si è trattato sembrerebbe il riferimento a uomini d’apparato piuttosto che a politici. Ma chi potevano essere i funzionari che si incontravano a cena per “fare un ponte”? Forse le parole di Conso sono più velenose di quanto possa sembrare a prima vista. Velenose come le parole di coda nella deposizione dell’ex ministro: “Al momento non siamo ancora in grado di dire nulla di sicuro, magari col tempo, piano piano, pezzo dopo pezzo arriveremo alla verità”. Come se ci fosse un informale segreto di Stato, per far cadere il quale occorre tempo. Peraltro, le affermazioni di Conso in merito alla mancata proroga dei provvedimenti di carcere duro ai primi di novembre del 1993, oltre a lasciare perplessi pressoché tutti gli osservatori, hanno trovato un’autorevole smentita nell’ex direttore del Dap (Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria) Nicolò Amato. Quest’ultimo era stato sostituito alla guida del Dap il 4 giugno 1993 dal magistrato Adalberto Capriotti, cui fu abbinato come vicedirettore Francesco Di Maggio, magistrato di punta alla Procura di Milano per quasi tutti gli anni Ottanta, poi passato all’Alto commissariato antimafia a coadiuvare Domenico Sica e infine, dietro segnalazione governativa, finito a Vienna a dirigere l’agenzia antidroga delle Nazioni Unite, incarico lasciato per insediarsi al Dap. In un’intervista rilasciata a Rainews24, Nicolò Amato ha rivelato il proprio fermo convincimento che la paternità del mancato rinnovo dei 41-bis del 5 novembre 1993 vada attribuita proprio a Francesco Di Maggio, che era il vero dominus del Dap, alle spalle del ruolo meramente formale assegnato a Capriotti. Amato nulla ha saputo (o voluto o potuto) dire, però, su un documento, da lui redatto nel marzo 1993, nel quale veniva sollecitata la messa in mora della normativa sul carcere duro per i mafiosi. Quella nota dell’ex capo del Dap faceva riferimento ad orientamenti già emersi il 12 febbraio 1993, lo stesso giorno dell’insediamento di Conso al posto di Martelli in via Arenula, nel corso di una seduta del comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica: in quell’occasione – scrive Amato - era stato il capo della Polizia Vincenzo Parisi, storico mentore di Bruno Contrada, a manifestare contrarietà al mantenimento del regime detentivo previsto dall’art. 41-bis. Nei verbali di quel comitato, però, che Parisi abbia manifestato questo atteggiamento non risulta; risulta invece che fu lo stesso Nicolò Amato a sollecitare un alleggerimento del 41-bis. È un fatto che il 15 maggio 1993, il giorno successivo al fallito attentato a Maurizio Costanzo in via Fauro a Roma, il regime carcerario del 41-bis fu revocato per 140 detenuti. Di questi, solo 17 erano divenuti collaboratori di giustizia, e per loro erano stati gli stessi magistrati a sollecitare l'alleggerimento del trattamento in cella. Per tutti gli altri fu una scelta autonoma del governo. I provvedimenti di revoca del 41-bis furono firmati dal vice-direttore del Dap Edoardo Fazioli. Si diceva di Francesco Di Maggio. Si tratta del personaggio più controverso fra gli attori di quello squilibrato frangente istituzionale, nel quale il capo del governo Ciampi arrivò a temere un colpo di Stato di marca tardo-piduista. Personaggio controverso, Di Maggio, soprattutto per la statura indiscussa di molti suoi estimatori, fra i quali esponenti tra i migliori della storia giudiziaria milanese: da Piercamillo Davigo ad Armando Spataro a Ilda Boccassini. Senza dimenticare un dato di fatto da non trascurare: Francesco Di Maggio era stato uno dei magistrati antimafia più intimi con Giovanni Falcone.

Le indagini del pubblico ministero Gabriele Chelazzi sulle stragi del ‘93.

E allora quali sono le ragioni che impongono di riflettere sull’eventuale ruolo di Di Maggio nella Trattativa? La prima è insuperabile: poco prima di morire, fu proprio il compianto pubblico ministero Gabriele Chelazzi – indubbiamente il magistrato che con maggiore sagacia e con indiscussa rettitudine cercò di venire a capo dei misteri di Stato della Trattativa – a mettere nel fuoco della sua attenzione investigativa l’operato di Di Maggio quale vicecapo del DAP nel 1993. Quando Chelazzi virò le indagini su di lui, in realtà Di Maggio era già morto, stroncato il 7 ottobre 1996 a soli 48 anni per una grave forma di epatite degenerata in cirrosi epatica. Ma ad insospettire il Pm fiorentino, oltre al ruolo formale di Di Maggio al Dap, era stata un’inspiegabile annotazione trovata nell’agenda dell’allora colonnello Mario Mori, esattamente nella pagina dedicata al 27 luglio 1993. Si tratta di una data drammatica per l’Italia: nella notte successiva tre auto riempite di esplosivo (una a Milano nei pressi del padiglione di arte contemporanea, una a Roma a San Giovanni in Laterano e un’altra sempre a Roma davanti alla chiesa di San Giorgio al Velabro) avrebbero insanguinato il centro cittadino di Milano e provocato terrore nell’area di due famosi edifici religiosi della capitale, intestati, curiosamente, a santi omonimi dei Presidenti dei due rami del Parlamento, Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano. Ecco, proprio in quella data, sull’agenda di Mario Mori risultò annotato un appuntamento dell’ufficiale del Ros con Francesco Di Maggio, con una causale davvero strana: “per prob. detenuti mafiosi”. Strana, anzi inspiegabile, perché non risulta che fra i campi d’intervento del Ros ci fosse il controllo del trattamento penitenziario dei mafiosi. Chelazzi dovette saltare sulla sedia dalla sorpresa, nel leggere quell’appunto sull’agenda di Mori. Si consideri che le bombe di Milano e Roma scoppiarono all’indomani del rinnovo, deliberato il 16 luglio, di 325 decreti che imponevano il 41-bis ad altrettanti mafiosi, quelli varati subito dopo la strage di via D’Amelio a Palermo. E un altro balzo Chelazzi dovette fare quando scoprì che il 22 ottobre 1993 Di Maggio e Mori si erano nuovamente incontrati, questa volta alla presenza anche dell’allora colonnello Giampaolo Ganzer, l’attuale comandante del Ros, condannato il 12 luglio 2010 dal Tribunale di Milano a quattordici anni di reclusione per gravissime imputazioni, a partire dal traffico di droga. Occhio alla data, 22 ottobre 1993: pochi giorni dopo, il 5 novembre 1993, 334 detenuti non si videro prorogato il regime restrittivo del 41-bis. Tra questi Conso decise di non rinnovare il carcere duro per 140 mafiosi rinchiusi all’Ucciardone nonostante Capriotti avesse chiesto un parere alla Procura di Palermo e quest’ultima avesse risposto che era inopportuno modificare il regime carcerario dei detenuti in questione, esprimendo parere favorevole alla proroga. Il parere della Procura di Palermo recava la firma degli allora procuratori aggiunti Vittorio Aliquò e Luigi Croce. Fu all’esito di queste scoperte che Gabriele Chelazzi si decise a sentire come testimone Mario Mori. L’incontro fra il magistrato fiorentino e colui che il primo ottobre 2001 era diventato, su designazione del secondo governo Berlusconi, direttore del Sisde avvenne nel pomeriggio dell’11 aprile 2003 e Chelazzi non ne rimase per nulla soddisfatto: secondo lui, Mori si era trincerato dietro troppi inescusabili “non ricordo”. E per questo, come ricorda il magistrato Alfonso Sabella, in quel momento collega di Chelazzi alla Procura di Firenze, il P.m. che indagava sulla Trattativa si era determinato a iscrivere l’ex generale del Ros sul registro degli indagati: “L’ipotesi di Gabriele in quel periodo è che ci fosse stato un tentativo da parte degli organi dello Stato di dare un segnale di ‘apertura’ a Cosa Nostra in maniera da impedire che altre stragi si portassero avanti. Questo segnale di ‘apertura’ era collegato all’alleggerimento del 41-bis o quantomeno al ridurre il numero dei detenuti al 41-bis. Perché Gabriele faceva questa ipotesi? Perché – non ricordo in quale agenda o da qualche parte – aveva saputo di un incontro tra il generale Mori e Francesco di Maggio, all’epoca vicecapo del Dap, che sembrava collegato da un appunto alla vicenda del 41-bis. Nello stesso periodo si era registrata anche la revoca di parecchi decreti 41-bis. Questa era l’ipotesi che aveva Gabriele.... Gabriele iscrisse Mori nel registro degli indagati per favoreggiamento in relazione alla vicenda della fase della trattativa che doveva portare alla revoca di alcuni 41-bis alla vigilia delle stragi in contemporanea con il fallito attentato all’Olimpico (stadio Olimpico di Roma – ottobre 1993/gennaio 1994). L'aspetto tecnico (e non solo tecnico) di iscrivere Mario Mori per favoreggiamento verteva su una domanda specifica: l’avrebbe fatto per favorire la mafia o l’avrebbe fatto sostanzialmente per favorire la pacificazione nello Stato? Gabriele giustamente sosteneva di volerlo appurare da Mori e a tal proposito ribadiva: ‘Mi venga a dire perché l’avrebbe fatto oppure invochi il segreto di Stato, e in questo caso che venga un Presidente del Consiglio a porre il segreto di Stato’”. Sabella non si dovette sorprendere dei sospetti di Chelazzi, se sul Ros, da P.m. della D.d.a. di Palermo negli anni del Procuratore Giancarlo Caselli, si era fatta un’idea per nulla positiva proprio sulle ricerche dell’allora latitante Bernardo Provenzano, tema centrale del processo oggi pendente a Palermo a carico di Mario Mori e del colonnello Mauro Obinu: “A noi sembrava – così si è espresso Sabella a Palermo davanti ai giudici della quarta sezione penale del Tribunale – che il Ros agisse in un’altra direzione, per acquisire informazioni non come forza di polizia ma per altri motivi, a noi sconosciuti”. Se si legge il verbale delle dichiarazioni rese da Mori ai pubblici ministeri Chelazzi e Giuseppe Nicolosi si comprende appieno la sensazione che Sabella ebbe della delusione del collega. Se ne ricavano, fra l’altro, alcune impressioni nette: intanto, la metodicità e lo scrupolo minuzioso con cui Chelazzi – che durante quel verbale, nelle premesse alle domande poste a Mori, spiega in dettaglio l’obiettivo delle sue indagini – aveva ricostruito in punto di fatto il susseguirsi di ogni anche minuscolo evento susseguitosi nel biennio 1992-93; poi il “buon rapporto” che intercorreva fra Mario Mori e Nicolò Amato, il quale, cessata la sua permanenza al Dap e intrapresa l’attività di avvocato, secondo Massimo Ciancimino sarebbe stato nominato quale difensore da Vito Ciancimino su consiglio proprio di Mori; ancora, il sospetto che Mori in quell’incontro del 27 luglio 1993 avesse potuto riportare a Di Maggio le confidenze che il pentito Salvatore Cancemi, consegnatosi ai carabinieri il 22 luglio precedente con l’intenzione di iniziare da subito a collaborare con la giustizia, gli avesse potuto rivolgere circa il forte malumore serpeggiante in Cosa Nostra per le modalità applicative del 41-bis; i tentennamenti manifestati al riguardo da Mori, che ricordava come subito dopo la sua costituzione Cancemi fosse stato alloggiato a Verona sotto il controllo del maggiore Mauro Obinu e, del tutto inspiegabilmente, del maresciallo Giuseppe Scibilia, a quel tempo in servizio al Ros di Messina (e dalla domanda del P.m. Nicolosi, se si trattasse proprio di quel maresciallo Scibilia in servizio a Messina, emerge la sorpresa pure dei magistrati); il rapporto di grande solidarietà fra Mori e Di Maggio, che erano “veramente amici” e che, al di là delle due annotazioni risultanti sull’agenda del generale Mori, si incontravano spesso anche a cena (sic!); i buoni rapporti di frequentazione fra Mori e l’allora direttore del Giornale di Sicilia Giovanni Pepi, che aveva ricevuto pubblico encomio niente di meno che da Totò Riina in un’esternazione dalla gabbia davanti alla Corte di assise di Roma il 29 aprile 1993: “Pepi è una persona seria che sa quello che scrive e quello che dice”; la prima visita che una giornalista, Liana Milella (allora a Panorama), riuscì a fare il 10 agosto 1993 al supercarcere di Pianosa per uno scoop che provocò le ire del Prefetto di Livorno, tenuto all’oscuro della sortita avvenuta con la copertura di Di Maggio, e avvenuta poco dopo un incontro che, il 30 luglio di quell’anno, la Milella aveva avuto con Mario Mori. Di tutti i temi e i nomi emersi da quel lungo verbale, è qui il caso di soffermarsi su quello meno conosciuto, il maresciallo Giuseppe Scibilia. Sì, perché non si riesce a capire a quale titolo a un sottufficiale del Ros di Messina fosse stata assegnata la responsabilità di gestire l’avvio della collaborazione con la giustizia di Salvatore Cancemi nel luglio 1993. Peraltro, ciò avveniva pochissimo tempo dopo un eclatante ed inescusabile passo falso che il Ros di Messina, guidato per l’appunto da Scibilia, aveva fatto con l’omessa cattura nel barcellonese del boss allora latitante Nitto Santapaola: il capomafia catanese frequentava stabilmente dei locali nei quali erano attive intercettazioni ambientali gestite dal Ros di Messina nell’ambito dell’indagine sull’omicidio del giornalista Beppe Alfano; anziché andare con tutta calma ad ammanettare Santapaola, il Ros aveva fatto intervenire la squadra del capitano Ultimo, che anziché acciuffare il latitante si era data ad inseguire un diciannovenne della zona, che per un soffio non fu ucciso dalle pistolettate esplosegli dietro da Sergio De Caprio. Ne venne fuori perfino un procedimento penale a carico di Ultimo, archiviato con una motivazione abbastanza infamante per l’ufficiale. Se Scibilia aveva ricevuto quell’incarico delicato ed estraneo alle funzioni che ricopriva in quel momento, ciò era dovuto agli antichi rapporti di fiducia che legavano il sottufficiale al generale Antonio Subranni, che nella seconda metà degli anni Settanta era stato in servizio a Palermo e aveva avuto ai suoi ordini il giovane maresciallo Giuseppe Scibilia. Proprio in quegli anni Scibilia, insieme ad altri subordinati di Subranni, fu impegnato nelle indagini sull’uccisione di due carabinieri della stazione di Alcamo Marittima, Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta. In un processo di revisione attualmente in corso presso la Corte di appello di Reggio Calabria, è emerso il forte sospetto che Scibilia ed altri si sarebbero resi responsabili di torture per costringere alcuni giovani del trapanese a confessare di essere i responsabili dell’eccidio. Ne è scaturito un procedimento a carico di Scibilia e altri tre sottufficiali presso la Procura di Trapani, per calunnia e altro, archiviato per prescrizione dei reati. Sullo sfondo delle torture, i depistaggi nelle indagini sul duplice omicidio, dietro il quale si è sospettata la presenza di trame nere e di deviazioni istituzionali. Negli anni Novanta, però, Scibilia era in servizio a Messina. Eppure, veniva usato dai vertici del Ros come un fidato globe-trotter per casi di particolare delicatezza. Cosa che avvenne pure nelle vicende che avvolsero il suicidio del maresciallo (anch’egli del Ros) Antonino Lombardo. La sera del 23 febbraio 1995, nel corso della trasmissione “Tempo reale” condotta da Michele Santoro, Leoluca Orlando e Manlio Mele (allora sindaco di Terrasini) avevano rivolto al maresciallo Lombardo accuse di contiguità mafiosa. Lombardo in quel periodo era da tempo impegnato in trasferte per gli Stati Uniti, ove si recava con il maggiore Obinu per svolgere colloqui investigativi con il boss Gaetano Badalamenti. Si disse che Badalamenti stesse per essere convinto a tornare in Italia per rendere alla magistratura dichiarazioni con le quali avrebbe messo in crisi i processi fondati sulle rivelazioni di Tommaso Buscetta: stravagante progetto di collaborazione con la giustizia a beneficio di imputati eccellenti. La sopravvenuta esposizione mediatica di Lombardo determinò i vertici del Ros a revocargli l’incarico per una partenza già programmata per il 26 febbraio. Vistosi abbandonato e in pericolo, Lombardo si tolse la vita il 4 marzo 1995, lasciando ai suoi familiari una lettera nella quale spiegava che “la chiave della mia delegittimazione sta nei viaggi americani”. Il 16 marzo 1995 Mario Mori venne sentito dai pubblici ministeri di Palermo sul suicidio del maresciallo Lombardo e si espresse in questi termini circa la revoca dell’incarico a Lombardo per la nuova trasferta americana: “Il 24 avendo saputo che il sottufficiale avrebbe sporto querela contro le persone che lo avevano accusato, discussi della cosa con il maggiore Obinu. Questi segnalò l’inopportunità di esporre in quel momento il sottufficiale ad eventuali ulteriori polemiche, che potevano derivare dalla diffusione della notizia del suo incarico di portare Badalamenti in Italia e preso atto di tali osservazioni, parlai con il generale Nunzella (allora comandante del Ros, n.d.a.) ed insieme stabilimmo di mandare negli USA il maresciallo Scibilia, al posto di Lombardo”. Insomma, in quegli anni, ed anche in quelli a venire, il maresciallo Giuseppe Scibilia era uno dei più fidati ambasciatori degli uomini di vertice del Ros. Ufficiali del Ros, e Mario Mori per primo, come rappresentanti dello Stato che si muovevano per ragioni apparentemente estranee ai propri compiti d’ufficio: questo, quindi, fu il filone investigativo coltivato dal P.m. Chelazzi negli ultimi giorni di vita. Lo sfortunato magistrato fiorentino, però, nella mattina del 17 aprile 2003 fu colto da un improvviso malore che ne provocò la morte.

L’eredità scomoda di Gabriele Chelazzi.

A proseguire su quell’indirizzo d’indagine furono i suoi colleghi della D.d.a. di Firenze, che a poche settimane dalla morte di Chelazzi raccolsero imprevedibili riscontri sulle anomalie nei contatti fra Francesco Di Maggio e Mario Mori. Ne parlò nel giugno 2008 il battagliero mensile d’inchiesta La Voce delle Voci, in seno all’articolo a firma di Andrea Cinquegrani e Rita Pennarola dal titolo “L’infiltrato speciale”, dedicato a “Servizi segreti e inquinamento delle istituzioni”. I due autori riportarono stralci di un sofferto verbale di dichiarazioni rese il 13 maggio 2003 ai pubblici ministeri fiorentini Alessandro Crini e Giuseppe Nicolosi dall’ispettore del Dap Nicola Cristella, fedelissimo collaboratore di Di Maggio nei mesi caldi del 1993. Così aveva raccontato Cristella: “Quanto alle frequentazioni che il consigliere Di Maggio aveva in quel periodo anche in relazione al suo ruolo istituzionale, rammento che frequentava il maggiore Bonaventura del Sisde, l’attuale comandante del Ros generale Ganzer, il colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria con cui erano molto amici. La abituale frequentazione con Bonaventura era accompagnata anche dalla presenza di un’altra persona con cui si vedevano spesso a cena tutte e tre, quasi tutte le sere; questa persona veniva all’appuntamento in motorino e se non ricordo male si tratta di un civile all’epoca anch’egli nei servizi segreti … Un’altra persona con cui il consigliere aveva una qualche frequentazione era il giornalista di Famiglia Cristiana Sasinini”. Il verbale dell’ispettore Cristella si concludeva con una precisazione: “In sede di rilettura l’ispettore Cristella precisa che la persona indicata precedentemente come commensale abituale del consigliere Di Maggio e del maggiore Bonaventura era il colonnello Mori del Ros. L’ispettore precisa che a questo punto è un po’ più incerto sul fatto di chi dei due, se cioè Bonaventura o Mori, venisse all’appuntamento in motorino”. Dunque i rapporti fra Di Maggio e Mori erano ben più frequenti della singola annotazione dell’agenda del generale del Ros. Ma quel che più appare significativo è l’intero ventaglio delle relazioni personali praticate dal vicecapo del Dap: oltre agli ufficiali del Ros Mori e Ganzer, un altro ufficiale dell’Arma come Umberto Bonaventura che in quel momento era un dirigente del Sismi, il giornalista Guglielmo Sasinini oggi imputato nel processo per gli spionaggi Telecom che ha coinvolto anche Luciano Tavaroli e Marco Mancini (lo scandalo sullo spionaggio Telecom scoppiò nel settembre 2006), e infine l’ufficiale della Polizia penitenziaria e oggi dirigente del Dap Enrico Ragosa. Certo, persone molto diverse fra loro ma tutte a modo loro significative. Per Umberto Bonaventura si potrebbe ripetere quanto detto per Di Maggio: figlio del capocentro del Sifar a Palermo fra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, Bonaventura fu sicuramente, a partire dalla fine degli anni Settanta, uno dei giovani ufficiali più fedeli a Carlo Alberto Dalla Chiesa; fu il capo del Nucleo antiterrorismo e poi della Sezione anticrimine a Milano; passò dunque, al seguito di Di Maggio, all’Alto commissariato antimafia per poi, negli anni Novanta, entrare al Sismi, dove rimase fino alla sua morte improvvisa, avvenuta nel 2002. Fra i suoi subordinati a Milano ci furono due giovani sottufficiali destinati a diventare famosi: proprio Luciano Tavaroli e Marco Mancini, coinvolti nello scandalo Telecom insieme al giornalista Guglielmo Sasinini. Il quale Guglielmo Sasinini, oltre ad essere imputato a Milano nel processo per gli spionaggi Telecom, è stato un giornalista che spesso si è interessato di vicende di mafia. Ancora oggi Vincenzo Calcara, il pentito di Castelvetrano che iniziò a collaborare con Paolo Borsellino nel 1991, ricorda un po’ stranito l’intervista che Sasinini, dietro accreditamento dell’Alto commissariato antimafia, gli fece dopo la strage di via D’Amelio e che venne pubblicata da Famiglia Cristiana il 5 agosto 1992. Il pezzo giornalistico più sconvolgente su questioni di mafia, però, l’ex vicedirettore di Famiglia Cristiana lo scrisse quando era più impegnato nelle traversie giudiziarie che non nel mestiere di cronista. Comparve sulle colonne di Libero il 3 aprile 2008 con il titolo “Lo Stato mortifica chi lotta sul serio contro la mafia” ed era un’accorata difesa del Ros di Mori. Ma soprattutto conteneva una rivelazione sconvolgente che non avrebbe mai trovato smentita. Sasinini, infatti, sostenne di aver condiviso con Mori e con l’allora capitano Sergio De Caprio (meglio noto con lo pseudonimo di Ultimo) i giorni che precedettero la cattura di Riina. Tutto scritto nero su bianco e occultato dalla più inspiegabile distrazione generalizzata (tranne i già citati Cinquegrani e Pennarola e lo scrittore Alfio Caruso, nel suo “Milano ordina uccidete Borsellino”, ed. Longanesi): “Dopo mesi di lavoro investigativo puro gli ‘indiani’ scovarono e catturarono il capo dei macellai corleonesi: Totò Riina. Io conoscevo bene quel gruppo di guerrieri e condivisi molte giornate con loro e soprattutto con Mario Mori, in particolare l’estenuante attesa della vigilia quando ‘il pacco’ stava per essere consegnato. Poi tutta l’Italia si emozionò per la più famosa delle catture”. Certo, la cattura di Riina raccontata come un “pacco” che viene consegnato sembra la ricopiatura della tesi, ritenuta infamante dal Ros ma ritenuta molto più che verosimile da molti osservatori e da molti investigatori, secondo cui Riina fu consegnato nelle mani del Ros, per iniziativa di Bernardo Provenzano. Solo che stavolta a sostenere questa teoria fu non un avversatore del Ros ma una persona strettamente legata agli esponenti di vertice dell’organismo d’investigazione d’eccellenza dell’Arma dei carabinieri. Senza trascurare la domanda più banale: ma che ci azzeccava il giornalista Guglielmo Sasinini con Mori e De Caprio in attesa della cattura di Riina? Dalle parole di Cristella emerge un altro nome della cerchia ristretta dei fedelissimi di Di Maggio, il “colonnello Ragosa della Polizia penitenziaria”. Si tratta di Enrico Ragosa (ancora oggi dirigente del Dap), che nel 1986 era stato impegnato al carcere palermitano dell’Ucciardone, per il maxiprocesso celebratosi nell’aula bunker, e che nel 1997 per due anni sarebbe transitato al Sisde. Giusto il 6 luglio 1993 (sotto la gestione Capriotti-Di Maggio) Ragosa era stato nominato responsabile del Servizio di coordinamento operativo (dedito specificamente ai detenuti di mafia) del Dap. E certo non dovette essere un caso se il 4 dicembre 1996 su Famiglia Cristiana comparve un’intervista esclusiva del generale Ragosa al giornalista Guglielmo Sasinini. In premessa alle risposte di Ragosa, l’intervistatore segnalava, con invidiabile arguzia, che “le bombe di Roma, Firenze, Milano avevano lo scopo di indurre il potere politico a eliminare il regime 41-bis’”. Poi però tuonava convinto: “invece così non è stato”. E le 334 revoche del 5 novembre 1993? Distrazioni di un giornalista. Il quale proseguiva notando che “alle spalle della sua scrivania il generale Ragosa tiene in bella evidenza le fotografie di Carlo Alberto Dalla Chiesa, di Giovanni Falcone, di Francesco Di Maggio che diresse (sic!) il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria”.

Barcellona Pozzo di Gotto, uno snodo cruciale dei rapporti mafia-potere.

Si torna, dunque, a Di Maggio e a quei sospetti che Chelazzi stava cercando di verificare, di fare diventare ipotesi processuali. Non sappiamo se Chelazzi, in quei giorni, avesse letto (o riletto), una vecchia informativa del Gico della Guardia di Finanza di Firenze, trasmessa il 3 aprile 1996 (Nr. 109/U.G. di prot.) ai pubblici ministeri di La Spezia che in quel periodo stavano indagando su traffici d’armi all’ombra di una possibile nuova P2, in un’inchiesta che avrebbe portato in carcere il 16 settembre 1996, tra gli altri, Pierfrancesco Pacini Battaglia e Lorenzo Necci. Quell’informativa del 3 aprile 1996, però, era dedicata a un altro personaggio, Rosario Pio Cattafi, nato a Barcellona Pozzo di Gotto il 6 gennaio 1952. Si tratta della stessa persona che negli anni Novanta venne indagata (e poi archiviata) sia nella famosa inchiesta “Sistemi criminali” della D.d.a. di Palermo sia nell’inchiesta di Caltanissetta sui mandanti occulti delle stragi di Capaci e di via D’Amelio. La cronaca giudiziaria messinese degli anni Settanta testimonia che Cattafi era stato compagno d’armi, all’università di Messina, niente di meno che di Pietro Rampulla, l’artificiere della strage di Capaci. Cattafi successivamente era stato anche il mentore, oltre che il testimone di nozze, del boss barcellonese Giuseppe Gullotti. Quello stesso Gullotti che, secondo Giovanni Brusca, su richiesta di Rampulla, aveva personalmente recapitato agli stragisti di Capaci il telecomando utilizzato proprio da Brusca il 23 maggio 1992. Beh, se Chelazzi negli ultimi tempi lesse quell’informativa dovette strabuzzare gli occhi. Perché vi era riportata un’intercettazione in cui era proprio Cattafi a parlare dei propri rapporti con Di Maggio. A questo punto, però, è meglio fare un passo indietro. Cattafi, dopo i burrascosi anni di militanza neofascista all’università di Messina, che gli avevano fruttato due condanne definitive (una per una goliardica sventagliata con un mitra Sten all’interno della Casa dello studente; l’altra, insieme a Pietro Rampulla, per l’aggressione ad un gruppo di studenti sospetti di simpatie sinistrorse), si era trasferito dalla fine del 1973 a Milano dove aveva impiantato affari nel campo farmaceutico. Era però finito, anche all’ombra della Madonnina, in guai giudiziari. In un’occasione era stato pure arrestato, in un’indagine per il sequestro dell’industriale Giuseppe Agrati, che nel gennaio 1975 aveva fruttato ai rapitori il riscatto di addirittura due miliardi e mezzo di lire. Le prove sembravano solide, c’era perfino una testimone oculare che aveva visto Cattafi ed un complice, con le borse piene dei soldi del riscatto, partire per la Svizzera. Sennonché, su richiesta proprio del pubblico ministero Francesco Di Maggio, Cattafi era stato prosciolto in istruttoria con una sentenza emessa nel 1986 dal giudice istruttore milanese Paolo Arbasino. Cattafi, però, era rimasto coinvolto anche nelle rivelazioni che il pentito milanese (di origine catanese) Angelo Epaminonda, detto “il Tebano”, aveva reso proprio al dr. Di Maggio, a partire dal novembre 1984. Epaminonda aveva accusato Cattafi di essere l’emissario del boss catanese Nitto Santapaola negli affari dei casinò e di essere uno degli uomini più importanti del sodalizio mafioso insediatosi nell’autoparco di via Salomone a Milano. Una storia da prendere con le pinze, quella dell’indagine sull’autoparco della mafia, perché era rimasta senza esito a Milano fin dal 1984 e quando era stata tirata fuori nel 1992 dalla Procura di Firenze ne era nata una violenta polemica, strumentalizzata da chi aveva tentato di brandirla, in difesa dei tangentisti di regime, come arma contro il pool Mani Pulite di Milano. Di quell’inchiesta, nel 1984 a Milano, era stato titolare per l’appunto Francesco Di Maggio, che da un lato aveva raccolto le dichiarazioni di Epaminonda sui mafiosi dell’autoparco e dall’altro aveva ricevuto le informative dei carabinieri sulla stessa vicenda. Ma nulla ne era sortito. Non solo: nel maxiprocesso derivato dalle confessioni di Epaminonda fra gli imputati non era comparso Rosario Cattafi (per lui le accuse di Epaminonda erano state stralciate e inserite nel fascicolo per il sequestro Agrati). Anzi, nel “processo Epaminonda” il P.m. Di Maggio aveva fatto svolgere a Cattafi il ruolo di testimone dell’accusa. Francesco Di Maggio – non lo avevamo ancora detto – era cresciuto a Barcellona Pozzo di Gotto, figlio di un sottufficiale dell’Arma che prestava servizio lì. Solo dopo la licenza liceale si era trasferito in Brianza, a Desio, dove, prima di entrare in magistratura, aveva fatto in tempo a dedicarsi alla politica come consigliere comunale. Torniamo all’intercettazione di Cattafi riportata nell’informativa del Gico di Firenze. Nella notte del 16 settembre 1992 gli investigatori del Gico, con un’ambientale piazzata negli uffici dell’autoparco di via Salomone, avevano intercettato una lunghissima conversazione fra Rosario Cattafi, Ambrogio Crescente e Vincenzo Caccamo. Il discorso ad un certo punto era andato sul pentito Angelo Epaminonda, che aveva rivelato a Di Maggio un incontro che Cattafi gli aveva chiesto, per conto di Nitto Santapola, per entrare in società al casinò di Saint Vincent.

Eccone il testo: “CATTAFI: ‘Io non lo conoscevo (Angelo Epaminonda) … e maledetto il momento che l’ho conosciuto … perché io ero … sono stato arrestato in Svizzera … sono venuto in Italia, scendo per chiedere e chiarire … mandato di cattura in Italia … eh potevo uscire dopo altri tre mesi … ad un certo punto … neanche il tempo di fare accertamenti e interrogatori … si è pentito sto cazzo in brodo … eh … diciamo il dottor DI MAGGIO … il P.M. non lo sai ci sono andato a scuola…’. CRESCENTE: ‘… inc. … DI MAGGIO era un avvocato fallito a Monza … inc. … DI MAGGIO era un caruso … un … inc. … fallito…’. CATTAFI: ‘Questo era il figlio del maresciallo dei Carabinieri al mio paese (incomp.) … questo dice … ti manda come cassiere della mafia internazionale … questo … inc. … ehh … lui DI MAGGIO … inc. … dice non appartiene a … non è uno … eh dice però … DI MAGGIO si sente dire … ma c’ero pure io con – inc. – a questo punto … quello ci disse sappi che per me è uomo di SANTAPAOLA … eh … avvicinato…’”.

Chiunque può farsi un’idea: la più adesiva al tenore delle parole è che Cattafi ammettesse di aver effettivamente incontrato Epaminonda, il quale poi si era pentito con un P.m., Di Maggio, al quale Cattafi era legato da antichi rapporti risalenti ai tempi della scuola a Barcellona Pozzo di Gotto; e non sembra potersi mettere in dubbio che Cattafi riferisca la reazione di sorpresa che Di Maggio aveva avuto all’indirizzo di Epaminonda quando il pentito aveva legato il nome di Cattafi alla mafia e in particolare al boss Santapaola. Certo è che, fra le rivelazioni di Epaminonda e quell’intercettazione, Cattafi con Di Maggio per forza di cosa aveva avuto contatti, non foss’altro che per il fatto che il pubblico ministero aveva chiamato Cattafi come teste d’accusa per la posizione dell’imputato Salvatore Cuscunà nel processo nato dalla collaborazione di Epaminonda. È, quindi, abbastanza fondato il sospetto che Cattafi in quella conversazione intercettata ripetesse un discorso fattogli personalmente dal suo vecchio conoscente Francesco Di Maggio. Ecco, quindi, come in quell’incredibile gioco di specchi che sembra fare da scenario alla Trattativa si passa da Di Maggio ad un personaggio di alta valenza criminale come Cattafi, il quale nel decreto emesso dal Tribunale di Messina con il quale nel luglio 2000 gli venne irrogata la misure di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno venne sospettato di essere una sorta di trait d’union fra la mafia barcellonese, la mafia catanese e i servizi segreti. E così si entra nel gioco grande del progetto politico-eversivo che fece, almeno in parte, da propulsore alle stragi mafiose. In questo quadro, occorre ricordare, allora, che due collaboratori di giustizia siciliani (uno catanese, Maurizio Avola, e uno messinese, Luigi Sparacio) hanno reiteratamente dichiarato che Rosario Cattafi nei primi anni Novanta avrebbe partecipato ad alcuni summit, tenutisi in provincia di Messina, prodromici alle stragi del 1992, alla presenza, fra emissari della mafia e di apparati deviati, anche di Marcello Dell’Utri. Quelle dichiarazioni non trovarono seguito ma nemmeno smentita. Di quelle riunioni potrebbe tornare a parlarsi nel processo di revisione che si preannuncia per la strage di via D’Amelio. Infatti a breve la D.d.a. di Caltanissetta proporrà alla Procura generale di Caltanissetta le risultanze finali delle indagini avviate con la collaborazione di Gaspare Spatuzza, che hanno spazzato via i depistaggi di Stato che avevano accompagnato il “pentimento” di Vincenzo Scarantino ed una parte dei processi che si erano celebrati fra Caltanissetta, la Corte di cassazione e Catania. Secondo le regole sulla competenza per i processi di revisione, così, ad occuparsi della revisione sulla strage del 19 luglio 1992 sarà la Procura generale di Messina, guidata dal magistrato barcellonese Antonio Franco Cassata. Anche di lui e dei suoi legami con Cattafi si parla in quella informativa del Gico di Firenze. Al momento dell’arresto furono trovati nell’agenda di Cattafi tutti i recapiti telefonici del magistrato, compreso quello di casa. Chissà perché li teneva in agenda. Viene anche ricordata la militanza di Cattafi in un particolarissimo circolo culturale barcellonese il cui nome dice già abbastanza: Corda Fratres (cuori fratelli). Ne era socio, quando organizzava l’omicidio del giornalista Beppe Alfano o quando – secondo il racconto di Brusca – procurava il telecomando per la strage di Capaci, anche il boss Gullotti. Il dominus di quel circolo culturale era ed è proprio il magistrato, Antonio Franco Cassata, cui arriveranno gli atti per la revisione del processo su via D’Amelio. Sulle pareti della sede di Corda Fratres, che si trova nella piazza centrale di Barcellona P.G., campeggiano ancora le vecchie locandine attestanti la partecipazione di Di Maggio a conferenze indette dal circolo cui erano iscritti Rosario Cattafi e Giuseppe Gullotti.

La Trattativa e quel che ne è derivato come una persecuzione del destino: un passato oscuro che non vuole passare.

L'ASSASSINIO DI MORO (1978) - Il "mistero dei misteri", dopo le ultime dichiarazioni fatte da politici autorevoli, presenta risvolti inquietanti. Dietro la morte del dirigente DC uno spietato gioco delle parti, scrive Giuseppe Dell’Acqua. Lo "slogan" che nell'Aprile del 1978 echeggiava in Italia tuona ancora forte nella mente di chi, il 9 Maggio 1978, ha assistito in diretta tv alla prima vera "morte della Repubblica". Simbolo di uno Stato che crolla è il corpo senza vita dell'onorevole Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4 rossa, parcheggiata in Via Caetani a Roma. Perchè durante i 55 giorni di prigionia dello statista, la frase "nè con lo stato nè con le BR'' era sulla bocca di tutti? Com'è possibile che gli italiani arrivino a mettere in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, ad una società; arrivino a mettere in dubbio se stessi. Il 16 marzo scorso è ricorso il 28° anniversario della strage di Via Fani (16 marzo 1978) ed è passato ancora una volta nel silenzio di tutti; quotidiani, riviste, TG, programmi TV, nessuno ha nemmeno accennato alla morte dei cinque agenti di scorta. A distanza di tempo è bene ricordare che il mistero del sequestro Moro non è ancora stato svelato e soprattutto che la dichiarazione rilasciata il 5 luglio 2005 dall'onorevole Galloni (vice segretario vicario della DC nel 1978) inerente la "certa" presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, ha alzato un grosso polverone che nel giro di pochi giorni, come per incanto, si è dissolto in un semplice ricordo. Le dichiarazioni di Galloni, Andreotti e addirittura della Santa Sede, i documenti del "Dossier e dell'Archivio Mitrokhin", devono obbligatoriamente portare la coscienza di "qualcuno" a pensare che forse sia giunto il momento di parlare per far conoscere all'Italia, la verità.

16 marzo 1978, Via Fani ore 9.05: " ...un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della DC. La sua scorta armata, composta da cinque agenti...è stata completamente annientata..."

Con questo comunicato le Brigate Rosse, il 17 marzo, rivendicano il sequestro del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro e l'uccisione del maresciallo dei carabinieri Oreste Leopardi, dell'appuntato Domenico Ricci, del brigadiere Francesco Izzi e degli agenti Raffaele Iozzino e Giulio Rivera. Il 16 marzo 1978 la Camera dei Deputati è pronta a votare la fiducia al 4° governo Andreotti che nasce dopo una crisi lunga e difficile, durata quasi 8 settimane. A rendere particolare quest'evento è che, per la prima volta negli ultimi 30 anni, fanno parte del governo anche esponenti del Partito Comunista Italiano, avvicinati alla Maggioranza dal nuovo progetto politico, denominato "compromesso storico"; artefice della cosiddetta "svolta a sinistra" è proprio l'onorevole Aldo Moro. D'origini pugliesi Moro è stato capo del governo in cinque diverse occasioni dal 1963 (I governo) al 1976 (V governo) e ad oggi, è considerato come uno dei più grandi statisti italiani perché è riuscito a comprendere prima di tutti l'ondata di innovazione che stava colpendo la politica italiana. Moro dal 16 marzo al 9 maggio 1979 resterà per tutto il periodo chiuso nella "prigione del popolo" delle Brigate Rosse. Chi erano le BR e soprattutto qual era il loro principale obiettivo? Le BR "nascono" in un convegno dei militanti del Comitato Politico Metropolitano (CPM) a Chiavari, in Liguria nell'autunno del 1970. Il CPM era una "Struttura Articolata di Lavoro in cui i militanti realizzano da una parte le condizioni per una riflessione politica.e dall'altra consentono una crescita politica omogenea della lotta."; erano gruppi di studenti ed operai che si riunivano in "assemblee" per discutere di politica e per cercare di "risolvere" i problemi della società attraverso "lotte e volantini". In questo convegno è sostenuta la necessità di intraprendere una lotta armata, della guerriglia e quindi, della clandestinità: "Non è con le armi della critica e della chiarificazione che s'intaccano la corazza del potere capitalistico e le croste della falsa coscienza delle masse. Che la lotta di classe nel suo procedere incontri la violenza del sistema, è inutile ripetercelo. Il problema della violenza non è separabile dall'illegalità. lo scontro violento è una necessità intrinseca necessaria nello scontro di classe.".  La parola d'ordine negli anni '70 è "lotta di classe", ed è proprio questo lo scopo principale delle "neonate" BR che, infatti, si autodefinirono "combattenti del proletariato". I loro punti di riferimento erano "il marxismo-leninismo, la rivoluzione culturale cinese e l'esperienza in atto dei movimenti guerriglieri metropolitani, non accettando gli schemi che hanno guidato i partiti comunisti europei nella fase rivoluzionaria della loro storia." Le BR avevano intenzione di realizzare quello che Lenin riuscì a fare in Russia nel 1917: una "rivoluzione comunista", ma allo stesso tempo rinnegavano il modo con il quale i partiti comunisti europei hanno affrontato la "politica rivoluzionaria" fino a quel momento. L'obiettivo principale quindi era la lotta di classe che doveva portare il "proletariato", il "solo, unico, autentico, comunismo rivoluzionario" al potere. Secondo il parere di molti storici, il vero obiettivo delle Brigate Rosse era quello di essere riconosciute politicamente ed il discorso fino a qui fatto rafforza l'idea di BR come partito politico, pronto a guidare la nazione. Un esponente di spicco del partito armato però, nega questa tesi: Mario Moretti. Capo indiscusso delle BR, ideatore del sequestro Moro e quindi punto massimo delle ideologie brigatiste, nel suo libro "Mario Moretti, Brigate Rosse, Una storia italiana" alla domanda di Carla Mosca e Rossana Rossanda sulla trattativa che le BR stavano avendo con il Governo per la liberazione di Aldo Moro, risponde: ".Dire "trattativa" mi fa rabbrividire. E' diventata sinonimo di "cedimento". Noi non volevamo ne trattavamo nessun riconoscimento istituzionale. Come potevamo chiedere una patente di legittimità allo stato che stavamo combattendo?" Le BR volevano solo l'"ammissione di uno stato di fatto" che valeva a dire " qualcuno dello Stato ammettesse: si, in Italia ci sono dei detenuti politici, dunque c'è un soggetto politico con il quale dobbiamo interloquire". Non gli serviva essere riconosciute politicamente o istituzionalmente, a loro bastava solo essere "riconosciute" come avversario, come nemico da battere. Il linguaggio, leggermente "conflittuale", è appropriato nel descrivere "gli anni di piombo" ed in particolare il sequestro Moro che ha rappresentato, per la società italiana, una vera e propria "guerra civile" dove non ci sono due ideologie politico-sociale a lottare tra loro, ma tre istituzioni: lo "Stato" rappresentato dal Governo, l'"Anti-Stato" rappresentato dalle Brigate Rosse e la "Nazione" rappresentata dal popolo italiano. E' proprio questo terzo elemento che rende l'"Affaire Moro" un macigno, ancora oggi, che grava insopportabile sulla Repubblica Italiana; per la prima volta si è messa in dubbio l'appartenenza ad uno Stato, "né con lo Stato né con le BR" è lo slogan del 1978 e questo significa che non solo, un popolo non riconosce più l'avversario nel "cattivo" ma addirittura, non riesce a capire chi è veramente il "nemico" da battere. Si colloca quindi in una posizione intermedia, al centro dei due "fuochi". Questo comporta la distruzione di un'identità che mai l'Italia Repubblicana proverà ancora.

Il mistero Moro è una delle più grandi "ombre" dello Stato italiano; ha rappresentato il culmine di una "stagione di piombo" che si è protratta dal dicembre del 1969 all'agosto del 1980 in corrispondenza di due avvenimenti che hanno sconvolto la nazione: le stragi rispettivamente di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della stazione centrale di Bologna (2 agosto 1980). In quest'intervallo di tempo, denominato "Anni di Piombo", l'Italia intera fu colpita da gravi atti terroristici "neri" e "rossi". I colori purtroppo distinguono il terrorismo di stampo fascista o più semplicemente quello di "estrema Destra" (Nero) da quello di marchio comunista o di "estrema Sinistra"(Rosso). E' solo una coincidenza che i due attentati "spartiacque" si tingono di "nero" non solo per l'alone di mistero che tuttora li circonda, ma anche per le dirette responsabilità dell'azione. E' bene ricordare che dopo la strage alla stazione di Bologna, gli attentati continueranno, anche se, avranno volti nuovi e del tutto diversi quali la mafia, la camorra e la ndrangheta, per non parlare poi del terrorismo moderno; ma questo è un altro discorso. Come ogni "dopoguerra" che si rispetta, anche la "stagione di piombo" ha il suo bilancio, un bilancio che come ricorda un gran maestro del giornalismo Sergio Zavoli "...non potrà mai essere a misura delle vite distrutte, delle ferite ancora aperte; ma occorre farlo, perché quanto detto si possa tradursi, alla fine, anche in qualcosa di assolutamente incontestabile come la fredda oggettività dei numeri.". 429 vittime, 2000 feriti, 199 morti e 782 feriti in 10 stragi, 144 vittime rivendicate dal terrorismo "rosso" 86 delle quali solo da parte delle Brigate Rosse e 36 vittime rivendicate dal terrorismo "nero", sono solo alcuni dei "numeri", tragici, che il terrorismo porta con se. È subito evidente che ben 86 delle 144 vittime rivendicate, appartengono alle BR, sintomo che sia stata la più grande "organizzazione terroristica italiana" della storia repubblicana. La domanda a cui sarà impossibile dare una risposta, è se le BR sono un "frutto" concimato, raccolto e mangiato esclusivamente da "contadini" italiani o se invece "qualcuno", di più grande, le ha "usate" per raggiungere i suoi obiettivi? E' questo il capitolo più difficile della storia del sequestro Moro e delle BR; la possibile influenza, nelle BR d'organizzazioni più grandi e più segrete, non appartenenti allo stato italiano, è da anni un punto cruciale su cui storiografi e critici s'interrogano.

Le ultime dichiarazioni dell'onorevole Galloni, rilasciate martedì 5 luglio 2005 alla rete televisiva "RAINews24", sembrano confermare l'ipotesi di una "collaborazione" tra le BR e i servizi segreti stranieri. Galloni, vice segretario della DC all'epoca del sequestro Moro disse: "Moro mi disse che sapeva per certo che i servizi segreti sia americani sia israeliani avevano degli infiltrati all'interno delle Brigate Rosse. Però non erano stati avvertiti di questo". La possibile presenza della CIA e del MOSSAD all'interno delle BR, apre nuovi ed inquietanti scenari sul caso Moro, chiudendo definitivamente le porte alla "pista russa" che fino ad oggi ha ipotizzato che a "decidere" la sorte dell'onorevole Aldo Moro sia stato il KGB russo. Nel raccontare la "Storia contemporanea" bisogna tener conto che esistono due "binari" che viaggiano nella stessa direzione e velocità e che però "trasportano" due "versioni dei fatti" distinte e separate. Il binario è quello del "conosciuto", della storia scritta sui libri, raccontata dai nonni o semplicemente vista in TV; il secondo invece porta con se una "storia" misteriosa, non conosciuta e che nessun libro di storia, nessun documentario TV e "forse" nessun nonno potrà mai raccontare: è la "Storia" scritta dai Servizi Segreti. I contatti tra le BR e i servizi segreti stranieri non sono molto documentati e quindi sono esclusivamente frutto d'ipotesi o d'invenzioni fantapolitiche che a volte hanno anche un fondamento. Nell'"Archivio Mitrokhin" - la raccolta di documenti segreti che Vasilij Mitrokhin, capoarchivista del KGB, consegnò agli inglesi del MI6 nel 1992 e che nel 1999 fu pubblicata con la partecipazione di Christopher Andrew, massimo esperto storico del KGB - ci sono due dichiarazioni molto importanti per la politica italiana: "nell'estate del 1967, Giorgio Amendola, a nome della Direzione del PCI, chiede formalmente l'assistenza sovietica per preparare il partito alla sopravvivenza come movimento illegale e clandestino nel caso di un colpo di Stato. Fino al 1976 i trasferimenti di fondi al Partito comunista sono stati molto più semplici a Roma che negli Stati Uniti, dal momento che i capi del PCI visitano regolarmente l'ambasciata sovietica, è possibile evitare la trafila di contatti clandestini e nascondigli segreti. Aiuti finanziari aggiuntivi arrivano da Mosca anche attraverso contratti lucrosi con società controllate dal PCI". La prima indiscrezione ci rivela che il PCI è finanziato direttamente dal KGB, mentre la seconda ci ricorda che: "Il PCI si preoccupava in particolar modo del sostegno che le Brigate Rosse ricevono dai servizi segreti cecoslovacchi, quando le BR assaltano nel centro di Roma l'automobile del presidente della DC, l'onorevole Aldo Moro, le preoccupazioni dei leader del PCI raggiungono l'apice, teme una fuoriuscita di notizie sul sostegno dato dai servizi segreti cecoslovacchi (StB) alle BR. Una delegazione del PCI a Praga è stata messa a tacere quando ha cercato di sollevare la questione dell'aiuto alle BR, alcuni esponenti delle quali sono stati invitati in Cecoslovacchia." Riassumendo, ci rendiamo conto che il PCI prelevava soldi dal KGB ed era a conoscenza che i servizi segreti cecoslovacchi "aiutavano" in qualche modo le BR, ma aveva paura che ciò si venisse a sapere. Perché? Forse perché in questo modo anche la collaborazione tra PCI e KGB sarebbe stata scoperta e soprattutto perché il PCI sarebbe stato accusato di aiutare indirettamente, attraverso gli amici cecoslovacchi (StB), le Brigate Rosse. In un momento caldo come quello dell'immediato "dopo-Moro", ciò avrebbe suscitato forti polemiche che avrebbero sancito il definitivo "crollo" del PCI proprio nel momento in cui si stava - per la prima volta nella sua storia - avvicinando al governo. Che il PCI ricevette finanziamenti dai servizi segreti Russi è accertato dall'Archivio Mitrokhin mentre la "collaborazione" tra BR e StB non è mai stata confermata. Nel "Dossier Mitrokhin" - la raccolta di documenti che gli Inglesi tra il 1995 ed il 1999 hanno inviato ai servizi segreti italiani - c'è il "Rapporto Impedian numero 143" che dice: ".Nel dicembre del '75 Yuriy Andropov notificò quanto segue al Comitato Centrale del PCUS. Il Ministro degli Affari Interni Cecoslovacco, OBZINA, aveva informato il rappresentante del KGB sovietico a Praga di un incontro avvenuto il 16 settembre 1975. L'incontro era stato tra Antonin VAVRUS, Capo del Dipartimento Internazionale del Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e Salvatore CACCIAPUOTI, vice presidente della Commissione Centrale di Controllo del Partito Comunista Italiano (PCI). CACCIAPUOTI affermò di essere stato autorizzato dalla dirigenza del PCI a informare il Comitato centrale del Partito Comunista Cecoslovacco che le agenzie ufficiali italiane erano in possesso di alcuni documenti.che confermavano che una delle basi dell'organizzazione terroristica italiana "Brigate Rosse" era ubicata in Cecoslovacchia e che le agenzie di sicurezza cecoslovacche stavano cooperando con essa." Ancora più dirette sono le accuse che nel settembre del '74 il capitano dei carabinieri Gustavo Pignoro del nucleo antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa fa ad Alberto Franceschini - uno dei fondatori delle BR - affermando che al momento della sua cattura, era appena arrivato da Praga. Dopo soli 6 mesi (marzo 1975) a conferma di quanto detto, gli appunti dei servizi segreti italiani rivelano che Franceschini soggiornò in Cecoslovacchia dal giugno '73 al giugno '74 frequentando il campo di addestramento di Karlovy Vary. A distanza di 30 anni arriva l'inattesa quanto impensata smentita. Un articolo, scritto sull'"Espresso" del 27 maggio 2005, risolve tutti gli equivoci e spegne l'incendio fin qui alimentato. Nell'ottobre del '99 il SISMI - l'apparato dei servizi segreti italiani - ha chiesto ai servizi segreti dell'ex unione sovietica tutta la documentazione riguardante i possibili appoggi della StB alle BR. Da questi documenti è venuto fuori che Franceschini e Curcio - capo storico delle BR - sono veramente stati a Praga, ma non si trattava dei fondatori delle BR. Uno è l'avvocato Renato Curcio, nato a Catanzaro l'1/3/1931, presente in Cecoslovacchia il 7 ed 8 agosto 1972. L'altro è un commerciante di Foiano (Arezzo), Sergio Franceschini nato nel 1917, presente a Karlovy Vary agli inizi degli anni '70. Grazie a Nicola Biondo, consulente della Commissione Mitrokhin che per primo ha letto e studiato i documenti provenienti dall'Unione Sovietica, un primo gran mistero è stato svelato e soprattutto, ritornando alle dichiarazioni di Galloni sulla presunta collaborazione BR-USA, possiamo analizzare da un diverso punto di vista l'intero "Affaire Moro". Il rapporto USA - Moro è sempre stato in primo piano fin da quel drammatico 16 marzo del 1978. Aldo Moro era stato più volte minacciato di morte nel caso in cui non avrebbe abbandonato immediatamente la carriera politica. Di fronte alla Commissione Parlamentare d'inchiesta, Eleonora Moro - moglie dello statista ucciso - ricordando il viaggio negli USA che il marito fece nel 1974 come ministro degli Esteri insieme al Presidente della Repubblica Leone, dice: "È una delle pochissime volte in cui mio marito mi ha riferito con precisione che cosa gli avevano detto, senza svelarmi il nome della persona... adesso provo a ripeterla come la ricordo: "Onorevole, lei deve smettere di perseguire il suo piano politico per portare tutte le forze del suo Paese a collaborare direttamente. Qui, o lei smette di fare questa cosa, o lei la pagherà cara. Veda lei come la vuole intendere."." Secondo alcuni collaboratori dell'onorevole Moro "il presidente fu molto scosso dall'incontro avuto con il segretario di Stato, Henry Kissinger, tanto è vero che il giorno dopo nella Chiesa di S. Patrick si sentì male e disse di voler interrompere per molto tempo l'attività politica". Il segretario di Stato USA, Kissinger, era molto ostile a Moro tanto che arrivò ad affermare che non credendo nei dogmi, non potesse credere nella sua impostazione politica e per questo lo riteneva un elemento "fortemente negativo". Sulle minacce che il presidente della DC subì prima del sequestro, è importante ricordare che tanti avvenimenti fecero presagire ad un triste epilogo. In principio fu il caso della macchina blindata che doveva essere pronta per il dicembre del 1977 e che invece non arrivò mai. Andreotti che Cossiga hanno sempre smentito che Moro fece richiesta di un'auto blindata. Il maresciallo Leonardi, responsabile della scorta, fece raddoppiare la dotazione abituale di proiettili della sua pistola e quella degli agenti di scorta. Altri eventi, fecero capire che nell'entourage di Moro c'era uno stato d'animo preoccupato. Solo negli ultimi anni è giunta la notizia che il 15 marzo 1978 - il giorno prima della strage - il capo della Polizia ha visitato Moro nel suo ufficio, tranquillizzandolo sull'eventualità d'attentati nei suoi confronti. A Moro fu assicurato che i servizi segreti avevano la situazione sotto controllo e che non correva nessun pericolo immediato. "Ironia della sorte", il giorno dopo Moro fu rapito. Nella prima metà degli anni '50 la CIA chiese la collaborazione del SIFAR, il Servizio Informazioni Forze Armate. A capo dei servizi segreti italiani nel 1962 era Giovanni De Lorenzo che sottoscrisse un patto con la CIA: "deve [De Lorenzo] impegnarsi a rispettare gli obiettivi di un piano permanente d'offensiva anti-comunista chiamato in codice << Demagnetize >>. Il piano consiste in una serie di operazioni politiche, paramilitari e psicologiche, atte a ridurre la presenza, la forza, le risorse materiali e non ultimo l'influenza nel governo del Partito comunista in Italia.Del piano Demagnetize il governo italiano NON deve essere a conoscenza essendo evidente che esso può interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale". Al primo arruolamento di Gladio partecipò un colonnello del SIFAR, Renzo Rocca che "per i primi sei mesi del '63, su preciso mandato del generale della CIA Walters, s'impegnò nella campagna volta a impedire la formazione del primo centro sinistro organico preseduto da Moro". Il 27 giugno 1968, Rocca fu trovato morto in un ufficio al sesto piano di un palazzo di via Barberini 86 a Roma. Rocca aveva il compito di commerciare armi con i paesi Africani e soprattutto, doveva instaurare rapporti con i servizi segreti israeliani e palestinesi. Altro "007" che ebbe il compito di allacciare rapporti con i palestinesi fu il colonnello Stefano Giovannone. Un comunicato Ansa del 10 maggio 2002 dice: "Il colonnello, nel 1984, nell'inchiesta a Venezia su un traffico d'armi BR-Olp, avrebbe parlato di un proprio interessamento presso i palestinesi, e in particolare, presso il leader Arafat, per cercare aiuti per ottenere la liberazione di Aldo Moro, dopo il suo sequestro. I contatti tra i palestinesi e le BR.sarebbero avvenuti, ma non ebbero esito positivo perché Arafat fece una dichiarazione pubblica, proprio contro le BR". Il nome di Giovandone lo fece anche Aldo Moro durante i giorni di prigionia, indicandolo come "personalità in grado di intervenire" per cercare di ottenere la sua liberazione. Lo stesso Mario Moretti, capo delle BR, prese contatti con la guerriglia palestinese che arrivò a fornirgli delle armi. Tutto ciò avvenne un anno prima del sequestro Moro. Da queste testimonianze, ci rendiamo conto che CIA, SISMI, MOSSAD, OLP e BR erano in contatto tra loro e che almeno tre di loro erano legati da un'alleanza forte e ben radicata. Probabilmente sarà proprio quest'alleanza a decidere le sorti del presidente della DC. Nella vicenda Moro sono implicate tutte le più importanti istituzioni militari, a porre l'accento ancora una volta sul fatto che il 9 Maggio 1978 - giorno del ritrovamento del cadavere di Moro - ha rappresentato la fine di una "guerra civile" e l'inizio di un costante declino di un partito che è stato alla guida del paese dal primo giorno della Repubblica. Politici, industriali, operai, studenti, casalinghe; tutto il Paese è stato, per cinquantacinque giorni, coinvolto in un drammatico evento che ha scosso l'immaginario collettivo, facendo venire meno quei punti di riferimento che la società si era data: Stato, Nazione, Chiesa. La certezza che Moro non si sarebbe salvato era molto alta, al punto di giungere ad affermare che Moro non è morto il 9 maggio 1978 ucciso dai colpi della pistola di Mario Moretti; Aldo Moro "è morto" il 22 aprile, quando il Santo Padre Paolo VI, decise di rivolgersi alle BR: "Ed in questo nome supremo di Cristo, che io mi rivolgo a voi che certamente non lo ignorate, a voi, ignoti e implacabili avversari di questo uomo degno e innocente; e vi prego in ginocchio, liberate l'onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni." La lettera che Paolo VI scrisse agli "uomini delle Brigate Rosse" fu pubblicata sull'Osservatore Romano e, stando alle testimonianze dei brigatisti, segnò fortemente l'animo del Presidente. Anna Laura Braghetti - l'unica donna del gruppo brigatista che ha vissuto nella stessa casa dove lo statista fu tenuto prigioniero - racconta che ".fu il papa a far precipitare ulteriormente la situazione. Moro gli aveva scritto tempo prima, supplicandolo di intervenire. Ma il papa non lo ascoltò.per Moro segnò il momento peggiore di quei 55 giorni, Fra tutte le cattive notizie che Mario [Moretti] gli portò, nessuna lo scosse come il documento del Papa. Capi che il cerchio si era saldato nel punto esatto in cui lui aveva confidato - e calcolato - che si spezzasse." Il messaggio era solo l'ultimo dei tanti appelli umanitari che le BR ricevettero durante i giorni di prigionia. Questa lettera però conteneva qualcosa di diverso; il Papa si era già rivolto ai sequestratori e non aveva mai chiuso la porta del dialogo. Quel giorno però, l'appello di Paolo VI, mise la parola "fine" alle trattative. Fu la presenza di due parole, "Senza Condizioni", che fece cadere nel vuoto le ultime speranze di liberazione. Su queste "quindici lettere" si potrebbero scrivere volumi interi; C'è chi in questa frase indica la presenza dei Servizi Segreti di mezzo mondo, chi invece è certo che fu aggiunta a posteriori sotto suggerimento di Giulio Andreotti, capo di quella DC, che aveva sul piatto della bilancia la legge sull'Aborto tanto cara alla Chiesa. Come giusto che sia è stupido, e poco professionale, cercare di seguire l'una o l'altra tesi. Sono i documenti che "parlano" e in questo caso sono tutti a favore della chiarezza del Pontefice. Da nessuna parte, su nessun foglio, in nessun interrogatorio, ci sono prove che confermano quanto ipotizzato; l'unica cosa certa è che Moro era un fedele credente e praticante assiduo. Ogni domenica, infatti, seguiva la Santa Messa nella chiesa di Santa Chiara tanto che i Brigatisti pensarono di sequestrarlo proprio durane la funzione religiosa, salvo poi rinunciare per le troppe difficoltà "militari". Per Moro la religione veniva subito dopo la famiglia, a cui tanto era legato e di cui tanto andava fiero.

Alla famiglia è rivolta l'ultima drammatica lettera che Moro scrisse prima di morire.

"Mia dolcissima Noretta [Eleonora Moro], dopo un momento di esilissimo ottimismo, siamo ormai, credo, al momento conclusivo. Vorrei restasse ben chiara la piena responsabilità della DC.Uniti nel mio ricordo vivete insieme. Mi parrà di essere tra voi, bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. Sii forte, mia dolcissima, in questa prova assurda e incomprensibile. Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta. Il Papa ha fatto pochino: forse ne avrà scrupolo." Dopo aver attribuito le responsabilità della sua mancata liberazione alla DC, si rivolge alla famiglia in un tono affettuoso, ma allo stesso tempo autoritario di chi fondamentalmente è ancora "il capo di famiglia". Moro infine - e solo alla fine - si rivolge a quella Chiesa o meglio a quel Papa, che "ha fatto pochino" per salvarlo e per riportarlo tra le braccia dei propri cari. Il mistero è proprio qui. Moro sostenne che "tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta" ma perché? Era forse a conoscenza che la Chiesa ebbe qualche possibilità di salvarlo? Effettivamente la Santa Sede aveva pronto un "piano" per liberare lo statista attraverso il pagamento di un riscatto. Già durante i 55 giorni di prigionia si era a conoscenza dell'intenzione della Chiesa di aprire una trattativa con le BR; Andreotti ricorda: " Il Papa aveva fatto prendere delle iniziative, vi era stata la disponibilità a pagare anche una cifra molto forte, se fosse stato questo il mezzo per poter salvare Moro, avevano cercato in tutti i modi di avere contatti". A distanza di quasi 27 anni lo stesso Andreotti conferma quella voce, in un intervento al Senato del 9 Marzo 2005: ".E però è vero che con pieno consenso, anzi con nostro grato animo, fu fatto a nome del Santo Padre Paolo VI un tentativo di riscatto. Purtroppo il loro tramite si dimostrò inefficace o addirittura millantatore." A confermare ufficialmente le intenzioni della Santa Sede è mons. Fabio Fabbri, stretto collaboratore di mons. Cesare Curioni - ispettore centrale dei cappellani carcerari italiani - all'epoca del sequestro. La dichiarazione fatta a Vladimiro Satta - giornalista del periodico "Nuova Storia Contemporanea" - indica in dieci miliardi di lire la somma che il Vaticano era pronto a pagare per la liberazione d'Aldo Moro; una cifra elevatissima per il tempo e soprattutto per la causa. Liberare Moro sarebbe stato un colpo durissimo per la DC e soprattutto per la Santa Sede: "Moro vivo sarebbe molto più pericoloso di un Moro morto" è il pensiero che circolava, durante i cinquantacinque giorni di prigionia, nelle menti degli uomini politici più importanti per il paese. Moro libero poteva essere una mina vagante nella politica italiana, andando contro quei "compagni di partito" che avevano dimostrato d'essere tutto, tranne che amici. Era chi aveva rivelato alle BR le linee guida della politica democristiana e quindi, forse, aveva "detto" cose che era meglio non sapere. Proprio per questo il SISMI si era preparato un piano denominato "Victor", da mettere in atto nel caso in cui Moro fosse stato liberato. Il progetto era quello di trasferire Moro in un centro clinico, immediatamente e prima d'ogni incontro con familiari e colleghi di partito. L'azione era assegnata al reparto medico degli incursori di Marina, sede principale di Gladio. Sia per la DC sia per la Chiesa quindi, la liberazione di Moro doveva essere evitata assolutamente. Le trattative tra Chiesa e BR fallirono proprio la mattina del ritrovamento del cadavere di Moro. Molti storici indicano nel "contatto", un personaggio noto alla cronaca per un altro tragico evento di quei 55 giorni: il falso comunicato n°7, quello del Lago della Duchessa. L'autore di quel comunicato fu un falsario legato alla "Banda della Magliana" (gruppo criminale romano) ed ai Servizi Segreti Americani: un certo Tony Ciccarelli. Era lui, secondo le testimonianze, il tramite tra la Chiesa e le BR. Ancora una volta entrano in scena i Servizi Segreti e questa volta però lasciano indelebilmente le tracce del loro passaggio.

Il 16 marzo 1978 alle ore 9.00 i Servizi Segreti Italiani erano presenti in Via Fani.

Il colonnello del SISMI Camillo Gugliemi, specializzato in "addestramento a scopo di imboscata" delle unità di combattimento "stay behind" alla base Nato in Sardegna, quella mattina era in Via Stresa a soli 200 metri dall'incrocio con via Fani. Guglielmi la mattina del 16 marzo avrebbe ricevuto una telefonata dal generale Musameci (P2): "Corri a via Fani a vedere cosa sta succedendo. Un informatore mi ha detto che le BR vogliono rapire Moro". Il militare non ha mai smentito la sua presenza in Via Fani, giustificandola però in un modo un po' "particolare". Egli dichiarò che "doveva andare a pranzo da un amico". In tutte le famiglie "normali" di solito, l'ora di pranzo è intorno alle 13.00 - 13.30 e non alle nove di mattina quando invece si è appena finiti di fare colazione. Mettendo da parte l'ironia, è strano che ci si presenti così di buon'ora a casa di un amico solo per pranzare. Questo stesso amico ha confermato che quella mattina Guglielmi aveva bussato alla porta della sua casa, ma ha sempre riferito che non era mai stato programmato un pranzo insieme. Fatto più inquietante è però che a poco più di 200 metri da un colonnello del SISMI furono sparati più di 90 proiettili, ci fu un tamponamento e fu rapito un grande esponente della politica italiana. Come mai un agente dei Servizi Segreti non ha avuto nemmeno l'idea di intervenire per vedere semplicemente quello che stava accadendo? Guglielmi ha sempre nascosto la sua presenza sul luogo della strage fino al 1991, quando un ex agente del SISMI, Pierluigi Ravasio, lo confidò all'Onorevole Cipriani. Ravasio disse anche che nelle BR era infiltrato uno "007". La spia era uno studente di giurisprudenza dell'università di Roma il cui nome di copertura era "Franco". Egli avvertì con mezz'ora d'anticipo che Aldo Moro quella mattina sarebbe stato rapito. Se mezz'ora non bastò per evitare la strage, il 16 febbraio 1978 - un mese prima dell'attentato - dal carcere di Matera, Salvatore Senatore disse: "è possibile che Moro sia rapito a breve". Altro preavviso giunse quindici giorni prima del sequestro. Renzo Rossellini, animatore di radio Città Futura, informò i dirigenti del PSI che Moro sarebbe stato rapito. Bettino Craxi, però, lo convocò solo a sequestro compiuto. Lo stesso Rossellini alle otto del mattino - un'ora prima del sequestro - in una trasmissione radiofonica, aprì con la notizia dell'avvenuto sequestro d'Aldo Moro. Le notizie, secondo il generale Santovito (P2), giunsero al SISMI centrale solamente dopo il 16 marzo. Purtroppo la registrazione della trasmissione radiofonica, così come le famose foto scattate da Gherardo Nucci pochi minuti dopo l'attentato, è scomparsa nel nulla. Nessuna prova, però, è più schiacciante di quella fornita da Antonino Arconte, nome in codice G.71. Arconte faceva parte di una struttura militare riservatissima: la "Gladio delle centurie" che operava fuori la nazione Italia al fine di evitare possibili colpi di Stato. Gladio fu istituito negli anni '50 con lo scopo di controllare e neutralizzare la capacità offensiva dei comunisti in caso di guerra civile. Naturalmente da quel momento si è evoluta e specializzata diventando un organo militare fondamentale per i Servizi Segreti italiani. "Il gran segreto" intorno al quale ruotavano gli interrogatori delle BR a Moro era proprio Gladio. L'argomento principale era la struttura di guerriglia e controguerriglia usata dal corpo speciale dei servizi segreti. Questa "seconda faccia" di Gladio doveva assolutamente restare segreto perché coinvolgeva i rapporti con gli USA e in particolare perché infrangeva le leggi della legislazione italiana. La legge 801/77, all'articolo 10, sancisce: "Nessuna attività, comunque idonea per l'informazione e la sicurezza, può essere svolta al di fuori degli strumenti, delle modalità, delle competenze e dei fini previsti dalla presente legge". La legge di riforma dei servizi segreti 801 del '77 impone, per quanto riguarda gli agenti dei servizi segreti, di svolgere solo operazioni di "intelligence" e non operazioni armate. Il compito degli 007 italiani era solo quello di raccogliere informazioni e non di attuare operazioni militari. Gladio invece era coinvolta in molte operazioni militari all'estero ed anche in Italia tanto che il Ministro Formica dichiarò che ".nell'Italia Repubblicana si è costituito un esercito assolutamente incompatibile con il nostro ordinamento; uno stato democratico può certamente avere dei piani segreti.ma non può avere assolutamente una milizia clandestina.". Gladio agiva in modo clandestino e quindi andava contro la legge. Ecco perché rappresentò il "gran segreto" con il quale le BR volevano minacciare lo Stato. Ad un certo punto del sequestro, infatti, ci si rese conto che le trattative non erano volte alla liberazione di Moro bensì alla consegna dei documenti raccolti dai terroristi; ma questo è un argomento che tratteremo più avanti. Ritornando ad Arconte, "il gladiatore" attraverso un sito internet prima, ed un libro poi, parlò di una sua missione in Medio Oriente che ebbe sviluppi importanti nel sequestro Moro". Partii dal porto della Spezia il 6 marzo 1978, a bordo del mercantile Jumbo Emme. Sulla carta era una missione molto semplice: avrei dovuto ricevere da un nostro uomo a Beirut dei passaporti che avrei poi dovuto consegnare ad Alessandria d'Egitto. Dovevo poi aiutare alcune persone a fuggire dal Libano in fiamme, nascondendole a bordo della nave. Ma c'era un livello più delicato e più segreto in quella missione. Dovevo infatti consegnare un plico a un nostro uomo a Beirut. In quella busta c'era l'ordine di contattare i terroristi islamici per aprire un canale con le BR, con l'obiettivo di favorire la liberazione di Aldo Moro". Il plico che contiene l'ordine di aprire un canale per la liberazione di Moro è autenticato dal notaio Pietro Ingozzi d'Oristano ed è firmato del Capitano di Vascello della Marina della X Divisione "Stay Behind". Il documento è datato 2 marzo 1978 e fu consegnato a Beirut il 13 marzo dello stesso anno. Moro sarà rapito il 16 di marzo, due settimane dopo la data d'emissione e ben diciotto giorni prima della "cartolina di mobilitazione" che giunse ad Arconte il 26 febbraio 1978. Arconte però non è l'unico testimone del viaggio. Un secondo "gladiatore" lo accompagnò in missione: Pierfrancesco Cangedda, nome in codice "Franz". Egli fu inviato tempo prima in Cecoslovacchia per raccogliere informazioni sull'addestramento delle BR; un tema di grande interesse per la Commissione Mitrokhin. "Franz" è a conoscenza dei legami tra il terrorismo tedesco dell'occidente e le BR. Cosa centra il terrorismo tedesco? Forse non tutti sanno che l'operazione di Via Fani è stata la perfetta copia dell'operazione della Baader-Meinhof - organizzazione terroristica nata nella Repubblica Federale Tedesca nel 1971 - del 5 settembre 1977, quando fu rapito l'industriale Hans Schleyer. La Procura di Roma tramite i NOS ha interrogato i due "gladiatori" nel novembre 2000, solo che, ad oggi, non si conoscono gli esiti. In tutta questa vicenda, l'unica certezza è che nei Servizi Segreti si sapeva con largo anticipo che Moro sarebbe stato sequestrato. Falco Accame, è stato presidente della Commissione difesa della Camera dal 1976; egli ha apertamente dichiarato che "nell'agguato di Via Fani Guglielmi incarnava la presenza di Gladio col compito di verificare che tutto andasse bene ". Falsa che sia questa ipotesi, Gladio era presente in Via Fani "sottoforma di proiettile"; è poco nota la vicenda che i bossoli rinvenuti sul luogo della strage - 92 sparati e ben 46 da una sola arma, una "mitraglietta Scorpion" di fabbricazione cecoslovacca - presentavano una particolare vernice che si usa normalmente contro la ruggine. Questa speciale vernice rende quasi certa la provenienza delle armi, poiché è la stessa usata da Gladio per preservare i proiettili nei depositi sotterranei. Perché pur sapendo in anticipo delle intenzioni dei brigatisti, non si è fatto niente di concreto per la liberazione di un uomo, prima che di un politico.

DIECI GIUDICI COLLUSI CON I CLAN.

"Mi risulta che mio figlio avrebbe fatto i nomi di una decina di giudici; siccome io ho in corso otto processi vorrei che voi chiedeste a mio figlio di dire i nomi di questi giudici", scrive “La Repubblica”. La bomba scoppia alle 10,30 nell' aula bunker di Rebibbia dove la Corte di Assise di Caltanissetta si è trasferita per ascoltare i pentiti nel processo per la strage di Capaci. A parlare è Raffaele Ganci, boss della Noce, prima ancora che il figlio pentito, Calogero cominci a rispondere alle domande delle accuse e della difesa. Le parole del boss spiazzano tutti. E subito si scatena la caccia ai "nomi" degli insospettabili giudici che avrebbero favorito la mafia. Il tam-tam da Roma a Palermo è intenso. Circolano nomi di sei o sette giudici, nomi in libertà che nessuno, né i magistrati di Palermo né quelli di Caltanissetta, titolari per competenza, confermano. Il procuratore aggiunto di Caltanissetta Paolo Giordano, che assieme al collega Luca Tescaroli rappresenta l' accusa nel processo di Capaci, viene "accerchiato" dai giornalisti che gli chiedono notizie: "E' vero, è falso? Chi sono questi magistrati chiamati in causa da Calogero Ganci?". E il procuratore aggiunto Giordano, come al solito, dice poco o niente, si limita a dichiarare che "nel momento in cui dovessero emergere nel corso delle indagini i nomi di alcuni giudici l' ufficio del pubblico ministero automaticamente trasmetterà gli atti al Consiglio superiore della magistratura che li esamina e può decidere se aprire o no un' inchiesta. E questo proprio a garanzia degli imputati". Si controlla anche al Csm e alcune fonti affermano che da Caltanissetta non è giunto alcun fascicolo relativo alle presunte accuse del pentito contro giudici palermitani. Il giallo, dunque, resta. Ma il boss Raffaele Ganci, per fare quella richiesta così specifica al figlio pentito, qualcosa deve pur aver saputo. Ma quando Calogero Ganci, in teleconferenza (si scoprirà poi che si trovava all' interno di una stanza dell' aula bunker di Rebibbia e non in una località segreta), viene interrogato da accusa e difesa, l' argomento, non viene neppure sfiorato. Qualcuno si aspettava che alcuni difensori degli imputati ribadissero la richiesta del boss, ma non è stato così. Calogero Ganci dunque ha risposto alle domande attinenti al processo nel quale è anche imputato assieme al padre, al fratello Domenico e ad altri 39 boss e uomini d' onore. E in relazione ai presunti rapporti tra Cosa nostra e uomini delle istituzioni, il pentito ha ribadito che era il fratello Domenico che "si incontrava con persone vicine alle istituzioni e questo su incarico di mio padre Raffaele". Il figlio pentito del boss parla anche di un altro boss della Cupola, adesso pentito, Salvatore Cangemi che nelle sue dichiarazioni avrebbe "dimenticato" di avere partecipato ad alcuni omicidi eccellenti. Omicidi (come quelli del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e la partecipazione alla strage di via D' Amelio) che Ganci nelle precedenti dichiarazioni gli ha "ricordato". "E mio padre - ha affermato Ganci - era sollevato dal fatto che Cancemi non aveva ancora parlato della strage di via D' Amelio". Il pentito rispondendo ad altre domande ha detto che il boss Totò Riina poteva essere arrestato prima: "Bastava seguire me, che ero il suo contatto con gli altri boss, per arrivare a lui". E aggiunge anche di ricordare, per averlo saputo dalla moglie, dei lamenti di Antonietta Bagarella, moglie di Totò Riina, durante uno dei suoi parti in una clinica privata di Palermo dove era ricoverata con un falso nome. Sul 41-bis, il regime carcerario duro imposto ai boss, Ganci rivela che nonostante tutto i mafiosi riuscivano a comunicare tra di loro: "Comunicavamo liberamente e ci scambiavamo informazioni attraverso il bagno o le finestre delle nostre celle". L' interrogatorio di Ganci jr si è concluso nel tardo pomeriggio. Ha fatto o non ha fatto i nomi di giudici "avvicinabili"? Il mistero resta.

I RISULTATI, POI, SONO QUESTI.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

Parla l’ex capo dei Casalesi. La camorra e la mafia non finirà mai, finchè ci saranno politici, magistrati e forze dell’ordine mafiosi.

CARMINE SCHIAVONE. MAGISTRATI: ROMA NOSTRA!

"Ondata di ricorsi dopo il «trionfo». Un giudice: annullare tutto. Concorsi per giudici, Napoli capitale dei promossi . L'area coperta dalla Corte d'appello ha «prodotto» un terzo degli aspiranti magistrati. E un terzo degli esaminatori". O la statistica è birichina assai o c'è qualcosa che non quadra nell'attuale concorso di accesso alla magistratura. Quasi un terzo degli aspiranti giudici ammessi agli orali vengono infatti dall'area della Corte d'Appello di Napoli, che rappresenta solo un trentacinquesimo del territorio e un dodicesimo della popolazione italiana. Un trionfo. Accompagnato però da una curiosa coincidenza: erano della stessa area, più Salerno, 7 su 24 dei membri togati della commissione e 5 su 8 dei docenti universitari. Cioè oltre un terzo degli esaminatori.

PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.

I criteri di valutazione dell’elaborato dell’esame di magistrato, di avvocato, di notaio, ecc.

Secondo la normativa vigente, la valutazione di un testo dell’esame di Stato o di un Concorso pubblico è ancorata ad alcuni parametri. Può risultare utile, quindi, che ogni candidato conosca le regole che i commissari di esame devono seguire nella valutazione dei compiti.

a) chiarezza, logicità e rigore metodologico dell’esposizione;

b) dimostrazione della concreta capacità di soluzione di specifici problemi giuridici;

c) dimostrazione della conoscenza dei fondamenti teorici degli istituti giuridici trattati;

d) dimostrazione della capacità di cogliere eventuali profili di interdisciplinarietà;

e) relativamente all'atto giudiziario, dimostrazione della padronanza delle tecniche di persuasione.

Ciò significa che la comprensibilità dell’elaborato — sotto il profilo della grafia, della grammatica e della sintassi — costituisce il primo criterio di valutazione dei commissari. Ne consegue che il primo accorgimento del candidato deve essere quello di cercare di scrivere in forma chiara e scorrevole e con grafia facilmente leggibile: l’esigenza di interrompere continuamente la lettura, per soffermarsi su parole indecifrabili o su espressioni contorte, infastidisce (e, talvolta, irrita) i commissari ed impedisce loro di seguire il filo del ragionamento svolto nel compito. Le varie parti dell’elaborato devono essere espresse con un periodare semplice (senza troppi incisi o subordinate); la trattazione dei singoli argomenti giuridici deve essere il più possibile incisiva; le ripetizioni vanno evitate; la sequenza dei periodi deve essere rispettosa della logica (grammaticale e giuridica). Non va mai dimenticato che ogni commissione esaminatrice è composta da esperti (avvocati, magistrati e docenti universitari), che sono tenuti a leggere centinaia di compiti in tempi relativamente ristretti: il miglior modo di presentarsi è quello di esporre — con una grafia chiara o, quanto meno, comprensibile (che alleggerisca la fatica del leggere) — uno sviluppo ragionato, logico e consequenziale degli argomenti.

Questa è la regola, ma la prassi, si sa, fotte la regola. Ed allora chi vince i concorsi pubblici e chi supera gli esami di Stato e perché si pretende da altri ciò che da sé non si è capaci di fare, né di concepire?

PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI.

La sentenza contro il Cavaliere è zeppa di errori (di grammatica).

Frasi senza soggetto, punteggiatura sbagliata... Il giudizio della Cassazione è un obbrobrio anche per la lingua italiana, scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”.

«...Punto! Due punti!! Ma sì, fai vedere che abbondiamo. Abbondandis in abbondandum». Al di là del merito e della torpida sostanza giuridica, ho letto le motivazioni dell’ormai mitica sentenza Mediaset. E, grammaticalmente, la prim’immagine evocatami (ci perdoni il presidente della sezione feriale di Cassazione, ma essendo appassionato del teatro di Scarpetta, comprenderà) è stata quella della dettatura della lettera di Totò a Peppino, gli altrettanto mitici fratelli Capone. Dunque. M’immaginavo il presidente Antonio Esposito, il quale, accalorato, la toga stropicciata, il succoso accento napoletano, si alza e osservando verso l’alto il punto di un immaginario sestante, detta ai consiglieri De Marzo Giuseppe e Aprile Ercole mollemente assettati roba: «Veniamo noi con questa mia addirvi...». E questo è il prologo immaginato. Dopodiché ecco l’impatto della realtà nella autentica dettatura delle motivazioni a pag.183, la parte più dadaista: «Deve essere infine rimarcato che Berlusconi, pur non risultando che abbia trattenuto rapporti diretti coi materiali esecutori, la difesa che il riferimento alle decisioni aziendali consentito nella pronuncia della Cassazione che ha riguardato l’impugnazione della difesa Agrama della dichiarazione a  non doversi procedere per prescrizione in merito ad alcune annualità precedenti, starebbe proprio ad indicare che occorre aver riguardo alle scelte aziendali senza possibilità. quindi, di pervernire...». Ecco. Di prim’acchito uno si domanda: oddio, che fine ha fatto la punteggiatura? Ma dov’è il soggetto? Qual è la coordinata, quante subordinate transitano sul foglio? Possibile che in natura vi siano tante attrazioni del relativo da sembrare un trenino erotico?  La prosa della Cassazione è frullo, velocissimo, di anacoluti. E qui m’immagino i consiglieri De Marzo e Aprile che si fermano un attimo, riprendono il fiato; si girano appena ad osservare il presidente Esposito che sembra dire: «Hai aperto la parente? Chiudila...»;  e poi si rimettono, in apnea, testa bassa, a vergare: «...ad una affermazione di responsabilità di Berlusconi che presumibilmente del tutto ignari delle attività prodromiche al delitto, ma conoscendo perfettamente il meccanismo, ha lasciato che tutto proseguisse inalterato, mantenendo nelle posizioni strategiche i soggetti da lui scelti...». Eppoi, affiorano, da quel fango ribollente di parole, perle tautologiche tipo «le prove sono state analiticamente analizzate». O straordinarie accumulazioni semantiche come «il criterio dell’individuazione del destinatario principale dei benfici derivanti dall’illecito fornisce un risultato convergente da quello che s’è visto essere l’esito dell’apprezzamento delle prove compito dai due gradi di merito..»: roba che, letterariamente, in passato poteva   comportare anche una rottura degli schemi e dei generi, come insegnavano Italo Calvino, Céline o Ambrose Bierce (privilegiati qui rispetto ai pandettisti Calamandrei, Rocco, o a Pisapia padre...).  Per non dire, nello scorrere delle 208 pagine della motivazione, del vorticoso intreccio dei «siffatto contesto normativo», degli «allorquando», degli «in buona sostanza», che rendono -come dire?- un tantino accidentata la lettura. Prendete la frase «ha posto in essere una frazione importante dell’attività delittuosa che si è integrata con quella dei correi fornendo un contributo causale...». Uno dice: per forza non capisci un tubo, è linguaggio giuridico. Il problema è che io ho fatto giurisprudenza, specializzato nel diritto processuale. Alla serie di termini linguistici accostati in modo più o meno ordinato o anche in modo caotico e senza un percorso strutturale, dovrei esserci abituato. Ripeto: non entro nel merito della sentenza. Eppure qui, per vapore sintattico, mi tornano sempre in mente Totò e Peppino. Il fatto è che, quasi tutti i giudici non sanno  -o non vogliono scrivere - in una forma comprensibile. Montesquieu,  nel libro diciannovesimo dell’Esprit des lois,  ammoniva: «Le leggi non devono essere sottili: sono fatte per individui di mediocre intelligenza; non sono espressione dell’arte della logica, ma del semplice buon senso di un padre di famiglia». Le leggi dovrebbero essere capite anche dalla cuoca di Lenin, o dalla casalinga di Voghera. Eppure con la scusa del «gergo» si compiono le peggiori nefandezze grammaticali. Scrive il docente Stefano Spele nel suo saggio  Semplificazione del linguaggio amministrativo: «La scarsa attitudine a scrivere in modo chiaro è stata favorita, anche dai meccanismi di organizzazione delle pubbliche amministrazioni, nelle quali ha largamente dominato il principio non scritto che è meglio non assumersi nessuna responsabilità. Oscurare il linguaggio serve ad oscurare le responsabilità». Vero. Spesso è la responsabilità dei magistrati. Non è questo il caso, naturalmente, caro dottor Esposito. Chiusa la parente.

Vede finalmente la luce un’opera monumentale che colma una lacuna nel mondo della linguistica. È un progetto che ha visto impegnato un team composto dai maggiori esperti del settore e grazie al quale potrà essere tradotto un documento rimasto fino a oggi non decifrato: la sentenza Berlusconi, scrive Giuseppe Pollicelli su “Libero Quotidiano”. La soddisfazione di uno degli studiosi: “È stata durissima ma ce l’abbiamo fatta, ora mi potrò rilassare dedicandomi all’etrusco e al rongorongo”. Di seguito, in esclusiva per i lettori di LiberoVeleno, alcuni dei lemmi registrati dal vocabolario Espositese-Italiano.

Ammariuca. Da pronunciarsi ponendo l’accento sulla lettera u, questo sostantivo dall’etimologia sconosciuta non trova riscontri al di fuori dell’espositese: indica infatti un’assoluta idiosincrasia nei confronti della lingua italiana e un’insormontabile difficoltà nel parlarla.

Chiavicazzone. Epiteto ingiurioso che in espositese si rivolge a chi commetta un’ingenuità o una leggerezza. Quando ha trovato sul Mattino le sue considerazioni sulla condanna al Cavaliere, Antonio Esposito ha esclamato a gran voce: “Songo ’nu chiavicazzone!”.

Ditalende. Sostantivo femminile che si usa solo al plurale. Le ditalende sono le preoccupazioni e i grattacapi che possono derivare a un individuo dalle condotte discutibili del parentado. Un figlio magistrato che organizzi cene a lume di candela con un’imputata assai nota alle cronache può essere cagione di ditalende.

Fracuzzella. Indica un particolare stato d’animo, simile alla rabbia e alla stizza, che coglie taluni ogni volta che s’imbattono nella persona o anche solo nel nome di Silvio Berlusconi. Se il giudice Antonio Esposito pronuncia la frase “Tengo ’na fracuzzella tanta”, vuol dire che è meglio girargli al largo.

Manzaccio. Aggettivo che si adopera a proposito di un individuo infido, sleale, subdolo. Quando nomina il cronista del Mattino con cui ha intrattenuto la famosa conversazione telefonica, Antonio Esposito non manca mai di dire che “Chillo là nun è solo malamente, è ’nu vero manzaccio!”

Scianfroglia. Con questo vocabolo ci si riferisce alla speciale capacità, sviluppata e affinata soprattutto dagli abitanti di Sarno e dei paesi limitrofi, di distinguere con sicurezza l’uno dall’altro tutti i numerosissimi membri della famiglia del giudice Esposito, compresi i cugini di quarto grado.

Tangolicchiare. Prodursi in piccoli e ripetuti sorrisini allorché si viene a conoscenza di una notizia che prelude all’esito fausto di una determinata vicenda. Si tangolicchia, per esempio, se si apprende che la Procura generale della Cassazione può impiegare fino a un anno per ascoltare una tua telefonata compromettente della durata di pochi minuti.

Voccallocca. Atteggiamento disinvolto, non di rado sconfinante nell’istrionismo e nella sfacciataggine, che si assume durante una festa o una cena tra amici e che induce a parlar male pubblicamente di Silvio Berlusconi auspicandone la condanna nei processi penali.

Non solo errori grammaticali. La Cassazione boccia le sentenze scritte a mano.

Sono illeggibili, segno di ridotta attenzione nei confronti di chi è condannato. Invito ad usare il computer, scrive Bruno Ventavoli su “La Stampa”. Giudici, buttate la penna. Se scrivete sentenze, fatelo al computer. La tirata d’orecchie arriva dalla Cassazione, che invita i magistrati italiani ad abbandonare nostalgie e vezzi da amanuensi. Non perché il Palazzaccio voglia d’un tratto buttare al macero secoli d’arte calligrafica. Ma semplicemente perché molte sentenze, vergate a mano, risultano incomprensibili. Giubilano, pare di sentirle, le praticanti che negli studi legali devono stendere atti per poche decine d’euro, e inciampano in scarabocchi, s’impuntano su una «f» che somiglia a una «l», rischiando l’isteria. E gioiscono tutti quelli che nella vita quotidiana hanno a che fare o per mestiere o per casualità con fogli rigati d’inchiostro da mani che non sanno maneggiare penne. Le ricette d’un medico, è noto, sembrano scarabocchi psicopatici. I compiti in classe degli studenti con le dita atrofizzate dai telefonini, per i poveri docenti alla Pennac, paiono tsunami di geroglifici. La singolare sentenza (numero 49568/09) parte dalla Corte d’Appello di Napoli, dove due rapinatori hanno cercato di farsi annullare una condanna aggrappandosi a una penna. Ci vogliono condannare - hanno detto - ma è nostro diritto saper perché. E dato che il verdetto è buttato giù peggio che da una gallina, i motivi ci restano ignoti. Il caso è arrivato in Cassazione. I giudici hanno scorso il documento incolpato. E qualcosa di faticoso l’hanno sicuramente trovato. Perché alla fine hanno emesso una nota di biasimo, riconoscendo che il testo era «caratterizzata da un ormai obsoleto ricorso alla scrittura a mano, non vietato ma certamente segno di attenzione ridotta da parte del magistrato amanuense alla manifestazione formale della funzione giurisdizionale». A rincarare la dose: «gli stilemi personalissimi e frettolosi pongono in secondo piano le esigenze del lettore e in particolare di chi, avendo riportato condanna, pretende di conoscerne agilmente le ragioni». Insomma, scrivere sentenze a mano non è vietato. Ma digitarle su un computer è meglio, perché appena eruttate dalla stampante sono immediatamente comprensibili. E’ un segno di civiltà, fin dai primordi del diritto. Chi incise i cuneiformi nella diorite di Hammurabi, si preoccupò di rendere ogni segnetto chiarissimo, meglio d’un bassorilievo divino. Essendoci di mezzo la legge del taglione, ogni tacchetta poco chiara, poteva costare una mano o una testa. Scrivere a mano, codice penale a parte, è da secoli un’arte sopraffina. Che suscita talvolta meraviglia, talaltre pensieri devianti e cocciute ribellioni, perché la mano che scorre lenta sul foglio parla sempre con il cuore, con l’anima, con la mente. Gli orientali, sulla calligrafia, hanno costruito un sistema di potere e di perfezione poetico-artistica. Bartleby, lo scrivano di Melville, a forza di ricopiare, imparò a ribellarsi sussurrando un mite «preferirei di no», come fosse una virgola venuta male nell’ordine americano. I copisti del nostro medioevo, dopo aver sudato quattro tonache a miscelare inchiostri e appuntire piume d’uccelli, si divertivano poi a nascondere nei colofoni dei nobili testi sms pruriginosi, tipo «Dentur pro penna scriptori pulchra puella» - la penna dello scrittore si merita una fanciulla carina - che suonano scaltri e beffardi quanto l’appello dei due rapinatori napoletani. Per la storia della Giurisprudenza, comunque, gli sgorbi legali non bastano a farla franca. La Cassazione ha respinto la richiesta dei due rapinatori: «La lettura del testo non è impedita da grafia ostile al punto da precluderne la comprensione la quale, seppur non propriamente agevole, risulta possibile al di là di ogni ragionevole dubbio». Meglio, però, passare al computer. Meno zen, più ineccepibile.

LE TOGHE IGNORANTI.

Le toghe ignoranti, scritto da Fabrizio Gatti su “L’Espresso”. Appunti nascosti nel reggiseno. O in una cartucciera... Errori di grammatica. Sfondoni di sintassi. Scarsa conoscenza del codice penale. "L'espresso" ha letto i temi dei candidati che domani dovranno governare la giustizia. In pochi si salvano da un disastro generale. La dottoressa F., giovane magistrato di freschissima nomina, ha da poco messo in pratica l'antico insegnamento contadino del non darsi la zappa sui piedi. E anche quello poliziesco del non spararsi nelle parti intime. La dottoressa F. ha infatti partecipato agli scritti del concorso per magistrato ordinario nel novembre 2008. Ha poi chiesto l'annullamento dello stesso concorso al Tar del Lazio per le presunte irregolarità di cui era stata testimone. Ha quindi saputo di aver passato gli scritti. Ha superato gli orali nella primavera 2010. Ha immediatamente dimenticato le irregolarità di cui era stata testimone. E ha dichiarato al Tar la "sopravvenuta carenza di interesse" chiedendo ai giudici, nel maggio 2010, di annullare la richiesta di annullamento. Pochi giorni fa, il 9 agosto, il Tar ha finalmente archiviato la bomba a orologeria del ricorso che l'audace candidata aveva piazzato sulla testa dei commissari d'esame. Niente male come inizio carriera. La sentenza è arrivata in tempo per vedere il nome del nuovo magistrato nell'elenco dei 253 vincitori, pubblicato dal ministero della Giustizia il giorno di Ferragosto. L'eccessiva attenzione a certe parti del corpo è invece costata l'esclusione ad altri laureati. Lo scrive Maurizio Fumo, presidente della commissione d'esame e consigliere della Corte di Cassazione, che in un verbale riservato prende atto "purtroppo, dell'atteggiamento obliquo e truffaldino da parte di non pochi candidati e, tra questi, un vicequestore trovata in possesso di una rilevante dose di appunti, nascosta tra la biancheria intima". Si trattava evidentemente di un vicequestore donna. Piuttosto che reggiseni e reggicalze, alcuni maschi hanno trovato ovviamente più consono indossare cartucciere da cacciatore dove nascondere i pizzini. Bernardo Provenzano ha fatto scuola ovunque. La generazione dei furbetti è entrata nelle aule di giustizia. I furbetti della toga: ragazzi e ragazze, più e meno giovani, che si sono formati studiando tra leggi ad personam e discussioni sul processo breve, tra le invenzioni del ministro Angelino Alfano e le comparsate tv dell'avvocato del premier, Niccolò Ghedini. Una generazione al passo con i tempi, tanto da averne già gustato il succo: l'importante è andare avanti. Chissenefrega come. Così hanno rubato il posto ai migliori rimasti esclusi. Almeno questo denunciano le decine di ricorsi presentati al Tar del Lazio. Qualcosa però tutti questi ragazzi, promossi e bocciati, incontrati negli ultimi giorni, hanno già assimilato: hanno paura di parlare. Nemmeno quando si tratta dei loro diritti costituzionali. Niente nome e cognome, per carità. Potrebbe danneggiare il futuro. La legge bavaglio per loro è già una pratica. Anche per molti di quei 253 che dopo un periodo di tirocinio come uditori, diventeranno giudici, pubblici ministeri, gip, gup. E, quando sarà il loro momento, presidenti di Tribunale, procuratori della Repubblica, membri del Consiglio superiore della magistratura e della Corte costituzionale. "L'espresso" ha letto i tre temi scritti da ciascuno dei magistrati appena nominati dal ministero. E ha analizzato i 235 verbali della commissione d'esame (vedi servizio a pag. 35). Non mancano gli errori di ortografia. Pagine bianche e righe nere che assomigliano a singolari segni di riconoscimento (vietatissimi). Fogli pasticciati e scritti sui margini come fossero fumetti. Ma anche i documenti della commissione non scherzano. Voti allegati senza timbri ministeriali. Fogli volanti inseriti in mezzo ai verbali di valutazione. Correzioni e cancellature senza firme di convalida. La legge è stagionata, la 1860 del 15 ottobre 1925. Ma su questi punti è chiara. Articolo 18: "Le cancellature o correzioni, che occorressero, devono essere approvate una per una dal presidente e dal segretario, con annotazione a margine o in fine". Non ci sono prove che i commissari nominati tra magistrati, professori universitari e avvocati siano stati scorretti. Ma un po' troppo pasticcioni sì. Quello per giudici e pm resta uno dei concorsi più duri. Dopo la laurea occorrono oltre due anni di preparazione negli studi forensi. Oppure nelle scuole universitarie di specializzazione per le professioni legali. Sui 3.193 candidati che nel novembre 2008 hanno consegnato i tre scritti di diritto amministrativo, penale e civile, la commissione ha mandato agli orali soltanto 309 aspiranti magistrati. Per poi promuoverne 253. Nonostante i quasi due anni di prove e correzioni e i soldi spesi, il ministero non è nemmeno riuscito a selezionare i 500 magistrati previsti dal concorso. E tanto attesi negli uffici giudiziari di tutta Italia. Se questi sono i risultati dei corsi di formazione post-laurea, il fallimento degli obiettivi è totale. Eppure almeno cinque tra i 28 commissari sono stati scelti dal ministro Alfano proprio tra quanti hanno insegnato nelle scuole di specializzazione per le professioni legali. "I componenti della commissione rispondono che il livello degli elaborati non ammessi era basso", dice l'avvocato Anna Sammassimo, dell'Unione giuristi cattolici: "Ma alla lettura degli elaborati dichiarati idonei si resta perplessi e molto. Tanto più che i curricula dei candidati esclusi destano ammirazione. Dal verbale da me visionato, il 227, risulta che la correzione dei tre elaborati di ciascun candidato ha impegnato la sottocommissione per circa 30 minuti: per leggere tre temi di tre materie, discuterne e deciderne il voto o la non idoneità sembra obiettivamente un po' poco". La questione che ha spinto quasi tutti i ricorsi è anche la presunta impreparazione della commissione nella compilazione dei verbali. Impreparazione che, secondo i ricorrenti, potrebbe avere viziato l'esame già dagli scritti, organizzati tra il 19 e il 21 novembre 2008 in due padiglioni della Fiera di Milano a Rho. Questo è il resoconto del presidente dei commissari: "Va innanzitutto ricordato che lo scrivente è stato individuato quale presidente della commissione esaminatrice", scrive di se stesso Maurizio Fumo in un verbale riservato inviato al ministro e al Csm, "solo pochi giorni prima dell'inizio dei lavori, a seguito della rinunzia del presidente nominato". Contrariamente a quanto stabilito dalla commissione in carica per il precedente concorso, "si è ritenuto di non ammettere testi contenenti note di dottrina e giurisprudenza anche se le relative pagine fossero state spillate o fatte spillare". Le operazioni di identificazione dei candidati (con tesserini questa volta senza foto) e di controllo dei testi con i codici durano due giorni, il 17 e il 18 novembre: "Sono affluiti circa 5.600 candidati. La media dei testi che ciascuno ha inteso introdurre può individuarsi in 5 o 6 per candidato. Per un totale, quindi, di 28.000-33.600 volumi". E qui cominciano i pasticci. Perché la regola in Italia, anche nel concorso per magistrati, è sempre flessibile: "Il problema della spillatura, nonostante l'annunzio pubblicato sul sito ministeriale, si è riproposto". I candidati che mostrano ai 250 sorveglianti i testi commentati e spillati "vengono invitati a strappare le pagine contenenti note di dottrina o giurisprudenza... oppure a rinunciare al codice stesso". I partecipanti che accettano la soluzione "hanno ottenuto la ammissione dei codici così purgati": che però "continuavano a recare sulla copertina la dicitura "codice commentato"". La mattina del 19 novembre la commissione si riunisce per scegliere le tre tracce di diritto amministrativo: "Subito dopo l'individuazione delle tre tracce, il professor Fabio Santangeli ha rappresentato di doversi allontanare per tornare a Catania... Né d'altronde il Santangeli poteva essere trattenuto d'autorità", ammette Fumo: "A tal punto la commissione ha ritenuto, all'unanimità, necessario eliminare le tre tracce e procedere all'individuazione di tre nuove tracce della medesima materia". Passano le ore. "Non pochi candidati", in attesa fin dalle 8, è sempre scritto nel verbale, "hanno lamentato di essere investiti da flussi violenti di aria fredda". Alle 12,45 la prova scritta non è ancora cominciata. Ormai sono evidenti sui banchi i testi con la dicitura "codice commentato". E i più rispettosi delle regole non la prendono bene. Scoppia la lite. Volano libri, qualche sedia, al grido di vergogna, vergogna: "La commissione, colta in un primo tempo di sorpresa per la violenza, la volgarità e la natura apertamente minacciosa che aveva assunto la protesta, ha comunque mantenuto la calma... solo, dopo più di un'ora e grazie all'atteggiamento fermo ma prudente della polizia penitenziaria, è stato possibile instaurare una qualche forma di dialogo... Altri inoltre chiedevano e ottenevano di verbalizzare dichiarazioni". Quel verbale, controfirmato da otto candidati, secondo i testimoni contiene nomi di persone sorprese con testi irregolari e ora promossi magistrati. Ma è impossibile verificare. Finora il Csm ha impedito l'accesso al documento. E il Tar Lazio non ha ancora depositato una decisione presa nel merito il 28 aprile scorso. "Nei giorni successivi le prove si svolgevano in maniera abbastanza regolare", conclude il presidente Fumo: "Si rendeva necessario tuttavia istituire un apposito banco delle espulsioni... In quanto il numero delle persone trovate in possesso di materiale non consentito (appunti, codici con annotazioni, testi giuridici mascherati con copertine di codici, telefonini e persino un orologio con database) era molto elevato".

L’ITALIA VISTA DALL’ESTERO.

Un Paese in preda al marasma senile, scrive Massimo Fini su "IlFattoQuotidiano".

Ho passato una ventina di giorni di vacanza all’estero. Un estero molto vicino: la Corsica (il luogo più vicino più lontano dall’Occidente, perché, soprattutto nell'interno, la vita si svolge secondo i ritmi rallentati delle società tradizionali). Comunque a sole quattro ore di traghetto, con il necessario “recul” (la distanza giusta per osservare un quadro), l’Italia offre di sé uno spettacolo impressionante. Non per i problemi economici. Quelli ce li hanno quasi tutti in Europa. L’Italia sembra in preda a una sorta di marasma senile. Gli ingranaggi si sono inceppati. È saltata la filiera di un ministero chiave come quello degli Interni: il capo non sa cosa fanno i suoi subalterni i quali, a loro volta, agiscono ognuno per conto proprio più o meno all’insaputa l'uno dell’altro (sempre che costoro abbiano dichiarato il vero, come temo, perché sarebbe preferibile che avessero detto delle menzogne che sono almeno un segno di vitalità). Subiamo le imposizioni dei kazaki, che si permettono di portar via, con un aereo privato due persone che stanno nel nostro Paese, che sono sotto la nostra giurisdizione e la nostra tutela. Emma Bonino, il clone ottuso di Pannella, eletta improvvidamente ministro degli Esteri, non è riuscita che a balbettare che l’intervento kazako è stato “intrusivo”. Abbiamo perso ogni credibilità internazionale. Dopo che una mezza dozzina di presidenti del Consiglio e di ministri della Giustizia avevano fatto i pesci in barile per non dispiacere gli americani, la Cancellieri, da Guardasigilli, si era decisa a spiccare mandato di arresto, via Interpol, contro Robert Lady il capetto della Cia a Milano, responsabile del rapimento di Abu Omar, condannato a nove anni di galera. E in effetti Lady è stato arrestato a Panama, ma il Paese centroamericano non ha nemmeno aspettato che ne chiedessimo l’estradizione, l’ha consegnato subito agli Stati Uniti, al sicuro. Un delinquente comune anzi "naturale” come lo ha definito il Tribunale di Milano (che è qualcosa di più di “delinquente abituale”, vuol dire che ce l’ha proprio nel dna) tiene in scacco il Paese e il governo. Basta un soffio perché crolli tutto il castello di carte. Nel frattempo il governo si tiene insieme solo perché, direi fisicamente, non può cadere. Una potente ‘family’, palazzinara e finanziaria, viene mandata al gabbio e il suo patriarca, Salvatore Ligresti, ai domiciliari nella sua bella villa nel quartiere di San Siro che, a suo tempo, aveva provveduto a sconciare in combutta con i sindaci socialisti. Ma Ligresti non era già stato condannato ai tempi di Tangentopoli? E che c’entra? Questi ritornano sempre. E se mai, una volta, si riesce a “innocuizzarli” in modo definitivo, è solo quando hanno potuto compiere ogni sorta di rapine ai danni della cittadinanza. Non c’è settore in cui la magistratura vada a mettere il dito dove non salti fuori il marcio purulento, un pus che corrode tutto e tutti: funzionari, impiegati pubblici, poliziotti, vigili urbani, preti e naturalmente politici di ogni risma e di ogni livello. Ma non c’è più nessuno, in Italia, che rispetti le sentenze dei Tribunali. E perché mai si dovrebbe? A meno che non si tratti proprio di stracci, di riffa o di raffa le sentenze non vengono mai applicate. Nel Paese dei Balocchi non c'è la certezza della pena, c'è quella dell'impunità. Tutti i valori su cui si sostiene una comunità, onestà, dignità, lealtà, assunzione delle proprie responsabilità, sono saltati, in una confusione generale cui contribuiscono gli Azzeccagarbugli dei giornali. Il Capo di questo Stato ha 88 anni. Nel marasma senile del Paese, si trova nel suo.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

Costituzione, Diritto al Lavoro e Sistema Massonico.

Rapporti tra costituzione italiana e massoneria, secondo Paolo Franceschetti.

Sommario. 1. Premessa. 2. La prima falla: gli organi costituzionali. 3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. 4. La terza falla: la Corte Costituzionale. 5. La quarta falla: i valori massonici della costituzione. 6. Il cosiddetto "diritto al lavoro". 7. L'effettivo stato di cose. 8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. 9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato.

1. Premessa. La nostra Costituzione è considerata dalla maggior parte dei costituzionalisti come una legge molto avanzata, fortemente protettiva delle classi deboli e con un bilanciamento quasi perfetto tra i vari poteri. Rappresenta la legge fondamentale per la tutela dei diritti di qualunque cittadino, nonché il parametro di legittimità cui rapportare tutte le altre leggi. All’università questa era l’idea che mi ero fatta sui vari autori, Mortati, Martinez, Barile. Solo da qualche anno ho cominciato a riflettere sul fatto che qualcosa non va nel modo in cui tutti ci presentano la Carta Costituzionale. Vediamo cosa. In effetti la storia (quella vera e non quella ufficiale) ci insegna che la Carta Costituzionale fu voluta dalla massoneria. Oltre due terzi dei padri costituenti erano ufficialmente massoni (e sospetto anche quelli che non lo erano ufficialmente). E la massoneria rivendica a sé altre leggi importanti, come la dichiarazione dei diritto dell’Uomo. Dato che il fine ultimo della massoneria è il nuovo ordine mondiale, riesce difficile pensare che abbiano voluto consegnare ai cittadini, al popolo cioè, una legge che tutelasse davvero tutti, e che non fosse invece funzionale agli interessi massonici. Infatti, leggendo la Costituzione senza preconcetti, e sgombrando il campo da tutte le sciocchezze che ci insegnano all’università, è possibile farsi un’idea diversa della Costituzione. Essa è una legge illiberale, pensata apposta per opprimere i cittadini anzichè tutelarli. Però il punto è che è scritta così bene che è difficile capirne l’inganno. Apparentemente infatti sembra una legge progredita e che tutela i diritti di tutti. Ma la realtà è ben altra. E’ noto infatti che nessuno è così schiavo come quelli che pensano di essere liberi senza sapere di essere schiavi. Ora, la Costituzione è fatta apposta per questo: renderci schiavi, facendoci credere di essere liberi. Purtroppo per capirlo occorre essere molto esperti di diritto, e contemporaneamente conoscere anche la politica, la cronaca, l'economia, ecc.; una cosa impossibile finchè si è giovani, e quindi una preparazione universitaria non è sufficiente per individuare dove stanno le immense falle di questa legge – burla. Bisogna inoltre avere alcune conoscenze del sistema massonico. I laureati in legge quindi escono dall’università senza avere la minima conoscenza del sistema reale, ma avendo a malapena mandato a memoria i pochi libri che hanno letto per gli esami universitari. Vediamo dove stanno queste falle, iniziando dalle meno importanti. Per finire poi occupandoci della presa in giro più evidente, che non a caso è proprio quella contenuta nell’articolo 1 della costituzione.

2. La prima falla. Gli organi costituzionali. Anzitutto nella costituzione sono previste efficaci garanzie per tutti i poteri dello stato meno uno. Sono previste garanzie per il governo, parlamento, la Corte Costituzionale, la magistratura, ma non per i servizi segreti che, come abbiamo spiegato in un articolo precedente, sono l’organo dello stato più potente e il più pericoloso. Quindi i servizi segreti possono agire fuori da coperture costituzionali. Ciò ha una duplice valenza a mio parere, una giuridica e una psicologica. Dal punto di vista giuridico infatti questa mancanza consente ai servizi di operare nell’illegalità. Dal punto di vista psicologico, invece, tale omissione fa sembrare i servizi segreti quasi una sorta di organo secondario che svolge ruoli di secondo piano per il funzionamento della Repubblica; si dà al lettore, allo studioso di legge, e all’operatore del diritto in genere, l’impressione che essi non siano in fondo così importanti; allo stesso tempo ci si assicura che nessuno studente approfondirà mai la figura dei servizi dal punto di vista giuridico, cosicchè ogni laureato esce dall’università con un’idea solo immaginaria e fantastica di questo organo dello stato, quasi come fosse inesistente, da relegare nelle letture romanzesche dell’estate o dei film di James Bond, e non uno dei poteri più importanti del nostro stato, con un numero di dipendenti da far impressione a una qualsiasi altra amministrazione pubblica.

3. La seconda falla. Il sistema dei referendum. Un'altra mancanza gravissima è quella del referendum propositivo. Il referendum, che è un istituto importantissimo per la sovranità popolare, può solo abrogare leggi esistenti, ma non proporle. Il che, tradotto in parole povere significa che se con un referendum è stata abrogata una legge, il parlamento può riproporla tale e quale, oppure con poche varianti, solo per prendere in giro i cittadini a fingere di adeguarsi alla volontà popolare. Una presa in giro bella e buona.

4. La terza falla: la Corte costituzionale. Un’altra immensa presa in giro è il funzionamento della Corte Costituzionale. Tale organo dovrebbe garantire che le leggi siano conformi alla Costituzione, annullando le leggi ingiuste. Il problema è che il cittadino non può ricorrere direttamente contro le leggi ingiuste. E questo potere non ce l’hanno neanche i partiti o le associazioni di categoria. Per poter arrivare ad una dichiarazione di incostituzionalità di una legge infatti è previsto un complesso sistema per cui bisogna dapprima che sia instaurato un processo (civile o penale); dopodiché occorre fare una richiesta al giudice che presiede il processo in questione (che non è detto che la accolga). In gergo tecnico questo sistema si chiama “giudizio di rilevanza costituzionale effettuato dal giudice a quo”; in gergo atecnico e popolare potremmo definirlo “sistema per paralizzare la giustizia costituzionale”. Ne consegue che è impossibile impugnare le leggi più ingiuste, per due motivi:

1) o perché per qualche motivo giuridico non è possibile materialmente instaurare il processo (ad esempio: non è possibile impugnare le leggi che prevedono gli stipendi e le pensioni dei parlamentari; non è possibile impugnare le leggi elettorali; non è possibile impugnare le leggi con cui la Banca d’Italia è stata di fatto privatizzata);

2) o perché – anche quando le legge è teoricamente impugnabile - il cittadino non ha nessuna voglia di instaurare un processo per poi andare davanti alla Corte Costituzionale. Ad esempio; ipotizziamo che un cittadino voglia impugnare l’assurda legge che prevede che ogni professionista debba versare allo stato il 99 per cento del reddito dell’anno futuro, per incassi ancora non percepiti; in tal caso bisogna dapprima rifiutarsi di pagare (quindi commettere un illecito); poi occorre aspettare di ricevere la cartella esattoriale da parte dell’agenzia delle entrate con le relative multe e sovrattasse; e solo dopo queste due mosse si poi impugnare la cartella, peraltro senza nessuna certezza di vincere la causa. Se invece si volesse impugnare l’assurda legge sul falso in bilancio prevista dagli articoli 2621 e ss. Cc. (legge chiaramente incostituzionale perché rende di fatto non punibile questo reato, con la conseguenza che chi ruba una mela in un supermercato rischia diversi anni di galera, mentre chi ruba qualche milione di euro da una grande azienda non rischia quasi nulla), la cosa diventa praticamente impossibile, perché prima commettere il reato, poi occorre aspettare di essere processati per quel reato, e che in tale processo colui che impugna sia parte in causa. Una follia!

A tutto ciò occorre aggiungere i rilevanti costi di un giudizio davanti alla Corte, tali da scoraggiare qualunque cittadino con un reddito medio. La conseguenza è che la Corte Costituzionale si occupa in genere della costituzionalità delle leggi più stupide, ma i cittadini sono impotenti di fronte ai fatti più gravi. E il risultato finale è che la Corte Costituzionale sostanzialmente ha le mani completamente legate contro le leggi più ingiuste e più gravemente lesive dei diritti del cittadino.

5. La quarta falla: i valori massonici introdotti dalla Costituzione. Ci sono poi altre lacune molto gravi come quella relativa alla possibilità per lo stato di espropriare beni dei cittadini senza corrispondere il valore di mercato. Ma l’aspetto più grave della nostra Costituzione, e allo stesso tempo anche quello più difficile da percepire, è relativa ai valori tutelati dalla Costituzione. Ci raccontano sempre che la Costituzione tutela la persona umana. Ma è falso, perché in realtà a ben guardare essa mortifica la persona umana relegandola a poco più che uno schiavo. Vediamo perché.

6. Il cosiddetto diritto al lavoro. Il perché è in realtà sotto gli occhi di tutti, messo in modo plateale, bene evidenziato già nell’articolo 1 della Costituzione, ove è detto che: “la repubblica italiana è fondata sul lavoro”. Nessuno si sofferma mai a riflettere sull’assurdità logica, giuridica, e filosofica, di questa norma. Cosa significa che una repubblica è fondata sul lavoro? Nulla. Giuridicamente una repubblica si fonda su tante cose. Sulla legalità. Sulla giustizia. Sull’equilibrio dei diritti. Sul rispetto delle leggi. Sull’equilibrio tra poteri dello stato. Ma non si fonda, né dovrebbe fondarsi, sul lavoro. Non a caso credo che il nostro sia l’unico caso al mondo di una Costituzione che abbia messo il lavoro all’articolo 1, tra i fondamenti della Repubblica. Non a caso neanche repubbliche dittatoriali come la Cina o la Russia contengono una disposizione tanto demenziale. L’idea di uno stato fondato sul lavoro è infatti una sciocchezza per vari motivi. Prima di tutto perché ciò presuppone che il giorno che venga trovato un modo per far avere a tutti, gratuitamente, cibo e un tetto, e la gente fosse dispensata dal lavorare, lo stato dovrebbe crollare. Il che ovviamente è giuridicamente un non senso. Quindi il primo dei presupposti errati di questa norma è proprio quello giuridico. In secondo luogo perché se la repubblica fosse fondata sul lavoro, ne deriverebbe che i soggetti peggiori della società sarebbero i preti, i monaci e le suore di clausura, il Papa, il Dalai Lama, gli asceti, coloro che vivono di rendita, chi si dedica solo al volontariato, i politici (la maggior parte dei quali non ha mai lavorato in vita sua) ecc. L’articolo 1 della nostra Costituzione si apre insomma con un concetto assurdo, ma straordinariamente nessuno ne ha rilevato il non senso. Anzi, autori come Mortati (il costituzionalista più famoso) hanno addirittura plaudito a questo articolo. La nostra Costituzione poi prosegue con altri articoli dedicati al lavoro, e tutti inevitabilmente basati su presupposti teorici sbagliati. Il lavoro infatti è considerato un diritto. Ma riflettendoci bene, il lavoro non è un diritto.

Il lavoro è – o dovrebbe essere - una libera scelta per esplicare la propria personalità.

Il lavoro è un dovere per coloro che non hanno abbastanza denaro per vivere.

Il lavoro è poi una scelta di vita, in quanto dovrebbe essere l’espressione della personalità del soggetto.

Chi ama dipingere vivrà di pittura; chi ama la giustizia cercherà di fare il giudice o l’avvocato; chi ama i soldi cercherà di lavorare in banca e così via. Ma ben possono esserci scelte alternative altrettanto nobili. Basti ricordare che le più grandi religioni del mondo si basano sulla figura dei loro fondatori, che non erano certamente lavoratori e che i primi discepoli di queste persone tutto erano tranne che lavoratori. Cristo non era un lavoratore e i anche i discepoli non erano tali ; o meglio, lo erano proprio finchè non hanno incontrato Cristo. La stessa cosa vale per Budda e i suoi discepoli che erano dei mendicanti, e tutt’oggi i monaci buddisti vivono sempre di carità. Una persona che accudisce i propri figli e fa vita solo casalinga non fa una scelta meno nobile di un dipendente delle poste, o di un funzionario di banca, o di un magistrato o un avvocato (che spesso passa la vita a dirimere questioni condominiali e cause assicurative, cioè occupandosi di cose infinitamente meno nobili dell’educazione di un figlio). Ricordiamo poi che la maggior parte dei politici non ha mai lavorato in vita sua. D’Alema e Bertinotti, che difendono i diritti dei lavoratori, non hanno mai lavorato né hanno mai creato veramente lavoro (al di fuori di quello delle cooperative rosse che serviva e serve per mantenere i partiti di sinistra). Quindi il concetto del lavoro come diritto, e come fondamento della Repubblica, non sta in piedi né filosoficamente né giuridicamente, né dal punto di vista logico. E’ una delle balle giuridiche più colossali che ci abbiano mai raccontato. A questo punto occorre capire perché al lavoro è stata data un’importanza così grande, introducendo nella Costituzione dei concetti falsi e che non hanno alcune attinenza con la realtà.

7. L’effettivo stato di cose. Il reale significato delle norme sul lavoro previste dalla nostra Costituzione possono essere capite se si conosce il meccanismo effettivo con cui il nostro sistema massonico funziona. Il sistema massonico funziona, effettivamente sul lavoro. Il lavoro è infatti il grosso problema della società attuale. Se voi chiedete a qualcuno qual è la più grande preoccupazione oggi, in Europa, vi diranno: il lavoro. Non c’è lavoro. Cosa promette un politico in cambio di voti? Un lavoro. Perché la mafia al sud è tenuta in considerazione più dello Stato? Perché dà lavoro. Perché la maggior parte delle persone, oggi, è spinta ad entrare in massoneria? Per cercare lavoro o per aumentare quello che ha.
Se non ti allinei alle direttive del sistema qual è la punizione più immediata che subisci? La perdita del lavoro. Perché un magistrato copre un omicidio, un poliziotto non indaga, un dipendente pubblico commette una scorrettezza, un giornalista non pubblica una notizia importante? Perché altrimenti perdono il lavoro. Perché si danno le mazzette per avere gli appalti? Perché altrimenti l’appalto non ti viene assegnato (ovverosia non hai lavoro). Perché la maggior parte della gente non sa cosa è il signoraggio, cosa sono le scie chimiche, cos’è la massoneria? Perché la TV non informa su questo, per informarsi da soli ci vuole troppo tempo, e la gente non ha tempo perché “deve lavorare”. In altre parole, il lavoro, con i suoi perversi meccanismi per il suo mantenimento, è lo strumento che viene usato dai poteri occulti e dalla politica per poter piegare i cittadini. In tal senso, allora, l’articolo 1 è perfettamente coerente col sistema attuale e allora acquista un senso. La repubblica (massonica) si fonda sul lavoro. In altre parole l’articolo 1 dovrebbe più correttamente essere letto in questo modo:

L’Italia è una repubblica massonica, fondata sul lavoro, e il potere massonico, per mantenersi, ha bisogno di gente che sgobbi 12 ore al giorno senza mai alzare la testa per pensare, altrimenti capirebbe l’inganno in cui la teniamo.

8. Effetti della normativa a tutela dei lavoratori. A questo stato di cose si sono aggiunte le leggi che proteggono il lavoratore a scapito del datore di lavoro. Queste leggi sono l’attuazione dell’articolo 4 della Costituzione, che dice espressamente che “la repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che favoriscono il loro diritto”. Il risultato delle leggi che hanno promosso la condizioni che favoriscono i diritti dei lavoratori è sotto gli occhi di tutti: l’impossibilità per il lavoratore di licenziare in tronco il lavoratore sgradito (anche se ha rubato, se è un nullafacente, ecc.), nonché la nostra demenziale politica fiscale, che ci fa pagare tasse anche per l’aria che respiriamo, hanno prodotto lavoro in nero, stipendi ridicoli, e lo sfruttamento sistematico di intere categorie di lavoratori da parte dei datori di lavoro. Questa normativa ha raggiunto il risultato esattamente contrario a quello programmato dall’articolo 4; infatti danneggia il lavoratore, perché distorce il rapporto di forza tra lavoratori e datori di lavoro. Mi spiego. Il rapporto di lavoro dovrebbe essere basato sulla parità delle parti. Io lavoratore ho bisogno di lavorare per vivere; ma anche tu, datore di lavoro, hai bisogno del lavoratore altrimenti la tua azienda non funziona. Il sistema di leggi che riguardano il mondo del lavoro invece, tassando dissennatamente gli imprenditori, facendo mancare il lavoro ovunque grazie alla crisi, e impedendo il licenziamento arbitrario, ha prodotto come risultato un sistema in cui la gente va a mendicare il lavoro da datori di lavoro che il più delle volte lo concedono come se fosse un favore; favore di cui i lavoratori devono ringraziare, spesso facendosi umiliare pur di non perdere il lavoro, subendo ricatti sessuali e non, ecc. La corruzione nei concorsi pubblici, volta a selezionare non i migliori, ma i più corrotti e i più raccomandati in tutti i settori della vita pubblica, nella magistratura, in polizia, negli enti pubblici, ecc., ha portato come ulteriore conseguenza una classe di lavoratori demotivata; la maggior parte di essi infatti non hanno scelto il lavoro in base alle loro capacità, ma in base ai posti che ha reso disponibile il sistema. Il risultato di questa politica del lavoro durata nei decenni è la perdita di dignità di tutte le categorie di lavoratori, anche di quelle dirigenziali. Ovverosia:

- la maggior parte dei lavoratori fa lavori che non sono adatti a loro;

- la maggior parte dei lavoratori accetta di essere sottopagata;

- la maggior parte dei lavoratori pur di lavorare accetta anche umiliazioni e trattamenti disumani;

- spesso si sente dire “non ho lavoro, quindi non ho dignità”; i valori massonici del lavoro infatti hanno instillato nella gente l’idea che un disoccupato non abbia dignità: a ciò contribuisce anche il demenziale detto, accettato da tutti, che “il lavoro nobilita l’uomo”; brocardo che non so chi l’abbia inventato, ma certamente doveva essere un imbecille.

- poliziotti, carabinieri, magistrati, fanno il loro lavoro non per missione di vita, come dovrebbe essere, ma dando la prevalenza allo stipendio, ai problemi di mobilità, di avanzamento di carriera, ecc.

- i datori di lavoro sono costretti dalla dissennata legislazione italiana ad assumere lavoratori in nero, sottopagarli, ecc.

- Nella massa delle persone si instillano concetti distorti; ad esempio non è raro sentir lodare una persona con la frase “è un gran lavoratore, lavora tutti i giorni anche dodici ore al giorno” come se questo fosse un pregio. E ci si dimentica che chi lavora dodici ore al giorno non ha tempo per i figli, per riflettere, per evolvere. Anche Pacciani, infatti, per dare di sé un’immagine positiva, al processo sul mostro di Firenze disse che era “un gran lavoratore”. Tutto questo sistema fa si che il cittadino sia un docile e remissivo strumento del sistema in cui viviamo, ove la frusta è stata sostituita dallo spauracchio della perdita del lavoro.

9. Considerazioni conclusive e di diritto comparato. In conclusione, la nostra Costituzione è organizzata e strutturata in modo molto abile, per favorire l’illegalità e l’ingiustizia, grazie ai suoi principi e alle sue lacune, difficilmente riscontrabili ad una prima lettura. Tra i vari partiti politici e i costituzionalisti, non mi risulta che nessuno abbia mai rilevato questo stato di cose, ad eccezione della Lega Nord, che nel 1993 aveva fatto una proposta di modifica dell’articolo 1 per cambiarlo in: L’Italia è una repubblica democratica basata sul mercato e sulla solidarietà. Ovviamente la proposta è stata contestata dalla sinistra. Perché si sa. La sinistra è a favore di lavoratori. E infatti il risultato della politica di sinistra si è visto nei pochi anni in cui abbiamo avuto governi di questo colore. Uno sfascio se possibile anche peggiore di quello di destra, perché in effetti il più acerrimo nemico dei lavoratori, in questi decenni, non è stata la destra, ma la sinistra. In compenso, anche la costituzione del Sudafrica è più progredita della nostra, ove il diritto al lavoro non compare, ma compaiono invece la tutela della dignità umana e compare il diritto dei datori di lavoro. In altre parole l’Italia è seconda anche a stati che, culturalmente, in teoria dovrebbero essere più arretrati di noi. L’articolo 1 della Costituzione del Sudafrica (all. 4), molto più avanti del nostro, recita: La costituzione del Sudafrica provvederà all’istituzione di uno Stato sovrano, di una comune cittadinanza sudafricana e di un sistema di governo democratico, mirante a realizzare l’uguaglianza tra uomini e donne e fra genti di tutte le razze. Tra gli stati europei, invece, sarebbe sufficiente citare il caso della Spagna. La Spagna ha in gran parte mutuato dal nostro sistema i principi giuridici più importanti. Tuttavia, non a caso, l’articolo 1 della Costituzione spagnola non fa cenno al lavoro e dichiara di fondarsi – molto più intelligentemente di noi – su libertà, giustizia e uguaglianza. Infatti, mi disse un professore universitario di Lima, che aveva la docenza anche in Spagna, un certo Juan Espinoza Espinoza: in Spagna nessuno si prostituisce per avere un semplice posto da portiere o da cameriere, come da voi. Da voi occorre essere raccomandati anche per avere un lavoro a termine per sei mesi alle poste. Non a caso da loro il lavoro è collocato all’articolo 35, che dice il contrario di quanto dice la nostra Costituzione: tutti i lavoratori spagnoli hanno il dovere di lavorare e il diritto alla libera scelta di una professione o di un mestiere. E non a caso nel campo di concentramento di Auscwitz compariva una scritta all’entrata: arbeit macht frei. Il lavoro rende liberi. Più o meno lo stesso concetto contenuto nell’articolo 1 della nostra Costituzione.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

«Una volta mi ha fatto impressione Galan che mi ha detto che, nelle sue tre legislature alla Regione Veneto, nessuno gli aveva chiesto una raccomandazione, e io mi sono impressionato perchè da noi te lo chiedono ogni secondo. - Lo dice Gianfranco Miccichè, sottosegretario alla Funzione Pubblica, ai microfoni de "La Zanzara" su Radio 24. - Nella mia vita ho fatto un sacco di raccomandazioni, assolutamente sì. Anche alla Regione, in una terra come la Sicilia dove vive una quantità infinita di gente che non campa e ti chiede aiuti di tutti i tipi. Non c’è nulla di male. Quando ho potuto farle – dice Miccichè – l’ho fatto. E poi la raccomandazione – spiega Miccichè – non significa assumere un amico senza merito. Spesso vuol dire aiutare una persona in difficoltà che ritiene di aver subito un torto. Io ho raccomandato quando era possibile solo gente disperata. Non è una questione culturale, chi lo dice è un razzista». Miccichè elogia la raccomandazione: semplifica tutto. Il quasi-ministro per la Pubblica amministrazione e la semplificazione, Gianfranco Miccichè, ha riferito ai giornalisti che l’assediavano – essendo uscito dai “titoli” dei giornali per più di due settimane, era nata qualche preoccupazione – di avere raccomandato molte persone e non c’è alcun motivo per dolersi di questa attività. “Segnalare” calorosamente un amico alla persona giusta non è un peccato mortale né un anacronismo. Anzi. Non ha tessuto l’elogio della raccomandazione, ma è come se l’avesse fatto, scrive “Sicilia Informazioni”. Appena tornato a vele spiegate nel grande giro, grazie alla nomina a sottosegretario voluta da Silvio Berlusconi, Miccichè confessò di avere utilizzato “incentivi” diciamo così non proprio ortodossi per sopravvivere, facendo uso di stupefacenti, lasciando di stucco coloro che non sono abituati agli outing così audaci. La sua franchezza, dunque, è diventata proverbiale. Avendo scelto di dedicarsi alla semplificazione per mestiere, Miccichè ha indicato la strada maestra per sburocratizzare la pubblica amministrazione, magari senza averne piena consapevolezza. È questa la sensazione. La raccomandazione consente di cancellare il farraginoso iter dei concorsi pubblici, le defatiganti gare, aste, bandi, laboriose selezioni di candidati e così via. In un colpo solo, insomma, la metà del lavoro della pubblica amministrazione verrebbe cancellato, facendo guadagnare tempo prezioso a migliaia di burocrati. Da che mondo è mondo, le scoperte che fanno la storia dell’umanità, sono casuali. Anche la Penicillina, per esempio, è stata scoperta per caso, tanto per dire. Si può avere sotto gli occhi o nei pensieri qualcosa o un’idea, e non accorgersi di possedere un inestimabile tesoro da regalare all’umanità. E’ il caso della raccomandazione e di Gianfranco Miccichè? Sinceramente non lo sappiamo. Ma qualche considerazione possiamo spenderla a favore della sua esternazione. Il quasi ministro ha raccomandato più volte ed a più riprese nel corso della sua lunga carriera politica, magari sentendosi in colpa o credendo di trasgredire la stantia morale prevalente, mentre in effetti dava un contributo essenziale alla semplificazione. Ora si tratta di compiere il passo più importante, sdoganare la raccomandazione, cancellare la morale bavosa che la vieta e introdurre la consuetudine nella pubblica amministrazione. In una prima fase ci si può accontentare di raccomandare senza doversene vergognare, in una fase successiva, si può introdurre qualche comma nella normativa vigente. Step by step, insomma. L’elogio della raccomandazione abbatte un autentico tabù della società politica, è un autentico atto rivoluzionario. A differenza dell’uso di droghe, confessato da Miccichè, infatti, il quasi ministro non “si giudica” severamente, confidando nell’etica della responsabilità. Egli sostiene, infatti, che assumersi l’onere di una scelta regala vantaggi maggiori di concorsi e selezioni, evitando che alcuno trucchi le carte o utilizzi procedure che non premiano il merito. Se qualcuno è bravo, lo si capisce abbastanza presto, insomma. Quando si raccomanda qualcuno si risponde della bontà della scelta. Se hai raccomandato un cretino o un disonesto, un incompetente, paghi il fio, se hai sostenuto la candidatura di una persona per bene dotata delle conoscenze idonee per fare quel che deve, ne trai lustro. Tutto alla luce del sole. Se la realtà non fosse dura e arcigna, si sarebbe portati a dargli ragione su tutta la linea. Gianfranco Miccichè è il raccomandato più influente, dopo Angelino Alfano, di Silvio Berlusconi. Avendone combinato di tutti i colori – scissione compresa – possiamo in tutta onestà affermare che l’ex premier ne abbia tratto lustro? Di più: le raccomandazioni di Gianfranco Miccichè non sono state per niente fortunate: dalla Fondazione Federico II di Palermo alle assemblee legislative, ed alla direzione di enti pubblici i “raccomandati” del quasi ministro, non hanno brillato per nulla. Anzi, in qualche caso, sono stati una frana, e sono finiti dritti in galera. Questo dettaglio non inficia la validità della raccomandazione come strumento della semplificazione, ma qualche perplessità la fa sorgere.

E poi c’è quello che non ti aspetti.

Affari dei Templari leghisti Appalti dei Gran Maestri. Contratti con Asl, Pirellone, Comune di Brescia oltre ai ruoli nel partito: così la Suprema Militia piazza parenti e amici, scrive Leonardo Piccini su “Libero Quotidiano”. Chi sono e, soprattutto, quali sono gli scopi che si sono prefissati gli adepti alla organizzazione templare attiva in Lombardia e in tutta Italia, detta la  “Suprema Militia”, composta come abbiamo visto nella prima puntata da uomini politici, prefetti, imprenditori? Persone decise ad assumere le vesti di epigoni del gran maestro Jacques de Molay, seguaci di quei cavalieri dispersi nel quattordicesimo secolo dalle persecuzioni dal Papa e dal re di Francia. A colpire sono soprattutto le implicazioni di rapporti cementati dall’appartenenza a un ambiente iniziatico ed esclusivo tra esponenti della pubblica amministrazione, della politica, dell’economia. In teoria questa “Suprema Militia Equitum Christi” dovrebbe promuovere un percorso, per i suoi adepti che assomiglia molto a un lavoro iniziatico di conoscenza e di approfondimento dei temi principali dell’esistenza, da perseguire mediante la carità, la beneficenza, il servizio ai diseredati. Ma al suo interno si trovano affiliati che si occupano di questioni molto mondane e pratiche: consulenze professionali, incarichi pubblici, politica, imprese, strategie delle multiutility lombarde. Senza contare poi la presenza di chi, per dovere istituzionale, è chiamato a rappresentare lo Stato, non ultimo, il prefetto di Pesaro e Urbino, Attilio Visconti, pronto a vestire i panni di cerimoniere e a occuparsi della formazione degli adepti e dei novizi di una cupola riservata. Ieri Visconti ha spiegato: «Ma quale loggia massonica o associazione segreta: la Suprema Militia Equitum Christi è una onlus che fa beneficenza, non politica. Non ha legami con la Lega, ed elenco degli iscritti e bilanci sono pubblici». Visconti s’è detto «onorato di far parte di questa associazione». Fatto sta che insieme a lui ci sono altri esponenti delle istituzioni, come il vicesindaco di Brescia Fabio Rolfi, l’assessore regionale Monica Rizzi, e il dirigente comunale Marco Antonio Colosio, l’ex consigliere regionale e, ora, vicepresidente dell’Aler bresciana, Corrado Della Torre. E che dire poi della presenza, in un gruppo di duri e puri del cattolicesimo più intransigente, di un massone, come Marco Belardi, il presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Brescia, in forza alla Glri, la Gran Loggia Regolare d’Italia? A suscitare interrogativi è questo mix di rapporti e interessi profani e spirituali, trattati all’ombra di un gruppo coperto e lontano da occhi e orecchie indiscrete. È forse in virtù della comune militanza templare con il vicesindaco leghista, che l’ingegnere Belardi ottiene consulenze ben retribuite dal Comune di Brescia? Nel marzo del 2010, la sua società, la “Intertecnica Group” si vede assegnare un incarico per la ristrutturazione di impianti idrotermo-sanitari di una proprietà comunale; mentre nell’aprile del 2011, sempre la sua “Intertecnica” si aggiudica un incarico di progettazione e direzione lavori nell’area archeologica cittadina del Capitolium. Il vicesindaco Rolfi, da qualche mese anche segretario provinciale della Lega Nord, è censito come cavaliere dell’ordine templare già nel 2009 nella “Commanderia San Gottardo” di Brescia; almeno dallo stesso periodo risulta aver incrociato, a San Gottardo, proprio il “novizio” Marco Belardi, che proprio dall’ottobre del 2009 si insedia nella posizione delicata e prestigiosa di presidente dell’Ordine degli Ingegneri. È forse grazie a questa consorteria così profondamente annidata nel cuore della Lega Nord che Fabio Rolfi, fallito il primo tentativo di sistemare la moglie Silvia Raineri attraverso un concorso pubblico indetto dalla provincia di Brescia, la piazza all’Asl di Milano? Il concorso della provincia di Brescia aveva suscitato un clamore nazionale, perché delle sei vincitrici ben cinque erano leghiste e parenti di esponenti politici leghisti di primo piano del bresciano. Un tale clamore da rendere necessaria una commissione d’inchiesta e da indurre il presidente della provincia Molgora, pure leghista ma estraneo all’ambiente di Rolfi e dei cavalieri, a congelare le assunzioni. Così Rolfi si rivolge prima al gruppo leghista in regione Lombardia, che conferisce a Silvia Raineri un incarico, poi al leghista Giacomo Walter Locatelli, potente direttore generale dell’Asl di Milano: la Rainieri si piazza diciottesima in un concorso per l’assunzione di un solo impiegato, ma viene ugualmente assunta; si dimette dall’incarico in Regione, prende possesso dell’impiego all’Asl, ottiene immediatamente dal direttore generale un’aspettativa e riassume il suo incarico in Regione. C’è poi chi fa notare certe coincidenze: recentemente eletto alla carica di segretario provinciale della Lega Nord, Rolfi affronta il nodo di Montichiari, importante comune della provincia in cui la Lega governa dagli anni 90 e dove ha sofferto, in occasione delle ultime elezioni, una secessione che ha portato fuori dal partito tutto il gruppo dirigente locale, compreso sindaco e vicesindaco. Dopo anni la spaccatura viene ricucita e l’incarico di commissario della sezione leghista di Montichiari, tutt’ora percorsa da forti tensioni, va a Corrado Della Torre, il Grand Commandeur dei cavalieri di San Gottardo dei quali fa parte lo stesso Rolfi. Quel Della Torre che, intervistato da Marta Calcagno, su il Giornale del 09/10/2010, dichiarava che «nell’Ordine dei Templari ci sono vari gradi di cavalleria, che sono immutabili dal 1100. C’è una composizione sociale varia: dal generale dei carabinieri, a professionisti di diversi livelli, sino ad imprenditori e industriali». A San Gottardo non mancava mai un altro abitué del Tempio, il prefetto Attilio Visconti: nato a Benevento il 21 ottobre del 1961, per due anni, dal 1990 al 1992, presta servizio nel Comitato Esecutivo per i Servizi di Informazione e Sicurezza (Cesis). Nel 2006 è trasferito alla Prefettura di Brescia, dove gli viene conferito l’incarico di Capo di Gabinetto. Nel 2007 è chiamato a svolgere il ruolo di commissario straordinario per i Comuni di Offlaga, Travagliato e Borno. Il 12 dicembre del 2007 è nominato viceprefetto Vicario di Brescia. Nel giugno del 2008 è nominato commissario prefettizio del comune di Edolo (il paese di Bruno Caparini, il Gran Baylo dell’ordine templare in cui milita lo stesso Visconti). Poi l’incarico di viceprefetto vicario a Torino, l’arrivo a Caserta e la tanto agognata nomina a Prefetto di Urbino. In molti di questi incarichi, soprattutto in quelli di commissario prefettizio in comuni bresciani, Visconti è sempre accompagnato da due giovani leghisti: il fido Marco Antonio Colosio, presente nell’elenco dei templari bresciani, e l’architetto Franco Claretti, oggi sindaco leghista di Coccaglio, un paesone del bresciano. E  l’amministrazione comunale di Brescia, in cui Fabio Rolfi è vicesindaco e dominatore assoluto, nomina entrambi dirigenti fin dal debutto della giunta di centrodestra. Il capo del gruppo lombardo è Bruno Caparini, cofondatore assieme a Bossi della Lega e attuale membro del consiglio di sorveglianza di A2A. Di lui, fino a poco tempo fa, Monica Rizzi, assessore regionale allo Sport (una adepta della loggia templare fino all’anno scorso, espulsa, forse, per la vicenda della finta laurea in psicologia, più credibilmente per incompatibilità con l’ambiente e gli altri cavalieri leghisti, ormai di stretta osservanza maroniana), conservava una foto in assessorato: abito nero con mantello bianco e croce templare rossa sul cuore, spada Carlo V e decorazione dell’ordine appesa al collo. Questa è la divisa del cavaliere della Suprema Militia.

Ed in fatto di mafia c’è qualcuno che la sa lunga. «Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me….Mi hanno fatto arrestare Provenzano e Ciancimino, non come dicono, i carabinieri……Di questo papello non ne sono niente….Il pentito Giovanni Brusca non ha fatto tutto da solo, c'è la mano dei servizi segreti. La stessa cosa vale anche per l'agenda rossa. Ha visto cosa hanno fatto? Perchè non vanno da quello che aveva in mano la borsa e si fanno consegnare l'agenda. In via D'Amelio c'erano i servizi……. Io sono stato 25 anni latitante in campagna senza che nessuno mi cercasse. Com'è possibile che sono responsabile di tutte queste cose? La vera mafia sono i magistrati e i politici che si sono coperti tra di loro. Loro scaricano ogni responsabilità  sui mafiosi. La mafia quando inizia una cosa la porta a termine. Io sto bene. Mi sento carico e riesco a vedere oltre queste mura……Appuntato, lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell'area andreottiana da sempre». Le confidenze fatte da Toto Riina, il capo dei capi, sono state fatte in due diverse occasioni, a due guardie penitenziarie del Gom del carcere Opera di Milano. Il dialogo tra polizia penitenziaria e l'ex numero uno della mafia, è avvenuto lo scorso 31 maggio 2013, durante la pausa di un'udienza alla quale il boss partecipava in teleconferenza. Queste frasi sono contenute in una relazione di servizio stilata dagli agenti del Gom, il gruppo speciale della polizia penitenziaria che si occupa della gestione dei detenuti eccellenti. La relazione è stata inviata ai magistrati della Procura di Palermo che si occupano della trattativa Stato-mafia, Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.

La legge forse è uguale per tutti, le toghe certamente no. Ci sono quelle buone e quelle cattive. Ci sono i giudici e i pm da una parte e gli avvocati dall'altra. Il Ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri al convegno di Confindustria del 2 luglio 2013 risponde senza peli sulla lingua alla domanda del direttore del Tg de La7 Enrico Mentana , su chi sia al lavoro per frenare le riforme: «gli avvocati... le grandi lobby che impediscono che il Paese diventi normale». Così come è altrettanto diretta quando Mentana le chiede se nel governo c’è una unità di intenti sulla giustizia: «non c’è un sentimento comune, o meglio c’è solo a parole», dice, spiegando che «quando affrontiamo il singolo caso, scattano i campanilismi e le lobby». Magari ha ragione lei. Forse esiste davvero la lobby degli azzeccagarbugli, scrive Salvatore Tramontano su “Il Giornale”. Ogni categoria fa nel grande gioco del potere la sua partita. Non ci sono, però, solo loro. Il Guardasigilli, ex Ministro dell’Interno ed ex alto burocrate come ex Prefetto non si è accorto che in giro c'è una lobby molto più forte, un Palazzo, un potere che da anni sogna di sconfinare e che fa dell'immobilismo la sua legge, tanto da considerare qualsiasi riforma della giustizia un attentato alla Costituzione. No, evidentemente no.

Oppure il ministro fa la voce grossa con le toghe piccole, ma sta bene attenta a non infastidire i mastini di taglia grossa. La lobby anti riforme più ostinata e pericolosa è infatti quella dei dottor Balanzone, quella con personaggi grassi e potenti. È la Lobby ed anche Casta  dei magistrati. Quella che se la tocchi passi guai, e guai seri. Quella che non fa sconti. Quella che ti dice: subisci e taci. Quella che non si sottopone alla verifica pisco-fisica-attitudinale. Quella vendicativa. Quella che appena la sfiori ti inquisisce per lesa maestà. È una lobby così minacciosa che perfino il ministro della Giustizia non se la sente neppure di nominarla. Come se al solo pronunciarla si evocassero anatemi e disgrazie. È un'ombra che mette paura, tanto che la sua influenza agisce perfino nell'inconscio. Neanche in un fuori onda la Cancellieri si lascia scappare il nome della gran casta. È una censura preventiva per vivere tranquilli. Maledetti avvocati, loro portano la scusa. Ma chi soprattutto non vuole riformare la giustizia in Italia ha un nome e un cognome: magistratura democratica. Quella delle toghe rosse. Dei comunisti che dovrebbero tutelare i deboli contro i potenti.

Ma si sa in Italia tutti dicono: “tengo famiglia e nudda sacciu, nudda vidi, nudda sentu”.

Non è la prima volta che il Consiglio superiore della magistratura deve occuparsi del caso Esposito, scrive Emanuela Fontana su “Il Giornale” . Il giudice della Cassazione che ha presieduto il collegio che ha condannato Silvio Berlusconi, e che in un'intervista bomba al Mattino ha spiegato le ragioni della sentenza prima che ne siano state depositate le motivazioni, era stato interrogato per ben due volte in qualità di «imputato» in altrettanti procedimenti disciplinari a suo carico.

 

Vicende finite con l'assoluzione, ma che hanno visto comunque il magistrato ora nell'occhio del ciclone nella scomoda posizione di difendersi di fronte all'organo di controllo delle toghe.

In uno dei due procedimenti, ricorda adesso con Il Giornale uno dei membri della sezione che si era occupata di questo caso, la posizione del giudice fu «in bilico e la sentenza molto combattuta». Le accuse si chiusero comunque, va ribadito, con un nulla di fatto. Furono rivolte tutte a Esposito alla fine degli anni 90, quando era pretore a Sala Consilina, e riguardavano una serie di questioni, da un incarico extra-lavorativo del magistrato, con un presunto utilizzo improprio degli uffici giudiziari, a una presunta minaccia nei confronti di un cancelliere, passando per accuse di «protagonismo». Le tracce di questo percorso che si è incrociato più volte con il giudizio del Csm sono ora decriptabili grazie alla raccolta di file audio e video di Radio Radicale.

Il 18 settembre del '98, dunque, Antonio Esposito viene ascoltato in qualità di imputato al Csm per rispondere di tre questioni. Il segretario magistrato lo accusava di aver «gravemente mancato ai propri doveri rendendosi immeritevole della fiducia di cui il magistrato dovrebbe godere». Prima di tutto perché in qualità di consigliere pretore dirigente della pretura circondariale di Sala Consilina aveva celebrato nel '91 un procedimento penale contro Maria Pia Moro per interruzione di pubblico servizio «senza che tale procedimento fosse compreso tra quelli a lui assegnabili».

I colleghi lo accusavano del desiderio di «coltivare la propria immagine» attraverso un processo celebre che avrebbe attirato «gli organi di informazione». Nella relazione si parla anche di «spirito di protagonismo» («Non protagonismo, ma assunzione di responsabilità», era stata la replica di Esposito). La seconda accusa riguardava la concessione a «un messo comunale di frequentare gli uffici della sede distaccata di Sapri», e di avere le chiavi di ingresso come «uomo di fiducia» di Esposito, per il quale effettuava «vari servizi», come il «trasporto suo e dei familiari», consegna di spese e recapito della corrispondenza.

La terza accusa era la meno facile da controbattere: il Csm chiedeva conto a Esposito della sua attività e del suo ruolo «di estremo rilievo» divenendo il «gestore di fatto», dell'Istituto superiore di studi socio-pedagogici di Sapri. Il «dottor Esposito», proseguiva il segretario magistrato, era stato autorizzato a «svolgere un incarico gratuito» di docente in materie giuridico che invece «veniva retribuito». Non solo: «Utilizzava il personale della sezione distaccata di Sapri per la battitura di tesi attinenti al corso». Il capitano della compagnia dei carabinieri di Sapri, Ferdinando Fedi, testimoniò al Csm che «il dottor Esposito era quasi sempre reperibile presso la sede dell'Ispi». Altro appunto: Esposito era intervenuto varie volte sulle tv locali «per reclamizzare l'istituto di cui fino a poco tempo addietro era presidente sua moglie».

Dell'altro procedimento disciplinare il Csm si è occupato nel 99. In questo caso Esposito era stato accusato dai collaboratori di Sala Consilina di aver pronunciato nel 94 «espressioni minacciose». Questa la frase oggetto del processo: «Se mi va bene una certa cosa vi devo spezzare le gambe a tutti quanti» all'indirizzo di un cancelliere. Parlando così, Esposito «violava i doveri professionali di correttezza e di rispetto». Il processo era partito dopo gli accertamenti del presidente del tribunale di Sala Consilina.

PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.

I tratti giovanili e insieme antichi del sostituto procuratore generale della Cassazione Antonello Mura non si scompongono nel momento del successo, scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Professionale, s'intende. Quando il presidente della Corte Antonio Esposito la sera del 1 agosto 2013 legge nel dispositivo le parole «annulla limitatamente alla statuizione della condanna accessoria» e subito dopo «rigetta nel resto», è chiaro che ha vinto il rappresentante dell'accusa. Ma lui non lo dà a vedere. Non tradisce emozioni. Davanti a cinque giudici chiamati «supremi» perché oltre loro la giustizia umana non è previsto che vada, ha prevalso la tesi che Mura - per conto del suo intero ufficio, come ha ripetuto più volte nella requisitoria - ha sostenuto nella causa numero 27884/13 iscritta al ruolo con il numero 8, contro «Berlusconi Silvio +3». «Nessuno dei motivi di ricorso sulla configurazione del reato e sulla colpevolezza degli imputati ha fondamento giuridico» aveva detto con tono pacato in quattro ore di intervento, dopo l'ormai famosa premessa sulle «passioni e le aspettative di vario genere» che dovevano rimanere fuori dall'aula del «palazzaccio». Le ha lasciate fuori lui e le hanno lasciate fuori i giudici della sezione feriale della Cassazione, un collegio di magistrati istituito con criteri casuali nel mese di maggio, ancor prima che arrivasse il ricorso di Berlusconi contro la condanna a 4 anni di carcere nel processo chiamato «Mediaset». Dopodiché, di fronte alle carte di quella causa e alle ragioni esposte da accusa e difesa, i giudici hanno preso la loro decisione. Sulla base del dispositivo letto ieri sera dal presidente Esposito si può ben dire che hanno aderito quasi per intero all'impostazione della Procura generale. Tranne che su un punto: la rideterminazione dell'interdizione dai pubblici uffici, stabilita in cinque anni dalla Corte d'appello. Dovevano essere tre, aveva detto la Procura generale, perché deve applicarsi la legge speciale del 2000 anziché la norma generale; un ricalcolo che poteva fare direttamente la Cassazione, secondo il pg Mura, mentre la Corte ha ritenuto di non averne il potere. Perciò rispedirà il fascicolo a Milano, insieme alle motivazioni, affinché una nuova sezione della Corte d'appello si pronunci «limitatamente alla statuizione della pena accessoria». Per il resto le sentenze di primo e secondo grado, da considerarsi nel loro insieme, non presentavano vizi tali da farle annullare; l'aveva sostenuto l'accusa e l'ha ribadito la Corte, a dispetto dei 47 motivi di presunta nullità presentati dagli avvocati Franco Coppi e Niccolò Ghedini. Non sul piano della procedura, che è stata rispettata; non sul piano della efficacia probatoria, ché gli elementi a fondamento della condanna si sono rivelati coerenti e ben motivati; non sul piano del diritto, dal momento che i reati contestati erano quelli che bisognava contestare. Ogni altra valutazione non competeva ai giudici di legittimità. Il nocciolo del giudizio riguardava il secondo gruppo di lamentele avanzate dalla difesa: sotto il presunto «vizio di motivazioni» gli avvocati avevano ribadito che non c'era la prova che Berlusconi fosse colpevole di frode fiscale, poiché dal 1994 non riveste più cariche all'interno della Fininvest e di Mediaset e non si poteva condannarlo col criterio del «non poteva non sapere» ciò che facevano i suoi sottoposti. Anche il professor Coppi, aggregato dall'ex premier per quest'ultimo passaggio giudiziario, aveva insistito sulle «prove travisate» e mancanti, sul diritto di difesa negato, prima di immaginare un diverso tipo di reato. Ebbene, secondo i giudici tutto questo non è vero. I dibattimenti di primo e secondo grado si sono svolti nel rispetto delle regole del «giusto processo» e la responsabilità del proprietario di Fininvest e Mediaset non è legata al «non poteva non sapere», bensì al riscontro di una partecipazione diretta al sistema illecito individuato nelle sentenze di condanna. «Vi è la piena prova, orale e documentale che Berlusconi abbia direttamente gestito la fase iniziale dell'enorme evasione fiscale realizzata con le società off shore» aveva decretato la Corte d'appello. E dopo la cessazione dalle cariche sociali aveva affidato il sistema di cui continuava ad essere dominus, persone di sua stretta fiducia, che rispondevano solo a lui. Ora la Cassazione ha stabilito che i giudici di merito sono giunti a queste conclusioni senza violare alcuna norma di legge, senza contraddizioni o illogicità. Con «motivazioni solide», aveva detto il pg. Nemmeno il fatto che altri due giudici, a Roma e Milano, su questioni simili avessero prosciolto l'ex premier con sentenze confermate in Cassazione significa che in questo processo si dovesse giungere alle stesse conclusioni. «Sono decisioni che non toccavano la questione centrale di questo processo» secondo il pg e così deve aver ritenuto la corte. che non poteva sconfinare nella rivalutazione dei fatti. La sentenza è arrivata dopo oltre sette ore di discussione, nelle quali i cinque giudici «feriali» si sono confrontati per giungere a una conclusione che - vista con gli occhi della premessa condivisa anche dagli avvocati difensori, tranne Ghedini che non riusciva a staccarsi dalle «passioni» - sembra sancire una volta di più l a cosiddetta «autonomia della giurisdizione». E considerato chi l'ha pronunciata, si presta poco alle abituali letture sulla magistratura politicizzata, condizionata da questo o quel colore.

«Non farò la fine di Bettino Craxi». «Non mi faranno finire come Giulio Andreotti». Negli ultimi mesi, con frequenza significativa, Silvio Berlusconi esorcizzava il pantheon tragico dei suoi predecessori della Prima Repubblica tritati dalla macchina della giustizia, scrive Massimo Franco, sempre su “Il Corriere della Sera”. E senza volerlo, né saperlo, accostava la propria sorte alla loro. Il primo, ex premier socialista, morto contumace o esule, secondo i punti di vista, in Tunisia; il secondo, democristiano, assolto per alcuni reati e prescritto per altri dopo processi lunghi e tormentati. Ma comunque liquidato politicamente. Il ventennio berlusconiano cominciò all'inizio della loro fine. E adesso può essere archiviato da una sentenza della Corte di cassazione che conferma una condanna per frode fiscale e dilata il vuoto del sistema politico: un cratere di incertezza più profondo di quello lasciato dalla fine della Guerra Fredda. Puntellare la tregua politica sarà meno facile. Anche se tutti sanno che i problemi rimangono intatti e non esiste un'alternativa al governo di larghe intese di Enrico Letta. Il tentativo di stabilizzazione dell'Italia vacilla dopo un verdetto che riconsegna, irrisolto, il problema dei rapporti fra politica e magistratura. Mostra entrambe impantanate in una lotta che ha sfibrato il Paese; e che si conclude con una vittoria dei giudici dal sapore amaro: se non altro perché allunga un'ombra di precarietà su un'Italia bisognosa di normalità. E poi, una parte dell'opinione pubblica tende a percepire Berlusconi come una vittima e la sentenza rischia di accentuare questa sensazione: il tono del videomessaggio di ieri sera a «Porta a porta» è studiato e esemplare, in proposito. Certamente, non si tratta più del Cavaliere in auge che sugli attacchi e sugli errori altrui mieteva consensi e potere; che risorgeva da ogni sconfitta e sentenza sfavorevole per riemergere più agguerrito di prima, a farsi beffe della sinistra e dei «magistrati comunisti». Non è il Berlusconi del contratto con gli italiani stipulato davanti alle telecamere né il leader colpito in faccia da una statuetta scagliata da un fanatico nel dicembre del 2009 dopo un comizio in piazza Duomo, a Milano, che si issava sanguinante sul predellino dell'auto come per gridare: «Sono invincibile». Stavolta c'è un signore appesantito dagli anni, che ha perso oltre sei milioni di voti alle elezioni di febbraio e che lotta per la sopravvivenza. Continuando a inanellare sbagli, la sinistra gli ha dato un altro vantaggio nelle elezioni per il Quirinale. E non è escluso che la sentenza della Cassazione gli regali un ultimo, involontario aiuto. Ma la corsa è diventata affannosa da tempo. Da un paio d'anni, da quando l'illusione del berlusconismo «col sole in tasca» si è trasformato nell'incubo di un'Italia immersa nella crisi finanziaria e economica, la sua lotta ha velato il tentativo di salvarsi dai processi; e l'incapacità di liberarsi del passato e di preparare una nuova classe dirigente. Le immagini di Palazzo Grazioli, la sua residenza romana, ieri sera davano l'idea del bunker nel quale si discuteva l'ultima battaglia. Un'offensiva segnata stavolta dalla disperazione e dall'esasperazione, però, senza più certezze di vittoria. Il governo e la sua maggioranza anomala sono in attesa di sapere che cosa succederà: sebbene Berlusconi sappia che difficilmente potrebbe nascere una coalizione meno ostile al centrodestra; anzi, forse non ne potrebbe nascere nessuna. Fosse stato il 2008, anno della vittoria più trionfale, avrebbe messo in riga tutti in un amen. Ora non più: le tribù berlusconiane sono in lotta e lui fatica a tenerle unite. A frenare l'impatto della sentenza non basta l'annullamento della parte che riguarda la sua interdizione dai pubblici uffici, sulla quale dovrà pronunciarsi di nuovo la Corte d'appello di Milano. Né è stato sufficiente il capovolgimento della strategia processuale, attuato dal professor Franco Coppi: il tentativo tardivo di difendere Berlusconi nel processo e non dal processo, come avevano fatto i suoi legali eletti in Parlamento. L'impressione è che, accusando la magistratura di perseguitarlo, il Cavaliere abbia alimentato senza volerlo quello che chiama «l'accanimento» della Procura; e spinto la Cassazione a confermare le sue responsabilità senza grandi margini di interpretazione. Il contraccolpo che si teme è quello di radicalizzare le posizioni nel Pdl e nel Pd, nonostante i richiami del Quirinale a guardare avanti. Le opposizioni urlano di gioia, pregustando la destabilizzazione. Ma bisogna capire se nel centrodestra l'urto di chi vuole una crisi prevarrà davvero sul tentativo dell'ex premier di «tenere» su una linea di responsabilità. E, sul versante opposto, se il Pd resisterà o no alla pressione di quella sinistra che non ha mai digerito un'alleanza in nome dell'emergenza. Il videomessaggio diffuso da Berlusconi fornisce scarsi indizi. Sembra il sussulto drammatico di un leader che lega le vicende di Tangentopoli del 1992-93 alle proprie, additando una parte della magistratura come «soggetto irresponsabile». I fantasmi del passato lo tallonano, mettendogli in tasca non raggi di sole ma presagi di umiliazione. Lui reagisce promettendo il miracolo dell'ultima rivincita. Evoca Forza Italia e la ripropone per le elezioni europee del 2014. Ma è un ritorno al 1994: la parabola di un ventennio.

Vent'anni di persecuzione continua.

Cambiano accuse e processi, ma l'obiettivo della Procura di Milano è sempre lo stesso: il berlusconismo e l'impero del Cav, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. E pensare che sarebbe bastato poco. Forse un po' di pazienza in più da parte di Silvio Berlusconi. Forse qualche oscillazione nei misteriosi, delicati equilibri di potere che governano la Procura milanese. Quattordici anni fa, la pace che avrebbe cambiato la storia del paese era a portata di mano: e non si sarebbe arrivati alla sentenza di oggi. Una domenica di maggio del 1999 Berlusconi salì nell'ufficio del pubblico ministero Francesco Greco e ci rimase tre ore. Con Greco e il suo collega Paolo Ielo si parlò ufficialmente di una accusa di falso in bilancio. Ma era chiaro a tutti - e il procuratore capo Gerardo D'Ambrosio lo rese esplicito - che quell'incontro era il segno di un tentativo di dialogo. Berlusconi faceva alcune ammissioni, concedeva - e lo mise per iscritto in una memoria - che l'«espansione impetuosa» del suo gruppo poteva avere creato «percorsi finanziari intricati». La Procura si impegnava ad evitare accanimenti, e a trattare Berlusconi alla stregua di qualunque altro imprenditore: con la possibilità di fuoriuscite soft come quelle concesse al gruppo Fiat. Sarebbe interessante capire ora, a distanza di tanti anni, dove si andò a intoppare il dialogo. Sta di fatto che rapida come era emersa, la strada si arenò. Il partito della trattativa si arrese. E riprese, violento come prima e più di prima, lo scontro senza quartiere. Da una parte un gruppo inquirente che ha dimostrato di considerare Berlusconi, nelle multiformi incarnazioni dei suoi reati, all'interno di quello che può in fondo essere letto come un unico grande processo, come la sintesi dei vizi peggiori dell'italiano irrispettoso delle leggi: il berlusconismo, insomma, come autobiografia giudiziaria della nazione. Dall'altra, il Cavaliere sempre più convinto di avere di fronte un potere fuori dalle regole, dalla cui riduzione ai binari della normalità dipende la sua stessa sopravvivenza. Da vent'anni Berlusconi e la Procura di Milano pensano che l'Italia sia troppo piccola per tutti e due. Ma da dove nasce, come nasce, questa contrapposizione insanabile? L'apertura formale delle ostilità ha, come è noto, una data precisa: 22 novembre 1994, data del primo avviso di garanzia a Berlusconi. Ma la marcia di avvicinamento inizia prima. Inizia fin dalla prima fase di Mani Pulite, quando il bersaglio grosso della Procura milanese è Bettino Craxi. E, passo dopo passo, i pm si convincono che Berlusconi - che pure con le sue televisioni tira la volata all'inchiesta - è la vera sponda del «Cinghialone», il suo finanziatore e beneficiario. Chi c'è dietro All Iberian, la misteriosa società che nell'ottobre 1991 versa quindici miliardi di lire a Craxi, e riesce anche a farsene restituire cinque? Dietro questa domanda, che diventa strada facendo una domanda retorica, i pm lavorano a dimostrare la saldatura tra Craxi e Berlusconi. Quando nell'aprile 1994 Berlusconi diventa presidente del Consiglio, per il pool la vicinanza Craxi-Berlusconi diventa anche continuità politica, perché da subito la battaglia craxiana contro il potere (o strapotere) giudiziario diventa uno dei cavalli di battaglia del nuovo premier. Dal Quirinale viene messo il veto alla nomina di Cesare Previti a ministro della Giustizia. Ma al ministero va Alfredo Biondi, che di lì a poco vara il decreto subito etichettato come «salva ladri», ritirato a furor di popolo dopo il pronunciamento del pool in diretta tv. È da quel momento che lo scontro compie il salto di qualità. Per la Procura milanese non c'è differenza sostanziale tra il Berlusconi imputato e il Berlusconi politico, perché il secondo è funzionale al primo: come dimostreranno poi le leggi ad personam, e, più di recente, la telefonata salva-Ruby alla questura di Milano. Le inchieste che si susseguono in questi vent'anni stanno tutte in questo solco, dentro la teoria della «capacità a delinquere» che diverrà uno dei passaggi chiave della sentenza per i diritti tv. Sotto l'avanzare degli avvisi di garanzia, Berlusconi si irrigidisce sempre di più, come ben racconta l'evoluzione delle strategie difensive: da un professore pacato come Ennio Amodio si passa all'ex sessantottardo Gaetano Pecorella, poi si approda alla coppia da ring, Niccolò Ghedini e Piero Longo. Le dichiarazioni di sfiducia di Berlusconi verso la serenità della giustizia milanese si fanno sempre più esplicite. Per due volte, nel 2003 e nel 2013, il Cavaliere chiede che i suoi processi siano spostati a Brescia, sotto un clima meno ostile. Per due volte la Cassazione gli dà torto. Eppure, fino alla condanna definitiva di oggi, nessuno dei processi era arrivato ad affossare Berlusconi. Assoluzioni con formula piena, prescrizioni, proscioglimenti. Il catalogo dei modi in cui l'asse Ghedini-Longo riesce a tenere l'eterno imputato al riparo da condanne definitive è ricco. Una parte nasce da leggi varate per l'occasione, ma altre assoluzioni danno atto dell'inconsistenza di accuse che la Procura riteneva granitiche. La si potrebbe leggere come una prova della tenuta di fondo del sistema giudiziario, dei contrappesi tra pubblici ministeri e giudici? Berlusconi non la pensa così. E la severità delle ultime sentenze, i giudizi sferzanti dei tribunali del caso Unipol, la batosta del risarcimento a De Benedetti, la decisione dei giudici del processo Ruby 2 di candidarlo a una nuova incriminazione per corruzione in atti giudiziari lo avevano già convinto definitivamente che la contiguità tra pm e giudici era arrivata livelli intollerabili. Guardia di finanza, All Iberian, Mills, Sme, Lodo Mondadori, diritti tv, Mediatrade, Ruby, il rosario delle pene giudiziarie del Cavaliere a Milano sembra interminabile. Cambiano i procuratori, cambiano alcuni dei pubblici ministeri, ma la linea non cambia. Eppure questa è la Procura dove due magistrati di spicco del pool, Antonio Di Pietro e Gerardo D'Ambrosio, hanno detto a posteriori di non avere condiviso la decisione dell'avviso di garanzia del 1994 (il procuratore Borrelli replicò a Di Pietro pacatamente, «Ha detto così? Beh, se si presenta in Procura lo butto giù dalle scale»). È la Procura dove, con Romano Prodi al governo, Francesco Greco andò a un convegno di Micromega ad accusare il centrosinistra, «questi fanno quello che neanche Forza Italia ha osato fare». È insomma la Procura dove la parte più pensante si rende conto che l'insofferenza di Berlusconi verso la magistratura è in fondo l'insofferenza di tutta la politica verso il potere giudiziario, e che non è affatto sicuro che il dopo Berlusconi porti alle toghe spazio e prebende. Ma per adesso lo scontro è con lui, con il Cavaliere. E i pochi giudici che in questi anni hanno disertato, in corridoio venivano guardati storto.

BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?

"Ci è stato negato il diritto di difenderci". L'avvocato Ghedini che assiste Berlusconi da 16 anni: "Superato ogni limite Ascoltati soltanto i testi dei pm, a noi ne hanno concessi appena 6", scrive Patricia Tagliaferri  su “Il Giornale”. Avrebbe voluto parlare di più, almeno tre o quattro ore, ma l'invito del presidente Antonio Esposito a stringere i tempi lo ha spinto ad essere più breve. Veloce ma ugualmente efficace nel cercare di convincere i giudici della Cassazione che nel tessuto della sentenza della Corte d'Appello di Milano sui diritti Tv Mediaset «manca la prova che Berlusconi abbia partecipato al reato». Comincia da qui l'arringa dell'avvocato Niccolò Ghedini. Un processo che è diventato il «suo incubo notturno», senza un solo elemento probatorio contro il Cavaliere, condizionato dai tempi della prescrizione e dove sarebbero stati violati i diritti della difesa. E al pg Antonio Mura che martedì aveva chiesto di lasciare fuori dall'aula le passioni replica che è d'accordo con lui, ma che per gli avvocati non vale: «Nel nostro mestiere le passioni ci devono accompagnare». «Ci stato negato il diritto alla prova - attacca Ghedini - c'è un limite all'applicazione del codice ma in questa storia è stato ampiamente superato. Sono 16 anni che difendo il Cavaliere, sicuramente troppi, e da sempre sento dire che dobbiamo difenderci nel processo e non dal processo. Ma come facciamo a difenderci nel processo con il Tribunale che mi dice di concordare con il pm le domande per i testi?». Si sofferma a lungo sui testimoni negati, ridotti dai 171 richiesti inizialmente ai 6 effettivamente sentiti in 100 udienze, per di più comuni alle altre difese, mentre quelli della Procura sono stati citati dal primo all'ultimo. Ghedini ammette che inizialmente la loro lista testi fosse effettivamente «un po' entusiastica», ma poi quei nomi sono stati ridotti su invito dei giudici a 76. Eppure non è bastato. «Ce ne hanno concessi prima 22 - spiega il legale - poi 14, salvo dirci che erano lontani dal nucleo essenziale della questione. Ma come si fa a dire che David Mills o i dirigenti Mediaset che nel 2003 e nel 2004 si erano occupati degli ammortamenti fossero lontani dal nucleo dell'imputazione? E come è possibile non voler sentire i dirigenti della major? Gli unici testimoni ascoltati sulle asserite società fittizie hanno detto di aver sempre operato con il gruppo, quindi hanno smontato la tesi accusatoria e infatti non vengono neppure citati nelle sentenze». C'è poi il capitolo sulla responsabilità soggettiva di Berlusconi e qui la memoria deve tornare a quelle due sentenze «dimenticate», una proprio della Cassazione, in cui si esclude che l'ex premier avesse responsabilità nella gestione di Mediaset negli anni '90 e si afferma che fosse l'azienda a decidere gli ammortamenti. «Stavolta il concetto usato dall'accusa è stato più raffinato del non poteva non sapere - sostiene Ghedini - è stato detto che un buon imprenditore come Berlusconi non poteva non avvedersi che i ricavi erano gonfiati». La ricostruzione del Pg («Efficace e fantasiosa in alcune soluzioni tecnico giuridiche») viene contestata punto per punto. «Il pg - sostiene Ghedini - ha detto che per Berlusconi ci sarebbero state attività ulteriori oltre alla fatturazione. Quindi mi sarei aspettato delle integrazioni rispetto alle motivazioni della Corte d'Appello, in cui non c'è nulla a riguardo. Integrazioni che non ci sono state perché non ci sono attività ulteriori oltre la fatturazione». Le ultime parole sono per il ruolo di International Media Service, una delle società considerate scatole vuote. «Il pg non ha affrontato questo tema perché era il più debole. Ims era una società consolidata, che ha versato fino all'ultimo centesimo gli utili alla capogruppo e che aveva costi bassissimi. Faccio fatica a capire come possa essere considerata fittizia».

I fatti, così come li racconta Franco Coppi nell'aula Brancaccio della Cassazione, sono di una semplicità disarmante, scrive Anna Maria Greco su “Il Giornale. Silvio Berlusconi non è colpevole di frode fiscale: il reato non c'è com'è stato configurato nelle due sentenze che lo hanno portato all'ultimo grado di giudizio, perché riguardano un comportamento «non penalmente rilevante». Con un'arringa che fa capire, anche ai più digiuni di diritto, perché merita appieno il titolo di principe dei cassazionisti, il legale del Cavaliere chiede l'annullamento della pronuncia d'appello, «frutto di un pregiudizio cementato dal collante del cui prodest» e di un «abnorme travisamento della prova», per descrivere il leader del Pdl come «il dominus di una catena truffaldina», mentre non gestiva più il suo impero dalla discesa in politica del '94 ( come dimostrerebbero altre sentenze, Mills e Mediatrade, mai acquisite). Solo in subordine, Coppi chiede l'annullamento con rinvio alla Corte d'appello: se la sua tesi non venisse accolta il reato di frode fiscale andrebbe derubricato in quello di false fatturazioni. La pena sarebbe più bassa e, per i termini ridotti di prescrizione, sarebbe già estinto o a rischio di estinzione. «Berlusconi doveva essere assolto già in primo grado - dice l'avvocato - le prove sono state travisate e i fatti che gli vengono contestati non sono di rilevanza penale». Il professore parla con uno tono sempre misurato e più che rispettoso della corte, spesso si scusa per le ripetizioni di tesi già espresse dagli altri legali. Comincia a parlare alle 17 e 30, dopo Niccolò Ghedini e per oltre due ore inaugura, nella difesa di Berlusconi, uno stile tutto nuovo: spiega con garbo, argomenta con rigore, analizza, documenta e smonta le accuse con motivazioni che appaiono più che convincenti. Premette, citando il giurista Francesco Carrara, che «quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra». È solo con le ragioni del diritto che Coppi vuole vincere. Così, se nella prima parte dell'arringa entra nel merito delle sentenze, sempre sul piano della legittimità, nella seconda tira fuori l'asso nella manica e, con il sorriso sulle labbra, distrugge alla radice la ragione stessa del processo. In punta di diritto, il professore afferma che per questi fatti si poteva parlare semmai di «abuso di diritto» con finalità di «elusione» delle tasse, cioè solo di un illecito amministrativo e tributario. Che potrebbe avere conseguenze penali in una precisa circostanza qui assente: il contrasto con una disposizione antielusiva. Per Coppi, della legge 74 del 2000 sui reati tributari, va preso in considerazione l'articolo 2 (dichiarazione infedele) e non il 4 ( dichiarazione fraudolenta), com'è stato fatto per la condanna di Berlusconi. «Siamo fuori - spiega - dall'ambito di applicazione dell'articolo 2 e della frode fiscale, che comporta fatture per operazioni inesistenti». Quelle per l'acquisto di diritti tv, sono invece operazioni reali, di società «non fittizie», con pagamenti «fatturati» e un rincaro di prezzo «giustificato». Cambia, dunque, la loro stessa «fisionomia». L'avvocato cita diverse sentenze della Cassazione civile, sezione tributaria, oltre a pronunce delle Sezioni Unite e verdetti come quello per gli stilisti Dolce e Gabbana. Alla sezione feriale, presieduta da Antonio Esposito che come gli altri segue con massima attenzione ogni sua parola, offre la possibilità di scrivere una pagina nuova nella giurisprudenza della Suprema Corte traendo conclusioni già implicite negli altri pronunciamenti.

L'avvertimento di Craxi a Berlusconi ai primi tempi dell'esilio ad Hammamet: "La macchina giudiziaria agirà anche contro di te", scrive Stefania Craxi su “Il Giornale”. L'avvertimento di mio padre a Berlusconi («La macchina giudiziaria agirà anche contro di te») risale ai primi tempi del suo esilio ad Hammamet. Craxi era rimasto molto impressionato dall'avviso di garanzia recapitato a Berlusconi, allora presidente del Consiglio, direttamente a Napoli dove stava presiedendo una conferenza internazionale sulla criminalità. Assurda l'accusa, ma ancora più straordinarie le modalità della consegna. L'avviso di garanzia fu infatti pubblicato a tutta pagina dal Corriere della Sera, e portato a conoscenza dell'allora capo dello Stato, Oscar Luigi Scalfaro, prima ancora di essere consegnato all'interessato. Craxi voleva capire. Voleva capire chi avesse dato il via alla Procura di Milano per l'attacco al Psi e agli altri partiti storici della democrazia italiana. Che Mani Pulite fosse una iniziativa del procuratore Borrelli, non lo credeva, e non lo avrebbe creduto nemmeno un bambino. Pensava che dietro alla Procura di Milano ci fossero i soldi che sempre accompagnano i sommovimenti politici. C'erano i soldi dietro Guglielmo Giannini e l'Uomo Qualunque, fin quando De Gasperi persuase l'allora presidente della Confindustria Cicogna a tagliare i finanziamenti; c'erano i soldi dietro Tambroni; recentemente, chissà se c'erano i soldi dietro il tentativo di Gianfranco Fini di disarcionare Berlusconi? Mio padre si arrovellava per capire l'origine dello tsunami che aveva distrutto la democrazia in Italia, e ora che la giustizia politicizzata si era rimessa in moto, avvertiva Berlusconi, facile profeta, dei guai che lo attendevano: «C'è un vero e proprio piano al massacro che procede con gradualità e per linee convergenti ma che ha al fondo un obiettivo, uno e uno solo, e cioè Silvio Berlusconi». È un vero scandalo che a più di vent'anni dai fasti di Mani Pulite non esista ancora non dico un libro, ma almeno un saggio che scavi a fondo la verità di Tangentopoli; è un vero scandalo che la giustizia politica imperversi ancora fino a condizionare lo svolgimento della vita politica del paese. È avvilente che la democrazia italiana debba ancora attendere con trepidazione un verdetto di giudici ormai impossibilitati ad essere imparziali. Ma io sono convinta che qualsiasi sia il verdetto della Cassazione, Berlusconi saprà dimostrarsi più forte dei suoi persecutori, un soggetto politico di primo piano pronto a mettere gli interessi della Nazione davanti ai suoi interessi personali.

Il Pd, prima Pci-Pds-Ds, che in questo ventennio ha fatto dell’antiberlusconismo il suo unico vero programma per tenere unite le anime più disparate. "Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge": per battere Grillo e Berlusconi, il Partito democratico deve "tirare fuori le idee e non gli avvocati". Lo ha detto il sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a margine della cerimonia di chiusura dell'anno accademico della "Johns Hopkins University" di Bologna. "Pensare come ha fatto qualche parlamentare del mio partito che si possa sconfiggere Beppe Grillo facendo una legge per dire che il M5s non può partecipare alle elezioni è ridicolo - ha ribadito Renzi -. Non si può pensare di eliminare l'avversario attraverso una legge; puoi sconfiggerlo con le idee e le proposte". Questo, secondo il sindaco, "vale per Berlusconi esattamente allo stesso modo" pensando di sconfiggerlo "attraverso l'interpretazione di una norma". Per Renzi "non si può pensare dopo 19 anni di dire che Berlusconi è ineleggibile, perché se lo era, lo era anche prima. Per battere e mandare a casa Berlusconi e per battere Grillo il Pd deve tirare fuori le idee, non gli avvocati". Infine un riferimento all'Esecutivo. "Non si può sapere quanto durerà il governo Letta perché non è uno yogurt che ha indicata la scadenza sulla confezione. Se fa le cose va avanti, se non le fa va a casa" ha evidenziato Renzi. Renzi aveva già detto e riconferma: la speranza di sconfiggere il Cavaliere per via giudiziaria è «un errore» che la sinistra ha alimentato troppo a lungo. Detto questo, l'eventuale condanna di Berlusconi a quattro anni, tre coperti dall'indulto, rappresenta un unicum nella storia italiana per l'indiscutibile rilievo politico del personaggio. Ex premier per quattro volte, leader del Pdl, fama internazionale, si ritroverà a fare i conti con una pena che, anche se solo di un anno, cambierà profondamente la sua vita personale e pubblica. Né, per lui, potranno essere sovvertite le regole che valgono per i normali cittadini. Se alla pena si aggiungerà anche l'interdizione - 3 o 5 anni poco cambia - Berlusconi rischia di trovarsi anche senza la copertura parlamentare che comunque gli garantisce spazi più ampi di movimento.

ESEMPI DI PERSECUZIONE SINISTRA

I due condannati, senza passaporto.

Analogie e differenze delle storie di Berlusconi e Craxi dopo la sentenza della Cassazione, scrive Paolo Sacchi su “Panorama”. «La vede, signora, la fine che avrebbero voluto farmi fare…». 21 gennaio 2000, giorno dei funerali di Bettino Craxi. Cinque della sera, Hammamet, cimitero cristiano, lapidi bianche, tra la Medina e il mare, che guarda l’Italia. La famiglia Craxi volle che «Bettino» fosse sepolto così: con la bara rivolta verso l’Italia negata. Per alcuni minuti il Cavaliere, allora spodestato da Palazzo Chigi, ma già in rimonta dopo una lunga traversata nel deserto, e senza il thè del fim di Bernardo Bertolucci, girato proprio in Tunisia, si apparta. Si nasconde e piange a dirotto dietro a una tomba del cimitero cristiano di Hammamet.

Chi scrive lo raggiunge. Ha gli occhi ancora umidi. Lui si riprende e scolpisce in via riservata con la cronista la frase ( «Lo vede che fine avrebbero voluto farmi fare») che probabilmente  avrà accompagnato, come una sfida ma al tempo stesso una minaccia, le sue tre volte tre di presidente del Consiglio, negli ultimi vent’anni di politica italiana.

Era sinceramente commosso e profondamente addolorato quel giorno il Cavaliere per la morte dell’amico Bettino, e già presagiva che per lui sarebbe stata dura. Anzi, durissima. Invitò a pranzo all’Abou Nawas di Tunisi i socialisti superstiti, allora guidati da Enrico Boselli.

Li chiamò a una battaglia di libertà, ma loro, che avevano all’epoca ministri nel governo di Massimo D’Alema , nicchiarono. Fino a scomparire.

In molti in questi vent’anni hanno tirato per la giacca, e da morto, Bettino Craxi. Sarebbe stato con la destra o la sinistra? Di certo lui non sarebbe stato con quelli che nei momenti più drammatici degli ultimi giorni all’ Hopital Militaire di Tunisi, definì «i miei assassini», ovvero gli eredi del Pci. Non sarebbe stato neppure con Forza Italia.  Ma forse un po’ più vicino a Forza Italia sì, se proprio avesse dovuto scegliere.

La sua ultima idea era quella di fare un federazione liberalsocialista con un ritorno al sistema proporzionale. Di certo, Berlusconi per lui era un vero e sincero amico. Tant’è che Craxi confidò a chi scrive: «Vedrai proveranno a farlo fuori con l’arma giudiziaria». E ancora: «Non è vero che fui io a consigliargli di entrare in politica, gli dissi semplicemente: se te la senti, fallo. Mi sono sempre chiesto come ha fatto a prendere tutti quei voti, io mi sono fermato alla soglia del 12 o 13 per cento….».

Craxi-Berlusconi: ora  c’è  anche il ritiro di un passaporto che li accomuna. Ma Craxi, come ha ricordato Berlusconi a «Libero», fu costretto all’esilio (aveva una richiesta di condanne di oltre 20 anni e il suo partito lo abbandonò). Berlusconi consegnerà il suo passaporto, ma gli resterà quello datogli da  quasi dieci milioni di elettori.

Anche questo l’ex premier e leader socialista, politico a tutto tondo, sulla cui tomba continuano ad andare scolaresche e turisti italiani in pellegrinaggio, all'epoca divisi tra craxiani e anticraxiani,  a suo modo, da statista e leader visionario, aveva previsto.

Da Almirante a Craxi chi tocca la sinistra muore, scrive Marcello Veneziani  su “Il Giornale”. Vorrei conoscere la segreta legge in base alla quale chi si oppone alla sinistra è sempre un delinquente. Cito tre esempi principali, diversi per stile ed epoca, più altri casi paralleli. Quarant'anni fa il delinquente si chiamava Giorgio Almirante. Aveva ottenuto un gran successo elettorale, riempiva le piazze, spopolava in tv. Perciò si decise che era un criminale, e dunque andava messo fuori legge col suo partito. Badate bene, il Msi in quella fase era meno fascista di prima, era in doppiopetto, era diventato destra nazionale, apriva a liberali e monarchici, aveva perfino (...)(...) partigiani. Ma allora risorse il fronte antifascista. La stessa criminalizzazione era avvenuta nel '60 quando l'Msi aveva svoltato in senso moderato, appoggiando un governo centrista, presto rovesciato da un'insurrezione violenta di piazza. L'antifascismo veniva sfoderato non quando si sentiva odore di fasci ma quando si sentiva odore di voti e di governo. Su Almirante piovvero stragi e accuse tremende, si creò un cordone sanitario per isolare la destra, la sua stampa e le sue idee, si favorì una scissione. La persecuzione finì quando il Msi tornò piccolo e innocuo. Le accuse di fascismo non risparmiarono neanche due combattenti antifascisti come Sogno e Pacciardi che erano però militanti anticomunisti. La campagna infame si accanì col Quirinale: Leone, eletto con i voti del Msi e senza quelli del Pci, fu massacrato e costretto a dimettersi, con accuse poi rivelatesi infondate.
Vent'anni fa il delinquente si chiamava Bettino Craxi, e la sua associazione a delinquere era non solo il Psi, ma il Caf, che comprendeva Andreotti e Fanfani vituperato anticomunista (poi sostituito da Forlani). Craxi aveva inchiodato il Pci all'opposizione, aveva conquistato la centralità del sistema politico, voleva modernizzare lo Stato. Eliminato. Parallelamente Cossiga, da quando si emancipò dall'intesa consociativa che lo aveva eletto al Quirinale e cominciò a esternare contro i partiti, fu linciato, minacciato di impeachment, accusato di stragi e delitti. Fino a che Cossiga depose ogni progetto gollista e si limitò a esercitare l'arte del paradosso. Andreotti è un caso contorto ma anche lui diventò un delinquente solo quando smise di presiedere i governi consociativi.
Ora il delinquente si chiama Berlusconi, dopo un ventennio di caccia all'uomo. Vi risparmio di farvi la storia del berluschicidio, vi esce ormai dalle orecchie. Dirò solo che rispetto agli altri lui ha l'aggravante tripla di essere ricco, di non essere un politico e di avere un grande elettorato. Con lui ci sono altri casi annessi (anche extrapolitici, come Bertolaso e don Verzè). Esempio? Il modello Lombardia di Formigoni&Cl, un sistema di potere analogo a quello delle coop rosse in Emilia, con le stesse ombre, ma con risultati di eccellenza in termini di amministrazione. Massacrato mentre le coop rosse furono risparmiate. Per la sanità la Lombardia fu indagata di pari passo con la Puglia di Vendola, ma con una differenza: la prima funzionava bene, la seconda no. Risultato: la prima fu sfasciata a norma di legge, la seconda no. Anche lì l'aggravante era il largo consenso recidivo a Formigoni.
Cos'hanno in comune i casi citati? Erano antagonisti della sinistra. E poi un'altra peculiarità: da Almirante a Pacciardi e Sogno, da Fanfani a Cossiga, a Craxi e a Berlusconi, volevano una repubblica presidenziale, bestia nera del Partito-Principe. Il mistero resta: come mai tutti coloro che si oppongono alla sinistra sono delinquenti, chi per eversione, chi per golpismo, chi per malaffare? C'è una spiegazione logica, scientifica a questa curiosa coincidenza? Cosa c'era di vero nelle accuse? Almirante era fascista, è vero, ed è pure vero che alcuni neofascisti erano violenti; ma Almirante e il suo partito non c'entravano nulla con stragi, assassini e violenze, di cui furono più vittime che artefici. Craxi navigò alla grande nel sistema delle tangenti, è vero, usò modi illeciti per finanziare la politica, ma la tangente fu inventata storicamente dalla sinistra dc parastatale e i finanziamenti illeciti, prima di Craxi riguardò la Dc, il Psi antecraxi, gli alleati, più i soldi che arrivavano da Mosca al Pci e le tangenti sull'import-export con l'est. Anche Berlusconi non è uno stinco di santo, ma se qualunque grande azienda italiana o qualunque grande partito italiano fosse setacciato, intercettato e perquisito con la stessa meticolosità, avrebbero trovato reati analoghi, anzi delitti peggiori e pure arricchimenti illeciti a spese del denaro pubblico. Appena si è scoperchiato l'affare Monte dei Paschi vedete cosa ne è venuto fuori, suicidi inclusi. Se avessero poi applicato il criterio usato per Berlusconi - il capo è colpevole degli illeciti compiuti nel suo regno - avremmo avuto in galera i due terzi del capitalismo nostrano e della partitocrazia.
A questo punto la conclusione è netta: o avete il coraggio di teorizzare l'iniquità razziale di chiunque si opponga alla sinistra, e dunque il nesso etico e genetico tra antisinistra e criminalità, o c'è qualcosa di turpe nella sistematica criminalizzazione del nemico. Certo, non tutti i giudici che si sono occupati di Berlusconi e dei casi precedenti erano di parte. Alcuni decisamente sì, erano di parte; altri invece erano solo nella parte, ovvero accettate quelle premesse non puoi che avere quelle conseguenze; si crea un meccanismo a cascata, una coazione a ripetere e a non contraddire le sentenze dei colleghi di casta. Il punto era ridiscutere i presupposti dell'indagine, a partire dall'accanimento selettivo; e poi, a valle, porsi il problema della responsabilità, cioè considerare le conseguenze per l'Italia. I giudici non sono una vil razza dannata, sono nella media degli italiani: l'unica differenza è che solo loro dispongono di un potere assoluto, inconfutabile, irresponsabile. Che non risponde di sé né dei danni pubblici che arreca. La serra in cui fioriscono le sentenze è una Cupola editoriale-giudiziaria-finanziaria, benedetta da alcuni poteri transnazionali. Un allineamento di fatto, non un complotto premeditato; non è una congiura ma una congiuntura. La sinistra politica ne è solo il terminale periferico. Non sono affatto innocentista, ma l'esperienza mi conduce a una conclusione: ogni potere ha la sua fogna, in forme e misure diverse; ma alcune vengono portate alla luce e altre no. Usciamo in fretta dalla seconda repubblica: non quella nata nel '94, ma quella abortita dal '68.

BERLUSCONISMO ED ANTIBERLUSCONISMO: CHE PENA!

Berlusconiani Vs Antiberlusconiani: solito spettacolo penoso, scrive Diego Fusaro su “Lo Spiffero”. Si è per l’ennesima volta riproposto l’osceno spettacolo che tiene da vent’anni prigioniera la politica italiana: quel penoso conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani che continua a ottundere le menti, illudendole che il solo vero problema del nostro Paese sia l’incarcerazione del Cavaliere o, alternativamente, la sua santificazione in terra. Uno spettacolo patetico e, insieme, disgustoso. Se mai è possibile, per i motivi che subito dirò, l’antiberlusconismo è più spregevole dello stesso berlusconismo. Il berlusconismo non è un fenomeno politico. È, semplicemente, l’economia che aspira a neutralizzare la politica, riconfigurandola – avrebbe detto von Clausewitz– come la continuazione stessa dell’economia con altri mezzi. Non ha nulla a che vedere con il fascismo, con buona pace della sinistra perennemente antifascista in assenza integrale di fascismo. Il berlusconismo è osceno, perché è di per sé oscena la dinamica, oggi dilagante, della reductio ad unum operata dalla teologia economica, ossia di quell’integralismo economico che aspira a ridurre tutto all’economia, alla produzione e allo scambio delle merci. Il berlusconismo ne rappresenta l’apice, aggiungendo a questa oscenità pittoreschi elementi da commedia all’italiana su cui è pleonastico insistere in questa sede. Ma l’antiberlusconismo è ancora più osceno. Nella sua intima logica, l’antiberlusconismo si regge su un’esasperazione patologica della personalizzazione dei problemi. Quest’ultima si rivela sempre funzionale all’abbandono dell’analisi strutturale delle contraddizioni: ed è solo in questa prospettiva che si spiega in che senso per vent’anni l’antiberlusconismo sia stato, per sua essenza, un fenomeno di oscuramento integrale della comprensione dei rapporti sociali. Questi ultimi sono stati moralizzati o, alternativamente, estetizzati, e dunque privati della loro socialità, inducendo l’opinione pubblica a pensare che il vero problema fossero sempre e solo il “conflitto di interessi” e le volgarità esistenziali di un singolo individuo e non l’inflessibile erosione dei diritti sociali e la subordinazione geopolitica, militare e culturale dell’Italia agli Stati Uniti. Grazie all’antiberlusconismo, la sinistra ha potuto indecorosamente mutare la propria identità, passando dall’anticapitalismo alla legalità, dalla lotta per l’emancipazione di tutti al potere dei magistrati e dei giudici, dalla questione sociale a quella morale, da Carlo Marx a Serena Dandini, da Antonio Gramsci alla Gabbanelli. La sinistra, muta e cieca al cospetto della contraddizione capitalistica, ha fatto convergere le sue attenzioni critiche su una persona concreta (il Cavaliere), presentandola come la contraddizione vivente. In tal maniera, ha potuto cessare di farsi carico dei problemi sociali e della miseria prodotta dal sistema della produzione, illudendo l’elettorato e inducendolo a pensare che il sistema, di per sé buono, fosse inficiato dall’agire immorale e irresponsabile di un’unica persona. Quest’ultima, lungi dall’essere – nonostante i deliri di onnipotenza del caso – la causa della reificazione globale, ne è un effetto: più precisamente, si presenta come l’esempio vivente dell’illimitatezza del godimento gravido di capitale, che travolge apertamente ogni limite e ogni barriera, ogni legge e ogni istituzione che non riconosca il plus ultra desiderativo come unica autorità e come sola legge. L’antiberlusconismo ha permesso alla sinistra di occultare la propria adesione supina al capitale dietro l’opposizione alla contraddizione falsamente identificata nella figura di un’unica persona, secondo il tragicomico transito dal socialismo in un solo paese alla contraddizione in un solo uomo. Come l’antifascismo in assenza integrale di fascismo, così l’antiberlusconismo ha svolto il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale (si pensi alle penose rassicurazioni di Bersani circa l’alleanza del PD con i mercati e con il folle sogno dell’eurocrazia indecorosamente chiamata Europa). Ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno così cessato di essere intese per quello che effettivamente sono, ossia per fisiologici prodotti dell’ordo capitalistico, e hanno preso a essere concepite come conseguenze dell’agire irresponsabile di un singolo individuo. Per la sinistra oggi essere antiberlusconiani è l’alibi per non essere anticapitalisti. Permettendo di riconvertire la passione anticapitalistica in indignazione morale, l’avversione per le regole sistemiche ingiuste in loro difesa a oltranza, l’antiberlusconismo ha, pertanto, svolto una funzione di primo piano nella celere e performativa sostituzione dell’identità precedente della sinistra con una nuova e indecorosa fisionomia, quella dell’adesione cadaverica alle leggi del mercato e del capitale. Se la sinistra smette di interessarsi alla questione sociale e, più in generale, alla galassia di problemi che, con diritto, potrebbero compendiarsi nell’espressione programmatica “ripartire da Marx”, con il ricco arsenale di passioni politiche che in tale figura si cristallizzano, è opportuno smettere di interessarsi alla sinistra. I recenti fenomeni di piazza ne sono l’esempio più tragico: mentre il popolo dei berlusconiani si scontrava con quello degli antiberlusconiani, le sacre leggi del mercato facevano il loro corso, sconvolgendo, ancora una volta, le nostre vite, erodendo i diritti sociali. La situazione è, una volta di più, tragica ma non seria. La prima mossa da compiere per tornare a pensare e a praticare la politica è uscire dal vicolo cieco del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani.

LA STAMPA ROSSA BRINDA ALL’ODIO.

La stampa rossa cavalca l'odio e brinda alla nuova Liberazione. Piovono insulti e sberleffi dai giornali di sinistra: 1º agosto come il 25 aprile. Le offese di Repubblica: "Vecchio attore che fa pena", scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Gran fermento nelle redazioni di tanti giornali, da Repubblica al Fatto, dal Manifesto all'Unità. È scattata l'operazione sbianchettamento sui calendari: la festa della Liberazione non è più il 25 aprile, ma il 1° agosto, giorno fausto della condanna di Silvio Berlusconi. Basta con le anticaglie del secolo scorso, c'è un nuovo piazzale Loreto: è la piazza Cavour di Roma dove s'affaccia il Palazzaccio della Cassazione, il luogo dell'esecuzione, del ludibrio, dello sbeffeggio di «Al Tappone», come ha scritto con la consueta eleganza Marco Travaglio sul Fatto quotidiano, al quale non è bastato scrivere che «Al Capone è il suo spirito guida». Suo, di Berlusconi. La gioia è esplosa incontenibile come i tappi di champagne nelle ricorrenze più importanti. «Condannato». «Condannato il delinquente». «Cassato». «Il pregiudicato costituente». Un «proclama eversivo». Un irrefrenabile sentimento di «Vittoria alata», come ha titolato il Manifesto. Sì, vittoria, come in una gara tra buoni e cattivi, anzi tra i buoni e il Cattivo. «Certo in un Paese normale sarebbe stata auspicabile una sconfitta politica», ammette Giuseppe Di Lello. Ma che vuoi farci, bisogna accontentarsi: non si va troppo per il sottile pur di fare fuori il Cavaliere (e naturalmente tutti chiedono che gli venga tolta l'onorificenza assieme alla libertà). Dove non arriva la politica soccorre la magistratura: «In uno stato di diritto anche le sentenze svolgono il loro ruolo di controllo della legalità e da esse non si può prescindere», si legge sul quotidiano che ha Toni Negri tra i collaboratori. A Repubblica è tutto un fuoco d'artificio. Altro che la Resistenza partigiana: le truppe di Carlo De Benedetti si sentono il Cln del ventunesimo secolo, le nuove Brigate Garibaldi, i veri liberatori dal Nemico. Ebbro di esultanza, Francesco Merlo abbandona i toni raffinati del passato e scende nel volgare. Per lui Berlusconi è «un vecchio attore che per non subire la pena faceva pena». Il suo videomessaggio «una sceneggiata con la lacrima, come il gorgonzola e i fichi». Nel Pantheon del Cav, un «delinquente comune» e «mattatore nel baraccone della finta pietà», si trovano «solo gli evasori truffatori». E quando la dose di volgarità è finita subentra la violenza: «Davvero Berlusconi - arriva a scrivere Merlo - preferirebbe che dei forsennati lo trascinassero per strada e gli infliggessero qualche atroce supplizio». L'ex premier si è già preso nei denti una non metaforica statuetta del duomo di Milano: poca roba, per gli intellettuali chic di Repubblica.
Anche Filippo Ceccarelli tira un sospiro di sollievo: «Si può dire che se l'è voluta, cercata e trovata - e adesso si spera che un po' si metta tranquillo». Ma, riconosce, «non sarà facile» liberarsi di questo «imputato permanente e privilegiatissimo»: «Troppe visioni, troppi processi, troppo di Berlusconi è stato sparso nella società perché lo si possa bruciare, liquidare, o sradicare nel tempo breve di un'estate», come sarebbe augurabile. Mai contenti, a Repubblica. Dove si definisce il videomessaggio «un proclama eversivo». E dove il direttore Ezio Mauro trasforma l'intera parabola del Cavaliere in un vortice di malaffare: «Il falso miracolo imprenditoriale che nella leggenda di comodo aveva generato e continuamente rigenerava l'avventura politica di Silvio Berlusconi ieri ha rivelato la sua natura fraudolenta». Berlusconi è stato condannato per aver evaso, nel 2002 e 2003, 7,3 milioni di euro a fronte di 709 milioni dichiarati: l'1 per cento in soli due anni. Che per Repubblica è sufficiente per gettare nel fango una vita intera.
Nel calendario del Fatto - dove Travaglio si crogiola tra «fuorilegge», «delinquente matricolato», «pregiudicato costituente» - oltre alla nuova data della Liberazione appare anche un nuovo santo: è Fabio De Pasquale, il pubblico ministero che ha ottenuto la prima condanna definitiva per Berlusconi e, prima di lui, fu il primo a incastrare Bettino Craxi. Santo subito, più della beata Ilda Boccassini. Curiosità: il Fatto e il Manifesto hanno messo in prima pagina la stessa foto di Berlusconi corrucciato. Come insegnava la buonanima rossa di Mao, marciare divisi per colpire uniti.

QUANDO IL PCI RICATTO’ IL COLLE PER LA GRAZIA ALL’ERGASTOLANO.

Quando il Pci ricattò il Colle: grazia all'ergastolano. Moranino era fuggito a Praga e rientrò in Italia dopo l'atto di clemenza di Saragat, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. La storia non si ripete, però ci sorprende e ci spiazza. La storia, se si rileggono certi passaggi, può scombussolare le fondamenta dei ragionamenti che si ripetono in questi giorni surriscaldati di mezza estate.

 

 

Si dice che la grazia non può essere un quarto grado di giudizio e che il condannato non può riceverla se non ha cominciato ad espiare la pena. Si ammucchiano tanti concetti, tutti politically correct, poi t'imbatti nella vicenda tragica e drammatica di Francesco Moranino, il comandante «Gemisto», comunista doc, partigiano, deputato e tante altre cose ancora e sei costretto a rivedere quei giudizi affrettati.

Il caso Moranino è per certi aspetti ancora aperto come tante pagine controverse del nostro passato, ma alcuni elementi sono chiari. Il primo: nel 1955 il Parlamento concesse l'autorizzazione a procedere, la prima nel Dopoguerra, e Moranino fu condannato all'ergastolo per l'uccisione di cinque partigiani bianchi e di due delle loro mogli; il secondo: non rimase in Italia a scontare mestamente la condanna. No, fu aiutato dal Pci a scappare. Riparò a Praga e là attese gli eventi. Attenzione: Praga era la capitale di un paese nemico nell'Europa sull'orlo del conflitto degli anni Cinquanta e Sessanta.

Da Praga Moranino portò a casa due risultati clamorosi; prima, nel '58, il presidente Giovanni Gronchi commutò la sua pena: dal carcere a vita a 10 anni. Poi nel '65 il suo successore Giuseppe Saragat gli concesse la grazia. Sì, avete letto bene. Il presidente della Repubblica cancellò con un colpo di spugna la pena. Saragat non si preoccupò del fatto che la grazia potesse sconfessare l'opera della magistratura e suonare appunto come un quarto grado di giudizio. Anzi, il presidente non si fermò neppure quando il procuratore generale di Firenze, chiamato ad esprimersi, diede un parere negativo. La grazia fu firmata lo stesso, anche se Moranino era latitante, in fuga oltre la Cortina di ferro. E, insomma, la sorprendente conclusione poteva essere interpretata come una resa dello Stato ad una parte.

Per piantare la bandierina della grazia, Saragat scalò una parete di sesto grado, altro che la frode e l'evasione fiscale di cui si parla in questi giorni. Moranino naturalmente si proclamava innocente e poi tutto quel periodo storico convulso, la stagione della Resistenza e la sua coda nelle settimane successive al 25 aprile, era ed è oggetto di una grande disputa: le esecuzioni senza pietà dovevano essere coperte dallo scudo della Resistenza che tutto giustificava e assorbiva. La querelle, come è noto, si è trascinata nel tempo: il sangue dei vinti, come l'ha chiamato Giampaolo Pansa, non ha ancora trovato pace. Ma Saragat non si soffermò sulle conseguenze giuridiche di quell'atto e puntò dritto all'obiettivo della pacificazione. La politica, con i suoi accordi sotterranei, vinse su tutto il resto, anche sull'indecenza di un atto che, pur se bilanciato da misure di clemenza verso i neri della Repubblica sociale, sconcertò molti italiani. L'ha spiegato molto bene Sergio Romano rispondendo ad un lettore dalla colonne del Corriere della sera: «Credo che Giuseppe Saragat abbia pagato un debito di riconoscenza al partito che aveva contribuito ad eleggerlo». Saragat era diventato capo dello Stato il 28 dicembre 1964, con il contributo determinante del Pci. La grazia arrivò a tamburo battente il 27 aprile 1965. Ci fu probabilmente un baratto: l'elezione in cambio della chiusura di quel capitolo orrendo. Moranino rientrò con comodo, nel '68, e il Pci non ebbe alcun imbarazzo a ricandidarlo e a farlo rieleggere. A Palazzo Madama. L'Italia usciva così definitivamente dal clima avvelenato della guerra, ma il prezzo pagato allo stato di diritto fu altissimo.

Era il ”Re del Grano”, l´inventore di Zemanlandia, il fautore del miracolo del Foggia in serie A e dell´Avellino in serie B, ma per tredici anni Pasquale Casillo, noto a tutti come “Don Pasquale” da San Giuseppe Vesuviano, pesava l´accusa del famigerato articolo 110 - 416bis, concorso esterno in associazione di stampo mafioso: un reato grave da cui Casillo, soltanto in tarda mattina del 16 febbraio 2007, è stato assolto dai giudici del tribunale di Nola, in provincia di Napoli, che hanno accolto le richieste del pubblico ministero Vincenzo D´Onofrio. Per Don Pasquale, dunque, assistito dall´avvocato Ettore Stravino e da Bruno Von Arx, è giunta l´assoluzione con formula piena per non aver commesso il fatto.
Casillo fu arrestato il 21 aprile del 1994 non solo per associazione mafiosa, ma anche per truffa e peculato. Era stato accusato, insieme ad altri, infatti, di aver frodato l’Aima, l´Azienda di Stato per gli interventi nel mercato agricolo. Per questi ultimi reati è scattata la prescrizione, ma per Pasquale Casillo restava in piedi la ben più grave macchia, il 416bis, che da ieri non ha più nulla a che fare con l´ex Re del Grano. Un “impero”, quello di Casillo, che valeva milioni e milioni di euro e che gli deve essere restituito poiché sono stati revocati i provvedimenti di sequestro cautelare sulle aziende e sui beni personali. «In questa brutta storia, potevo perdere tutto ma non la dignità» ha dichiarato l´imprenditore. Nei primi anni ´90 l’industriale campano, presidente dell´Assindustria di Foggia, era il gotha dell´imprenditoria nazionale: il suo “impero” era impegnato in tutti i campi, dal commercio allo stoccaggio del grano, dai trasporti navali al mondo del calcio. E che calcio. Ma Casillo aveva anche partecipazioni importanti in istituti di credito (Banca Mediterranea e Caripuglia ndr) e società immobiliari e turistiche. E poi, oltre al Foggia di Zeman, era proprietario anche di Salernitana e Bologna e voleva “mettere le mani” sulla Roma di Ciarrapico. Poi, quel 21 aprile, l´arresto a Foggia: a far emettere le ordinanze dai giudici di Napoli le deposizioni di un pentito della camorra, il boss Pasquale Galasso. Nonostante un pool di primarie banche, coordinate dall´ABI, avesse offerto un cospicuo finanziamento ponte di 100 miliardi di vecchie lire, rifiutato dal neoamministratore giudiziario del gruppo, scatta la molla dell´istanza di fallimento, richiesta dai creditori del gruppo Casillo. Nel maggio del 1994, su istanza del Banco di Napoli, finiscono in tribunale i libri della capogruppo, la “Casillo Grani Snc”, società in nome collettivo. E incomincia il pellegrinaggio dell´inchiesta principale. Casillo si è sempre dichiarato innocente, anzi «perseguitato dai giudici», e ha sempre richiesto di essere processato subito. Con gli anni vengono prescritti tutti gli eventuali reati fiscali. Restava, fino a ieri, solo il 416bis. E per Casillo il fantasma della mafia, anzi della camorra campana, svanisce, così come era svanito, qualche anno prima, per l´ex ministro dell´Interno Antonio Gava, che è stato assolto - come molti altri imputati eccellenti - in tutti i gradi nel processo per camorra basato in massima parte sulle dichiarazioni del medesimo pentito Pasquale Galasso, lo stesso accusatore di Casillo.

CASILLO IL CANDIDATO IDEALE CONTRO LE TOGHE ROSSE.

Casillo: il candidato ideale contro certe toghe rosse, scrive Ruggiero Capone su “L’Opinione”.

«Presidente Berlusconi, dica a Pier Ferdinando Casini, dato che si dice cattolico: memento homo! Visto l’atteggiamento ostile che l’onorevole Casini ha assunto nei Suoi personali confronti, gli ricordi ciò che accadde la mattina dell’8 febbraio 1994, ultimo giorno utile per l’apparentamento delle liste delle famose elezioni che La videro entrare nell’orbita politica. Lei accettò che Mastella, Casini e D’Onofrio rientrassero in gioco (precedentemente rifiutati per la pretesa di avere ministero del Lavoro e Istruzione) solo per le pressioni che Le feci prima mediante Domenico Mennitti, mio ex direttore del “Roma”, poi attraverso Adriano Galliani e, infine, per l’intervento risolutivo di Marcello Dell’Utri alle 7:30, mentre la pietosa delegazione dei mendicanti avevano preso comunque l’aereo verso Milano, speranzosi in un miracoloso ultimo mio intervento presso di Lei. Ricordi a Casini che li fece prelevare in extremis all’aeroporto di Linate con una vostra macchina. Rammenti anche a Casini che intervenni dopo le ossessive e continue telefonate del giorno precedente continuate al mattino dell’onorevole Mastella, il quale mi riferì che in macchina (in taxi verso Fiumicino) con lui c’era anche Casini e D’Onofrio.

Peccato, che non esistano tracce registrate! Eppure, essendo il sottoscritto, già dall’anno precedente, nel mirino dell’Antimafia di Napoli e, di lì a poco arrestato, mercoledì 21 aprile ’94, mi fa meraviglia che un “camorrista” della mio livello, e, a dire degli inquirenti, socio in malaffari di Alfieri e Galasso, non avesse il telefono sotto controllo! Di tutto questo, me ne se sono lamentato anche in un pubblico processo. Le pare verosimile? O non, piuttosto, che sia stato tutto messo a tacere? Poiché, delle due una: o il mio telefono non era sotto controllo, e sarebbe roba da inetti oppure è stato tutto dolosamente insabbiato. Le scrivo questo solo per ricordare a Lei chi ero, a Casini la sua ingratitudine (senza di Lei, politicamente, sarebbe già defunto) e allo Stato... qualche ridicola inadempienza! Saluti. Roma, 17 gennaio 2013, Pasquale Casillo». Questo il contenuto della missiva che Pasquale Casillo (all’epoca imprenditore agroalimentare di rilievo mondiale, editore del quotidiano Roma e proprietario di club calcistici) ha inviato a Silvio Berlusconi.

«Attualmente ho la fedina penale integra! - precisa Casillo - Sono stato assolto, dopo ben 13 anni, su richiesta della stessa Procura che mi aveva arrestato, sequestrato l’intero patrimonio e conseguentemente fatto fallire tutte le aziende del mio Gruppo (56 aziende in tutto il mondo) che all’epoca fatturavano ben 2.000 miliardi, a causa di un amministratore giudiziario (il mio Bondi) la cui segretaria era una “segreteria telefonica”. Questo signore da me denunciato, e da ben quattro anni attendo un Ctu dalla procura di Napoli». Le persecuzioni giudiziarie nei riguardi di Pasquale Casillo sono durate 29 anni (iniziavano nel 1984). Ma l’imprenditore è poi risultato assolto in tutti i processi. Dopo decine di assoluzioni nessun giornale ha mai provveduto a riabilitare l’uomo dinnanzi all’opinione pubblica. Casillo ci rammenta i due casi più recenti in ordine di tempo. «Il fallimento della società capogruppo - spiega Casillo - la Casillo Grani snc, per una presunta accusa di bancarotta fraudolenta aggravata (un caso simile a Cirio e Parmalat che si consumava 10 anni prima) che si sarebbe prescritta dopo 18 anni e 6 mesi, ma che a 17 anni, guardo un po’! - rimarca l’imprenditore - essendo ancora allo stato indiziario (solo iscritta al modello 21) quindi senza neppure aver fatto un’udienza o un interrogatorio, è stata archiviata (12 marzo 2012) con motivazione “il fatto non sussiste”.

È più grave assolvere col fatto non sussiste o che oggi comunque si sarebbe prescritta senza iniziare. Si sarebbe prescritta a febbraio 2013, non penso esista caso simile in Europa». L’episodio che ancora turba Pasquale Casillo è come sia stato costruito in suo danno il processo per “concorso in associazione camorristica”. «Processo per concorso in associazione camorristica - ci ripete Casillo con tono indignato - dopo quasi 13 anni unico imputato… in quaranta minuti (di cui 10 di camera di consiglio), senza contraddittorio dei pentiti, senza i testi di accusa e di difesa (ho rinunciato ai mie 70 testi): sono stato assolto con formula piena su richiesta della Procura. Non ho avuto il piacere di avere come testi d’accusa né il capo dei Ros di allora né quello della Dia, eppure avevano firmato i verbali. E pensare che i signori dell’antimafia avevano confuso l’ambasciatore Usa Peter Secchia con un camorrista...». Pasquale Casillo è ancora una persona solare, sorridente, alla mano. La persecuzione non ha nemmeno scalfito il suo carattere mite, pacioso. «Era un vero amico del calcio!», ci rammentava un signore incontrato in un bar di Foggia. Fu Casillo ad ingaggiare Zdenek Zeman per il Foggia calcio scivolato in C1: Casillo contribuiva di fatto alla costruzione d’una città per allenare i giovani, i giornali l’appellarono subito “Zemanlandia”, intanto svettava il “Foggia dei miracoli”. Così Zeman, dopo una stagione alla guida del Messina, non resisteva al nuovo ingaggio di Casillo, sempre nel Foggia, neopromosso in Serie B. Nel 1989 al “Foggia dei miracoli” fa solo ombra la Foggia che scende di tre punti nelle statistiche della disoccupazione, grazie alle assunzioni nella Casillo grani. 1993-1994, ultima stagione prima dell’addio di Zeman, il Foggia sfiora l’ingresso in Coppa Uefa, sconfitto (0-1) da un Napoli all’ultima giornata di campionato.

Nonostante la persecuzione giudiziaria, Casillo non abbandona il campo. Nella stagione 2003-2004 all’Avellino calcio, Zeman ritrova il presidente Pasquale Casillo. Ed arriviamo al 20 luglio 2010, quando la famiglia dell’ormai storico presidente degli anni della ribalta (Pasquale Casillo) riacquista ufficialmente il Foggia, e naturalmente richiama come allenatore Zeman. «Il Foggia dei miracoli è tornato», urlano i tifosi per strada. Ma dopo aver continuato a pensare in grande, con l’approvazione di un accordo di programma per realizzare un nuovo stadio comunale e 1000 appartamenti a Foggia, la lobby dei costruttori mette in piedi mille paletti per far abortire il sogno. Oggi chi restituirà i posti di lavoro nella Casillo grani? Soprattutto chi risarcirà la famiglia Casillo di quasi 30 anni di malagiustizia? Oggi Foggia è l’ultima città d’Italia per Pil, ai tempi della Casillo grani se la batteva con le ridenti cittadine del centro-nord.

La provocazione di Casillo: "Io, sempre assolto, voglio Libera al mio fianco" . Alla presentazione del libro di cui chiede il sequestro, scrive “Foggia città aperta”. E’ arrivato alla fine della presentazione. Si è seduto tra il pubblico. Tra i tanti accorsi per sentir parlare di ‘Criminali di Puglia. 1973-1994: dalla criminalità negata a quella organizzata’, il libro scritto da Nisio Palmieri ed edito dalle edizioni la meridiana. Completo scuro e aria di chi sta per sbottare. Per gridare tutto il suo disappunto nei confronti dell’autore che parla. Perché quello scritto da Nisio Palmieri è un libro che l’ha fatto arrabbiare, che ha risvegliato un passato che voleva dimenticare. Pasquale Casillo ieri sera non ha resistito. Del resto, la sua presenza nella Sala Marcone della Biblioteca Provinciale ‘La Magna Capitana’ di Foggia, era nell’aria. E alla fine si è materializzato. E’ apparso a tutti. Ed ha parlato. “Penso che mi abbiate riconosciuto" ha esordito l’ex re del grano. E dopo essersi alzato in piedi, ha preso la parola e davanti a tutti ha esposto il suo pensiero. “Ho chiesto alla procura di Trani il sequestro del libro perché Criminali di Puglia è un libro diffamatore, in cui mi vengono attribuiti delitti gravissimi che non ho mai commesso”. Poi, l’affondo verso l’autore, che nel suo libro ripercorre l’evolversi, l’insediarsi e l'espandersi della criminalità organizzata pugliese. “Non stimo affatto Nisio Palmieri, ma il suo libro mi ha dato l’occasione per raccontare nuovamente la mia vicenda personale, la vicenda giudiziaria di cui sono vittima e da cui sono sempre stato assolto”.

Difficile togliergli la parola. Più facile, come farà Elvira Zaccagnino qualche ora dopo, affidare allo scritto il proprio commento. La presidente delle edizioni La meridiana racconta: “Non sono di Foggia. Non conosco Casillo - scrive la Zaccagnino - se non dai giornali di oltre 30 anni di cronaca pugliese e nazionale. Sempre assolto. E' vero. Ma ieri il suo fare, il suo dire, il suo ammiccare erano tipici di un modus inquietante. Il suo minacciare e dichiarare amicizia, il suo chiedere a Libera di essere al suo fianco a testimoniare la sua innocenza toglievano il respiro. La cappa sulla città l'ho respirata in quella sala“.

 

Non manca un riferimento a Daniela Marcone.  “A Daniela – evidenzia la Zaccagnino – Casillo dice anche di una lettera inviata da un sacerdote a don Luigi Ciotti che ha firmato la prefazione del libro. Noi lo sapevamo già. Daniela no. Quel prete in quella lettera scagiona Casillo da tutto, anche da ciò a cui non si fa riferimento nel libro e rimprovera Ciotti di essersi prestato a scrivere la Prefazione di un libro simile". E poi: “Casillo conclude dicendo che farà una conferenza stampa dove vuole accanto Daniela Marcone, che è referente di Libera ed è la figlia di Francesco Marcone, funzionario dello Stato ammazzato a Foggia, a testimoniare la sola verità: la sua".

"Mi chiedo da ieri sera - conclude la Zaccagnino - la ragione per cui 2 pagine di un libro fanno paura di fronte ai 56 e oltre processi da cui si è stati assolti. E mi chiedo come si faccia a fare di una città condominio una città comunità. La sfida è questa per aggrapparsi alla speranza. Condividere la cronaca di un momento forse è un modo per cominciare".

GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.

Il senso di Bersani per la musica non è mai stato granché felice, scrive Andrea Scanzi su “Il Fatto Quotidiano”. Qualche anno fa scelse Un senso di Vasco Rossi. Il testo recitava: "Voglio trovare un senso a questa storia/ anche se questa storia un senso non ce l'ha". Praticamente la recensione fulminante del Pd. Bersani, tramite Twitter, ha comunicato il nuovo inno. Che, con originalità guizzante, si chiama proprio Inno. È verosimile che, quando Bersani va al ristorante e gli chiedono che vino voglia bere, risponda: "Vino". Una sorta di eccesso didascalico proletario. L'autrice è Gianna Nannini, brava ma non esattamente un portafortuna: nel 1990, con Edoardo Bennato, interpretò Notti magiche per i Mondiali di Italia '90. Non aveva calcolato le uscite di Zenga (e gli Zenga fuori forma, nel centrosinistra, non mancano). Il rapporto tra musica e politica è conflittuale. Ieri Beppe Grillo ha lanciato sul blog l'inno elettorale dei 5 Stelle: L'urlo della rete, uno vale uno, di Leonardo Metalli e Raffaello Di Pietro: "Vita rubata dai cialtroni vestiti da buffoni che mangiano milioni". La destra, non avendo cantori di riferimento a parte Masini, Tony Renis e Umberto Smaila, si affida a rincalzi. Con effetti raggelanti, da Forza Italia a Menomale che Silvio c'è. In confronto, Valerio Scanu è Robert Plant. Ultimamente vanno di moda Mario Vattani, noto statista nazi-rock con un'idea lievemente sbarazzina di democrazia, e Gianluigi Paragone, che da un giorno all'altro si è messo in testa di strimpellare durante L'ultima parola. Le sue cover sono così personali e ad minchiam che, per contrasto, risultano quasi gradevoli. A sinistra, al contrario, l'affiliazione con i cantautori serve anche a ribadire la superiorità culturale. Giorgio Gaber, saccheggiato da chiunque (gli ultimi sono stati Pisapia e Renzi) per lo slogan "Libertà è partecipazione", ironizzava in Destra-sinistra: "Quasi tutte le canzoni son di destra/se annoiano son di sinistra". Difficilmente confutabile, pensando allo stereotipo un po' cimiteriale della canzone d'autore (Cantacronache, Nuovo Canzoniere Italiano, Vecchioni). Il centrosinistra, nel 1996, scelse La canzone popolare di Ivano Fossati. Portò fortuna, anche se il musicista in seguito parve pentirsi: quando gli chiedevano se avrebbe ridato il brano al centrosinistra, reagiva con lo stesso fastidio esibito all'ennesima domanda su La mia banda suona il rock. La seconda vittoria di Prodi, nel 2006, ebbe per colonna sonora Una vita da mediano di Ligabue. Veltroni, da navigato buonista ilare e sempre giovane, due anni dopo optò per Mi fido di te. Una delle canzoni migliori di Jovanotti. Nel 2008 circolò anche una versione tremebonda, ideata da alcuni militanti milanesi, sulla base di Ymca dei Village People (che reagirono malissimo e chiesero i diritti). Purtroppo per Veltroni, gli elettori non si fidarono di lui. È poi celebre il caso di Bettino Craxi. Adorava Viva l'Italia di Francesco De Gregori, al punto da citarne una strofa a Montecitorio: "L'Italia che soffre, che lavora e che resiste". De Gregori non gradì e, nel '92, si vendicò: "È solo il capobanda/ ma sembra un faraone/ si atteggia a Mitterand/ ma è peggio di Nerone". Craxi (e suo figlio Bobo, oggi amico del cantautore) ci rimasero male. Col tempo, De Gregori è diventato più morbido. Nel 2006 ha dichiarato: "Se ripenso a Craxi credo che intellettualmente sia stato superiore a tanti politici attuali". De Gregori conobbe Craxi. Si videro a Trastevere, nell'appartamento di Lucio Dalla (amico del leader Psi). Craxi continuò a chiedere come facesse quella canzone. De Gregori, recalcitrante, prese la chitarra ed eseguì Viva l'Italia. Ai cori, Bettino. Altri tempi. Forse migliori e forse no.

Francesco De Gregori intervistato da Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”.

Francesco De Gregori, sono sei anni, da quando in un'intervista al «Corriere» lei demolì la figura allora emergente di Veltroni, che non parla di politica. Che cosa le succede?

«Succede che il mio interesse per la politica è molto scemato. Ha presente il principio fondativo delle rivoluzioni liberali, "no taxation without representation?". Ecco, lo rovescerei: pago le tasse, sono felice di farlo, partecipo al gioco. Però, per favore, tassatemi quanto volete, ma non pretendete di rappresentarmi».

Cos'ha votato alle ultime elezioni?

«Monti alla Camera e Bersani al Senato. Mi pareva che Monti avesse governato in modo consapevole in un momento difficile. Sono contento di com'è andata? No. Oggi non so cosa farei. Probabilmente non voterei. Con questo sistema, tanto vale scegliere i parlamentari sull'elenco del telefono».

Dice questo proprio lei, considerato il cantautore politico per eccellenza? L'autore de «La storia siamo noi», per anni colonna sonora dei congressi della sinistra italiana?

«Continuo a pensarmi di sinistra. Sono nato lì. Sono convinto che vadano tutelate le fasce sociali più deboli, gli immigrati, i giovani che magari oggi nemmeno sanno cos'è il Pd. Sono convinto che bisogna lavorare per rendere i poveri meno poveri, che la ricchezza debba essere redistribuita; anche se non credo che la ricchezza in quanto tale vada punita. E sono a favore della scuola pubblica, delle pari opportunità, della meritocrazia. Tutto questo sta più nell'orizzonte culturale della sinistra che in quello della destra. Ma secondo lei cos'è oggi la sinistra italiana?».

Me lo dica lei, De Gregori.

«È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo, novecentesco, a tratti incompatibile con la modernità. Che agita in continuazione i feticci del "politicamente corretto", una moda americana di trent'anni fa, e della "Costituzione più bella del mondo". Che si commuove per lo slow food e poi magari, "en passant", strizza l'occhio ai No Tav per provare a fare scouting con i grillini. Tutto questo non è facile da capire, almeno per me».

Alla fine la sinistra si è alleata con Berlusconi.

«Questo governo non piace a nessuno. Ma credo fosse l'unico possibile. Ringrazio Dio che non si sia fatto un governo con Grillo e magari un referendum per uscire dall'euro. Se poi molti nel Pd volevano governare con Grillo e io non sono d'accordo non è un dramma. Ora il Pd è di moda occuparlo, prendere la tessera per poi stracciarla. Non ne posso più di queste spiritosaggini».

Apprezza Letta?

«Le ho detto che seguo poco. Se mi chiede chi è ministro di cosa, magari non lo so. Quando viaggio compro sei giornali, ma dopo dieci minuti li poso e comincio a guardare fuori dal finestrino...».

Colpa dei giornali o della politica?

«Magari è colpa mia. Mi sento, mischiando Prezzolini e Togliatti, un "inutile apota". Comunque nutro un certo rispetto per il lavoro non facile di Letta e di Alfano. Sono stufo del fatto che, appena si cerca un accordo su una riforma, subito da sinistra si gridi all'"inciucio", al tradimento. Basta con queste sciocchezze. Basta con l'ansia di non avere nemici a sinistra; io ho sempre avuto nemici a sinistra, e non me ne sono mai occupato. Ho votato Pci quando era comunista anche Napolitano. Ma viene il momento in cui la realtà cambia le cose, bisogna distaccarsi da alcune vecchie certezze, lasciare la ciambella di salvataggio ed essere liberi di nuotare, non abbandonando per questo la tua terra d'origine. Non ce la faccio più a sentir recitare la solita solfa "Dì qualcosa di sinistra". Era la bellissima battuta di un vecchio film, non può diventare l'unica bandiera delle anime belle di oggi. Proviamo piuttosto a dire qualcosa di sensato, di importante, di nuovo. Magari scopriremo che è anche di sinistra».

Di Berlusconi cosa pensa?

«Berlusconi è stato fondamentalmente un uomo d'azienda. Nel suo campo e nel suo tempo una persona molto abile, non un vecchio padrone delle ferriere. Ha fatto politica solo per proteggere i suoi interessi, senza avere nessun senso dello Stato, nessun rispetto per le regole e, credo, con alle spalle una scarsa cultura generale. I risultati sono sotto gli occhi di tutti. È imputato di reati gravi e si è difeso dai processi più che nei processi. Che altro vuole sapere? Aveva ragione l'Economist : Berlusconi era inadatto a governare l'Italia. Mi chiedo però anche se l'Italia sia adatta a essere governata da qualcuno».

Un premier non telefona in questura per far liberare un'arrestata dicendo che è la nipote di Mubarak, non crede?

«Certo. Andreotti non si sarebbe mai esposto così. Però, guardi, ho seguito con crescente fastidio e disinteresse l'accanimento sulla sua vita privata. Forse potevamo farci qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto? Pensare di eliminare Berlusconi per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra. Meglio sarebbe stato elaborare un progetto credibile di riforma della società e competere con lui su temi concreti, invece di gingillarsi a chiamarlo Caimano e coltivare l'ossessione di vederlo in galera. Non condivido nulla dell'etica e dell'estetica berlusconiana, ma mi irrita sentir parlare di "regime berlusconiano": è una falsa rappresentazione, oltre che una mancanza di rispetto per gli oppositori di Castro o di Putin che stanno in carcere. E ho trovato anche ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta al sindaco di Firenze per un suo incontro col premier».

Renzi appare l'uomo del futuro.

«Renzi è uno che ha sparigliato. Se il Pd avesse candidato lui probabilmente avrebbe vinto. Ma la scelta del termine rottamazione non mi è mai piaciuta, mi è sempre parsa volgare e violenta. E poi non sono più disposto a seguire nessuno a scatola chiusa».

Quindi non crede in lui? E non voterà alle primarie?

«Il verbo "credere" non dovrebbe appartenere alla politica. Non basta promettere bene e saper comunicare. E poi penso di non votare alle secondarie, si figuri se voterò alle primarie. Il Pd sta passando l'estate a litigare. E magari anche Renzi ne uscirà logorato».

Aveva acceso speranze Grillo e l'idea della rete come veicolo di partecipazione.

«Ho trovato inquietante la campagna di Grillo, il suo modo di essere e di porsi, il rifiuto del confronto, le adunate oceaniche. Condivido i tagli ai costi della politica e la richiesta di moralizzazione che viene da molti e che Grillo ha saputo ben intercettare. Molti elettori e molti eletti del M5S sono sicuramente persone degne e capaci di fare politica. Ma questa idea della Rete come palingenesi e istituzione iperdemocratica mi ricorda i romanzi di Urania».

Con Veltroni avete fatto pace?

«Per quell'intervista mi saltarono addosso in molti, compresi alcuni colleghi cantanti. Qualcuno mi chiese addirittura "Chi ti ha pagato?". Con Veltroni ci siamo incontrati per caso un paio di mesi fa al Salone del Libro a Torino, abbiamo parlato qualche minuto e credo che questo abbia fatto piacere a tutti e due. È sempre una persona molto ricca sul piano umano. Ma non mi andava di essere catalogato tra i Veltroni Boys».

Non c'è proprio nessuno che le piaccia?

«Papa Francesco, la più bella notizia degli ultimi anni. Ma mi piaceva anche Ratzinger. Intellettuale di altissimo livello, all'apparenza nemico del mondo moderno e in realtà avanzatissimo, grande teologo e per questo forse distante dalla gente. Magari i fedeli in piazza San Pietro non lo capivano. Ma il suo discorso di Ratisbona fu un discorso importante».

Oggi non canterebbe più «Viva l'Italia»?

«Al contrario. Sono convinto che l'Italia abbia grandi chance per il futuro. E ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. "L'Italia che resiste", ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c'entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista "resistere resistere resistere". "L'Italia che si dispera e l'Italia che s'innamora". L'Italia che ogni tanto s'innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l'Italia, e per gli italiani, non è in discussione. Sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy».

Avete presente la storiella del corvo che si lamenta di quant'è nero il merlo? A tanti è venuta in mente ieri leggendo le dichiarazioni di tanti esponenti del Pd dopo che Francesco De Gregori, un'icona storica della sinistra, aveva detto al Corriere: «Non voto più, la mia sinistra si è persa tra slow food e No Tav».

De Gregori si iscrive al club degli artisti delusi dalla sinistra. Il cantante volta le spalle al Pd "perso tra slow food e No Tav", ma raccoglie solo critiche: "Incredibile, sei invecchiato così male", scrive Paolo Giordano su “Il Giornale”. Irritati, gli hanno mandato a dire: «Non possiamo credere che tu sia invecchiato così male». E poi lo hanno rassicurato (minacciosamente): «Conserveremo l'intervista, la ricorderemo come un errore e una critica eccessiva, tenendo a mente che non è da un calcio di rigore sbagliato che si giudica un giocatore». Mamma mia. In realtà il «calcio di rigore» è forse una delle più lucide e dolorose interviste di Francesco De Gregori negli ultimi anni, quello che con Il generale e La storia siamo noi si è conquistato nei decenni il rispetto di un'intera area politica. Parlando con Cazzullo, ha snocciolato tutti i mal di pancia di chi votava a sinistra e ora anche no. La sinistra? «È un arco cangiante che va dall'idolatria per le piste ciclabili a un sindacalismo vecchio stampo a tratti incompatibile con la modernità». Berlusconi? Oltre alle solite precisazioni anti Cav, ha sottolineato che «pensare di eliminarlo per via giudiziaria credo sia stato il più grande errore di questa sinistra». La quale, per intenderci, avrebbe fatto meglio a porsi «qualche domanda in meno su Noemi e qualcuna di più sull'Ilva di Taranto». Probabile che a far rabbrividire i piddini duri e puri siano state frasi come «sono stato berlusconiano solo per trenta secondi in vita mia: quando ho visto i sorrisi di scherno di Merkel e Sarkozy», oppure «trovo ridicolo che si sia appiccicata una lettera scarlatta a Renzi per un suo incontro con Berlusconi» o, infine quel gelido «ho trovato inquietante la campagna di Grillo» proprio poco dopo che il Pd di Bersani ha fatto di tutto per portarselo al governo. Insomma, dopo aver fatto suonare La storia siamo noi a tutti i congressi sin dai tempi della «gioiosa macchina da guerra», ora è la sinistra a farsele suonare dalla propria icona. Oltretutto la base Pd deve pure trangugiare quello che quasi tutti pensano: «Se il Pd avesse candidato Renzi, probabilmente avrebbe vinto». Insomma, la caporetto della salamella. Sarà per questo che le reazioni, specialmente quelle sui social network, sono arrivate al bivio: da una parte gli increduli, dall'altra (più numerosi) quelli che approvavano le parole di un artista nel quale si riconoscono sin dagli anni '70. Di certo, l'enfasi dei commenti legittima lo status di De Gregori ma non la novità delle sue parole. In realtà, seppur autorevolissima, è l'ultima di una sfilza di j'accuse di maestri della musica che parte da quel disco (e spettacolo) Polli d'allevamento di Giorgio Gaber che nel 1978 segnò la sua frattura con il movimento giovanile. Da allora è stato uno stillicidio di cannibalismo: artisti storicamente identificati con la sinistra che ne prendevano drasticamente le distanze, trasformando spesso con il senno del poi il sonno del prima. Nanni Moretti ad esempio. Oppure Francesco Guccini (La locomotiva è un must da lacrimoni di nostalgia per vetero comunisti) che non ha fatto giri di parole quando Prodi è stato trombato nell'ultima corsa al Quirinale. Dopotutto, sul sottile filo che dal disilluso Gino Paoli arriva al De Gregori di oggi, stanno in equilibrio della contestazione a sinistra anche Antonello Venditti («Il Pd è chiuso nel proprio apparato»), Pino Daniele quello che cantava «Questa Lega è una vergogna» e ora dice di «esser deluso dalla sinistra», Giovanni Lindo Ferretti (un genietto nato con un gruppo che si chiamava nientemeno che CCCP) e anche Lorenzo Jovanotti che ha semplicemente detto: «L'opposizione a un vuoto finisce per essere un altro vuoto». Molto bipartisan. Ma molto più doloroso per chi non accetta la cosiddetta autocritica perché, come diceva il pioniere Gaber, è sempre «più comunista degli altri».

Da De Gregori a Guccini: il Pd è rimasto senza voce. De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati delusi dai generali democratici. Da Guccini a Samuele Bersani, da Jovanotti a Venditti e alla Mannoia: il Pd è rimasto afono, scrive Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Il Pd è diventato afono. Le uniche voci rimaste sono quelle degli artisti, pronti a cantare la loro delusione. Sono finiti i tempi dei palchi, delle colonne sonore e del connubio tra musica e politica. Adesso, i democratici sono rimasti senza cantori. Francesco De Gregori è solo l'ultimo di una lista di soldati stufi dell'incapacità dei generali. Non resta che abbandonare il campo. Vuoi perché “la sinistra si è persa tra slow food e No Tav”, vuoi perché le ultime decisioni democratiche hanno fatto traboccare un vaso già pericolante. E così arrivano defezioni che non ti aspetti. Come quella di Francesco Guccini che, all'indomani della pugnalata inflitta dai falchi democratici al suo amico Romano Prodi, arriva a sentenziare affranto: “Non so se il Partito democratico sia ancora il mio partito”. O come quella di Antonello Venditti, che alla vigilia delle amministrative capitoline, suonò note caustiche: “Il Pd non sa che cos’è e che cosa vuole essere, è chiuso nell’apparato, non ascolta e non capisce più Roma”. Pd capoccia. E pensare che nel 2007 il cantautore si diceva convinto che “non credere nel Pd sarebbe come rinnegare me stesso, è la mia storia naturale. Non credo tanto nel partito, penso che il vero partito siamo noi''. Per Samuele Bersani è stato proprio uno spaccacuore. Il cantante riminese non ha avuto remore a esternare tutto il suo malumore davanti al pubblico pagante: “Non mi fido più del Pd, voterò Movimento 5 Stelle”, annunciò prima delle ultime elezioni politiche. Se prima avrebbe affidato le chiavi di casa a Walter Veltroni, adesso Jovanotti al Pd probabilmente non affiderebbe nemmeno un centesimo. “Questo governo fa male all'Italia, un accordo Pd-Pdl non mi sembra rispettoso dell'esito delle elezioni, non mi convince molto”. Cherubini rimane un nostalgico di Veltroni, ma una volta finito il suo progetto, ha dovuto ammettere che “nel Pd sono tornati a galla gli anziani D'Alema, Bersani, Bindi. Li rispetto, ma non si va da nessuna parte con loro”. Adesso non gli resta che puntare su Renzi, sperando di non rimanere l'unico a cantare: "Mi fido di te". Fiorella Mannoia, in tempi non sospetti, ha fatto coming out preferendo Ingroia: “Non ho votato Pd e non sono pentita. Sono di sinistra. È per questo che non li ho votati". Quelle che le donne dicono... L'ultima cantante che ha espresso parole positive nei confronti di un esponente del Pd è stata Gianna Nannini: “Complimenti per la scelta! Finalmente qualcuno che si intende di musica! Inno è il pezzo più bello che ho scritto negli ultimi 20 anni!”, disse la cantante commentando la scelta di Pier Luigi Bersani della nuova colonna sonora del Pd. Adesso il segretario è Epifani e quella musica non ha portato molto bene.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

La sgangherata pattuglia pentastellata non conosce nemmeno il nome dei suoi eroi. La consueta gaffe, questa volta, ce la regala il senatore grillino Nicola Morra, capogruppo a Palazzo Madama. Prende la parola in aula, e nello sventolio di agendine rosse dei movimentisti seduti attorno a lui, ricorda la strage di via D'Amelio. Così Morra: "Dobbiamo ricordare Salvatore Borsellino...". Tra i suoi compagni di "movimento" nessuno dice una parola, nell'emiciclo si leva una voce: "Non sa nemmeno come si chiama...". Quindi prende la parola il presidente di Palazzo Madama, Pietro Grasso, che riprende Morra: "Stiamo ricordano Paolo, perché non credo proprio che Salvatore Borsellino sia nelle condizione di essere ricordato". Salvatore, infatti, è il fratello. Vivo e vegeto. Grillini, analfabeti parlamentari: "Non capiamo che cosa votiamo" Che autogol in diretta streaming...I senatori a 5 Stelle si coprono di ridicolo nella loro assemblea: "Emendamenti incomprensibili, qualcuno ce li traduca". Però incolpano gli altri partiti, scrive Franco Bechis su “Libero Quotidiano”. Per giorni e giorni fra marzo e aprile avevano tuonato contro la mancata costituzione delle commissioni parlamentari perché così non li facevano lavorare. Ora dopo quattro mesi di lavoro in commissione il Movimento 5 stelle scopre di annegare in quel lavoro che gran parte dei suoi eletti non sanno fare. La gran confusione e l’esteso dilettantismo è emerso durante la riunione (parzialmente trasmessa in streaming) del gruppo parlamentare al Senato giovedì 25 luglio. A sorpresa la conduzione dell’assemblea è stata affidata a Maurizio Buccarella e non al capogruppo pro-tempore Nicola Morra, che pure gli sedeva a fianco silente. A illustrare l’imbuto in cui il movimento si è infilato è stato invece Maurizio Santangelo, il senatore che si è ritagliato un po’ di notorietà a palazzo Madama perché ogni cinque minuti interrompe la seduta per chiedere la votazione elettronica. Santangelo si è lamentato della scarsa incidenza dei parlamentari del movimento, che spesso fanno lunghi interventi «anche di qualità», che però nessuno ascolta. Forse è meglio - ha sostenuto - utilizzare più delle parole gli emendamenti per migliorare i provvedimenti presentati dal governo e della maggioranza. Ed è qui che è nato lo psicodramma interno al gruppo. A prendere la parola è stata infatti la catanese Ornella Bertorotta, membro della commissione bilancio del Senato: «A proposito di emendamenti», ha esordito, «esco un attimo dal tecnicismo per dire che nella commissione bilancio abbiamo molta difficoltà a difendere i nostri emendamenti, perché proprio non li capiamo». Scritti - come quasi tutte le leggi che si vorrebbero cambiare in modo incomprensibile. «Ci vuole tutto uno studio», ha sostenuto la Bertorotta, «per capire il linguaggio giuridico, e con i tempi che abbiamo non ce le facciamo. Forse potremmo approfittare delle nostre segretarie perché prendano appunti da chi conosce le cose e poi redigano una spiegazione in calce ad ogni emendamento».  Semplifica Laura Bignami: «Sì, anche io ho questa impressione: che non capiscono i nostri emendamenti e quindi poi non riescono a difenderli». Di fronte allo smarrimento di gran parte dei senatori a Cinque stelle, va diretto un altro membro della commissione Bilancio, Elisa Bulgarelli: «Guardate, gli emendamenti debbono passare tutti in bilancio. Quando arrivano sono veramente molto tecnici, e non solo a livello giuridico. Gli ultimi che venivano dalla commissione Lavoro erano scritti in modo del tutto incomprensibile. Così non siamo riusciti a difenderli: non capendoli non sapevamo che argomenti trovare con gli altri». Qualcuno fa osservare che gli ultimi emendamenti inviati avevano la loro spiegazione allegata, e la Bulgarelli scuote la testa: «Non dovete scriverci spiegazioni che sono identiche al testo incomprensibile perché ovviamente non capiamo nemmeno quelle». Ai Cinque stelle puoi dire di tutto, salvo che lavorano male. Perché sono molto fieri del proprio presunto sapere e pontificano su tutto. Quindi di fronte alle critiche si offendono. E rigirano la frittata. L’ha fatto subito lo stesso Santangelo: «Loro hanno certo ragione. Però questa problematica nasce dal fatto che il governo e questa maggioranza mettono dei decreti omnibus in cui ci sono delle cose complicatissime e c’è sempre poco tempo per capire e trovare soluzioni. Ecco: quando parliamo di ostruzionismo il vero ostruzionismo è quello che si sta facendo nei confronti dell’unica forza politica nuova, che è la nostra: il Movimento 5 stelle. Noi ancora non siamo pratici, abbiamo bisogno di un po’ di tempo...». Ribaltando la frittata, Santangelo sostiene che «ad esempio nel decreto Iva sia Pd che Pdl avevano presentato molti emendamenti  di buon senso che avremmo votato. Appena l’hanno capito hanno fatto ostruzionismo contro noi,  decidendo di ritirare tutti gli emendamenti». Siamo alla fantasia più sfrenata. Che nasconde una sola verità, poi ammessa nella riunione: «Dobbiamo imparare e farci furbi. Basterebbe essere un po’ più veloci e presentare emendamenti nostri anche all’ultimo, con la firma di otto senatori. Quelli non li possono ritirare…». E il grande complotto alla fine diventò un auto complotto.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

Liberali? Solo a parole, scrive Nicola Porro su “Il Giornale”. C’è chi confonde l’idea liberale con un’ideologia: un set di regole precise e immutabili. Un dogma. Il fascino liberale è che esso, piuttosto, è un metodo. Prendiamo il caso delle sigarette e del maldestro tentativo governativo (poi annacquato) di vietarne l’uso in auto in presenza di minori. È l’apoteosi dello statalismo. Cioè l’esatto contrario del metodo liberale. La religione di Stato (in alcuni paesi basta togliere il predicato) decide cosa sia buono e giusto per il singolo, usurpando il libero arbitrio. La «violenza» dell’imposizione statuale detta un comportamento o uno stile di vita, che, se non rispettato, procura sanzioni. Molti considereranno la questione delle sigarette una bazzecola. Ma dietro questa pensata c’è un’ideologia pericolosa e che pervade le nostre istituzioni. Che banalmente si può riassumere così: c’è un gruppo di persone (politici e burocrati) da noi retribuite che pretendono di sapere cosa sia meglio per noi. Una roba da far accapponare la pelle. La libertà è pericolosa. È pericoloso aprire un’azienda, è pericoloso concepire un figlio, è pericoloso pensare diversamente, è pericoloso mangiare, bere e fumare. Ma è molto più pericoloso che qualcuno decida per noi riguardo questi affari. Un effetto collaterale di questo diffuso cancro ideologico è la deresponsabilizzazione che provoca dell’individuo. Ci conformiamo alla legge non perché ne siamo convinti, ma perché la trasgressione è punita. In un recente libro dell’istituto Bruno Leoni (Breve storia della libertà) si ricorda l’esperimento psicologico di Milgram. La facciamo breve: i cittadini possono diventare carnefici del prossimo, pur non volendolo, solo perché l’Autorità lo richiede e solo grazie alla pulizia della coscienza che ci fornisce un meccanismo di deresponsabilizzazione. In quanti casi un funzionario pubblico può devastare una vita, una storia, un’impresa solo imponendo il rispetto di una norma? Un ultimo suggerimento non richiesto alla componente governativa che si rifà al centrodestra. E che per di più si dice voglia ritornare allo spirito originale di Forza Italia. Libertà civili e libertà economiche sono strettamente connesse, come insegnava Einaudi, e fare i furbetti sulle prime, rende meno credibili le battaglie sulle seconde.

POPULISTA A CHI?!?

Tutti contro il «populismo» Chi ha detto che è un insulto? Da un trentennio è il nuovo "spettro" che ossessiona il mondo. Ma far coincidere questo fenomeno con l'antipolitica è un errore...scrive Stenio Solinas su “Il Giornale”. Se il populismo sia un'ideologia, uno stile politico, una mentalità, o le tre cose insieme, è difficile dire. Negli anni Sessanta, Isahia Berlin parlò in proposito di «complesso di Cenerentola», ovvero la difficoltà/frustrazione degli addetti ai lavori nel non riuscire a trovare nella pratica politica ciò che nella teoria politologica veniva di volta in volta configurato. Certo è che, da un trentennio a questa parte, esso ha preso il posto del comunismo quale «spettro» destinato a ossessionare il mondo. È uno degli effetti, il più vistoso, del disincanto verso le democrazie occidentali, e insieme il più virtuoso. La fine del Novecento ha portato con sé la fine delle passioni ideologiche proprie dei totalitarismi e ogni nostalgia paternalistico-autoritaria, facendo emergere una linea critica interna alla democrazia stessa nella quale è il popolo, appunto, la radice, il soggetto e il fine ultimo del modello democratico, la ragion d'essere che ne legittima la superiorità rispetto agli altri modelli politici. Ce lo siamo forse dimenticati, ma si governa, meglio, si dovrebbe governare, in nome del popolo, per il popolo, da parte del popolo. Al populismo ha ultimamente dedicato un interessante dossier monografico, Cos'è il populismo, la rivista Diorama (n° 313, 3 euro; casella postale 1.292, 50122 Firenze), ed è curioso come un fenomeno di per sé trasversale, presente cioè a destra come a sinistra e ormai oggetto di una robusta produzione scientifica, faccia fatica a imporsi nel dibattito corrente delle idee, se non come insulto banale, metafora di pura e semplice demagogia, ennesima variante di quelle parole-talismano atte a dequalificare l'avversario. È come se, una volta legata strettamente la democrazia ai suoi meccanismi di delega e di rappresentanza, si preferisca vederla strangolata loro tramite, invece di valutare quanto e come le istanze di partecipazione diretta alla gestione del potere potrebbero farla meglio respirare. Alla base di questa contraddizione c'è un combinato disposto che ha a che fare, da un lato, con il discredito della classe politica nella sua totalità, dall'altro con la sua distanza dalla propria fonte legittimante, l'elettorato, ovvero il popolo. È un problema che riguarda tutti gli attori politici presenti, ma che, nel campo delle idee, della formazione del consenso e delle mentalità, incide più profondamente a sinistra di quanto non faccia a destra, e vale la pena approfondire il perché. Abbandonate le speranze messianiche riposte nella classe operaia, i suoi intellettuali e le sue élites politiche si sono convertite all'economia di mercato e alla «marginalità» degli interessi da difendere. I «people» hanno insomma preso il posto del popolo, con tutto il loro corteo di «politicamente corretto», «diritti delle minoranze», «omoparentalità», arte d'avanguardia, «discorso sui generi», fobie corporali, sorveglianza/penalizzazione del comportamento altrui... Stabilito che il popolo «pensava male» lo si è per certi versi ripudiato, infliggendo a chi si sentiva minacciato dalla disoccupazione, l'insicurezza economica e sociale, la perdita di status e di identità, il moralismo proprio di una nuova classe globalizzata che essendo parte integrante del sistema agisce sulla base dei propri privilegi e non dei bisogni altrui. Il corollario finale di questo modo d'essere e di pensare è che, se non ci fosse il popolo, non ci sarebbe il populismo...Il fatto è, come ben spiega il fascicolo di Diorama citando L'eloge du populisme di Vincent Coussédiere, «non vi è politica senza popolo, né popolo senza politica. Lo stare insieme populista è il reagire al posto vuoto della direzione politica. Corrisponde a quel momento della vita delle democrazie in cui il popolo si mette a malincuore a fare politica, perché dispera dell'atteggiamento dei governanti che non ne fanno più». È anche per questo che associare il populismo all'antipolitica è fuorviante. Come nota Marco Tarchi, che di Diorama è il direttore, «per quanto i populisti siano spinti dall'impazienza e dal culto della semplificazione a diffidare della politica e a dipingerla come un luogo dove regnano pigrizia, corruzione e parassitismo, essi non rifuggono dal misurarsi con i concorrenti sul piano della conquista del consenso e delle leve del potere. Ogni volta che si cimenta sul piano della competizione istituzionalizzata con altri soggetti, a partire dalla partecipazione alle elezioni, la loro è un'azione squisitamente politica». Certo, il populismo può anche incarnare una «corruzione ideologica della democrazia» - come nota ancora su Diorama Pierre-André Taguieff - ma «nel contempo esprime un'esigenza di democrazia partecipativa e di cittadinanza attiva che il sistema funzionale ben temperato della democrazia rappresentativa non è capace di soddisfare». Così, il populismo è l'ombra della democrazia, nel senso di proiezione e riaffermazione legittimante della volontà dei cittadini, ma è anche il fantasma che la accompagna e la ossessiona, stimolo e insieme minaccia... È molte cose, dunque, tranne che un insulto o un anatema.

MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?

Punita la pm anti Vendola. E ora vuole candidarsi. La Digeronimo denunciò i rapporti tra Nichi e il gip che l'aveva assolto dall'abuso di ufficio, scrive Tiziana Paolocci su “Il Giornale”. Il processo a Nichi Vendola ha fatto strike di magistrati all'interno del Tribunale di Bari. Il pm Desirè Digeronimo, che all'indomani dell'assoluzione del governatore della Regione Puglia da parte del gup Susanna De Felice denunciò l'amicizia tra questa e la sorella del governatore, Patrizia, è stata trasferita alla Procura di Roma. Una punizione in piena regola per chiudere un procedimento aperto proprio dal Csm per «rimuovere preventivamente una situazione di presunta incompatibilità tra lei e i colleghi». Il gup che giudicò innocente il presidente di Sel dall'accusa di abuso d'ufficio, invece, verrà trasferita alla Corte d'appello di Taranto, ma solo per avallare una sua richiesta. Era stato lo stesso giudice a chiedere, infatti, il trasferimento all'interno di un concorso ordinario. Due pesi due misure, quindi, per i principali attori di un processo che sollevò un vero e proprio terremoto all'interno del Tribunale, seguito da uno strascico di polemiche. I pm Desirè Digeronimo e Francesco Bretone che avevano chiesto una condanna a 20 mesi di reclusione per Vendola (processato insieme all'ex assessore alla Salute Alberto Tedesco), infatti, subito dopo l'assoluzione del politico avevano inviato un esposto al procuratore generale di Bari, al capo del loro ufficio e a un procuratore aggiunto, segnalando l'amicizia che legava il giudice De Felice alla sorella del governatore. Dall'iniziativa, però, avevano preso le distanze 26 pm firmando una lettera, che aveva spinto poi i consiglieri di Area ad aprire una pratica sulla Digeronimo. Le accuse del Csm su di lei erano basate non solo sulla conflittualità con alcuni colleghi e avvocati, ma anche sul rischio di non imparzialità per via dei rapporti personali con l'ex direttore generale della Asl di Bari, Lea Cosentino e con la sua amica Paola D'Aprile. E non era bastato a dar manforte alle parole della Digeronimo le foto pubblicate a febbraio da Panorama, che mostravano una pranzo organizzato nell'aprile 2006 per il compleanno di una cugina di Vendola, al quale partecipavano lo stesso governatore e il giudice De Felice. Così il pm non ha potuto far altro che indicare una nuova sede di lavoro ottenendo in cambio l'archiviazione della pratica disciplinare. Ma non ha deposto le armi e ieri in una lettera aperta è tornata ad attaccare il Csm, Vendola e i colleghi: «Incolpevolmente ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che la legge è uguale per tutti». Poi annuncia: «Se si creeranno le condizioni servirò in altro ruolo i miei concittadini». Una promessa che non esclude un futuro da candidato sindaco di Bari.

Ecco il testo della lettera aperta indirizzata "ai cittadini di Bari" e postata dal sostituto procuratore Desirée Digeronimo sul suo profilo Facebook: "Ho chiesto il trasferimento alla Procura di Roma ritenendo non più “tollerabile” la mia permanenza in servizio presso la Procura di Bari a seguito delle accuse totalmente infondate di alcuni colleghi sostituti auditi al CSM nel corso della pratica che mi ha riguardata. Preciso che tale procedura per incompatibilità non attiene in alcun modo a profili disciplinari né tantomeno a pretese irritualità riferibili all’invio di una nota, riservata personale, diretta ai miei superiori gerarchici e avente ad oggetto accadimenti inerenti il processo a carico del Presidente di Regione, Niki Vendola. La richiesta di trasferimento è stata motivata dal profondo rispetto dovuto all’istituzione della Procura della Repubblica di Bari e dalla mia personale indisponibilità a proseguire una collaborazione con alcuni colleghi in servizio in tale ufficio; infatti, dopo la pubblicazione sulla stampa del contenuto delle contestazioni formulate dal CSM, ancor prima che, in un legittimo contraddittorio, potessi dimostrarne la pretestuosità e falsità, come in ogni caso ho fatto depositando una memoria ampiamente supportata da riscontri documentali, ho ritenuto doveroso tutelare, da tali false accuse, la mia onorabilità e dignità professionale depositando un esposto alla competente Procura di Lecce. Nel corso di questi anni e soprattutto di questi ultimi mesi, attraverso un’ ossessiva sovraesposizione mediatica, ovviamente mai da me voluta o ispirata, sono state riportate notizie non corrispondenti alla verità dei fatti, che oggi ritengo opportuno precisare e smentire. La riservata da me sottoscritta unitamente al collega Bretone sulla vicenda De Felice – Vendola costituiva, nell’esercizio delle mie funzioni di Pubblico Ministero titolare di quel processo, una doverosa comunicazione di ufficio con riferimento a fatti e circostanze che necessitavano di superiore valutazione da parte dei soggetti istituzionali a ciò preposti. Tale atto, e non esposto, lungi dall’essere stato compiuto in violazione di legge e/o regole processuali era corrispondente a precisi doveri del mio ufficio. Illegittima e in violazione del dovere di riservatezza risulta la pubblicazione di tale nota riservata, circostanza in merito alla quale ho provveduto a formalizzare denuncia presso le sedi competenti. Tralasciando aspetti suscettibili di altre e ben più gravi valutazioni, una irrituale interferenza nell’esercizio delle funzioni a me assegnate dallo Stato potrebbero considerarsi i successivi documenti diramati alla stampa da parte dei rappresentanti di associazioni di categoria e/o di singoli uffici, con i quali, senza cognizione di causa e frettolosamente, veniva stigmatizzata a mio carico l’inesistente violazione di regole processuali. In merito ad una serie di false affermazioni riferite da alcuni protagonisti di tale vicenda e riportate dalla stampa , ho sporto denuncia presso la Procura di Lecce, in particolare: al contrario di quanto riferito dal Presidente Vendola nel corso di numerose trasmissioni televisive non sono mai stata amica, nel senso pieno del termine, della collega De Felice né mai ho presentato quest’ultima alla sorella del Presidente, Patrizia; del resto nella ormai nota fotografia del settimanale “Panorama” non sono certo io ad essere ritratta tra tali intimi protagonisti del pranzo di compleanno della cugina del Presidente; al contrario di quanto riferito da Patrizia Vendola non ho mai chiesto favori a lei o al fratello né mai ho avuto motivi di astio o inimicizia nei confronti di costoro; al contrario di quanto riferito dalla dott.ssa Pirrelli, moglie del ex senatore PD e magistrato Gianrico Carofiglio, non ho mai avuto rapporti conflittuali con giudici o avvocati del distretto, né con la maggior parte dei colleghi sostituti di Bari, mai ho intrattenuto rapporti di amicizia o colloqui telefonici con la dott.ssa Lea Cosentino, come risulta peraltro inconfutabilmente dimostrato dalla trascrizione di una intercettazione telefonica tra me e la dott.ssa Paola D’Aprile avvenuta ad opera del collega Scelsi nell’agosto del 2009, collega oggi imputato a Lecce per tali condotte in un processo che mi vede persona offesa. La verità di ciò che è accaduto in questi lunghi anni è tutta da un’altra parte. Prima di indagare sugli illeciti nella gestione della sanità regionale pugliese anche per chi oggi mi accusa ero magistrato competente e attento e del resto i risultati prodotti in 15 anni di lavoro appassionato e serio presso la Procura di Bari sono sotto gli occhi di tutti. La mia incompatibilità ambientale nasce dall’ “incolpevole” circostanza di essermi imbattuta in un’indagine che avevo il dovere, in ossequio al servizio che svolgevo per i cittadini di Bari, di approfondire e concludere; doveri che mi imponevano di non voltare la testa, di non tenere le carte nei cassetti. “Incolpevolemente” ho pensato che indossare la toga significasse osservare fino in fondo il principio che “la legge è uguale per tutti” e pur provocata e aggredita , “incolpevolemente” ho pensato che per un giudice il primo dovere fosse proseguire il suo lavoro nel silenzio e nella riservatezza, facendo parlare esclusivamente i propri provvedimenti. Ed in effetti i provvedimenti della Corte di Cassazione che hanno confermato la bontà dell’impianto accusatorio dell’indagine sulla sanità che sino al novembre 2009 ho personalmente seguito e poi condiviso con altri colleghi non possono che parlare per me. Oggi sono fiera di essere riuscita a indossare con onore una toga, pervenendo a tali importanti risultati , mentre un “potente” , come Lui stesso si è definito in recenti interviste, Presidente di Regione, nell’agosto 2009 in una lettera aperta pubblicata su tutte le testate nazionali, pur dichiarando di agire “per amore della verità” chiedeva a gran voce la mia astensione dall’indagine, mi tacciava di incompetenza, accusandomi genericamente di intrattenere rapporti di parentela e amicizia incompatibili con il ruolo. Sono fiera di aver saputo onorare con il silenzio l’istituzione che rappresento a fronte di tale comportamento del Presidente della Regione Puglia, che omettendo di rappresentare le sue doglianze presso le sedi competenti, così privandomi di ogni legittima difesa e contraddittorio, compiva una grave interferenza nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali di un magistrato della Repubblica Italiana. Sono fiera di aver resistito nell’adempimento del dovere nonostante la solitudine e la mancanza di solidarietà di chi avrebbe dovuto proteggere non me ma la mia funzione. E così la sezione locale dell’ANM che liquidava la questione della lettera di Vendola come un “fatto personale” tra me e il Presidente o il CSM dell’epoca che, contrariamente a quanto fatto per identici casi che riguardavano altri colleghi e altri personaggi pubblici, mi negava tutela posso dire oggi, con assoluta convinzione, che mancavano di salvaguardare non un singolo magistrato ma il prestigio e la credibilità delle funzioni giudiziarie. Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso, forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre il centro dei miei affetti e dei miei pensieri, e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini, con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza. Tanto esprimo ai cittadini di Bari che non mi hanno fatto mancare l’affetto e la solidarietà ma anche a chi oggi gioisce per una vittoria di “Pirro”. Un grazie speciale e con il cuore alle donne e agli uomini con cui ho condiviso quotidianamente le fatiche e le gioie del mio lavoro, ho apprezzato in voi onestà e coraggio, abnegazione assoluta a uno Stato spesso avaro con i suoi uomini migliori. Infine, rivolgendo un pensiero a quei colleghi della Procura di Bari, che pur decretando il mio esilio ringrazio per avermi aperto nuove e luminose strade da percorrere, mi torna in mente con un sorriso la frase di Diogene il cinico, il quale, condannato dai “ Sinopi” all’esilio, condannava costoro a rimanere in Patria". Bari lì 26 luglio 2013 Desirée Digeronimo.

La giunta distrettuale di Bari dell’Anm esprime "il proprio rammarico per il discredito che è stato gettato sull'intera magistratura, sul suo organo di autogoverno e sulla stessa Associazione nazionale magistrati". Secondo la giunta barese dell’Anm, è doveroso "sottolineare come il magistrato non possa sottrarsi alle regole che è chiamato a far rispettare". "La scelta della dott.ssa Digeronimo – rileva l’Anm – di trasferirsi presso altra sede, che di fatto ha bloccato il procedimento apertosi per la verifica di condotte che l’abbiano resa incompatibile con la permanenza presso la Procura di Bari, non può e non deve portare a cercare il consenso popolare, per fini evidentemente extragiudiziali, attraverso dichiarazioni unilaterali che altri magistrati, in ossequio ai principi di serietà, riservatezza e rispetto del codice deontologico, hanno riservato esclusivamente alle sedi istituzionali".

Vendola risponde al magistrato che lo indagò. "Scende in politica? Ci guadagna la giustizia". Scontro aperto tra il governatore leader di Sel e il pm Digeronimo che ha annunciato la volontà di candidarsi a sindaco di Bari. "Contro di me spinta da motivazioni politiche".  "Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".  E' scontro aperto tra il governatore Nichi Vendola e il magistrato Desirée Digeronimo che lo ha indagato per la vicenda della nomina di un primario, cui sono seguiti strascichi giudiziari e frizioni interne al Palazzo di Giustizia di Bari che hanno portato al trasferimento del pm a Roma per incompatibilità, scrive “La Repubblica”. Trasferimento annunciato con una lettera aperta alla città in cui la Digeronimo, oltre ad attaccare Vendola e i colleghi che l'hanno segnalata al Csm, si è detta pronta  a candidarsi per diventare il prossimo sindaco di Bari. Circostanza che - attacca Vendola - porta a galla la verità sulla "lunga clandestina campagna elettorale che spingeva le azioni della dottoressa Digeronimo". "Vado via dalla mia città lasciando processi delicati e indagini in corso" scrive la Digeronimo alla cittadinanza, sostenuta da un gruppo di associazioni politiche, pronte a lanciare le primarie della società civile. "Forse a qualcuno ciò piacerà, ma a loro dispetto Bari sarà sempre al centro dei miei affetti e dei miei pensieri e, se si creeranno le condizioni, sarò felice di continuare a servire in altro ruolo i miei concittadini con lo stesso impegno e determinazione, ma soprattutto con lo stesso Amore, quello che in questi anni ha fatto la differenza". "Sebbene sia abituato a cercare sempre le parole più appropriate per raccontare le mie emozioni - questa la replica del governatore - confesso che questa volta, dinanzi alle parole della dottoressa Digeronimo, ho provato la tentazione di restare in silenzio. Per marcare una distanza. Tuttavia, siamo dinanzi a una lettera pubblica e non davanti ad un atto giudiziario: ed è doveroso parlare. Una lettera ai 'cittadini baresi' proveniente da un magistrato tuttora in servizio a Bari, che non disdegna di esibire la propria 'folgorazione' per la politica. Lo fa con esibita ostilità nei confronti della mia persona. Lo fa, ed è la cosa che appare più paradossale e imbarazzante, con ostilità nei confronti della funzione giudiziaria, che tutti i cittadini vorrebbero esercitata da uomini e donne equilibrati e sereni. Che la dottoressa Digeronimo non sia stata terza e serena nei miei confronti, io lo so bene e la sua lettera una volta di più lo conferma. "Oggi capisco che non è serena nemmeno con il Csm, che ne ha decretato all'unanimità l'incompatibilità, imponendole di fatto il trasferimento. E non è serena neppure con i suoi colleghi, pm e giudici. Per cinque anni ho bevuto un calice amaro, ma sono stato sempre ossequioso verso le istituzioni giudiziarie e mi sono difeso nei processi uscendone sempre a testa alta. E' vero: mille volte ho sospettato che il suo accanimento nei miei confronti fosse motivato anzitutto da vanità, sebbene piuttosto crudele. Oggi finalmente appare la verità. Dunque, era solo una lunga clandestina campagna elettorale per una sorprendente autocandidatura quella che spingeva le azioni della dott. ssa Digeronimo. Una discesa in campo da cui la politica non guadagnerà, la giustizia certamente sì".

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore  a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi. Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”». Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.

Tutta la verità sulle foto di Vendola. La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama» . Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola) e il gip (Susanna De Felice) che lo ha assolto». Bum! Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio. Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia: «La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie». Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso. Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini. Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori. Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti. Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario. In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it. L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità. Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere  il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci. Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate: «Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così ndr) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente». Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto». Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»: «Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata». Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso». La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca. «Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola ndr) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?». Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico». Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio: «Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale». Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali. Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere». Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.

Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori. Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama.  «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali. 

Comunque troppi indizi fanno una prova. Troppi dubbi sull'operato della magistratura.

Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.

Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso. Ci sono dei processi - aveva spiegato - per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto. Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.

MANETTARI E PATACCARI.

Il Tribunale di Palermo, il 17 luglio 2013 ha assolto il generale dei carabinieri Mario Mori. Era accusato di non avere catturato, ad ottobre del '95 il boss Bernardo Provenzano consentendogli, così, di rimanere latitante, scrive “Il Corriere della Sera”. Secondo l'accusa, Mori pur avendone la possibilità non aveva catturato il boss. E' stato assolto anche il colonnello Mauro Obinu. I due, nel dettaglio, erano accusati di favoreggiamento aggravato dall'agevolazione a Cosa nostra. La sentenza è stata pronunciata, dopo circa sette ore e mezza di camera di consiglio, dalla quarta sezione del tribunale presieduta da Mario Fontana, alla presenza dei due ufficiali. L'accusa aveva chiesto 9 anni per l'ex generale del Ros Mori e 6 anni e mezzo per il coimputato, oltre all'interdizione perpetua dai pubblici uffici per entrambi. La formula assolutoria è stata: «perché il fatto non costituisce reato». Si tratta della stessa impiegata dai giudici il 20 febbraio del 2006, nell'altro processo a carico di Mori ( e del capitano Ultimo) per la mancata perquisizione del covo del boss Totò Riina. Anche in quell'occasione l'alto ufficiale dei Carabinieri venne assolto in primo grado, e anche in appello e in Cassazione. Il generale ha commentato la sentenza con un laconico: «C'è un giudice a Palermo». No comment, invece, dal colonnello Mauro Obinu. Ad ascoltare il dispositivo una decina di esponenti del movimento Agende rosse alcuni dei quali al momento della lettura hanno gridato: «vergogna». Più tardi alcuni di loro hanno commentato: «Siamo indignati. Questo processo è la dimostrazione che lo Stato non processa se stesso. Speravamo che potesse accadere, ma anche stavolta non è accaduto. Conoscendo le carte, speravamo in risultato diverso ma sapendo i sistemi di potere che ci sono dietro ce lo potevamo aspettare. Noi continueremo a lottare per la verità». Ha commentato la sentenza anche il procuratore aggiunto di Palermo Vittorio Teresi, pubblica accusa insieme al pm Nino Di Matteo: «Siamo amareggiati. Adesso si tratta di capire i punti di vista di chi, come il Tribunale, ha analizzato le carte. In tutti i processi si può vincere e si può perdere ma sono importanti le motivazioni. Bisogna vedere il ragionamento che hanno fatto i giudici per ritenere non credibili Riccio e Ciancimino, lo spiegheranno nelle motivazioni». Di Matteo ha aggiunto: «Rispetto la sentenza, ma non ne condivido alcun passaggio». L'ex pm di Palermo Antonio Ingroia, presidente di Azione Civile, sottolinea un aspetto particolare della sentenza: «Colpisce il fatto che anche sul mancato arresto di Provenzano sia stata utilizzata la stessa formula del processo sulla mancata perquisizione del covo di Riina, quando i giudici dissero che il fatto non costituiva reato. Cioè che il favoreggiamento ci fu ma non era voluto. Sarei sbalordito che un investigatore di razza come Mori avesse commesso "errori simili" davanti a capimafia come Riina e Provenzano. Di imperdonabili sbagli a propria insaputa ne abbiamo visti fin troppi, anche in questi giorni».  «Noi eravamo convinti di essere nel giusto. C'è stato qualche timore ad un certo punto. Ma i giudici con questa sentenza di assoluzione hanno dimostrato di essere autonomi. Hanno agito con autonomia, leggendo le carte», ha detto Basilio Milio, uno degli avvocati di Mario Mori e Mauro Obinu, e figlio di Piero, storico difensore scomparso 3 anni fa. Mori e Obinu erano sotto processo per favoreggiamento aggravato a cosa nostra, a proposito della mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995.

Poco più di 5 anni. Tanto è durato il processo di primo grado al generale Mario Mori e al colonnello Mauro Obinu.

Era il 18 giugno 2008: il gip «impose» un procedimento che all'inizio la procura non voleva celebrare e che poi è diventato quasi fatalmente la premessa di quello in corso sulla trattativa tra Stato e mafia. Mori, ex capo del Ros ed ex direttore del Servizio segreto civile, e Obinu sono accusati del mancato blitz di Mezzojuso: per la Dda di Palermo, si sarebbe potuto catturare Bernardo Provenzano già il 31 ottobre 1995, secondo quanto detto dal confidente Luigi Ilardo al colonnello Michele Riccio, piazzando un micidiale uno-due a Cosa nostra dopo l'arresto un paio d'anni prima di Totò Riina. Bisognerà invece attendere altri undici anni.

Un boccone amaro. Impossibile deglutirlo, né digerirlo. Gli sconfitti sono Marco Travaglio e Antonio Ingroia, la coppia d'assi dell'italico giustizialismo, il manettaro della stampa inquisitrice e il magistrato prestato alla politica, silurato, e scappato dalla magistratura stessa, scrive “Libero Quotidiano”. L'ex magistrato con la medesima vocazione per le manette del primo. La loro Caporetto è stata Palermo, dove i giudici hanno sconfessato, distrutto, smontato il loro impianto accusatori. Dove i giudici, di fatto, hanno tirato un tratto di penna sulla trattativa tra Stato e mafia: una panzana da cui Travaglio&Ingroia hanno attinto e continuano ad attingere.

Assoluzione - L'ex generale Mario Mori, e con lui il colonnello Mauro Obino, sono stati assolti con formula piena. Per "non aver commesso il reato". I due ufficiali erano accusati di favoreggiamento per la mancata cattura di Bernardo Provezano nel 1995, in un casolare di Mezzojuso. Va ricordato che Mori, nel 2006 e assieme al capitano Ultimo, fu assolto anche per la mancata perquisizione nel covo di Totò Riina. Si tratta di un altro caso ma che fa parte dello stesso piano, della trattativa di cui Travaglio&Ingroia strascrivono e straparlano da anni. 

Ciancimino - A Palermo, per l'accusa, la batosta è stata epocale. Non solo il Tribunale ha assolto, ma ha anche chiesto di riprendere i verbali degli accusatori per denunciarli eventualmente per calunnia. Chi sono, gli accusatori? Il colonnello Michele Riccio e, soprattutto, il celebre Massimo Ciancimino. Il figlio di Vito, l'ex sindaco mafioso di Palermo, fonte principale dell'Ingroia che ha aperto le inchieste e del Travaglio che ne ha scritto, si trova ora agli arresti domiciliari per evasione fiscale: aveva raccontato dei rapporti tra suo padre e il generale Mori. Peccato però che non sia stato trovato alcun riscontro. E per questo, ora, potrebbe finire alla sbarra. 

Presi in giro - Travaglio&Ingroia, di fatto, sono stati presi in giro sulla mafia. Il verdetto è chiaro, inappellabile: sono due boccaloni, sputtanati da Ciancimino e dall'esito delle loro stesse crociate. Ma che il processo - di cui ieri, a Palermo, si è concluso il primo grado - facesse acqua da tutte le parti non è certo un mistero. Secondo il teorema ingroiano, Provenzano era il regista della trattativa, e lo era diventato dopo aver tradito Riina. Peccato però che con il mancato favoreggiamento di Provenzano stesso manca il pilastro fondamentale dell'inchiesta sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. Il verdetto è chiaro: i Carabinieri del Ros - Mori e Obinu - non garantirono impunità né immunità a Provenzano, e dunque non fecero da tramite tra Stato e mafia. Un'umiliazione, per Travaglio&Ingroia.

La prima pagina... - Infine una piccola osservazione sulla prima pagina del Fatto Quotidiano di oggi, giovedì 18 luglio. Il giornale vicediretto da Travaglio, per mesi, ha sparato in prima pagina ogni notizia e notiziuola sulla fantomatica trattativa. Ci hanno costruito un giornale, sulla trattativa. Come viene data l'assoluzione di Mori? Semplice, un boxino, piccolo piccolo, con il titolo che sembra un capriccio: "Il fatto c'è, ma non è reato". Quindi, quasi fosse uno sfogo, l'apertura è tutta dedicata alle amate, amatissime manette. "I ligresti in carcere. Tronchetti condannato". C'è da scommetterci, le manette dell'apertura - metaforicamente parlando, sia chiaro - le avrebbero volute chiudere attorno ai polsi del generale Mori. Ma non è possibile. Lo dice un Tribunale.

Forse sarà peccato, ma trattare con Cosa nostra non sempre è reato, scrive Giovanni Fiandaca su “Il Foglio”.

Fiandaca torna sulla maxi inchiesta di Palermo ed elenca gli eccessi moralistici e le contraddizioni giuridiche.Descrizione: http://adv.ilsole24ore.it/RealMedia/ads/Creatives/default/empty.gif Questa è la sintesi, rivista dall’autore, dell’intervento conclusivo del professore Giovanni Fiandaca al dibattito di Palermo sulla “trattativa” tra stato e mafia. Dibattito contro il quale si è scagliato, sul Fatto di ieri, Marco Travaglio. Il professor Fiandaca è ordinario di Diritto penale e recentemente è stato definito da Antonio Ingoria “mio maestro”.

La spinta a scrivere il saggio sulla cosiddetta “trattativa”, pur sapendo di affrontare un argomento delicato e divisivo e di poter essere, di conseguenza, politicamente strumentalizzato, è stata duplice. Da un lato, ho riscontrato un certo disagio, una certa difficoltà di comprensione – avvertita, mi consta, anche da magistrati autorevoli, siciliani e non siciliani – nei confronti di questa indagine sulla trattativa: come a percepire qualcosa di non chiaro, di non immediatamente comprensibile. Insomma, una qualche impressione di forzatura. A questo però si accompagnava una campagna mediatica tesa a diffondere quella che potremmo definire una “costruzione mediatica del reato”. Giornali e televisioni davano per scontato, usando il termine generico e vago di “trattativa”, che si fosse consumato un crimine gravissimo. Ma così scontato non era. Infatti, a lezione uno studente, anche a nome di altri colleghi, mi ha chiesto: “Professore, possiamo farle una domanda che non c’entra con il corso istituzionale? Ce lo spiega cos’è questo reato di trattativa?”. E allora mi sono accorto che i miei studenti non avevano capito nulla. Ho così avuto la conferma che c’era un’esigenza di fare chiarezza. Da qui una rafforzata sollecitazione a scrivere il saggio.

Una volta pubblicato, diverse persone (magistrati, colleghi universitari, ecc.) mi hanno telefonato e mi hanno detto: “Giovanni ci voleva, perché tu hai chiarito tante cose che non risultavano chiare”. Questo saggio l’ho in origine destinato alla rivista giuridica Criminalia, e poi ho acconsentito a che fosse ripubblicato sul Foglio: invero con qualche titubanza, trattandosi di un giornale intelligente ma politicamente scorretto. Confesso che il titolo poi prescelto dalla redazione (“Il processo sulla trattativa è una boiata pazzesca”) mi ha turbato non poco. Ma alla fine ho superato questo piccolo trauma, rendendomi conto che fosse importante estendere il dibattito a un pubblico più ampio.

Non ritorno nel merito delle questioni tecnico-giuridiche perché vi tedierei. Mi limito a rilevare che l’opinabilità dell’approccio giuridico della procura di Palermo è ulteriormente confermata da osservatori insospettabili come ad esempio Gian Carlo Caselli, il quale in un recente intervento sul Fatto ha ammesso che è legittimo ragionare dell’impostazione accusatoria anche in termini piuttosto critici. A parte l’assai dubbia applicabilità della figura di reato prescelta dall’accusa, e cioè la minaccia a un corpo politico dello Stato, un punto fondamentale trascurato dall’accusa è quello sul quale ha poc’anzi posto l’accento Salvatore Lupo: e cioè che la tutela della sicurezza collettiva in presenza di un rischio concreto di reiterazione di atti stragistici spetta in primo luogo al potere esecutivo. Mentre – aggiungo dal canto mio – la magistratura è competente a intervenire a posteriori, nell’eventualità che soggetti pubblici commettano azioni manifestamente illecite, pur a fin di bene. Ma il problema, nel nostro caso, è proprio questo: ad avviso non soltanto mio, ma di altri studiosi di diritto penale, la procura di Palermo non è finora riuscita a prospettare ipotesi di reato plausibili. (…) Mancanza di rigore e incertezze emergono anche in punto di ricostruzione fattuale. Nell’ormai celebre memoria dei pubblici ministeri palermitani non è chiaro se vi siano state una o più trattative, se vi siano state una predeterminazione coerente e una regia unitaria, ovvero se si sia trattato di tentativi di intesa distinti e frammentati nel tempo, al di fuori di un quadro unitario. (…) Vi è di più. Se risultasse davvero provato in fatto il teorema accusatorio dei pubblici ministeri, e cioè se fosse vero che le condotte degli ufficiali dei carabinieri e dei politici favorevoli alla trattativa hanno finito per rafforzare Cosa nostra nel proposito di realizzare il progetto stragista, logica e coerenza giuridica imporrebbero di configurare fattispecie penali ben più gravi rispetto al discutibile delitto di cui all’art. 338 c.p.. E ancora: se i trattativisti esterni alla mafia hanno tutti funto da canale di collegamento, perché contestare il concorso esterno al solo Massimo Ciancimino e non anche agli altri complici? (…) A scanso di equivoci, mi preme a questo punto esplicitare che anche a mio avviso la dimensione strettamente giuridica è ben lungi dall’esaurire la valutazione sul possibile disvalore della trattativa. E’ più che legittimo disapprovarla da un punto di vista etico-politico, ma la disapprovazione politica o morale non è sufficiente a trasformarla in reato: come giurista di uno stato democratico di diritto, la distinzione tra politica, diritto e morale è una questione dirimente. E dell’importanza di questa distinzione dovrebbero rendersene conto anche i cittadini in genere (inclusi gli appartenenti al cosiddetto ceto medio riflessivo), che purtroppo hanno idee tutt’altro che chiare in argomento. (…) Comunque, la vicenda giudiziaria della trattativa assume interesse ben al di là del pur importante caso specifico, perché sollecita una riflessione critica di più ampio respiro destinata a coinvolgere, più in generale, i rapporti tra giustizia e politica degli ultimi vent’anni. Non credo che dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro nuove rivoluzioni giudiziarie dopo Tangentopoli o nuovi eclatanti processi su mafia e politica come quello su Giulio Andreotti. Il contesto storico-politico è molto mutato da allora a oggi. Ma è anche vero che continua a essere radicata, nei magistrati di punta, una concezione di ruolo che attribuisce alla giustizia penale un controllo di legalità concepito assai estensivamente: cioè anche come tutela della buona politica e promozione della moralità pubblica. Questo atteggiamento tutorio e moraleggiante è, a mio avviso, destinato a perdurare come ideologia di ruolo anche a prescindere dalle prossime dinamiche del quadro politico. Voglio essere più chiaro. Non basterà il tramonto di Berlusconi per far sì che la magistratura d’avanguardia accetti l’idea che la giustizia penale non ha per compito di processare la storia e di favorire il rinnovamento politico. Ritengo che oggi, tanto più da giuristi progressisti, dovremmo impegnarci maggiormente nel dibattito pubblico per contribuire al recupero di un più equilibrato rapporto fra i poteri istituzionali. La strada è lunga. La contestazione del tradizionale sistema dei partiti si spinge non di rado oltre misura. I movimenti antipartitici nati per rinnovare la politica finiscono, purtroppo, per trasformarsi a loro volta in partiti che esibiscono difetti ancora maggiori dei partiti che li hanno preceduti. Ma equivarrebbe a una perniciosa coazione a ripetere illudersi che la magistratura penale, quale presunta espressione anch’essa della società civile, possa continuare a essere utilmente inclusa tra i soggetti politici realmente in grado di rinnovare il sistema. Oltretutto, a distanza di vent’anni da Tangentopoli, è assai dubbio che gli effetti politici di tante azioni giudiziarie abbiano davvero contribuito a un miglioramento qualitativo della politica italiana. Giovanni Fiandaca.

Bugiardi e pataccari. La lista di proscrizione del pm Giuliano Ferrara. Sul Foglio i nomi e cognomi dei manettari che per 5 anni hanno chiesto la condanna del generale Mori, assolto dall'accusa di aver fatto sfumare la cattura di Provenzano nel 1995, scrive “Libero Quotidiano”.

Ci sono magistrati, giornalisti, televisionisti, politici e membri della cosiddetta "società civile". Giuliano Ferrara, in prima pagina su Il foglio, interviene con la verve che sempre lo contraddistingue nella vicenda dell'assoluzione del generale Mario Mori, compilando una "lista di proscrizione" di quelli che definisce "pappagalli delle procure" e "pataccari" in rotta. Cioè coloro che, nei cinque anni della durata del processo conclusosi ieri, hanno sparato ad alzo zero su Mori, accusato di aver fatto saltare la cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995, sostenendone a spada tratta la colpevolezza.

La fine di quello che Il Foglio definisce "il primo capitolo del processo sulla 'trattativa Stato-Mafia'" ci libera, secondo Ferrara, da una lista di "firmatari della menzogna".

Tra i magistrati, il direttore del Foglio mette: Antonio Ingroia, Nino Di Matteo, Roberto Scarpinato, Vittorio Teresi, Roberto Tartaglia, Gian Carlo Caselli, Domenico Gozzo.

I giornalisti: Marco Travaglio, Antonio Padellaro, Giovanni Bianconi, Francesco La Licata, Giuseppe Lo Bianco, Sandra Amurri, Saverio Lodato, Salvo Palazzolo, Peter Gomez, Attilio Bolzoni, Liana Milella, Sandra Rizza, Barbara Spinelli, Marco Lillo, Furio Colombo, Guido Ruotolo, Paolo Flores D'Arcais.

Televisionisti: Michele Santoro, Sandro Ruotolo, Corrado Formigli, Enrico Mentana, Gad Lerner, Vauro.

Politici: Enzo Scotti, Claudio Martelli, Antonio Di Pietro, Giuseppe Grillo, Nichi Vendola, Sonia Alfano, Fabio Granata, Walter Veltroni, Paolo Ferrero, Beppe Lumia, Leoluca Orlando, Rosario Crocetta, Luigi De Magistris, Luigi Li Gotti.

Società civile: Gustavo Zagrebelsky, Lorenza Carlassare, Sandra Bonsanti, Salvatore Borsellino, Carlo Freccero, Gianni Vattimo, Roberta De Monticelli, Dario Fo, Isabella Ferrari, Fiorella Mannoia, Moni Ovadia, Franco Battiato, Maurizio Landini.

Otto punti sono più di un indizio, Travaglio è un vizioso del moralismo, scrive Luigi Manconi su “Il Foglio”. Descrizione: http://adv.ilsole24ore.it/RealMedia/ads/Creatives/default/empty.gif

“E’ così virtuoso che per lui la vita stessa è un vizio” (Georg Büchner)

Palesemente, a Marco Travaglio je rode. Quando mi capita di scrivere di lui, qualche amico caro eccepisce: quello non ti si fila nemmeno. Anch’io pensavo così, all’inizio, ma ho dovuto ricredermi: quello mi si fila, eccome se mi si fila, e replica rintuzza respinge recrimina. Come un forsennato. E la sola spiegazione è quella appena detta: je rode proprio. Aiutato da acribiosi esegeti, sono arrivato a concludere che quanto segue è ciò che Travaglio proprio non sopporta.

1. La critica di essere un amorale (e, talvolta, un immorale), truccato da moralista. Il moralismo, si sa, può avere una sua funzione virtuosa, ma solo fino a quando è espressione di una concezione tragica dell’esistenza, segnata da un profondo pessimismo sulla natura dell’uomo e sulla sua vocazione al male. Che alla radice vi sia il peccato originale o l’identità antropologica, è la fallibilità dell’individuo e la sua vulnerabilità alle tentazioni del mondo a costituire la sostanza “umana, troppo umana” della persona. In Travaglio nulla di tutto ciò: il suo occhio che osserva è, piuttosto, la coda con cui l’Inquisitore si fa Giudicante e sentenzia “quantunque gradi vuol che giù sia messa” (l’anima colpevole). A quel punto il moralista già si è fatto immorale, perché si presuppone irriducibilmente estraneo alla fragilità umana e al di sopra di essa. Egli è il titolare del Bene e, non conoscendo il conflitto tra questo Bene e il Male, esercita una mera funzione giudiziaria e finisce col non vivere alcuna vita morale.

2. La critica di scrivere male, malissimo. La scrittura di Travaglio è, alla lettera, questurina. E non perché la sua fonte principale sono i verbali di polizia, gli interrogatori e le intercettazioni. Piuttosto, la sua è una scrittura giudiziaria nel senso sopra detto: perché è, appunto, quella di un moralista che fatalmente diventa immorale, dal momento che non conosce le lacerazioni della vita reale, bensì solo i codici che vorrebbero imprigionarla. Ne discende inevitabilmente un vocabolario povero e sciatto, ordinario e cupo e una prosa ferrigna e claustrofobica. Per accenderla, Travaglio è costretto a ricorrere, come i piccini, all’esplosione di miccette: “Coglioni” e “dementi” e così via, spensieratamente.

3. La critica di far ridere poco, pochissimo. Da un sessantennio, il linguaggio comico italiano si divide in due canoni principali: a) il Raccontatore di barzellette; b) il Deformatore di cognomi. Al primo canone appartengono Walter Chiari (il più grande), Carlo Dapporto e Gino Bramieri. Di questo filone Silvio Berlusconi rappresenta l’epigone compulsivo e malinconico. Al secondo, vuole la leggenda che appartenesse Palmiro Togliatti (ma, come direbbe un passatista, allora ci si divertiva con poco): e tutti – confessiamolo – ne siamo stati partecipi e vittime (figuriamoci uno il cui cognome termina in oni). Poi, si diventa più o meno adulti. Il puer aeternus Travaglio no. Scrive: Al Fano, e c’è chi si scompiscia dal ridere.

4. La critica di essere gerontofobo. Glielo ha rimproverato anche Michele Santoro, ma lui nega e dice di “adorare gli anziani” e tuttavia di volerli pensionare. Il problema (suo) è che l’insofferenza verso i vecchi è ricorrente e sembra dovuta all’avanzare dell’età (sua). Travaglio ha cinquant’anni e, palesemente, non li vive bene. Stavo per aggiungere: e perde vistosamente i capelli. Ma chi scrive, quanto a handicap, sta molto peggio, e, dunque non accennerò alla sua “fronte inutilmente spaziosa” (Fortebraccio).

5. La critica di essere speculare a Berlusconi. Travaglio si picca di esserne un acerrimo avversario. Ma, per dubitarne, basta aver visto il confronto tra i due nel corso di “Servizio Pubblico”. Spiace ripetersi, ma quella parola sporcacciona (inciucio) che gonfia indecentemente le gote di Travaglio quando parla di “larghe intese”, definisce magnificamente la simbiosi perfetta tra Berlusconi e Travaglio: stessa accidia morale (ilare nel primo, tetra nel secondo), il medesimo sospetto per la complessità del pensiero, l’analoga insofferenza verso le contraddizioni e le aporie dell’esistenza.

6. La critica di essere il lupo che accusa l’agnello. Domenica scorsa, Travaglio ha scritto un fondo che, più che un articolo, è una cartella clinica: l’uomo è palesemente provato. E reagisce rabbiosamente (“topi di fogna”) verso chi ha utilizzato il metodo Travaglio contro Travaglio, a proposito di un certo “traffico d’influenza” gestito dallo stesso Travaglio. Mi indigno anch’io: come non vedere, dietro tutto ciò, lo zampino di Berlusconi che, al solito, la butta in caciara per affossare la legge anti corruzione (che prevede, appunto il “traffico d’influenza”)? Ma questa vicenda è sommamente istruttiva. Nel denunciare il suo immotivato coinvolgimento in una storia di hackeraggio, Travaglio ricorre a tutti (ma proprio tutti) gli elementi linguistici e drammaturgici e quelli mitico-paranoici, che alimentano le sue leggende criminali. Non c’è termine, dettaglio o circostanza da lui utilizzata nella indefessa attività di character assassination e di edificazione di complotti, che oggi egli non attribuisca ai due giornalisti che, in questa circostanza, hanno scritto di lui.

7. La critica secondo la quale nessuno “gli vuole bene”. Altroché, se mi vogliono bene, replica Travaglio: “Se Manconi si informasse, potrebbe avere brutte delusioni”. Ditemi voi se una risposta del genere non segnali una grave forma di stress psicofisico. Ma se, il “voler bene” viene considerato nell’unico significato che qui interessa (quello pubblico-politico) risulta eloquente che nelle Quirinarie, e in altre simili competizioni, Travaglio finisca ultimo (mentre Emma Bonino, da lui costantemente insolentita, gli fa ciao dalle primissime posizioni). Probabilmente, a Travaglio sfugge che, più che “volergli bene”, molti lo temono: come negli anni Settanta molti temevano il “Candido” di Giorgio Pisanò, del quale Travaglio riproduce puntualmente gli stilemi satirici.

8. La critica che il suo furore contro il Pd sia così “di destra” da impedirgli di denunciare iniquità grandi e piccole. Travaglio replica richiamando centinaia di articoli sul Fatto. Ma io ho parlato di lui, non del Fatto. Che è altra cosa. Antonio Padellaro scrive cose che non condivido, ma è un analista acuto. Furio Colombo è un uomo di passioni e contraddizioni, ma libero. Paolo Flores, maleducatissimo nelle relazioni personali, è tuttavia persona colta e coerente. Travaglio è una perfetta manifestazione del narcisismo nell’epoca della “rottura degli specchi”.

P.s. Ora però basta. Deve smetterla, Travaglio, di importunarmi, di inviarmi sms e mail e di insistere: “Parliamone”. Parliamo, ma di che? Non posso più perdere tempo e devo dedicarmi allo studio dell’ocarina. Se ci riprova, chiamo i carabinieri. Sono di sinistra e, tuttavia, uomo d’ordine.

PROCESSI DI MAFIA: L’ALTRA VERITA’. PAROLA A MORI E LO GIUDICE.

La verità del generale Mori: "Trattativa coi boss? Fantasie". L'ex capo del Ros attacca i pm: "Giurisdizione parallela politico-mediatica, toghe  alle manifestazioni d'opinione. E la talpa di Provenzano lavorava con Ingroia...", scrive Gian Marco Chiocci e  Mariateresa Conti  su “Il Giornale”. La verità del generale Mario Mori è un processo al processo (anche mediatico). L'ex comandante del Ros, alla sbarra col numero due Mario Obinu per favoreggiamento aggravato, in aula a Palermo prende di petto l'inchiesta sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano nel 1995, e di riflesso anche quella sulla trattativa Stato-Mafia. Il primo affondo è riservato proprio ai pm.

ANTONIO E NINO MAGI-STAR. Ingroia e Di Matteo - dice Mori hanno creato «una giurisdizione parallela «di tipo politico mediatico» che accredita una realtà di parte. La loro. Di pari passo a teoremi e suggestioni è cresciuto, e cresce, «un movimento d'opinione che cerca condivisione e visibilità» con una serie di iniziative e sponde mediatiche. «Approccio questo, basato sull'enunciazione di ipotesi e teorie suggestive, prive peraltro di puntuali supporti dimostrativi, ma che, sostenuto insistentemente nel tempo, diventa per ciò stesso un portato assiomatico, in particolare per chi, delle vicende, ha una conoscenza superficiale e si ferma alle prime e più immediate evidenze». Di questo «movimento» farebbero vari politici oppure giornalisti, avvocati, consulenti, «tutti sostenuti» da più associazioni antimafia. A queste iniziative, insiste Mori, hanno aderito «alcuni magistrati» (Ingroia e Di Matteo)».

REQUISITORIA IN TV. E qui sta il problema: «Non è normale che si ponga come protagonista di queste manifestazioni anche chi, mentre porta avanti l'azione penale (...) contemporaneamente partecipa in modo attivo a queste iniziative, esplicitando i propri orientamenti che non possono non apparire come conseguenti da acquisizioni processuali già raggiunte, anche se così non è». Lo scopo, osserva l'ex fondatore del Ros, «è quello di indirizzare surrettiziamente la pubblica opinione, con modalità che già agli inizi degli anni novanta del secolo scorso, il senatore comunista Gerardo Chiaromonte (...) aveva individuato e stigmatizzato, nel suo libro I miei anni all'Antimafia, una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica. E questo modo di procedere non mi sembra possa rientrare in una corretta interpretazione di deontologia giudiziaria». Mori pesca l'intervento di Luigi Ferrajoli al congresso di Md di quest'anno: «È inammissibile - e dovrebbe essere causa di astensione e ricusazione - che i magistrati parlino in pubblico, e meno che mai in televisione, dei processi loro affidati. E invece - continua il carabiniere - abbiamo assistito a trasmissioni tv desolanti, coi pm che parlavano dei processi da loro istruiti, sostenevano le accuse, lamentavano gli ostacoli o il mancato sostegno politico alle indagini, discutevano e polemizzavano con l'imputato e, peggio ancora, formulavano pesanti insinuazioni senza contradditorio».

PAPELLI E PENTITI. Dopo aver contestato punto per punto le accuse del colonnello Michele Riccio sulla mancata cattura di Provenzano, Mori stronca Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il sindaco mafioso di Palermo, «autore di un'articolata quanto lacunosa strategia calunniatoria e di depistaggio». Parla per sentito dire e consegna ai pm carte false e, comunque, sospette. Come il papello («un atto anonimo, per di più in fotocopia») o come il contropapello, una raccolta di appunti del padre per il libro Le mafie. Per non parlare dei falsi su De Gennaro che gli son costati le manette. Poi ci sono i pentiti con dichiarazioni a rate: Giovanni Brusca ammette d'aver parlato di Mori dopo aver letto Repubblica, e quando è caduto in contraddizione, non ha avuto remore a dire che «erano venuti i magistrati a chiarire tutto» e che aveva dovuto «mettere i puntini sulle i». Stesso dicasi per Mutolo o per Cattafi.

TALPE D'ORO. Se Provenzano è rimasto latitante non è stato per patti inconfessabili, ma (anche) per le informazioni che gli passavano le talpe. Una delle quali distaccata proprio «presso l'ufficio del dottor Antonio Ingroia». Quanto poi ai contatti con Ciancimino senior il Ros si mosse per «dovere professionale», ma gli incontri vennero comunicati «a Fernanda Contri, Liliana Ferraro, Luciano Violante, Gian Carlo Caselli» e «nessuno se ne lamentò o lo denunciò». Tra bombe e stragi il Ros si muoveva da solo visto che «la Procura di Palermo era quasi all'impotenza operativa» come confermato da molti pm. Altri si tiravano indietro. «Con la scomparsa di Falcone e Borsellino, molti (...) avevano scelto il silenzio e la prudenza» salvo poi ricomparire a problemi risulti sulla scena e riprendere «più a parlare che ad agire, magari sostenuti dal conforto di una robusta scorta».

CRUSCA E DOPPIOPESISMO. Per Mori, la trattativa non ci fu. «Facemmo indagini». E bisogna intendersi sui termini. Perché un carabiniere mica è un «membro dell'Accademia della Crusca», dice «trattativa», ma dice anche «contatto, approccio» ed è «patetico», a posteriori, pretendere letture da puristi della lingua. Mori parla di «doppiopesismo» ricordando il tour in carcere dei parlamentari Sonia Alfano e Giuseppe Lumia con l'invito ai boss a collaborare «alla stregua di un vero e proprio colloquio investigativo, che la legge attribuisce solo alla polizia giudiziaria e alla Dna». Nessun dubbio sulle lodevoli intenzioni dei due politici, nemmeno l'iniziativa del Ros con Ciancimino «può essere ragionevolmente considerata tale, alla luce degli esiti di tutte le indagini che in merito sono state compiute».

LA FARSA DEL 41 BIS. Anche la revoca del carcere duro, noto come 41 bis, nel '93, a circa 300 boss, secondo Mori è stata drammatizzata in chiave trattativa. Il generale ricostruisce le posizioni: quella del Ros, che non voleva ammorbidirlo, e quella di tutti gli altri, politici e non, favorevoli e contrari. «L'attenuazione del regime carcerario non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi di mafia». E la riprova è la gigantesca strage mancata per un incidente tecnico allo stadio Olimpico di Roma a gennaio '93.

BORSELLINO E IL ROS. Altro che accelerazione della strage di via D'Amelio perché Borsellino aveva scoperto l'esistenza della «trattativa». Fu il Ros l'unico ad avvertire Borsellino il 19 giugno '92 di un imminente attentato. Dei carabinieri «Borsellino aveva una particolare considerazione». Lo dimostrano i ripetuti incontri, prima di morire, e l'incarico di fiducia ricevuto: il fascicolo «su mafia e appalti», filone su cui indagava Falcone prima di essere ucciso e che Borsellino aveva ripreso dopo Capaci. «Ci chiese ricorda Mori di mantenere il più stretto riserbo sull'incontro e sulle indagini di cui non dovevamo parlare con gli altri magistrati di Palermo». Per la cronaca, quell'inchiesta venne chiusa subito dopo l'uccisione di Borsellino, la richiesta di archiviazione venne «vistata» il 20 luglio del '92, all'indomani della strage di via D'Amelio, e l'archiviazione arrivò il 14 agosto. Borsellino avrebbe dato un incarico così delicato al Ros se sul Ros avesse avuto dei sospetti?

L'ANTIMAFIA DI PROFESSIONE. Chiude Mori. Facile, oggi, «produrre versioni e ricostruzioni avventurose e decontestualizzate». Tanto più «che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull'elaborazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove che possano in qualche modo confermarli». Roba da «cultori della letteratura fantasma», non da «professionisti della materia». Il paradosso di questa vicenda è costituito dal fatto che «noi non abbiamo memoria della gran parte degli attuali lottatori antimafia. Non li abbiamo visti perché non c'erano accanto a noi o al fianco di coloro che durante quella tragica stagione hanno davvero combattuto Cosa nostra, alcuni fino a perderci la vita. Rimane l'amara constatazione che forse la vera colpa che non ci viene perdonata da qualcuno sia quella di essere sopravvissuti».

La difesa di Mario Mori nel processo per la mancata cattura di Bernardo Provenzano: Ecco il memoriale di Mario Mori, scrive Anna Germoni su “Panorama”. La verità di un processo in 160 pagine. Coinciso e graffiante per tutti, compresi i pm Antonio Ingroia e Antonino Di Matteo per le troppe apparizioni in tv in merito al processo in corso. Gioca di fioretto il prefetto Mario Mori, imputato insieme al colonnello Mauro Obinu di favoreggiamento a Cosa nostra per la mancata cattura di Bernardo Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nell’ottobre del 1995. Stamattina, 7 giugno 2013, in aula Mori ha letto il suo memoriale difensivo: difendendo la correttezza istituzionale del suo operato e di quello dei suoi uomini, ha contrattaccato sgretolando il castello accusatorio della presunta trattativa Stato-mafia. Il castello di sabbia della Procura di Palermo viene smantellato, prove alla mano. Il generale accusa il tritacarne mediatico del processo, “ripreso da commentatori, opinionisti, studiosi e politici ideologicamente connotati e ben collegati nell’ambiente mediatico-istituzionale che conta, che come tanti pappagalli, avendo al massimo una pallida e limitata idea dei fatti, distillano pareri ed emettono condanne o assoluzioni sulla base del tornaconto personale, senza accorgersi di fare per lo più dello squallido pettegolezzo”. Poi Mori dichiara: ”Risulta più facile proporre a posteriori analisi e soluzioni, senza mai la controprova del riscontro pratico; criticare col senno di poi ogni decisione a suo tempo assunta sul terreno; mettere in dubbio ed interpretare ai propri fini le azioni di chi concretamente ha operato dovendo decidere nell’immediatezza e non disponendo sempre di dati conoscitivi sufficienti per definire condotte e strategie aderenti alla necessità, piuttosto che operare direttamente, mettendoci la faccia e quindi con rischio personale, contro un’organizzazione criminale spietata e sempre in grado di offendere. Si tratta di operazioni per nulla pericolose e molto redditizie, tenuto conto che chi riteneva di servire in quei momenti lo Stato non pensava di doversi precostituire alibi e difese da ipotesi fondate sull’elucubrazione di fantasiosi sistemi criminali, pensati a tavolino sulla base esclusiva di un convincimento ideologico, senza il conforto di prove”. Con voce decisa e ferma Mori ripercorre i 5 anni di dibattimento, con oltre un centinaio di udienze e circa 100 testimoni chiamati in aula. Respinge le accuse screditanti nei confronti dei suoi uomini, appellati dal pm Di Matteo come “scudieri”, che avrebbero “perseguito obiettivi di politica criminale”. “Questa grave accusa dichiara Mori “pronunciata in un’aula di giustizia senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte”. Il prefetto mira a in mettere difficoltà tutto quel momento di opinione costituito dai politici (Sonia Alfano, Giuseppe Lumia, Antonio Di Pietro, Fabio Granata, Luigi Li Gotti, Leoluca Orlando e Rosario Crocetta) e da un fronte trasversale composto da vari professionisti: l’avvocato Fabio Repici, Gioacchino Genchi, giornalisti alla Marco Travaglio, Sandra Aurri, Saverio Lodato, Giuseppe Lo Bianco, Concita De Gregorio. Sostenuti dalle associazioni antimafia delle agende Rosse, Antimafia Duemila, La Rete, Libera, associazione nazionale familiari vittime di mafia, Quinto potere, secondo Mori i pm Ingroia e Di Matteo e molti altri magistrati siciliani hanno avuto come scopo quello di “indirizzare surrettiziamente l’opinione pubblica” verso quella che il senatore Gerardo Chiaromonte appellava come “una giurisdizione parallela di tipo politico-mediatica”. Mori, nel suo lungo memoriale analizza le accuse lanciate nei suoi confronti dal colonnello Michele Riccio, a sua volta querelato dal prefetto, per la mancata cattura di Provenzano. Dalle carte di Mori emerge che il principale accusatore di Mori viene criticata dalla dirigenza della Dia, dai magistrati Pignatone e Principato e dallo stesso Di Matteo nonché dal gip di Catania. Le espressioni usate dai togati nei confronti di Riccio, difeso dall’avvocato Repici, delineano “una personalità assai incline all’autoesaltazione con un malcelato desiderio di porsi al centro dell’attenzione che nei suoi appunti si abbandona ad uno sfogo, senza alcun supporto di qualsivoglia natura, nei confronti di magistrati e dei superiori”. Mori poi parla di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo Vito Ciancimino trasformatosi in “icona della nuova antimafia” e recentemente arrestato per la terza volta. Per il prefetto “il movente di Ciancimino è esclusivamente quello di ottenere un miglioramento della sua situazione giudiziaria per la gestione del patrimonio paterno”. La stessa tesi viene sostenuta dalla procura di Caltanissetta, soprattutto nella richiesta di ordinanza di custodia cautelare del processo “Borsellino quater”. Contro Ciancimino jr i magistrati nisseni sono molto più duri. Scrivono infatti che “il comportamento processuale di Massimo Ciancimino è rivelatore di una personalità deviata” e che “il suo atteggiamento processuale è frutto di una strategia di depistaggio nei confronti di personaggi delle Istituzioni”. Il generale fa emergere nitidamente citando le numerose contraddizioni delle dichiarazioni rese dal controverso collaboratore di giustizia, Giovanni Brusca, che mano a mano, nel tempo dal 1998 al 2013, “aggiusta sempre il tiro” servendosi della collaborazione con lo Stato “ non ai fini di giustizia ma in relazione alle sue esigenze e nella personale valutazione che egli faceva su quello che volevano sentirsi dichiarare coloro che lo interrogavano”. Poi sempre di fioretto, con atti alla mano sgretola anche le dichiarazioni del neo pentiti Lo Verso, Spatuzza e Mutolo. Il primo, addirittura, viene paragonato come iter comportamentale a quello di Ciancimino jr. Nelle lunghe pagine dedicate al favoreggiamento di Provenzano, il prefetto ripercorre che il Ros, diretto da lui, ha sempre orientato incessantemente la sua opera alla ricerca del boss corleonese. Spiegando con le varie operazione effettuate anche in sintonia con la Polizia di Stato, da “Grande Oriente” al “Grande Mandamento” che tutti i magistrati siciliani avevano grande fiducia nel fiuto investigativo del Ros e che fra questi vi era anche il pm Di Matteo, che esaltava le qualità del reparto che “aveva condotto da oltre tre anni con grandissima professionalità e notevole impiego di mezzi e di risorse”. Il generale parla anche anche dei suoi contatti con Vito Ciancimino e con gli esponenti delle istituzioni, smentendo più volte le dichiarazioni dell’ex Guardasigilli Claudio Martelli. Sulla dissociazione, uno dei cardini della pubblica accusa, il prefetto precisa che “dopo la strage di Capaci era argomento di discussione fra gli esperti” e che perfino il magistrato Roberto Scarpinato in una riunione dell’Anm del 2 giugno del 1992 aveva “esposto un pacchetto di proposte per migliore l’azione di contrasto alla criminalità organizzata, ipotizzando l’applicazione di un provvedimento simile a quello a suo tempo definito per i terroristi disposti a dissociarsi. E che Paolo Borsellino, la cui posizione contraria a riguardo era ben nota, se ne andò durante i lavori del convegno, senza prendere parola”. Altre stoccate arrivano quando si affronta l’argomento del 41 bis, il regime di carcere «duro», la personalità di Francesco Di Maggio e la presunta trattativa Stato-mafia. “Secondo l’accusa” dice Mori “brigando con Vito Ciancimino, su direttiva del presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro e coordinandomi con il capo della Polizia di allora, Vincenzo Parisi, e con il vice del Dap, Di Maggio e magari recependo ordini del generale Subranni, sarei io il mediatore della trattativa”. Il prefetto dimostra che era stato lui, come comandante del Ros, a svolgere le indagini su Calogero Mannino e sui fondi neri del Sisde che coinvolsero anche Scalfaro, che reagì con il fatidico “Io non ci sto” a reti unificate, pronunciato il 3 novembre del 1993. E’ illogico pensare che da una parte si indaga sui fondi neri, in un’inchiesta in cui viene coinvolto anche il capo dello Stato, e dall’altra parte si facciano accordi sottobanco con la mafia, per un’ipotetica trattativa che con l’attenuazione del 41 bis non ha sortito alcun effetto sulla cessazione delle stragi. Infine si citano anche i colloqui svolti in carcere con Provenzano dagli onorevoli Alfano e Lumia, entrati nella prigione insieme con l’avvocato Repici, senza che questi si qualificasse con il suo tesserino professionale. “Nessuno” dice Mori “ha voluto catalogare questi colloqui come una sorta di trattativa intrapresa con elementi mafiosi a fini inconfessabili e se vogliamo sottilizzare, il nostro tentativo, mio e di De Donno con Vito Ciancimino, era un tentativo messo in atto da due ufficiali di polizia giudiziaria per convincere un cittadino non detenuto alla collaborazione delle indagini, rientrava nelle facoltà che ci erano concesse dalla legge; mentre quello dei due politici, con la presenza inusitata dell’avv. Repici, sarebbe andato ben al di là delle loro prerogative. Se ne deduce che il termine trattativa assume un valore a seconda delle prospettive ideologiche e questo non è corretto”. L’ultima parte delle dichiarazioni di Mori sono rivolte alle stragi del 1992-1994: “Essendo un uomo abituato a considerare i dati di fatto e non le mere ipotesi” dichiara il prefetto “io dico che lo scompaginamento di Cosa nostra è avvenuto per l’impegno e per la dedizione degli uomini delle Istituzioni, alcuni dei quali hanno pagato di persona questo impegno e non per contatti sottobanco o accordi indimostrati e indimostrabili che hanno la fondatezza e l’effettiva consistenza di un castello di carte”.

E non c’è solo Mario Mori. Altro processo, altra storia, altra verità.

È scomparso da lunedì 3 giugno 2013, scrive Carlo Macrì su “Il Corriere della Sera”. Giovedì 6 avrebbe dovuto testimoniare ma la corte ha dovuto prendere atto della sua assenza. Infine venerdì 7 si è fatto sentire con un memoriale esplosivo che rischia di creare imbarazzo a capi di procure, magistrati e alti funzionari di polizia. Nino Lo Giudice, il pentito che si era autoaccusato di aver messo le bombe alla procura generale di Reggio Calabria e sotto l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro, ha ritrattato tutto, sostenendo di essersi inventato ogni cosa perché costretto da magistrati e organi di polizia. Nel memoriale di cinque pagine recapitato in un plico sigillato all’avvocato Giuseppe De Nardo, difensore di Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri - i due presunti bombaroli accusati proprio da Lo Giudice di essere gli autori materiali degli attentati di Reggio Calabria - Lo Giudice fa anche i nomi dei magistrati che l’avrebbero costretto a dire il falso. Il «Nano» cita l’ex procuratore capo di Reggio Calabria Giuseppe Pignatone, oggi a capo della procura di Roma, l’aggiunto della Dda di Reggio Calabria Michele Prestipino e il sostituto procuratore Beatrice Ronchi, trasferita a Bologna, ma ancora in servizio alla procura antimafia reggina. E poi Renato Cortese, ex capo della mobile di Reggio Calabria, oggi capo della Mobile a Roma. Scrive Lo Giudice: «Non è mai esistita la cosca Lo Giudice – inizia così il memoriale. Poi il pentito affronta il tema delle bombe a Reggio Calabria -. Come sosteneva il dottor Di Landro fino a poco tempo fa che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri burattinai lui è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice perché lui sa chi sono i burattinai e i burattini». Lo Giudice quindi si pone l’interrogativo:« Perché sta ancora zitto Di Landro? Perché vuole assistere alle stragi degli innocenti? Pur sapendo che né il sottoscritto, né Antonio Cortese e Vincenzo Puntorieri siamo i veri responsabili?. Ma… alte cariche dello Stato e servizi deviati e, professionisti a lui molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò….». Ce ne è anche per la magistratura reggina. «Come ho sempre sostenuto e, sostengo ancora oggi, a Reggio c’erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra loro facendo scempio degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavoravano 24 ore al giorno. Mi riferisco a Gioacchino Campolo (in carcere per associazione a delinquere) e Luciano Lo Giudice, fratello del pentito (anche lui in carcere), distrutti dalla cricca (Di Landro-Pignatone-Prestipino-Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese. Quest’ultimo – dice ancora Lo Giudice – era parte attiva a controllare la mia mente facendo sempre la parte del "buono", convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo, mi parlava di massoneria e servizi segreti, suggerendomi nomi e cognomi legati al dottor Cisterna-Mollace-Neri come Massimo Stellato e altri. I dottori Pignatone, Prestipino, Ronchi e Cortese molte volte facevano arrivare il mio avvocato Fernando Catanzaro e dopo qualche 30 minuti lo mandavano via per restare solo con loro, questo per fare tutto ciò che era nel suo intento».  Il «Nano» parla poi dei rapporti tra il fratello Luciano e il dottor Alberto Cisterna, ex numero due della dna, inquisito dai colleghi di Reggio Calabria proprio in base alle dichiarazioni di Lo Giudice e poi prosciolto da ogni accusa con l’archiviazione dell’inchiesta. «Devo ribadire che tra mio fratello Luciano e il dottor Cisterna non c’erano rapporti illeciti, ma solo amicizie normali. Ma subito dopo è nata qualcosa tra me e i miei interlocutori che non stava bene minacciandomi che se non avrei raccontato quello che a loro piaceva mi avrebbero spedito indietro al 41 bis. Mi hanno intimidito e mi hanno dato un ultimatum per il giorno seguente. Dovevo pensare bene cosa raccontare quando mi sarei presentato davanti a loro, e con discorsi convincenti. Ho trascorso la notte senza dormire, incasellando il mio mosaico di discorsi convincenti e compiacenti. Ho accettato quel supplizio per conquistarmi la patente di collaboratore e riacquistare uno spiraglio di libertà a caro prezzo…».

Si rivolge al figlio Giuseppe, lo stesso che ha consegnato il memoriale ed una sim card all’avvocato Francesco Calabrese, scrive Antonio Giuseppe D’Agostino su “CMnews”, chiedendo scusa perché «già ti ho fatto soffrire tanto” e perché “ho combinato un danno irreparabile nei confronti di mamma e di tutti voi. Addio con tutti non so cosa farò dopo che avrò spedito questa lettera, né dove andare visto che sono stato abbandonato da tutti, una cosa è certa, Dio è sempre con me. Mi basta. Ti mando l’ultimo bacio anche se penso che non lo accetterai. Ciao sei sempre nel mio cuore. Tuo Papà». Un addio commosso ad un figlio che, a dire del collaboratore di giustizia, avrebbe fatto soffrire con il suo comportamento. Di qui in poi le dichiarazioni scritte dal pentito sono un vero e proprio pugno nello stomaco per quanti hanno creduto nelle sue parole di accusa. Parole, anche queste ultime, che al momento devo essere confermate ma che aprono uno scenario inquietante sulla sua collaborazione. Ritorniamo al memoriale però. Nel documento Nino Lo Giudice parla di una verità che “nessuno sa ancora e, che desidero esternare anche non voi che difendete molte persone che io ho accusato ingiustamente”. “Nella più totale lucidità mentale”. Lo Giudice, alias “u nanu”, afferma di voler “rivelare tutto ciò che fino ad oggi ho tenuto segretamente dentro di me e, che è arrivato il momento di esternare”.

Non è mai esistita una cosca Lo Giudice”, un’affermazione scritta fra parentesi che apre ad uno scenario inquietanti anche in merito agli attentati e che “come sosteneva il dr. Di Landro fino a poco tempo fa che rilasciava dichiarazioni a ‘destra e manca’ con sicura certezza e senza ombra di dubbio che non ero io il responsabile di quegli attentati e che stavo coprendo i veri ‘burattinai’, è sicuro di quello che sostiene perché lui sa bene cosa dice, perché lui sa bene chi sono i burattini e i burattinai”. Dichiarazioni dure che seguono un interrogativo circa l’atteggiamento dello stesso procuratore generale Salvatore Di Landro sul perché “sta ancora zitto? Perché vuole assistere alla ‘strage degli innocenti’?Pur sapendo che né il sottoscritto, né Cortese, Puntorieri, siamo i veri responsabili? Ma…alte cariche dello Stato e servizi deviati e professionisti a lei molto noti? E che a suo tempo rivelerò alla persona che io deciderò…Esca allo scoperto…E dica quanto è nel suo pensiero, non continui ancora ad assistere senza fare nulla”. Parole dure che aprono scenari inquietanti di servizi deviati, magistrati in lotta fra loro, professionisti implicati in vicende tutte da chiarire, ma che sarebbero ben noti. Parole che evidenziano, per quanti ancora non lo avessero capito, l’esistenza di “due tronconi di magistrati che si lottano tra di loro facendo ‘scempio’ degli amici di una delle due parti, colpendo onesti cittadini che lavorano 24 ore al giorno”, un riferimento alla vicenda di Giacchino Campolo (il Re dei Videopoker) e al fratello Luciano Lo Giudice definiti nel memoriale “imprenditori onesti distrutti dalla cricca”.

Ed è qui una delle parti centrali del memoriale, una prima bomba lanciata sulla città e sui professionisti dell’antimafia che mai si sono posti dei dubbi ed hanno sempre avuto delle certezze. Il pentito punta il dito contro Salvatore Di Landro, Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino, Beatrice Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese “che si è prestato ai voleri della ‘citata cricca di inquisitori’” ed era parte attiva “a controllare la mia mente facendo sempre la parte del ‘buono’, convincendomi a più riprese a dire cose che io non sapevo”. Insomma stando alle parole scritte dal pentito, Renato Cortese “mi parlava di massoneria e servizi segreti suggerendomi nomi cognomi legati al dr. Cisterna, Mollace, Neri, come Massimo Stellato e altri. Io non mai detto nei miei interrogatori che il dr. Macrì deteneva un motoscafo nella rimessa di Spanò, questo l’hanno inventato tutto loro”. E per supportare le sue accuse, tutte da confermare, Nino Lo Giudice invita a far tirare fuori le registrazioni integrali “e leggete se dico la verità”. Ad essere onesti a leggere il memoriale si rimane stupiti della precisione con cui il collaboratore di Giustizia apre il “vaso di Pandora” che, se (lo ribadiamo) confermato, potrebbe distruggere anni di lavoro della magistratura reggina facendo intravvedere qualcosa che va ben al di là della semplice stagione dei veleni e che forse qualcuno aveva già preannunciato come la visita di un Arcangelo. Ma Nino Lo Giudice non si ferma qui e va avanti accusando Pignatone, Ronchi, Prestipino e Cortese di far arrivare al suo avvocato a Catanzaro per farlo andare via solo dopo 30 minuti, al solo scopo di restare solo con loro (il tutto sarebbe nei verbali, secondo il pentito). Un rapporto viziato, come successivamente sottolineerà il collaboratore di giustizia, dalla constatazione di dover dire ciò che “a loro piaceva”.

Un esempio su tutti, per usare un eufemismo, le accuse mosse a Mollace e Cisterna sui rapporto con il fratello Luciano dove “non c’erano affari illeciti e i miei interlocutori che non stava bene, minacciandomi che se non avrei raccontato quello che ‘a loro piaceva’ mi avrebbero spedito indietro e al 41 bis”. Un atteggiamento che Lo Giudice definisce intimidatorio “dandomi l’ultimatum per il giorno seguente e che dovevo pensare bene cosa raccontare” con discorsi “convincenti” e “compiacenti”, un mosaico che lo ha portato ad inventare tutto, ma che accettò come fosse un “supplizio” al solo scopo di acquisire la “patente di collaboratore” al solo scopo di riacquistare parte della libertà perduta. Un fiume di parole che mira a giustificarsi rispetto dopo aver accettato “a trascendere alla loro tragedie a inventarmi delle cose che non esistono, che non potevo sapere”. Non si riesce a capacitarsi delle dichiarazioni scritte da Lo Giudice, a volte anche confuse a volte precise, ma fluide. Parla di “genesi” della collaborazione, del “villano che sa bene” di un “tragediatore maledetto” che è andato oltre alle aspettative pattuite, come non parlare di persone e fatti che non conosceva. Ma di qualcosa era a conoscenza Lo Giudice e solo per questo, non per altro, voleva collaborare. Come ad esempio l’omicidio dei Carabinieri, operato da “Villani e l’altro Giuseppe Calabrò (due squilibrati)” o dell’omicidio di Calabrò Francesco ucciso dallo stesso Villani dopo averlo fatto arrivare al porto per una partita di armi. Lo stesso Villani (Consolato) , secondo Lo Giudice, tentò di depistare le indagini, il tutto per vendicarsi “come una carogna fa con una carcassa”. Parla di vendetta Nino Lo Giudice, una vendetta che lo ha spinto ad accusare tutti “senza risparmiare nessuno, anche il mio stesso sangue” colpevole di averlo abbandonato in carcere e che lo ha portato ad inventarsi tutto. “Ma quali affiliazioni, quale padrino, non esiste nulla, ho letto tutto nei libri che ancora penso siano li a casa mia a Reggio”. Dalla letteratura alla realtà, si potrebbe dire, ma non sempre è facile come, ad esempio, quando l’avvocato Nardo gli chiese di recitare la formula della “Santa” e altre formule di giuramento a lui sconosciute. Come sconosciuto a lui era l’autore dell’omicidio Geria (Angelo) di cui si era accusato insieme ad Antonio Rosmini solo “perché c’è un’antipatia viscerale”. Antipatie, vendette, solo perché si sentiva discriminato come per “Reliquato Giuseppe, Bruno Stilo, Lo Giudice Giuseppe” che devono gridare con forza “che sono innocenti”,come per i nipoti Fortunato e Salvatore Pennestri, innocenti pure loro, che “stanno scontando una pena ingiusta” il tutto solo per vendette e risentimenti personali. Ma Lo Giudice non accusa solo se stesso, anche il pentito Consolato Villani sarebbe “pilotato dalla cricca” basterebbe leggere i suoi verbali per capire che “non si rende conto di quello che racconta”.

Anche lui, dunque, secondo il racconto della “cricca” usato strumentalizzato ai loro fini come anche gli avvocati “Gallo (Lorenzo) e Pellicanò (Giovanni) questi son vittime voluti da Pignatone, Ronchi, Prestipino, Cortese che a più riprese hanno voluto tornare sull’argomento perché quello che io dichiaravo non bastava mai, anzi è mancato poco che venissero accusati di gravissimi che a suo tempo riferirò”. Tutte persone a cui il fuggitivo collaboratore di giustizia sente di dover chiedere perdono, ma in particolar modo all’avvocato Gallo. Un memoriale sconcertante, se confermato, che pone in essere un sistema corrotto e corrosivo a cui si fatica a credere, potremmo dire dirompente come il fragore di quella bomba esplosa il 3 gennaio 2010 davanti alla Procura di Reggio Calabria. Un lungo ed estenuante memoriale, per chi legge e scrive, che pone dubbi su tutto e su tutti, personaggi, magistrati, funzionari di polizia, etc. etc, ma che non finisce qui. Perchè Lo Giudice va avanti per descrivere la cattura del boss Pasquale Condello “che io non mai conosciuto personalmente”, alla cui cattura non ha mai contribuito, quindi risulterebbero false le sue dichiarazioni su “Laganà Antonio, Mosè fabio, Cuzzola Santo, o Luciano Lo Giudice” che mai avrebbero ospitato il boss durante la sua latitanza. Tutto inventato, secondo il pentito, per motivi di rancore personale come l’omicidio del padre attribuito alla volontà di Pasquale Condello, o per Lombardo Giuseppe (alias “Cavallino”) che con le sue dichiarazioni lo aveva fatto arrestare nel 2007. Dunque, come sempre sostenuto da alcuni fonti, la cattura del super boss di ‘ndrangheta Pasquale Condello è merito solo del colonnello Valerio Giardina. Le sue dichiarazioni, in merito, erano indirizzate al fine di “far scoprire i veri responsabili di chi informava i ROS per la sua cattura, usando la dottoressa Ronchi che convinta di trovare riscontri a mio favore di collaboratore, invece si trovava di fronte a una verità inaspettata e che prova la mia estraneità”. Tasto dolente il fratello Luciano “non è mai stato affiliato, né prima, né dopo e stato solo per volere di Pignatone che insisteva su di lui così tanto”. Le parole di Nino Lo Giudice sostengono di aver dovuto cedere per aver “un po’ di pace” quindi lo avrebbe accontentato, a suo dire, “consegnando un manoscritto (richiesto da lui) con nomi e cognomi e gradi di tutti i miei fratelli, cognati, e nipoti e persone estranei ma è un manoscritto falso”. Basta, direbbe una semplice mente umana, basta o qui si sprofonda nell’abisso o si rasenta il ridicolo, ma l’informazione deve continuare al di là delle semplici chiacchiere da bar. Quei gradi, questi ruoli, Nino Lo Giudice li ha copiati “sui libri che il dr Gratteri ha scritto”, quindi “mi sono dato il ruolo di padrino da solo, come Consolato Villani si è dato il Vangelo”.

Tutto falso, dunque, secondo il pentito: accuse, ruoli, persone. Tutto falso e lui da sfondo, davanti all’elemento principale il “burattinaio” che può causare danni irreparabili. Scardina tutto, Lo Giudice, scardina in modo dirompente tutto l’asset del pentitismo calabrese gettando ombre su ombre: le armi acquistate in Austria, no a Reggio Emilia, come suggerito dalla Ronchi, “erano armi detenute legalmente come ho sempre detto, l’unico proprietario era Antonio Cortese perché era appassionato di caccia. È vero ci sono stati tanti passaggi, ma è anche vero che il suocero di mio fratello Luciano era possessore di porto e detenzione di armi anche lui cacciatore, non è vero che potessero servire a un eventuale guerra”. Quello che viene raccontato non ha una definizione giuridica e storica, sociale, di lotta, quello che viene descritto (molti colleghi hanno preferito pubblicare solo il memoriale) inquina l’anima di chi in Calabria lotta per la ‘ndrangheta senza per questo farne una professione di fede o altro e un pentito usato per ogni uso è qualcosa che trascende la normale ragione e con difficoltà viene accettato. Una difficoltà che vede in campo anche il magistrato della DNA Donadio (Gianfranco) che volle ascoltare il pentito quando questo era atteso dal procuratore Lombardo a Reggio Calabria. Un colloquio su “persone a me sconosciute” nel quale “ho subito forti pressioni e minacciato”. In quel colloquio si parlò della morte dei carabinieri, di Giovanni Aiello e di una certa Antonella, un colloquio (ascolta la registrazione integrale, dichiara il pentito) dove confermò tutto quello richiesto da magistrato della DNA, arrivando a discutere anche degli “attentati di Borsellino e di altro omicidio avvenuti in Sicilia ai danni dei due poliziotti in borghesi e di un altro omicidio consumato ai danni di un bambino”. Alla fine di questi discorsi il pentito afferma “chiesi io a lui di suggerirmi i nomi di queste persone”che sarebbero state addestrate ad Alghero in una base militare per commettere attentati. La ragione stenta a leggere queste cose, vacilla, nel mare delle incertezze che si susseguono e che parlano anche delle presunte armi dentro il Gran Caffè, tutte bugie. Finalmente è giunta la conclusione a questo memoriale che è davvero sconcertante e trovare conferma in tutte le sue parti, anche in quelle e per quelle persone che lo stesso pentito dice di aver dimenticato perché “glia argomenti che mi hanno esposto la dotteressa Ronchi, Pignatone, Prestipino, Cortese sono stati tantissimi, quindi ritratto tutte le mie dichiarazioni che sono palesi e quelli che ancora non sono stato resi pubblici”. Ora in attesa che tutto questo sia passato al setaccio, vagliato, analizzato dalla magistratura l’unica cosa certa sono le dichiarazioni dello stesso magistrato accusato da Lo Giudice, Alberto Cisterna, che ha subito dichiarato “lo so bene: il drammatico e frenetico succedersi degli eventi imporrebbe di attendere per capire cosa stia veramente succedendo in queste ore. Una cosa, però, mi sento di doverla dire con urgenza assoluta e la dico al signor Lo Giudice Antonino. Mi appello a lui perché ponga fine subito alla sua latitanza e si consegni alla giustizia, nelle mani esclusive del procuratore di Reggio Calabria Cafiero de Raho”. 

L’hanno indicato come un «corrotto», amico di quell’Antistato che per decenni ha combattuto in prima linea, scrive Carlo Macrì” su “Il Corriere della Sera”. Prima in Calabria e poi alla Dna, come vice di Piero Grasso. La vicenda giudiziaria di Alberto Cisterna, magistrato di prim’ordine, è finita però con un’archiviazione, richiesta dagli stessi magistrati di Reggio Calabria che per due anni hanno cercato prove e riscontri alle affermazioni del pentito Nino Logiudice, il “malacarne” di periferia, che l’ha accusato di aver preso soldi dal fratello Luciano, in cambio di favori. Alberto Cisterna, che nel frattempo è stato trasferito dal Csm per incompatibilità ambientale a Tivoli, con funzioni di giudice, ha chiesto la revoca dell’archiviazione. «Voglio un processo e una sentenza e sono disposto anche al giudizio immediato, purché su questa storia si arrivi a una verità» – ha detto l’ex sostituto procuratore della Dna. «I miei colleghi della dda di Reggio Calabria hanno trascorso due anni a monitorare gli ultimi dieci della mia vita. Hanno frugato nei miei conti correnti e valutato tutte le spese fatte con le mie carte di credito. Hanno analizzato cinque anni dei miei tabulati telefonici. Hanno applicato in via straordinaria al mio procedimento un magistrato che, benché trasferito da mesi alla procura di Bologna, è stato mantenuto a Reggio Calabria per occuparsi prevalentemente del mio caso. Hanno interrogato amici, conoscenti e persino i miei studenti dell’Università Mediterranea di Reggio Calabria. Per arrivare ad un’archiviazione che non accetto, perché il reato contestatomi è inesistente»- ha aggiunto Alberto Cisterna. E poi: «Il decreto di archiviazione è in sostanza una sentenza emessa in contumacia, un giudizio senza possibilità di appello e senza che vi sia stato alcun contraddittorio». Il provvedimento del gip che ha cancellato l’ «infamia» e composto di circa 600 pagine, otto faldoni dove i pubblici ministeri hanno riconosciuto l’ «inattendibilità» del pentito Nino Logiudice. Il picciotto che vendeva angurie e che i boss utilizzavano per piccoli furti, è lo stesso pentito che si è autoaccusato di aver messo le bombe davanti alla Procura generale di Reggio Calabria e davanti all’abitazione del procuratore generale della città, Salvatore Di Landro. Senza però mai spiegare i veri motivi di quegli attacchi «istituzionali» che nel 2010 hanno intorbidito l’ambiente giudiziario reggino. «Quando affermo che il decreto di archiviazione è inaccettabile, voglio dire che, per me, il processo penale non potrà mai giungere alla verità, ossia ricostruire i fatti così come sono andati. Ma la decisione del giudice deve costituire una mediazione accettabile tra la verità processuale e quella sostanziale, tra le carte dei pubblici ministeri e quello che io ho fatto» – ha spiegato Cisterna.

IL CASO FITTO.

Condannarono Fitto: giudici sotto inchiesta.

Sentenza in tempi ristretti e durante le elezioni: Lecce apre un fascicolo. L'ira di Savino: procedura irrituale, non ci sono ancora le motivazioni del verdetto, scrive Giuliano Foschini su “La Repubblica”. La procura di Lecce ha aperto un'inchiesta sul collegio di giudici che, nel dicembre scorso, ha condannato l'ex ministro del Pdl, Raffaele Fitto a quattro anno di reclusione per corruzione e abuso di ufficio. Nelle scorse settimane il procuratore Cataldo Motta ha chiesto al presidente del Tribunale di Bari, Vito Savino, alcune carte che documentano lo svolgimento del processo. Una richiesta che ha colto di sorpresa il presidente che ha inviato tutti gli atti alla procura. Ma contestualmente ha segnalato la vicenda al presidente della Corte d'Appello, Vito Marino Caferra, indicandone l'originalità non fosse altro perché si sta indagando su una sentenza della quella non si conoscono ancora le motivazioni. L'indagine della procura di Lecce nasce dopo le durissime accuse di Fitto, 24 ore dopo la sentenza nei confronti della corte che lo aveva condannato. Secondo l'ex ministro il presidente di sezione Luigi Forleo, e gli altri due giudici Clara Goffredo e Marco Galesi avrebbero imposto un ritmo serrato al suo processo in modo da condannarlo proprio nel mezzo della campagna elettorale. "Si è aperta in maniera ufficiale un'azione da parte della magistratura barese - aveva detto Fitto - che è entrata a piedi uniti in questa campagna elettorale. Non c'era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi. Attendo di sapere dal presidente Forleo, dalla consigliera Goffredo e dal presidente del tribunale Savino - aveva attaccato Fitto - perché vengono utilizzi due pesi e due misure in modo così clamoroso.

Ci sono dei processi - aveva spiegato per i quali gli stessi componenti del collegio che mi ha condannato hanno fatto valutazioni differenti con tre udienze all'anno, salvo dichiarare la prescrizione di quei procedimenti a differenza del caso mio nel quale ho avuto il privilegio di avere tre udienze a settimana". Il riferimento era al processo sulla missione Arcobaleno che era appunto seguito dagli stessi giudici e che invece aveva avuto tempi molto più lunghi. "Questa è la volontà precisa di un collegio che ha compiuto una scelta politica precisa, che è quella di dare un'indicazione a questa campagna elettorale". Alle domande di Fitto vuole rispondere evidentemente ora la procura di Lecce che ha aperto prontamente l'indagine e altrettanto prontamente si è mossa con il tribunale. Tra gli atti che verranno analizzati ci sono appunti i calendari delle udienze: l'obiettivo è capire se sono stati commessi degli abusi, come dice Fitto, o se tutto è stato svolto secondo le regole. Bisognerà invece aspettare ancora per avere le motivazioni della sentenza Fitto: la corte ha chiesto un'ulteriore proroga, bisognerà aspettare sino al 14 agosto.

Non hanno ancora finito di scrivere le motivazioni per la sentenza che ha condannato Raffaele Fitto a quattro anni di reclusione per corruzione e abuso d’ufficio, e già questo processo è finito in un altro fascicolo giudiziario: Fitto ha accusato i suoi giudici, con un esposto alla procura di Lecce, di essere stati troppo celeri nei suoi riguardi. Il procuratore di Lecce Cataldo Motta, aperto il fascicolo, ha chiesto gli atti del processo al presidente del tribunale di Bari, Vito Savino, che glieli ha trasmessi e di fatto ora sono i giudici Luigi Forleo, Clara Goffredo e Marco Galesi a doversi difendere. “Non c’era bisogno di fare questa sentenza in questi tempi”, aveva attaccato Fitto poche ore dopo la condanna, “gli stessi giudici, per altri processi, hanno tenute tre udienze l’anno mentre, nel mio caso, ci sono state anche tre udienze a settimana”, scrive Antonio Massari su “Il Fatto Quotidiano”. Dopo l’attacco verbale, l’esposto in procura, con annesso fascicolo e indagine appena aperta. Per quanto possa apparire surreale, ora sono i giudici a doversi tutelare dall’accusa di essere stati troppo ligi, di aver evitato la prescrizione in un processo che vedeva coinvolto, con l’accusa di corruzione, uno dei più potenti politici del Pdl, ex ministro e tuttora pupillo dell’ex premier Silvio Berlusconi. E come Berlusconi con Nicolò Ghedini, anche Fitto è difeso da un avvocato che siede in Parlamento, ovvero Francesco Paolo Sisto. Condannato in primo grado – la vicenda riguarda la tangente da 500mila euro, pagata dagli Angelucci al movimento politico di Fitto, “la Puglia prima di tutto”, per ottenere in cambio, secondo l’accusa, la gestione di 11 Residenze sanitarie assistite (Rsa) – ora Fitto si rimetterà al giudizio della Corte d’Appello. Il Presidente della corte d’Appello di Bari è Vito Marino Caferra, da poco nominato “osservatore” del “comitato dei saggi” per le riforme costituzionali. Una nomina passata in commissione affari costituzionali, fortemente voluta proprio da Francesco Paolo Sisto, che l’ha proposto, questa volta – s’intende – nella sua veste di parlamentare Pdl. E quindi, in sintesi, da un lato Fitto denuncia – e la procura di Lecce indaga – i giudici che l’hanno condannato, perché troppo celeri nel calendarizzare le udienze del suo processo. Dall’altro il suo avvocato, in qualità di parlamentare, spinge il presidente della Corte d’appello – che dovrà calendarizzare le future udienze – nel ruolo di osservatore dei saggi. Nessun dubbio sul fatto che Caferra, nella sua veste di giudice, non si lascerà condizionare. Molti dubbi, invece, sull’opportunità di accettare questo incarico, giunto proprio su proposta di Sisto.

E SULLE FOTO DI VENDOLA SPUNTA CAROFIGLIO.

E sulle foto di Vendola spunta Carofiglio. C'è il nome del magistrato-scrittore, secondo Panorama, nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto del governatore  a pranzo con il giudice De Felice. Spunta a sorpresa il nome del magistrato-scrittore-politico Gianrico Carofiglio nell’inchiesta barese sul presunto furto delle foto di Nichi Vendola a pranzo con Susanna De Felice, il giudice che lo ha assolto nell’ottobre 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio. Lo rivela Panorama, in edicola da domani, giovedì 18 luglio. Lo ha scoperto la Polizia postale di Bari che ha analizzato il computer dell’uomo che dice di avere rubato quelle immagini, Cosimo Ladogana, all’epoca compagno di Patrizia Vendola, sorella del governatore pugliese Nichi.

Tutto inizia quando Ladogana, tra il 22 e il 23 febbraio scorsi, senza rivelare la sua identità, propone a Panorama alcuni scatti di quel pranzo e altri riguardanti un incontro a casa di Carofiglio tra Patrizia Vendola e De Felice alla vigilia del processo contro il governatore della Puglia. Il settimanale, subodorando una trappola, dà conto della strana offerta. L’identikit di Ladogana viene riconosciuto da amici e parenti e così, il 28 febbraio, il presunto ladro
scrive all’allora senatore del Pd Carofiglio, amico della famiglia Vendola e del giudice De Felice, un’email di giustificazioni: «Ho preso delle decisioni e ho intrapreso delle iniziative con l’intento di colpire una precisa persona (il cronista di Panorama, ndr) e non certo tutti noi». Giura che il suo piano (successivamente realizzato) era quello di far incriminare per ricettazione il giornalista: «Era da giorni che avevo quella maledetta idea in testa, tanto da
parlarne in maniera scherzosa anche a Patrizia. Dicevo: “A quel pezzo di merda bisognerebbe fargli il culo proponendogli materiale rubato”».

Ladogana è disperato e a Carofiglio assicura: «Sono disposto a tutto (…). Non avrei problemi, se fosse necessario, di presentarmi davanti a un giudice autodenunciadomi». Dopo pochi minuti Carofiglio, sempre per posta elettronica, risponde e promette di concedere la sua consulenza a una condizione: Cosimo dovrà inviare - precisa il magistrato - «tutto (ma davvero tutto senza censura) lo scambio di email con quel signore» e «un sunto delle comunicazioni telefoniche, con numeri delle utenze e durate delle conversazioni ed eventuali sms» tra il cognato e il cronista. Nei giorni successivi Ladogana spedisce in visione diverse bozze della sua autodenuncia al magistrato-scrittore e il 5 marzo, quando il documento è già stato lungamente corretto e limato (anche nella parte sull’incontro a casa Carofiglio), ne consegna una copia alla Digos. Dopo poche ore la procura di Bari apre un fascicolo per furto e ricettazione.

Tutta la verità sulle foto di Vendola.

La vera storia del fidanzato di Patrizia Vendola e delle foto regalate a Panorama, scrive Giacomo Amador su “Panorama”. Oggi la notizia del giorno a Bari la offre ai suoi lettori «La Repubblica», sulla prima pagina del dorso locale: «Il partner di Patrizia Vendola: “Ho dato io le foto a Panorama». Il sommario chiarisce meglio la vicenda: «Cosimo Ladogana ha presentato denuncia alla Digos accusandosi di aver ceduto lui al settimanale le foto della festa a cui hanno partecipato il governatore (Nichi Vendola ndr) e il gip (Susanna De Felice ndr) che lo ha assolto». Bum!

Ma perché avrebbe tradito la famiglia della fidanzata «all’insaputa di tutti»? Semplice: «Voleva scoprire le carte del settimanale e tutelare la sua donna» sarebbe la versione offerta ai poliziotti. In realtà la storia è andata un po’ diversamente e vale la pena di essere raccontata dall’inizio.

Alle 10 e 52 minuti di giovedì 21 febbraio sul computer della segreteria di Panorama arriva una email di un lettore misterioso, nascosto dietro il nickname Japigia69 (Japigia è un quartiere di Bari). Panorama è da poche ore in edicola con la storia della foto della ormai famosa festa di compleanno a cui parteciparono il Vendola e il giudice De Felice, che lo avrebbe assolto nel 2012 dall’accusa di abuso d’ufficio a fronte di una richiesta di condanna a 20 mesi di reclusione. Il nostro settimanale, però, sino a quel momento, aveva pubblicato solo un disegno, una ricostruzione grafica di quell’evento conviviale. Scrive Japigia:

«La foto originale, scattata da me, del 15 aprile 2007 (non 2006) di cui parlate nell’articolo di oggi è in mio possesso insieme ad altre 30 foto che ritraggono e raccontano l’evento. Se interessati, le cedo molto volentieri, altrimenti passo ad altri che sono in attesa. Grazie».

Panorama, mentre il giornale va in stampa, è riuscito a entrare in possesso dell’immagine del pranzo e la pubblicherà sul suo sito Internet verso mezzogiorno di quella stessa mattina. Ma Japigia non può saperlo e ritiene di poter fare il colpo grosso.

Anche se l’immagine la abbiamo, il cronista è ovviamente interessato a capire meglio la vicenda e invia una email a Japigia. La risposta è rapida e l’appuntamento viene fissato per il pomeriggio successivo, venerdì 22 febbraio. Nel frattempo ci attrezziamo per capirne di più e smascherare l’anonimo. Pochi giorni prima ci aveva telefonato, schermato da un numero privato, un altro mister x e ci aveva offerto immagini a un prezzo cospicuo. L’uomo senza volto dà del «tu» al cronista e sa che ha già visionato (senza riuscire a ottenerla) un’istantanea della festa. La storia non ci piace e pensiamo a come svelare l’identità del trafficante di immagini.

Dopo un consulto con la direzione viene chiamato il procuratore di Lecce Cataldo Motta che, a quanto ci risulta, ha un fascicolo aperto sui rapporti tra De Felice e Vendola. Non sappiamo, né possiamo sapere, che Motta ha già chiesto l’archiviazione per il gip. La risposta del magistrato è secca: «E che c’entro io?». Quindi consiglia: «Avvertite le forze di polizia, se lo ritenete». Noi preferiamo a quel punto raccontare la proposta ricevuta ai nostri lettori.

Torniamo a Japigia. Dopo il primo colloquio, le nostre difese non si abbassano. Ma come i giocatori di poker chiediamo di «vedere». L’uomo, grande e grosso, età apparente sui 45 anni, si presenta nella hall dell’albergo in cui alloggiamo. Si siede con noi a un tavolino e inizia subito a riempire l’aria di millanterie (lo scriverà lui stesso in una mail successiva, quando scoveremo la sua reale identità). Dice di essere tornato in Puglia da un anno, di lavorare per un misterioso gruppo di persone che lo paga profumatamente per trovare notizie «scomode» e di essere iscritto all’albo dei giornalisti.

Questa informazione, come accerteremo, è vera: Ladogana dovrebbe aver fatto il praticante in un piccolo giornale di Sesto San Giovanni (Milano) ai tempi in cui faceva il «galoppino» di alcuni noti politici del luogo, ci rivela un amico dell’epoca, Filippo Penati in primis, ex caposegreteria di Pier Luigi Bersani, oggi afflitto da qualche grattacapo giudiziario.

In albergo Cosimo (ma lui si presenta come Domenico, anche se a un certo punto si confonde e dichiara il vero nome) tira fuori tre quattro fogli formato A4 pieni di foto, stampe di provini o di cartelle digitali, e ce le mostra. Ci sono gli scatti del pranzo (sono davvero una trentina) e quelle di un altro evento molto più recente. Cosimo insiste su questo punto, dice che risalgono all’1 maggio del 2012 e che erano presenti sia De Felice che Patrizia Vendola. Aggiunge pure che ci sono altre foto delle due donne in occasione di una Pasquetta e di un Capodanno trascorsi insieme, sempre successivi al 2009 e quindi «pericolosamente» recenti per la famiglia Vendola. Sono questi scatti vicini nel tempo la merce che prova a vendere in questo mercatino improvvisato, visto che le immagini del pranzo del 2007 hanno perso valore alla borsa della notizia dopo la pubblicazione della prima foto su Panorama.it.

L’informatore dice di avere estratto le istantanee da un vecchio telefonino della Vendola, poi si contraddice e racconta di aver pagato un tecnico per recuperare un hard-disk usato della donna, pagando 3 mila euro. Una cifra buttata lì, quasi a dare un prezzo al pacchetto. Japigia non capisce, o forse sì, che quegli scatti, con tali premesse, diventano roba buona per i ricettatori. Lui, per tranquilizzarci, si propone per una collaborazione che duri nel tempo con il giornale, ovviamente da realizzare con la sua reale identità.

Nel frattempo sul tavolo srotola altre storie. Dice di avere degli audio compromettenti di un magistrato a colloquio con Patrizia Vendola e che quelle registrazioni le aveva suggerite un parlamentare del Pd. Sostiene inoltre di avere  il file di un colloquio tra due imprenditori che scagionerebbe Penati. Gli riferiamo che il nostro tempo è scaduto perché dobbiamo andare al comizio di Vendola per provare a intervistarlo. Sospendiamo la trattativa, con la promessa di rivederci.

Siamo in una fase di studio: il racconto di Cosimo è confuso, le foto sono chiaramente autentiche, lui preferisce rimanere anonimo. La sera lo incrociamo in compagnia di una donna (tra poche righe scoprirete la sua identità). Ci ignoriamo volutamente. Il giorno dopo, altro appuntamento in albergo, ma la matassa non si sbroglia. Anzi. Japigia ci dà appuntamento a Roma, promette di svelare il suo nome e di consegnarci il materiale. In realtà sparisce dai radar. Salvo inviare quattro foto via email: «Sta a voi decidere se ringraziarmi» precisa. Anche senza pagare un centesimo, l’accusa per Panorama di essere una macchina del fango (un ritornello che Vendola aveva già cantilenato dopo una nostra intervista alla sorella) è dietro l’angolo. E sebbene scopriremo che quella melma Vendola ce l’ha in casa, con la direzione decidiamo di pubblicare le istantanee e di descrivere così chi ce le ha consegnate:

«Ma qual è l’identità della fonte e come è entrata in possesso delle foto? Il percorso non è chiaro. Potrebbe essere tortuoso, financo illegale. “Carbonara” (nel pezzo lo chiamiamo così) dice di essere un giornalista freelance e di aver videoregistrato il nostro incontro. Quindi scompare e non si fa più sentire (…). Un approccio indecifrabile. Anche perché nelle stesse ore il cronista incrocia Carbonara per le vie di Bari, e lui fa finta di niente. Passeggia con una signora, con cui sembra in confidenza. Il cronista la riconosce: è Patrizia Vendola (ecco chi è la donna ndr). Gioco o doppiogioco? In ogni caso non è divertente».

Secondo noi ce n’è abbastanza per incuriosire le forze dell’ordine o un magistrato. Ma nessuno, a Bari, sembra interessato alla nostra storia. Nessuno si preoccupa di verificare chi siano gli strani personaggi che offrono foto di cronaca in città senza rivelare la propria identità. Proviamo a chiedere aiuto a Gianrico Carofiglio, magistrato, senatore Pd e grande amico dei Vendola: «So chi è la vostra fonte, ma vi rivelerò la sua identità solo se prima mi racconterete tutto».

Quello che avevamo da dire sull’informatore lo abbiamo scritto, replichiamo. A Carofiglio non basta, vuole altri particolari, cerca conferme ai suoi sospetti. Eppure quanto pubblicato su Panorama sembra sia bastato a rendere identificabile Ladogana all’interno del cerchio magico di Vendola. Per lo meno questo sostiene Japigia, che il 28 febbraio ricompare con una email intestata «Ringraziamenti»:

«Davvero un peccato. Tutto sommato anche previsto. Grazie. Buona giornata».

Il messaggio è vagamente minaccioso. Rispondiamo spiegando che il suo comportamento, le sue parole e le sue frequentazioni ci avevano fatto sospettare di una trappola. Lui si indigna: «Io ero sincero, volevo darvi sul serio una mano, per motivi personali, non ho preteso soldi (…) non sono scomparso, aspettavo il vostro articolo. È andata così, pazienza». Lo abbiamo reso riconoscibile e questo lo ha mandato nel panico: «Beh, almeno adesso avete la certezza che non era un trappolone come lo chiamate voi, che non ero in combutta con nessuno. Cellulare bollente il mio oggi, insulti a non finire, dai miei ex conoscenti, impossibile negare e quindi reo confesso».

La storia è sempre più intricata e Cosimo non intende proprio togliersi la maschera. Scopriamo il suo nome casualmente, da un conoscente vicino al cerchio magico, ma anche questo ci aiuta poco. Esistono diversi omonimi. Iniziamo la caccia. Vogliamo conoscere la verità e glielo facciamo sapere. Chiediamo, sempre per iscritto, di incontrarlo e di parlare a quattr’occhi, per capire i reali motivi del suo comportamento. Non risponde. Gli riferiamo che il materiale in suo possesso ci servirà in vista di eventuali querele già annunciate. Lui preferisce restare nell’ombra. Ma l’uomo è venale e per riagganciarlo gli proponiamo «una soluzione buona per entrambi». Abbocca.

«Non vedo perché dovrei fidarmi di te» scrive riferendosi al cronista, «ti ho incontrato e tu due ore dopo mi vedi in compagnia (di Patrizia Vendola) e decidi di trattarmi così? Mi hai messo tutti contro» si lamenta. Ma alla fine del messaggio apre uno spiraglio: «Quale sarebbe “una buona soluzione per entrambi”?». Restiamo sul vago. Non promettiamo niente di concreto. Lui torna alla carica: «Anche se volessi accettare come potreste tutelarmi da eventuali conseguenze penali e quale sarebbe il mio compenso?».

Proponiamo di continuare a proteggere il suo anonimato ed eventualmente di pagargli foto e collaborazione, se dimostrerà di essere un giornalista, attraverso «un regolare bonifico».

Probabilmente queste condizioni lo scoraggiano e si eclissa di nuovo. Nel frattempo apprendiamo molte informazioni sul suo conto. Un ex politico di Sesto San Giovanni ci racconta la sua vera storia, le imprese fallite, l’attuale vita fatta «di espedienti». Ci invia il suo numero di cellulare con questa raccomandazione: «Non fategli male, è un buon diavolo, forse un po’ c…e». Inviamo a Cosimo altre email, messaggini sul cellulare, ma lui continua a non dare segni di vita. Il 4 marzo, a causa della nostra insistenza, probabilmente si sente in trappola e spedisce al cronista poche righe, apparentemente dettate da un leguleio:

«Preciso che tutto quello che ho detto nella nostra chiacchierata, erano invenzioni e millanterie. Ho frequentato Patrizia Vendola per oltre un anno, siamo stati insieme tutti i giorni e nell’arco di quest’anno c’è stato un solo casuale incontro con la dottoressa De Felice. Ogni cosa diversa tu dovessi dire o attribuire virgolettata, sul tuo giornale sarà falso e ne dovrai rispondere alle persone eventualmente diffamate, in sede civile e penale».

Rispondiamo che per tutelarci a noi basta rivelare il suo nome, il fatto che ci abbia consegnato le foto e che ne abbia altre. Il 5 marzo scriviamo un articolo sull’affaire Vendola-De Felice senza citarlo. È l’ultima possibilità che gli diamo per uscire allo scoperto. Gli facciamo capire che lo proteggeremo come fonte in cambio delle prove di quello che abbiamo scritto, riscontri che abbiamo visto, ma che non ci ha consegnato. Ribadiamo che se non si farà vivo saremo costretti a svelare la sua identità per difendere il nostro lavoro con i lettori e nei tribunali.

Quello stesso pomeriggio un collega ci avverte che Ladogana è andato ad autodenunciarsi alla Digos. Alle 19.25 Japigia ci annuncia personalmente la decisione: «Ho riferito tutto alla polizia giudiziaria, consegnando la documentazione. Ognuno si prenderà le proprie responsabilità». La nostra risposta è lapidaria e un po’ ironica: «Bene. Finalmente trionferanno verità e giustizia. Speriamo che almeno alla Digos tu non abbia chiesto soldi, abbia dato le tue vere generalità, consegnato tutto quello di cui parli nell’audio e le foto che ci hai fatto vedere».

Già. Chissà se a qualcuno, adesso, interesseranno le immagini che documentano gli incontri della famiglia Vendola e del giudice De Felice anche in anni molto recenti. Forse ora ci sarà chi proverà a vederci chiaro. Se accadrà, di questo piccolo miracolo dovremo ringraziare Japigia.

Patrizia Vendola, sorella di Nichi, è stata sentita dai giudici in merito alla sua amicizia con Susanna De Felice, il giudice che nell’ottobre scorso ha assolto il governatore pugliese dall’accusa di concorso in abuso d’ufficio, scrive “Libero Quotidiano”. A rivelarlo è un articolo del settimanale Panorama, che racconta il giro di frequentazioni della sorella del leader di Sel, vicina a molti magistrati della procura di Bari, che poi ha assolto il governatore. Vendola, dal canto suo, smentisce e querela il settimanale della Mondadori.

Ma vediamo i fatti. Il 31 ottobre dello scorso anno Nichi Vendola viene assolto con formula piena dal tribunale di Bari «perché il fatto non sussiste» dall’accusa di abuso d’ufficio in merito alla nomina di un primario dell’ospedale San Paolo. A puntare il dito contro il governatore era stata un’ex dirigente dell’Asl del capoluogo pugliese, Lea Cosentino, a suo tempo sollevata dal suo incarico proprio da Vendola. La richiesta dell’accusa nei confronti di Nichi è pesante: 20 mesi di reclusione. Vendola, che ha appena dato vita all’alleanza di centrosinistra insieme al Pd, però afferma con forza la sua innocenza: «Se verrò condannato, lascerò la politica», disse Nichi, prima di essere assolto. 

A dicembre, però, il procuratore di Lecce, Cataldo Motta, apre un fascicolo proprio sulla De Felice, il giudice che ha assolto il governatore. Lo spunto arriva proprio dai due pm che hanno indagato Vendola: Desirèe Di Geronimo e Francesco Bertone. La Di Geronimo, tra l’altro, è stata per anni anche lei molto amica della sorella del governatore, come testimoniano alcune immagini su Facebook. E il 31 gennaio Patrizia Vendola viene convocata in procura per dare spiegazioni sulla sua amicizia con la De Felice. Quello che vogliono capire è se tra le due donne, la sorella di Vendola e il giudice, esistesse un’amicizia che possa gettare ombre sulla sentenza di assoluzione del governatore. E davanti ai pm la sorella dei Vendola avrebbe ammesso la conoscenza con la De Felice, specialmente nel periodo dal 2004 al 2009, in seguito alle frequentazioni con Carofiglio e sua moglie, Francesca Pirrelli, altra pm del capoluogo pugliese. «Ho condiviso amici e feste con De Felice per diversi anni, con una cadenza di circa una volta al mese, fino al 2009. Dopo ci saremmo viste cinque o sei volte, non di più», ha detto Patrizia Vendola ai magistrati. Insomma, la frequentazione c’era, anche con il compagno della De Felice, il magistrato Achille Bianchi, anch’egli amico di Carofiglio e della moglie. 

Nulla di male, per carità. Il problema, però, si pone se si viene a scoprire che un giudice che assolve una determinata persona è amica di colui che ha assolto o di un suo stretto familiare. E nell’inchiesta sarebbero saltate fuori anche delle fotografie che ritraggono allo stesso tavolo Vendola e, appunto, De Felice. «E’ possibile, ma si tratta di occasioni o episodi avvenuti molto tempo prima il processo nei confronti di mio fratello», ha spiegato la sorella di Vendola ai pm. Un intreccio che rischia di gettare un’ombra di sospetto sull’assoluzione del governatore pugliese ora impegnato nella campagna elettorale per le Politiche al fianco di Pier Luigi Bersani. Ma Vendola fermamente smentisce e querela Panorama.  «Ho dato mandato ai miei legali di sporgere denuncia nei confronti del settimanale Panorama, per il piccolo concentrato di fango, con cui, in linea con l'informazione berlusconiana, ha inteso colpirmi», afferma il governatore, annunciando il ricorso alle vie legali.

TARANTO. CASO ILVA. TUTTI DENTRO. FLORIDO E GLI ALTRI. L’ARRESTO DI GIANNI FLORIDO NON E’ MICA UNA RIPICCA? SE NON LO E’, PERCHE’ ORA?

La magistratura tarantina, in testa  Patrizia Todisco, arresta il presidente della provincia di Taranto, Gianni Florido (PD), ed il suo assessore all’ambiente, Michele Conserva. La stessa magistratura si limita ad indagare il Sindaco di Taranto, Ippazio Stefàno. Nulla per Niki Vendola nonostante, a loro dire, vi siano “Costanti contatti tra Ilva e Vendola”. Silenzio su Stampa e tv locali, così come sui sindacati ed oltremodo sui magistrati che per 50 anni hanno omesso ogni intervento atto ad impedire tutto ciò di cui oggi su Taranto si parla a livello mediatico e giudiziario. Florido e Conserva sono accusati di aver indotto, dal 2006 al 2011, dirigenti del settore ecologia e ambiente della Provincia di Taranto a rilasciare autorizzazioni per la discarica gestita dall'Ilva «in carenza dei requisiti tecnico-giuridici».

Il Dr. Antonio Giangrande, scrittore e presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, aborra l’uso spregiudicato delle manette.

Tintinnio di manette  che distrugge l’esistenza degli individui e dei loro incolpevoli familiari. E proprio perché la vita di Florido e Conserva ormai è distrutta, così come per tutti gli altri malcapitati, esprime il suo pensiero nel pieno diritto di critica pur nel rispetto della magistratura e senza alcun intento diffamatorio nei confronti dell’ufficio della procura e del giudice per le indagini preliminari. Lo manifesta in un contesto ambientale ed ideologico dove nessuno ha il coraggio di farlo, attraverso l’utilizzo di domande in apparenza retoriche, ma fondamentalmente legittime.

«L’arresto del Presidente della Provincia di Taranto, il dr. Gianni Florido, sembrerebbe avere tutta l’aria di una ripicca. Se non lo è come si spiega lo strano tempismo adottato. Va da se che la fondatezza delle accuse vanno vagliate in dibattimento, ma era necessaria la carcerazione preventiva di un presunto innocente, con il paradosso che in carcere troverà Sabrina Misseri e Cosima Serrano. Entrambe detenute con tutti i dubbi del caso? E poi perché ora una misura cautelare in carcere solo per Gianni Florido e non per Stefàno o per Vendola per il quale non vi è nemmeno un procedimento aperto? Dall'ordinanza emerge che le fiamme gialle, in un'informativa riportata da “Il Giornale”, ipotizzano un episodio di concussione anche per Nichi Vendola. E perchè le manette non sono scattate anche per Filippo Penati per la presunta mazzetta da 2 milioni di euro dal costruttore Pasini per l'ex area Falk di Sesto San Giovanni (di cui Penati è stato sindaco) e dall'imprenditore Pino di Caterina per l'affare Milano-Serravalle?

Qualcuno mi chiederà di quale tempismo io parli in riferimento all’arresto di Florido effettuato il 15 maggio. Quale tempismo?!?

Il tempismo che il 14 maggio 2013 la battaglia giudiziaria sulle merci dell'Ilva è finita e da qui la cronologia è presto spiegata!

26 luglio 2012. I sigilli scattano nell'area produttiva.

26 novembre. Il sequestro delle merci prodotte.

24 dicembre 2012. Il decreto, numero 171 del 4 dicembre 2012, è stato convertito nella legge 231. Legge approvata a grande maggioranza dal Parlamento e che ha appunto confermato la doppia impostazione: via libera alla produzione e alla commercializzazione.

Approvata la legge, l'Ilva ha subito cercato di riottenere la disponibilità delle merci ma qui è cominciato uno scontro durato cinque mesi e che ha visto tutte le istanze dell'azienda respinte dai giudici. Dai pm al gip, dal Tribunale del Riesame a quello dell'Appello, ogni qualvolta che l'Ilva ha chiesto di "liberare" semilavorati e prodotti ha collezionato solo no. Accanimento giudiziario tanto da indurre il presidente dell'Ilva Bruno Ferrante a denunciare in procura a Potenza i magistrati tarantini che si stanno occupando del siderurgico. Il presidente del siderurgico ha chiesto ai magistrati potentini di verificare se sono ravvisabili reati nei loro confronti: oggetto del contendere è l'atteggiamento avuto nel corso della diatriba giudiziaria, dal sequestro dell'impianto sino al blocco dell'acciaio prodotto. Procura e giudice hanno fatto sempre muro creando grave danno all'azienda e di conseguenza minato i diritti dei lavoratori.

Si arriva così al 9 aprile 2013, quando la Corte Costituzionale respinge, perché in parte infondate e in parte inammissibili, le eccezioni contro la legge 231 avanzate dai giudici e dice che la 231 è costituzionale. L'Ilva torna quindi alla carica e richiede il dissequestro delle merci: nulla da fare. E per più volte. Nessun dissequestro sin quando le motivazioni della Consulta sulla costituzionalità della legge non saranno state rese note, dicono i magistrati di Taranto. Le motivazioni arrivano il 9 maggio.

14 maggio 2013 il verdetto favorevole del gip. Il valore delle merci dissequestrate è compreso fra gli 800 milioni di euro e un miliardo di lire.

15 maggio 2013 arresto di Gianni Florido.

Perché l’arresto di Florido, ove non sussistesse la condizione necessaria della reiterazione del reato e/o dell’inquinamento delle prove e/o del pericolo di fuga? Perché?!? Perché i magistrati devono avere sempre e comunque l’ultima parola e se ignominia deve essere, ignominia sia per il malcapitato di turno.

I magistrati, tutti, fanno quadrato. A tirarla per le lunghe è inevitabile riportare quanto scritto sui giornali: Il presidente della Corte d' appello di Lecce Mario Buffa lancia l'allarme sulla possibilità che "grazie ad una legge di dubbia costituzionalità tutto resti come prima". Ed ancora  “Sull’Ilva si è registrato negli anni un fragoroso silenzio da parte dei sindacati e una disattenzione dei governi che si sono succeduti a livello locale e nazionale (...) il sindacato ha mantenuto il silenzio nonostante la gravità di una situazione visibile a tutti”. Parole come pietre, le parole del procuratore generale Vignola. In effetti, in base ad un accordo stilato nel 1996 tra Fim, Fiom, Uilm  e l’Ilva stessa, sono stati versati 438 mila euro annue alle segreterie dei 3 sindacati. Il tutto giustificato da una fondazione in cambio di una colonia per i figli dei dipendenti, borse di studio e contributi scolastici, oltre ad attività sportive e ricreative. “Un attacco pesante di cui non si sentiva la necessità” è quanto dichiarato da Antonio Talò, leader della Uilm ionica, il sindacato più rappresentativo nel Siderurgico al centro della bufera giudiziaria ormai da mesi.  “Abbiamo sempre denunciato quello che potevamo e dovevamo, certo i controlli sul benzo(a)pirene non spettavano a noi, che non siamo mai stati nè silenti nè conniventi. Se volessi fare polemica, chiederei a Vignola dove è stato, sino al 2012” è la chiosa del capo tarantino dei metalmeccanici della Uil. La chiosa vale anche per tutti i magistrati di Taranto? 

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate.

Stante, appunto, la situazione ambientale, non pare che sia necessario ed urgente che le difese si attivino a chiedere la rimessione dei processi anche sul caso Ilva per legittimo sospetto che non vi sia serenità di giudizio, specie con la contrapposizione di piazza tra le rispettive parti, anche politiche? Sempre che gli avvocati in causa abbiano il coraggio di Franco Coppi, che ai magistrati tarantini ha prima presentato l’istanza di rimessione e poi alla Cesarina Trunfio ed alla Fulvia Misserini (giudici togati del caso Scazzi) ha paventato l’ipotesi di una ricusazione:  perché parafrasando Don Abbondio “se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare”.»

LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA. CONTRO LO STRAPOTERE DELLE TOGHE (MAGISTRATI ED AVVOCATI) DISPONETE L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO. PROPOSTA DI LEGGE IN CALCE.

PREMESSA

Il Popolo della libertà scende in piazza sabato 11 maggio 2013 a Brescia "in difesa di Silvio Berlusconi". Alle numerose esternazioni di esponenti del suo partito su un "uso politico della giustizia" segue quella dello stesso Berlusconi: "La sentenza di ieri è davvero una provocazione preparata dalla parte politicizzata della magistratura che da vent'anni cerca di eliminarmi come principale avversario della sinistra e il rinvio a giudizio di Napoli fa parte di questo uso politico della giustizia". Da una parte vi è Silvio Berlusconi che si presenta come vittima sacrificale della magistocrazia e dall’altra il solito Marco Pannella con i suoi scioperi della fame e della sete per denunciare la detenzione dei carcerati nei canili per umani. Puntano l’indice su aspetti marginali del problema giustizia. Eppure loro sono anche quei politici che da decenni presentano le loro facce in tv. Tutto fa pensare che non gliene fotte niente a nessuno se i magistrati sono quelli che sono, pur se questi, presentandosi e differenziandosi come coloro che vengono da Marte, sono santificati dalla sinistra come unti dall’infallibilità. Tutto fa pensare che se si continua a dire che Berlusconi è una vittima della giustizia (e solo lui)  e che le celle sono troppo piccole per i detenuti, non si farà l’interesse di coloro che in carcere ci sono, sì, ma sono innocenti. Bene, Tutto questo fa pensare che dopo i proclami tutto rimarrà com’è. E tutto questo nell’imperante omertà dei media che si nascondo dietro il dito dell’ipocrisia. Volete un esempio di come un certo modo di fare comunicazione ed informazione inclini l’opinione pubblica a parlare di economia e solo di economia, come se altri problemi più importanti non attanagliassero gli italiani?

La mafia cos'è? La risposta in un aneddoto di Paolo Borsellino: «Sapete che cos'è la Mafia... faccia conto che ci sia un posto libero in tribunale..... e che si presentino 3 magistrati... il primo è bravissimo, il migliore, il più preparato.. un altro ha appoggi formidabili dalla politica... e il terzo è un fesso... sapete chi vincerà??? Il fesso. Ecco, mi disse il boss, questa è la MAFIA!»

«La vera mafia è lo Stato, alcuni magistrati che lo rappresentano si comportano da mafiosi. Il magistrato che mi racconta che Andreotti ha baciato Riina io lo voglio in galera». Così Vittorio Sgarbi il 6 maggio 2013 ad “Un Giorno Da Pecora su Radio 2.

«Da noi - ha dichiarato Silvio Berlusconi ai cronisti di una televisione greca il 23 febbraio 2013 - la magistratura è una mafia più pericolosa della mafia siciliana, e lo dico sapendo di dire una cosa grossa». «In Italia regna una "magistocrazia". Nella magistratura c'è una vera e propria associazione a delinquere» Lo ha detto Silvio Berlusconi il 28 marzo 2013 durante la riunione del gruppo Pdl a Montecitorio. Ed ancora Silvio Berlusconi all'attacco ai magistrati: «L'Anm è come la P2, non dice chi sono i loro associati». Il riferimento dell'ex premier è alle associazioni interne ai magistrati, come Magistratura Democratica. Il Cavaliere è a Udine il 18 aprile 2013 per un comizio.

Qui non si vuole criminalizzare una intera categoria. Basta, però, indicare a qualcuno che si ostina a difendere l’indifendibile che qualcosa bisogna fare. Anzi, prima di tutto, bisogna dire, specialmente sulla Rimessione dei processi.

Questa norma a vantaggio del cittadino è da sempre assolutamente disapplicata e non solo per Silvio Berlusconi. Prendiamo per esempio la norma sulla rimessione del processo prevista dall’art. 45 del codice di procedura penale. L'articolo 45 c.p.p. prevede che "in ogni stato e grado del processo di merito, quando gravi situazioni locali, tali da turbare lo svolgimento del processo e non altrimenti eliminabili, pregiudicano la libera determinazione delle persone che partecipano al processo ovvero la sicurezza o l'incolumità pubblica, o determinano motivi di legittimo sospetto, la Corte di Cassazione, su richiesta motivata del procuratore generale presso la Corte di appello o del pubblico ministero presso il giudice che procede o dell'imputato, rimette il processo ad altro giudice, designato a norma dell'articolo 11".

Tale istituto si pone a garanzia del corretto svolgimento del processo, dell'imparzialità del giudice e della libera attività difensiva delle parti. Si differenzia dalla ricusazione disciplinata dall'art. 37 c.p.p. in quanto derogando al principio costituzionale del giudice naturale (quello del locus commissi delicti) e quindi assumendo il connotato dell'eccezionalità, necessita per poter essere eccepito o rilevato di gravi situazioni esterne al processo nelle sole ipotesi in cui queste non siano altrimenti eliminabili. Inoltre mentre per la domanda di ricusazione è competente il giudice superiore, per decidere sull'ammissibilità della rimessione lo è solo la Corte di Cassazione.

«L’ipotesi della rimessione, il trasferimento, cioè, del processo ad altra sede giudiziaria, deroga, infatti, alle regole ordinarie di competenza e allo stesso principio del giudice naturale (art. 25 della Costituzione) - spiega Edmondo Bruti Liberati, già Presidente dell’Associazione nazionale magistrati. - E pertanto già la Corte di Cassazione ha costantemente affermato che si tratta di un istituto che trova applicazione in casi del tutto eccezionali e che le norme sulla rimessione devono essere interpretate restrittivamente. Nella rinnovata attenzione sull’istituto della rimessione, determinata dalla discussione della proposte di modifica (2002, legge Cirami), numerosi commenti – comparsi sulla stampa – rischiano di aver indotto nell’opinione pubblica l’impressione che l’istituto del trasferimento dei processi trovi applicazione ampia e che dunque la magistratura italiana ricorrentemente non sia in grado di operare con serenità di giudizio. Vi fu una sola difficile stagione dei primi decenni della nostra Repubblica, in cui numerosi processi per fatti di mafia furono trasferiti dalle sedi giudiziarie siciliane in altre regioni: era il segno umiliante della fragilità delle istituzioni, di uno Stato incapace di assicurare serenità allo svolgimento del processo e di garantire protezione ai giudici popolari di fronte alle minacce. Era una stagione in cui i processi, pur trasferiti ad altra sede, si concludevano pressoché ineluttabilmente con le assoluzioni per insufficienza di prove. Superata questa fase, e pur sotto la vigenza della norma del Codice di procedura penale del 1930 – che prevedeva la formula del «legittimo sospetto» –, in un periodo di diversi decenni i casi di rimessione sono stati pochissimi: intendo dire poche unità. I casi più noti di accoglimento, di norma ad iniziativa degli uffici del Pm, determinarono polemiche e reazioni. (Ad esempio, i fatti di Genova del luglio 1960, la strage del Vajont, la strage di Piazza Fontana, l’appello sul ‘caso Zanzara’, il caso delle schedature alla Fiat). Avanzava tra i giuristi la tesi che fosse necessaria una più puntuale e rigorosa indicazione dei motivi suscettibili di determinare il trasferimento. Il Parlamento, dopo le polemiche per il trasferimento del processo per la strage di Piazza Fontana da Milano a Catanzaro, interveniva per dettare dei criteri stringenti per la designazione del nuovo giudice (legge 773/1972 e successivamente legge 879/1980, che introdusse il criterio automatico tuttora vigente). La lettura delle riviste giuridiche, dei saggi in materia e dei codici commentati ci presenta una serie lunghissima di casi, in cui si fa riferimento alle più disparate situazioni di fatto per concludere che la ipotesi di rimessione è stata esclusa dalla Corte di cassazione. Pochissimi sono dunque fino al 1989 stati i casi di accoglimento: l’ordine di grandezza è di una dozzina in tutto. Il dato che si può fornire con precisione – ed è estremamente significativo – riguarda il periodo dopo il 1989, con il nuovo Codice di procedura penale: le istanze di rimessione accolte sono state due.»

«Per quanto concerne la remissione per motivi di legittimo sospetto occorre che i capi delle procure generali si attengano a una concezione rigorosamente ristretta dell'istituto». La circolare ministeriale che abbiamo citato non esce dagli archivi del governo Prodi e neppure dal cassetto del terribile ex procuratore di Milano, Francesco Saverio Borrelli. Si tratta invece di una direttiva piuttosto chiara che il ministro fascista Dino Grandi inviava a tutti i tribunali italiani nel 1939, consigliando loro di usare la legittima suspicione con cautela. Eppure se si dà uno sguardo alla storia giudiziaria italiana, se si ritorna su quei casi in cui la legittima suspicione è stata accolta vengono i brividi e si capisce perché la legittima suspicione si trasformi nel legittimo sospetto contro giudici, pubblici ministeri, tribunali. Il caso più drammatico, più doloroso, in cui l'accettazione della legittima suspicione fece danni incalcolabili fu il processo per la strage di piazza Fontana. Non è il caso di soffermarsi più di tanto su quel buco nero della nostra storia. E' tristemente noto: la legittima suspicione riuscì a strappare il processo ai giudici di Milano in un clima golpista e lo trasferì a Catanzaro. Per trent'anni la verità sulla strage rimase sotterrata dalla collusione tra servizi, governi e apparati militari. Il processo di piazza Fontana è il caso più clamoroso ma non certo il primo. Basta scartabellare negli archivi giudiziari per trovare le vittime della legittima suspicione. A due anni dalla fine della guerra si giunge al drammatico processo per la strage di Portella delle Ginestre. Il processo viene spostato da Palermo a Viterbo: la banda di Salvatore Giuliano viene condannata ma i mandanti assolti. Nel 1963 ci imbattiamo nel disastro del Vajont: il processo da Venezia viene trasferito a L'Aquila dove la strage viene definita «evento imprevedibile» e dove governo e Enel vengono assolti. Nello stesso anno il processo per la strage di Ciaculli viene trasferito da Palermo a Catanzaro. Buscetta viene condannato ma altri mafiosi del peso di Pippò Calò se la cavano. Se si leggono gli atti dei processi per mafia si scopre che la richiesta di legittima suspicione viene utilizzata a man bassa, come una chiave magica usata per ottenere in sedi più consone assoluzioni totali o per insufficienza di prove. Il caso più clamoroso è quello di Luciano Liggio, precursore e maestro di Totò Riina. Dopo l'esordio del 1948 con l'uccisione del segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Placido Rizzotto, Liggio nel `58 ammazza il boss concorrente Michele Navarra. Liggio viene processato ma prevale la legittima suspicione: nel processo di Bari il fondatore della corrente dei corleonesi viene assolto dal tribunale di Bari per insufficienza di prove. Un altro caso clamoroso fu quello delle schedature Fiat. Negli anni `60 fu proprio Milano il luogo in cui si celebrò il processo alla Zanzara. Quelli sopra i cinquant'anni si ricorderanno che la Zanzara era un giornalino fatto dagli studenti del Liceo Parini usato per contestare ante litteram le regole del conformismo e dell'educazione borghese. In base a denunce e lamentele della parte più reazionaria dei genitori e dell'opinione pubblica ne nacque un processo che fece grande scandalo. Per evitare che nello scandalo finisse il buon nome di qualche famiglia milanese fu invocato addirittura l'ordine pubblico e per legittima suspicione il processo finì a Genova. Nel 1989, comunque, il legislatore decide che le maglie della legittima suspicione sono troppo larghe e discrezionali e soprattutto che vengono usate come strumento per impedire la celebrazione dei processi. A spingere al cambiamento sono proprio i numerosi processi per mafia finiti con l'assoluzione per insufficienza di prove. Viene introdotta una nuova norma, quella attuale. L'introduzione di questa norma restrittiva taglia le unghie a coloro che usavano la legge come un grimaldello, ma limita anche i diritti di coloro che hanno sospetti fondati . Per tutti gli anni `90 i ricchi avvocati dei ricchissimi imputati per tangenti tentano di utilizzare la legittima suspicione per farla franca. Il caso che tutti ricordano è quello di Bettino Craxi che durante la bufera di tangentopoli chiede attraverso i suoi legali ai giudici della Cassazione di spostare da Milano i numerosi processi a suo carico. La richiesta viene presentata in tutte le sedi processuali ma viene respinta proprio perché la suprema Corte si trova a dover fare i conti con una norma restrittiva che lascia poco scampo a chi vuole fare il gioco delle tre carte.

Il 6 maggio 2013 è stata respinta l'istanza di Berlusconi di trasferimento a Brescia dei suoi processi a Milano. La richiesta di trasferimento è basata sul legittimo sospetto che ci sia un accanimento giudiziario, “un’ostilità” da parte della sede giudiziaria del capoluogo lombardo (che giudica sul caso della giovane marocchina) e da parte della Corte d’Appello, che si occupa del processo Mediaset, nei confronti del Cavaliere. In quaranta pagine, stilate dai legali e giunte in Cassazione a metà marzo, vengono rappresentate una serie di decisioni, atteggiamenti e frasi pronunciate in aula dai giudici che sarebbero la dimostrazione dell’accanimento nei confronti del leader del Pdl; tra queste le ordinanze con cui sono stati negati i legittimi impedimenti, le visite fiscali a carico di Berlusconi ricoverato al San Raffaele per uveite, la sentenza del caso Unipol dove gli non sono state concesse le attenuanti generiche, la fissazione di 4 udienze in 7 giorni nel processo Ruby, e alcune affermazioni in aula del procuratore aggiunto Ilda Boccassini e del presidente del collegio, Giulia Turri. Nel 2003 la richiesta di trasferire da Milano a Brescia i processi del cosiddetto filone toghe sporche (Imi-Sir/Lodo Mondadori), in cui era imputato Cesare Previti (mentre Berlusconi era stato prosciolto per prescrizione) fu respinta dai giudici, i quali ritennero che la situazione prospettata non potesse far ipotizzare un concreto pericolo di non imparzialità a Milano.

A volte però non c'è molto spazio per l'interpretazione. Il sostituto procuratore generale Gabriele Mazzotta è chiarissimo: «Una serie di indicatori consentono di individuare un'emotività ambientale tale da contribuire all'alterazione delle attività di acquisizione della prova». È l' ennesimo colpo di scena sul caso Avetrana. Mazzotta parla davanti alla prima sezione penale della Cassazione dove si sta discutendo la richiesta di rimessione del processo per l'omicidio di Sarah Scazzi: i difensori di Sabrina Misseri, Franco Coppi e Nicola Marseglia, chiedono di spostare tutto a Potenza perché il clima che si respira sull'asse Avetrana-Taranto «pregiudica la libera determinazione delle persone che partecipano al processo». Ed a sorpresa il sostituto pg che rappresenta la pubblica accusa sostiene le ragioni della difesa e chiede lui stesso che il caso venga trasferito a Potenza per legittima suspicione. A Taranto, in sostanza, non c'è la tranquillità necessaria per giudicare le indagate. Per spiegare in che cosa consiste la «grave situazione locale» che «turberebbe lo svolgimento del processo», Mazzotta si dilunga sull'arresto di Cosima (la madre di Sabrina) avvenuto praticamente in diretta tivù dopo la fuga di notizie che l'aveva preannunciato («Fu un tentativo di linciaggio» dice il professor Coppi), parla di testimoni presenti a raduni di piazza che contestavano Cosima, ricorda le pietre e le intimidazioni contro Michele Misseri, il marito di Cosima e padre di Sabrina che fece ritrovare il cadavere di Sarah e confessò di averla uccisa dopodiché cambiò versione più volte, accusò sua figlia dell'omicidio e tornò di nuovo al primo racconto («Ho fatto tutto da solo, Sabrina e Cosima sono innocenti»). Per riassumerla con le parole di Coppi: «L'abbiamo sempre detto, in questo procedimento sono avvenuti fatti di una gravità oggettiva e se non c'è serenità è giusto trasferirlo». Per argomentare meglio la sua richiesta, Coppi ha citato la sentenza Imi-Sir/lodo Mondadori del 2003 (imputati Previti e Berlusconi) con la quale le Sezioni Unite della Cassazione stabilirono che in quel procedimento non ci fu legittima suspicione. Tutti i punti che in quel processo motivarono la mancanza del legittimo sospetto, nel caso Avetrana dimostrano, secondo Coppi, esattamente il contrario: cioè che esiste la legittima suspicione.

Eppure nonostante il dettato della legge fosse chiaro, la Corte di Cassazione per l'ennesima volta ha rigettato l'istanza.

Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Nonostante ciò da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge Piazza Fontana ll processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969 (foto), ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico Salvatore Giuliano Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

L'imputazione di quattro avvocati nelle indagini per l’omicidio di Sarah Scazzi è "sconcertante e inquietante". L’Unione delle camere penali scende in campo contro i pubblici ministeri del caso di Avetrana e chiede al ministro della Giustizia l’invio di ispettori alla procura di Taranto. Lo fa nel silenzio assordante della Camera Penale e dell'intero Consiglio dell'ordine degli avvocati di Taranto, assuefatti o collusi alle anomalie del foro tarantino. Anomalie su cui vi è una coltre di omertà forense e giudiziaria e di censura mediatica. Per l’Ucpi è “assurdo che nel medesimo procedimento si trattino questioni riguardanti il delitto e questioni relative all’indagine sul delitto stesso”. Ma "ancora più grave è che alcune contestazioni mosse a due avvocati letteralmente s'intromettono indebitamente nelle scelte e nelle strategie difensive, le quali dovrebbero, al contrario, costituire un recinto invalicabile e coperto dal segreto professionale".

C'è dunque una "grave violazione del diritto di difesa" da parte dei pm. E in particolare è “sconcertante quanto capita all’avvocato De Cristofaro, il quale per aver sostenuto l'assunzione di responsabilità del proprio assistito, da quest’ultimo reiteratamente dichiarata, si ritrova indagato per 'infedele patrocinio dai pubblici ministeri che si prefiggono l'obiettivo di provare la responsabilità di altra e diversa persona". Secondo i penalisti, "si è verificato un 'corto circuito all’interno del quale i pm che sostengono l'accusa hanno elevato un’imputazione, per un reato riguardante in astratto le condotte del difensore che si pongono in contrasto con l’interesse del proprio assistito, che già a una prima lettura appare addirittura paradossale, poiché‚ si fonda su fatti che dimostrano in maniera lampante il contrario, e cioè che il difensore ha viceversa dato seguito alle richieste del proprio assistito.

In realtà, i pm procedenti hanno valutato come contrastante con l’interesse dell’imputato, puramente e semplicemente, una versione dei fatti da questi offerta che confligge con l’ipotesi di accusa e lo hanno fatto sulla scorta della loro ricostruzione dei fatti". Insomma, "oltre a ergersi arbitri della formulazione dell’accusa, i pm pretendono di determinare anche l’interesse dell’imputato a sostenere l’una o l’altra tesi, e nel far questo criminalizzano l’attività del difensore, il che appare una intollerabile violazione del diritto di difesa oltre che l'espressione di una cultura apertamente inquisitoria. Con il risultato, inquietante e certamente non ignorato, che attraverso la contestazione elevata si vorrebbe determinare, allo stato, un obbligo deontologico di astensione da parte del difensore che, in consonanza con il proprio assistito, ha sostenuto una tesi avversa rispetto a quella caldeggiata dalla Procura". Non solo: "Nel corso dell’indagine le attività difensive - lamenta l’Ucpi - sono state costantemente oggetto di controllo da parte della autorità giudiziaria, e anche di decisioni assai stravaganti quale quella di autorizzare l’espletamento di un atto di parte, come l’assunzione di informazioni, 'alla presenza dei pm procedenti oppure di imporre il potere di segretazione nei confronti di persone sottoposte alle indagini". Tutto ciò si riverbera nell'ipotesi di affrancarsi il diritto di poter far scegliere agli imputati i difensori che più aggradano ai Pm. L'avv. De Cristofaro, per forza di cose prenderà in considerazione la concreta possibilità di rilasciare l'incarico trovandosi in una situazione di contrasto con il suo cliente, mentre per i P.M. l'operato del suo predecessore, l'avv. Galoppa era conforme se non strumentale alle loro attività.

Tutto questo lo sa bene il dr Antonio Giangrande di Avetrana, presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, che nel denunciare codeste anomalie, viene perseguitato dai magistrati criticati, con il benestare della Corte di Cassazione, che non rileva affatto il legittimo sospetto che i loro colleghi tarantini possano essere vendicativi contro chi si ribella. 

29 agosto 2011. La rimessione del processo per incompatibilità ambientale. «Le lettere scritte da Michele Misseri le abbiamo prodotte perchè‚ sono inquietanti non tanto per il fatto che lui continua ad accusarsi di essere lui l'assassino, ma proprio perchè mettono in luce questo clima avvelenato, in cui i protagonisti di questa inchiesta possono essere condizionati». Lo ha sottolineato alla stampa ed alle TV l’avv. Franco Coppi, legale di Sabrina Misseri riferendosi alle otto lettere scritte dal contadino di Avetrana e indirizzate in carcere alla moglie Cosima Serrano e alla figlia Sabrina, con le quali si scusa sostenendo di averle accusate ingiustamente. «Michele Misseri – aggiunge l’avv. Coppi – afferma che ci sono persone che lo incitano a sostenere la tesi della colpevolezza della figlia e della moglie quando lui afferma di essere l’unico colpevole e avanza accuse anche molto inquietanti. Si tratta di lettere scritte fino a 7-8 giorni fa». «Che garanzie abbiamo – ha fatto presente il difensore di Sabrina Misseri – che quando dovrà fare le sue dichiarazioni avrà tenuta nervosa e morale sufficiente per affrontare un dibattimento?». «La sera c'è qualcuno che si diverte a sputare addosso ad alcuni colleghi impegnati in questo processo. I familiari di questi avvocati non possono girare liberamente perchè c'è gente che li va ad accusare di avere dei genitori o dei mariti che hanno assunto la difesa di mostri, quali sarebbero ad esempio Sabrina e Cosima. Questo è il clima in cui siamo costretti a lavorare ed è il motivo per cui abbiamo chiesto un intervento della Corte di Cassazione». «E' bene – ha aggiunto l'avvocato Coppi – allontanarci materialmente da questi luoghi. Abbiamo avuto la fortuna di avere un giudice scrupoloso che ha valutato gli atti e ha emesso una ordinanza a nostro avviso impeccabile. La sede alternativa dovrebbe essere Potenza. Non è che il processo si vince o si perde oggi, ma questo è un passaggio che la difesa riteneva opportuno fare e saremmo stati dei cattivi difensori se per un motivo o per l'altro e per un malinteso senso di paura non avessimo adottato questa iniziativa».

Intanto Sabrina Misseri si sente come Amanda Knox. Era inevitabile che la ragazza americana, assolta dall’accusa di omicidio di Meredith Kercher dopo quattro anni di carcere, sarebbe diventata il simbolo dell’accanimento giudiziario. Tutti coloro che pensano di trovarsi in prigione ingiustamente usano lei come termine di paragone. L’ha fatto Sabrina Misseri, in carcere per l’altro delitto mediatico italiano, quello di Sarah Scazzi. Sabrina, dal carcere di Taranto, ha detto: “Mi sento come Amanda“. La ragazza di Avetrana, come l’americana e come l’italiano Raffaele Sollecito, sostiene di essere innocente e di essere stata arrestata ingiustamente.

Censurato dalla stampa è che la Corte di Cassazione, di fatto, a vantaggio della magistratura disapplica una legge dello Stato. L’art. 45 c.p.p. parla di Rimessione del processo in caso di emotività ambientale che altera l’acquisizione della prova o ne mina l’ordine pubblico, ovvero per legittimo sospetto che l’ufficio giudiziario non sia sereno nel giudicare, anche indotto da grave inimicizia. Di fatto la legge Cirami non è mai stata applicata, nonostante migliaia di istanze, anche di peso: Craxi, Berlusconi, Dell’Utri. Rigetto ad oltranza: sempre e comunque. Nel novembre del 2002 fu approvata la legge Cirami che riformulò i criteri del legittimo sospetto ampliando le possibilità di togliere un processo al suo giudice naturale. Da allora non sono stati registrati casi di legittima suspicione. I più noti riguardano trasferimenti ottenuti con la vecchia legge:

Piazza Fontana, il processo non si tenne a Milano, luogo della strage del 1969, ma a Catanzaro. La Suprema Corte temeva che a Milano fosse a rischio la sicurezza: il Palazzo di giustizia sarebbe stato assediato dalle contestazioni di piazza. Per Piazza Fontana, in cui vi era sospetto che fosse una strage di Stato: è il primo e più famoso caso di "rimessione". Tutti i processi collegati furono trasferiti a Catanzaro a partire dal 1972, proprio mentre i magistrati milanesi D'Ambrosio e Alessandrini imboccavano la pista della "strage di Stato". Curiosità: il primo dei ricorsi accolti dalla Cassazione fu proposto dall'imputato Giovanni Biondo, che dopo l'assoluzione diventò sostituto procuratore.

Per il Generale della Guardia di Finanza Giuseppe Cerciello, le cui indagini contro la Guardia di Finanza furono svolte dai propri commilitoni: il 29 novembre 1994 la Cassazione ha spostato da Milano a Brescia il processo per corruzione contro il generale Cerciello. L'avvocato Taormina aveva messo in dubbio tutte le indagini sulle tangenti ai finanzieri, in quanto svolte dai commilitoni. Quella rimessione è però rimasta un caso unico, poi citato da Di Pietro tra i motivi delle sue dimissioni.

Vajont. Il processo per il disastro del Vajont (nel 1963) fu trasferito da Belluno all'Aquila. La Cassazione vide pericoli, anche qui, per l' ordine pubblico.

Salvatore Giuliano. Il bandito accusato di essere l' esecutore della strage di Portella della Ginestra (1947) fu rinviato a giudizio a Palermo, ma poi la Cassazione spostò il processo a Viterbo.

Da dire che il 28 settembre 2011 anche allo stesso dr Antonio Giangrande, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, di Avetrana, è stata rigettata l’istanza di rimessione. I magistrati di Taranto sono stati denunciati a Potenza e criticati sui giornali per i loro abusi ed omissioni. Per la Corte di Cassazione è giusto che siano gli stessi a giudicare, nei processi penali per diffamazione a mezzo stampa e nel concorso pubblico di avvocato, chi li denuncia e li critica. Oltre al rigetto è conseguita sanzione di 2 mila euro, giusto per inibire qualsiasi pretesa di tutela.

Questa di Avetrana è sempre più una storia difficile da raccontare. È infatti una storia senza punti e piena invece di virgole, parentesi e soprattutto di punti interrogativi. Per esempio: i carabinieri dei Ris hanno depositato una relazione sostenendo che non c'è alcun riscontro scientifico all'omicidio di Sarah. Niente tracce della ragazza nel garage. Niente tracce nella macchina, niente sulla corda con la quale Misseri ha raccontato di averla calato nel pozzo, niente nemmeno sulle cinture, presunte arme di delitto. È una storia così complicata, questa, che si arriva al paradosso costruito involontariamente dalla Cassazione che disegna tre "soppressori" di cadavere (Michele Misseri, Sabrina Misseri e Cosima Serrano), ma nemmeno un assassino come se la povera Sarah si fosse ammazzata da sola e poi gli zii e la cugina l'avessero calata nel pozzo. Pozzo che appare un po' una metafora di tutto il resto: questa di Avetrana è sempre più una storia piena di buchi neri. La procura è convinta che a uccidere Sarah siano state Sabrina e Cosima. In realtà, però, come ha sottolineato la Cassazione, Sabrina è in carcere anche per aver ucciso Sarah insieme con il padre Michele: quella ordinanza non è mai stata annullata. Non solo. Non c'è nessuna traccia che inchioda madre e figlia: manca l'arma del delitto. Non ci sono testimoni. L'unico, il fioraio Buccolieri, ha raccontato prima informalmente di aver visto Sarah mentre veniva trascinata nell'auto di Cosima. E poi però ha smentito tutto: "Era solo un sogno". In compenso, però, c'è zio Michele, che mentre si infuria a mezzo stampa con la moglie ("quando ero in carcere ha tagliato male tutta l'uva, ha combinato un disastro"), continua ad autoaccusarsi dell'omicidio di Sarah. Ma non gli crede nessuno. "Il soffocamento avviene ora in casa Misseri, ora nel garage, ora nella macchina di Cosima" scrive la Cassazione. Ed effettivamente non è chiaro dove Sarah sia stata ammazzata, visto che le ricostruzioni si sovrappongono tra loro, ma spesso non combaciano. Questo è il paradosso tutto italiano: da una parte Michele Misseri, un reo confesso di omicidio in libertà che, se pur considerato inattendibile, da lui si prendono per buone solo le versioni che fanno comodo alla tesi della procura; dal’altra parte Cosima Serrano e Sabrina Misseri, che professano la loro innocenza, ma sono in carcere senza prove. Prove che nemmeno la polizia scientifica ha trovato. 

Paradossale è anche il fatto che è stato assegnato a Franco Coppi il premio della Camera Penale di Bari “Achille Lombardo Pijola per la Dignità dell'Avvocato”. La decisione di assegnare il premio al prof. Coppi è per lo stile che ha saputo dare, quale difensore in un delicatissimo processo in terra di Puglia, esempio luminoso di professionalità e di dignità dell'Avvocato. Il riferimento è, appunto al processo per l'omicidio di Sarah Scazzi, in cui Coppi difende Sabrina Misseri, cugina della vittima. Processo la cui levatura professionale rispetto ad altri si è contraddistinta nell’assunzione di due atti fondamentali: richiesta di rimessione del processo per legittimo sospetto e minaccia di ricusazione dei giudici Cesarina Trunfio e Fulvia Misserini.

Per quanto innanzi detto sarebbe auspicabile la predisposizione di un difensore civico giudiziario a tutela dei cittadini. Senza sminuire le prerogative ed i privilegi dei magistrati a questi doverosamente si dovrebbe affiancare, come organo di controllo, una figura istituzionale con i poteri dei magistrati, senza essere, però, uno di loro, perché corporatisticamente coinvolto. Tutto ciò eviterebbe l’ecatombe di condanne per l’Italia da parte della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

PROPOSTA DI LEGGE

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI OPERATORI DELLA GIUSTIZIA

"Presso ogni sede di Corte d’Appello è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO DISTRETTUALE.

Esso svolge un ruolo di Garante della legalità, imparzialità e buon andamento dell’amministrazione della Giustizia, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze e i ritardi degli operatori amministrativi, degli operatori giudiziari e degli operatori forensi, nei confronti del cittadino.

Il Difensore Civico Giudiziario deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino.

Il difensore civico Giudiziario, ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P..

La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative regionali.

Ogni Presidente di Corte d’Appello si attiva, affinché il Difensore Civico Giudiziario possa avere la facoltà operativa e logistica per poter operare.

Presso il Ministero della Giustizia è istituita la figura del DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO NAZIONALE, come organo superiore al Difensore Civico Amministrativo e Giudiziario, con compiti di controllo e coordinamento. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni politiche nazionali.

Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari.

La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato, rispettivamente, dell'assise regionale e nazionale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti."

PER LA TUTELA DEL CITTADINO CONTRO GLI ABUSI E LE OMISSIONI DEGLI UFFICI PUBBLICI E GLI UFFICI DI PUBBLICA UTILITA'

Ogni funzionario, pubblico o privato, addetto ad uno sportello aperto al pubblico, deve essere identificato con cartellino di riconoscimento. 

"Il comma 1 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Ogni Comune, deve istituire la figura del Difensore Civico Amministrativo, con compiti di garanzia della legalità, dell’imparzialità e del buon andamento della Pubblica Amministrazione territoriale in generale e di ogni attività di Pubblica Utilità, segnalando, anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni ed i ritardi nei confronti del cittadino. Il Difensore Civico Amministrativo deve essere onorato, competente, capace, libero, indipendente e motivato nell’interesse del cittadino. La nomina è disposta direttamente dal cittadino su base elettiva e contestuale alle elezioni amministrative comunali ).

Il comma 2 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (Il Difensore Civico Amministrativo ha i poteri d’indagine riconosciuti dal Titolo VI bis del C.P.P.. Il difensore Civico Giudiziario d'ufficio presenta denuncia penale presso gli organi competenti per le illegalità riscontrate e di ciò ne rende conto pubblicamente, senza proroga, al termine dei sei mesi, previsti per le indagini preliminari).

Il comma 3 dell’art. 11, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 è così modificato: (La carica del Difensore Civico Giudiziario dura l’intero periodo di mandato del Consiglio Comunale, salvo riconferma, tenuto conto dei risultati ottenuti)".

Le norme precedenti si applicano anche presso i Consigli Provinciali e Regionali.

CHI SONO I MANETTARI O GIUSTIZIALISTI? SONO GLI IDOLATRI DEI MAGISTRATI!

"La super casta dei giudici: zero sanzioni e stipendi al top". Stefano Livadiotti, autore di un libro sui magistrati, difende Alfano: "La sua riforma è giusta. Arrivano all'apice della carriera in automatico e guadagnano 7 volte più di un dipendente”, scrive Sergio Luciano su “Il Giornale”. Pubblichiamo ampi stralci dell'intervista di Affaritaliani.it a Stefano Livadiotti realizzata da Sergio Luciano. Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati L'ultracasta, sta aggiornando il suo libro sulla base dei dati del rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa). Livadiotti è anche l'autore di un libro sugli sprechi dei sindacati, dal titolo L'altra casta.

La giustizia italiana non funziona, al netto delle polemiche politiche sui processi Berlusconi. Il rapporto 2012 del Cepej (Commissione europea per l'efficienza della giustizia del Consiglio d'Europa) inchioda il nostro sistema alla sua clamorosa inefficienza: 492 giorni per un processo civile in primo grado, contro i 289 della Spagna, i 279 della Francia e i 184 della Germania. Milioni di procedimenti pendenti. E magistrati che fanno carriera senza alcuna selezione meritocratica. E senza alcun effettivo rischio di punizione nel caso in cui commettano errori o illeciti. «Nessun sistema può essere efficiente se non riconosce alcun criterio di merito», spiega Stefano Livadiotti, giornalista del settimanale l'Espresso e autore di Magistrati-L'ultracasta. «È evidente che Silvio Berlusconi ha un enorme conflitto d'interessi in materia, che ne delegittima le opinioni, ma ciò non toglie che la proposta di riforma avanzata all'epoca da Alfano, con la separazione delle carriere, la ridefinizione della disciplina e la responsabilità dei magistrati, fosse assolutamente giusta».

Dunque niente meritocrazia, niente efficienza in tribunale?

«L'attuale normativa prevede che dopo 27 anni dall'aver preso servizio, tutti i magistrati raggiungano la massima qualifica di carriera possibile. Tanto che nel 2009 il 24,5% dei circa 9.000 magistrati ordinari in servizio era appunto all'apice dell'inquadramento. E dello stipendio. E come se un quarto dei giornalisti italiani fosse direttore del Corriere della Sera o di Repubblica».

E come si spiega?

«Non si spiega. Io stesso quando ho studiato i meccanismi sulle prime non ci credevo. Eppure e così. Fanno carriera automaticamente, solo sulla base dell'anzianità di servizio. E di esami che di fatto sono una barzelletta. I verbali del Consiglio superiore della magistratura dimostrano che dal 1° luglio 2008 al 31 luglio 2012 sono state fatte, dopo l'ultima riforma delle procedure, che avrebbe dovuto renderle più severe, 2.409 valutazioni, e ce ne sono state soltanto 3 negative, una delle quali riferita a un giudice già in pensione!».

Tutto questo indipendentemente dagli incarichi?

«Dagli incarichi e dalle sedi. E questa carriera automatica si riflette, ovviamente, sulla spesa per le retribuzioni. I magistrati italiani guadagnano più di tutti i loro colleghi dell'Europa continentale, e al vertice della professione percepiscono uno stipendio parti a 7,3 volte lo stipendio medio dei lavoratori dipendenti italiani».

Quasi sempre i magistrati addebitano ritardi e inefficienze al basso budget statale per la giustizia.

«Macché, il rapporto Cepej dimostra che la macchina giudiziaria costa agli italiani, per tribunali, avvocati d'ufficio e pubblici ministeri, 73 euro per abitante all'anno (dato 2010, ndr) contro una media europea di 57,4. Quindi molto di più».

Ma almeno rischiano sanzioni disciplinari?

«Assolutamente no, di fatto. Il magistrato è soggetto solo alla disciplina domestica, ma sarebbe meglio dire addomesticata, del Csm. E cane non mangia cane. Alcuni dati nuovi ed esclusivi lo dimostrano».

Quali dati?

«Qualunque esposto venga rivolto contro un magistrato, passa al filtro preventivo della Procura generale presso la Corte di Cassazione, che stabilisce se c'è il presupposto per avviare un procedimento. Ebbene, tra il 2009 e il 2011 - un dato che fa impressione - sugli 8.909 magistrati ordinari in servizio, sono pervenute a questa Procura 5.921 notizie di illecito: il PG ha archiviato 5.498 denunce, cioè il 92,9%; quindi solo 7,1% è arrivato davanti alla sezione disciplinare del Csm».

Ma poi ci saranno state delle sanzioni, o no?

«Negli ultimi 5 anni, tra il 2007 e il 2011, questa sezione ha definito 680 procedimenti, in seguito ai quali i magistrati destituiti sono stati... nessuno. In dieci anni, tra il 2001 e il 2011, i magistrati ordinari destituiti dal Csm sono stati 4, pari allo 0,28 di quelli finiti davanti alla sezione disciplinare e allo 0,044 di quelli in servizio».

Ma c'è anche una legge sulla responsabilità civile, che permette a chi subisca un errore giudiziario di essere risarcito!

«In teoria sì, è la legge 117 dell'88, scritta dal ministro Vassalli per risponde al referendum che aveva abrogato le norme che limitavano la responsabilità dei magistrati».

E com'è andata, questa legge?

«Nell'arco 23 anni, sono state proposte in Italia 400 cause di richiesta di risarcimento danni per responsabilità dei giudici. Di queste, 253 pari al 63% sono state dichiarate inammissibili con provvedimento definitivo. Ben 49, cioè 12% sono in attesa di pronuncia sull'ammissibilità, 70, pari al 17%, sono in fase di impugnazione di decisione di inammissibilità, 34, ovvero l'8,5%, sono state dichiarate ammissibili. Di queste ultime, 16 sono ancora pendenti e 18 sono state decise: lo Stato ha perso solo 4 volte. In un quarto di secolo è alla fine è stato insomma accolto appena l'1 per cento delle pochissime domande di risarcimento».

Cioè non si sa quanto lavorano e guadagnano?

«Risulta che da un magistrato ci si possono attendere 1.560 ore di lavoro all'anno, che diviso per 365 vuol dire che lavora 4,2 ore al giorno. Sugli stipendi bisogna vedere caso per caso, perché ci sono molte variabili. Quel che è certo, un consigliere Csm, sommando stipendi base, gettoni, rimborsi e indennizzi, e lavorando 3 settimane su 4 dal lunedì al giovedì, quindi 12 giorni al mese, guadagna 2.700 euro per ogni giorno di lavoro effettivo».

PARLIAMO DELLA SINISTRA.

Il caso Ilva, che ha portato in carcere Gianni Florido, Presidente Pd della Provincia di Taranto, è solo l’ultimo caso di un annus horribilis.

Il 2013, infatti, ha già visto una ventina di democrat arrestati o indagati. E il futuro non promette niente di buono, con la bomba Mps pronta a scoppiare. Pare così conclusa la definitiva mutazione del Pd in Pdl, anche da un punto di vista giudiziario. Eccoli, allora, tutti gli impresentabili di un partito allo sbando…

Non solo Ilva. L'annus horribilis del Pd, affossato alle Politiche e umiliato durante l'elezione del Capo dello Stato, non è cominciato bene nemmeno per quanto riguarda la questione morale, scrive “L’Infiltrato”. Appena una settimana dopo Capodanno, l'8 gennaio 2013, è Beppe Grillo a ricordare al fu segretario del partito, Pier Luigi Bersani, che gli impresentabili non abitano soltanto nella Casa delle Libertà: "Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d'ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna; Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d'ufficio; Giovanni Lolli, L'Aquila, rinviato a giudizio con l'accusa di favoreggiamento, prescritto; Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta; Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d'ufficio".

Se il leader M5S avesse aspettato ancora un po', avrebbe potuto rimpolpare il suo blog con altri esponenti Pd inguaiati con la giustizia. A partire dai due sottosegretari del governo Letta Vincenzo De Luca (l'ultima indagine a suo carico risale a meno di un mese fa per il progetto urbanistico Crescent) e Filippo Bubbico, indagato per truffa e abuso d'ufficio. Poi, in ordine temporale, il 16 gennaio, a Napoli, viene interrogato Nicola Caputo, consigliere regionale campano indagato nell'inchiesta sui rimborsi erogati per la comunicazione.

Al pm che lo interroga spiega che farsi accreditare direttamente sul conto i rimborsi per le spese della comunicazione non sarà lecito, ma è prassi. Passa un giorno e nell'inchiesta sui lavori per il sottoattraversamento del Tav a Firenze, vengono indagate 31 persone. Tra loro c'è anche Maria Rita Lorenzetti, che nel 2010 l'aveva giurata a Bersani che non la voleva ricandidare per un terzo mandato come presidente della Regione Umbria. All'ex deputata vengono contestati i reati che avrebbe compiuto come presidente di Italferr, del gruppo Ferrovie dello Stato.

Il 17 non porta bene neanche al sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Per il giovane delfino di Nichi Vendola, in quota Sel e appoggiato dal Pd, scatta l'indagine per falso e abuso d'ufficio per presunte irregolarità nella nomina del nuovo sovrintendente del teatro Lirico. Una decina di giorni dopo, il 28 gennaio, è il turno del consigliere della Regione Campania Enrico Fabozzi, eletto nel 2010 nelle liste del Pd e poi passato al Gruppo Misto.

L'ex sindaco di Villa Literno, già arrestato e poi scarcerato nel 2011, è accusato di abuso d'ufficio e falso per una vicenda inerente allo smaltimento dei rifiuti a Caserta. Il 30 gennaio, a Milano, vengono poi iscritti nel registro degli indagati una trentina di rappresentanti di Pd, Idv, Sel e Udc nell'inchiesta sui rimborsi ai gruppi politici al Pirellone (coinvolti anche Pdl e Lega).

Mentre alcuni si dicono certi "di poter dimostrare la regolarità delle spese", come il consigliere regionale Pd Franco Mirabelli, e "tranquilli", perché le risorse sono state "utilizzate per spese inerenti all'attività politica", come giura il capogruppo regionale Pd Luca Gaffuri, per altri la storia è più pesante. Letteralmente: Carlo Spreafico, vicepresidente del consiglio (Pd), ha chiesto che gli venisse rimborsato pure un vasetto di Nutella (scatenando le ironie di chi lo immagina varcare il Pirellone con un barattolo gigante di crema alle nocciole, come in Bianca di Nanni Moretti).

Se il mese di gennaio non fa fare bella figura al partito oggi guidato da Guglielmo Epifani, quello di febbraio lo affossa proprio. Nell'operazione contro la cosca Iamonte, che ha portato in carcere 65 tra capi e gregari, finisce in manette Gesualdo Costantino, sindaco di Melito Porto Salvo (Calabria), che - fascia tricolore addosso - concordava coi boss le sue mosse politiche. Gli inquirenti chiedono l'arresto anche del suo predecessore, Giuseppe Iaria (sempre Pd) ma il gip rigetta e l'ex sindaco è adesso indagato in stato di libertà.

Appendice scandalo Mps: Franco Ceccuzzi, ex parlamentare Pd ed ex sindaco di Siena, viene indagato nell'inchiesta sul fallimento del Pastificio Amato: l'accusa è di concorso in bancarotta. Si parla poi di un'indagine sulla spartizione delle poltrone tra Denis Verdini e lo stesso Ceccuzzi, sempre smentita da quest'ultimo.

L'8 marzo si celebra anche Maria Tindara Gullo, prima delle neodeputate Pd a essere indagata nel 2013 (per falso ideologico: il padre viene direttamente arrestato nella stessa inchiesta). La settimana dopo finisce in prigione anche Alberto Tedesco, primo ex parlamentare (Pd, poi Gruppo Misto) arrestato nel nuovo anno.

Gli ultimi a venire iscritti nel registro degli indagati, ad aprile, sono gli ex consiglieri Pd Stefano Lepri e Mino Taricco e Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata, coinvolto nell'inchiesta sui costi della politica. Rinviato a giudizio invece Stefano Bonaccini, segretario del partito emiliano, per turbata libertà degli incanti e abuso d'ufficio. I democratici impresentabili per ora sono una ventina: ma il 2013 non è neanche a metà, e il Pd ha ancora molto da imparare dai suoi alleati di governo.

Solo pochi anni fa, la notizia che uno dei dirigenti del Pci fosse stato oggetto di indagini della magistratura sarebbe apparsa straordinaria, quasi inverosimile: ciò anche in virtù del fatto che, per lungo tempo, le indagini della magistratura si sono orientate in un’unica direzione e che il silenzio dei tanti compagni G ha fatto da argine alla ricerca della verità in materia di finanziamento illecito dei partiti: finanziamento proveniente anche dall’estero. Oggi, gli avvisi di garanzia o di rinvio a giudizio dei dirigenti degli eredi del vecchio Pci, non fanno più notizia, tanto è elevato e frequente il loro numero, anche se le accuse di illecito hanno cambiato segno: si è infatti passati dal finanziamento illecito dei partiti, attraverso le tangenti provenienti da soggetti privati, all’appropriazione indebita di denaro pubblico per scopi di arricchimento personale, scrive Giuseppe Bianchi. Fra i casi più eclatanti di presunto finanziamento illecito vi è quello che riguarda Filippo Penati: eletto Sindaco del Comune di Sesto San Giovanni nel 1994, nel 2004 è stato eletto presidente della Provincia di Milano, nel 2009 è divenuto capo della segreteria politica di Bersani ed infine, nel 2010, è stato nominato vicepresidente del Consiglio regionale della Lombardia. Nel 2011 è arrivato a Penati il primo avviso di garanzia: è stato infatti indagato dalla Procura della Repubblica di Monza per corruzione e concussione in merito alle presunte tangenti intascate sulla riqualificazione dell’ex area Falk di Sesto San Giovanni.

Questo però non è che l’inizio: nel settembre 2011 Penati è stato indagato per concorso in corruzione sulla base di una inchiesta condotta dai PM di Monza e che riguarda l’acquisto compiuto dalla Provincia di Milano del 15 per cento delle azioni della società autostradale Milano-Serravalle, di proprietà del gruppo Gravio; acquisto avvenuto nel 2005 e che ha consentito alla provincia di Milano di detenere la maggioranza delle azioni. Un acquisto che fece discutere, in quanto le sue motivazioni non apparivano comprensibili, se inquadrate in una logica di puro interesse pubblico. Il 25 luglio 2011 Penati si dimise dalla carica di vicepresidente del Consiglio regionale lombardo, ma non da quella di Consigliere regionale e solo nel settembre 2011, dopo il secondo avviso di garanzia, il Pd ha deciso di sospenderlo.

Altre indagini della magistratura, ancora in corso, hanno interessato Alberto Tedesco: nel 2005 venne nominato assessore alla Sanità della Regione Puglia dal Presidente Nichi Vendola. In quella occasione qualcuno sollevò perplessità sulla nomina, palesando l’ipotesi di un conflitto di interessi, in quanto la moglie ed i figli di Tedesco avevano partecipazioni azionarie in alcune società che commercializzavano in Puglia prodotti farmaceutici e parafarmaceutici. Nel 2009 Tedesco venne eletto Senatore della Repubblica. Nel febbraio dello stesso anno venne indagato dalla procura antimafia di Bari, con l'ipotesi di reato di associazione per delinquere e corruzione. A seguito dell'indagine, Tedesco si dimise dalla carica di assessore. Il 20 luglio 2011 il Senato negò l’autorizzazione all’arresto di Tedesco che, cinque giorni dopo, rassegnò le dimissioni dal Pd.

Anche il Presidente della Regione Puglia, leader della sinistra rosso-verde Sel, Nichi Vendola, non è sfuggito alle indagini della magistratura. Vendola è stato indagato per abuso d’ufficio: l’accusa e quella di aver favorito la nomina del primario Paolo Sardelli al reparto di chirurgia toracica dell’Ospedale San Paolo di Bari. A chiamare in causa Vendola è stata Lea Cosentino, ex Direttore Generale dell’Asl di Bari. Solo pochi giorni dopo è arrivato a Vendola un secondo avviso di garanzia: è indagato dalla Procura di Bari, insieme agli ex assessori alla Sanità della Regione Puglia, Alberto Tedesco e Tommaso Fiore, per una transazione, non conclusa, tra la Regione Puglia e l’Ospedale ecclesiastico Miulli, di Acquaviva delle Fonti, per un importo di 45 milioni di Euro.

Ai casi di Tedesco e Vendola, in Puglia, si è aggiunto quello dell'ex vicepresidente della Giunta regionale pugliese Sandro Frisullo, esponente importante del Pd pugliese, che è stato arrestato nell'ambito delle indagini sulla gestione della sanità pugliese. L'accusa è di associazione per delinquere e turbativa d'asta.. Secondo l'accusa, Frisullo, numero due della giunta guidata di Nichi Vendola, (sollevato dal suo incarico dal governatore) sarebbe stato "stipendiato" con soldi e favori di vario genere dall'imprenditore Giampaolo Tarantini, in cambio di vantaggi per le sue società nell'aggiudicazione di appalti per cinque milioni di euro presso la Asl di Lecce.

L’elenco degli avvisi di garanzia inviati ad esponenti importanti del Pd, non si conclude però qui: il caso che più ha destato clamore e stato quello che ha interessato il Senatore Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, prima che questo partito desse origine, insieme agli ex comunisti, al Pd. Il senatore Luigi Lusi è indagato per aver sottratto i soldi dei rimborsi elettorali, per un importo complessivo di 23 milioni di euro, in virtù del suo incarico di tesoriere della Margherita, creando una contabilità parallela che sarebbe sfuggita ai controlli dei revisori dei conti, perché prelevati in piccola quantità. Dopodiché i soldi sarebbero stati trasferiti in Canada, frazionati in novanta bonifici, sul conto delle società TTT srl e Paradiso, delle quali era unico proprietario.

Infine, approfittando dello Scudo Fiscale, Lusi avrebbe fatto rientrare il capitale investendo in immobili in Roma e in altre province, usando i parenti come prestanome e depositando il resto sul proprio conto corrente.

Per non dimenticare nessuno, credo vada la pena di ricordare il caso di Franco Pronzato, indagato per corruzione e turbativa d’asta: Pronzato è un manager genovese, uomo del Pd, socio fondatore dell’associazione Maestrale di Claudio Burlando, attuale consigliere di amministrazione dell’Enac, in passato consulente dell’allora ministro dei trasporti Bersani e, fino a poco tempo fa, consigliere dell’aeroporto Colombo di Genova.

Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva, ma certo tanti indagati, in un partito che amava considerarsi “diverso e migliore” rispetto agli altri partiti, fanno un certo effetto.

"In 67 anni di Repubblica non è mai stato nominato nessun senatore a vita che abbia condotto la propria vita come l'ha condotta Berlusconi. Non credo che debba aggiungere altro". Luigi Zanda, senatore Pd e già nel consiglio d'amministrazione e vicepresidente del Gruppo Espresso, chiude con queste parole ogni possibilità di appoggio da parte del Pd al riconoscimento dell'onorificenza per il Cavaliere. Non solo. Nell'intervista rilasciata ad Avvenire, il capogruppo democratico sostiene che "secondo la legge italiana Silvio Berlusconi, in quanto concessionario, non è eleggibile. Ed è ridicolo che l'ineleggibilità colpisca Confalonieri e non lui". Parole come musica per le orecchie del Movimento 5 Stelle, che dell'ineleggibilità del Cav hanno fatto un cavallo di battaglia in campagna elettorale: "Siamo pronti a sostenere e votare nelle apposite sedi l'ineleggibilità del senatore Berlusconi, così come a contrastare politicamente la sua elezione a senatore a vita. La nomina di Berlusconi senatore a vita sarebbe un affronto al Paese e al rispetto delle leggi", chiarisce il capogruppo al Senato Vito Crimi.  "Sulla ineleggibilità ai sensi di una legge del 1957 collegata alle concessioni - sostiene Anna Maria Bernini - il Presidente dei senatori del Pd non può ignorare che il Parlamento si e più volte pronunciato nel senso della non applicabilità del disposto (parere peraltro ampiamente confermato da insigni costituzionalisti): pertanto riproporre il tema significa solo inseguire con pervicacia e sudditanza di iniziativa politica il fanatismo grillino. Era una questione già anacronistica vent'anni fa, tanto più lo è oggi in un sistema radio-televisivo ma soprattutto di comunicazioni multimediali radicalmente mutato, aperto e non monopolistico".

Dopo l'attacco di Luigi Zanda, capogruppo dei democratici alla Camera, che ha definito Berlusconi "ineleggibile", oggi tocca a Beppe Grillo sparare a zero sui partiti di maggioranza: "Il Pdl è solo Berlusconi, il Pd non si sa cosa sia - dice il leader del M5S in un'intervista all'emittente statunitense Cnbc International - Si proteggono l'un l'altro: Berlusconi non va in galera (perchè dovrebbe andare in galera) e nel Pd non si fanno indagini sulle banche, su Unipol e MpS, i più grandi scandali finanziari degli ultimi 50 anni. Questo non è un governo, è una metafora".

Ci voleva Daniela Santanché, scrive “Libero Quotidiano”, per mettere a nudo il moralismo ipocrita di Marco Travaglio e della sinistra. Nella puntata Del 16 maggio 2013 di Servizio Pubblico Michele Santoro imbastisce l'ennesima, noiosa, puntata sul processo Ruby. Nella bolgia rosso fuoco dei giustizialisti, ospite unico della serata è Daniela Santanché. Parla per primo Travaglio, che elenca, come fa da anni, i motivi della colpevolezza di Silvio Berlusconi, per poi lanciarsi in una difesa all'ultimo sangue di Ilda Boccassini e della sua requisitoria. La Santanché però non ci sta e ribatte a muso duro: "Le cose che ha detto Travaglio non mi stupiscono, ma gli sfugge una cosa: la vittima dov'è? Io sono contenta che lei abbia così tante certezze, io vivo nel dubbio: non c'è una sola ragazza che ha detto di essere stata costretta a fare qualcosa contro la loro volontà". E ancora: "Le sue parole di condanna sono una pulizia etnica contro tutti coloro che non la pensano come lei". Travaglio pare in difficoltà, ma subito giunge il soccorso rosso di Santoro, che spiattella in diretta televisiva alcune intercettazioni telefoniche che riguardano Berlusconi e Nicole Minetti. Dura, la replica della Santanché: "Siete degli uomini, avete conosciuto delle belle ragazze, siete ricchi, ma non vi è mai capitato, essendo ricchi, di fare dei regali a qualche ragazza? Non avete mai conosciuto una donna che vi frequentava per avere vantaggi?". Santoro e Travaglio, che si ritengono per definizione monopolisti della verità, però non si scompongono e ricominciano con la solita tiritera, rievocando tutte le fasi del processo, evadendo però la domande della Santanché. La chiusa della Santanché è fulminante: "Non si può processare uno stile di vita, queste ragazze non si possono definire puttane. Rischiamo di passare dal processo a Berlusconi a quello alle idee. Durante la requisitoria mi ha fatto paura l'accanimento, la voglia di scagliare dentro. Possiamo parlare di scelte di vita, di morale, etica. Ma non di reato". Una lezione di vita. La discussione scivola poi sulla grave affermazione della Boccassini su Ruby ("Furbizia orientale", aveva affermato durante la requisitoria, criticandone quindi i suoi comportamenti). Dichiarazioni che la Santanché bolla senza giri di parole come "razziste".

Questione morale a sinistra. Sottosegretari, deputati, sindaci Ecco gli impresentabili del Pd. Soltanto nel 2013, risultano indagati o arrestati una ventina di democratici, scrive “Libero Quotidiano”. Indagati e arrestati: anche il Pd ha i suoi impresentabili. Nei primi cinque mesi dell'anno sono già una ventina i democratici inguaiati con la giustizia. Il conto e l'elenco l'ha fatto Beatrice Borromeo sul Fatto Quotidiano che parte con i nomi fatti da Beppe Grillo l'8 gennaio 2013 all'ex segretario Bersani quando gli rinfacciava che la questione morale "non riguardava solo la Casa delle Libertà".

Vladimiro Crisafulli, Enna, rinviato a giudizio per concorso in abuso d’ufficio, accusato di aver ottenuto la pavimentazione di una strada comunale che porta alla sua villa a spese della Provincia di Enna", scriveva il leader del Movimento Cinque Stelle sul suo blog all'inizio dell'anno continuando con "Antonino Papania, Trapani, ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio; Giovanni Lolli, L’Aquila, rinviato a giudizio con l’accusa di favoreggiamento, prescritto; Nicodemo Oliverio, Crotone, imputato per bancarotta fraudolenta; Francantonio Genovese, Messina, indagato per abuso d’ufficio”.

A questi il Fatto fa seguire l'elenco di consiglieri regionali, sindaci, capogruppo ed ex parlamentari che ad oggi risultano indagati e arrestati in tutta Italia. A partire dai due sottosegretari del governo Letta: Vincenzo De Luca (l’ultima indagine a suo carico risale a meno di un mese fa per il progetto urbanistico Crescent) e Filippo Bubbico, indagato per truffa e abuso d’ufficio. Poi c'è Nicola Caputo, consigliere regionale campano indagato nell’inchiesta sui rimborsi erogati per la comunicazione, e Maria Rita Lorenzetti, che nel 2010 l’aveva giurata a Bersani che non la voleva ricandidare per un terzo mandato come presidente della Regione Umbria. A lei vengono contestati i reati che avrebbe compiuto come presidente di Italferr, del gruppo Ferrovie dello Stato nell’inchiesta sui lavori per il sottoattraversamento del Tav a Firenze.

Falso e abuso d'ufficio per presunte irregolarità nella nomina del nuovo sovrintendente del teatro Lirico sono i reati per i quali è indagato il sindaco di Cagliari, Massimo Zedda. Anche il consigliere della Regione Campania Enrico Fabozzi, eletto nel 2010 nelle liste del Pd e poi passato al Gruppo Misto, già sindaco di Villa Literno, già arrestato e poi scarcerato nel 2011, è accusato di abuso d’ufficio e falso per una vicenda inerente allo smaltimento dei rifiuti a Caserta.

Nell'inchiesta sui rimborsi ai politici del Pirellone, per la quale risultano indagati una trentina tra democratici, Idv, Sel, Udc, Pdl e Lega, ne vengono fuori delle belle proprio riguardo il Pd: agli atti c'è la richiesta di Carlo Spreafico, vicepresidente del consiglio, che voleva che gli venisse rimborsato pure un vasetto di Nutella.

L'elenco della Borromeo continua con Gesualdo Costantino, sindaco di Melito Porto Salvo (Calabria), che concordava coi boss della cosca Iamonte le sue mosse politiche. Gli inquirenti chiedono l’arresto anche del suo predecessore, Giuseppe Iaria (sempre Pd) ma il gip rigetta e l’ex sindaco è adesso indagato in stato di libertà. E ancora: Maria Tindara Gullo, prima delle neodeputate Pd a essere indagata nel 2013 per falso ideologico, e Alberto Tedesco ex parlamentare Pd, poi Gruppo Misto, arrestato. Ad aprile vengono indagati gli ex consiglieri Pd Stefano Lepri e Mino Taricco e Vito De Filippo, presidente della Regione Basilicata, coinvolto nell’inchiesta sui costi della politica. Rinviato a giudizio invece Stefano Bonaccini, segretario del partito emiliano, per turbata libertà degli incanti e abuso d’ufficio.

Ovviamente c'è poi lo scandalo Mps con Franco Ceccuzzi, ex parlamentare Pd ed ex sindaco di Siena, indagato nell’inchiesta sul fallimento del Pastificio Amato: l’accusa è di concorso in bancarotta. Si parla poi di un’indagine sulla spartizione delle poltrone tra Denis Verdini e lo stesso Ceccuzzi, sempre smentita da quest’ultimo.

PARLIAMO DEI GRILLINI A 5 STELLE.

Indagati i primi grillini, che ora litigano. Il consigliere Bono: «Distinguiamo dal rinvio a giudizio». Ma la base si ribella, scrive Andrea Rossi su “La Stampa”. «Davide, tu no vero?». A metà pomeriggio Irene Camassa, militante del Movimento 5 Stelle, scrive sul profilo Facebook di Davide Bono, capogruppo in Piemonte. Una domanda che suona come un’implorazione: non sei indagato, vero? Sì, invece: è indagato. Boom. Per la prima volta un esponente della galassia grillina finisce dentro un’inchiesta. E con lui c’è anche Fabrizio Biolè, eletto del 2010 e poi cacciato con lettera dell’avvocato di Grillo, accusato di essersi candidato anni prima come consigliere comunale a Gaiola, nemmeno 600 abitanti in provincia di Cuneo. È un duro colpo. «Davide, puoi chiarire?», chiede Elisa Bevilacqua, un’altra attivista. Poco dopo Bono chiarisce o, almeno, ci prova. «Sì, sono stato raggiunto da un avviso di garanzia anche io (nessun gruppo è stato risparmiato)».

Butta lì una frase che dice tutto sul mito della purezza andato in frantumi: «Un certo effetto lo fa, trovarsi ad essere il primo eletto M5S raggiunto da un avviso di garanzia. Soprattutto pensando ai ragionamenti che tutti abbiamo sempre fatto sui politici indagati. In effetti questo dovrà farci ben riflettere e imparare a distinguere nettamente tra indagini e rinvio a giudizio». Spiega, entra nei dettagli: «A me personalmente contestano 619,91 euro in due anni e tre mesi. E poi 3905,27 di spese per attività dei collaboratori».

Benzina, alberghi, trasporti, bar, ristoranti. A una cosa tiene più che a ogni altra: «Non sono state fatte né spese per fini personali né per finanziamento del “partito”». Dalle pieghe dell’inchiesta emerge una circostanza: per partecipare alle manifestazioni No Tav in Val Susa i consiglieri grillini avrebbero usufruito dei rimborsi chilometrici e per la benzina. Il malumore dei militanti soffoca anche le buone ragioni della lotta contro il super treno: «Potevano o no? Per andare a Chiomonte 4,35 euro si possono spendere di tasca propria... credo». Brutta giornata, per Bono. La base rumoreggia. È vero che la Procura di Torino non ha risparmiato nessuno dei quindici gruppi in Regione. Ma il punto è proprio questo: loro, di fatto, appaiono come gli altri. Biolè, l’espulso cui viene contestato l’uso di 7500 euro, gioca allo scaricabarile: non è colpa mia, ha fatto tutto Bono.

«Purtroppo, su proposta del mio ex capogruppo», da marzo 2011 una quota dei rimborsi sarebbe stata pagata dal conto corrente per il funzionamento del gruppo, non più da quello in cui i grillini raccoglievano l’avanzo degli stipendi (avendo scelto di prendere solo 2500 euro al mese). Errore? Svista? Scelta? «Quando, alcuni mesi fa, analizzando gli estratti conto, ho individuato il totale di queste operazioni non corrette, ho restituito immediatamente la somma al conto corrente del gruppo», racconta Biolè. Bono non replica. Ma annuncia: «Da parte nostra non ci sono stati abusi. Però sono pronto a restituire ogni singola spesa che non possa ritenersi legittimamente rimborsata dal fondo».

Il guru dei cinque stelle Beppe Grillo ora se la prende con Giorgio Napolitano, scrive  “Libero Quotidiano”. Motivo? L'indagine della procura di Nocera Inferiore a carico di 22 persone, colpevoli secondo i magistrati di aver vilipeso il presidente della Repubblica con alcuni commenti sul blog del comico genovese. Nella situazione in cui si trova Beppe Grillo ha bisogno di sparare sempre più in alto. In calo costante nei sondaggi, diviso al suo interno come non mai per la questione della diaria, ridotto all'irrilevanza politica, la bolla mediatica del M5s si sta sciogliendo come neve al sole.

Così, oggi, le stilettate di grillo mirano al Colle più alto di Roma, ossia al Quirinale. Le sue sortite contro Pd, Pdl, giornali e giornalisti, ormai non bastano più a serrare le fila, quindi si scaglia direttamente contro Napolitano. Grillo rievoca il periodo fascista e scrive: "Il reato di vilipendio deriva dal Codice Rocco del periodo fascista. Nel ventennio si tutelava dal delitto di lesa maestà la figura del re e di Mussolini, dal dopoguerra i presidenti della Repubblica. Il reato di vilipendio non è qualcosa rimasto sulla carta, a monito. E' stato invocato innumerevoli volte, spesso dai partiti a scopi politici, e anche applicato". Poi spara ad alzo zero sul capo dello Stato: "Inoltre un cittadino, perché il presidente della Repubblica sarà il primo dei cittadini, ma sempre cittadino rimane, non può essere più uguale degli altri di fronte alla legge. Invito il Presidente della Repubblica a chiedere l'abolizione dell'articolo 278 sconosciuto nella maggior parte delle democrazie occidentali". Insomma, il guru dei cinque stelle proprio non riesce ad abituarsi alla democrazia. Non riesce a capacitarsi che le istituzioni vanno rispettate e fa finta di non conoscere la distinzione tra la persona che incarna l'istituzione e, appunto, l'istituzione stessa. E poichè la situazione gli sta sfuggendo di mano, con il sogno del M5s che si sta disintegrando, non gli resta che alzare i toni e gettare benzina sulla già infuocata situazione politica, economica e sociale. Quindi, dopo aver urlato al golpe, grida alla censura, alla mancanza di libertà d'espressione e d'opinione: "Chi può essere al sicuro di un'eventuale denuncia per una critica al Presidente della Repubblica? Allora, per difendersi, l'unico mezzo è non scrivere più nulla. Bocche cucite. Dita bloccate sulla tastiera. Commenti oscurati". Grillo sa che tutto ciò non corrisponde al vero, sa che nessuno userà la censura per zittirlo, quindi che fa? Si autocensura. Così conclude il suo post-delirio di oggi paventando un'imminente legge pronta a silenziare il web: "Questo post, per evitare denunce a chicchessia sarà, per la prima volta nella storia del blog, senza possibilità di commento. In futuro, magari, diventerà la regola per tutta la Rete in Italia". Una regola del genere non prenderà mai corpo in Italia. A Grillo serve però farlo credere: è l'unico modo che gli rimane per rimanere al centro della scena.

Filippo Facci vi racconta il flop di Beppe Grillo: eccolo servito in 16 mosse.

A due mesi dal voto la rivoluzione a cinque stelle si è impantanata in una palude di gaffe, figuracce, scelte poco chiare, quirinarie fallite, espulsioni e liti.

Primavera 2013, fioriscono i bilanci. A due mesi dalle elezioni politiche ecco un rendiconto della rivoluzione a Cinque Stelle.

1) Appena insediati, hanno eletto un presidente del Senato per sbaglio, aprendo processi interni dilanianti a una decina di inconsapevoli franchi tiratori: una riunione-rissa con urla e lacrime, un auto-denunciato, una scomunica dall’alto, uno scontro tra capigruppo e incidenti vari.

2) Dopo il «casino» e i «passi malfermi» (definizioni loro) hanno esordito due commissari per la comunicazione nominati in fretta e furia da Casaleggio - e incorsi subito in un paio di gaffe - ma questo non ha impedito che i parlamentari grillini si facessero nuovamente infinocchiare dai giornalisti in molteplici occasioni: i capigruppo Crimi e Lombardi finivano definitivamente macchiettizzati come è stranoto a tutti, e su questo non incediamo.

3) Nel tentativo di ovviare ai problemi, hanno inventato le conferenze stampa senza domande.

4) Vari parlamentari sono stati ripresi perché giravano per il transatlantico senza giacca e con bicchieri di Coca Cola, una deputata si è vantata di non aver stretto la mano a Rosy Bindi, un altro è stato fotografato ai tavoli del ristorante della Camera in allegra compagnia: in generale i grillini sono incorsi in grandi e piccole cantonate (lapsus, magre, figuracce) di cui è andata persa la contabilità. Un deputato è giunto a dire «Lei non mi può interrompere» al presidente di turno della Camera.

5) Rimane agli atti lo psicodramma del capogruppo Lombardi coi suoi 250 euro di scontrini andati persi, stesso personaggio che aveva dato del «nonno» a Napolitano.

6) La celebre diretta streaming delle consultazioni Pd-Cinque Stelle, con uscite tipo «sembra di essere a Ballarò» e «siamo noi le parti sociali», ha indubbiamente messo in imbarazzo e restituito un’immagine di arroganza.

7) Alla fine delle consultazioni è risultato, almeno secondo i sondaggi, che i grillini avevano fatto perdere un sacco di tempo a tutti: complici la testardaggine di Bersani e della stampa arrovellati nel tentar di comprendere se i «no» di Grillo fossero strategici o significassero «no» e basta.

8) Intanto Grillo contestava l’articolo 67 della Costituzione e la libertà di voto degli eletti, il tutto in implicita contestazione della democrazia «rappresentativa» a cui si predilige quella «diretta». Di passaggio si sosteneva che il Parlamento, anche senza un governo, potesse iniziare comunque a lavorare istituendo le commissioni che - altra vittoria - alla fine non sono state istituite, facendo fallire l’idea di un assemblearismo spinto a propulsione elettronica.

9) Si tralasciano i dettagli sulla mancanza di trasparenza: dalle nomine sempre decise da Grillo & Casaleggio, al fantasma di «hacker» durante le votazioni interne, alla decisione di non rendere noti i nomi dei finanziatori del Movimento: senza contare gli innumerevoli interventi e commenti rimossi o censurati dal blog di Grillo in tutto questo periodo.

10) La proclamata occupazione della Camera è finita piuttosto ingloriosamente, con discussioni persino sull’accresciuto consumo di energia elettrica. Stesso genere di polemica che ha riguardato la decisione di alcuni parlamentari grillini di viaggiare con treni ad alta velocità.

11) Le «quirinarie» sono state un altro grandissimo punto interrogativo. Esclusa la candidatura di Dario Fo (stessa età di Napolitano) e pure quella di Gino Strada, le votazioni si sono dovute rifare per colpa di hacker misteriosi di cui nessuno ha spiegato nulla, ma la vincente Milena Gabanelli alla fine ha detto di no. Eccoti allora Stefano Rodotà che, pure, aveva definito Grillo come «estremamente pericoloso» e «populista del terzo millennio»: è diventato il candidato «proposto dai cittadini italiani» in virtù di 4.667 voti telematici su 28mila totali, resi noti da Casaleggio dopo giorni di polemiche sempre in virtù della scarsa trasparenza. Il risultato della candidatura di Rodotà è stato bruciare Rodotà.

12) Eletto Napolitano, Grillo ha gridato al golpe, ha invitato a una marcia su Roma («dobbiamo essere milioni») e poi non c’è neppure andato, mentre una folla tuttavia provocava tafferugli e spintonamenti davanti alla Camera. Il giorno dopo, la marcia su Roma è diventata una conferenza stampa e poi un micro-corteo interrotto al Colosseo. Grillo ha chiarito che «golpe» era un modo di dire.

13) Un paio di giorni dopo, hanno espulso un senatore perché andava troppo in tv, tralasciando l’errore - bastava guardarlo - di averlo fatto eleggere.

14) Elezioni regionali in Friuli Venezia Giulia: due mesi dopo, il 27 per cento delle politiche diventa il 20 (scarso) preso dal candidato grillino, che nel caso della lista diventa addirittura il 13; alle comunali di Udine il candidato sindaco grillino becca circa il 14.

15) Intanto Grillo continua col refrain («è finita», «a casa», «siete morti», «l’Italia fallirà in autunno») ma è andato a cantarlo in Germania.

16) Intanto i parlamentari litigano seriamente sul primo stipendio: chi lo vuole tutto, chi no. Padri di famiglia e single si accapigliano.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: stipendi e programma, Grillo ha già perso il controllo del M5S. Il Movimento è nel caos: dopo le critiche al fondatore e il dietrofront sulla tv, rinnega un altro dei suoi obiettivi simbolo, quello sui rimborsi. Grillini che vanno in tv, che intascano l’intero stipendio, che sfanculano il fondatore: la verità è che nessuno li tiene più. Non li tiene Grillo e figurarsi Casaleggio, che sta sulle palle a mezzo Movimento. Che poi: era previsto e prevedibile che una quota di grillini a un certo punto sbroccasse, perché il potere dà alla testa o alla sua mancanza, insomma era nel conto, c’è una fisiologia e un accomodamento che da sempre accompagnano i partiti che crescono in fretta. Ma qui siamo al rinnegamento dell’abc, all’eresia, al taglio delle radici. Siamo al movimento che snobbava dogmaticamente i giornalisti e che ora invece dice «andate pure in tv», come ha concesso Grillo l’altro ieri.

Siamo al Movimento che ha fatto fuoco e fiamme sull’Alta velocità e poi ha salutato dei senatori a Cinque Stelle che viaggiavano sul Frecciarossa. Il movimento che ha fatto intere campagne sulla bouvette della Camera e poi ha sorpreso qualche loro parlamentare che pranzava proprio lì. Sciocchezze, modeste scosse di assestamento: qualcuna forse sì, di tante cose neppure parliamo, ma i soldi no, i soldi non sono un dettaglio, e neanche la politica lo è. Grillo, proprio ieri, ha ribadito che lo «ius soli» (il principio per cui diventa italiano chiunque nasca in Italia) a lui non è mai piaciuto e continuerà non piacere: e l’ha riscritto su quel vangelo che è il suo blog. Lo ius soli è roba da sinistra in campagna elettorale - dice - e al limite ci vorrebbe un referendum, occorrerebbe parlarne in Europa. Ebbene: non è che un suo parlamentare, ieri, ha detto che dissente; Alessandro Di Battista, ieri, ha risposto «chissenefrega». «Il pensiero di Grillo non è la linea del Movimento Cinque Stelle... Ciò che scrive Grillo sul suo blog equivale a quello che può scrivere Scalfari su Repubblica. La linea Cinque Stelle va decisa dai cittadini con la democrazia diretta». Se anche fosse vero, sa di calcio nei denti: lo sanno anche i sassi che Grillo è il sovrano del suo partito e che al limite, come in tutte le monarchie, c’è un riccioluto vicerè che può farne le veci. Per quanto ridicolo, e per quanto non contempli lo ius soli, il Movimento ha un programma, e certo non l’ha scritto la democrazia diretta: l’hanno scritto i soliti due. Se fosse vero che ciascuno può opinare e sparare ciò che vuole, non avrebbero piazzato due «commissari» per la comunicazione. E comunque il paragone con Scalfari è uno sfregio, considerato che la sinistra non gli ha mai dato retta e che si è regolarmente schiantata quando l’ha fatto. Detto con rispetto: non è un paragone fantastico, quello con Scalfari. Ma è la questione dei soldi che grida vendetta, e che no, non era nel conto, non ora, non subito, non così: la «diversità» in tema di risparmio e morigeratezza è sempre stato un architrave della missione grillina, altroché, e però qui non si tratta di singole eccezioni, non è un senatore vanesio che s’è innamorato di Barbara D’Urso: frotte di parlamentari a Cinque Stelle si sono seriamente accapigliati sul primo stipendio. È successo e succede. C’è ancora chi lo vuole tutto e chi invece no, padri di famiglia contro single, gente che aveva un lavoro ben pagato contro miracolati che non avevano una lira. Poi è chiaro, c’è sempre il caso limite: il grillino siciliano Antonio Venturino è stato espulso perché non osserverà «la restituzione delle somme eccedenti i 2.500 euro più rimborsi spese». Ma, da quanto si è capito, per farsi espellere ormai c’è la fila: e non è gridando «chi si tiene i soldi è un pezzo di merda» che le cose a quanto pare stanno tornando a posto. Dopo un bel «fanculo ai soldi», che detto da lui è suonato un po’ così, Grillo nei giorni scorsi ha dovuto ammettere che «un piccolo gruppo di parlamentari non vuole restituire il rimanente delle spese non sostenute». Poi l’ha messa ancora più morbida: «Chi vuole restituirà la diaria, chi non vuole, no». Non proprio una rivoluzione, insomma. Per Enrico Letta, ieri, è stato uno scherzo metterlo a tappeto: «Io taglierò lo stipendio dei miei ministri, vedo che Grillo fatica a togliere la diaria ai suoi parlamentari». Il comico gli ha risposto ogni cosa e ha tuonato che il suo Movimento è «l’unica opposizione», dimenticando che il molisano che aveva adottato lo stesso slogan è finito fuori dal Parlamento. «Ci sono quattro pilastri guida nel movimento», ha detto Grillo secondo Il Fatto di ieri, «e cioè i soldi, il coordinamento della comunicazione, la circolazione delle informazioni e il rispetto dei capigruppo». Si stanno sgretolando tutti e quattro.

L’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE.

Qui si vi presenta Don Ciotti, che agli occhi della gente, mediaticamente strabica, è il simbolo dell’antimafia militante e partigiana. Per tutti non è Leonardo Sciascia l’icona dell’antimafia, ma è un prete venuto dal nord. Si presenta con una sua intervista resa a Fabrizio Ravelli pubblicata su “La Repubblica”. Per fare corretta informazione bisogna che all’auto biografia si presenti il contraltare della biografia non autorizzata, ossia quello che su di lui dice chi ne conosce le più nascoste virtù o i più sordidi vizi. E’ importante conoscere colui il quale, di fatto, con la sua rete di associazioni e comitati che fanno capo a “Libera” e tutti vicini alla CGIL, ha il monopolio delle assegnazioni dei beni confiscati ai cosiddetti mafiosi, quindi un bene comune da condividere anche con chi non è di sinistra e non santifica i magistrati. Tra i tanti non appartenenti all’antimafia di regime troviamo il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” e scrittore-editore dissidente, che proprio sul tema dell’antimafia truccata ha scritto un libro “Mafiopoli. La mafia vien dall’alto. L’Italia delle mafie che non ti aspetti”. Libro inserito nella collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” pubblicata su www.controtuttelemafie.it ed altri canali web, su Amazon in E-Book e su Lulu in cartaceo, oltre che su Google libri. Saggi pertinenti questioni che nessuno osa affrontare. Opere che i media si astengono a dare loro la dovuta visibilità e le rassegne culturali ad ignorare. Va giù pesante Antonio Margheriti “Mastino” con un suo articolo pubblicato su “Papalepapale”. Si prendono le distanze dal tono dissacrante e satirico, a volte sprezzante, ma non diffamatorio, ma si condivide il contenuto di fondo, per questo, per diritto di critica e di cronaca, è indubbio che non si può tacere quello che altri non dicono, specialmente se lo scritto è il contraltare ad una intervista che racconta una verità personale.

Don Ciotti, prete di lotta e di governo: "Ho cominciato sui treni dei disperati". Incontro di Frabrizio Ravelli con il fondatore di Libera: "Il vescovo mi disse: affido a Luigi una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada. Don Luigi Ciotti è uno di quei preti lottatori che non mollano mai, che trovi per strada e non in sacrestia, che dà del tu a tutti (anche nel primo incontro con l'avvocato Agnelli, che non fece una piega). Il Gruppo Abele lo conoscono tutti. La sua vita, un po' meno. Si incontrano una maestra nervosa, un medico disperato, un vescovo coraggioso, e tanti altri. Conta molto che Ciotti sia un montanaro.

Montanaro veneto, no?

«Sì sono nato a Pieve di Cadore nel '45, ed emigrato in Piemonte con mio padre, mia madre e le mie sorelle per la ragione che nel dopoguerra spinse migliaia e migliaia di persone ad andare a cercare altrove la dignità di lavoro, la speranza».

E te ne sei andato a cinque anni.

«Mi ricordo l'impatto traumatico con la città di Torino, perché mio padre aveva trovato lavoro ma non aveva trovato casa. E quindi la nostra casa è stata la baracca del cantiere del Politecnico di Torino. Mio padre lavorava nell'impresa che ha costruito la parte più vecchia. Quegli anni hanno segnato la mia vita insieme con la baracca, il cantiere, le facili etichette che la gente ti mette perché tu vivi dietro uno steccato. Un pensiero sempre sbrigativo, che generalizza, e che tuttora resta una delle ferite aperte. Mio padre era muratore, poi è diventato il capocantiere, il capomastro».

A Torino da immigrato che viveva in una baracca.

«Sì, la baracca del cantiere. Dignitosa. Una delle cose che mi ricorderò sempre come un avvenimento è di quando una volta all'anno andavamo a comprare la carta da zucchero, quella blu, poi con le asticelle di legno che papà tagliava dalle assi attaccarla al soffitto. Era festa, festa in famiglia. Certo, il gabinetto era una baracca all'esterno. Però ho alcuni dei ricordi belli della mia infanzia. Il padrino della cresima che ho fatto nella parrocchia lì vicino era il gruista, Paolo il gruista. Eri un po' coccolato dagli operai. Poi venne la drammatica sera, credo fosse proprio un tornado che buttò giù i 42 metri della Mole Antonelliana, fece saltare tutti i tetti della Grandi Motori, e ci portò via gran parte della baracca. Ricordo la mia mamma che ci teneva stretti, un po' disperata. Volò via un pezzo di tetto, e il gabinetto lì vicino, che era fatto di assi».

E com'eri tu, bambino della baracca?

«L'altro ricordo è quello legato alla mia esperienza scolastica in prima elementare. Io dovevo andare a scuola in quel territorio, nella zona ricca di Torino. E avvenne un fatto che mi ha segnato molto. Questa scuola, la Michele Coppino, aveva un regolamento: tutti con il grembiule. Mia madre andò dalla maestra a dire che non era in grado di comprare il grembiule e il fiocco per me, perché aveva dovuto comprarlo alle mie sorelle, e non c'erano soldi. Quindi disse: per un mese manderò mio figlio a scuola senza il grembiule. Sai, tu puoi essere povero ma dignitoso, la dignità di andare a dire: guardi, non ce la faccio. Quindi io mi son trovato a essere diverso, dentro una scuola dove tutti avevano questo benedetto grembiule e questo fiocco interminabile, e tutti che ti chiedevano come mai tu non avevi il grembiule. Tu ti senti diverso, ti senti etichettato, ti senti giudicato. Al punto che quando qualcuno mi chiedeva dove abitavo, io non dicevo che abitavo dietro quello steccato, ma in un palazzo».

Finisce che il diverso si ribella.

«Dopo venti giorni di prima elementare, e io che già mi sentivo diverso e in difficoltà, la maestra è arrivata a scuola quel giorno nervosa, magari aveva litigato col marito. E mentre in fondo alla classe i miei compagni ridevano e scherzavano, lei non se l'è presa con loro, ma se l'è presa con me, che ero il più vulnerabile, il più visibile, mi aveva anche messo al primo banco. E io devo averle detto: ma che cosa vuoi, non c'entro niente. Lei chissà cosa ha capito, e le è scappata un'espressione che per me è stata una ferita: ma cosa vuoi tu, montanaro? Detto quasi con disprezzo. I miei compagni tutti a ridere, e quindi mi sentivo ancora più umiliato da quella affermazione. Allora io ho tirato fuori il calamaio dal banco, uno di quei vecchi banchi di scuola, e gliel'ho tirato. L'ho colpita in pieno. Espulso subito dalla scuola, dopo venti giorni. Portato a casa da un bidello. Io non l'ho mai più incontrato, ma mi ricordo quella mano che mi portava a casa, e io piangevo perché sapevo di avere sbagliato e perché sapevo che mi aspettava una punizione, e mia madre me la diede sonora. Anche se anni dopo mia madre mi disse: Luigi, io lo sapevo che tu avevi difeso la nostra dignità, però non si fa a questo modo. Il vero problema venne quando i miei compagni uscirono di scuola alle 12,30 - io ero già espulso - e avevano qualcosa di nuovo da raccontare ai genitori o alla cameriera. Lo sai mamma cosa è successo oggi a scuola? Dimmi, cicci. Un nostro compagno ha tirato il calamaio alla maestra. Ah, povera maestra. E come si chiama quel compagno? Ciotti. Guai se ti vedo con quel compagno. Sono diventato il compagno cattivo».

Montanaro e ribelle.

«Meno male che frequentavo la parrocchia. Andavo lì, eravamo un gruppetto, nella parrocchia di questo quartiere molto ricco di Torino. E' stato per me un momento importante, quando la tua vita viene segnata da quelle etichette. L'altro episodio che mi ha segnato è successivo, io dopo le medie andrò a scuola per prendere il diploma di radiotecnico, e lì avviene l'incontro con un signore su una panchina. Un disperato, che mi aveva colpito, perché io passando col tram lo vedevo sempre lì a leggere libri, sottolineando con una matita rossa e blu. Io avevo 17 anni, con gli entusiasmi e le fantasie di quell'età. Un giorno sono sceso dal tram, sono andato lì e gli ho detto: vuole che vada a prenderle un caffé? E lui niente. Torno alla carica: vuole un té? Lui zitto. Penso, sarà sordo, ma mi accorgo che non lo è. Era un medico, amato e stimato dalla gente, ed era successa una vicenda drammatica nella sua vita, che l'aveva portato su quella panchina. Era andato ubriaco in sala operatoria, e aveva provocato la morte di una donna, la moglie di un amico. Poi era uscito di testa, stava male. Però studiava ed era curioso. Dalla panchina lui vedeva dei ragazzi al bar di fronte, che entravano e uscivano - allora non c'era l'eroina - prendevano delle amfetamine, ci bevevano dei superalcolici e sballavano, facevano la bomba. Un giorno, quando alla fine nasce un rapporto fra me e lui, anche se stentato, mi dice: vedi, dovresti fare qualcosa per quei ragazzi. Lui era un uomo disperato e sofferente, morirà pochi mesi dopo. E io mi sono detto: questo incontro non sarà un incontro qualsiasi. Mi ha indicato una strada. Anche questo episodio ha lasciato un graffio nella mia vita».

E poi?

«Poi sono andato a vivere da solo. Ho fatto un gruppetto. Poi nasce il Gruppo Abele, che a Natale ha compiuto 45 anni. Io in seminario andrò dopo, avevo già il Gruppo Abele, avevo una storia dietro. Avevamo cominciato ad andare sui treni, dove i disperati senza casa dormivano: i treni arrivavano caldi. Ho pensato, caspita io incontro questa gente fuori, facciamo delle cose insieme, non li lascio soli. A volte la mattina eravamo così stanchi che il treno partiva, e ci trovavamo a Chivasso. Passavano i controllori, te la davi a gambe. Perché sai, se parli a tavolino non capisci questi mondi. E lì nasce la storia del Gruppo Abele, nasce sulla strada, poi le prime comunità, il lavoro al Ferrante Aporti, la casa di rieducazione del Buon Pastore. Le prime comunità in alternativa a quelle strutture. Una storia che è cresciuta, e che non è un Luigi Ciotti, è un noi: ho fatto questo perché l'ho fatto con altri. Io difendo questo noi, vuol dire che non è opera di navigatori solitari. E quando verrò ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, grande vescovo che si faceva chiamare padre, in una chiesa zeppa di mondo di strada, alla fine di quella celebrazione non volava una mosca, lui guardò tutti questi ragazzi e disse: Luigi è nato con voi, è cresciuto con voi, e io ve lo lascio. Però affido anche a lui una parrocchia, e gli do come parrocchia la strada».

Michele Pellegrino, insigne grecista, vescovo coraggioso e innovatore.

«Lui veniva da noi. Ai nostri campi in montagna. Venne una volta e c'erano tutte le ragazze del mondo della prostituzione. Lui ascoltò e poi mi disse: quando hai una sera libera vieni a cena da me, tu mi hai aperto una finestra e io voglio capire di più questo mondo. Non giudicava, non semplificava, voleva capire. Un anno dopo andrà a celebrare il Natale con le prostitute del centro storico di Torino. Uno che non si è mai tirato indietro. E sarà lui quello che prenderà posizione quando il quotidiano La Stampa farà la grande campagna per ripulire la città dalle prostitute. La redazione si spaccò in due, per quella iniziativa di legge popolare. E lui fece quell'omelia nella notte di Natale, nel duomo di Torino, partendo dal Vangelo di Giovanni, e pose delle domande sulle cause, non solo sulle donne costrette a prostituirsi ma anche sui clienti, sulla prevenzione. Tu immagina un cardinale che fa questa omelia nel duomo, e si mette contro il quotidiano della città che raccoglieva firme. Pensa che venne Gina Lollobrigida con l'aereo per mettere la firma, e Claudio Villa il reuccio della canzone italiana. E poi la tenda di Porta Nuova, era il 1973, ti faccio vedere le foto con lui: disadattati e delinquenti non si nasce ma si diventa. Quando abbiamo preso posizione contro le carceri per minorenni, perché fossero solo l'extrema ratio, e si cercassero soluzioni diverse. Il Gruppo Abele cominciò un lavoro dentro le carceri, siamo andati dentro a vivere».

Dentro le carceri?

«Sì, a Roma al ministero c'era un direttore dell'Ufficio quarto, Umberto Radaelli, che ebbe l'intuizione e ci portò dentro. E dodici di noi hanno vissuto in carcere: fu la prima esperienza grande in Italia, di condivisione e di progetto dentro il carcere dei minorenni, qui al Ferrante Aporti. Poi a Roma qualcuno si agitò, fu costruita ad arte tutta una cosa per bloccare questa sperimentazione. Noi uscimmo facendo una denuncia, e Pellegrino verrà a quella denuncia del sistema, e con accuse false fummo messi sotto inchiesta col direttore, che fu sospeso. Noi uscimmo, ma dieci anni dopo quello diventò il grande progetto Ferrante Aporti. E una volta dimostrata la falsità delle accuse il direttore Antonio Salvatore fu promosso andò al Beccaria di Milano, e ne divenne il grande direttore. Ma la sua storia cominciò qui, con quell'atto di coraggio che abbiamo condiviso, con lui e con Umberto Radaelli».

Un momento indietro. Quando già c'era il Gruppo Abele sei andato in seminario.

«Sì, sono andato in seminario qui a Rivoli, uscivo ed entravo. Il cardinale Pellegrino capì che era un servizio per i poveri, per gli ultimi, per quelle fasce dimenticate. Il Gruppo Abele fu il primo in Italia ad aprire un centro droga sulla strada, trovando un gruppo di magistrati che avevano capito che la legge era un mostro giuridico. Noi ci siamo autodenunciati per aprire il centro droga. La legge stabiliva che tu dovevi denunciare, e le strade erano due: o il carcere o l'ospedale psichiatrico. Noi abbiamo aperto in via Giuseppe Verdi a Torino, giorno e notte, dove arrivava un sacco di gente anche per essere accudita, per mangiare e per dormire. Davamo i primi supporti in una città che negava l'esistenza di quel problema, che diceva fosse poca cosa. In due anni quattromila persone arrivarono, perché non c'era nulla, quindi si andavano ad aggrappare dove trovavano dei riferimenti. La città comincia a prendere coscienza, noi cominciamo a fare la battaglia politica per avere una legge diversa, che sfocerà nello sciopero della fame del '75 in piazza Solferino, che porterà il Parlamento italiano a far la legge con cui nascono i Sert, nascono i servizi. Pellegrino sarà presente in tutti questi momenti».

Poi quando succedono cose come la spedizione punitiva contro un campo rom ti cadono le braccia.

«Sì, io l'ho detto, sono stato lì. Mi sono stancato di sentir parlare di emergenze in questo Paese. Queste non sono emergenze, sono percorsi che si sono consolidati nel tempo. E se c'è uno sgombero da fare nel nostro Paese è lo sgombero dei pregiudizi, dell'ignoranza, della non conoscenza. Questo dei rom è un popolo che ha voglia di vivere, un popolo gioioso, un popolo poetico. Che dev'essere aiutato a poter vivere delle condizioni di legalità. Questi vivono la terra di nessuno. Non si può parlare di emergenza. Io mi arrabbio quando si scopre con un misto di sorpresa e di vergogna che la miseria, la segregazione, la discriminazione, la violenza sono un problema anche nostro. Qui a Torino è avvenuta un'aggressione razzista, spiace doverlo dire, una vendetta. Ci sono belle esperienze concrete che dimostrano come l'accoglienza e le regole possono mettersi insieme. Qui a Settimo, come a Reggio Calabria per la raccolta dei rifiuti. Noi ne abbiamo assunti alcuni: vai a rubare il rame, e allora vieni qui a lavorare il rame. Si guadagnano la pagnotta in maniera onesta».

A un certo punto hai cominciato a occuparti di terroristi che stavano in galera.

«Da me venne una figura stupenda, padre David Turoldo. E mi disse: dobbiamo fare qualche cosa per dare una mano a sbrogliare questa situazione, nel rispetto della legalità. Così ho accolto diversi di loro, alcuni sono ancora qui, a una condizione: che si mettessero in gioco, che lavorassero. Che ci fosse, nel rispetto dei percorsi della giustizia, un cambiamento dentro le persone. Il paradosso, se così si può dire, è che in questo settore lavorava come volontario il procuratore della Repubblica Gian Carlo Caselli. Coordinava un gruppo, e si trovava a lavorare con quelli che aveva mandato in galera. Cose che sono successe in questo Gruppo Abele. Come il fatto che oggi accompagniamo in grande silenzio storie di testimoni di giustizia, nella lotta alla criminalità e alle mafie».

E poi nella tua vita entra la mafia.

«E' stata una serie di tappe. A Torino è nato il coordinamento delle comunità di accoglienza. Poi quando scoppia il problema Aids nasce la Lila, la lega per la lotta all'Aids, e io sono stato il primo presidente. Dopo le stragi di Capaci e di via D'Amelio, mi sono chiesto: noi continuiamo a dare una mano ai giovani vittime delle dipendenze, alle ragazze sfruttate dalla prostituzione, ma chi guadagna dietro a questi? E ti dici: continuiamo a stare sulla strada, a lavorare all'accoglienza, però il problema della mafia attraversa tutto il nostro Paese. E quindi nasce Libera, per mettere insieme tante esperienze, per creare un fermento sociale. Ci chiediamo: cos'è che bisogna portare via a questi signori, i mafiosi? Il denaro, i beni, era il sogno di Pio La Torre, ma lo ammazzeranno quattro mesi prima che si facesse la legge. Però quella confisca dei beni mafiosi, che non parlava ancora di uso sociale, non funzionava, così raccogliamo un milione di firme per una legge ad hoc. E oggi ci sono più di quattrocento associazioni in Italia che gestiscono questi beni e li utilizzano. Cooperative che sono partite autofinanziandosi, tirando la cinghia, andandosi a cercare i soldi da sole. Una storia meravigliosa nata dal basso, dalla gente stufa di essere mortificata. La vendita dei beni mafiosi può esistere, ma dev'essere l'eccezione, non un dogma. Così come ho sentito che ci sono delle proposte: vendiamoli tutti e diamo il ricavato allo Stato. No, perché è uno schiaffo per il mafioso vedere i giovani che arrivano sulla tua terra, quella terra con cui hai gestito il tuo potere, la tua forza. E che sia uno schiaffo si vede dagli attentati. Quest'estate ci hanno fatto fuori trentacinque ettari di grano. Hanno bruciato olivi secolari in terra di Calabria. Distrutto impianti in provincia di Latina. Tagliate le pompe dell'acqua in un altro territorio. Eppure si è andati avanti, non s'è mai fatto un passo indietro, s'è dato lavoro a tanti giovani. Oggi qualcuno vorrebbe impossessarsene, tutti i giorni leggiamo di confische di denaro che non si sa dove finisca. Secondo me quel denaro liquido deve servire per i testimoni di giustizia, e per il risarcimento alla vittime di mafia».

Che vita fai, ti tocca correre di qua e di là come una trottola?

«Abbastanza. Ma vivo qua nel gruppo, in questa ex-fabbrica. Poi c'è il gruppo che dà lavoro a seicento persone. La mia vita è qui: stare con la gente è per me la cosa più importante e fondamentale. Poi s'è creata una rete di comunità, il lavoro di strada, il drop-in, il settore culturale, la casa editrice, la rivista Narcomafie, un centro di documentazione e ricerca, la sede dell'università della strada per la formazione degli operatori. Qui c'è tutto il lavoro per le vie di fuga che facciamo per la tratta e la prostituzione, le ragazze vengono nascoste e reinserite, in luoghi protetti perché questi le cercano. Per me l'accoglienza è fondamentale, se viene meno il faccia a faccia con le persone perdi la vita. Poi c'è Libera».

Un'ultima cosa. In questo Paese si parla del volontariato, straordinario e meritevole, come di un alibi per chi non fa niente. Non ti manda in bestia?

«Lo dico da sempre, mi auguro che ci sia meno solidarietà e più giustizia. Non verrà mai meno l'attenzione agli altri, l'accoglienza, la relazione. Però noi non possiamo diventare i delegati a occuparsi dei poveri e degli ultimi. Noi continueremo a occuparcene, perché non abbiamo mai chiuso la porta in faccia a nessuno. Ma in questo Paese, oggi, il sociale è mortificato: chiudono cooperative, chiudono associazioni. E si dimentica che la solidarietà è indivisibile dalla giustizia, non si deve dare per carità quello che spetta alla gente per giustizia. Guai se diventiamo il tappabuchi. Abbiamo anche il dovere della denuncia seria e documentata, il dovere di chiedere conto alla politica. E se è lontana dalla strada, dai problemi della gente, dalla sua fatica, allora la politica è lontana dalla politica. C'è un problema di democrazia nel nostro Paese, è una democrazia pallida che non ha senso di responsabilità».

Posizione antitetica ed aspramente critica sul personaggio pubblico è quella di Antonio Margheriti “Mastino” che, nel suo articolo,  definisce Don Ciotti come il prete da marciapiede: don Ciotti. Dolce&(volta)Gabbana e antimafia delle chiacchiere. Sottotitolo: riflessioni cattoliche a partire dall’attentato di Brindisi.

L’articolo è diviso in Paragrafi:

Siamo tutti “addolorati” col culo degli altri;

Il figlioccio di Michele Pellegrino, il cardinale rosso;

Ladri benefattori e derubati ladri. Una storiella su don Ciotti;

Il Dolce&(volta)Gabbana della Chiesa: Ciotti, il cappellaio… ops… cappellano delle mode;

Il radical-ciottismo porta infine laddove dall’inizio era stabilito dovesse portare: alla religione civile;

Diffidate dei preti pieni di patacche;

La mosca sarcofaga;

Il silenzio se non ti “uccide”, ti evita molte figure di merda;

Ciotti grida “è mafia!”. Ma i giudici chiedono aiuto proprio alla mafia;

Se per l’inchiesta Jacini al Sud “tutto è Africa” per Ciotti “tutto è mafia”;

Ciotti si scusa: gli è scappata una parolaccia: ha citato Gesù;

Dio, il Grande Sconosciuto d’Occidente;

“Ho visto pezzetti di carne sparsi”. Ma l’ha colpito solo “un quaderno di educazione civica”;

Sostituire il Decalogo con la costituzione, il confessore col magistrato;

“Non importa chi è Dio, ma da che parte sta”. Il mancato leader socialista;

Quegli studenti che marciano per marinare la scuola lecitamente: senza fantasia, senza sincerità;

E’ politicamente scorretto dire “la mafia non esiste”, anche se è vero che non esiste;

La vera mafia che pretende omertà è quella del professionismo dell’antimafia delle chiacchiere;

Dio è lui, don Ciotti. E “Libera” è il suo corpo mistico, la sua chiesa.

SIAMO TUTTI “ADDOLORATI” COL CULO DEGLI ALTRI. I fatti di Brindisi, dunque. Ognuno dice la sua, stante il fatto che gli strascichi mediatici caricaturali di stragi e delitti sono una passionaccia arcitaliana: non chiedono di meglio i teledipendenti che fare tifoseria colpevolisti-innocentisti, scoprire alla fine chi è l’assassino come in un giallo della Christie. Tanto siamo tutti “addolorati” col culo degli altri. Solo che invece di sfogliare libri gialli, fanno zapping da talk-show in talk-show nella tv delle lacrime, dei sentimentalismi, del macabro, e, subito dopo, delle sganasciate di risate mignottesche con la caccia al chi ha scopato chi, chi s’è lasciato con chi, chi ha incornato chi.

Brindisi, dunque. Napolitano e Bersani dicono: “E’ terrorismo”. Don Ciotti: “E’ mafia”. Criminologo: “Forse squilibrato”. Complottisti professionisti: “Strage di Stato” (anche se tecnicamente neppure strage c’è stata). Procura: “Non sappiamo”. Tutti insieme in comune hanno una cosa: parlano senza sapere di che parlano… e come potrebbe essere diversamente dal momento che 5 minuti dopo avevano già tutti il loro teorema buono per ogni evenienza?! Ognuno cerca di trascinare cadaveri entro la propria specializzazione e contingenze immediate, se politiche tanto meglio. Non mi meraviglierò se presto interverrà Radio Radicale a dire: “Preti pedofili”. Dopo tanti castelli costruiti sul fango di lussuose teorie politico-criminologiche, si scoprirà (come si scoprirà!) che si tratta d’un semplice sfigato di mentecatto, certamente qualche disoccupato nevrotizzato dalla mancata assunzione al bidellaggio, qualche altro che ce l’ha in modo parossistico con l’agenzia delle entrate, qualcuno che ce l’ha col prospiciente tribunale che gli ha fatto perdere o non ha mai discusso la causa che gli stava a cuore; qualche “inventore” pazzo. La banalità del male! Ma certo non è di questo che voglio parlare, non si occupa di cronaca questo sito. È un pretesto per dire d’altro.

IL FIGLIOCCIO DI MICHELE PELLEGRINO, IL CARDINALE ROSSO. Don Ciotti ha fatto tutti i suoi studi da prete, se così posso chiamarli, nel lustro peggiore della storia della Chiesa: fra il ’68 e il ’72, anni di autodemolizione, autopersecuzione, autocontestazione della Chiesa. Anni pazzi. Soprattutto anni rivoluzionari: i seminari erano diventati, in quel lustro, covi di pazzissimi sediziosi dottrinali, bordelli teologici, fucina di rivoluzionari spompati, evirati e inutili persino ai rivoluzionari al caviale laici. Ininfluenti sul mondo, ma funestissimi dentro la Chiesa. Ecco, quei cinque anni maledetti, sono tutta la formazione di Ciotti: psicologicamente, retoricamente tuttora là è fermo, non s’è mai mosso; e spesso proprio questo suo modaiolo anacronismo è travisato, in un qui pro quo ridicolo, scambiandolo per avvenirismo, futurismo. In realtà, da quaranta anni, è uno spacciatore abusivo di ricette (“salvavita”, buone parimenti per la Chiesa e per la “società”) scadute. A complicare le cose per l’allora seminarista Ciottino intervenne il fatto che il suo seminario si trovava nella Torino operaista e laicista, e per giunta il suo cardinale era il vescovo più rosso della storia d’Italia: Michele Pellegrino. Tutte le fortune, poveraccio! E allora ti spieghi tante cose. Il cardinale rosso della Torino di quel tempo infame che vide nascere proprio nelle sue fabbriche i teorici e la manovalanza del terrorismo comunista, Michele Pellegrino, definì bonariamente il suo comiziante pretino, il giovane Luigi Ciotti, “prete da strada”, e aggiunse: “la strada sarà il tuo altare”. Una permuta a tutto vantaggio non si sa bene di chi, della Chiesa dubito. Se è vero come è vero che il programma ciottesco è questo: “Non si va per la strada ad insegnare ma ad apprendere”: affascinante come slogan, bellissimo, non v’è dubbio, ideologico anche; l’apice del buonismo delle “anime belle”, di quelle che s’innamorano dell’idea già bella impacchettata e infiocchettata a prescindere da quello che c’è dentro il pacco (in questo caso: il vuoto), ignorando trasognati e poeticanti la realtà, quel sano realismo che deve essere sempre il compagno di viaggio del cattolico. Sostituito in questo caso con un tanto al chilo di sociologismo vittimistico, piagnone e melodrammatico. Che suona sempre la stessa sinfonia dagli anni ’70: “Le colpe della società!”, qualsiasi cosa uno abbia fatto, “è colpa della società”. Anche se oggi ha mutato un po’ registro: qualsiasi cosa succeda, foss’anche il crollo di Wall Street, il Nostro dice che è “colpa della mafia”. Almanacco del “clima sociale mafioso” e, va da sé, “omertoso”.

Ciotti, l’uomo che “apprendeva dalla strada”, dunque, invece che insegnare la Strada, che poi sarebbe Cristo. Senza contare che Cristo non è andato per le strade del suo tempo ad “apprendere” ma a insegnare, appunto. La stessa cosa che avrebbe dovuto fare Ciotti, insegnare le cose del Maestro, che aveva infatti detto “non chiamate nessuno maestro”, neppure una strada, “perché uno solo è il Maestro”, cioè Lui; e poi aggiunse che siccome Lui “era la via, la verità, la vita…” ai suoi toccava andare “per le strade” ad annunciarlo, a “insegnare le cose del Padre mio”. Ma siccome Ciotti è capitato in epoca materialista (infatti ripropone il “Gesù rivoluzionario” tipico degli anni ’60 e dell’agnosticismo), le cose si sono ribaltate: strada e asfalto son diventati “maestri”, Cristo un semplice passante. E uno sconosciuto. Mentre invece era Lui la Strada. E la vita. La sola salvezza possibile. Non l’antropocentrismo ideologico del Nostro. Se c’è una cosa che dalla bocca di Ciotti non s’è mai sentita è questa: “E’ peccato”. Proprio non manda giù l’idea che il singolo possa avere dei peccati, delle colpe agli occhi di Dio e che possa pagare per queste; che ci sia un Giudice Supremo diverso dal pubblico ministero. È proprio l’idea di peccato individuale che gli è estranea. Il libero arbitrio gli va bene per tutto, lo applica a tutto, ne fa uso abbondante egli stesso, è tutto un arbitrio Ciotti; però nel peccato no, l’uomo-individuo non pecca secondo “libero arbitrio”: “è la società che pecca”… anzi no (ha abolito pure la parola “peccato”) commette “ingiustizie”; è la società “che è sbagliata”, in ogni caso “è colpa della società” (quella che non vota comunista, almeno). Mai si dica che l’individuo “ha sbagliato”, peggio di peggio poi “ha peccato”, “ha scelto” liberamente di peccare.

LADRI BENEFATTORI E DERUBATI LADRI. VI RACCONTO UNA STORIELLA (PARADOSSALE E SATIRICA) SU DON CIOTTI. Se ti entra un ladro in casa, ti svuota casa, ti bastona il nonno: è colpa tua, pezzo di merda!, merdaccia che bivacchi e ti abbeveri in questo cesso di società!, sei tu che hai ridotto quel “poveraccio”, quella “vittima della società” a entrarti in casa, derubarti di tutto, bastonarti il nonnetto magari pure reduce della RSI (e un po’, quindi, se lo meritava!) e andarsi poi a ubriacare con gli amici gaglioffi, ossia le “altre vittime”. Sai che c’è di nuovo? Te lo dice un don Ciotti, uno che impara dalla strada invece che insegnare la retta via a quelli che per strada, quella sbagliata, ci stanno: sei tu il ladro, sei tu il bastonatore di tuo nonno; dovresti vergognarti e chiedere scusa al ladro bastonatore di tuo nonno, e se proprio vuoi essere perfetto, purgarti del tuo “peccato sociale” (tale perché nella società ci vivi), dovresti rendere al ladro pure quello che non ti ha ancora rubato, perché il possederlo da parte tua è un “furto”, verso tutte le altre “vittime della società”. Ossia tutti gli altri ladri. Ovvero, sei tu, in fondo, che hai rubato in casa dei ladri… perdon… delle “vittime della società”. Non è manco più il tuo un “peccato sociale”. È proprio mafia! Sei un mafioso. Cornuto e mazziato, dunque. La domanda curiosa che ti fai su questa de-forma mentis clericale ferma a sociologismi radical anni ’70, è una: perché tali principi di “vittimismo” sociale validi per qualsiasi criminale (o detta alla cattolica: peccatore), non possono valere, a sentire Ciotti, anche per la criminalità organizzata, per i mafiosi, appunto? Non sono criminali e dunque “vittime” l’uno e gli altri, il ladro e il mafioso? Perché no? Del resto, secondo dottrina cattolica entrambi violano lo stesso Decalogo, entrambi altro non sono che peccatori… e in questo il cattolicesimo è molto “democratico”. Perché no, Ciottino-ino-ino? Io un sospetto lo avrei, me che sono di natura maligna (realista): la mafia ha fama di essere anticomunista; un tempo persino d’essere “democristiana”; poi – dicono gli ex sputtanatori di Falcone vivo, ossia la sinistra al caviale che da morto ne ha fatto bandiera – divenne “berlusconiana”. Ha fama, cioè, di farsela coi “potenti”. Tutte cose che il Ciotti dovrebbe avere in gran dispitto. Dovrebbe. Ma pure lui, Ciotti, a suo modo è un “potente”: la potenza oggi non è data più solo dai soldi e dalle poltrone, ma dalla visibilità mediatica e dal servilismo plaudente (e ipocrita) dell’establishment televisivo nei tuoi confronti. È o non è il Ciotti un nuovo potente, “intoccabile” da qualsiasi schermo o palco appaia, qualunque cosa dica (ché poi: dice sempre le stesse cose)? È vero o no che per diventare un “intoccabile televisivo” del genere devi essere messo a contratto dalla sinistra radical-chic che di quella fanghiglia è padrona gelosa? È o non è sempre sotto telecamera? È o non è sempre in compagnia di potenti, purché comunisti o almeno catto-comunisti? Non sono i suoi commensali abituali ormai?

IL DOLCE & (VOLTA)GABBANA DELLA CHIESA: DON CIOTTI. IL CAPPELLAIO… OPS… IL CAPPELLANO DELLE MODE.

 Fine anni ’60. Per via dell’anarchismo “antiautoritario” e “antirepressivo” del ’68, in quegli anni era di gran moda la questione “abolizione del carcere”, da sostituire (diceva l’ideologo radical-chic) con “pene alternative”. Subito Ciotti se ne appassiona e fonda gruppi alternativi al carcere minorile per il “recupero dei piccoli carcerati” che spesso avevano un curriculum criminale poco sotto quello di Riina. Erano “vittime della società”. E fu la prima moda che condivise il suo talamo: tanto di applausi mondani e dell’intellighenzia radical ne derivarono. Poi la moda “abolizionista” decadde e Ciotti passò ad altro.

Primi anni ’70. Anni di piombo. L’ultima moda erano l’operaismo (in genere aizzato dalla ricca, balorda, annoiata borghesia radical, come eccentricità d’alta società) e le più assurde “rivendicazioni sindacali”. Torino ne era il sanguinoso epicentro. Il Ciottino si beccò la passione degli “operai”. Fondò associazioni e s’incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Poi passarono di moda pure questi, e lui li abbandonò al loro destino, che era diventato terrorismo, nel frattempo.

Sul finire degli anni ’70. Dopo la sbornia anarcoide e marxista immaginaria del ’68, se ne ebbero i primi frutti fra quei giovincelli generosi “contestatori”: oltre al terrorismo portarono in Italia anche la “moda” e le abitudini “culinarie” dei figli dei fiori (oppiacei) d’oltreoceano: droga a colazione, pranzo e cena. Comparvero i primi tossici italiani, ex contestatori del sistema. L’ultimo Maritain, quello considerato “pessimista”, “e perciò rimosso”, scrive Messori, all’apparire di questo fenomeno fra la satolla (di pane e ideologie arruffone) gioventù d’Occidente, disse una cosa profonda e atroce, atroce perché vera, “profetica” direbbero i progressisti se non fosse null’altro che una constatazione: “Quel buco è il sacramento di Satana. E’ la cresima, è l’effusione dello spirito di una cultura che ha preso congedo dal Cristo per volgersi all’Ingannatore”. Tutte queste cose non disse e tantomeno pensò il Ciotti. Troppo affaccendato in chiacchiere, affari e presidenze pluripremiate, per pensare all’essenziale delle cose. L’affare era grosso, guadagnava ormai le prime pagine dei giornali, si facevano inchieste di grido, faceva notizia, insomma. Ciotti non se lo fece ripetere due volte: ci si buttò a capofitto, fondò associazioni, se ne incoronò presidente. I risultati sono dubbi, e più che altro contraddittori. Ossia al fondo c’era sempre e solo l’ideologia radical di Ciotti, il vero motore del suo chiacchierificio itinerante buonista e indignato speciale di professione; mentre tutto il resto era carrozzeria, pretesto e contorno, foglia di fico sulle vergogne. Illustrazioni di copertina del suo personale Capitale all’amatriciana. Leggo da una biografia del Nostro: “In quegli stessi anni, all’accoglienza delle persone in difficoltà l’Associazione comincia ad affiancare l’impegno culturale (con un centro studi, una casa editrice e l’“Università della strada”) e, in senso lato, politico, per costruire diritti e giustizia sociale, con mobilitazioni come quella che nel 1975 porta alla prima legge italiana non repressiva sull’uso di droghe, la 685”. Paraponziponzipò! Per aiutare i drogati, la prima cosa che questa anima bella propose, fu una “legge non repressiva” sull’uso di droghe. Pannella non avrebbe saputo fare di meglio. Come dire? Ci sono troppi malati di cancro ai polmoni in giro? Bene, abbassiamo il prezzo delle sigarette. I primi risultati di questo buonismo vittimista si videro un quinquennio dopo, quando in Italia scoppiò una vera pandemia di tossicodipendenza. Naturaliter: l’intellighenzia mondana e radical-chic, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ciotti era ormai una star. Sulla pelle di chi lo divenne non sappiamo.

Con il primo lustro degli anni ’80 venne dopo la sbornia di “comunismo” al sangue, la sbornia di consumismo alla puttanesca. Con questo dilagarono sì i vizi tipici dei nuovi sazi e indifferenti, alcol, gioco e droghe (come risultato ultimo delle prediche “libertarie” radical post-68) e ottenevano i galloni della cronaca i “drogati” e i loro “recuperatori”. Venne pure dell’altro, però: il clima euforico e orgiastico, il culto del sesso sfrenato e promiscuo, nel quale il massimo della gloria effimera, della sbornia e quindi dell’indecente capovolgimento del mondo la raggiunsero gli omosessuali, nuova rumorosa e attivissima setta pagana. Che nel cuore di Ciotti dovevano immediatamente avere il sopravvento sui drogati. Infatti, manco fece in tempo a scoppiare, facendo un boato immane su tutti i media del mondo, la peste del XX secolo, l’Aids, che subito Ciotti ne divenne un “appassionato”, un santo patrono, la ennesima “voce dei senza voce” (con tutte le categorie sociali alle quali crede di aver dato “voce”, potrebbe doppiare l’intero cast di un film colossal del cinema muto). Qui pure, come aveva dato “voce” a tutti gli altri: con le chiacchiere e i tour di chiacchiere in giro per l’Italia. A confermare i “senza voce” nel loro errore, e, se battevano la strada, a “prendere lezioni da loro invece che insegnare”, senza mai affrontare la scaturigine di quell’epidemia mortifera. Ossia il peccato, quello contronatura in questo caso, la sessuomania di massa, che proprio i modaioli maitre a penser radical-chic avevano predicato e propiziato dal ’68. I risultati ultimi ora erano sotto gli occhi di tutti: ma Ciotti vedeva solo questi, ignorando come sempre le cause prime: un gatto che si morde la coda. E al solito fondò associazioni e se ne incoronò presidente. L’intellighenzia mondana, radical-chic, la stessa responsabile ideologica di questa strage, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte.

Poi viene il 1988. E diventa abortista. Se andaste a scovare le ciottate di quegli anni ne provereste brividi: posa il suo bacio bavoso su tutte le più infami mode ideologiche del tempo, indossa tutte le più spettrali, e melense al contempo, svergognate maschere dell’epoca, e diventa femminista, abortista, contraccettivista, divorzista. Ma sempre per “solidarietà umana”, è chiaro. Come i peggiori radicali, approfittando del dramma dell’Aids, fa sciacallaggio pro contraccezione, pro aborto, pro aborto selettivo: tutto questo, al solito, per “solidarietà”, per la “bella idea” dell’ideologo, per “buonismo”. Quella solidarietà, quella bella idea, quel buonismo che senza rimorso alcuno ora gli fanno sostenere il diritto di scelta per una donna di abortire un figlio malato; “per rispetto umano” verso i sieropositivi si mette a propugnare le più “umanitarie” teorie sull’aborto selettivo, che poi erano le stesse teorizzate e applicate dai nazisti (ché però quelli almeno ad un certo punto ebbero scrupoli, e si sottrassero: don Ciotti e gli abortisti no). Così così così arriva, con l’ambiguità tipica del Maligno che mescola la verità alla menzogna, ad ammettere che “abortire i bambini che potrebbero nascere sieropositivi è una possibilità che deve essere riconosciuta a una donna”. E poi naturalmente per “eliminare alla radice” il problema, cioè uccidere bambino e sieropositività, buttare bambino e acqua sporca. Ma non si rende conto che proprio la “radice”, proprio quella è il problema, non le fronde, la sieropositività: quella “radice” che questo prete vorrebbe “recidere” è la vita umana stessa, la maestà di Dio su di essa. Ma che prete è questo? Per chi lavora? Come fa a parlare così? Ah, non è affar suo dice lui, lui riconosce che v’è “una pluralità di vedute” e per non offenderne alcuna, non intende affermare quella della Chiesa. Che poi non è manco quella di Ciotti. Lui, intanto, “riconoscendo la pluralità di vedute” se ne sta in ogni organizzazione “umanitaria” fuori e radicale e abortista dentro: per dare “speranza”, pur nella “pluralità di vedute”. “Speranza” basata su cosa non è dato sapere. Il Nostro, racconta Luigi, un testimone di allora, “fece molte interviste pro contraccettivi e surrettiziamente pro aborto. Allora io scrissi ad Avvenire protestando: il direttore in persona mi onorò con una sua risposta in cui mi disse che ero inutilmente severo…”. Guardate, il discorso, giunti a questo punto, mi fa tanto schifo che lascio a voi la facoltà di approfondirlo cliccando sui ritagli di giornale del 1988 che l’amico Guido mi ha gentilmente mandato, sapendo che stavo affrontando questo articolo. Ma se proprio volete saperne di più sulle schifose prese di posizione su questi temi del Ciotti, nel fragore degli applausi delle sue platee di post-cristiani, post-comunisti, vetero-radicali, leggete online questo resoconto agghiacciante di Vittorio Agnoletto.

E siamo già a cavallo fra anni ’80 e ’90. Cominciò a scemare sui media l’interesse per drogati e sieropositivi, ed entrambi cominciavano a subire un “calo fisiologico”, che li rendeva ormai poco numerosi e perciò ancor meno appetibili. Dai media. Don Ciotti cercava altri stimoli mondani. Che infatti vennero sicuri come la morte. Iniziarono i primi flussi migratori, sino al botto scuro della nave che rovesciò miriadi di albanesi sulle coste di Brindisi. Che scappavano dai rottami di quel comunismo “nuovo” ossia “maoista” del quale proprio quelli come Ciotti & compagni radical-chic, qualche anno prima s’erano fatti cantori e sponsor, come “non plus ultra di civiltà” (era passata di moda la loro vecchia passione per l’Urss come paradiso terrestre e modello da imitare, anche per la Chiesa). Che ve lo dico a fa’? Ciotti subito andò in prima linea col suo solito armamentario chiacchierone: tour di convegni in giro a spiegarci quanto erano belli buoni e bravi i clandestini, e più ce n’erano meglio era; i soliti numeri verdi e telefoni amici, le solite leghe, associazioni e l’auto-incoronazione napoleonica del Ciotti a loro presidente-imperatore. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaudì e lo premiò molteplici volte. Ma dopo un po’, pure questa “moda” buonista con relativa retorica dell’accoglienza a prescindere, che aveva saturato tutti i media, i pulpiti e la bocca dei Ciotti e dei Tonino Bello, cominciò a scemare. Specie quando si vide che questa stessa retorica altro non aveva prodotto che un’infornata pazzesca di criminalità organizzata che invase tutte le città e che ancora scuote e insanguina la pacifica penisola e la sicurezza dei troppo generosi italiani. Generosità che nel frattempo, giustamente, s’era trasformata in risentimento.

Sentendo puzza di bruciato, mancando ormai di stimoli e di visibilità, don Ciotti stava col dito umido per aria per captare che altra corrente modaiola spirasse. Uomo fortunato, e contraddittorio, la trovò subito bella e pronta.

Contraddittorio, sì. Se è vero che alle sue spalle ora si lasciava la moltiplicazione di pani e pesci dell’immigrazione clandestina indiscriminata e persino aizzata; ossia un dilagare di manovalanza criminale anche al servizio delle mafie. E proprio adesso il Don, proprio lui, sta per buttarsi anema e core nell’oceano mediatico della “lotta”, a forza di mitragliate di logorrea, “alle mafie e alla criminalità” organizzate. Contraddittorio… Ma tant’è! Lo dico con un sorriso: sembra che prima di imbracciare una nuova moda solidaristica, si premuri, negli anni che la precedono, di coltivarne la potenziale clientela con cui “solidarizzare”. Fateci caso: per un tot di anni, come ogni radical, predica per una presunta “buona” cosa, poi quella cosa accade davvero e puntualmente è un disastro, dunque da predicatore diventa infermiere dello stesso male che ha coltivato (in buona fede, spero). Un ideologo consumato!

E infatti siamo nel 1992. Salta in aria il giudice Falcone e poi Borsellino: ne deriva un immane e giusto clamore, non sempre sincero (e mai da dove te l’aspetti) da parte di troppi . È l’argomento di fine secolo. E qui Ciotti darà il meglio e dunque, alla fine, il peggio di sé. Fonda Libera, e inizia allora un chiacchiericcio che dura da vent’anni. Ma siccome spesso manca di pretesti per gridare “al lupo al lupo”, alla fine è diventato una specie di don Villa dell’antimafia delle chiacchiere: come don Villa vede massoneria dappertutto foss’anche in un circo equestre, alla stessa maniera il Nostro grida “è mafia è mafia”, anche dinanzi a un petardo natalizio. Purché se ne parli. L’intellighenzia mondana, qui pure, plaude e molteplici volte lo premia. Ormai è un abbonato speciale.

IL RADICAL-CIOTTISMO PORTA INFINE LADDOVE DALL’INIZIO ERA STABILITO DOVESSE PORTARE: ALLA RELIGIONE CIVILE. Tuttavia nel nuovo millennio pure la mafiologia e la mafiopolite acuta da talk-show, l’antimafia delle chiacchiere, ha cominciato a scricchiolare, almeno nell’interesse dei media. Vuoi perché i successori di Falcone e Borsellino erano palesemente indegni e marchiati a sangue di ideologia radical-comunista, e la lotta alla mafia è rimasta tale solo sulla carta diventando invece nei fatti un gioco sporco al massacro di lobby togate estremiste ai danni di Berlusconi; vuoi anche perché il fenomeno mafioso, almeno in Sicilia, per così come lo abbiamo conosciuto sta mostrando un fisiologico calo di peso, un ridimensionamento e una trasformazione, essendo prossimo a diventare qualcosa d’altro, per ragioni che non sto qui a spiegare. E allora, stante tutte queste magre vacche mediatiche, Ciotti ha rimesso il dito per aria per capire dove tirava il vento giornalistico. E in men che non si dica… l’ha indovinato.

Porta laddove sin dalle origini era stabilito dovesse portare, perché era inscritto nel suo Dna, l’ideologia radical-ciottista, fatta passare per clericato “impegnato”. Alla religione civile. Al culto del dio Stato; al feticcio della Costituzione; all’estremismo legalista; alle liturgie politiche; alla sociologia come nuova teologia. All’ideologia che è alla base della fine della civiltà cristiana: quella sorta dalla Rivoluzione Francese. Con tutto il corollario trombone ma pericoloso che ne deriva: mondialismo, ecologismo, monetarismo, pacifismo da paci-finti, umanitarismo ateo e peloso, filantropismo rapace ed esibizionista. È scritto ne Il Nome della Rosa: “Il Diavolo sa dove va, e andando va sempre da dove è venuto”. Perciò le mode del mondo, ossia le ideologie, anche clericali, sono la Sua strada e il Suo arco trionfale. E il trionfo di chi ne viene a patti. Quei “falsi trionfi” dettati dalle mode, che sono lo spirito del mondo e lo spirito del mondo è Lucifero, e che hanno la forza di far perdere la testa ai saggi ai potenti ai preti. “Trionfi” contro i quali Gesù stesso ci metteva in guardia. Lo stesso Gesù che ripetutamente nei vangeli ci ammonisce a guardarci dalla “gloria del mondo”, perché è un inganno. Soprattutto perché non è questo il destino del cristiano; poiché, ha predetto il Signore, il suo destino vero sarà sempre, fino alla fine dei tempi, la persecuzione e il martirio, l’infamia e non gli onori del mondo. “Hanno perseguitato me: perseguiteranno anche voi. Ma io vi dico: beati voi quando a causa mia diranno di voi, mentendo, ogni sorta di male”. Da questo si può discernere fra il vero e il finto cristiano, fra il vero servo di Dio e il servo del Mondo, fra l’agnello e il lupo travestito da agnello.

DIFFIDATE DEI PRETI PIENI DI PATACCHE . Io l’ho per regola. Diffido sempre di quei (rari, va detto) cattolici che sono ospiti “d’onore” ovunque, travolti da applausi, specie da parte di chi più è lontano dalla Chiesa, dai suoi nemici più spietati talora; diffido dei preti invitati a tutte le trasmissioni e a tutti i convegni, premiati con ogni patacca e in ogni circostanza pacchiana. Lì qualcuno sta barando: la gloria del mondo ha per compagna la menzogna. E poi la “tristezza”, dice l’Ecclesiaste. Mi fido dei martiri e dei perseguitati, dei preti umiliati a causa della loro fede, di coloro che parlando delle cose sante suscitano scalpore, sdegno, rifiuto, oltraggio dal mondo. Non dei pavoni che fanno sempre la ruota nel giardino zoologico dei preti da baraccone per la gioia del documentarista e per arruffianarsi la sazia apostasia di questo mondo che prima si è fatto nemico e poi estraneo a Dio. Lo spirito del mondo, le mode ideologiche, sono un’attrazione irresistibile per Ciotti. Questo intendo dire quando ribatto al suo definirsi “prete di strada” con un “prete da marciapiede”. Badate, non sono così cretino da mendicare in giro querele che a questo punto sarei io stesso a consigliare alla parte “offesa”: non intendo dire che don Ciotti è una puttana o una persona di costumi equivoci (e anzi, da quel punto di vista lì – spero di non sbagliarmi – credo sia stato sempre pulito). Niente di tutto questo. Intendo dire proprio che sta sul marciapiede ad aspettare che passino le carrozze con a bordo le nuove mode ideologiche: andrà con quella che offre di più. “La gloria del mondo ha per compagna la tristezza”, dice l’Ecclesiaste, dunque. Al momento, però, il Nostro ci pare abbastanza su di giri. Lo è da 40 anni.

LA MOSCA SARCOFAGA . Stavo vedendo uno dei brutti film horror anni ’70 di Dario Argento. In uno, un tale, una specie di sbirro, alleva delle grosse mosche sarcofaghe, o meglio: la mosca sarcophaga carnaria. Ora, chi come me s’intende di medicina legale e fenomeni cadaverici, sa che questa strana mosca è affamata di cadaveri, ne è la principale cliente e devastatrice: ci depone sopra le sue larve. Ma soprattutto ha un fiuto infallibile nello scovarli. Ecco perché lo strano sbirro le allevava: liberandole e inseguendole, riusciva a ritrovare nei boschi i corpi degli assassinati. M’è saltato in mente don Ciotti: pure lui appena succede qualche plateale e misterioso fatto di sangue, da Roma in giù, non si sa come questo qui mezz’ora dopo è già sul posto. Naturalmente, subito dopo i fotografi. Più fulmineo delle mosche sarcofaghe. E, in tutto questo macello di Brindisi, non poteva che piombare come mosca sarcofaga sul luogo della tragedia, don Ciotti, con la sua “Carovana” carioca, di post-cattolici, post-comunisti, post-femministi, post-brigatisti, post-figli dei fiori, post-conciliaristi, post-preti, post-italiani, post-tutto. Il carro variopinto degli hobbisti dell’antimafia delle chiacchiere, con i loro slogan a misura unica, unisex e buoni per tutte le stagioni: per protestare indistintamente e con la stessa disinvoltura, a suon di chiacchiere, contro la mafia immaginaria, contro i terroristi, la guerra, la pena di morte, il carcere, il capitalismo, Berlusconi, il fascismo, l’antisemitismo, per la “pace” (da quando non c’è più l’Urss a invadere paesi inermi, almeno… da quei paci-finti che sono), l’acqua, il vino, la pagnotta, la patonza… per tutti, meno pene ai carcerati, più pene ai mafiosi, più pene e basta, più marce e meno messe (e forse, visto il senso della liturgia del Nostro, è pure meglio), più “strada” e meno altare. Ma la cosa che fa più ridere di questi professionisti del carnevale permanente e di questo post-prete, don Ciotti e i suoi fratelli e fratelle, è una in particolare. Che sinistramente schiamazzanti come avvoltoi piombano in tempo reale laddove sentono odor di carne bruciata, non importa se umana o da kebab o da arrosto di fiera della porchetta. È ininfluente. Loro imperterriti ci piombano addosso, la impugnano con gli artigli, la sollevano in aria sventolandola e qualunque cosa sia, foss’anche un gatto morto, a prescindere, si mettono isterici a gracchiare “è mafia!”; e via con gli stessi slogan, le stesse sentenze apocalittiche, le stesse soluzioni ideologiche, le stesse frasi ad effetto (lassativo), gli stessi cartelli appesi al collo usati per qualsiasi altro evento negli anni passati, magari contro Berlusconi: “E adesso uccideteci tutti!”, “La mafia uccide, il silenzio anche”, per tacer dei barattolini Manzoni-style con su scritto “La mafia è merda”.

IL SILENZIO SE NON TI “UCCIDE”, TI EVITA MOLTE FIGURE DI MERDA. Tuttavia, molte volte, il silenzio se non ti “uccide” ti evita molte figure di… merda, giacché siamo in tema. E non è un caso che appena il Ciotti ha saputo che c’era “carne sul fuoco” a Brindisi, non si sa come, in pochi minuti ci è atterrato su, gridando ai quattro venti: “Mafia! È mafia! La mafia uccide! Il silenzio pure! Venite allo scoperto mafiosi!”. Ancora si dovevano spegnere le fiamme, che lui già denunciava a tutti i microfoni “l’omertà” della popolazione brindisina che, appena sveglia e stordita com’era per il botto, non riusciva a capire manco cosa fosse successo. Anche quando già da subito a tutti era evidente che la Sacra Corona non c’entrava una mazza perché non erano cose che rientrassero nel suo stile quelle, né aveva la forza politica ed economica per osare tanto, il Nostro non ha desistito: non avendo da trent’anni altri slogan, passando solo questo il convento, essendo solo quello il suo repertorio circense, lo usa indiscriminatamente ad ogni replica e in ogni situazione: “Mafia purchessia!”. Però siccome il senso del ridicolo, infine, lo ha pure lui, ha annacquato dopo 24 ore il “sola Mafia” (variante del “Sola Scriptura” di Lutero) con “e anche la massoneria”. A quel punto non restava che ridere! Se non altro perché la prassi politicamente corretta e la filantropia pelosa di Ciotti, nel quale ogni residuo di Dio cristiano scompare nel solo umano, anzi, nel solo sociale, disciolto nell’acido della “società civile” insomma, altro non è che la quintessenza, la realizzazione pratica manu sacerdotali delle più viete teorie della più classica massoneria.

CIOTTI GRIDA “E’ MAFIA!”. MA I GIUDICI CHIEDONO AIUTO PROPRIO ALLA MAFIA. La situazione diventa ancora più paradossale se si pensa che la stessa (non sai se più stravagante o imprudente) magistratura pugliese, attraverso il procuratore Cataldo Motta, che – almeno dicono – essere il “massimo esperto di questo fenomeno criminale” (la Sacra Corona Unita), cioè  ha (papale papale) chiesto alla mafietta pugliese di “collaborare” in qualche modo con la giustizia per scovare gli attentatori. Non basta. Mentre il prete con la “carovana” ancora sbraita a destra e manca, “mafia… omertà… c’è la mafia e pure un poco di massoneria”, mentre avviene tutta questa pretesca ridicola sceneggiata, avviene pure un’altra cosa. Vi leggo dal giornale: “Raffaele Brandi, ritenuto uno dei capi più rappresentativi della frangia brindisina della Sacra Corona Unita, ha avvicinato il caposcorta del pm Milto de Nozza e gli ha comunicato non solo che la SCU non c’entra ma che si muove in parallelo alla giustizia. ‘Dite al procuratore che se li prendiamo noi gli attentatori, ce li mangiamo vivi, è questo il messaggio’”. E mò? Che dire? Mentre don Ciotti straparla di “mafie”, pure il capo della Sacra Corona Unita “cerca il colpevole”. E lo va a dire direttamente al capo della scorta del procuratore di Brindisi De Nozza. Oltre a notare che dinanzi ai teledrammi (che non sono mai il dramma vero) tutte le istituzioni dello Stato italiano, mafie comprese, sono unite; oltre a capire che tutti hanno capito che il colpevole deve essere un pazzo isolato che non conta una mazza; oltre tutto questo, viene da domandare una cosa, al caro Milto de Nozza in primis: a Brindisi esiste ancora il reato di associazione mafiosa? Siamo o non siamo qui in presenza di un capomafia reo-confesso? Non è per arrestare questi qui che gli paghiamo la scorta? E allora: perché è a piede libero il capomafia di Brindisi? Dunque, dinanzi a tutto questo, a questi professionisti, a questi acchiappafantasmi dell’antimafia delle chiacchiere, che precipitano ogni tragedia in farsa e in carnevale… ma come fai a no ride’?

SE PER L’INCHIESTA JACINI AL SUD “TUTTO È AFRICA” PER CIOTTI “TUTTO È MAFIA”. Ma don Ciotti non ride. Insiste. Celebra la messa – se così posso chiamarla – a Mesagne, presente il povero padre della vittima. Dal pulpito urla, sbraiti, tempeste di slogan antimafia; sussultano ammutoliti i tabernacoli e le incolpevoli sacre statue, al gracchiare del prete “da strada”, del cappellano degli acchiappafantasmi contro l’immaginaria “omertà” (a indagini in corso) del popolo brindisino. Anche ora che è chiaro non c’entri nulla la mafia, che anzi è oltremodo, oltre la legalità persino, collaborazionista; ora che tutti cominciano a vedere chiaro che di qualche psicopatico deve essersi trattato.

Mentre accade tutto questo ti chiedi cosa centri questo post-prete con Mesagne? E quell’omelia, se così posso chiamarla, col solito bollito misto riscaldato, che c’entra con Mesagne, Brindisi, Melissa? “La malattia da sconfiggere è l’indifferenza” dice il presidente di Libera, nella piazza di Mesagne dove ha fatto tappa la Carovana contro tutte le mafie, Berlusconi compreso, è chiaro. “La forza sta in chi si rialza, e noi ci rialzeremo”. “Il problema della criminalità, della mafia, della massoneria è un problema di tutti ed ecco perché la Carovana continuerà a ‘sgrattare’ le coscienze”. Poi ha invitato tutti a “non avere paura”: “Bisogna evitare che tutto diventi terrore, paura, è necessario reagire”. Mafia? Massoneria? Omertà? Ma cosa crede questo acchiappafantasmi che Mesagne sia El Salvador? Giacché è un torinese, come tutti i torinesi dabbene per quanto “da strada”, crede che da Roma in giù, tutto quello che si incontra, fosse anche un vigile urbano, tutto è mafia. Da vero epigono dell’altro nordico, Stefano Jacini, quello dell’Inchiesta meridionale famigerata e insolente, che andando al Sud era convinto di trovarci l’Africa, e tanto ne era convinto che standoci altro non vedeva che “Africa” davvero, e dopo esserci stato, tornando a Torino, scrisse nell’Inchiesta parlamentare: “E’ Africa! Anzi, no: l’Africa al confronto è fior di civiltà”. Sono invasati da strisciante razzismo tutto torinese e dai più vieti e spocchiosi pregiudizi sebbene spacciati per compassionevoli, e non se ne rendono conto. “Omertà” poi… Se c’è mai luogo dove si fa più chiasso intorno a ‘sta roba è proprio la Puglia! Basti pensare ai casi di Avetrana, dei fratellini di Gravina, della piccola Maria Geusa, solo per citare i più noti. “Omertà”, “indifferenza”, dice: se i brindisini davvero sapessero chi è il colpevole dell’attentato, lo andrebbero a prelevare e lo squarterebbero vivo. Persino la mafietta locale ha garantito farebbe lo stesso. Tutto ‘sto solito casino parolaio, tutte queste carovanate, per una tragedia provocata da nient’altro (a quanto pare) che un matto! Se vai da don Ciotti e gli dici, “sai chi è stato? Uno psicopatico”. Sapete cosa dirà don Ciotti, appena individua una telecamera? “E’ il clima mafioso che genera questa follia!”. È un po’ come i medici ciarlatani degli anni ’30, che per qualsiasi malattia, dalla febbre alla varicella al cancro maligno, prescrivevano sempre e solo una cura: una purghetta di olio di ricino. Così come pure, qualsiasi fossero i sintomi psicosomatici, la malattia che diagnosticavano aveva un solo nome: “esaurimento nervoso”. Così Don Ciotti, qualsiasi cosa accada, ovunque accada, in qualsiasi forma accada, anche un incidente stradale, ha una sola diagnosi: “mafia!”; e una sola cura: “antimafia!”… della chiacchiere. Che permettono di fare pubblicità in ogni caso alla sua florida e ricca creatura: l’associazione Libera.

CIOTTI SI SCUSA: GLI È SCAPPATA UNA PAROLACCIA: HA CITATO GESÙ.  Mi raccontava un mio amico veneto, Federico: “E’ venuto a parlare da noi don Ciotti. Sono andato a sentirlo per curiosità. Ha fatto un sacco di chiacchiere, ha detto un sacco di parole a getto continuo e a ruota libera, cose che poteva dire qualsiasi laico, laicista persino. Ad un certo punto si è bloccato, è sembrato vacillare, incerto e ha detto timidamente: ‘Vi chiedo scusa se mi permetto di citare per una volta una frase di Gesù’”. Lui, prete, si è scusato per essersi fatto scappare una frase di Gesù invece che di Gaetano Salvemini! Sì è scusato per l’eventuale equivoco e confusione che avrebbe potuto ingenerare nella folla di comunisti trinariciuti, arcobalenisti, pacifinti, cattolici adult(erat)i e post-cattolici adult(erin)i, dicendo qualcosa di cristiano, invece che, magari, di sociologia fatta in canonica; se ha citato Cristo, invece che, chessò, il Dalai Lama. La verità è che è un uomo e un prete nato vecchio, è il seminarista sessantottino di sempre, progressista ma non aggiornato: è fermo ad arrugginiti luoghi comuni e sulfurei schematismi ideologici degli anni ’70. Quella poltiglia di “buoni sentimenti” e “sensibilità sociali”, umori viscerali e sociologismi, classisti e al contempo umanitaristi, che, proprio in quegli anni, nella Chiesa si trasmutarono in apostasia, con i preti contestatori; nella politica, in proiettili, con i terroristi: i primi volevano “liberare” la Chiesa e la “coscienza individuale”, i secondi il “popolo” e la “coscienza operaia”. Gli uni demolirono mezza Chiesa, gli altri mezzo Stato. Nel sangue molto spesso. E infatti vedi che in alcune nazioni, i primi si unirono ai secondi: ne nacquero i preti guerriglieri. E chiamarono tutto questo “teologia della liberazione”. Oggi abbiamo Libera. Dice l’amico Francesco da Bari: “Mafioso e omertoso. Per Libera questi termini equivalgono ad eretico e scomunicato, laddove invece legalitario ha preso il posto di santo, e sull’ambone invece che le Scritture trovi il codice penale. Il Padre eterno non è il Giudice, è un semplice presidente di corte d’Assise”. Sì, è vero. Come è vero che nella sua logorrea incontenibile, in questi 40 anni, c’è una sola parola che Ciotti non ha mai usato: “Cristo”. Abbiamo visto: gli è scappata una sola volta e se n’è scusato. Ma è un’altra la parola che non gli è mai “scappata”, che proprio non riesce a pronunciare, gli si blocca in gola: “peccato”! E tutto quello che ne deriva: pentimento, penitenza, conversione. E pur di non pronunciarla mai ha sostituito la parola “peccato” con quella di “reato”, “peccatori” con “mafiosi”, “colpa” con “imputato”, “confessore” con “magistrato”, “penitenza” con “pena”, “comandamenti” con “codice penale”, “legge divina” con “costituzione”, “convertito” con “pentito o collaboratore di giustizia”. Per lui, fermo com’è agli schemi arrugginiti degli anni ’70, non esiste il peccato individuale, ma solo la “colpa sociale”. Per questo, per non dover usare la parola “peccato” si è messo a marciare, ha sostituito le messe con le marce, la Chiesa con Libera, la coscienza cristiana con la coscienza civile (ridotta a farsa pure questa). Ed è così che gli sfugge la vera madre di tutti gli eccessi, l’origine d’ogni male: il Peccato. Che egli ha abolito motu proprio. Come mi scrive un mio amico, Vincenzo, riferendosi sardonico al Nostro: “Ma che confessione… non c’è bisogno: basta una chiacchierata mentre sei in un corteo!”.

DIO, IL GRANDE SCONOSCIUTO D’OCCIDENTE. Proprio adesso ascoltavo le parole del Papa, su Cristo che in Occidente è diventato il “Grande Sconosciuto”. E ho pensato al Ciotti che chiede scusa perché gli è scappato di citare Gesù. Dice Benedetto XVI: “Tanti battezzati hanno smarrito identità e appartenenza: non conoscono i contenuti essenziali della fede (…). E mentre molti guardano dubbiosi alle verità insegnate dalla Chiesa, altri riducono il Regno di Dio ad alcuni grandi valori, che hanno certamente a che vedere con il Vangelo, ma che non riguardano ancora il nucleo centrale della fede cristiana. (…) Purtroppo, è proprio Dio a restare escluso dall’orizzonte di tante persone; e quando non incontra indifferenza, chiusura o rifiuto, il discorso su Dio lo si vuole comunque relegato nell’ambito soggettivo, ridotto a un fatto intimo e privato, marginalizzato dalla coscienza pubblica. Passa da questo abbandono, da questa mancata apertura al Trascendente, il cuore della crisi che ferisce l’Europa, che è crisi spirituale e morale: l’uomo pretende di avere un’identità compiuta semplicemente in se stesso. In questo contesto, come possiamo corrispondere alla responsabilità che ci è stata affidata dal Signore? (…) In un tempo nel quale Dio è diventato per molti il grande Sconosciuto e Gesù semplicemente un grande personaggio del passato, non ci sarà rilancio dell’azione missionaria senza il rinnovamento della qualità della nostra fede e della nostra preghiera; non saremo in grado di offrire risposte adeguate senza una nuova accoglienza del dono della Grazia; non sapremo conquistare gli uomini al Vangelo se non tornando noi stessi per primi a una profonda esperienza di Dio”.

“HO VISTO PEZZETTI DI CARNE SPARSI”. MA LO HA COLPITO SOLO “UN QUADERNO DI EDUCAZIONE CIVICA”. Due giorni dopo don Ciotti è a Cecina: essendo prete “da strada” batte tutti i marciapiedi della nazione. A parlare di se stesso. Dei suoi “secondo me”. Di fantasmi. Di carovane e associazioni acchiappafantasmi. Di Costituzione. Di tutto, meno che della sola cosa della quale dovrebbe parlare: di Cristo, del peccato, della conversione. Ho spesso informatori volontari, che mi si fanno vivi con notizie fresche che non ho richiesto ma che poi mi tornano sempre utili. Un amico di Cecina, infatti – dove il Ciotti è andato dopo Mesagne a “predicare” le meraviglie del costituzionalismo – mi manda un essenziale ed espressionista quadretto della situazione. Lascio a lui la parola. “Se ti interessa ieri il Ciotti ha raccontato un aneddoto sulla sua visita a Mesagne: ‘Ho chiesto alla scientifica di sorpassare l’area che avevano recintato, mi hanno fatto passare, sono rimasto impressionato dai pezzi di carne sparsi su tutto il piazzale, ma mi sono soffermato su un particolare: un quaderno scritto da una delle ragazze coinvolte nell’attentato, ho sfogliato le pagine ho trovato che avevano fatto una lezione sulla nostra Costituzione (aria commossa), sì, avete capito bene, avevano fatto lezione di educazione civica a scuola. È proprio da qui che il nostro paese deve ripartire‘. Standing ovation.” Chi ha ucciso, non ha violato l’apposito comandamento divino, no: ha violato la Costituzione; chi uccide non è un peccatore, ma un reo; non la dottrina, ma l’educazione civica. L’uomo si salva da sé attraverso le sue leggi e i suoi organigrammi, le sole cose che possano giudicare e salvare gli uomini. Dio è un attore impotente, e anzi, è giudicabile persino attraverso quelle stesse leggi. Se quelle leggi sono contro Dio, non sono sbagliate le leggi, è “sbagliato” o è stato “malinterpretato” Dio stesso. Cosa sta strisciando nelle vene di Ciotti, oltre al peccato di orgoglio, l’archetipo dei peccati, il primordiale, il primo che fu commesso e che ha lambito persino l’arcangelo Lucifero, precipitandolo dai cieli, e Adamo ed Eva, precipitandoli dal paradiso terrestre? Che cos’è a strisciare sibilante nelle sue vene se non il riemergere di antiche eresie, soprattutto gnostiche e pelagiane?

SOSTITUIRE IL DECALOGO CON LA COSTITUZIONE, IL CONFESSORE COL MAGISTRATO. Come avrete notato da voi stessi, non sembra particolarmente interessato ai “pezzetti di carne”: sono un dettaglio secondario ai suoi fini ideologici. Ciò che gli interessa è la Costituzione, il culto di quella carta giuridica che è il totem, il sancta sanctorum, il vitello d’oro dei nuovi pagani di oggi, i laicisti con corollario di post-preti “adulti” sino al punto di essere ormai anche post-cristiani. E qui viene fuori anche tutto il cinismo inconsapevole dell’ideologo. Erano un’occasione quei “pezzetti di carne” per riflettere e far riflettere sul Decalogo, sul peccato, la morte, gli assoluti. Ma no, gl’interessava impugnare il feticcio dell’ideologo, la “Carta”, la nuova Rivelazione: la Costituzione. Ossia una banalissima lezione scolastica di educazione civica in un istituto professionale, fatta alla meno peggio nell’ora prevista, immaginiamo nella totale catalessi degli studenti col pensiero rivolto alla campanella. Ma siccome il Nostro è un ideologo fermo agli anni ’70, non gli interessa la banale e demitizzante realtà dei fatti, il tran-tran quotidiano, le cose viste nella loro reale giusta misura, no: gli interessa la “bella idea”. E così nella sua testa dal capello sempre unto, quel quaderno di svogliati appunti della lezione di educazione civica, diventa una gran cosa, immagina studenti dall’acuto senso civico, novizi ardenti del neo-costituzionalismo pendenti dalle labbra dell’insegnante precario che gli annuncia le verità rivelate e le secrete cose che da quella Carta secernono. Immagina un popolo di giovani eroi, che, Costituzione alla mano, commossi e coraggiosi marciano invitti per tutta la nazione incontro alla Città del Sole, la nuova Gerusalemme della religione civile.

NON IMPORTA CHI È DIO, MA DA CHE PARTE STA”. IL MANCATO LEADER SOCIALISTA. L’amico di Cecina, infatti, aggiunge: “Riassunto della serata: Culto della Costituzione, dello Stato, della democrazia, della legalità (tranne che per la Bossi-Fini) e soprattutto della Scuola (statale, ca va sans dire); dice cose condivisibili (no alla mafia, all’illegalità) e mi parla male di Eminenze e sottolinea che senza lavoro non si è liberi. Parla con un certo carisma e ha ottime doti di recitazione e buona oratoria: sarebbe stato un ottimo leader del Partito Socialista Italiano. Slogan della serata: Non importa sapere chi è Dio ma da che parte sta, cantato da un menestrello napoletano con voce solista di un sacerdote toscano di Libera”. Non importa chi è Dio, ma da che parte sta. Naturalmente, non avendo più nessun connotato, essendo Uno Nessuno Centomila, amorfo e sfigurato come l’hanno fatto diventare questi qui, non può che stare da qualunque parte lo si voglia portare, “trascinato da tutte le parti secondo ogni nuovo vento di dottrina”, dirà il cardinale Ratzinger alle esequie di Wojtyla. Per questo don Ciotti lo sente sempre dalla sua. Il suo dio minore non è altri che il “secondo me”, la cui rivelazione è contenuta nella carta costituzionale, nuovo libro sacro. Egli ne è il cappellano. Non è un caso che l’ultima volta che l’ho incontrato, è stato davanti alla bara del sommo pontefice della religione fatta di carta… costituzionale: Oscar Luigi Scalfaro.

QUEGLI STUDENTI CHE MARCIANO PER MARINARE LA SCUOLA LECITAMENTE: SENZA FANTASIA, SENZA SINCERITÀ.  Vedo il tg e leggo l’Ansa a una settimana dalla tragedia di Brindisi. E noto con fastidio alcune cose. La prima è la canonicissima ennesima “marcia” all’italiana: la liturgia madre, la messa cantata del politicamente corretto di piazza, negli ultimi tempi. Che naturalmente si tiene nella città che ha dato i natali a me e a Melissa: Mesagne. Chi marcia sono gli studenti. E la prima cosa che ti domandi è se non sia (siamo realisti!) più un marinare la scuola e una scampagnata, per giunta illuminata da flash e telecamere. Basta fare un calcolo: una marcia che non significava niente e che pestava acqua nel mortaio, la si tiene un mattino di un giorno scolastico. Eppure potevano farla in un giorno festivo, o meglio ancora nel pomeriggio, quando le scuole son chiuse. E invece no. Quella marcia in cui dei brufoloni berciavano e blateravano di “mafia” senza una logica, un fondamento, e anzi con già pesanti indizi che la discolpavano del tutto, quella marcia lì priva di senso, un senso lo avrebbe avuto se il marciare avesse comportato anche un sacrificio: la mattina andare a scuola, il pomeriggio invece che andare in giro a cazzeggiare, impegnarlo per marciare. Così non è stato: dunque era, a mio avviso – ché studente brufolone pure io son stato, e ben le conosco queste babbiate – , un marinare la scuola. Con l’aggravante dell’ipocrisia. E del cinismo. Ma poi. Bastava guardare i loro slogan per capire che non erano sinceri: la solita roba usata da vent’anni in tutte le salse: “Io non ho paura”, “E adesso uccideteci tutti”, “La mafia è una montagna di merda”, “La mafia uccide, il silenzio pure” e bla bla bla. Slogan senza fantasia, solita frittata parolaia, solita minestra a merenda, pranzo e cena. Da qui t’accorgi che non erano sinceri: dalla mancanza di fantasia (oltre che dall’aver marinato la scuola). E’ quando le cose ti coinvolgono, le senti veramente, che la fantasia si scatena. Ma in questa stanca parata delle vanità? Questo usare a casaccio il solito repertorio ciottesco senza fare uno sforzo d’immaginazione, metterci del proprio, adattarlo al contesto, indica che non sapevano di che stessero parlando, che avvertivano l’artificiosità della situazione. Perché non erano sinceri. Sapevano bene che era tempesta in bicchier d’acqua, simulazione a uso e consumo dei media. Che di altro non si trattava che sindrome da marcite cronica, nella variante mediterranea di chiacchierite da antimafiosite mitomane.

È POLITICAMENTE SCORRETTO DIRE “LA MAFIA NON ESISTE”, ANCHE SE È VERO CHE NON ESISTE. Naturalmente, in questa marcia, c’era pure tutto il resto dell’armamentario giornalistico standard per i casi falsi o presunti di “mafia”. C’era pure in questa occasione un’altra volta don Ciotti a sbraitare nella Mesagne che mi ha visto nascere “contro la mafia”, “l’omertà”, “la gente che ha paura della mafia” e “tace”… e tace soprattutto perché di tutte quelle porcherie sopra elencate non ce n’è manco l’ombra, e quindi che deve dire? C’era pure l’immancabile altro classico della tv italiana, il solito giornalista imbecille e, direbbe Sgarbi, “raccomandato e rottinculo”, che accosta col microfono un povero vecchio che ignaro prende il sole davanti al BarSport a domandagli d’improvviso: “La mafia a Mesagne esiste?”. E quello cade dalle nuvole, ma avvertendo subliminalmente, dinanzi alla tirannia nazista del microfono sciacallo, che è politicamente scorretto dire che la mafia non c’è anche se è vero che non c’è, nell’imbarazzo tace, tanto se dicesse la verità, che la mafia a Mesagne non c’è non solo non sarebbe creduto, ma passerebbe pure per “omertoso”, forse “colluso” e certamente un poco “fascista”. E dalla sera alla mattina un contadino ottantenne che ha lavorato onestamente la terra per una vita, si troverebbe “uomo d’onore”; e infatti, l’altro vecchio, più spigliato, dice giustamente “io non l’ho mai vista”. Risultato: giornalista Rai grida ai quattro venti: “Aveva ragione don Ciotti, ecco la città mafiosa, la gente ha paura della mafia, l’omertà dilaga”. Retorica da antimafia delle chiacchiere. E che, chiacchierando chiacchierando, calunnia. Mesagne non è la prima vittima dei professionisti dell’antimafia delle chiacchiere: le sue vittime, più numerose ormai di quelle della mafia stessa, contano nomi sempre più eccellenti: da Andreotti a Berlusconi. Tutti, naturalmente, assolti con formula piena da tribunali non certo di destra. Mentre quelli che davvero torturarono in vita giudici come Falcone, per poi farselo “amico” appena saltato in aria, quelli non li processa nessuno, anzi, sono fra i massimi notabili dell’antimafia della chiacchiere: parlo per esempio di Leoluca Orlando, o anche del giornale la Repubblica. E infatti scopri che chi ha tentato di aiutare Falcone, con leggi durissime che la mafia l’hanno messa in crisi sino a spingerla a sparargli addosso e a passare allo stragismo terrorista pur di farsele abolire; che chi ha tentato di salvare per amicizia Falcone dall’orda infame, calunniatrice e vigliacca dei suoi colleghi magistrati rossi siciliani, sino a prospettarne la candidatura al Senato per la DC, per strapparlo a quell’ambiente avvelenato di futuri professionisti dell’antimafia delle chiacchiere e dei comizi, furono proprio due personaggi a loro volta perseguitati dai persecutori di Falcone: Andreotti e Calogero Mannino. Guardacaso gli stessi che poi i professionisti dell’antimafia dichiararono “mafiosi” e trascinarono, naturalmente senza una prova, in tribunale. Per sfregio, per odio ideologico. Guardacaso i soli (insieme a Martelli) su cui Falcone potè contare.

LA VERA MAFIA CHE PRETENDE OMERTÀ È QUELLA DEL PROFESSIONISMO DELL’ANTIMAFIA DELLE CHIACCHIERE. Da oggi, quindi, per bolla pontificia di don Ciotti, sommo pontefice dell’antimafia delle chiacchiere, l’attentato di Brindisi è opera della mafia, e la Mesagne che diede i natali al Mastino, ossia a me, è città di mafia. E non lo sapevo. Per riflesso condizionato, quindi, occhio e croce dovrei essere mafioso pure io. Potrebbe essere. Ma voi ve lo immaginate un Mastino “omertoso”?! E proprio perché non sono né mafioso né omertoso, la dico tutta: l’unica mafia, l’unico atteggiamento mafioso e che pretende omertà qualunque cosa dica o faccia, è proprio il professionismo dell’antimafia delle chiacchiere, con tutte le su “Carovane” donciottesche. Dulcis in fundo, leggo l’Ansa del 29 maggio, attenti alle sottolineature: Marcia della legalità a Mesagne (Brindisi), il paese di Melissa Bassi. ”Melissa – ha detto Don Luigi Ciotti, presidente di Libera – è viva, anche se fisicamente non c’é più. Stamani al cimitero ho visto che qualcuno ha attaccato due pezzi di carta. C’era scritto: Melissa vive dentro di noi. Noi ci sentiamo un po’ tutti Melissa”. No, non è vero: i morti sono morti, morti per davvero per il mondo, fisicamente e prestissimo anche “dentro” tutti: solo i genitori si porteranno dentro un dolore che appartiene solitario allo scrigno del loro cuore. Tutto il resto sono chiacchiere. Se non sei una grande mistica, una grande leader, una maitre a penser, che ha segnato la storia, le cose stanno così: sei morta davvero. Mi fa schifo l’ipocrisia che dice le cose “che si devono dire” in determinate circostanze anche se non sono vere: l’ipocrisia sui morti, la menzogna invece della preghiera sparsa sui loro resti, sono sacrilegio e blasfemia.

DIO È LUI, DON CIOTTI. E “LIBERA” NE È IL SUO CORPO MISTICO, LA SUA CHIESA. Come vedete, Ciotti è capace di dire di tutto, persino cose tra il pagano e lo gnostico, purché abbastanza sentimentalistico e formato La Vita in Diretta; tutto, compreso che è “viva” e magari “dentro di noi”, anziché ammettere l’unica cosa che, da prete, avrebbe dovuto dire, la più semplice: “E’ morta, è risorta in Cristo, finalmente ha visto il Suo Santo Volto”. Non lo dice perché è fuori moda, perché in fondo non ci crede, perché se ne vergogna, perché in definitiva gli sembra irrilevante ai suoi fini. Soprattutto perché gli interessa il consenso dell’intellighenzia, delle platee, i galloni della cronaca. Gli applausi del mondo. E per ottenerli è necessaria l’apostasia silenziosa: che non consiste più (solo) nella negazione plateale delle verità cattoliche, quanto piuttosto nella rimozione discreta di Dio. Da ogni contesto. Dalla propria lingua, anzitutto. Perché Dio è lui, don Ciotti. E Libera ne è il suo corpo mistico, la sua chiesa. Costruita sulle sabbie mobili delle mode del mondo. Dello spirito del mondo, cioè. Che poi, come detto, è sempre Lucifero. Tra donchisciottismo e donciottismo non vedo la differenza: Don Chisciotte combatte contro tutti i mulini a vento, scambiati per mostri dalle braccia rotanti; don Ciotti pure, credendo però di combattere la mafia. Ho qui davanti a me Il Mercante di Venezia di Shakespeare. Lo sfoglio a caso e leggo, pensando immediatamente a Ciotti e a quelli come lui: “Le forme esteriori possono ingannare, sempre l’ornamento inganna il mondo. Nei processi, quale causa disonesta e corrotta che, sostenuta da una voce graziosa, non maschera il volto del male? Nella religione, quale colpa tanto maledetta che una fronte grave non la benedica e approvi usando un testo sacro, con una bella frase celando l’ignominia? Non c’è vizio elementare che non assuma qualche segno di virtù sulle sue parti esterne. Quanti codardi hanno cuori ingannevoli come gradini di sabbia, eppure portano sul mento la barba di Marte corrucciato e di Ercole, loro che, frugati dentro, hanno fegati bianchi come il latte. L’ornamento così, non è che l’insidiosa riva d’un mare periglioso, il velo sfarzoso che nasconde una bellezza barbarica: in una parola, la falsa verità che i tempi astuti indossano per intrappolare i più saggi”. Non a caso ho sotto gli occhi una frase rivelatrice di don Ciotti, a proposito della causa di beatificazione di Tonino Bello, suo omologo pugliese, con un curriculum simile: “Occorrono due miracoli per la beatificazione di don Tonino? Ci sono! Il primo è stato l’elezione di Vendola a governatore della Puglia; il secondo, la sua rielezione”. Non c’è niente da aggiungere.

Dopo il prete cosiddetto antimafia parliamo dello scrittore cosiddetto antimafia.

PARLIAMO DI ROBERTO SAVIANO.

L’approfondimento su Roberto Saviano lo si può trovare sul Saggio “Napoli. Tra Camorra ed Anticamorra”. Prima di Gomorra. Saviano: "La rivoluzione va fatta col fucile", l'audio di quando aveva 20 anni. Lotta armata, terrorismo e anni di piombo. L'intervento dell'autore di Gomorra a un convegno quando era studente universitario, scrive “Libero Quotidiano”. Pensare che oggi è il volto rassicurante della sinistra progressista: ieri era un filoterrorista marxista senza pietà che declamava: "La rivoluzione si fa con il fucile". Parliamo di Roberto Saviano, l'autore di Gomorra e coprotagonista con Fabio Fazio di Che tempo che fa. Ora siamo abituati a vederlo denunciare le ingiustizie nel mondo con prediche grondanti moralità, ma i suoi giovanili interventi in pubblico grondavano altro. Nel 2000, quando era uno studente universitario di 21 anni, Saviano prese la parola in un convegno dal titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" presso la Federico II di Napoli. A un anno dall'omicidio (firmato Brigate Rosse) del giuslavorista Massimo D'Antona, il virgulto Saviano si lancia in una disanima degli anni di piombo il cui leit motiv è "la rivoluzione comunista in Italia è mancata per una questione di metodo". "I terroristi - diceva - hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo". Dal momento che il convegno, cui partecipavano magistrati e cattedratici, poneva anche interrogativi sul futuro, Saviano concludeva il suo intervento con un auspicio: "Vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato”. Possiamo riascoltare il Saviano-pensiero grazie a Radio Radicale. Secondo il giovane Roberto, i terroristi “Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci, che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie“. Gli anni di piombo sono dovuti quindi, stando al piccolo Saviano, a un naturale riequilibrarsi della lotta proletaria: "E così – prosegue – i terroristi prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci”. Non era spaventato dalla scia di sangue e morte rimasta sull'asfalto: quella dei terroristi era autodifesa di classe. "Un magistrato, un poliziotto, un politico - argomentava - non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura - incredibile a sentirsi oggi - non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo". E' un combattente vero l'autore di Gomorra negli anni pre-Gomorra. “La rivoluzione - arringava la platea di studenti della sua età - è la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile. La polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi”. L'origine dei problemi, in ogni caso, non era la repressione degli organi dello Stato: “Il problema – tagliava corto Saviano – rimane il capitalismo”.

E Saviano? Perde la causa su Peppino Impastato: Saviano non ci sta e attacca. In un articolo del 2008 l'autore di Gomorra parla di una telefonata avuta con la mamma Impastato. Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, la mise in dubbio e per questo fu querelato, scrive “Today”. Saviano ha perso la causa per diffamazione contro Paolo Persichetti ma lo scontro tra i due (e non solo) sembra destinato a continuare fuori dalle aule di tribunale.

Questi i fatti: in un articolo del 2008, poi pubblicato all'interno del libro del “La bellezza e l’inferno” edito da Mondadori nel 2009, l'autore di Gomorra parla di una telefonata tra lui e la mamma di Peppino Impastato, Felicia, morta nel 2004. Dichiara di averla sentita "un pomeriggio, in pieno agosto". A chiamare fu lei. "Roberto? Sono la signora Impastato" scriveva Saviano.

“Non dobbiamo dirci niente - continua l'articolo di Saviano - dico solo due cose una da madre ed una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua.”

Persichetti, all'epoca cronista di Liberazione, scrisse un articolo in cui mise in dubbio che questa telefonata fosse mai avvenuta e per questo fu querelato. Sempre nello stesso pezzo era contenuto l'altro motivo di tensione tra i due. "Si parlava del libro di Saviano "La parola contro la camorra" causa di rottura anche con il Centro Peppino Impastato. Nel libro si attribuisce un ruolo importante nella riapertura del caso Impastato al film "I cento passi" di Marco Tullio Giordana senza il quale la vicenda sarebbe rimasta quasi sconosciuta. Il Centro Impastato non veniva neppure menzionato. Saviano dimostrava di non avere buone fonti e dava mostra di non essere informato correttamente cosa che scrissi nel mio pezzo", spiega Persichelli.

La sentenza del tribunale, e in particolare del Gip Barbara Callari, del gennaio 2013 che ha dato torto all'autore di Gomorra avrebbe dovuto chiudere la faccenda ma così non è stato.

Secondo il Gip Persichetti avrebbe smentito Saviano facendo uso di dichiarazioni fatte da fonti attendibili: riprese un'intervista di Umberto Santino, presidente del Centro siciliano di documentazione "G. Impastato" che a sua volta aveva ripreso Felicia Vitale, nuora di Felicia Bartolotta da sposata Impastato, e moglie di Giovanni Impastato, fratello di Peppino.

Ecco la sua testimonianza scritta inviata in aula (vedi allegato): "La madre di Peppino non aveva il telefono e faceva le telefonate tramite me. Non mi risulta che abbia telefonato a Roberto Saviano. Faccio notare che mia suocera è morta nel 2004 e il libro Gomorra è uscito nel 2006". Oltre alla sua in aula sono arrivate le testimonianze di Giovanni Impastato e di Umberto Santino. Nella sentenza del gip NON si dice che la telefonata non c'è mai stata ma semplicemente si dice che Persichetti ha esercitato correttamente il diritto di cronaca.

La sentenza è di qualche mese fa ma circola solo ora. "A gennaio quando ci fu la sentenza del gip solo Facci scrisse un articolo su Libero", racconta Persichetti. "Il 9 maggio poi, in occasione dell'anniversario dell'assassinio di Peppino la vicenda poi venne ripresa dal blog Baruda e piano piano cominciò a fare il giro del web", continua il giornalista.

E sulla sua pagina Facebook Roberto Saviano ha deciso di dire la sua scrivendo un lunghissimo post. Eccone una parte: "Di solito mi scrollo il fango di dosso, pensando che sia il prezzo da pagare, ma su questo non ce la faccio. Su questo ho deciso di non tacere, per il rispetto profondo che provo per la memoria di Felicia Impastato e per il disprezzo profondo per chi, odiando me, lorda chiunque trovi sulla sua strada".

Le celebrità dovrebbero andarci pianissimo con le querele, perché rischiano l’accusa di lesa maestà anche quando hanno ragione, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Figurarsi se la ragione non ce l’hanno, come nel caso che andiamo a raccontare e che riguarda un querelante di nome Roberto Saviano. Figurarsi, poi, se il giornalista querelato (e assolto) si chiama Paolo Persichetti, ex brigatista latitante in Francia, condannato a 22 anni per l’omicidio del generale Licio Giorgieri e ora in regime di semi-libertà: un personaggio, insomma, che per ottenere ragione da un giudice potrebbe faticare più di altri. Ma vediamo il caso. Persichetti, su Liberazione, nel 2010 scrisse due articoli. Il primo riguardava i contenuti del libro di Saviano «La parola contro la camorra» e, soprattutto, la disputa che ne seguì con il Centro Peppino Impastato. La polemica in effetti ci fu: il Centro rivendicava un ruolo nella riapertura del caso di Giuseppe Impastato – ucciso dalla mafia a Cinisi nel 1978 – dopo che Saviano, nel libro, aveva attribuito ogni merito al film «I cento passi» di Marco Tullio Giordana senza il quale, parole sue, la vicenda sarebbe rimasta «una storia minore confinata nelle pieghe degli anni Settanta». Il Centro non veniva neppure menzionato. Tornando all’articolo: Persichetti oltretutto forniva la ricostruzione di una presunta telefonata tra Saviano e Felicia Impastato (madre di Giuseppe) e giungeva a sostenere che la conversazione non era mai esistita: e citava, come fonti, due parenti della madre (che nel frattempo è morta, e non può confermare o smentire) ma anche Umberto Santino, direttore del Centro Impastato: «Ma lui, Saviano, non ha avuto il coraggio di querelarlo», dice ora Persichetti, «perché ha preferito rivolgere i suoi strali contro il direttore di Liberazione e me, ritenendomi forse l’anello più debole e delegittimato della catena».

Forse lo status di un brigatista condannato per assassinio, in effetti, potrebbe sembrare inferiore a quello di un mostro sacro dell’antimafia. Sta di fatto che la cosa non impedì a Persichetti, nei suoi articoli, di metterla giù molto dura: «Quando Saviano non abbevera i suoi testi alle fonti investigative», scriveva, «dà mostra di evidenti limiti informativi». La critica si faceva più stringente nel concentrarsi sul «ruolo di amministratore della memoria dell’antimafia che a Saviano è stato attribuito da potenti gruppi editoriali», qualcosa che l’ha trasformato in «un brand, un marchio, una sorta di macchina mediatica». Il contrario dell’antimafia «sociale» promossa da Giuseppe Impastato, la cui vera storia «venne a lungo tenuta nascosta anche grazie al depistaggio dei carabinieri e della magistratura. Un passato che Saviano non può raccontare».
Diciamo che non le mandò a dire, Persichetti. Non bastasse, nel secondo articolo se la prese con l’impostazione autocelebrativa dello scrittore nel programma «Vieni via con me» andato in onda sui Raitre nel novembre 2010. La sua prestazione veniva definita «imbarazzante» a margine di una «memoria selettiva e arrangiata», di «pochezza culturale», di «un monologo melenso di trenta minuti, senza contraddittorio, privo di senso del ritmo… accompagnato solo da uno smisurato e pretenzioso egocentrismo». Poi l’accusa forse più sanguinosa: l’essere Saviano «un derivato speculare dell’era berlusconiana». Da qui la querela. L’avvocato di Saviano la depositava il 12 gennaio 2011 ai danni di Persichetti e del suo direttore Dino Greco, personaggi che non avrebbero fatto altro che «vomitare il proprio odio ossessivo e ossessionato». La querela è lunghissima (30 pagine) e non risparmia il tentativo di buttare nel mucchio anche la condanna a 22 anni che Persichetti sta scontando: le parole del giornalista contro Saviano, infatti, sono definite come «una condanna inappellabile, come inappellabile fu la condanna a morte che dovette subire il generale Giorgieri». Parole come proiettili, come si dice. Dulcis in fundo, le critiche di Persichetti parevano al legale «senza alcuna finalità di pubblico interesse».

Il 6 luglio 2012, tuttavia, il pm Francesco Minìsci non era dello stesso avviso: e chiedeva l’archiviazione. La notizia di reato a suo dire era «infondata» proprio perché ricorreva l’interesse pubblico del caso. E forse proprio per ravvivarlo, il caso, ecco che Saviano il 15 gennaio scorso compariva in aula a Roma: la presenza fisica, in questi casi, riveste sempre una giusta considerazione. La sua testimonianza ha un che di grave: «Intendo qui difendere la memoria della signora Impastato che ebbe con me una conversazione telefonica (negata nell’articolo querelato)… nella quale mi esprimeva la sua solidarietà… Negare l’esistenza della telefonata non costituisce una critica, ma un attacco teso a minare il mio stesso impegno sociale e civile». Lunedì scorso, tuttavia, il gip Barbara Càllari si è presa il rischio di minare l’impegno sociale e civile di Saviano: ed ha archiviato. Il giudice ha fatto propri i rilievi mossi nella richiesta di archiviazione anche a proposito della presunta telefonata: «Nessun intento diffamatorio può essere attribuito a Persichetti, che si è limitato a fornire una diversa ricostruzione della vicenda, basata su fonti attendibili… Ricorre senza dubbio l’obiettivo interesse pubblico delle questioni sollevate… Malgrado il tono dei due articoli sia a tratti aspro… le valutazioni dell’autore attengono a circostanze precise e ben definite».

E una querela è andata. Resta in ballo, per ora, la causa civile che Roberto Saviano ha promosso ai danni di Marta Herling, nipote di Benedetto Croce e segretario dell’Istituto Italiano di Studi storici: lo scrittore ha chiesto un risarcimento di quasi cinque milioni di euro (a lei e a Marco Demarco, direttore del Corriere del Mezzogiorno) per via delle contestazioni ricevute dopo la sua ricostruzione del salvataggio di Benedetto Croce durante il terremoto di Casamicciola. Questione, siamo certi, al centro dei vostri pensieri.

Santo o bugiardo? Si chiede “La Rosa Nera”. Roberto Saviano e le sue verità nascoste. Nell’incertezza di questi tempi moderni, solo uno stolto può credere che la verità stia da una parte sola. Come ci insegnano i saggi, quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, che molto spesso sono più veritiere delle verità proclamate a gran voce.

La lezione l’abbiamo imparata un po’ tutti, soprattutto quando si tratta di personaggi pubblici. Sappiamo tutti che esiste l’altra faccia della medaglia, quella oscura, quella che non viene mostrata ai più e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che si fa di tutto per non far venire alla luce. Questa lezione sembrano averla imparata i più, ma non i fans di Roberto Saviano.

Da quando, nel 2006, Gomorra ha superato i 10 mln di copie vendute nel mondo (diventando poi anche un film di successo, girato proprio nei luoghi di camorra), di cui 2 mln 250mila solo in Italia, generando (verità o leggenda?) un’invasione mai vista prima di turisti per le strade napoletane (quelle del centro storico, sì, ma di Secondigliano; nei quartieri residenziali, sì: a Scampia), dove con libro di Saviano alla mano lo sprovveduto, impavido turista tipo “avventuroso” se ne andava in giro domandando alla gente dove potesse trovare il Terzo Mondo o visitare le fabbriche parallele, dare un’occhiata ai Visitors o fare un tour a Parco Verde, ebbene, da allora, da quando con il suo collage sul Sistema camorristico, che altro non è – e lo dicono gli esperti – una raccolta di articoli di giornale e informazioni varie reperite per vie assolutamente risapute e accessibili a chicchessia, Roberto Saviano ha fatto il botto, Roberto Saviano è diventato l’uomo simbolo della lotta alla criminalità organizzata nel mondo: l’uomo minacciato dalla camorra che paga il suo gesto di denuncia vivendo sotto scorta ma che nonostante la paura non smette di denunciare “la verità” ovunque ci sia qualcuno disposto ad ascoltare, sui giornali, nelle trasmissioni tv, in pubblici comizi nelle piazze e nelle librerie, l’indiscusso, indiscutibile paladino della giustizia e della legalità, modello di coraggio e di virtù, orgoglio partenopeo, acclamato come Maradona e rispettato come san Gennaro, un uomo senza precedenti che, da solo, ha avuto il coraggio di aprire la porta e gettare la luce sugli oscuri traffici della camorra che infetta la nostra splendida terra, oscura il sole, contagia tutti noi.

Encomiabile, certo. Che Roberto Saviano sia stato il primo a realizzare un’opera omnia sulla camorra, svelandone funzionamento e meccanismi, non è certo in discussione. Che quest’atto sia stato malvisto da alcuni esponenti della criminalità organizzata, in particolare dal clan dei casalesi, che pare l’abbia condannato a morte, salvo poi dedicarsi nell’immediato ad affari di maggiore urgenza che non fare fuori uno scrittore, come per esempio, negli anni, realizzare altre 2 o 3 esecuzioni (Domenico Noviello, per esempio, imprenditore di Baia Verde ribellatosi al pizzo e giustiziato, nonostante fosse sotto protezione, il 20 maggio del 2008; oppure Raffaele Granata, padre del sindaco di Calvizzano ucciso sempre nel 2008 e sempre perché si rifiutava di pagare il pizzo; e ancora Angelo Vassallo, il sindaco attivista e ambientalista di Pollica ucciso nel 2010, probabilmente – ma le indagini sono ancora in corso – proprio perché dava fastidio alla camorra), tutte successive alla data in cui Roberto Saviano è stato posto sotto scorta (2006).

Allo stesso modo è vero che con il suo primo libro, che è subito diventato un best-seller, Roberto Saviano ha attirato l’attenzione internazionale, dei media e della gente, su Napoli e sulla Campania, raccontandole come un far west preda della criminalità organizzata, una terra di nessuno in cui la Camorra spadroneggia a piacimento, in cui il pericolo si cela dietro l’angolo (perché è facile rimanere uccisi per sbaglio in un agguato o in un regolamento di conti), provocando di fatto con l’uscita del suo libro, in una sfortunata concomitanza con uno dei picchi dell’emergenza rifiuti, l’arresto quasi totale della macchina turistica ed economica dell’intera regione.

Tuttavia, ciò su cui mi preme puntare l’attenzione non è tanto la credibilità di quest’uomo in quanto scrittore, giornalista e denunciatore, quanto piuttosto sul modo in cui la sua presunta credibilità venga recepita e acriticamente accettata dal popolo di seguaci della legalità, che nella sua scelta di raccontare (che cosa, poi?) ha colto l’impeto sacro di un uomo illuminato dalla ragione da osannare come un profeta. Portato alla ribalta dai media, come dicevamo Roberto Saviano è diventato un guru della cultura della legalità; ma, come si rifletteva all’inizio di questo articolo, è impossibile, o comunque altamente improbabile ritenere che la verità assoluta risieda univocamente da una parte sola. Esiste sempre l’altra faccia della medaglia, e, nel caso di Roberto Saviano, l’altra faccia della medaglia è quella delle bugie. Deliberate o commesse per distrazione o imprecisione, negli anni il paladino della giustizia, imperituro oppositore dell’illegalità Roberto Saviano, ne ha collezionate un bel po’.

La discussione in merito si riapre in seguito alla recentissima notizia che ha visto Roberto Saviano perdere la causa per diffamazione intentata nei confronti di Paolo Persichetti, giornalista ed ex br, per alcuni articoli pubblicati su Liberazione. La querela risale al gennaio 2011: gli articoli firmati da Persichetti e incriminati erano 2, e contenevano alcuni fatti di “rilevanza giornalistica”. Noi ci soffermeremo su uno solo di questi fatti: ne “La bellezza e l’Inferno”, suo secondo libro, Roberto Saviano racconta di una telefonata avvenuta tra lui e la madre di Peppino Impastato, attivista e giornalista siciliano ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, in cui la donna l’avrebbe spinto a continuare la sua azione di denuncia della criminalità organizzata, invitandolo alla prudenza.

“Non dobbiamo dirci niente, dico solo due cose, una da madre e una da donna. Quella da madre è stai attento, quella da donna è stai attento e continua”.

In uno dei suoi articoli su Liberazione, per i quali è stato poi querelato da Saviano, Paolo Persichetti afferma, documentandosi alla fonte (ovvero stando alle dichiarazioni della nuora di Felicia Impastato), che questa telefonata non è mai avvenuta. Felicia Impastato infatti non aveva il telefono. Le telefonate le faceva a casa del figlio Giovanni, fratello di Peppino, passando per la moglie di lui. Alla quale non risulta che la signora Impastato abbia mai chiamato Roberto Saviano. Anche perché Felicia è morta nel 2004, ovvero due anni prima che l’uscita di Gomorra rendesse celebre il suo autore.

Ora, questo recente avvenimento di cronaca ha portato alla ribalta altre notizie simili, risalenti agli anni passati, che riguardano quella che sembra essere una certa tendenza dell’autore di Gomorra, se non alla spudorata menzogna, quantomeno alla “rivisitazione” della verità, o (non si sa se meglio o peggio, trattandosi di un giornalista) alla mancata verifica delle fonti. Cosa che un personaggio del suo calibro non potrebbe proprio permettersi.

Un altro episodio risale al 2010, quando nel corso del suo monologo “Il terremoto a L’Aquila” andato in onda durante la quarta puntata della trasmissione “Vieni via con me” e successivamente raccolto insieme agli altri in un volume dal titolo omonimo uscito nel 2011, Roberto Saviano racconta l’esperienza di Benedetto Croce sotto le macerie, anch’egli vittima e unico superstite della sua famiglia del terremoto che colpì l’isola di Ischia nell’estate del 1883. Travisando completamente il racconto del filosofo, contenuto nelle “Memorie della mia vita”, (1902), come si legge nella lettera di protesta inviata da Marta Herling, la nipote di Benedetto Croce.

Ancora, sempre nel 2010, ospite al Festival dell’Economia di Trento, Roberto Saviano sollevò un vespaio affermando che la ‘ndrangheta calabrese aveva tentato, per fortuna senza successo, la scalata al settore della distribuzione delle mele altoatesine, tramite l’appoggio di alcuni mediatori trentini.

“C’è stata un’inchiesta, che potete studiare, partita dalla Calabria dove hanno tentato attraverso mediatori trentini di poter entrare, le organizzazioni aspromontine, nella gestione e distribuzione della mela trentina”.

Così aveva tuonato Roberto Saviano dal palco del Festival dell’Economia di Trento. Peccato che quest’inchiesta non ci sia mai stata. La smentita clamorosa di Saviano è arrivata poco dopo, quando la lettera aperta di Luigi Ortolina, rappresentante del Gruppo degli agenti ortofrutticoli della Provincia di Trento in seno all’Associazione mediatori e agenti di affari della Provincia di Trento aderente Fimaa, che chiedeva giustamente al giornalista di fare i nomi dei corrotti in seno alle organizzazioni di imprenditori locali affinché fossero espulsi, ha sollevato un’indagine (stavolta sì, che c’è stata davvero) da parte dei carabinieri del Ros di Trento, che in merito alle presunte infiltrazioni aspromontine in Trentino Alto Adige hanno voluto sentire il giornalista. In quell’occasione il Saviano nazionale se ne è uscito dicendo che le sue affermazioni, che pure parevano tanto sicure e certe e verificate, erano solo un “monito” che voleva avere un “effetto di sensibilizzazione”, insomma: non una verità confermata dai fatti, ma un’affermazione (una supposizione, potremmo dire) da prendere con le pinze. E chissà quante altre sono le affermazioni che, uscite da quella bocca da grande oratore, ammaliatore di serpenti e di folle, vanno prese con la dovuta circospezione.

Lo sappiamo noi, lo sanno quanti sfortunatamente si sono trovati, loro malgrado, implicati o travolti nella centrifuga di menzogne (lui, che soleva citare la macchina del fango!) attivata da Roberto Saviano; lo sanno quanti della sua univocità di santo hanno sempre dubitato. Chi proprio non lo sa, o non vuole saperlo, sono i suoi sfegatati seguaci. Quelli che, nonostante tutto, continuano a venerare il mito di Roberto Saviano, con la vergognosa complicità degli organi di informazione di massa che continuano a tacere queste informazioni.

Tutto ciò, per tornare alla riflessione iniziale, insegna proprio questo: che non esiste una sola verità. Così come non esiste un solo modo di fare “camorra”. La verità non sta mai da una parte sola, anzi. Quasi sempre la verità sta nel mezzo, in quel limbo di sottintesi e non detti, omissioni e bugie, sull’altra faccia della medaglia, quella oscura, che non viene mostrata ai più, e che molto spesso nasconde inganni, accoglie compromessi, cela menzogne che tutti fingono di non vedere. Il perché è semplice: chi ha provato a smascherarle è stato messo a tacere, in tutti i modi possibili, da chi non vuole che un’altra versione della verità venga a galla. La verità l’hanno uccisa sulla bocca di chi ha provato a dirla. A noi comuni mortali, per onorare quanti per amore della verità hanno pagato davvero (e con la vita), spetta almeno il compito di non smettere mai di dubitare.

Daniele Sepe scrive un rap anti Sviano: “E’ più intoccabile del Papa”. Il musicista, «comunista» napoletano, accusa lo scrittore di non accettare il contraddittorio e di essere manovrato, scrive Antonio Fiore su “Il Corriere della Sera”. Roberto Saviano bugiardo e imbroglione, costruttore del proprio mito, showman interessato più al diritto d’autore che al dovere della verità: se il libro di Dal Lago era una critica all’«eroe di carta», Cronache di Napoli di Daniele Sepe è un attacco senza precedenti all’autore di Gomorra.

Sepe, ma perché ce l’ha tanto con Saviano?

«Non c’è nessuna polemica verso di lui».

Alla faccia: nel suo testo gliene dice di tutti i colori.

«Contesto innanzitutto il fatto che Saviano sia un esperto di mafia».

Nega che a partire dal libro di Saviano sia cambiata nell’opinione pubblica non solo nazionale la percezione del fenomeno camorra?

«Ricordo una bellissima copertina di Der Spiegel negli anni Settanta, quella con la pistola sul piatto di spaghetti. Sin da allora la mafia faceva notizia».

Già, ma quella fu una trovata giornalistica, di costume.

«E anche Gomorra è un libro di costume. Con dentro tante imprecisioni e inesattezze che nessuno si è però preso la briga di verificare».

La storia del container pieno di cinesi morti, va bene. Però Saviano le risponderebbe che...

«Risponderebbe che il suo è un romanzo. D’accordo, anche Sciascia scriveva (straordinari) romanzi sulla mafia. Ma non mi risulta che fosse considerato un esperto di mafia».

Saviano, però, ha portato alla luce gli intrighi di un clan pericolosissimo eppure mediaticamente sottovalutato come quello dei casalesi. Almeno questo, glielo possiamo riconoscere?

«Perché, oltre a quello dei conosciutissimi boss ha fatto mai qualche nome? Se lui sa che i casalesi fanno affari con i grandi della politica e della finanza, perché non ci dice chi sono? Oppure i casalesi il business li fanno con i cinesi morti? Dice di sapere tutto dello scandalo-rifiuti in Campania. Ma quali aziende ha denunciato? Nessuna. Per attaccare un politico - vedi il caso Cosentino - aspetta che i giudici tirino fuori le carte. Saviano è solo una bella cortina fumogena. Se devo informarmi su che cosa è la camorra, scelgo sempre il buon vecchio Napoli fine Novecento. Politici, camorristi, imprenditori di Francesco Barbagallo».

Da un uomo di sinistra, anzi di sinistra radicale, non si sente politicamente scorretto?

«Da comunista dico: quando da decenni la politica è fatta da governi presieduti dagli editori di Saviano, e quando i provvedimenti finanziari si accaniscono sulla povera gente, sicuramente chi ci guadagna è la camorra. La povera gente qualcosa deve pur mangiare, e la legalità è una cosa bellissima, ma non si mangia. Il problema criminale, in Campania e in tutto il Sud, va analizzato tendendo conto che qui sono 20 anni che le aziende chiudono per favorirne altre al Nord, e che la malavita attecchisce per mancanza di alternative, non perché qui vivono scimmie malvage dedite al cannibalismo».

Intanto Saviano, per aver lanciato la sua sfida ai clan, è costretto a vivere sotto scorta. Ma lei ha da ridire anche su questo.

«A me risulta che, a suo tempo, il capo della Mobile dette parere negativo alla concessione della scorta. E per avere espresso questo punto di vista è stato rimbrottato addirittura dal capo della Polizia. Ma allora io mi chiedo: in Italia non c’è solo Padre Pio tra gli intoccabili? Possibile che si possa criticare il Papa, e Saviano no? Che persino Berlusconi accetti il contraddittorio, e Saviano no? Perché non posso dirgli guaglio’, stai dicenno ’na strunzata?».

Forse perché incrinerebbe un fronte di solidarietà verso una persona minacciata di morte?

«Ma chi minaccia Saviano, e perché? Da cittadino italiano avrei il diritto di saperlo: quali sono ’ste minacce? Le telefonate anonime? Non che la cosa mi scandalizzi: in Italia ci sono tante scorte inutili, una in più, una in meno...».

Ma lo sa che cose simili le ha dette Emilio Fede, uno con il quale non credo che lei sia in sintonia?

«Fede è sotto scorta da 15 anni, però continuiamo a criticarlo. E invece Saviano no, è incriticabile?».

Lei comunque non si fa pregare: nel finale della canzone definisce Berlusconi il capo burattinaio che paga l’affitto a Saviano.

«Non sono il capo dei servizi segreti e non ho prove da portare, anche se prendo atto che Saviano è sempre molto deferente verso il suo editore. Del caso Saviano io faccio un’analisi politica: ciò che sta accadendo intorno a questo autore è funzionale a una destra populista, in cui il fenomeno della camorra è ridotto alla cattiveria innata di ceti popolari dediti al malaffare e al loro desiderio di fare soldi il più in fretta possibile. Secondo questa analisi il problema si risolve con più 41 bis, con più esercito, più polizia come vuole Maroni, non a caso amatissimo da Saviano».

E ora come si aspetta che valuteranno a sinistra questa sua presa di posizione?

«Ormai il savianismo è una religione. Credo che come minimo mi scorticheranno vivo».

PARLIAMO DI MARCO TRAVAGLIO.

IL DELINQUENTE ABITUALE.

B. “delinquente naturale” che si compra tutti. Marco Travaglio 2 marzo 2018 su "Il Fatto Quotidiano".  Ecco un riepilogo sintetico delle principali sentenze su Silvio Berlusconi, più ampiamente raccontate nel libro “B. come basta!” (ed. PaperFirst).

Bugie sulla P2 (falsa testimonianza). Nel 1988, nel processo di Verona nato dalla sua querela ai recensori del libro Inchiesta sul Signor Tv di Ruggeri e Guarino, B. dichiara: “Non ricordo la data esatta della mia iscrizione alla P2, ricordo comunque che è di poco anteriore allo scandalo… Non ho mai pagato una quota di iscrizione, né mai mi è stata richiesta”. Ma lo scandalo è del 1981 e la sua iscrizione del 26.1.1978, con pagamento della quota associativa di 100 mila lire. Così, da parte lesa, B. diventa imputato per falsa testimonianza. La Corte d’Appello di Venezia, nel 1990, sentenzia: “Ritiene il Collegio che le dichiarazioni dell’imputato non rispondano a verità … smentite dalle risultanze della commissione Anselmi e dalle stesse dichiarazioni rese del prevenuto avanti al giudice istruttore di Milano, e mai contestate… Ne consegue che il Berlusconi ha dichiarato il falso”, rilasciato “dichiarazioni menzognere e compiutamente realizzato gli estremi obiettivi e subiettivi del delitto di falsa testimonianza”. Ma “il reato va dichiarato estinto per intervenuta amnistia” (del 1990).

Tangenti alla Guardia di Finanza (corruzione). Condannato per corruzione in primo grado per quattro tangenti a 12 ufficiali delle Fiamme Gialle, poi prescritto in appello per tre mazzette e assolto per insufficienza di prove sulla quarta, nel 2001 B. viene assolto in Cassazione per insufficienza di prove per tutti e quattro gli episodi, mentre i manager Fininvest e i finanzieri vengono tutti condannati. Per la Suprema Corte non si è riusciti a sciogliere il nodo di chi fra Silvio e Paolo B. autorizzò le mazzette. Ma è dimostrata la “predisposizione della Fininvest” a corrompere la Gdf, cioè a “gestire in modo programmato le situazioni oggetto di causa, anche con la formazione di fondi per pagamenti extrabilancio” comprando “la deliberata sommarietà e compiacenza delle verifiche fiscali” con “consistenti dazioni” e “favori”.

All Iberian-1 (finanziamento illecito ai partiti). Condannato in Tribunale insieme a Bettino Craxi per avergli versato nel 1991 estero su estero (in Svizzera) dai conti All Iberian mazzette per 23 miliardi di lire, B. si salva col suo complice in appello per prescrizione. Ricorre in Cassazione per essere assolto, ma la Suprema Corte nel 2000 conferma: è un colpevole che l’ha fatta franca. “Le operazioni societarie e finanziarie prodromiche ai finanziamenti estero su estero dal conto intestato alla All Iberian al conto Northern Holding (uno dei tre di Craxi in Svizzera, ndr) furono realizzate in Italia dai vertici del gruppo Fininvest Spa, con il rilevante concorso di Silvio Berlusconi quale proprietario e presidente” e da altri manager del gruppo. Dunque niente assoluzione. “Non emerge negli atti processuali l’estraneità dell’imputato”. Infatti è condannato a pagare le spese di giudizio.

All Iberian-2 (falso in bilancio). B. è imputato per centinaia di miliardi di lire di fondi neri nascosti ai bilanci Fininvest, accantonati all’estero nelle società offshore della tesoreria occulta All Iberian e usati negli anni 80-90 per fini inconfessabili: corrompere politici (come Craxi), giudici romani, prestanome (in Tele+ e Telecinco), scalare occultamente società (da Standa a Mondadori) in barba alle leggi e ai controlli di Borsa. Nel 2005 il Tribunale lo assolve con i suoi manager perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato” (l’ha depenalizzato lui nel 2001 con la riforma del falso in bilancio).

Medusa Cinema (falso in bilancio). Condannato per 10 miliardi di lire di fondi neri ricavati dalla compravendita della casa di produzione Medusa e nascosti su libretti al portatore intestati a prestanome, B. viene assolto in appello e in Cassazione per insufficienza di prove. Condannato invece il manager Carlo Bernasconi che gestì materialmente l’operazione. Motivo: “La molteplicità dei libretti riconducibili alla famiglia Berlusconi e le notorie rilevanti dimensioni del patrimonio di Berlusconi postulano l’impossibilità di conoscenza sia dell’incremento sia soprattutto dell’origine dello stesso”. Troppo ricco per accorgersi che il suo uomo gli ha versato 10 miliardi.

Terreni di Macherio (appropriazione indebita, frode fiscale e falso in bilancio). B. è imputato per 4,4 miliardi di lire pagati in nero all’ex proprietario dei terreni della villa di Macherio, dove vivono la moglie Veronica e i tre figli di secondo letto. In Tribunale è assolto dall’appropriazione indebita e dalla frode fiscale e prescritto per i falsi in bilancio di due società a cui “indubbiamente ha concorso”. In appello è assolto anche sul primo falso in bilancio, mentre il secondo rimane, ma è coperto dall’amnistia del 1990.

Caso Lentini (falso in bilancio). L’accusa riguarda 10 miliardi versati in nero dal Milan al Torino per l’acquisto del giocatore Gianluigi Lentini. I fatti sono tutti straprovati, ma B. (presidente del Milan) e il suo vice Adriano Galliani si salvano in Tribunale per prescrizione, grazie alle attenuanti generiche e alla riduzione dei termini introdotta dalla legge B. sul falso in bilancio.

Bilanci Fininvest 1988-92 (falso in bilancio e appropriazione indebita). B., il fratello Paolo e vari manager sono indagati per aver falsificato i bilanci Fininvest dal 1988 al ’92 per i fondi neri creati con l’acquisto a prezzi gonfiati di film tramite società offshore. Nel 2004 sono tutti archiviati dal gup per la solita prescrizione, grazie anche ai termini abbreviati dalla legge B. sul falso in bilancio.

Consolidato Fininvest (falso in bilancio). Nel 2003 il Gup dichiara prescritti, sempre grazie alle nuove regole sul falso in bilancio, i presunti fondi neri per circa 1.500 miliardi di lire accantonati da B. e dai 25 suoi coimputati su 64 società del “comparto B” della Fininvest, sconosciute al bilancio consolidato. Motivo: “La lettura degli atti… non permette certo di ritenere palese e chiara l’estraneità dei soggetti” ai reati. I legali ricorrono in Cassazione, reclamando un’assoluzione nel merito. Ma nel 2004 la Suprema Corte la nega: i reati sono estinti “in base alla nuova legge sul falso in bilancio” imposta dall’imputato principale.

Lodo Mondadori (corruzione giudiziaria). B. è imputato insieme ai suoi avvocati Cesare Previti, Giovanni Acampora, Attilio Pacifico e al giudice Vittorio Metta per la sentenza comprata, firmata da quest’ultimo nel 1991, che ribaltava il lodo Mondadori e sfilava il primo gruppo editoriale italiano a Carlo De Benedetti per regalarlo al Cavaliere. Ribaltando il proscioglimento per insufficienza di prove deciso dal gup, la Corte d’appello di Milano rinvia a giudizio tutti gli imputati per corruzione giudiziaria, tranne uno: B., che beneficia della prescrizione grazie alle solite attenuanti generiche (che ne dimezzano il termine) e alla derubricazione del reato (per lui solo) da corruzione giudiziaria a corruzione semplice. I suoi tre avvocati corruttori e il giudice corrotto verranno condannati fino in Cassazione. I giudici accerteranno che Metta fu corrotto con 400 milioni in contanti provenienti dai fondi neri Fininvest-All Iberian e versati dai tre avvocati “nell’interesse e su incarico del corruttore”, cioè del “privato interessato”, cioè di B., che puntava al “controllo di noti e influenti mezzi di informazione”. Ed è rimasto impunito, almeno penalmente. Nella causa civile, nel 2013 dovrà risarcire De Benedetti con 540 milioni.

Sme-Ariosto (corruzione e falso in bilancio). I processi per le tangenti al capo dei gip romani Renato Squillante, pagate dai soliti avvocati con fondi neri Fininvest, finiscono in un nulla di fatto. Previti, Pacifico, Acampora e Squillante vengono condannati in primo grado e in appello. Ma la Cassazione manda gli atti per competenza al Tribunale di Perugia perché riparta da zero, quando ormai è scattata la prescrizione. B. invece, processato separatamente, viene in parte assolto e in parte prescritto (solite attenuanti generiche). In appello scatta l’assoluzione totale per insufficienza di prove, confermata nel 2007 dalla Cassazione. Per i relativi falsi in bilancio dal 1986 al 1989, il Tribunale lo assolve nel 2008 perché “il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. L’ha depenalizzato l’imputato.

Mazzette a Mills (corruzione giudiziaria del testimone). Il processo riguarda la tangente da 600 mila dollari versata nel 1999-2000 da Carlo Bernasconi (defunto) per conto di Silvio B. all’avvocato inglese David Mills, ex consulente delle società estere Fininvest, in cambio delle sue testimonianze false o reticenti nei processi Guardia di Finanza e All Iberian. Reato confessato dallo stesso Mills in una lettera al suo commercialista Bob Drennan: “La mia testimonianza aveva tenuto Mr B. fuori da un mare di guai in cui l’avrei gettato se solo avessi detto tutto quello che sapevo. Alla fine del 1999 mi fu detto che avrei ricevuto dei soldi… 600.000 dollari furono messi in un hedge fund… a mia disposizione”. Mills viene condannato in primo e secondo grado, poi in Cassazione si salva per prescrizione, anche se deve risarcire il governo italiano con 250 mila euro; e anche se i giudici scrivono che fu corrotto “nell’interesse di Silvio Berlusconi”. Invece B., grazie alle meline dei suoi avvocati e alla lentezza dei giudici di Milano, si salva nel 2012 per prescrizione già in Tribunale. Due prescrizioni, la sua e quella di Mills, propiziate dalla legge ex-Cirielli del governo B., che ne ha ridotto i termini.

Diritti Mediaset (falso in bilancio, frode fiscale, appropriazione indebita). L’inchiesta sui fondi neri accumulati da B. gonfiando i costi dei film acquistati da Mediaset presso le major americane, con vari passaggi su una miriade di società offshore nei paradisi fiscali, accerta una mega-frode per 368,5 milioni di dollari. Poi gli ostruzionismi degli avvocati, le leggi blocca-processi varate dall’imputato e l’ex Cirielli taglia-prescrizione fanno evaporare in dibattimento le appropriazioni indebite, i falsi in bilancio e quasi tutte le frodi fiscali, lasciando in piedi soltanto quelle del 2002-2003 per 7,3 milioni. B. viene condannato in tutti e tre i gradi di giudizio a 4 anni di carcere (di cui 3 indultati) e interdetto dai pubblici uffici per 2. Il Tribunale di Milano lo descrive come un delinquente naturale, con una “naturale capacità a delinquere”. La Cassazione nel 2013 lo definisce “ideatore” e “beneficiario” del sistema fraudolento: “Il sistema organizzato da Silvio Berlusconi ha permesso di mantenere e alimentare illecitamente disponibilità patrimoniali estere, conti correnti intestati ad altre società che erano a loro volta intestate a fiduciarie di Berlusconi”. Anche dopo l’entrata in politica: “Tutti i suoi fidati collaboratori ma anche correi” furono “mantenuti nelle posizioni cruciali anche dopo la dismissione delle cariche sociali da parte di Berlusconi e in continuativo contatto diretto con lui… in modo da consentire la perdurante lievitazione dei costi di Mediaseta fini di evasione fiscale”. Così Mediaset pagò per anni e anni i film molto più di quanto costassero, per alimentare i fondi neri dell’utilizzatore finale. Che non esitò a truffare lo Stato e la sua società (quotata in Borsa dal 1996) per metterseli in tasca.

Telefonata Fassino-Consorte (rivelazione di segreto d’ufficio). B. viene condannato in Tribunale a 1 anno (e suo fratello Paolo a 2 anni e 3 mesi) e poi salvato dalla prescrizione in appello per la telefonata segretata e mai trascritta dai pm di Milano tra il patron di Unipol Giovanni Consorte e il segretario Ds Piero Fassino (“Allora, abbiamo una banca?”), intercettata nel 2005 durante la scalata alla Bnl e pubblicata dal Giornale il 1° gennaio 2006, in piena campagna elettorale. A rubarla e portarla al premier nella villa di Arcore alla vigilia di Natale 2005 fu un dipendente infedele della società che realizzava gli ascolti per la Procura. B. ricorre in Cassazione per essere assolto nel merito, ma nel 2015 viene respinto con perdite perché è colpevole: “Il Tribunale prima e la Corte d’Appello poi, con motivazione ineccepibile, hanno ritenuto accertato che Silvio Berlusconi nell’incontro di Arcore abbia ascoltato la registrazione audio e abbia, anche col suo atteggiamento compiaciuto e riconoscente, dato il suo placet alla pubblicazione del colloquio intercettato… Berlusconi, chiamato a decidere dopo avere ascoltato la registrazione coperta da segreto, ha sostanzialmente dato il via, con il solo assenso e con il suo beneplacito, alla pubblicazione della notizia, rendendosi responsabile di concorso nel delitto di rivelazione di segreto di ufficio”.

Scandalo Ruby (concussione e prostituzione minorile). B. è imputato per concussione (telefonò al capo di gabinetto della Questura di Milano Pietro Ostuni per far rilasciare la minorenne marocchina Karima el Mahroug in arte Ruby, fermata per furto, nelle mani di Nicole Minetti e di un’altra prostituta, raccontando che era nipote di Mubarak e si rischiava l’incidente diplomatico con l’Egitto) e prostituzione minorile (sesso in cambio di denaro con Ruby nei festini del “bunga bunga” ad Arcore). Il Tribunale lo condanna a 7 anni, ma in appello scatta l’assoluzione. La concussione è stata riformata, in pieno processo, dalla legge Severino: senza violenza o minaccia, è “induzione indebita” ed è punibile solo se anche l’indotto ha ricavato “vantaggi indebiti” e Ostuni non ne ha avuti. Quanto alla prostituzione minorile, non ci sono prove sufficienti che sapesse della minore età di Ruby, che sul punto ha detto tutto e il contrario di tutto, mentre le altre “Olgettine” (tutte sul libro paga dell’allora premier) hanno sempre negato. La Cassazione nel 2015 conferma la sentenza d’appello anche dove afferma che B. “abusò della sua qualità di presidente del Consiglio”, ma l’abuso di potere “non è sufficiente a integrare il reato” di concussione, senza la “costrizione” del funzionario e il “vantaggio patrimoniale” del premier. È pure “acquisita la prova certa che presso la residenza di Arcore di Silvio Berlusconi e nell’arco temporale… 14 febbraio-2 maggio 2010 vi fu esercizio di attività prostitutiva che coinvolse anche Karima el Mahroug”. Altro che “cene eleganti”: erano “serate disinvolte e spregiudicate”. Ma, per legge, il cliente di prostitute è punibile se queste non sono minorenni o non c’è prova che lui sappia che lo sono. Il processo Ruby ter ci dirà se quella prova fu negata ai giudici da testimoni corrotti (e soprattutto corrotte).

Compravendita del senatore (corruzione). Sergio De Gregorio, eletto nel 2006 senatore dell’IdV e subito passato a FI, sottraendo un voto alla risicatissima maggioranza del Prodi-2, confessa di essere stato corrotto da Berlusconi con 3 milioni di euro: 1 via bonifico alla sua associazione Italiani nel Mondo, 2 cash in nero tramite il faccendiere Valter Lavitola. Il Tribunale di Napoli condanna B. a 3 anni, poi nel 2017 scatta la solita prescrizione in appello. Ma i giudici confermano definitivamente che B. è un corruttore impunito: “L’iniziativa dell’offerta e della promessa del denaro è stata presa da Berlusconi e non da De Gregorio. L’incontro delle loro volontà è stato senza dubbio libero e consapevole… Berlusconi ha, pacificamente, agito come privato corruttore e non certo come parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni” per far scatenare a De Gregorio “la guerriglia urbana” in Parlamento che, a lungo andare, provocò la caduta di Prodi. “Le dazioni di denaro effettuate da Berlusconi, tramite Lavitola, a De Gregorio sono state effettuate quale corrispettivo della messa a disposizione del senatore e, quindi, della sua rinuncia a determinarsi liberamente nelle attività parlamentari di sua competenza e non certo come mero finanziamento al movimento Italiani nel Mondo”. Conclusione: “È del tutto pacifico che Berlusconi abbia agito con assoluta coscienza e volontà di corrompere un senatore della Repubblica”.

Stangata su Travaglio: dovrà versare altri 50mila euro al padre di Renzi. A fine ottobre fu condannato a pagare 95mila euro per aver diffamato Tiziano Renzi. Oggi un'altra sentenza a sfavore: dovrà versargli altri 50mila euro, scrive Sergio Rame, Venerdì 16/11/2018, su "Il Giornale". "Nella seconda causa Tiziano Renzi contro Marco Travaglio, il direttore del Fatto Quotidiano è stato nuovamente condannato, stavolta per un intervento televisivo". Ad annunciarlo sul proprio profilo Facebook è stato Matteo Renzi. È la seconda condanna che il giornalista riceve nel giro di un mese. Adesso dovrà pagare altri 50mila euro. "Sono ovviamente contento per mio padre - ha commentato l'ex presidente del Consiglio - bisogna sopportare le ingiustizie, le falsità, le diffamazioni. Perché la verità prima o poi arriva". "Il tempo è galantuomo". A guardare il passato Renzi è dispiaciuto. Ma adesso che Travaglio è stato nuovamente condannato non nasconde la propria soddisfazione. "Ci sono dei giudici in Italia - è il commento affidato a Facebook - bisogna solo saper aspettare". E per la seconda volta che un giudice ha dato ragione al padre dell'ex premier piddì. La prima volta era successo il 22 ottobre quando Travaglio, una sua collega e la società del Fatto Quotidiano erano stati condannati a sborsare 95mila euro a Tiziano Renzi. In quell'occasione matteo aveva avvertito: "È solo l'inizio...". E così è stato. "Non si può diffamare una persona senza essere chiamati a risponderne - commentano ora dal quartier generale del Partito democratico - è una lezione che spero impari anche Marco Travaglio". Mentre Travaglio chiedeva aiuto ai propri lettori lamentando che il pagamento dei 95mila euro avrebbero mandato il giornale in rovina, i giudici hanno portato avanti nuove cause. E oggi è arrivata un'altra sentenza che obbliga il Fatto Quotidiano a pagare altri 50mila euro. "Verrà presto il tempo in cui la serietà tornerà di moda - ha scritto oggi Matteo Renzi - hanno rovesciato un mare di fango addosso. Nessun risarcimento ci ridarà ciò che abbiamo sofferto ma la verità è più forte delle menzogne". Quindi la stoccata: "Adesso sono solo curioso di vedere come i Tg daranno la notizia". Al Nazareno sono in molti ad applaudire alla sentenza. E non manca chi si mette a bacchettare il direttore del Fatto Quotidiano. "Diffamare e raccontare fake news non è giornalismo, non è cronaca e quindi è giusto che abbia un prezzo da pagare - ha detto il senatore dem Dario Stefano - Travaglio inizi a fare economie per onorare la Giustizia".

Travaglio su Tiziano Renzi: “Ho detto la verità. Non sapevo del processo e non ho potuto difendermi”. Il direttore del Fatto Quotidiano è stato condannato per la seconda volta a versare 50mila euro al padre dell'ex premier, scrive la Redazione di TPI il 17 Novembre 2018. Il 16 novembre 2018 il giornalista Marco Travaglio, direttore del Fatto Quotidiano, è stato condannato a risarcire 50mila euro a Tiziano Renzi, padre dell’ex premier Matteo Renzi, per aver pronunciato affermazioni diffamatorie nei suoi confronti. La notizia però è giunta come una sorpresa per il giornalista, che non sapeva che il padre dell’ex segretario del Pd avesse intentato una causa civile contro di lui. “Né a me, né ai miei avvocati risultava quella causa”, ha scritto Marco Travaglio nel suo editoriale del 17 novembre. “Forse la busta verde con l’atto di citazione si è persa tra le tante per colpa mia o dell’ufficiale giudiziario, o è andata smarrita nella trasmissione tra la nostra segreteria allo studio legale. Chissà. Sta di fatto che ero contumace e non ho potuto difendermi”. Marco Travaglio infatti ha spiegato di essere stato informato delle motivazioni della sentenza soltanto da un articolo de Il Foglio, scritto da Annalisa Chirico, una giornalista che secondo il direttore del Fatto è “molto addentro alle cose della famiglia Renzi”. Secondo quanto afferma Travaglio, non essendo stato a conoscenza dell’esistenza della causa contro di lui, non ha potuto offrire la sua versione al giudice civile, per cui è stata ascoltata solo la versione dell’accusa, sulla cui base è stata poi emessa la sentenza da parte del giudice di Firenze. “Il padre del capo del governo si mette in affari o si interessa in affari che riguardano aziende controllate dal governo”. Era stata questa la frase pronunciata dal direttore del Fatto Quotidiano nel corso della trasmissione Otto e Mezzo e che gli è valsa una nuova condanna. Il riferimento, ha spiegato nel suo editoriale, era al presunto conflitto d’interessi di Tiziano Renzi in merito ad un appalto per Poste Italiane.

In chiusura, Marco Travaglio ha attacca i giudici di Firenze, sottolineando: “Ho detto la verità. Ci vuole ben altro per intimidirci”.

Perché Travaglio ha perso un'altra causa con Tiziano Renzi. Ha diffamato il padre dell'ex premier sul caso Consip, dice il giudice, e ora deve risarcirlo, scrive Annalisa Chirico il 16 Novembre 2018 su "Il Foglio". Ci risiamo. A voler impiegare il linguaggio inquisitorio in voga da quelle parti, dovremmo sentenziare che il direttore del Fatto quotidiano è recidivo. A distanza di meno di un mese, il giudice civile di Firenze torna a condannare Marco Travaglio in una causa con Tiziano Renzi. Il primo dovrà corrispondere al secondo una somma pari a 50mila euro, a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, per le affermazioni diffamatorie pronunciate dal giornalista nel corso di una puntata di "Otto e mezzo" su La7. Era il 9 marzo 2017, e nello studio televisivo di Lilli Gruber c’ero anch’io. Preso dalla foga in un confronto acceso sull’inchiesta Consip, Travaglio si spinse ad affermare che dagli atti giudiziari fosse emerso un quadro inquietante: “Il padre del capo del governo si mette in affari o s’interessa di affari che riguardano aziende controllate dal governo”. Quegli atti li avevamo letti in tanti, non solo lui, tra colleghi ce li trasmettevamo su Whatsapp (tu ce li hai?, ecco qua), io ne scrivevo da giorni, avevo compulsato le carte esattamente come decine di cronisti, e di questi presunti “affari”, non meglio specificati, non avevo trovato traccia. Gli inquirenti battevano la pista del traffico d’influenze, della mediazione sospetta, della millanteria, ma che il padre dell’ex premier avesse concluso o fosse in procinto di concludere affari con le aziende pubbliche era una ipotesi inesistente nella prospettazione accusatoria. Allora, sentite le parole pronunciate con sicumera dal direttore, provai a far notare, proprio sul punto, che, allo stesso dell’arte, gli elementi per adombrare accuse così gravi erano insussistenti a meno che Travaglio non fosse in possesso di informazioni riservate, ai più ignote: “Il direttore ci dà una notizia!”, dissi. Di tutta risposta, Travaglio mi mise in guardia dal rischio, diciamo così, che il pm partenopeo Henry J. Woodcock potesse decidersi a querelarmi per le mie affermazioni critiche nei confronti del magistrato. Bene, a distanza di mesi dai fatti, possiamo affermare che le cose sono andate diversamente: Woodcock, dopo aver perso in tribunale in una causa contro di me (una delle tante), ha preferito rimettere le querele ancora pendenti per non pagare, partita chiusa; il giudice civile di Firenze, stamane, ha nuovamente condannato Travaglio nel match infinito con Renzi sr. riconoscendo il carattere diffamatorio delle affermazioni testé citate. “Le parole pronunciate dal giornalista hanno connotazioni oggettivamente negative, alludendo le stesse ad un contesto di malaffare e ad un intreccio di interessi privati, economici e politici ad elevati livelli […] Nel suo insieme e nel suo impianto, l’intervento del giornalista è demolitivo nei confronti dell’attore e di suo figlio, sul fronte etico, politico e della dignità personale”. Più avanti: “L’offesa è, nel caso di specie, tanto più grave in quanto si mettono in relazione gli affari personali dell’attore con l’ascesa politica del figlio che, all’epoca dei fatti (cui si fa riferimento nell’ambito della trasmissione), era stato capo del governo e, quindi, figura istituzionale dalla quale tutti si attendono attenzione e sensibilità per gli interessi dello stato”.

«Tiziano Renzi non c’entra». Dai pm di Consip una verità che arriva troppo tardi. Chiesta l’archiviazione per il padre dell’ex premier, ma Renzi jr ha già pagato, scrive Errico Novi il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Esempio micidiale di danni da processo mediatico. Macchina terribile che ha prodotto conseguenze personali per Tiziano Renzi, personali e politiche per suo figlio Matteo, politiche tout court per un ex partito di maggioranza, il Pd. L’inchiesta Consip arriva al punto di caduta più significativo visto finora: e si tratta di un nulla di fatto proprio per il papà dell’ex presidente del Consiglio. La Procura di Roma chiede per lui l’archiviazione. Restano invece impigliati nelle ipotesi di reato a loro contestate 7 persone, ai quali l’ufficio diretto da Giuseppe Pignatone invia la comunicazione di chiusa indagine, che di solito precede la richiesta di rinvio a giudizio. Rischiano dunque il processo, per il reato di favoreggiamento: l’ex ministro dello Sport Luca Lotti, figura assai vicina a Matteo Renzi; il generale dell’Arma in Toscana Emanuele Saltalamacchia; l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, che nella storia dell’Arma sarebbe il primo comandante generale a essere rinviato a giudizio (è accusato anche di rivelazione del segreto d’ufficio); il presidente della municipalizzata fiorentina Publiacqua Filippo Vannoni. Resta invece sotto inchiesta per rivelazione del segreto e falso l’ex maggiore del Noe Gian Paolo Scafarto, che insieme con il suo ex capo, il colonnello Alessandro Sessa, è indagato anche per depistaggio. L’imprenditore Carlo Russo è invece accusato di millantato credito, reato dal quale sono scagionati oltre a Renzi senior (la cui ricostruzione dei fatti è stata ritenuta dai pm «non credibile») anche l’imprenditore Alfredo Romeo e il suo consigliere Italo Bocchino. Riportata in modo asciutto, la geografia dell’inchiesta sembrerebbe cambiata di poco. Ma non è così. La probabile fuoriuscita di Tiziano (dovrà decidere il giudice) riduce la sequenza dei presunti reati a un attivismo di Russo che avrebbe utilizzato il nome di Tiziano Renzi per millantare, presso Alfredo Romeo, straordinarie capacità di condizionare l’ad di Consip Luigi Marroni e fargli così ottenere «l’appalto più grande d’Europa», così definito nella vulgata mediatica in questi due anni. Dopo sarebbero venuti gli alert inoltrati allo stesso Marroni da parte di Lotti e Saltalamacchia, e quello di Del Sette nei confronti del presidente di Consip Luigi Ferrara, sull’esistenza di un’inchiesta con corredo di microspie e telefoni sotto controllo. Il resto, lo sfondo, il presunto intreccio corruttivo che avrebbe legato Romeo ai Renzi per mezzo di Russo, la conseguente rincorsa a tamponare l’inchiesta attribuita all’ex premier, semplicemente non esistono. La posizione di Tiziano è inconsistente, sul piano penale. Secondo la ricostruzione dei pm Ielo e Palazzi sarebbe stato Russo, solo lui, ad aver millantato con Romeo la stessa capacità di condizionamento del papà dell’ex premier, in modo da intascare una tangente da 100mila euro. Poi certo, ci sarebbero gli avvisi sul rischio di essere intercettati, i falsi e le rivelazioni del segreto attribuiti a Scafarto, i suoi presunti depistaggi in complicità con Sessa. Ma è materiale che non c’entra nulla con la politica, con il Pd, con il governo di allora, con il suo vertice. La Procura di Roma su questo, evidentemente, non ha dubbi. Ma un’intera classe dirigente, per quasi due anni, ha ballato alla grande. Benché ritenuto non credibile in alcune circostanze, papà Renzi, di cui sarebbe stato ricostruito un incontro (sempre negato) con Alfredo Romeo nell’estate del 2015, esce dall’inchiesta «perché non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato di millantato credito (rispetto all’iniziale ipotesi di traffico di influenze illecite, ndr) commesso da Russo». La conclusione della Procura è questa. E colpisce il tono del consueto tweet di Matteo: sommesso, più che rabbioso e soddisfatto: «Sono mesi che ripeto ‘ il tempo è galantuomo’. Sui finti scandali, sulle vere diffamazioni, sui numeri dell’economia. Oggi lo ribadisco con ancora più forza: nessun risarcimento potrà compensare quanto persone innocenti hanno dovuto subire. Ma il tempo è galantuomo, oggi più che mai». Assomiglia molto al tono di Federico Bagattini, difensore di Tiziano Renzi: «Questi ultimi giorni hanno dimostrato che il tempo è galantuomo: prima il riconoscimento del risarcimento del danno a titolo di diffamazione, ora la richiesta di archiviazione del procedimento cosiddetto “Consip”. Alla soddisfazione professionale per l’esito, del resto ancora da confermare trattandosi solo di richiesta di archiviazione, si unisce quella personale da parte del dottor Tiziano Renzi, che risulta, tuttavia, menomata dalla considerazione che la campagna subita negli ultimi due anni abbia prodotto gravi e irreversibili danni sul piano personale, familiare ed economico». Come dire: ci si è scrollati di dosso il fango, ma il danno resta. Personale per Tiziano, politico per suo figlio. Chi pagherà per questo? Nessuno. Sono gli inconvenienti della giustizia mediatica. Una leadership è stata intaccata anche dal clamore dell’indagine, ma oggi il quadro politico è talmente cambiato che sarebbe inutile ostinarsi a rivendicarlo. Matteo lo ha capito. Ha capito che è troppo tardi.

Tre domande (forse) inutili. Editoriale del direttore Piero Sansonetti il 30 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Nel dicembre del 2016 Matteo Renzi era in difficoltà. Aveva perduto il referendum per la riforma costituzionale e aveva lasciato la presidenza del Consiglio. Restava però il capo del suo partito, e quindi del centrosinistra, e i sondaggi davano il Pd tra il 28 e il 35 per cento, stabilmente primo partito con un discreto vantaggio sui 5 Stelle. A fine dicembre esplose il caso Consip. A febbraio nel caso Consip fu coinvolto il padre di Renzi: Tiziano. Il caso Consip partiva dalla Procura di Napoli e finché non arrivò a Roma fu montato attraverso i giornali, ai quali venivano forniti tutti i documenti riservati e le ipotesi di indagine. Iniziò il Fatto Quotidiano, con un buon numero di scoop.

Politica, stampa, giustizia: tre domande (forse) inutili. Diede anche notizia di alcune informative preparate dal capitano dei carabinieri Scafarto, che poi risultarono false e che lasciavano capire che Renzi, da Presidente del Consiglio, si era interessato degli affari di Consip, o direttamente o attraverso suo padre, per favorire l’imprenditore napoletano Romeo. Il Fatto fu seguito a ruota da molti altri giornali. Quelli che in genere sprezzantemente – Il Fatto chiama “Giornaloni”. Vennero pubblicate intercettazioni vietatissime. Quelle dei colloqui tra Matteo Renzi e suo padre, e soprattutto quelle tra il padre di Renzi e il suo avvocato (questa circostanza ha pochissimi precedenti nei paesi democratici). Ieri si è saputo che la Procura ha chiesto l’archiviazione per il padre di Renzi. Non c’entra niente. Nessun reato. Oggi, però, Renzi non è più capo del Pd, è stato travolto. E’ stato travolto, in gran parte, proprio per via dello scandalo Consip. Cioè: per la campagna di stampa. Il Pd ha anche perso molti voti. In poco più di un anno quasi la metà del suo elettorato. La caduta del Pd in gran parte è stata causata dalla perdita di credibilità di Renzi. Il caso Consip ha fatto la parte del leone in questa vicenda.

E’ la lotta politica, bellezza, direbbe Humphrey Bogart. Tanto di cappello al Fatto Quotidiano che è riuscito, sul niente – grazie anche all’aiuto di qualche infiltrato nella Procura di Napoli che gli ha fornito le notizie, quelle vere e quelle false – a costruire una campagna di stampa gigantesca, la miglior campagna di stampa – se giudicata sulla base dei risultati – dagli anni cinquanta. Per trovare un precedente forse bisogna tornare al famoso affare Montesi, che appunto è del 1953- 54, quando uno scandalo – che riguardava la morte di una ragazza: Wilma Montesi – travolse il successore di De Gasperi, Attilio Piccioni. Quella volta lo schema familiare era invertito: il padre fu colpito attraverso il figlio, Piero, musicista di prestigio, che fu accusato di aver partecipato a un festino a Torvaianica nel corso del quale sarebbe morta la giovane Montesi. Tutto falso, nel senso che Piero Piccioni non era a nessun festino e che non c’entrava assolutamente niente con la morte di Wilma. Ma ci volle qualche anno per stabilirlo, e intanto Piero si era fatto un po’ di prigione e Attilio era scomparso dalla vita politica. Per sempre.

Ripartiamo da qui. Per porci solo tre domande.

Prima domanda: nella lotta politica quel che conta è il risultato, e i mezzi non sono censurabili mai, anche quando i mezzi sono la menzogna e l’uso illegale delle fonti?

Seconda domanda: il giornalismo migliore è quello che mette al primo posto il risultato politico e al risultato politico subordina l’informazione e la verità?

Terza domanda: la macchina della giustizia funziona meglio se rinuncia alla riservatezza e usa la fuga delle notizie per avere i giornali amici e dunque più possibilità di riuscire?

Ho posto queste domande in modo fazioso, me ne rendo conto, sollecitando le risposte che vorrei. Si fa sempre così. Però provate a prendere sul serio le domande, perché può anche darsi che in molti, forse la maggioranza, vogliano dare a queste domande una risposta realistica, cioè tre sì: sì, la lotta politica non guarda ai mezzi; sì, il giornalismo vero è solo quello vincente; sì, la magistratura deve saper usare la stampa. Io resto aggrappato alla speranza che non sia per tutti così. Una speranza sottile sottile.

Tiziano Renzi verso l’archiviazione. Lui si sfoga: "Deluso, lascio tutto". Nei guai il faccendiere Carlo Russo. Per lui c’è il millantato credito, scrive Stefano Brogioni il 30 ottobre 2018 su La Nazione. Il caso Consip, per Tiziano Renzi, potrebbe svanire in una bolla di sapone. Manca il marchio del gip, ma per la procura di Roma il padre dell’ex premier Matteo non ha “trafficato” con le influenze come inizialmente ipotizzato nei giorni caldi di un’indagine raccontata quasi in diretta sui media per la pesantezza dei nomi in ballo. Ma anziché gioire per aver vinto un’altra battaglia, Renzi senior da Rignano sull’Arno si sfoga con un violento j’accuse. «Vado in pensione, lascio ogni incarico, metto in vendita la mia società. Mi arrendo», dice, laconico. I processi per lui non sono finiti (a Firenze è stato rinviato a giudizio per le false fatture), e allora, annuncia ancora, «tra un’udienza e l’altra farò il nonno». Recentemente, Tiziano aveva avuto ragione contro Marco Travaglio: per gli editoriali al vetriolo del direttore del Fatto Quotidiano riceverà un risarcimento. L’indagine romana sulla Consip, dove comunque sono quasi imputati i renzianissimi Luca Lotti e Filippo Vannoni per presunte spiate sull’indagine che riguardava il colosso degli appalti pubblici guidato dall’ex assessore regionale Luigi Marroni, era stata un’altra bella fonte di grattacapi, per nonno Renzi. La richiesta di archiviazione dei pm romani tratteggia un Renzi che ha fornito ai magistrati una «inverosimile ricostruzione dei fatti e della natura dei rapporti», ma, scrivono i pm Pignatone, Ielo e Palazzi, «non vi sono elementi per sostenere un suo contributo eziologico nel reato commesso da Carlo Russo». Il famoso incontro con l’imprenditore Romeo, ad esempio, ci sarebbe stato. Ma non a Roma e nemmeno a Napoli, bensì a Firenze, nel luglio del 2015, quando però l’inchiesta Consip non era neppure in embrione. Gli inquirenti lo ricavano da un’intercettazione in cui Romeo parla – in termini neanche troppo lusinghieri – di un individuo in sandali e bermuda. La (richiesta di) archiviazione per Tiziano si annoda con la nuova definizione delle accuse per il faccendiere Carlo Russo. Lo scandiccese dovrà rispondere adesso di millantato credito. In pratica, la nuova accusa è che egli abbia speso la conoscenza con Renzi per aprirsi porte che altrimenti avrebbe trovato chiuse. «Siamo davanti a un abuso di cognome», commenta il legale di Tiziano, Bagattini. «Nessuna dichiarazione fino a che non leggeremo le carte», dice invece il difensore di Russo, Gabriele Zanobini.

L’accusa.

Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016.  Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro. 

La difesa.

Tiziano Renzi, il Fatto assolto per quattro articoli d’inchiesta e condannato per due commenti e un titolo. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha anche condannato il padre dell'ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli - firmati con Gaia Scacciavillani - sono stati ritenuti perfettamente veri, scrive "Il Fatto Quotidiano" il 22 ottobre 2018. Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti. Il Tribunale di Firenze ha condannato il Fatto Quotidiano a risarcire Tiziano Renzi con 95mila euro. Il padre dell’ex premier, a leggere la sentenza del giudice Lucia Schiaretti, è stato diffamato da due commenti del direttore Marco Travaglio (60mila euro) e da un titolo di un articolo pubblicato dal Fatto Quotidiano e da ilfattoquotidiano.it agli inizi di gennaio 2016. Nell’annunciare la notizia via social, l’ex segretario del Pd ha parlato di “enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti”. Ciò che Matteo Renzi omette è che sul contenuto dei quattro articoli contestati, il giudice ha assolto il Fatto Quotidiano. Nella richiesta di risarcimento danni per 300mila euro, infatti, Tiziano Renzi aveva definito le nostre inchieste giornalistiche una campagna di stampa contro di lui. Secondo la sentenza, però, i fatti riportati sono veri e di interesse pubblico, quindi non diffamatori. Gli interessi, i legami imprenditoriali e i movimenti di Tiziano Renzi nel mondo degli outlet del lusso erano e restano un fatto conclamato. Il giudice Lucia Schiaretti, nel dispositivo della sentenza, ha condannato il padre dell’ex segretario del Pd a pagare 13mila euro di spese processuali al direttore de ilfattoquotidiano.it Peter Gomez e al cronista Pierluigi Giordano Cardone, i cui articoli – firmati con Gaia Scacciavillani – sono stati ritenuti perfettamente veri. “In linea generale può senz’altro ritenersi che le attività economiche e politiche (quale esponente locale del Pd) del padre del Presidente del Consiglio in carica possano rivestire un pubblico interesse” ha scritto il giudice Schiaretti nella sentenza. I quattro articoli del Fatto Quotidiano contestati da Tiziano Renzi parlavano proprio di questo: dei rapporti (anche economici) del padre dell’allora presidente del Consiglio con gli ideatori e gli sviluppatori degli outlet del lusso targati The Mall. Nella fattispecie, si tratta di tre centri commerciali: quello di Leccio Reggello in provincia di Firenze e dei progetti per realizzare altrettanti mall a Sanremo e a Fasano, in provincia di Brindisi. Il Fatto ha analizzato i ruoli e gli intrecci societari tra tutti i protagonisti dei progetti, la maggior parte dei quali legati a Tiziano Renzi. Che si è sentito diffamato dal contenuto dell’inchiesta e da due commenti del direttore e ha chiesto 300mila euro di risarcimento a Marco Travaglio e Peter Gomez (direttori responsabili del giornale e del sito) e a Gaia Scacciavillani e Pierluigi Giordano Cardone, gli autori dell’inchiesta. Nella sentenza, il giudice Lucia Schiaretti ha analizzato i sei articoli incriminati e ha deciso che quello in cui si parla dei legami tra Tiziano Renzi e gli imprenditori dell’outlet di Reggello “non contiene informazioni lesive della reputazione di Tiziano Renzi”. Il motivo? “L’articolo evidenzia in primis la partecipazione di personaggi del mondo toscano e vicini al Partito democratico quali Rosi, di Banca Etruria, Bacci, finanziatore della Fondazione Big Bang, Sergio Benedetti, Sindaco di Reggello, Niccolai, con il quale Tiziano Renzi costituirà la Party s.r.l. e che erano già in precedenza conosciuti dall’attore, che a Rignano vive da sempre e dove ha sempre svolto la sua attività politica”. Non è lesivo neanche l’articolo che ricostruiva un processo all’epoca in corso ad Arezzo sulla famiglia Moretti. Scive il giudice: “Né si può ritenere lesivo della reputazione del Renzi l’accostamento a personaggi indagati, vicini a lui e al figlio. La rilevanza del fatto narrato si desume dal fatto che il figlio di Tiziano Renzi, Matteo Renzi, era all’epoca Presidente del Consiglio dei Ministri e, dunque, da ciò deriva l’interesse del lettore a conoscere il comportamento della di lui famiglia e di coloro che, come amici o imprenditori, si muovono intorno alla politica del Pd”. Simile il ragionamento che porta il giudice a ritenere non diffamatorio il terzo articolo della serie, che dà conto di alcune perquisizioni ai danni di società che fanno parte del settoreoutlet. “Nel corpo dell’articolo – si legge nella sentenza di Lucia Schiaretti – si specifica che tra le società perquisite c’è anche la Nikila Invest, che controlla il 40% della Party, di cui è socio Tiziano Renzi, padre del Presidente del Consiglio, e amministratore unico la madre del premier Laura Bovoli. L’articolo si colloca, insieme agli altri di cui è causa – prosegue il giudice – nell’ottica di evidenziare i collegamenti di Tiziano Renzi a imprenditori sottoposti a indagini e a Lorenzo Rosi di Banca Etruria; tuttavia, nessuna informazione falsa o lesiva della reputazione dell’attore risulta ivi riportata. L’essere in affari, infatti, è circostanza oggettivamente neutra e nulla ha fatto l’autore dell’articolo per indurre a ritenere che Tiziano Renzi fosse responsabile di alcunché. Deve, dunque, escludersi la natura diffamatoria dell’articolo in oggetto”. Il Fatto Quotidiano, come detto, è stato invece condannato a pagare 95mila euro per due singole parole contenute in altrettanti editoriali del direttore Marco Travaglio (“bancarotta” e “affarucci”) e per un titolo (“Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm”) ritenuto non sufficientemente chiaro su un pezzo giudicato invece veritiero. Tradotto: il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio.

Cambiamo Mestiere, scrive Marco Travaglio il 23 ottobre 2018 su "Il Fatto Quotidiano". Quando un Tribunale ti dà torto e sai di avere ragione, impugni la sentenza e speri che i giudici d'appello te la riconoscano. Così ci siamo sempre comportati, senza fare tante storie. Ora però la sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori. Perchè abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l'esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all' ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell'impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all'ergastolo. Cari lettori, sapete bene di essere l'unica nostra fonte di sostentamento e il nostro unico scudo contro le aggressioni dei potenti: non incassiamo soldi dallo Stato, abbiamo pochissima pubblicità, non siamo sponsorizzati da società o concessionarie pubbliche né da aziende private. Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti, due voci che sono addirittura aumentate negli ultimi mesi, in controtendenza con il mercato sempre più in crisi della carta stampata. E finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più. Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali "a strascico" sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze. Anche perché oggi - come dice Davigo - buona parte della magistratura è stata "genuflessa" dal potere politico come nei suoi anni più bui, dai 50 agli 80, fino a Tangentopoli e a Mafiopoli. Non siamo qui a gridare al complotto né a piagnucolare per la persecuzione giudiziaria. Anzi, se avessimo scritto qualcosa di falso e/o diffamatorio, come può sempre capitare in un quotidiano, avremmo già rettificato da un pezzo, senz' attendere che Renzi sr ci facesse causa. Ma non è questo il caso. Il signore in questione ci aveva intentato una causa da 300mila euro per sei articoli usciti fra il 2015 e il 2016: il giudice gli ha dato torto per quattro articoli e ragione per un titolo (a un articolo ritenuto corretto) e due parole contenute in due miei commenti (per il resto ritenuti corretti). E ha stabilito che il titolo e le mie due parole valgono 30 mila euro ciascuno, più 5 mila di riparazione pecuniaria. Il titolo da 30 mila euro è "Banca Etruria, papà Renzi e Rosi. La coop degli affari adesso è nel mirino dei pm". Riguarda le indagini (vere) sulla coop Castelnuovese, che ovviamente faceva affari, era stata appena perquisita e faceva capo all' ex presidente di Etruria Lorenzo Rosi, in affari con Luigi Dagostino, a sua volta in affari con papà Renzi (che non era indagato, e infatti il titolo si guardava bene dall' affermarlo). Tutto vero, eppure ci tocca pagare 30 mila euro. Le mie due paroline da 30 mila euro ciascuna sono "bancarotta" e "affarucci". In quel momento Tiziano Renzi era indagato a Genova per la bancarotta di una sua società poi fallita, la Chil Post. Che la società fosse fallita non era in discussione (il crac è del 2013), mentre si trattava di stabilire se Renzi padre avesse commesso il reato di bancarotta (in seguito avrebbe ottenuto l'archiviazione, che naturalmente non riportò in vita la società fallita, anche perché altri coimputati sono a processo per quella bancarotta). Il crac c'era, la condanna di Renzi sr per bancarotta no: e infatti non ho mai scritto che avesse commesso quel reato, ma semplicemente che era coinvolto nella bancarotta di una società di cui era stato proprietario (e dove aveva assunto Matteo). Si potrà dire che il termine era "atecnico", come si conviene a un articolo di pura satira (il titolo era "I babboccioni", per dire il tono), non a una sentenza o a una cronaca giudiziaria. Invece il giudice ci vede una diffamazione da 30 mila euro. L'altra costosissima parola proibita è "affarucci". Anche qui tutto vero, e pure preciso: come avevamo scritto spesso nelle pagine di cronaca, insieme a gran parte della stampa italiana, il massone Valeriano Mureddu e babbo Tiziano sono vicini di casa a Rignano sull' Arno e il primo acquistò un terreno dal secondo. Un affaruccio, appunto. Che c' è di diffamatorio? Che - scrive la giudice - "in nessuna parte dell'articolo sia spiegato quali sarebbero tali 'affarucci'". Cioè: i due hanno concluso un affaruccio, raccontato più volte sul Fatto e dimostrato per tabulas alla giudice. Ma è diffamazione lo stesso, perché lei avrebbe scritto l'articolo diversamente da come l'ho scritto io: altri 30 mila euro. Totale: 90+5 e un bacio sopra. Per un titolo e due articoli che non contengono fatti falsi e che riscriverei uguali altre cento volte. E sapete il perché di quella cifra spropositata? Per "la posizione sociale del soggetto diffamato (padre del Presidente del Consiglio, politico e imprenditore)". Perbacco. Così la regola aurea che vuole i potenti più esposti alle critiche viene ribaltata: più conti e meno puoi essere criticato. Una specie di immunità contagiosa per via parentale. E ci è andata pure bene. La giudice spiega di averci fatto lo sconto perché siamo il Fatto, e non il Corriere della Sera che vende il sestuplo di noi: sennò ci avrebbe appioppato 600 mila euro, lira più lira meno (con tanti auguri ai colleghi di via Solferino). La sentenza fa il paio con quella del Tribunale penale di Roma che ci ha condannati a pagare la cifra astronomica di 150 mila euro (per fortuna non ancora esecutiva) ai giudici di Palermo che avevano assolto Mori per la mancata cattura di Provenzano. Avevo osato scrivere che erano andati fuori tema, invadendo il campo dei processi Trattativa e Borsellino-ter e negando il patto Stato-mafia e l'accelerazione della strage di via D' Amelio. Condannato. Poi le sentenze dei due processi han demolito quella su Mori, giungendo alle stesse mie conclusioni di 3 anni prima. Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c' è alcun' arma di difesa. Possiamo prestare tutte le attenzioni del mondo a non scrivere cose false o inesatte. Ma se poi veniamo condannati per aver scritto cose vere o per aver esercitato il nostro sacrosanto diritto di critica, allora dovremmo preoccuparci anche di non disturbare certi manovratori, specie se hanno appena agguantato la vicepresidenza del Csm e fanno il bello e il cattivo tempo nella città del tribunale che ci giudica. E allora delle due l'una. O la classe politica mette finalmente mano a una seria riforma della diffamazione a mezzo stampa, dando valore alle rettifiche e alle smentite, imponendo cauzioni contro le liti temerarie, levando la competenza ai tribunali dove risiedono i denuncianti e soprattutto distinguendo i fatti falsi e gli insulti (che, senza rettifiche e scuse date con evidenza, vanno sanzionati) dalle opinioni critiche e dalle battute satiriche (che devono essere sempre legittime). Oppure noi smettiamo di scrivere cose vere e di criticare chi lo merita. Ma in questo caso verrebbe meno la ragione stessa del nostro mestiere, almeno per come lo intendiamo noi: quella che nove anni fa ci ha spinti a rischiare i nostri soldi e carriere per fondare un giornale libero, critico e veritiero. Di certo, visto che i soldi non ce li regala nessuno né li troviamo sotto le mattonelle, non possiamo scrivere ogni giorno con la spada di Damocle di risarcimenti pesantissimi sul capo, l'ufficiale giudiziario dietro la porta, la quotidiana busta verde nella buca delle lettere e l'avvocato tascabile che ci controlla le virgole. Certo, potremmo evitare tutto questo facendo come tanti altri: usando la lingua al posto della tastiera. O facendoci scrivere gli articoli da qualche giudice, per dire che chi fa fallire le sue società è un grande imprenditore un po' sfortunato e chi compra terreni con un socio lo fa a sua insaputa. Ma non ne siamo proprio capaci. Piuttosto, preferiamo cambiare mestiere.

Fabrizio Boschi per “il Giornale” il 23 ottobre 2018. Renzi è bello carico (Trentino a parte). La Leopolda gli ha ridato vigore e invece di fare il senatore semplice e mettersi da parte come aveva promesso, è tornato alla riscossa. Ieri i giudici gli hanno anche fatto un regalino. «Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo», scrive sulla sua e-news settimanale. E ancora: «Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni». Il giudice del tribunale civile di Firenze che ha emesso la sentenza è Lucia Schiaretti. Tiziano Renzi aveva chiesto 300mila euro di risarcimento, per tre articoli sulla vicenda Chil Post e Mail Service Srl. La condanna di Travaglio riguarda due editoriali del 24 dicembre 2015 e del 16 gennaio 2016. Nel primo, «I Babboccioni», parlando dell'indagine sulla Chil Post, Travaglio aveva scritto «fa bancarotta»; nel secondo, «Hasta la lista», aveva accostato per «affarucci» Tiziano Renzi a Valentino Mureddu, iscritto alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio anche il contenuto di un articolo on line su Banca Etruria e Renzi senior, della giornalista Gaia Scacciavillani. Il padre dell'ex premier è uscito invece sconfitto nella causa contro Peter Gomez e il giornalista Giordano Cardone per articoli sull' edizione on line. Le cose per babbo Renzi non si mettono bene nemmeno per altri «affarucci», come li definirebbe Travaglio. Ieri, in relazione a un'inchiesta del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco, ci sarebbe stata, da parte della Guardia di Finanza, una ulteriore acquisizione di materiale a casa di Silvia Gabrielleschi, dipendente della Marmodiv, altra coop legata ai business dei Renzi e dichiarata fallita dieci giorni fa. L' attività è collegata alle indagini sul fallimento della Delivery service, cooperativa nata nel 2009 con sede presso Confcooperative (le coop bianche) in piazza San Lorenzo a Firenze. Gli investigatori cercano collegamenti tra questa coop, la Eventi 6 dei Renzi e la Marmodiv, appunto. Gli inquirenti ritengono che tra queste società ci sia stato un insolito scambio di fatture. Inoltre ci sarebbe una pista relativa a una presunta truffa legata alla distruzione (a pagamento) dei depliant non consegnati: il macero, la torta su cui tutti puntano, quella che aggiusta i conti. Proprio a Rignano ci sarebbe un magazzino adibito a discarica per le rimanenze, mentre una delle cartiere per il macero si troverebbe a Campi Bisenzio. La Marmodiv è un'azienda fondata nel 2013 da persone legate a papà Renzi, e in questi anni ha visto crescere il fatturato fino a quasi 3,4 milioni di euro. È stato il loro braccio operativo e riceveva gran parte delle commesse della Eventi 6 (che ha come presidente la mamma di Renzi, Laura Bovoli, e socie le sorelle di Matteo, Benedetta e Matilde), la ditta di Rignano sull' Arno specializzata in distribuzione di pubblicità: il compito della Marmodiv era distribuire materiale pubblicitario per Conad, Esselunga, UniCoop Firenze, che avevano firmato contratti con la Eventi 6. A ottobre 2017 la Finanza aveva perquisito i suoi uffici fiorentini acquisendo materiale e hard disk. Ieri altre acquisizioni domiciliari. Ma è sempre il solito fango...

La verità

La verità fra la famiglia Renzi ed il Fatto Quotidiano: Marco Travaglio è stato condannato, scrive il 25 ottobre 2018 Il Corriere del Giorno". ESCLUSIVA! La sentenza integrale della condanna a Marco Travaglio ed al Fatto Quotidiano per aver diffamato il padre di Matteo Renzi. Una sentenza che smentisce quanto asserito dal giornale di Travaglio all’indomani dalla sentenza! Nei giorni scorsi molti organi di informazione, fra cui il nostro giornale, hanno pubblicato la notizia relativa alla condanna in primo grado del Tribunale civile di Firenze nei confronti dell’Editoriale Il Fatto spa (editrice de il Fatto Quotidiano n.d.r.) del suo direttore responsabile Marco Travaglio, e della giornalista Gaia Paolo Scacciavillani, per aver diffamato con i loro articoli Tiziano Renzi, padre del sen. Matteo Renzi, ex premier e segretario nazionale del PD. Una sentenza di condanna che il giornale diretto da Marco Travaglio ha sintetizzato “Assoluzione per i quattro articoli di inchiesta, condanna per il titolo a uno di essi e per due commenti”, sostenendo che “il contenuto degli articoli è vero, corretto, di interesse pubblico e non diffamatorio” ma in realtà tale sintesi riguardava esclusivamente quanto pubblicato online per la quale si è “salvato” dalla condanna  il collega Peter Gomez , in quanto la pubblicazione online secondo la Cassazione non è riconducibile alle norme di Legge sulla Stampa (quindi un “cavillo” giuridico, e non un’ assoluzione sul merito) come dimostra e contiene la sentenza che il CORRIERE DEL GIORNO, unico giornale in Italia, è in grado di pubblicare integralmente, come nostro stile giornalistico. Sentenza che anche Travaglio avrebbe ben potuto pubblicare sul FATTO, ma che stranamente… se è guardato bene dal farlo! Ogni giudizio etico sulla vicenda viene quindi demandato ai lettori, auspicando che abbiano conoscenze e competenze giuridiche per capire il contenuto della sentenza. Noi diamo notizie, non esprimiamo opinioni e sopratutto non ci schieriamo mai con nessuna delle parti in causa. Buona lettura.

Il precedente.

Travaglio punito dal giudice, scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.

La solidarietà corporativa.

Se si va per l’aia di una fattoria e provi a toccare un maiale o un’oca, tutti i loro simili grugniscono o starnazzano.

Lo Stato di diritto contro Travaglio, scrive il 24 ottobre 2018 Democratica. La campagna mediatica giustizialista di Marco Travaglio subisce una brusca battuta d’arresto. Il paradigma giornalistico del “diamogli addosso” di Marco Travaglio non ha passato l’esame del Tribunale di Firenze. L’esito finale della sentenza che condanna il Fatto Quotidiano a pagare 95000 euro al padre di Matteo Renzi, Tiziano, può essere considerato come l’albero sul quale si è schiantato a tutta velocità il giustizialismo usa e getta messo in campo nella campagna mediatica travagliesca contro Renzi. Sulla sentenza che condanna Travaglio e dà ragione a Tiziano Renzi c’è molto da dire. Innanzitutto bisognerebbe dire basta alle campagne di odio politico svincolato dai fatti. Chi tenta di collocare il baricentro del discorso pubblico partendo dal garantismo diviene egli stesso oggetto di attacco. Succede di frequente: si viene inseriti nella black list della Casta, si viene classificati come servi del potere, persino scribacchini mercenari. Intanto Travaglio ha preannunciato che ricorrerà in appello perché è sicuro del fatto che il suo giornale abbia scritto la verità, nonostante i giudici civili, almeno in parte, gli abbiano dato torto. Una mossa lecita se non fosse accompagna dalla reiterazione dell’attacco fine a se stesso: “Cercheremo di farci ridare i soldi. Se le balle, poi, fossero reato, Renzi sarebbe all’ergastolo, quindi starei tranquillo al posto suo. Noi le balle non le abbiamo mai raccontate”. Ora più che mai Marco Travaglio appare un apprendista stregone che oggi paradossalmente incappa in una sentenza di quella magistratura che egli ha eletto al vertice del sistema. L’utilizzo delle notizie maneggiate, quelle prese e ricostruite artificiosamente, l’uso di certe parole offensive, finanche la storpiatura dei nomi per canzonare l’avversario: il direttore del Fatto ripensi al suo modo di fare giornalismo. Ma l’informazione politica, anche quella schierata, non dovrebbe essere altro?

Travaglio unico nel fare giornalismo, scrive Giovanni Coviello fondatore VicenzaPiu.com il 10 ottobre 2018. Fare giornali non è un'impresa facile soprattutto in Italia e non di questi giorni ma da molti anni, da quando di fatto sono ben pochi gli editori indipendenti. Tanto per capirci un editore è indipendente se non ha attività imprenditoriali e/o politiche a cui il suo giornale (stampato, televisivo, online...) possa far comodo portandolo a valutare i suoi risultati non solo su base economica, spesso da anni negativa, ma per gli "aiutini" che la sua linea editoriale può dare agli altri suoi affari. È per questo che, visto che ci siamo costruiti la possibilità di essere editori di noi stessi (una "sfortuna" economicamente, una "fortuna" per i lettori ci premano anche con gli abbonamenti) ci piace seguire Il Fatto Quotidiano. Il giornale diretto da Marco Travaglio, un non simpatico ma grade professionista, non ha padroni di riferimento che non siano alcuni suoi giornalisti, qualche investitore che non ha altri business che non l'informazione e, soprattutto, i suoi lettori. Un giornale così libero (Libero come  è di Angelucci, re delle cliniche private e dei giornali... collegati cioè, oltre a Libero, Il Tempo, il Corriere dell'Umbria, di Siena, di Arezzo, di Viterbo e di Rieti) che, pur essendo più "piccolo",  per la gioia dei lettori può fregarsene della RCS (Il Corriere della Sera e Gazzetta dello sport di Urbano Cairo, finanziato, però da Intesa Sanpaolo che è anche il secondo azionista dopo Confindustria de Il Sole 24 Ore), ovviamente dei giornali (e tv) della famiglia Berlusconi e di quelli della famiglia Caltagirone (Il Gazzettino, Il Messaggero, la Gazzetta del sud...), per non parlare di quelli (La Gazzetta del Sud, Il Giornale di Sicilia...) dell'imprenditore Mario Ciancio Sanfilippo alla sbarra in un processo per concorso esterno all'associazione mafiosa, ma soprattutto del gruppo Gedi dell'accoppiata De Benedetti - eredi Agnelli (Espresso più la Repubblica più La Stampa + Il Secolo XIX più la catena locale dei quotidiani Finegil tra cui Il Mattino di Padova, La Nuova di Venezia, La tribuna di Treviso...). L'elenco dei giornali "dipendenti", serviti da giornalisti "dipendenti" o precari che siano, continuerebbe a dismisura a parte il gruppo dell'editore Riffeser Monti (Il Giorno, la Nazione, Il Resto del Carlino e, cioè, i quotidiani QN) e poche altre eccezioni. I quotidiani più locali (alcuni che fanno capo a gruppi nazionali o para nazionali li abbiamo già citati) non sfuggono alla regola dell'editore impuro. È perciò che noi non ci divertiamo ma abbiamo l'obbligo di far sapere ai lettori, per tutelarne la conoscenza delle fonti a cui si rivolgono per informarsi dei fatti e farsene opinioni, a chi fanno capo i media locali. Se quelli spiccatamente locali sono solo Il Giornale di Vicenza e Tva, che appartengono a Confindustria Vicenza (il secondo direttamente, il primo tramite una società controllata anche da Confindustria Verona) la nostra attenzione, per quanto localmente "piccoli" (numericamente ma sempre meno), come "piccolo" (numericamente ma sempre meno) è Il Fatto Quotidiano rispetto ai colossi dell'editoria padronale nazionale, si concentra su di loro e sulle loro interpretazioni (libere per diritto giornalistico ma non sempre indipendenti dalla proprietà editoriale) dei fatti se non addirittura, come spesso avviene, della loro distorsione se non cancellazione. Per fare esempi non esaustivi ma chiari per le tre suddette caratteristiche citiamo:

- l'interpretazione della convenienza di opere come la Tac Tav e della Pedemontana Veneta (tra i proprietari del GdV e di Tva ci sono quelli che ne traggono e ne trarrebbero utili per loro);

- la distorsione della realtà come per gli ancora recenti e sanguinanti osanna perenni alla Banca Popolare di Vicenza, dei cui vertici facevano parte i vertici di Confindustria sponsorizzati dagli imprenditori amici, e come per gli atti delittuosi e gli immigrati, che nella realtà diminuiscono ma che ci vengono fatti percepire come fattori ogni giorno in crescita di una Vicenza terreno barbaro di lotte per bande, preferibilmente africane e mussulmane, per cui uno scippo diventa terrore di un quartiere (i proprietari del GdV e di Tva hanno come referenti molti politici che sono bravi ad agitare gli spettri della paura e dei mal di pancia, un po' meno a costruire una città meno provinciale e più moderna);

- la cancellazione di fattacci come quelli dei morti e dei feriti sul lavoro (specialmente se sono quelli di aziende come la Marlane Marzotto, i cui nomi o parti di nomi sono oggetto solo di ossequi, e allora due dita mozzate a un gambiano alla Ferretto meritano solo uno sperduto riquadrino); come le pene attuali e future degli impoveriti dal crac della BPVi osannata; come la sodomizzazione della Fondazione Roi; come le denunce intimidatorie ad alcuni, ovviamente pochi coraggiosi, giornalisti, e non parlo solo di me.

Allora ecco il perché del titolo "Travaglio unico per fare giornalismo". Sì, è un travaglio unico farlo bene in Italia e a Vicenza, ma è unico Marco Travaglio nel saperlo denunciare con nomi e cognomi e con fatti e dimenticanze ma anche nel volerlo e saperlo difendere, quello condiviso e quello combattuto, da chi, come Luigi Di Maio, vorrebbe fare a meno di tutto il giornalismo non amico o non servo. Vi proponiamo, quindi, un editoriale di Travaglio, unico anch'esso nell'elencare le opinioni smaccatamente non di parte, è lecito, ma facinorose, i favoritismi e gli oblii dei quotidiani di De Benedetti Elkann ma anche unico e coraggioso nel difendere la Repubblica, La Stampa & c. dalle minacce inaccettabili di un vice ministro come Di Maio. Come li difende è evidenziato in grassetto nell'articolo di sotto riportato, mentre noi, seppure con interno... travaglio, per sostanziare l'ammirazione nei suoi confronti (professionali e non per identità di vedute, spesso diverse), proviamo a difendere l'esistenza di GdV e Tva parafrasando la difesa di Marco Travaglio: Hanno fatto questo e altro, i giornali di Confindustria Vicenza, ma noi vogliamo che continuino a proporsi ai lettori/telespettatori per tre motivi. 1) Nessun deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, ma di sicuro può darle agli editori e ai direttori che li costringono, per loro evidente stato bisogno in assenza di alternative economiche, a servire gli interessi della proprietà e non i lettori 2) Quando VicenzaPiù subisce attacchi ben peggiori delle pagelle dal sistema locale e dai suoi killer, non ci giunge alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché tutti continuiamo ad esistere, la gente può notare la differenza.

Da un travaglio può nascere qualcosa di bello ed è per un po' di quel bello che noi accettiamo il travaglio di fare Giornalismo: è bello il post travaglio. 

La differenza di Marco Travaglio, direttore de Il Fatto Quotidiano.

Hanno scritto di un'intercettazione fra Rosario Crocetta che taceva divertito mentre un amico medico auspicava l'assassinio di Lucia Borsellino come quello del padre Paolo, e non era vero. Hanno scritto di troll russi dietro la campagna web contro Mattarella, e non era vero. Hanno scritto che il capitano del Noe Gianpaolo Scafarto, nel caso Consip, era stato "smascherato come impostore e falsario di passaggi politicamente significativi dell'inchiesta"; e aveva "consegnato a Marco Lillo la notizia del coinvolgimento di Del Sette", insomma era lui "la mano che dà da mangiare al Fatto" per "far cadere Renzi" (fra l'altro già caduto da solo), ma non era vero; e, quando la Cassazione scagionò Scafarto per i suoi "errori involontari", si scordarono di informarne i lettori. Hanno scritto che Di Maio situava Matera in Puglia anziché in Basilicata, e non era vero. Hanno scritto che l'Italia, se rinunciasse al Tav Torino-Lione, dovrebbe pagare "penali" miliardarie, e non è vero (glielo fece notare l'ex pm Livio Pepino in una lettera, ma non la pubblicarono). Hanno scritto che Marcello Foa, aspirante presidente Rai, è un fabbricante di fake news tant'è che ha scritto un libro per "spiegare come si falsifica l'informazione al servizio dei governi", ma non è vero (il suo Gli stregoni della notizia, al contrario, smonta le fake news al servizio dei governi). Hanno scritto che c'è la Russia di Putin dietro le fake news filo-M5S&Lega, e non era vero.

Hanno scritto che il premier Conte voleva trasferirsi dalla cattedra di Firenze a quella di Roma con un concorso "confezionato su misura", e non era vero (il bando era standard). Hanno taciuto sulla tesi di dottorato in larghe parti copiata dalla Madia. Hanno nascosto la bocciatura del Jobs Act di Renzi dalla Corte costituzionale ("Lavoro, su Jobs Act e Cig si ritorna al passato": nessun riferimento nella titolazione alla Consulta e all'incostituzionalità). Hanno nascosto, mentre tutti gli altri giornali ne parlavano, l'inchiesta per la soffiata di Renzi a De Benedetti sul decreto Banche popolari, usata dall'Ingegnere per guadagnare in Borsa 600 mila euro in due minuti, forse perché troppo impegnati a fare decine di titoli su "Spelacchio" (un albero di Natale). Hanno fatto il taglia e cuci dei messaggi di Di Maio alla Raggi per spacciarlo come "bugiardo" e "garante" di Raffaele Marra in Campidoglio, mentre ne sollecitava il trasferimento. Hanno taciuto per giorni il nome dei Benetton, primi azionisti della concessionaria Autostrade (sponsor de La Repubblica delle Idee), dopo il crollo del Ponte Morandi.

Hanno scritto che il ponte era crollato anche per il no del M5S alla Gronda, che però fu bloccata da chi governava città e regione (centrosinistra e centrodestra) e per giunta contemplava l'uso del viadotto Morandi. Hanno scritto di probabili legami con la Casaleggio di tal Beatrice Di Maio e delle sue fake news anti-renziane e non si sono mai scusati quando si è scoperto che era la moglie di Brunetta. Hanno accostato le leggi razziali del fascismo al decreto Sicurezza di Salvini. Hanno pubblicato una bozza apocrifa e superata del contratto di governo giallo-verde facendo credere che prevedesse l'uscita dell'Italia dall'euro e scatenando spread e mercati. Hanno nascosto il sequestro di 150 milioni e di due giornali all'amico editore-costruttore catanese Ciancio Sanfilippo. Hanno spacciato lo scandalo Parnasi come una storia di tangenti al M5S, mentre i partiti finanziati dal costruttore sono gli altri (Pd, Lega e FI). Hanno elogiato Monti quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2020 e massacrato la Raggi quando ha ritirato la candidatura di Roma alle Olimpiadi 2024. Hanno scritto che le polizze intestate dal dirigente Romeo all'ignara Raggi celavano "tesoretti segreti" per "garantire un serbatoio di voti a destra", dunque era "vicina" l'"accusa di corruzione", ma non era vero. Hanno dipinto l'assessora Paola Muraro come infiltrata di Mafia Capitale e della "destraccia" nella giunta capitolina, salvo poi intervistarla dopo le dimissioni come grande esperta di rifiuti. Hanno nascosto l'attacco di Rondolino, che sull'Unità dava del "mafiosetto di quartiere" a Saviano, reo di aver criticato la Boschi, mentre il Fatto restò solo a difenderlo. Hanno minimizzato le epurazioni dalla Rai renziana di Gabanelli, Giannini e Giletti come ordinaria amministrazione.

Hanno fatto questo e altro, i giornali del gruppo Gedi (Repubblica-Espresso-Stampa), ma noi siamo solidali con loro per gli attacchi di Di Maio, per tre motivi. 1) Nessun politico deve permettersi di dare pagelle ai giornalisti, tantopiù se sta al vertice del governo. 2) Quando il Fatto subiva trattamenti anche peggiori da Renzi e dai suoi killer, non ci giunse alcuna solidarietà, ma noi non siamo come loro. 3) Finché usciamo tutti in edicola, la gente può notare la differenza.

Ps. Per la serie "Chiamate la neuro", segnaliamo i delirii di Carlo Bonini (Repubblica) all'autorevole Radio Cusano Campus: "Il Fatto Quotidiano specifica che non prende alcun finanziamento pubblico? È una furbizia. Siccome i lettori del Fatto sono in buona parte elettori del M5S, è un modo per raffigurare ai lettori del M5S che la terra è tonda e non quadrata, dopodiché la terra è tonda". Il pover'uomo ignora che il Fatto è nato prima del M5S e la nostra scelta di non ricevere finanziamenti pubblici prescinde dalle intenzioni di voto dei nostri lettori (peraltro note solo a lui). Volendo, Bonini potrebbe raccontarci degli aiuti statali (o a spese degli altri giornalisti) ricevuti dal suo gruppo per contratti di solidarietà, prepensionamenti & affini. E regalarci una delle sue grandi inchieste sui vertici Gedi indagati per una truffa milionaria all'Inps.

Eppure…nonostante Travaglio....

Editoria: Cdr Il Fatto, informazione libera interesse Paese, solidali con Gedi, scrive Adnkronos il 7 Ottobre 2018. “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i […] Roma, 7 ott. (AdnKronos) – “Un’informazione libera e di qualità risponde al primario interesse di un Paese al quale non può certo bastare la propaganda di chi sta al governo. La nostra solidarietà ai giornalisti e a tutti i lavoratori del gruppo Gedi e delle testate in crisi”. Così in una nota i Comitati di redazione del Fatto quotidiano e de ilfattoquotidiano.it. “Quando giornali e siti di informazione chiudono, dichiarano esuberi o sono costretti a contratti di solidarietà, a rimetterci non sono solo i giornalisti ma anche il pluralismo e quindi la democrazia”, si legge nella nota del Cdr. “Il mercato editoriale e quello pubblicitario vivono situazioni di estrema difficoltà, connesse anche alle trasformazioni tecnologiche e al peso dei colossi della rete e dei trust televisivi, che un vicepremier e ministro del Lavoro senz’altro conosce, o almeno dovrebbe conoscere, meglio di noi. E’ inaccettabile che Luigi Di Maio liquidi i problemi di un importante gruppo come Gedi che edita Repubblica, L’Espresso, La Stampa e altre testate, sostenendo che “nessuno li legge più perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”, con offensivi riferimenti a “bufale” e “fake news” e cioè a una linea editoriale che non gli piace”, si sottolinea nella nota.

Marco Travaglio sbancato in tribunale da Tiziano Renzi: 95mila euro sono troppi, da rivedere la legge, scrive Renato Farina il 24 Ottobre 2018 su "Libero Quotidiano". A Berlusconi dev’essersi sollevato il morale, nonostante i guai tirolesi, per l’umile e insieme dignitosa domanda d’ingresso di Marco Travaglio nel club del quale il Cavaliere è da circa 25 anni presidente. Il circolo si chiama “A me mi hanno rovinato i giudici”. Leggendo l’editoriale di ieri del direttore sulla prima pagina del Fatto quotidiano siamo messi davanti a due avvenimenti antipatici e ad uno stato d’animo atto a suscitare nel lettore un moto di solidarietà. Cominciamo dai fatti. È capitato che il Tribunale di Genova, in sede civile, abbia condannato per diffamazione Travaglio e una sua cronista ad un risarcimento di 95mila euro a ristoro di Tiziano Renzi, il papà di Matteo. Questa sentenza - ci racconta il salassato con una prosa meno satirica del solito - viene dopo un’altra decisione tribunalizia, ancora più pesante: da rifondere con 150mila euro sono in questo caso i giudici di Palermo maltrattati dal Fatto per aver assolto il generale Mario Mori in uno dei tanti processi cui è stato sottoposto. In entrambi i casi siamo al primo grado di giudizio, e non è stata deliberata l’esecutività dell’esborso. Non entriamo nel merito delle sentenze. Travaglio si difende con cipiglio, e le giudica sbagliate fino allo scandalo. Per quanto ci riguarda, noi abbiamo una stanza dei trofei delle assurdità. Ci è capitato di essere condannati per aver scritto che un brigatista rosso aveva partecipato a tre assassinii, mentre pare fossero solo due, e gli avremmo così rovinato la reputazione. In un’altra vicenda, un imam espulso dall’Italia e restituito al Marocco in quanto teorico del terrorismo, è stato gratificato su ordine del Tribunale di 100mila euro: glieli ha dovuti fornire Libero per non averlo trattato come un noto pacifista. La speranza è che se li sia bevuti o spesi a donne, ma temiamo siano stati impiegati per far danni.

UMORE AMARO. Travaglio dice che se va avanti cosi, tra Tribunali e avvocati, il Fatto rischia di chiudere. «Il bombardamento delle cause civili e delle querele penali “a strascico” sta diventando insostenibile, perché rende il nostro mestiere più pericoloso di quello degli stuntman o dei kamikaze». Chiede soccorso ai lettori, a questo punto. Ci risparmia di associarsi alla lagna di quelli che chiedono aiuto al sindacato unico e all’Ordine dei gazzettieri, entrambi enti non solo inutili ma dannosi. E di questo Dio gliene renderà merito: guai a invocare l’aiuto di Belzebù. A nostra volta non gli faremo il torto di fingerci accorati per lui e il suo giro. Siamo stati costretti dalla nascita, 18 e rotti anni fa, a grattarci le rogne da soli, e se le sentenze dei Tribunali ci hanno spennato, a zittirci hanno provato con qualche successo i consigli disciplinari della sventurata categoria, senza trovare sostegno da chicchessia. Amen.

Dicevo dei sentimenti toccanti che traboccano dallo scritto di Travaglio e quasi annegano gli eventi. Si avverte nel giornalista torinese l’umore sconfortato e amaro del cornuto, cui tocca persino versare l’assegno alimentare alla magistratura così amata eppur fedifraga.

REATI DI OPINIONE. Nessuno può mettere in dubbio la nostra cordiale partecipazione al lutto, avendo Libero dedicato al tema di tradimenti e ripicche una fortunata serie, dove Feltri non ha lesinato spigliati consigli per tirare su il morale agli sventurati. Ma uno buono Travaglio lo dà da solo a se stesso, associandosi a una causa che vede il nostro quotidiano, e il direttore in particolare, ingaggiato dall’età di Gutenberg in una battaglia senza quartiere. Quella per dare una regolata seria alle leggi sulla diffamazione a mezzo stampa. Logico che chi sbaglia deve pagare. Ogni categoria professionale, dal medico al meccanico al giornalista, è esposta alla possibilità di errori. Che debba risarcire i danneggiati è ovvio, anche se da questa ovvietà sono immuni i magistrati, nonostante un referendum che nessuno ha osato dal 1988 applicare davvero. Occorre però misura e buon senso. Nel caso delle pretese diffamazioni - oltre alla depenalizzazione - occorre predisporre un tariffario certo e non assassino della libertà di stampa nel definire l’entità del danno, oltre a prevedere forme diverse o sostitutive del ristoro in pecunia, che vadano dalla rettifica alle scuse pubbliche. Sarebbe davvero il caso che questo “governo del cambiamento” mutasse il codice sfoltendolo dai reati di opinione e vilipendio, e impedendo che si punisca una parola esagerata come un omicidio stradale. Renato Farina

Ha ragione (sic!) Travaglio, scrive Piero Sansonetti il 24 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Beh, stavolta mi tocca dar ragione a Marco Travaglio. Ieri ha scritto un articolo appassionato, sul Fatto, per difendere se stesso e il suo giornale da una sentenza di condanna inflittagli dal tribunale per via di una querela che si era beccato da Tiziano Renzi, il padre del leader del Pd. Nessuno può negare che il Fatto da qualche anno abbia scelto Matteo Renzi, i suoi genitori, Maria Elena Boschi e chiunque altro abbia frequentazioni con l’ex premier, come bersagli fissi delle sue polemiche. A volte sensate, spesso costruite su notizie (non sempre vere) fatte recapitare da alcune Procure ai suoi cronisti (penso alla campagna battente su Consip, fondata anche su alcune false informazioni e conclusasi solo quando la Procura di Roma ha bloccato i rubinetti della fuga illegale di notizie proveniente da Napoli). E nessuno può togliere al Fatto la colpa o il merito di avere in questo modo (anche con metodi giornalistici che io francamente non condivido e che considero la quintessenza del giustizialismo) contribuito largamente alla pesante sconfitta politica di Matteo Renzi, al dimezzamento elettorale del Pd, al trionfo delle forze penta- leghiste. Ma tutto questo può essere – e a mio giudizio deve essere – il terreno di una battaglia politica e di cultura. Le Procure non c’entrano niente. E’ vero che né la politica, né tantomeno il giornalismo, sono stati capaci di contrastare le campagne del Fatto, da posizioni garantiste e liberali. Anzi, spesso gli sono corsi appresso. Ma questa circostanza non è colpa del Fatto e comunque in nessun modo investe i compiti delle Procure. Sarebbe bene metterselo in testa una volta per tutte: le Procure non possono e non devono svolgere una funzione di “surroga” della politica. Se la politica è assente è assente: non può un altro potere costituzionale assumerne i compiti. Altrimenti si realizza un corto circuito e questo cortocircuito comporta un disastro, perché riduce le libertà di tutti. E innanzitutto riduce la libertà di stampa. Una cosa è una polemica, dove si può prevalere o soccombere o nessuna delle due cose. Una cosa è una sentenza che ti manda in prigione o riduce drasticamente le tue disponibilità economiche. Travaglio su questo ha del tutto ragione. E’ probabile che sul Fatto sia uscita qualche imprecisione sugli affari economici del papà di Renzi, ed è anche molto probabile che queste imprecisioni fossero funzionali a una polemica esagerata nei confronti dello stesso papà, in quanto papà, e cioè che mirassero a danneggiare il figlio. Ma se ogni imprecisione nelle polemiche, anziché combattuta con l’arma della smentita e della rivalsa polemica, finisce con una sentenza severissima del tribunale, succede esattamente quello che denuncia Travaglio: chi svolge questo mestiere, cioè il giornalista, se mai tra le sue intenzioni ci fosse quella di criticare il potere, si rassegnerà a lasciar perdere e a diventare quieto e mansueto. Il potere non perdona, sa come intimidire, e per farsi valere usa la magistratura. Talvolta, come in questo caso, sono i politici o i parenti dei politici a usare la magistratura. Talvolta – io almeno ho questa esperienza – sono direttamente i magistrati a praticare lo stesso metodo. E’ vero che i giornalisti che criticano i magistrati sono molto meno di quelli che criticano i politici, ma quei pochi sono a rischio altissimo, anche perché i politici spesso le cause le perdono, i magistrati assai raramente. Travaglio alla fine del suo articolo propone la riforma del sistema delle querele e delle cause per risarcimento. Credo che abbia ragione da vendere stavolta. Magari dovrebbe tenere conto, nei prossimi anni, del fatto che tutto questo succede anche per un eccesso di potere assunto dalla magistratura. E dovrebbe ragionare sulla possibilità che questo eccesso di potere sia nato anche in seguito al “fiancheggiamento” della stampa giustizialista. Però è probabile che questa mia speranza sia eccessiva.

Mi sono fatto un paio di domande sulla condanna di Travaglio. Nessuna soddisfazione nel ricorrere alla magistratura nei confronti di qualcuno che mi sta sullo stomaco, scrive Andrea Marcenaro il 24 Ottobre 2018 su Il Foglio. Se c’è una cosa che mi fa onore è non aver mai voluto perdere tempo a chiamare alcuno dei miei amici anziani, ma che furono feroci ai loro tempi, per organizzare l’avvelenamento, o l’omicidio semplice, o peggio ancora lo squartamento di Marco Travaglio. Mai, non mi è nemmeno mai venuto in mente. Così ieri, quando ho visto che Travaglio stesso era stato condannato da un tribunale a pagare 95 mila euri per aver sputtanato uno dei mille che ha sputtanato, posso dirvi in tutta sincerità di essermi domandato, primo, se, come persona che aborre l’intervento della magistratura come risolutrice di ogni questione, avrei fatto un’eccezione per qualcuno che mi stava sullo stomaco. Mi sono risposto che non dovevo. E che non l’avrei fatta. Secondo, se avrei provato comunque, al di là della ragione, una per quanto piccola soddisfazione nel profondo del cuore per quella condanna. No, mi sono risposto per la seconda volta, non provavo alcun compiacimento. Neppure un’ombra. E non ho nulla di cui vantarmi, intendiamoci bene, sono fatto così. Dio, però, quanto mi piace sparare cazzate come queste.

Difendo la libertà di stampa e quindi anche “Il Fatto”, scrive Piero Sansonetti il 25 Ottobre 2018 su "Il Dubbio". Trovo molto, molto ragionevoli le critiche di Emanuela Bellizzi e di Filippo Bassi. (Oltretutto non sono solo ragionevoli ma sono anche – rarità – civilissime). E tuttavia dissento. Provo a spiegare perché. È chiaro – e lo ho scritto anch’io molte volte – che la stampa spesso usa in modo arrogante e anche volgare il suo enorme potere. Talvolta lo fa per spavalderia, talvolta per assecondare altri poteri (essenzialmente il potere economico o quello giudiziario, più raramente il potere politico) e con le spalle protette da questi poteri. E’ evidente che questo atteggiamento, (dovuto anche – credo – alla crisi drammatica che sta vivendo, da 15 anni a questa parte, il giornalismo italiano) costituisce un problema. Poi però c’è un secondo problema, grandissimo, ed è quello della difesa della libertà di stampa. Io sono tra quelli che pensano che la stampa, e l’informazione, in Italia siano a un livello molto basso, e che abbiano un grado minimo di indipendenza. Questo però non vuol dire che allora si può rinunciare alla libertà di stampa. Al contrario, proprio per la qualità scadente della nostra informazione è necessaria assolutamente una battaglia strenua per la libertà di stampa. È chiaro che libertà di stampa non può significare né libertà di insulto né libertà di calunnia. Ma come si combattono questi vizi? Con la magistratura? Io non credo. Credo che si combattano con la battaglia politica, con l’impegno. Conosco per esperienza come funziona l’uso della giustizia da parte del potere – per limitare la libertà di informazione. Personalmente, avendo diretto alcuni giornali ( e quando dirigi un giornale rispondi di qualunque cosa sia stato scritto) ho collezionato un po’ più di centocinquanta azioni giudiziarie contro di me ( tra penale e civile). Succede anche a altri miei colleghi. Difendersi diventa quasi impossibile, perché costosissimo. Ogni azione giudiziaria che si è costretti ad affrontare comporta fatica, tensione, preoccupazione, spese alte. Volete sapere quante di queste azioni giudiziarie sono partite da inermi cittadini? Forse due o tre. Tutte le altre sono state messe in moto da persone molto potenti, in particolare da magistrati o da politici. Le più gravi e pericolose da magistrati. Voi pensate che tutto questo non diventi un fatto oggettivo di forte intimidazione? Immaginate che sia facile continuare a scrivere di quel magistrato o di quel politico che ti ha portato in tribunale, mentre procede l’iter processuale? E sapete che anche se poi si vince la causa nessuno ti rimborserà le spese né il tempo? E sapete che se poi si perde – e non sempre perché si ha torto – si viene condannati a pene detentive o a risarcimenti altissimi, pari a quanto guadagni in due o tre anni di lavoro? Dopodichè chiunque un pochino pochino mi conosce sa che le mie simpatie (professionali) per Marco Travaglio sono a zero. E che sono molto preoccupato per come Travaglio e i suoi hanno occupato quasi tutti i talk show nazionali e hanno sottomesso gran parte del nostro sistema di informazione. Ma non è una questione di simpatia, né di giudizio sulle sue qualità professionali o morali, né di difesa di una parte politica. Il problema è molto più semplice: di fatto, la legge viene usata contro la stampa, nel 99 per cento dei casi, non per difendere i cittadini deboli ma per rendere invulnerabili i poteri più forti. Non tanto la politica, e infatti è difficile sostenere che in Italia non esista la possibilità di criticare la politica. Quanto il potere economico e quello della magistratura. La critica a questi due colossi è veramente molto difficile. Per questo io non credo che la mia difesa – forse un po’ paradossale – di Travaglio sia una difesa corporativa. (Del resto ho scritto moltissimi articoli contro gli attacchi spesso pretestuosi del Fatto a Renzi, o a Boschi o ad altri dirigenti del Pd, ma non solo del Pd). Mi pare che effettivamente sia in gioco una parte del nostro potere di giornalisti (e nella sua difesa c’è sicuramente corporativismo) ma sia in gioco anche un bene più grande e generale che è la nostra libertà di giornalisti. E la nostra libertà interessa tutti. Anche se viene frequentemente usata malissimo e trasformata in libertà di starnazzare, di insultare, di spargere odio.

P. S. So di dire una cosa controcorrente. Però io penso che le sentenze si possano criticare. Non ho mai capito perché non dovrebbe essere possibile criticare una sentenza. Forse sono sacre? Vanno rispettate ed eseguite, questo è logico, anche perché non esiste nessuna possibilità di non rispettarle. Ma perché mai se penso che sia sbagliata non dovrei avere il diritto a dirlo?

Eppure lo stesso Piero Sansonetti diceva…

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

Il Papa: «Giornalismo coprofilo», scrive Piero Sansonetti l'8 Dicembre 2016 su "Il Dubbio". «I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione e possono cadere, senza offesa, nella malattia della coprofilia, che è voler sempre comunicare lo scandalo, comunicare le cose brutte, anche se siano verità. E siccome la gente ha la tendenza alla malattia della coprofagia, si può fare molto danno». Questo attacco durissimo alla stampa e alla televisione (con evidenti riferimenti alla stampa e alla televisione italiane) non è venuto da qualcuno dei soliti “garantisti imbavagliatori”, che vengono sempre denunciati e indicati al ludibrio pubblico dai profeti dell’informazione combattente. No, questa denuncia contro i lanciatori di fango viene dal papa Francesco Bergoglio. Il Papa ha parlato dei problemi dell’informazione e del suo degrado in un’intervista rilasciata al settimanale cattolico belga «Tertio». Non ci è andato tenero, il pontefice. Magari non tutti sanno cosa vuol dire coprofilia. E’ una parola abbastanza aspra: vuol dire amore per gli escrementi. Vogliamo dirla in modo più crudo ed esatto? Amore per la merda. È considerata una tendenza sessuale estrema, rarissima e un po’ inquietante. Il papa ha scelto questa espressione (” amante della merda”) per descrivere le caratteristiche essenziali del giornalismo, con riferimento evidente a parecchi giornali del nostro paese. E’ stato molto chiaro nel suo ragionamento. Non si è riferito solo alle (peraltro non infrequenti) calunnie. Ma anche alle verità usate non per fare informazione ma al solo fine di demolire e mettere fuorigioco un avversario. «Le tentazioni da evitare – ha detto – sono le eventualità in cui le informazioni possono danneggiare qualcuno, le tentazioni che portano i media lontani dalla loro missione, che è quella di costruire opinione. La prima tentazione si verifica quando una persona magari nella sua vita, in precedenza, nella vita passata, o dieci anni fa, ha avuto un problema con la giustizia, o un problema nella sua vita familiare, ma forse ha già pagato con il carcere, con una multa o quel che sia. In questo caso portare questo alla luce oggi è grave, fa danno, si annulla una persona! L’altra deviazione è la disinformazione: cioè, di fronte a qualsiasi situazione, dire solo una parte della verità e non l’altra. Questo è disinformare. Perché tu, all’ascoltatore o al telespettatore dai solo la metà della verità, e quindi non può farsi un giudizio serio. La disinformazione è probabilmente il danno più grande che può fare un mezzo, perché orienta l’opinione in una direzione, tralasciando l’altra parte della verità. I media possono essere usati per calunniare, per sporcare la gente, questo soprattutto nel mondo della politica. Possono essere usati come mezzi di diffamazione» . Non so che risalto avrà questa frustata del papa sui giornali italiani di questa mattina. Temo scarso. I giornali italiani sono fatti così: capacissimi di criticare a sangue chiunque, del tutto incapaci di mettere in discussione se stessi. E siccome il papa è il papa, magari è difficile prenderlo di petto, come si può fare con Renzi, o con Berlusconi, o con Grillo, e dirgliene quattro, ma non c’è nessuna voglia nemmeno di ascoltarlo e di aprire una discussione seria su quanto dice. Meglio sorvolare. Il papa, non c’è dubbio, ha messo il dito nella piaga. In Italia è sempre più diffuso un tipo di giornalismo che nemmeno si pone il problema di sembrare oggettivo. Ho scritto: “sembrare”, nemmeno oso usare la parola: “essere”. Un gran numero di giornali da parecchi anni ha deciso che per conquistare lettori bisogna essere faziosi, avere dei nemici ben visibili e tirare fango (il papa direbbe: “merda”) su di loro tutti i giorni. Venticinque anni fa non era così. I giornali potevano anche essere molto faziosi, poi c’erano i giornali di partito – dichiaratamente schierati con una parte politica – ma comunque compivano uno sforzo per fornire ai lettori una informazione completa. La polemica era dura, anche molto dura, ma questo non impediva la difesa, da parte degli stessi giornalisti, della propria “autonomia”. Venticinque anni fa io lavoravo in un giornale di partito, di opposizione, molto agguerrito. E mi ricordo benissimo le lotte che noi giornalisti conducemmo a difesa della nostra autonomia, anche sfidando il potere del partito- editore, perché sostenevamo che il giornalismo, comunque, deve essere giornalismo, e deve cercare, almeno, il rispetto della verità prima della difesa degli interessi della propria parte. Noi dicevamo che non esiste il giornalista militante. Il giornalista ha le sue idee, le esprime, le applica al suo modo di lavorare, ma non rinuncia mai a sottomettersi alla verità. Poi irruppero sulla scena alcuni giornali “gridatissimi”, molto lontani dall’idea del giornalismo oggettivo. Eravamo ai tempi di “tangentopoli” 19921994. La magistratura aveva iniziato la crociata e i giornalisti messo l’elmo. Alzarono i toni della polemica, ridussero la verità a una comparsa, conquistarono copie e lettori. All’inizio erano giornali di destra, poi questo tipo di giornalismo si estese a sinistra, poi dilagò. E finì per contagiare anche la stampa – come dire? – “borghese”, che si sentì costretta ad inseguire, a fare uso indiscriminato di gossip e di intercettazioni, a venerare il “Dio Sospetto”, ha esaltare il principio della presunzione di colpevolezza. Ha ragione il papa (come spesso gli accade): quella china è diventata sempre più ripida e il giornalismo italiano ci si è rotolato, ed è sceso in basso, in basso, sempre più in basso. Ora sembra che non abbia più né la capacità né la voglia di rialzarsi in piedi, rimettersi in discussione, provare a risalire. Chissà se questa micidiale denuncia del papa, e la forza quasi rozza delle sue parole, riusciranno a scuotere qualcuno. Magari lo stesso sindacato, che qualche decennio fa era in prima fila nella battaglia dei principi alti del giornalismo, ora sembra un po’ rintanato, impaurito. Forse incapace di frenare la coprofilia.

L'impunità (dei giudici) è l'origine del maldigiustizia, scrive Piero Sansonetti su Il Dubbio, il 9 luglio 2016. Vi confesso la mia perversione: tutte le mattine leggo "Il Fatto". E ci trovo in genere due cose: indipendenza e fanatismo. Credo che la "chimica" (come si dice adesso) che ha prodotto il piccolo miracolo editoriale di Travaglio e Padellaro consista esattamente in questo: nel giustapporre due "elementi" così diversi tra loro e così contrapposti ma anche interdipendenti. La modernità dell'indipendenza e il medievalismo del giustizialismo. Il "Fatto" è indipendente perché non dipende da nessun potere economico. E in questo è molto solitario nel panorama della stampa italiana. Ed è sulla base del suo diritto all'indipendenza che fonda quella autolimitazione dell'indipendenza che è la caratteristica di tutti i fanatismi. I fanatismi spesso costruiscono sull'indipendenza dal potere la propria - volontaria - rinuncia all'autonomia, e cioè all'indipendenza del pensiero e del giudizio. Così fa il "Fatto". E si auto-colloca in una posizione di subalternità all'ideale - quasi religioso - del giustizialismo e quindi anche alle forze più importanti che lo perseguono (magistratura sempre, talvolta servizi segreti, spesso settori della politica, e cioè 5 Stelle). Anche ieri era così. Per esempio nella difesa, non richiesta, dei magistrati romani (dei quali parliamo a pagina 6) che hanno perseguitato la scienziata Ilaria Capua e l'hanno spinta a lasciare il parlamento e anche l'Italia perché non sopportava più le calunnie e le accuse. Naturalmente la Capua è stata riconosciuta innocente, dopo svariati anni di persecuzione, anche perché è difficile che un magistrato ragionevole possa davvero pensare che una grande scienziata vada in giro a spargere il virus dell'aviaria per poi poter vendere meglio il vaccino (la storia è esattamente quella degli untori che nel seicento, a Milano, furono condannati dai giudici e uccisi col supplizio della ruota, perché considerati spargitori di peste bubbonica). "Il Fatto" però sostiene che è vero che è stata assolta dai reati di tentata epidemia e di traffico di virus, però l'accusa di associazione a delinquere è stata prescritta e dunque non c'è assoluzione. Per capirci, c'è il sospetto che la Capua non abbia commesso nessun reato salvo quello di realizzare una associazione a delinquere che però aveva la particolarità di non avere come scopo quello di commettere delitti! Capite bene che il ragionamento non regge molto. E difatti la prescrizione è puramente un fatto tecnico. Il reato era caduto in prescrizione e dunque il magistrato non ha potuto giudicare ma ha solo dovuto prendere atto della prescrizione. Certo, si poteva chiedere all'imputato di rinunciare alla prescrizione e così' si riapriva il procedimento, si spendeva un altro bel gruzzoletto di soldi e poi - ovviamente - si assolveva. Del resto il processo alla Capua era costato solo pochi milioni (40 mila pagine di intercettazioni!!!). Vabbé, lasciamo stare. Travaglio però dice che la notizia di reato c'era e dunque era doveroso svolgere l'inchiesta, intercettare, consegnare le intercettazioni ai giornali, sputtanare la Capua e tutto il resto. E poi dice che a chiedere scusa "Dovrebbe essere solo la classe politica senza vergogna che continua ad allungare i tempi dei processi". In che modo la classe politica abbia potuto allungare il processo alla Capua (che in tre anni non è stata mai neppure interrogata...) non lo sa neanche Dio. Ma la bellezza del giustizialismo è questa, è questa la sua forza: essere indipendente (vedete che torna il concetto dell'indipendenza...), indipendente anche dalla ragione. Ci sono però dei problemi seri che emergono da queste polemiche. Primo, la validità dell'obbligatorietà dell'azione penale (prevista dal nostro ordinamento e anche dalla Costituzione, e che è indiscutibilmente una delle ragioni della lentezza della nostra giustizia). Secondo, il risarcimento delle vittime di processi sbagliati (quanto sarà costata alla Ilaria Capua, tutta questa vicenda processuale?) che non avviene quasi mai, o avviene in misura molto ridotta. Terzo la responsabilità civile dei giudici. La legge sulla responsabilità dei giudici è ancora del tutto inadeguata e tradisce palesemente il senso del referendum di trent'anni fa. I giudici (diciamo in modo del tutto particolare i Pm) restano l'unica categoria in grado di commettere errori marchiani senza risponderne alla società. Disse Enzo Tortora (come ricorda il libro bellissimo di Francesca Scopelliti in libreria da pochi giorni) che esistono tre sole categorie che non rispondono dei propri delitti: i bambini, i pazzi e i magistrati. Vogliamo dargli torto? La vicenda Capua torna a mettere sul tavolo questi problemi, che sono molto urgenti perché riguardano i diritti dei cittadini. Non sono problemucci, né sono semplici questioni di principio. Giorni fa il "Corriere della Sera" parlava di 24 mila casi di vittime della giustizia (passati da innocenti per le carceri italiane). E recentemente la "Stampa" ha calcolato in 7000 all'anno il numero degli imprigionati non colpevoli. Possibile che la politica italiana non trovi il coraggio di affrontare un problema così clamoroso solo perché terrorizzata dall'Anm?

Ed a proposito di manette…

Telese: Me ne sono andato dal Fatto perché non voglio morire manettaro, scrive Chiara Sirianni il 5 luglio 2012 su Tempi. «Non ce l’ho con nessuno, ma la mia linea non è quella di Travaglio. È da venti giorni che parla di Napolitano come se fosse Totò Riina. Basta, la politica non è un virus contaminante». Ecco perché Luca Telese si fa il suo Pubblico. «Ero stufo di papelli, politologia, teoremi astrusi. A volte, invece che stare sul campo a scotennare i pochi superstiti, è importante accorgersi che la guerra è finita». Luca Telese è spavaldo, ora che ha ufficialmente divorziato dal quotidiano di via Orazio per approdare in edicola, da settembre, con una testata tutta sua. Del resto anche il Fatto quotidiano, creatura di Antonio Padellaro (direttore) e Marco Travaglio (vicedirettore e uomo icona) è nato da alcuni “dissidenti” dell’Unità (Furio Colombo in primis). E la ruota, prima o poi, gira. Pubblico sarà un giornale di 20-30 pagine, formato Berliner (leggermente più grande del tabloid, utilizzato soprattutto dai quotidiani francesi), molto colorato, pieno di disegni. Il modello di business sarà lo stesso del Fatto: gruppo di soci promotori che detengono il 51 per cento del capitale, per un investimento iniziale complessivo di 650 mila euro. Distribuito su quasi tutto il territorio nazionale, con tre centri stampa in Sardegna, a Milano e a Roma. Aspettative? «Se vendiamo diecimila copie, andiamo in pareggio. Se non vendiamo, chiudiamo». Quindici i redattori, con l’obiettivo di raccontare l’Italia della crisi, «dagli imprenditori suicidi agli operai bidonati da Marchionne». Nonostante non sia un buon momento per l’editoria (Nielsen registra -241 milioni di euro di investimenti pubblicitari nel periodo gennaio-aprile 2012 rispetto all’anno precedente), il campo di gioco è piuttosto affollato. Mentre i partiti di centrosinistra si preparano a rimescolarsi in vista delle elezioni del 2013, anche un altro giornalista “compagno” è alle prese con un debutto cartaceo nel prossimo autunno: si tratta di Piero Sansonetti, già condirettore all’Unità e poi di Liberazione, che ha in cantiere un tabloid, Paese, in distribuzione con alcune testate del Sud. Poi c’è il Manifesto, “salvato” dal decreto editoria approvato dal Senato.

Telese, col Fatto quotidiano non vi siete lasciati benissimo, stando al comunicato stampa con cui le hanno sarcasticamente augurato «buona fortuna». 

«Al Fatto eravamo divisi tra Bosnia-Erzegovina e Croazia. Politicamente, a un certo punto, hanno preso il potere i croati. Parlo di Marco Travaglio e del suo gruppo. Non ho insultato nessuno: ho solo precisato che c’era una differenza di linea. In generale non ci sono stati scontri, anche perché in questi tre anni sono rimasto in redazione certo più di Marco. Faremo persino una partita di calcetto, Pubblico contro i colleghi del Fatto».

Sarà una partita appassionante, visto che in una recente intervista Travaglio ha detto: «A Telese non rispondo: preferisco ricordarmelo da vivo».

«In casi come questo c’è davvero poco da aggiungere. Fa ridere? Non mi pare. È spiritoso? Nemmeno. Intende dire che è come se fossi morto? Se sì, mi preoccupo per lui. Io invece gli auguro di fare un ottimo giornale, e di parlare di mafia finché avrà fiato per farlo. Io faccio un altro mestiere».

Si riferisce alle conversazioni telefoniche, pubblicate sul Fatto, tra Nicola Mancino e il consigliere del Quirinale Loris D’Ambrosio in relazione alla presunta trattativa tra lo Stato e Cosa nostra?

«È da venti giorni che il Fatto tratta la vicenda come se Napolitano fosse Totò Riina. È “giudiziarismo” giacobino, esasperato. Conduce alla non realtà. Il problema di Travaglio è l’antiberlusconismo tardivo, a oltranza. È come se nell’America odierna ci si ponesse il problema di liberare gli atolli dagli ultimi soldati giapponesi».

Eugenio Scalfari, fondatore ed editorialista di Repubblica, l’aveva predetto con un pizzico di sadismo: ora che non c’è più Berlusconi, Marco Travaglio avrà qualche problemino. 

«È l’ideologia del nemico. Il rischio è quello di recitare la commedia anche quando il sipario è calato. Marco è molto carismatico, ma è rimasto un po’ prigioniero del suo ruolo. Che qualcuno pensi di essere portatore di una verità rivelata a me, personalmente, inquieta molto. Contemporaneamente, Beppe Grillo è sembrato una facile via d’uscita: è un partito in forte ascesa? Sì. Ha bisogno di un quotidiano di partito? Diamoglielo».

Perché no?

«Che senso ha scagliarsi per anni contro un imprenditore televisivo per poi mitizzare un comico? Serve altro per fare politica. Non basta urlare a un microfono “siete tutti morti!”. Purtroppo in tempo di crisi tornano in auge i comici e le fattucchiere. Quando invece serve fare, non distruggere».

Ando Gilardi, uno dei personaggi più significativi della fotografia italiana, parlando del rotocalco Lavoro (organo della Cgil) si espresse così, riferendosi al prototipo di operaio da lui fotografato: «Si alzava la mattina troppo presto (…) e dopo troppe ore ecco che usciva e raggiungeva faticosamente casa, dove stanco morto cenava. Ora secondo la stampa illustrata di sinistra quel disgraziato, prima di andare a letto, avrebbe dovuto leggere un giornale che gli parlava della sua vita? Dio remuneri con la Gazzetta rosa tutta la stampa sportiva che è la sola che ha fatto allora, e spero continui a fare, qualcosa di utile per i lavoratori». È un rischio? La gente vuole solo evadere dalla crisi o vuole essere ritratta?

«C’era un bisogno, almeno per me, di puntare il riflettore sull’Italia che soffre. Vorrei raccontare storie di coraggio, di persone che pur nella crisi reagiscono, senza stipendio, senza paracadute. Di certo sarà un giornale di sinistra. Parafrasando Hollande, il giornale del cambiamento. Perché per uscire dalla crisi occorrono soluzioni. I cosiddetti tecnici si sono rivelati dei totali incompetenti, e sento l’esigenza di difendere lo stato sociale da un assalto che si compie togliendo i diritti ai cittadini, dandoci in pasto all’antipolitica».

E qualora i vendoliani di Sel rientrassero in Parlamento, voi accettereste un finanziamento pubblico?

«Vogliamo abbonati e lettori: ci basiamo su quelli, anche perché tutti i giornali finanziati sono falliti. Bisogna aspettare due anni, è rischioso. Stiamo presentando il giornale ovunque: andiamo ai circoli Idv, passando per Fli e le feste del Pd. Su Lusi e Penati andremo giù col Napalm, perché siamo al di là del bene e del male, siamo nel campo della criminalità. Ma con grande rispetto per chi cucina i cappelletti o fa volontariato, come i militanti Pd di Bagnacavallo, con cui parlavo qualche sera fa. Una signora, ostetrica, mi ha chiesto: vorrete mica criticare Bersani? Certo che sì. Serve un Bersani meno bollito».

Per esempio un Nichi Vendola?

«Un giornale non fa politica: suggerisce alla politica un’agenda. La mia sarà una posizione molto laica, dato che non ho tentazioni. Conosco Vendola da anni, e sono libero di dire quando sbaglia e quando la fa giusta. Conosco bene Di Pietro: su personaggi come Scilipoti lo critichiamo, se propone un referendum utile, come quello coltro la riforma Fornero, lo sosteniamo. Ho conosciuto bene pregi e difetti dei politici, e non ho il complesso del vampiro. È Travaglio quello che considera la politica come una sorta di virus contaminante».

Nina Moric contro Marco Travaglio: "Prima manettaro, poi garantista e infine inquisitore", scrive il 5 Novembre 2016 Libero Quotidiano". Marco Travaglio riesce nella mirabile impresa di farsi umiliare da Nina Moric, che lo fa a fettine con una precisione che, onestamente, non era così semplice attendersi. Lo spunto arriva da "un tale Andrea Paolini", così lei scrive, che sul Fatto Quotidiano ha pubblicato un articolo tutto dedicato alle battute infelici della Moric. "Io rispetto il parere degli altri - scrive Nina -, ma un giornalista dovrebbe usare aggettivi soltanto quando questi siano oggettivi o altrimenti specificare che si tratta di opinioni personali di chi scrive". E così, dopo la premessa e qualche insulto gratuito, la Moric demolisce Marco Manetta, alias direttor Travaglio. Lo definisce "una persona confusa, è diventato celebre per le sue accuse a Berlusconi e il suo scarso garantismo riguardo tutti i processi di Silvio". Ma, nota la Moric, "ad un certo punto con un cambiamento di idee da far impallidire Paolo Brosio, è diventato un garantista, uno che diceva che il carcere fosse per i criminali veri". Si parla della campagna condotta anche da Travaglio per la grazie all'ex marito della Moric, Fabrizio Corona. "Lanciò una vera e propria campagna per la sua liberazione - ricorda la croata -, cosa che a me non è dispiaciuta, sia chiaro, salvo poi sul giornale da lui diretto, pubblicare delle vere e proprie inquisizioni su Fabrizio favorendone il ritorno in carcere".

Manettari con tutti gli altri, garantisti coi Cinque Stelle: che brutta fine, Travaglio & co, scrive il 16 giugno 2018 "L'Inkiesta". Con l'ascesa al governo di Di Maio, i censori del Fatto quotidiano sono d'improvviso diventati cauti e garantisti. Salvini, poi, diventa “per distacco il politico più bravo”. La verità? I giornalisti - com'è normale che sia - hanno valori e convinzioni: ammetterlo sarebbe una bella prova d'onestà. Ci vuole fisico per recitare la parte del giornalista censore, sempre concentrato a contare i brufoli del potere, intento a cogliere ogni piccola bava, ogni sfumatura sbagliata, ogni frammento di inopportunità di chi governa e poi, improvvisamente, ritrovarsi ad avere al governo il partito indicato da sempre come unica soluzione possibile di tutti i mali. Ci vogliono le spalle larghe per non mostrare cedimento, per continuare a rimanere affilati e cattivi e riuscire a separare la speranza dall’analisi con onestà intellettuale e invece il Movimento 5 Stelle al governo (o meglio, a fare il cane da passeggio di Salvini mentre Salvini governa e Conte viene usato come controfigura nelle scene più pericolosamente buone e istituzionali) tra le sue conseguenze registra la caduta degli dei del giornalismo giustizialista mai disposto a perdonare che ora diventa iper garantista e insolitamente cauto. Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo. Se vi serve provate a ricordare anche tutti gli scoop sui cugini di Renzi e Berlusconi, sul loro panettiere, sulla fedina penale dei parrucchieri. Bene. Oggi Il Fatto Quotidiano, in riferimento all’inchiesta sul nuovo stadio di Roma che ha visto coinvolto tra gli altri anche Luca Lanzalone (che no, non è solo presidente dell’Acea ma è soprattutto uno degli uomini più vicini a Casaleggio nonché una delle penne dello statuto del Movimento 5 Stelle) scrive: “Diversamente da altri partiti, M5S e Lega non gridano al complotto togato, all’accanimento giudiziario o alla giustizia a orologeria. Salvini però difende Parnasi, dicendo che è una persona perbene, anche se dalle carte risulta tutt’altro. Di Maio ripete che nei 5Stelle chi sbaglia paga e attiva probiviri. Ma se i due azionisti del governo Conte vogliono dimostrarsi diversi dagli altri, non possono accontentarsi di così poco. Salvini, ora che Parnasi è in carcere per corruzione, deve restituirgli i 250 mila euro versati alla onlus leghista. E pubblicare nomi e importi degli altri donatori. I 5Stelle devono cacciare Lanzalone da Acea, dopo aver preteso l’elenco di tutti gli incarichi professionali ricevuti da quando lavora per loro, per verificare e stroncare altri eventuali conflitti d’interessi. E guardarsi da figure ibride come la sua, destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione.”

Chiudete gli occhi e immaginate: cosa potrebbe scrivere un Travaglio (che giornalisticamente parlando è diventato un tipo) di una qualsiasi operazione giudiziaria che veda coinvolto un capogruppo in consiglio comunale del partito di maggioranza e un plenipotenziario mai eletto da nessuno molto vicino al proprietario di un partito che nelle segrete cene decide nomine e strategie? Immaginatelo.

In pratica il direttore censore de Il Fatto Quotidiano dice che devono bastarci i probiviri del Movimento (quelli che per anni dalle pagine de Il Fatto hanno perculato ritenendoli inutili in politica) e ci informa delle attenuanti di cui gode Lanzalone poiché “figure ibride come la sua” sono “destinatarie di ogni genere di attenzione e tentazione”: insomma, dice Travaglio che poveretto Lanzalone è pieno di cattivi lì fuori. In compenso dalle pagine degli organi di stampa vicini al M5S è tutto uno strillare che il costruttore Parnasi “ha dato soldi a tutti i partiti”. Curioso anche questo: sono anni che si ripete che i corruttori corrompono chi governa (e non quelli comodi all’opposizione) e qualcuno se n’è accorto oggi. Meglio tardi che mai. Ma non è il caso specifico che ci interessa: il nuovo governo giallo-verde ha sdoganato una volta per tutte la figura dei funambolici equilibristi anche tra quelli che rivendicavano la propria nettezza di posizioni e di contenuti. Andrea Scanzi (sempre per Il Fatto Quotidiano) ci informa che il razzismo di Salvini non esiste, che l’Italia “pone un problema reale” e che “Salvini è il politico più bravo, per distacco, del lotto. Continua a essere sottovalutato in maniera puerile e miope. Oppure si confonde la bravura con la simpatia”. Chi abbia parlato della simpatia di Salvini in questi giorni di melmosa politica che tiene in ostaggio delle persone perché incapace di trattare con l’Europa non è dato saperlo. E siccome Scanzi ci dice che Salvini “è bravo” (in cosa non è dato saperlo, visto che anch’io vincerei i 100 metri puntando una pistola in testa al giudice di gara ma non mi aspetterei certo gli applausi dello stadio) nel polpettone dei suoi editoriali ci ricorda che ci "sono gli Zucconi a vivere sull’Iperuranio di Stocazzo” e infila un paio di righe per prendere per il culo Nardella e “le Ascani” (che sono dei tipi, evidentemente, alla Travaglio). Così oltre alla bruma di un tempo in cui Giulio Regeni conta meno dei rapporti con l’Egitto, in cui i migranti si dilettano in pacchie e crociere, in cui gli onesti finiscono agli arresti, in cui i giornalisti che cercano i soldi di Salvini vengono trattenuti in caserma senza avvocati, in cui la difesa d’ufficio viene bollata come “business degli avvocati” e in cui il presidente del consiglio vale meno del segretario di un partito al 17% ci tocca sorbirci anche la caduta degli dei del giornalismo senza sconti che lamentano la troppa attenzione dei colleghi. Il punto forse è che il giornalismo che deve essere asettico è una cagata pazzesca che ognuno usa pro bono sua: i giornalisti hanno dei valori e delle convinzioni (che vi piaccia o meno) che non sono negoziabili nemmeno di fronte al potere di turno e quindi inevitabilmente hanno delle posizioni. Con una differenza sostanziale: ammetterle sarebbe una bella prova di maturità e di onestà intellettuale.

Si grida alla libertà di stampa…

La chiamano libertà di stampa ma è tifoseria organizzata. Gli attacchi quotidiani rivolti all'esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d'intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l'approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio, scrive Ernesto Ferrante il 9 ottobre 2018 su opinione-pubblica.com. Lo scontro tra alcune componenti del governo giallo-verde e i feudatari della carta stampata è giunto ad un livello particolarmente cruento. Gli attacchi quotidiani rivolti all’esecutivo dal blocco costituito da direttori editoriali, giornalisti, opinionisti e “pensatori”, cresciuti d’intensità congiuntamente alle minacce di Bruxelles e degli speculatori internazionali, dopo l’approvazione del Def, hanno scatenato le reazioni del premier Conte e del ministro del Lavoro e vicepremier, Luigi Di Maio. Conte, preso ancora una volta di mira per il curriculum, presunti conflitti d’interessi e non dimostrata illegittimità del concorso con cui è diventato professore ordinario nel 2002, ha replicato con una lettera aperta al direttore di Repubblica, Mario Calabresi. Dopo aver sottolineato che “la libertà di stampa è un bene di primaria importanza sul piano assiologico, perché costituisce il fondamento di qualsivoglia sistema democratico”, il premier ha incalzato Calabresi con due sottili domande: “Si può sollecitare una discussione invitando Lei e i Suoi giornalisti a valutare se Voi stessi siate davvero consapevoli di quanto preziosa sia la libertà di espressione e di quali implicazioni l’amministrazione di questo “bene pubblico” comporti sul piano delle responsabilità ?”. E ancora: “Siamo sicuri che le difficoltà con cui attualmente si sta confrontando un po’ tutta la carta stampata siano da ricondurre ai nuovi strumenti info-telematici e non anche, quantomeno in parte, alla rinuncia a coltivare più rigorosamente il proprio mestiere, fidando nell’approfondimento critico delle notizie e nella verifica rigorosa delle fonti?”. Il professore ha rinnovato l’invito al direttore di Repubblica ad avere “un confronto sul momento attuale che sta vivendo la carta stampata, sullo stato dell’informazione e su altre rilevanti questioni per il nostro sistema democratico”, chiarendo anche l’unica condizione posta: che si possa video-registrare l’incontro “in modo che avvenga in piena trasparenza e che di esso sia reso partecipe il più ampio pubblico”. Confronto a cui, stando a quanto ha scritto il presidente del Consiglio, Calabresi si è sottratto, in questi mesi. Meno articolata ma decisamente più veemente è stata la presa di posizione di Luigi Di Maio che attraverso una diretta Facebook, si è scagliato contro i giornali che sistematicamente criticano la maggioranza, ridicolizzandone alcuni esponenti. “Per fortuna, ha detto Di Maio, ci siamo vaccinati anni fa dalle bufale, dalle fake news dei giornali e si stanno vaccinando anche tanti altri cittadini, tanto è vero che stanno morendo parecchi giornali tra cui quelli del Gruppo L’Espresso che, mi dispiace per i lavoratori, stanno addirittura avviando dei processi di esuberi al loro interno perché nessuno li legge più, perché ogni giorno passano il tempo ad alterare la realtà e non a raccontare la realtà”. L’impulsività ha portato il ministro del Lavoro a fare un po’ di confusione, prestando il fianco alle critiche del Gruppo Gedi, il colosso nato dall’integrazione di Itedi (Italiana Editrice) e Gruppo L’Espresso che controlla la Repubblica, la Stampa, il Secolo XIX e i vari giornali locali di Finegil, come Il Tirreno, la Gazzetta di Modena, Gazzetta di Reggio e La Nuova Ferrara, La Provincia Pavese e la Gazzetta di Mantova, Il Mattino di Padova, La Nuova Venezia e Mestre, la Tribuna di Treviso e il Corriere delle Alpi, il Messaggero Veneto e Il Piccolo e il trisettimanale La Sentinella del Canavese. Il leader del M5S, nello scontro con la carta stampata che fa rumore e tendenza, paga anche il conto di una scelta strategicamente sbagliata del Movimento, quella dell’abolizione indiscriminata dei contributi pubblici erogati dal Dipartimento per l’Informazione e l’Editoria della Presidenza del Consiglio. Gli aiuti diretti, che non esistono più già da qualche anno, permettevano la sopravvivenza dei “piccoli”, ovvero i giornali “politici”, quelli delle cooperative di giornalisti e quelli delle minoranze linguistiche. L’ultimo governo Berlusconi e soprattutto gli esecutivi Monti e Letta, hanno progressivamente azzerato la contribuzione, decretando la fine di tante testate e del pluralismo vero e diffuso dell’informazione. I grandi, con editori impuri e grossi gruppi industriali alle spalle, hanno indirettamente beneficiato della campagna condotta dal Movimento Cinque Stelle e da Matteo Renzi. Dure critiche al vicepremier grillino sono state rivolte da Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, segretario generale e presidente della Federazione nazionale della Stampa italiana che hanno parlato di “insulti del vicepremier Luigi Di Maio ai giornalisti di Repubblica e dell’Espresso” che sarebbero “l’ennesima dimostrazione del disprezzo nutrito nei confronti dell’informazione libera e del ruolo che questa è chiamata a svolgere in ogni democrazia liberale”. “Di Maio, come del resto buona parte del governo, si legge ancora nella nota, sogna di cancellare ogni forma di pensiero critico e di dissenso e si illude di poter imporre una narrazione dell’Italia lontana dalla realtà. Auspicare la morte dei giornali non è degno di chi guida un Paese di solide tradizioni democratiche come è l’Italia, ma è tipico delle dittature. È bene che il vicepremier se ne faccia una ragione: non saranno le sue minacce e i suoi proclami a fermare i cronisti di Repubblica e dell’Espresso, ai quali va la solidarietà del sindacato dei giornalisti italiani, e a piegare il mondo dell’informazione ai suoi desiderata”. Una posizione, quella della Fnsi, che appare molto orientata politicamente contro l’attuale governo. Non ricordiamo simili toni con i governi precedenti, colpevoli di aver condannato alla disoccupazione migliaia di giornalisti, poligrafici, distributori ed edicolanti. A Di Maio ha risposto anche il direttore di Repubblica, Mario Calabresi, parlando “di nuovi potenti, ovunque nel mondo” che “si sono accorti che grazie alle tecnologie possono sperare di realizzare il sogno di ogni governante della storia: liberarsi dei corpi intermedi, delle critiche e delle domande scomode. Basta vendere ai cittadini l’illusione della comunicazione diretta, presentata come la più grande delle conquiste democratiche”, attacca Calabresi. “Siamo un giornale di opposizione, è vero, scrive ancora il direttore del quotidiano del colosso Gedi, come lo siamo stati durante i governi Berlusconi o come abbiamo criticato Renzi. Siamo antitetici alle idee di Salvini, allo sdoganamento di comportamenti fascisteggianti, alla continua caccia ai nemici di turno, siano essi gli immigrati o l’Europa, allo scadimento del dibattito pubblico, ridotto ormai a slogan di bassissimo livello. Per quanto riguarda i 5 Stelle ciò che ci spaventa è l’incompetenza. Non hanno idea di come si governi e delle conseguenze delle loro azioni”. Parole inequivocabili e pesanti che non ci sembrano di difesa della libertà di stampa ma di una posizione politica chiara, antitetica a quella del governo giallo-verde. Giornale di opposizione oggi ma di sostegno palese agli esecutivi guidati da Monti, Letta e Gentiloni. E morbido nelle critiche a Renzi. Cassa di risonanza di un ceto politico ed economico che non può certo definirsi popolare e di assetti di potere nazionali ed internazionali che mal digeriscono i cambiamenti di classe dirigente, legittimati a suon di voti dall’elettorato. “Noi non siamo un partito, non cerchiamo consenso, non viviamo di stipendi pubblici (ci avete mai pensato che sia Di Maio sia Salvini non hanno mai avuto altra busta paga nella vita che non fosse quella fatta con i soldi delle nostre tasse?), aggiunge ancora Mario Calabresi, rincarando la dose, ma stiamo in piedi grazie ai lettori che ogni mattina ci comprano in edicola, guardano il nostro sito o si abbonano”. La chiamano libertà di stampa ma a noi sembra più che altro tifoseria organizzata. Le consorterie finanziarie vogliono indebolire il governo e costringerlo alla resa per continuare con l’austerità e i sacrifici che oltre a rallentare la crescita del Paese, hanno eroso i risparmi delle famiglie. Tanti in queste ore inneggiano alla democrazia ma la vorrebbero di fatto sospendere a colpi di spread e di fluttuazioni finanziarie eterodirette per consentire il ritorno al timone degli sconfitti il 4 marzo scorso. Vogliono la cessione totale della sovranità e il governo del cambiamento, pur con i suoi difetti, è un ostacolo in tal senso.

Giornalismo o propaganda? Scrive Valerio Cataldi, presidente Associazione Carta di Roma il 04 ottobre 2018. Ora il colera. L’ennesimo allarme sanitario infondato, impone una riflessione sulla dignità del giornalismo. È ora di scegliere da che parte stare. È necessario stabilire una volta per tutte quale è il limite oltre il tollerabile. Le norme ci sono, i codici deontologici anche, il sistema sanzionatorio è li ad aspettare di essere applicato. Cosa manca allora? Possibile davvero che un giornale si possa permettere periodicamente di lanciare allarmi sanitari, di seminare panico e di spargere menzogne senza subire conseguenze? Credo che di fronte all’ennesima prima pagina disgustosa di Libero la vera domanda sia: quale è il limite di falsità che bisogna superare in questo paese per smettere di continuare a definire giornalismo una certa stampa. È una domanda che giro ai consigli di disciplina dell’Ordine dei giornalisti che si troveranno, di nuovo, a dover esprimere un giudizio su un titolo come quello di oggi sul colera a Napoli portato dagli immigrati. Ma in realtà è una domanda che dovremmo porci tutti noi che facciamo questo mestiere. Quanto siamo disposti ancora a tollerare la violazione delle più elementari regole del mestiere prima di avere una reazione di dignità professionale? C’è un problema profondo di credibilità da recuperare, che viene affossata ogni volta che si propone una prima pagina come quella di oggi. Il tema dei migranti è quello che più di ogni altro riesce a stimolare il lavoro degli “spaventatori” di professione. Ci hanno parlato di imminenti diffusioni di epidemie di lebbra, di ebola, di tubercolosi. Da anni si ripete costante un allarme sanitario terrificante che se avesse un minimo fondamento, dovrebbe prevedere misure di profilassi severissime e riguarderebbe tutti noi. Ma chi si trova di fronte un titolo come quello sul colera come può non aver paura? Dicono che è la verità che è spaventosa, ma quali sono le prove della diffusione di queste malattie? Dove sono i riscontri agli allarmi continui che vengono diffusi attraverso questi messaggi terrorizzanti? Non basta trincerarsi dietro l’articolo 21 della costituzione. Qui non si tratta di libertà di opinione. Questa è propaganda che diffonde paura. Col giornalismo non ha nulla a che fare. Non sta a noi stabilire se viola il codice penale. Sta a noi stabilire se viola le regole fondanti del mestiere di giornalista, la ricerca della verità sostanziale dei fatti. Sta a noi decidere se questo è giornalismo o semplicemente propaganda.

Renzi: "Travaglio e il Fatto condannati a risarcire mio padre". L'ex segretario del Pd scrive sui social che suo padre Tiziano Renzi ha vinto la causa e dovrà essere risarcito, scrive Angela Buscaino, Lunedì 22/10/2018 su "Il Giornale". Aveva intentato causa al Fatto Quotidiano per diffamazione, oggi Tiziano Renzi ha vinto e dovrà essere risarcito. A darne comunicazione il figlio Matteo Renzi sulla sua e-news e sui social. "Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio, con i suoi colleghi, è stato condannato a pagare a mio padre 95mila euro: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo", si legge su twitter. E ancora su Facebook:"Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni".

Matteo Renzi: Marco Travaglio, una sua collega, la società del Fatto Quotidiano sono stati citati in giudizio da Tiziano Renzi per numerosi articoli. Oggi la prima sentenza. Travaglio con i suoi colleghi è stato condannato a pagare a mio padre 95.000€: è solo l'inizio. Il tempo è galantuomo. 13:33 - 22 ott 2018. La querela presentata a Firenze, riporta La Repubblica, verteva su una serie di articoli pubblicati tra il 2015 e il 2016 in cui Marco Travaglio aveva dato del "bancarottiere" a Tiziano Renzi, anticipando la sentenza del tribunale di Genova sul fallimento dell'azienda di famiglia Chil Post. Nel 2016 il gip ha deciso di accogliere la richiesta di archiviazione del pm e quindi, adesso, il direttore del Fatto dovrà risarcire il padre dell'ex premier e pubblicare sul quotidiano la sentenza di condanna.

Renzi: "Prima condanna a Travaglio per aver diffamato mio padre". L'annuncio del senatore pd su Facebook: "Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia". Il processo per 6 articoli, tre ritenuti diffamatori dal Tribunale di Firenze, scrive il 22 ottobre 2018 "La Repubblica". "Una notizia personale. Oggi è arrivata la prima decisione su una (lunga) serie di azioni civili intentate da mio padre, Tiziano Renzi, nei confronti di Marco Travaglio e del Fatto quotidiano". Lo scrive, su Facebook, il senatore del Pd Matteo Renzi. "La prima di oggi - prosegue - vede la condanna del direttore Travaglio, di una sua giornalista e della società editoriale per una cifra di 95.000 euro (novantacinquemila). Niente potrà ripagare l'enorme mole di fango buttata addosso alla mia famiglia, a mio padre, alla sua salute. Una campagna di odio senza precedenti. Ma qualcuno inizia a pagare almeno i danni. Volevo condividerlo con voi. Buona giornata, amici". Il processo civile che ha visto contrapporsi Tiziano Renzi e Il Fatto Quotidiano era incentrato su 6 articoli. Il Tribunale di Firenze ha stabilito che per tre articoli non sussiste diffamazione, e quindi ha assolto il quotidiano. Mentre lo ha condannato per altri tre articoli pubblicati tra fine 2015 e inizio 2016.  Due editoriali e il titolo di un terzo articolo. Nel primo, intitolato "I Babboccioni", parlando dell'indagine in corso a Genova sulla azienda controllata dalla famiglia di Tiziano Renzi Chil Post, Travaglio aveva usato il termine "fa bancarotta"; nel secondo articolo, dal titolo "Hasta la lista" Tiziano Renzi era stato accostato per "affarucci" a Valentino Mureddu, iscritto, secondo le cronache, alla P3. Il giudice ha giudicato diffamatorio invece il titolo di un articolo apparso on line inerente Banca Etruria e Tiziano Renzi firmato dalla giornalista Gaia Scacciavillani. Tiziano Renzi aveva chiesto danni per 300 mila euro. 

Marco Travaglio perde la causa contro Matteo Renzi: "Così chiudiamo", scrive il 23 Ottobre 2018 Libero Quotidiano". "La sentenza del Tribunale civile di Firenze che dà torto al Fatto (cioè al sottoscritto e a una brava collega), imponendoci di versare lo spropositato risarcimento di 95 mila euro a Tiziano Renzi e creando un precedente che mette a rischio la sopravvivenza del nostro giornale, ci costringe a rivolgerci subito a voi lettori". Marco Travaglio, nel suo editoriale su Il Fatto quotidiano, sottolinea disperato: "Abbiamo bisogno di voi. Fermo restando che, se l'esecutività del verdetto non sarà sospeso, pagheremo il dovuto e ci appelleremo per farci restituire i soldi fino all'ultimo centesimo e la nostra onorabilità. Che comunque non può essere messa alla berlina da manigoldi che si fanno scudo dell'impunità parlamentare e che, se le bugie fossero reato, sarebbero all'ergastolo". E ancora: "Viviamo delle copie vendute in edicola e degli abbonamenti", "finora questo bastava e avanzava a garantirci di lavorare sereni, forti del vostro sostegno e dei nostri bilanci attivi. Ma purtroppo, in Italia, fare un buon giornale, libero e indipendente, che incontri il favore dei lettori, non basta più". Conclude Travaglio: "Ora, a botte di sentenze come queste, un piccolo giornale libero come il Fatto non può reggere: ancora un paio di mazzate come queste e si chiude. Perché non c'è alcun'arma di difesa".

Travaglio, senti chi parla: anche lui è un delinquente. Il giornalista insulta di continuo l'ex premier, ma una sentenza lo inchioda: con una condanna definitiva sul groppone è tecnicamente un pregiudicato, scrive Stefano Zurlo, Venerdì 13/09/2013, su "Il Giornale". Delinquente. Pregiudicato. Ancora delinquente. Travaglio & co fanno rullare per h24 i tamburi della loro soddisfazione manettara e infarciscono il Fatto quotidiano come e più di un panino dagli ingredienti forti. Da quando Antonio Esposito ha letto la sentenza che coronava i sogni inseguiti per un ventennio, il travaglismo è tutto un rotolare stentoreo di sostantivi questurini. E, diciamo la verità, c'è tutto un giornalismo ebbro che sta affogando nel linguaggio cupo e burocratico dei mattinali. L'altra sera, nel corso del programma di Gianluigi Paragone, la Gabbia, in onda su La7, Daniela Santanchè gioca maliziosamente con i punti esclamativi, le manette virtuali e il lampeggiante perennemente acceso di Travaglio e l'attacca usando la stessa moneta. La Pitonessa, più Pitonessa che mai, esibisce davanti alle telecamere un pacco di fogli, si presume una sentenza, poi attacca: «Travaglio chiama sempre il mio leader Berlusconi delinquente. Bene, Travaglio è condannato in terzo grado di giudizio e quindi per me è un delinquente e diffamatore». Poteva pure finire lì. Ma l'idolo del giustizialismo italiano evidentemente va a nozze con un mondo che sta tutto nei verbali, negli interrogatori, nei lunghi corridoi mal spolverati di caserme e palazzi di giustizia. Così risponde alla provocazione, invece di riflettere e fermarsi un istante prima: «Se la Santanchè vuol sapere qualcosa su giornalisti delinquenti si rivolga in famiglia». Allusione chiara al direttore del Giornale Alessandro Sallusti, punito, pure lui, in via definitiva con 14 mesi. Nello studio volano gli insulti, anzi in studio ci sono solo le stoccate e i colpi proibiti perché i due contendenti sono fisicamente lontani e collegati via video. «Godo da bestia a chiamarlo delinquente», insiste lei. Travaglio diventa puntiglioso e prova a spiegare la differenza fra i reati fiscali, quelli di cui è accusato il Cavaliere, e la diffamazione, una sorta di malattia professionale del giornalismo: «Quella condanna mi è costata mille euro di multa. Mille euro in trent'anni di professione. Mi reputo fortunato». Come no, ma è vero che a voler essere coerenti fino in fondo l'Italia è una gabbia, altro che quella di Paragone, strapiena di pregiudicati, delinquenti e recidivi. Basta poco per essere marchiati. Come è capitato a molte firme nobili del giornalismo e molti personaggi da prima pagina, per i motivi più disparati. Certo, ha ragione Travaglio nel sostenere che non tutti i reati sono uguali: l'omicidio volontario non è paragonabile all'omicidio colposo che è costato un verdetto di colpevolezza ad un altro protagonista della politica italiana, Beppe Grillo. Ma il problema è un altro. L'imbarbarimento del vocabolario e del resto quella sintassi, ingolfata di termini giudiziari e parapolizieschi, esprime l'ideologia di chi a sinistra ha coltivato l'eliminazione di Berlusconi per via processuale. Ora che i risultati sono arrivati ci si accorge anche di come si è degradato l'orizzonte di tante gazzette e gazzettieri: per anni si è parlato solo e soltanto di avvisi di garanzia, inviti a comparire, leggi ad personam, leggi bavaglio e salvacondotti. Ora siamo alle sentenze irrevocabili, ai pregiudicati, ai delinquenti. E alla decadenza del Cavaliere. No c'è nessun tentativo di pesare il valore di una storia politica che ha segnato questo Paese e ha calamitato milioni di voti. Niente. Solo deposizioni. Solo pentiti e stallieri. Solo prestanome. E la complessità del mondo schiacciata nel buco della serratura di una cella. Nient'altro. Poi ricomincia lo scambio di complimenti e spagnolismi per la gioia di Paragone: «Godo da bestia a chiamarlo delinquente. E poi come tratta le donne - rilancia la Santanchè - ho dei dubbi che gli piacciano». «Le assicuro che non avrà mai modo di provarlo con me», contraccambia lui gentilmente. Prima di chiudere in bellezza: «Qui ci vuole il Tso. Mettetele la camicia di forza».

Travaglio punito dal giudice scivola sulle intercettazioni. Multa più risarcimento di 30mila euro per diffamazione Accusò una giornalista del Tg1 di dare cifre «a casaccio», scrive Stefano Zurlo, Sabato 21/07/2018, su "Il Giornale". L'aveva definita, senza tanti complimenti, la «minzolina di complemento». E l'aveva messa alla berlina, spiegando come il servizio firmato da Grazia Graziadei per il Tg1, sul delicatissimo tema delle intercettazioni telefoniche, fosse zeppo di cifre e numeri ubriachi e campati per aria. Non era così, anche se il pezzo confezionato per il telegiornale delle 20 conteneva in effetti alcuni errori. Marco Travaglio e il Fatto Quotidiano del 4 luglio 2010 hanno passato il segno. Per questo, dopo otto lunghissimi anni, il noto editorialista è stato condannato per diffamazione: la pena, una multa più un robusto risarcimento di 30mila euro a favore della Graziadei, è poco più che simbolica, anche perché sul caso pende la scure della prescrizione, ma in ogni caso per il celebre scrittore è arrivata la condanna. Un verdetto forse inatteso, che giunge dopo un braccio di ferro quasi surreale all'interno della magistratura: per ben tre volte tre giudici diversi di Roma, tre gup, avevano disposto il non luogo a procedere e chiuso il match. E altrettante volte la Cassazione ha annullato quei provvedimenti e riaperto la partita. Quasi un record, con una battaglia sui confini del diritto di critica e di cronaca. «Ieri sera - aveva attaccato Travaglio - il Tg1 per supportare le balle del Banana al Tg4 sulle intercettazioni, ha sparato cifre a casaccio spacciandole per cifre ufficiali del ministero della giustizia». Poi, andava avanti, «ecco il dato farlocco: gli obiettivi messi sotto esame ogni anno sono 130mila». Insomma, per il Fatto Quotidiano il Tg1, allora diretto da Augusto Minzolini, aveva montato la panna descrivendo un Paese immaginario in cui tutti sono intercettati e sotto il controllo di una sorta di Grande Fratello giudiziario. Peccato che il numero dei bersagli «spiati» non fosse stato detto a vanvera ma esatto. Anche se, naturalmente, ogni persona può avere più utenze, fisse o mobili, e dunque certe moltiplicazioni facili e generalizzazioni vanno prese con le pinze. E possono provocare illusioni ottiche e percezioni lontane dalla realtà. Travaglio però aveva contestato proprio quel dato, corretto, e su quello aveva costruito una critica feroce, fino a ridicolizzare l'autrice del servizio. Graziadei aveva infatti messo in evidenza un elemento sorprendente: «Sono pochissime le inchieste di mafia basate solo su intercettazioni». «Sarebbe interessante sapere quante sarebbero finite nel nulla - aveva replicato lui - se non si fossero avvalse anche di intercettazioni. Ma per saperlo ci vorrebbe un telegiornale. Pretesa assurda, trattandosi del Tg1». Per la Cassazione, che ha gettato le fondamenta su cui oggi è scattata la condanna, il «teorema» di Travaglio non sta in piedi, proprio perché altera il punto di partenza: «Una volta accertato che il numero degli obiettivi sottoposti a controllo su base annua era veritiero (e la notizia non poteva che avere la fonte nel competente ministero) ne seguiva che alla giornalista era stato attribuito, contrariamente al vero, l'uso di cifre individuate arbitrariamente («a casaccio») e la loro falsa attribuzione alla fonte ministeriale, con lesione della sua immagine professionale». Travaglio è andato troppo in là. E dopo un ping pong davvero unico, ecco ora la condanna. Anche se quasi al novantesimo dei tempi della giustizia.

Marco Travaglio condannato per diffamazione. Il direttore del Fatto Quotidiano è stato condannato per un articolo sulla trattativa Stato-Mafia...Il Tribunale ha disposto una provvisionale di 150 mila euro, scrive Mercoledì 21 marzo 2018 Affari italiani. Il direttore del Fatto Quotidiano Marco Travaglio è stato condannato dal Tribunale di Roma per diffamazione ai danni di tre magistrati siciliani per un articolo sull’assoluzione degli imputati del processo sulla latitanza e la mancata cattura di Bernardo Provenzano. Lo rende noto, scrive confrontodemocratico.com, Carlo Arnulfo, legale dei magistrati Mario Fontana, Wilma Mazzara e Annalisa Tesoriere. Il Tribunale ha disposto una provvisionale di 150 mila euro, riferisce l’avvocato, “una cifra mai vista”, sostiene. I tre formavano il collegio – IV Sezione Penale – che giudicò gli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Mauro Obinu, accusati di favoreggiamento alla mafia nella persona del superboss e che vennero assolti. Nell’articolo del 16 ottobre 2016 Travaglio scrisse tra l’altro “ora abbiamo anche la ‘cluster sentenza’ che non si limita a incenerire le accuse del processo in cui è stata emessa ma, già che c’è, si porta avanti e fulmina anche altri processi, possibilmente scomodi per il potere”. Travaglio si riferiva al processo sulla presunta trattativa Stato-mafia, attualmente ancora in corso a Palermo, che sarebbe stato condizionato da quella sentenza.

Strasburgo condanna il metodo Travaglio. La libertà d’espressione non contempla il diritto allo sputtanamento, scrive il 17 Febbraio 2017 Il Foglio. C’è un giudice a Strasburgo. Ieri pomeriggio le agenzie hanno battuto una notizia gustosa che riguarda una condanna significativa contro il nostro eroe Marco Travaglio. La storia è nota: nel 2008 e nel 2010, Travaglio fu condannato per aver diffamato Cesare Previti in un articolo pubblicato nel 2002 sull’Espresso per aver riportato solo una parte della dichiarazione del colonnello dei Carabinieri Michele Riccio “generando così nel lettore – si legge nella decisione della Corte, diffusa giovedì dall’Ansa – l’impressione che il ‘signor P.’ fosse presente e coinvolto negli incontri riportati nell’articolo”. Aggiunge la Corte: “Come stabilito dai tribunali nazionali, tale allusione era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell’articolo”. In sostanza: Travaglio accusò Previti di aver partecipato a una riunione dove invece non aveva messo piede, ma nonostante la falsità raccontata il futuro direttore del Fatto, nel 2014, andò contro la decisione dei giudici e scelse di difendersi di fronte alla Corte di Strasburgo rivendicando il diritto alla libertà d’espressione. Nella difesa dell’allora collaboratore dell’Espresso – difesa fatta a fette da un tribunale di primo grado, da uno di secondo grado e da una Corte europea – c’è però qualcosa che vale la pena notare e che riguarda quello che più volte questo giornale ha definito un metodo giornalistico che è stato precursore di un metodo politico fatto proprio dal Movimento 5 stelle: utilizzare in modo creativo lo stile del taglia e cuci delle carte giudiziarie per costruire un fatto alternativo e mascherare poi con il diritto alla libertà d’espressione (o il diritto alla satira) ciò che in realtà è una richiesta più semplice, ovvero il diritto allo sputtanamento. La Corte di Strasburgo ieri ha ribadito che uno sputtanamento è uno sputtanamento e che le post verità non si possono definire verità alternative, come vorrebbe far credere il Movimento 5 stelle, ma si possono definire solo in un modo: bugie. E pubblicare una storia a metà, con il metodo del taglia e cuci, non è un fatto alternativo: è una non verità. C’è un giudice a Strasburgo.

Ecco il casellario giudiziario di Travaglio, il grande inquisitore. Previti, Confalonieri, Del Noce, Schifani: ecco tutte le condanne per diffamazione subìte dal fondatore del Fatto Quotidiano, scrive il 11 Gennaio 2013 su "Libero Quotidiano" Filippo Facci. La letterina con l’elenco delle condanne di Travaglio - letto molto parzialmente da Berlusconi - rimarrà nella piccola storia della nostra televisione come una nemesi straordinaria: le sedie e le parti invertite, lui che legge e l’altro non può replicare, il clima da mattinale di questura. A chi non è piaciuta, non piace Travaglio. Il che non toglie che i contenuti della lettera siano assolutamente veri. 

• Nel 2000 è stato condannato in sede civile per una causa intentata da Cesare Previti dopo un articolo su L’Indipendente del 24 novembre 1995: 79 milioni di lire, pagati in parte attraverso la cessione del quinto dello stipendio.

•  Nel giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001. Nel libro, a pagina 537, così si descrive «Fallica Giuseppe detto Pippo, neo deputato Forza Italia in Sicilia»: «Commerciante palermitano, braccio destro di Gianfranco Miccicché... condannato dal Tribunale di Milano a 15 mesi per false fatture di Publitalia. E subito promosso deputato nel collegio di Palermo Settecannoli». Dettaglio: non era vero. Era un caso di omonimia tuttavia spalmatosi a velocità siderale su L’Espresso, su il Venerdì di Repubblica e su La Rinascita della Sinistra: col risultato che il 4 giugno 2004 sono stati condannati tutti a un totale di 85mila euro più 31mila euro di spese processuali; 50mila euro in solido tra Travaglio, Gomez e la Editori Riuniti, gli altri sparpagliati nel gruppo Editoriale L’Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

• Nell’aprile 2005 eccoti un’altra condanna di Travaglio per causa civile di Fedele Confalonieri contro lui e Furio Colombo, allora direttore dell’Unità. Marco aveva scritto di un coinvolgimento di Confalonieri in indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era inquisito per niente: 12mila euro più 4mila di spese processuali. La condanna non va confusa con quella che il 20 febbraio 2008, per querela stavolta penale di Fedele Confalonieri, il Tribunale di Torino ha riservato a Travaglio per l’articolo Mediaset «Piazzale Loreto? Magari» pubblicato sull’Unità del 16 luglio 2006: 26mila euro da pagare; né va confuso con la citata condanna a pagare 79 milioni a Cesare Previti (articolo sull’Indipendente) e neppure va confuso con la condanna riservata a Travaglio dal Tribunale di Roma (L’Espresso del 3 ottobre 2002) a otto mesi e 100 euro di multa per il reato di diffamazione aggravata ai danni sempre di Previti, reato - vedremo - caduto in prescrizione.

•  Nel giugno 2008 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Roma al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del Tg1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

•  Nell’aprile 2009 è stato condannato dal Tribunale penale di Roma (articolo pubblicato su L’Unità dell’11 maggio 2007) per il reato di diffamazione ai danni dell’allora direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce. Il processo è pendente in Cassazione.

•  Nell’ottobre ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde, che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro «Il manuale del perfetto inquisito», affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata».

•  Nel giugno 2010 è stato condannato civilmente dal Tribunale di Torino (VII sezione civile) a risarcire 16.000 euro al Presidente del Senato Renato Schifani, avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a «Che tempo che fa» il 10 maggio 2008. 

•  Nell’ottobre 2010 è stato condannato civilmente per diffamazione dal Tribunale di Marsala: ha dovuto pagare 15mila euro perché aveva dato del «figlioccio» di un boss all’assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva. 

•  Ora la condanna più significativa. Si comincia in primo grado nell’ottobre 2008: il presunto collega beccò otto mesi di prigione (pena sospesa) e 100 euro di multa in quanto diffamò Previti. L’articolo, del 2002 su l’Espresso, era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». Lo sviluppo era un classico copia & incolla, dove un pentito mafioso spiegava che Forza Italia fu regista di varie stragi. Chi aveva raccolto le confidenze di questo pentito era il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, che nel 2001 venne convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri. In quello studio, secondo Riccio, si predisposero cose losche, tipo salvare Dell’Utri, e Travaglio nel suo articolo citava appunto un verbale reso da Riccio. E lo faceva così: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E così praticamente finiva l’articolo. L’ombra di Previti si allungava perciò su vari traffici giudiziari, ma soprattutto veniva associato a un grave reato: il tentativo di subornare un teste come Riccio. Il dettaglio è che Travaglio aveva completamente omesso il seguito del verbale del colonnello. Eccolo per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri».  Il giudice condannò Travaglio ai citati otto mesi: «Le modalità di confezionamento dell’articolo risultano sintomatiche della sussistenza, in capo all’autore, di una precisa consapevolezza dell’attitudine offensiva della condotta e della sua concreta idoneità lesiva della reputazione».  In lingua corrente: Travaglio l’aveva fatto apposta, aveva diffamato sapendo di diffamare. La sentenza d’Appello è dell’8 gennaio 2010 e confermava la condanna, ma gli furono concesse attenuanti generiche e una riduzione della pena. La motivazione, per essere depositata, non impiegò i consueti sessanta giorni: impiegò un anno, dall’8 gennaio 2010 al 4 gennaio 2011. Così il reato è caduto in prescrizione. «La sentenza impugnata deve essere confermata nel merito... (vi è) prova del dolo da parte del Travaglio». Il quale, ad Annozero, ha bofonchiato di un ricorso in Cassazione: attendiamo notizie.

“Silvio Prescrizioni” di Marco Travaglio – Il Fatto Quotidiano 21 Aprile 2017 – Ieri Silvio Berlusconi ha collezionato la nona prescrizione della sua brillante carriera di imputato nel processo d’appello per la corruzione del senatore Sergio De Gregorio, passato nel 2006 dall’Idv a Forza Italia per la modica cifra di 3 milioni di euro, di cui almeno 1 in nero. In primo grado era stato condannato a 3 anni di reclusione. La prescrizione, specie quando scatta dopo la condanna in primo o secondo grado, non significa assoluzione, ma il contrario: l’imputato è colpevole, però la fa franca perché è trascorso troppo tempo. Se fosse innocente, il giudice dovrebbe assolverlo – scrive Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano nell’editoriale di oggi 21 aprile 2017, dal titolo “Silvio Prescrizioni”. Del resto gli innocenti che vogliono essere assolti nel merito da un reato infamante, rinunciano alla prescrizione per farsi giudicare oltre i termini: B. se n’è sempre guardato bene. Anzi nel 2005 impose la legge ex-Cirielli (il proponente di An se ne dissociò) che di fatto ne dimezzava i termini, raddoppiando i processi destinati al macero e i colpevoli all’impunità. Il tutto in un Paese già affetto da regole processuali demenziali (almeno per gli onesti): mentre in tutti gli altri Stati la prescrizione decorre da quando il reato viene commesso oppure si interrompe alla richiesta di rinvio a giudizio o al rinvio a giudizio o alla condanna di primo grado, qui parte quando il reato viene commesso e non finisce mai, infatti può scattare persino alla vigilia della condanna in Cassazione. Una pacchia che i politici hanno disegnato su misura di sé medesimi e degli altri colletti bianchi, salvo fingere sdegno se ad approfittarne sono gli altri criminali, quelli fuori dal giro. Ovviamente, il fatto che ieri anche la Corte d’appello di Napoli abbia ritenuto B. colpevole di aver corrotto un senatore della maggioranza per annetterlo all’opposizione, agevolando la caduta del governo Prodi nel 2008, cioè per il reato grave che possa commettere un politico ne ll ’esercizio perché ribalta le regole più elementari della democrazia, nei tg e sui giornaloni finirà tra le brevi di cronaca: B. è il più grande prescritto della storia non solo per la giustizia, ma anche per l’“informazione”, dunque per la memoria degli italiani. Tant’è che Forza Italia – fondata da un pregiudicato pluriprescritto e ideata da un attuale detenuto per associazione mafiosa – continua a raccogliere il 12-13% dei consensi e si accinge a correre per il primo posto alle elezioni con Lega e FdI. E viene indicata dal capogruppo Pd Luigi Zanda e dal ministro Carlo Calenda come il principale interlocutore del centrosinistra per una grande coalizione democratica che, al prossimo giro, salverà l’Italia e l’EurC hi si azzarda a ricordare i precedenti penali del Caimano e della sua ghenga viene sommerso da fischi e pernacchie: “Ancora i processi a B.? Ma è un’ossessione!”. Ebbene sì: ecco, in sintesi, quello che i giudici hanno finora accertato su questo recordman mondiale di delitti senza castigo. Facile immaginare quanti anni di galera (non di servizi sociali) avrebbe collezionato in un altro Paese: uno a caso fra quelli (tutti) che non conoscono strane usanze tribali come la prescrizione eterna e le amnistie e gl’indulti à gogo. Mettiamo da parte i processi vinti: 4 assoluzioni (3 dubitative per corruzione della Guardia di Finanza, corruzione Sme-Ariosto-1 e fondi neri Medusa; una piena nel caso Ruby), 2 proscioglimenti (Mediatrade) e 18 archiviazioni (4 a Milano per traffico di droga, Progetto Botticelli, Telepiù, Edilnord commerciale; una a Caltanissetta per le stragi del ’92; una a Firenze per le stragi del ’93; 6 a Palermo per concorso esterno in associazione mafiosa e riciclaggio; 5 a Roma per i voli di Stato, la compravendita di altri senatori, il caso Saccà, il caso Sanjust e il caso Agcom-Annozero; una a Madrid per Telecinco). Sospendiamo il giudizio sui due processi in corso (corruzione di testimoni nel Ruby-ter a Milano; induzione a mentire del teste Gianpaolo Tarantini a Bari). E concentriamoci su quelli che hanno accertato o dichiarato altamente probabile la sua colpevolezza. B. ha frodato 7,3 milioni al fisco col trucco dei diritti Mediaset (condanna definitiva a 3 anni). Ha giurato il falso sull’iscrizione alla P2 (amnistia n.1). Ha pagato in nero i terreni della villa di Macherio (amnistia n.2). Ha frodato il fisco col trucco dei diritti Mediaset per circa 350 milioni di dollari (prescrizione n.1 di tutte le appropriazioni indebite e gran parte delle frodi fiscali durante il processo approdato alla condanna). Ha fatto corrompere dai suoi avvocati Previti&C. il giudice Vittorio Metta per scippare la Mondadori a De Benedetti (prescrizione n.2 in appello). Ha pagato 21 miliardi in nero a Bettino Craxi (prescrizione n.3 in appello al processo All Iberian-1 dopo la condanna in tribunale a 2 anni e 4 mesi) e falsificato i bilanci per stornare i relativi fondi neri in Svizzera (proscioglimento al processo All Iberian-2 perché il fatto non è più reato n.1, avendolo lui stesso depenalizzato). Ha falsificato i bilanci delle sue aziende, come accertato nei processi Milan-Lentini (prescrizione n. 4), contabilità Fininvest 1988-’92 (prescrizione n.5), consolidato Fininvest (prescrizione n.6), Sme-Ariosto-2 (proscioglimento perché il fatto non è più reato n.2, avendolo lui stesso depenalizzato). Ha ricevuto e girato al suo Giornale il file rubato della telefonata segreta Fassino-Consorte su Unipol (prescrizione n.7 in appello dopo la condanna a 1 anno in tribunale). Ha fatto pagare 600 mila dollari a David Mills perché non testimoniasse contro di lui (prescrizione n.8). E ha comprato un senatore (prescrizione n.9 in appello dopo la condanna in tribunale a 3 anni). Alla prescrizione n.10, vince una bambolina. O un posto d’onore nel prossimo governo per salvare l’Italia.

Travaglio: “Prescrizione? Eliminarla sarebbe rivoluzionario”. Bindi: “Fiducia su ddl? Sì, se stop dopo primo grado di giudizio”, scrive Gisella Ruccia il 29 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". “La fiducia posta su un ddl che dice che la prescrizione si interrompe dopo la sentenza di primo grado, sarebbe un punto di incontro della politica con la magistratura e con i cittadini. Ma sarebbe anche un campanello d’allarme nei confronti di chi corrompe”. Lo afferma a Otto e Mezzo (La7) il presidente della commissione antimafia, Rosy Bindi (Pd), in confronto con il direttore de Il Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, riguardo all’ipotesi di porre la fiducia al Senato sul ddl penale, che comprenda gli interventi sulla prescrizione. L’ex presidente del Pd si pronuncia anche sulle dure parole del presidente dell’Anm, Piercamillo Davigo: “Non solo ora, ma anche ai tempi di Mani pulite c’era chi non si vergognava, ma allora si rubava per i partiti, ora la corruzione è legata ai destini personali o delle proprie cordate”. Circa la corruttibilità dei partiti, Travaglio ripercorre il caso Quarto, che ha coinvolto il M5S e osserva: “Quella vicenda insegna a tutti che, in primo luogo, non bisogna avere rapporti organici coi clan e tagliare gli elementi che hanno relazioni con le cosche. In secondo luogo, non si deve candidare gente ricattabile”. Bindi spiega che proprio per questa ragione ha consigliato al M5S e al Pd di non far diventare la lotta alla mafiauno strumento di lotta tra le forze politiche, perché è il più grande regalo che si può fare alle mafie. Travaglio si pronuncia sulla prescrizione: “Anche per me la prescrizione deve andare a morire nel momento in cui la magistratura esercita l’azione penale. I tempi della giustizia sono lenti sia perché facciamo troppi processi, sia perché abbiamo troppi gradi di giudizio. Ma anche perché, se all’inizio del processo sai che, tirando in lungo, arrivi alla prescrizione, intasi la giustizia facendo i tre gradi di giudizio e soprattutto il tuo legale ha l’obbligo di tirare in lungo per salvarti se sei colpevole. Se invece” – chiosa – “non hai nessuna aspettativa di prescrizione, tutte le lungaggini artificiose, che vengono messe in campo soprattutto dagli imputati ricchi e abbienti, non vengono messe in campo. Così, già si contrarrebbero i tempi dei processi. Sarebbe rivoluzionario se sparisse la prescrizione durante il processo”.

Il Tg1 e la prescrizione di Travaglio, scrive il 7 marzo 2011 Trarco Mavaglio, Videoblogger, su "Il Fatto Quotidiano". Il Tg1 dedica la rubrica Media alla prescrizione di Travaglio. Il grandioso scoop era già stato anticipato in prima pagina il 23 febbraio sull’house organ di casa Arcore. Sotto il titolone “Il partito dell’odio” e altre amenità tipiche del Giornale (“I giudici lenti salvano Travaglio”, “E adesso il Fatto Quotidiano vuole bloccare il Parlamento”) campeggiava l’immagine minacciosa di Travaglio che simulava un tiro al bersaglio. “Travaglio aveva citato un verbale di interrogatorio – si legge nell’articolo di Luca Fazzo – ma aveva ‘tagliato’ il pezzo in cui il testimone spiegava che in effetti, forse Previti quel giorno era passato nello studio di Taormina, ma per tutt’altre faccende, e senza partecipare alla riunione incriminata. «Una cesura arbitraria che ha modificato il senso della frase travisando il fatto».” La news ha solleticato anche il palato del quotidiano gemellato, Libero, che nei giorni successivi ha proposto un articolo firmato da Filippo Facci. E all’appetibile banchetto non poteva non partecipare Minzolini, che, nell’edizione pomeridiana del Tg1 del 4 marzo, ha incentrato la rubrica Media proprio su Travaglio e sulla prescrizione a lui concessa per un reato di diffamazione nei confronti di Cesare Previti. Il servizio di Media, curato da Mario Prignano e Francesca Oliva, ha un incipit non un granchè originale: “Chi di prescrizione ferisce, di prescrizione perisce”. E via con il j’accuse del Tg1, lo stesso che lo scorso anno annunciò l’assoluzione di David Mills, quando in realtà fu prescritto: “E così Marco Travaglio, dopo anni di veementi articoli e di invettive televisive, cade nella sua stessa rete”, sentenzia la voce fuori campo di Francesca Oliva, che spiega con ammirevole dovizia di dettagli i fatti. E prosegue: “Travaglio prescritto, dunque. La notizia fa il giro dei blog, meno sui giornali, anche se puntuale arriva la controffensiva di alcuni colleghi. Primo fra tutti, Filippo Facci”. Scorrono nel frattempo le pagine e i titoli del Giornale, frasi del tenore di “Travaglio fatti processare, non fare come Andreotti, D’Alema e Berlusconi” o “Travaglio razzola male, anche lui salvato dalla prescrizione”.  Poco meno di due minuti di fango gettato generosamente nel ventilatore all’indirizzo di Travaglio e della magistratura (accusata di “lentezza”). Su questo servizio scandaloso del Tg1, solo il capogruppo dell’Italia dei Valori in commissione di Vigilanza, Pancho Pardi, ha espresso con veemenza il suo dissenso: “Il metro di paragone del Tg1 continua a essere deformato da un eccesso di disperazione: dopo il ridicolo accostamento tra la vicenda del presidente Leone e i torbidi scandali del premier, ora si mette in mezzo Marco Travaglio per nascondere il carattere ad personam della prescrizione inseguita da Berlusconi. Inutile gettare fumo negli occhi, è evidente che c’è una differenza abissale tra la normale applicazione di un istituto di legge e la creazione di una nuova norma su misura per i reati del presidente del Consiglio. Né è possibile dimenticare che la vantata serie di assoluzioni a favore del premier null’altro è che il prodotto delle leggi ad personam che si è fatto costruire dalla sua maggioranza in questi anni e che questo è l’unico motivo per cui è incensurato. Questo tentativo di voler a tutti i costi trovare dei simili alla rara specie del Caimano è un insulto alla linea editoriale pluralistica ed istituzionale che dovrebbe distinguere il Tg1″. Il mio parere personale è che è vero che, per coerenza, Travaglio avrebbe dovuto rinunciare alla prescrizione soprattutto perchè lui stesso ha sempre accostato il termine prescritto a quello di colpevole (trovandomi assolutamente contrario in quanto non è automatico ma è necessario valutare caso per caso), ma non possiamo assolutamente fare paragoni con l’atteggiamento processuale di Berlusconi (o suoi amichetti) e metterli sullo stesso piano. Vediamo le differenze:

1) un reato di opinione contro i reati gravissimi di Berlusca & Co;

2) la pena inflitta erano 1.000 euro e non anni di carcere;

3) Travaglio non ha il potere di modificare leggi o termini di prescrizione.

Poi inutile ricordare che stiamo paragonando il comportamento di un presidente del Consiglio con quello di un giornalista, fate voi…

Sorpresa, Marco Travaglio ha chiesto la prescrizione! Scrive Piero Sansonetti il 24 Novembre 2018 su "Il Dubbio". Lo strano ricorso del direttore del Fatto Quotidiano che tante volte, insieme a Davigo, ci ha spiegato i “trucchetti” per allungare i processi e “farla franca”…Ieri, nel suo editoriale sul “Fatto”, Marco Travaglio ha ripetuto che c’è una lobby di avvocati che si batte contro la riforma della prescrizione, perché gli avvocati, di solito, usano la prescrizione come tecnica difensiva. Travaglio scrive con molto disprezzo la parola lobby: la considera un sinonimo di gang, o banda, o cricca. Gli avvocati – dice – cercano di fare assolvere i propri clienti colpevoli, specie quelli legati a Berlusconi o a Renzi (che di conseguenza sono colpevoli quasi automaticamente…), non smontando le accuse, perché non potrebbero, ma tirandola per le lunghe e puntando a fare scattare la prescrizione. Dunque pensavo io – Travaglio considera una cosa pessima ricorrere alla prescrizione. E più pessima che pessima, considera l’abitudine di tirare per le lunghe i processi. Lui e Davigo ci hanno spiegato tante volte che ci sono degli avvocati che ricorrono in Appello e in Cassazione, sapendo benissimo che non potranno ottenere la cancellazione della condanna, ma con la speranza di ottenere in questo modo – date le “lungaggini” della giustizia – la prescrizione e dunque la non condanna. Beh, mi sbagliavo. Ieri mi è capitata per le mani una vecchia sentenza della Corte di Cassazione che fa un lisciabbusso a Travaglio e ai suoi avvocati per aver presentato un ricorso manifestamente infondato contro una sentenza d’appello per diffamazione. Perché Travaglio allora presentò quel ricorso? L’obiettivo era evidente: quello di ottenere la prescrizione. La sentenza della Cassazione alla quale mi riferisco – che potete trovare online sul sito della Cassazione – è stata emessa dalla quinta sezione penale ed è la numero 14701 del 2014. Presidente Gennaro Marasca, relatore Paolo Micheli. La sentenza si legge nelle primissime righe riguarda il ricorso “proposto nell’interesse di Travaglio Marco, nato a Torino il 13 ottobre del 1964 e di Daniela Hamaui eccetera eccetera…”. La Hamaui era stata condannata per omesso controllo sull’articolo di Travaglio, visto che all’epoca era direttrice dell’Espresso, giornale sul quale scriveva Travaglio ( i direttori, per legge, rispondono di qualunque cosa venga scritta sul giornale del quale sono responsabili).Poche righe dopo questa intestazione, si legge questa frase: “Uditi per gli imputati ricorrenti gli avvocati Enrico Grosso e Mario Geraci, i quali hanno concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso e l’annullamento della sentenza impugnata ( in subordine senza rinvio, per intervenuta prescrizione)”. Naturalmente quando ho letto quelle due paroline (“intervenuta prescrizione”) ho fatto un salto sulla sedia. Marco Travaglio chiede di essere assolto per intervenuta prescrizione? Lui che considera la prescrizione il male di mali e la bandiera sporca dei garantisti? Che devo dirvi? E’ così. Travaglio ha chiesto la prescrizione. Ci sono ancora un paio di aspetti di questa sentenza che sono interessanti. Il primo riguarda il merito della condanna. Il secondo il merito della sentenza. Il merito della condanna è presto detto. Pare che Travaglio avesse scritto un articolo corredato dal solito titolo sobrio e ammiccante, che diceva così: “Patto scellerato tra mafia e Forza Italia”. Nell’articolo, Travaglio, se ho capito bene, raccontava di un incontro avvenuto nello studio dell’avvocato Taormina nel marzo del 2001 fra lo stesso Taormina, il suo assistito Marcello Dell’Utri e il colonnello dei carabinieri Michele Riccio; l’incontro – si diceva nell’articolo – sarebbe avvenuto per concordare una testimonianza, e sempre nell’articolo si diceva che nello studio di Taormina, secondo la testimonianza del colonnello, c’era anche Cesare Previti. Però Travaglio – sostengono le varie corti che lo hanno condannato – non diceva che il colonnello aveva dichiarato che sì Previti era in quello studio, ma non si incontrò con Riccio e Dell’Utri e la sua presenza non aveva niente a che fare con quell’incontro, nel quale invece si parlava della accuse a Dell’Utri di concorso esterno in associazione mafiosa. Dunque il nome di Previti era stato messo lì a sproposito – hanno stabilito le Corti, e omettendo un particolare decisivo delle dichiarazioni del colonnello Riccio. Il merito della sentenza della Cassazione è ancora più interessante. La Cassazione considera il ricorso del tutto infondato. E dunque – questo lo aggiungiamo noi – pretestuoso. E per questa ragione rifiuta la prescrizione. Perché – dice la Cassazione – siccome il ricorso è inammissibile è come se non ci fosse stato. E dunque la sentenza di appello vale come sentenza ultima, e la sentenza d’appello fu emessa prima che scattasse la prescrizione. Dunque Travaglio non ne ha diritto. Sembra proprio che la Corte di Cassazione avesse letto, quando decise così, gli articoli che Travaglio avrebbe successivamente scritto. E cioè le sue severe requisitorie contro gli avvocati che ricorrono in Appello o in Cassazione solo per allungare i tempi. La Cassazione dice che in questa occasione fu Travaglio a ricorrere solo per allungare i tempi. Cosa c’è da aggiungere? Niente di speciale. Solo constatare il perfetto funzionamento della solita legge del pendolo. Secondo la quale uno è garantista quando l’accusato è lui o qualche suo amico, e non è garantista se l’accusato è un suo nemico. Travaglio se la prende con le lobby degli avvocati. Fa male. Le lobby degli avvocati, se vogliamo usare questo termine (lobby), hanno come interesse comune la difesa dello Stato di Diritto (le lobby sono organizzazioni che tendono a difendere un interesse comune: i petrolieri il prezzo del petrolio, i commercianti il non aumento dell’Iva, i tabaccai la riduzione delle tasse sulle sigarette, gli ecologisti la riduzione delle automobili che inquinano eccetera eccetera). La difesa dello Stato di Diritto è una battaglia che riguarda lo svolgimento del mestiere di avvocati, gli interessi dei propri clienti, ma anche la saldezza del sistema democratico. Poi esistono altre lobby con interessi opposti. Per esempio la lobby che si raggruppa attorno al “Fatto”, ma anche al movimento di riferimento (cioè i 5 Stelle) e ad alcuni settori della magistratura, la quale si oppone al pieno sviluppo dello Stato di Diritto e ne chiede limitazioni che ritiene necessarie per aumentare le condanne nei processi, visto che questa lobby considera il numero alto delle condanne una garanzia di “pulizia” della società. Io personalmente non riesco a mettere sullo stesso piano le due lobby. Penso che non sia la stessa cosa difendere lo Stato di Diritto o osteggiarlo. Riconosco però la piena legittimità di tutte le battaglie ideali e il diritto di tutti ad avere e difendere le proprie idee. Anche le più reazionarie. Anche il diritto di Davigo. Anche quello di Travaglio, che è l’esponente più in vista ed è il più abile di quella lobby. Mi lascia solo un po’ perplesso questo contrasto tra condanna della prescrizione e suo uso. Sarebbe un po’ come se scoprissimo che Salvini ha un gommone col quale, di nascosto, porta in Italia stranieri clandestini…

Diffamazione o prescrizione. Il dilemma di Travaglio. Il condirettore del Fatto Quotidiano diffamò l'ex direttore Rai Del Noce parlando di "cretinismo". Sanzionato in primo grado ma graziato dai ritardi, scrive Annalisa Chirico, Giovedì 06/11/2014, su "Il Giornale". Vi immaginate Marco Travaglio «prescritto» come un Andreotti qualunque? Travaglio «prescritto» come un Berlusconi qualunque? Sia chiaro: non accadrà. Cioè, noi non lo sappiamo, ma non abbiamo motivo di dubitare che il condirettore del Fatto quotidiano farà esattamente quello che ha sempre predicato per gli altri, e rinuncerà alla prescrizione. I fatti risalgono al 2007: l'11 maggio di quell'anno compare su l'Unità diretta da Antonio Padellaro un articolo dal titolo «Di niente di meno» nella rubrica «Uliwood party» di Travaglio. Il giornalista critica l'allora direttore di RaiUno Fabrizio Del Noce paragonandolo a un «Re Mida alla rovescia», capace di clamorosi insuccessi con ogni conduttore da lui «sfiorato». Del Noce s'incazza e lo querela, anzi, lo ha già querelato per un precedente articolo cui Travaglio fa riferimento nello scritto incriminato: «Vorrei rassicurarlo (Del Noce, ndr), il titolo dell'articolo La prevalenza del Cretino era tratto da un celebre libro di Fruttero e Lucentini. Potrebbe farselo leggere da qualcuno che ci capisce e poi farselo raccontare. Il mio titolo tentava di descrivere il cretinismo imperante nella rete ammiraglia, elencando tutti i talenti con i quali Noisette è riuscito a scontrarsi nella sua ridicola gestione di RaiUno». Noisette è un francesismo poco apprezzato dal giudice del tribunale di Roma Paola de Martiis che ravvisa «attacchi personali diretti a colpire su un piano morale» la persona criticata, ben al di là del legittimo diritto di critica. Il 28 aprile 2009 Travaglio viene condannato per diffamazione (insieme a Padellaro per omesso controllo). Travaglio deve pagare una multa di tremila euro, cui se ne aggiungono 10mila a titolo di risarcimento alla persona offesa. L'imputato, che è a tutti gli effetti un presunto innocente, ricorre in appello, proprio presso quelle corti d'appello da lui bollate spregiativamente come «scontifici». La corte d'appello di Roma è sbalorditivamente lenta, anzi, con Travaglio batte il record di lentezza dato che a distanza di cinque anni non viene fissata neanche l'udienza di apertura. Rimane tutto sospeso fino al prossimo 11 novembre, quando il reato sarà definitivamente prescritto. Sia chiaro: se capitasse a noi, non rinunceremmo certo alla prescrizione. Ma si sa, da queste parti navighiamo in acque impure, e senza sensi di colpa. Noi, a differenza di Travaglio, non scriveremmo mai che «la prescrizione non è assoluzione, anzi l'esatto contrario». Semplicemente perché non lo pensiamo. La prescrizione è un istituto di garanzia per il cittadino che non può essere perseguitato a vita. Noi non scriveremmo mai che Travaglio prescritto vuole «farla franca». Non scriveremmo mai che Travaglio deve rinunciare alla prescrizione «se non ha nulla da temere». Non scriveremmo mai che deve fare così «chi è raggiunto da sospetti infamanti» (Travaglio versus Moratti ai tempi di Calciopoli). La diffamazione, del resto, non è una bagatella né una marachella. Con la penna si può uccidere, e chi scrive deve tenerlo a mente. La reputazione delle persone non è una caramella da sciogliere in bocca. Niente, nella nostra insulsa impurità noi ci terremmo stretta «'sta prescrizione», come un Andreotti qualunque. Lui, ancora una volta, ci sbatterà in faccia la nostra sconfinata mediocrità e si staglierà al di sopra di noi tutti con un gesto eclatante e rivelatore: «Io sono Marco Travaglio, maestro di purezza».

La maxiballa delle condanne di Travaglio, scrive il 18 gennaio 2013 la redazione di Servizio Pubblico su "Michele Santoro". Marco Travaglio risponde all’accusa di essere un diffamatore di professione: “Sono incensurato, condanne nessuna. In 30 anni di carriera su 20mila articoli, 200 trasmissioni tv, 2000 conferenze e 30 libri ho perso alcune cause civili su un totale di 200”. Travaglio ripercorre alcune delle sue vicissitudini giudiziarie e mostra il suo casellario giudiziale intatto: “Berlusconi mi attacca? Contro di lui ho vinto sempre le cause. Il Cavaliere non conosce la differenza tra civile e penale: nel primo caso si accerta il danno, nel secondo il reato”. Ma cosa aveva detto il Cavaliere nel corso della puntata di Servizio Pubblico? Ecco la lettera a Travaglio: “Signor Travaglio, la sua carriera è legata a me. Io sono il suo core business. Lei si è laureato, poi grazie ad una raccomandazione trovò posto da un editore. Che ero io, al Giornale”. “Per la sua attività editoriale è stato condannato 10 volte dai tribunali, ha anche usufruito di una prescrizione […]. La sua attività editoriale, della quale io rappresento il protagonista, le ha portato ingenti guadagni. Ha vissuto in maniera più che agiata, se il metodo del copia incolla che utilizza non gli avesse costato enormi spese”. Santoro interviene – “E’ una scartoffia che le hanno scritto. E’ una cosa vergognosa” -  il Cavaliere replica – “Lei dovrebbe andarsene, Travaglio è un diffamatore professionista”. Santoro chiosa: “E’ allora Sallusti cos’è?”. Pochi minuti dopo la scena passata alla storia: Berlusconi che pulisce la sedia su cui era seduto proprio il giornalista del Fatto.

Il dolo di Travaglio, scrive Filippo Facci sul suo blog il 19 gennaio 2013. Scusate, se l’argomento vi annoia vi basta non leggere. Ma è per completezza: perché Marco Travaglio, vedete, è tornato sul tema a lui tanto caro (economicamente) delle sue condanne per diffamazione. L’ha fatto a Servizio Pubblico, ovviamente, parlando da solo, ovviamente. L’ha fatto per via dei lettori e teleutenti che chiedevano chiarimenti: segno che non ne aveva mai dati. Il presunto collega ha mostrato il suo casellario giudiziale – è il quarto anno di fila che lo fa – dove «c’è scritto nulla», quindi ha gongolato come se stringesse in mano un’indulgenza per l’altro mondo. Penalmente, è incensurato: esattamente come Silvio Berlusconi. Però Berlusconi è prescritto: anche Travaglio, visto che l’ultima sua condanna penale è andata in prescrizione il 4 gennaio 2011. Nei sette minuti supplettivi da lui sequestrati a Servizio Pubblico, in sostanza, Travaglio ha spiegato di essere il migliore come sempre: migliore dei colleghi e direttori berlusconiani «condannati per diffamazione» – loro sì – e migliore dei giudici che «non hanno capito» in quanto l’hanno condannato, migliore dell’intera stampa italiana che dopo Servizio Pubblico, badateci, «la differenza tra penale e civile non l’hanno capita neanche loro». A meno che a questa differenza, più semplicemente, i giornali italiani non abbiano dato l’importanza che Travaglio le attribuisce. Il presunto collega, infatti, continua a parlare (da solo) come se le condanne civili non nascessero comunque da un illecito e da un cattivo giornalismo, e come se il primo a mischiare e pubblicare le condanne penali e civili dei colleghi, a suo tempo, non fosse stato lui.

Qui tocca aprire una parentesi. Il presunto collega, su l’Unità del 21 ottobre 2008, pubblicò il casellario giudiziale dello scrivente là dove compariva soltanto l’esito di una querela dell’avvocato Giuseppe Lucibello (che in un libro avevo sbeffeggiato per via del suo abbigliamento) e cioè una condanna a 500mila lire di multa più 10 milioni di provvisionale. Poi il presunto collega passò alle cause civili: tutte di magistrati amici suoi più una di Enzo Biagi. E poi, ancora, siccome il bottino era oggettivamente scarso, ecco la carognata: pubblicò anche estratti di condanne non definitive per querele che nel frattempo erano state ritirate, in quanto le parti (gli studi legali, cioè) avevano raggiunto accordi in via transattiva. Cioè: quei procedimenti non esistevano più (nel casellario non ci sono mai stati) ma lui li pubblicò lo stesso. E ora, quattro anni dopo, si lagna che mischiare il civile e il penale «è scorretto». Ora che la sua stessa arma gli si ritorce contro, cioè, ecco fiorire distinguo su distinguo: e così giovedì sera ha cercato di separarsi dai «direttori berlusconiani, loro condannati più e più volte, loro sì diffamatori professionali», gente diversa da «noi, che non abbiamo nessuna condanna per diffamazione». Interessante. Noi chi? Una risposta a tono, purtroppo, implicherebbe l’elenco dei suoi amici e colleghi che sono incappati pure loro in condanne per diffamazione, magari con la specifica che anche il grande Indro Montanelli me ha collezionate a bizzeffe, di condanne. E così pure tutti i grandi del giornalismo. Rispondere a tono, cioè, implicherebbe il dare corda al gioco prediletto da Travaglio in tutti questi anni: sostituire la fedina penale alla carta d’identità, spiegare ai più beoti tra i suoi fans che un giornalista condannato per diffamazione sia tutta ‘sta cosa. Meglio di no. Meglio lasciare a Travaglio il suo certificato di purezza, da esibire in cento altre trasmissioni.

1) Solo, ecco: si difenda un po’ meglio. Giovedì sera ha detto d’aver perso una querela con Previti, parole sue, «perché l’avvocato non è andato a presentare le mie prove». Colpa dell’avvocato.

2) Poi ha detto che una causa – persa col magistrato Filippo Verde – gli è andata male «perché il giudice ha capito» una cosa sbagliata. Colpa del giudice. Il quale, a dire il vero, nella sentenza ha scritto che Travaglio si era espresso «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata». Ma questo non c’era bisogno di dirlo a Servizio Pubblico.

3) Però ha detto, Travaglio: «Avevo scritto che Confalonieri doveva vergognarsi di accusare la sinistra di voler espropriare Mediaset come a Piazzale Loreto», e questa semplicemente è stata ritenuta dal giudice «una critica eccessiva». Tutto qui. Agli amici di Servizio Pubblico non ha detto altre cose, però. Non ha detto che, secondo il giudice, lui – Travaglio – aveva dato per certe «ipotesi d’accusa non ancora accertate», che aveva riferito «illeciti non veritieri», che le notizie riferite da Travaglio «devono ritenersi non conformi al principio della verità e pertanto devono ritenersi sussistenti gli estremi del reato di diffamazione». Ops, scandalo, il giudice ha scritto «reato» nonostante fosse una causa civile. Un altro ignorante da segnare sul quadernino, Marco.

4) Poi Travaglio ha detto: «Ho scritto che Confaloinieri era imputato assieme a Berlusconi nel processo mediaset, ma non che era imputato per un altro reato. Il giudice ha capito che gli avessi detto che era imputato per lo stesso reato». Colpa del giudice.

5) Travaglio ha spiegato, poi, d’esser stato condannato per aver evocato «la metafora della muffa e del lombrico» riferita al presidente del Senato, Renato Schifani. Una metafora, ha detto il presunto collega, che era riferita eventualmente al successore di Schifani, non a Schifani. E però – ha detto agli amici di Servizio Pubblico – «il giudice o non ha capito o non ha apprezzato la battuta». Colpa del giudice. Non ha capito.

6) Travaglio ha poi riassunto nel seguente modo la condanna civile per causa della collega Susanna Petruni: «Una giornalista della Rai, berlusconiana di ferro, mi ha denunciato perché ho detto che è una berlusconiana di ferro. Dodicimila euro m’è costata». Eh no. Travaglio l’aveva definita «non obiettiva e asservita al potere della maggioranza di governo…», con episodi specifici di cronaca politica «narrati con evidente parzialità». Poteva dirlo.

7) Infine: Travaglio ha parlato di una condanna (penale, ma prescritta) elargita «perché avevo riassunto troppo un verbale di ottanta pagine in una pagina dell’Espresso… bastava che Previti mi mandasse una rettifica… ». Fine. E così non ha sentito il bisogno di riferire, ai gonzi di Servizio Pubblico, le parole utilizzate dal giudice: «Accostamento insinuante», «omissione evidente», «significato stravolto», «distorta rappresentazione del fatto… al precipuo scopo di insinuare sospetti sull’effettivo ruolo svolto da Previti». Questo in primo grado. In Appello: «È appena il caso di ribadire la portata diffamatoria!, «vi è prova del dolo da parte del Travaglio». Prova. Dolo. Travaglio.

Da Wikipedia. Marco Travaglio (Torino, 13 ottobre 1964) è un giornalista e saggista italiano, dal 2015 direttore de il Fatto Quotidiano. Le sue principali aree di interesse sono la cronaca giudiziaria e l'attualità politica, occupandosi di questioni che spaziano dalla lotta alla mafia ai fenomeni di corruzione.

Biografia. È figlio di un geometra torinese, «progettista di treni alla Fiat Ferroviaria»; suo fratello, Franco Travaglio, è autore, regista e librettista di musical moderno. Dopo la maturità classica, conseguita al Liceo salesiano Valsalice di Torino con il voto di 58/60, si è laureato in Lettere Moderne con una tesi in Storia Contemporanea presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università degli Studi di Torino all'età di 32 anni, dopo esser già divenuto, nel 1992, giornalista professionista. Ha cominciato la propria attività come giornalista freelance in piccole testate di area cattolica, come Il nostro tempo, dove lavorava all'epoca anche Mario Giordano.

La collaborazione con Indro Montanelli.

Il Giornale. A Il nostro tempo conobbe Giovanni Arpino, che lo presentò a Indro Montanelli. Questi, alla vigilia di Pasqua del 1987, lo chiamò a collaborare a il Giornale come vice-corrispondente da Torino, incarico che durò fino al 1992. In quell'anno rifiutò una proposta di ingaggio a la Repubblica motivando molti anni dopo tale scelta col fatto che, considerandosi al tempo convinto anticomunista, non apprezzava la vicinanza politica all'area di sinistra del quotidiano romano. Scelse allora di rimanere con Montanelli, che così lo assunse stabilmente nella sua redazione.

La Voce. Marco Travaglio lavorò per il Giornale fino al 1994 allorquando, insieme ad altri cinquanta redattori, lo lasciò per seguire Montanelli a La Voce, il nuovo quotidiano che questi costituì dopo aver abbandonato il Giornale, da lui fondato venti anni prima. Durante l'esperienza a La Voce ebbe modo di collaborare con Enzo Biagi per il programma televisivo Il Fatto, su Rai Uno. Al tempo Travaglio curava nel quotidiano di Montanelli la rubrica Una voce poco fa, in cui dava evidenza delle contraddizioni in cui incappavano uomini politici con le loro dichiarazioni; la collaborazione con Biagi nacque dalla volontà di quest'ultimo di sceneggiare tali pezzi all'interno della sua trasmissione. Con riferimento al periodo di collaborazione con il Giornale e La Voce, Montanelli, nella prefazione a un libro di Travaglio, ebbe a scrivere di lui: «È un Grande Inquisitore, da far impallidire Vyšinskij, il bieco strumento delle purghe di Stalin. Non uccide nessuno. Col coltello. Usa un'arma molto più raffinata e non perseguibile penalmente: l'archivio. Immaginate il dossier che un simile segugio può aver compilato su Berlusconi, che a pranzo ha completamente dimenticato ciò che ha detto a colazione» (Indro Montanelli, Prefazione a Il pollaio delle libertà. Detti, disdetti e contraddetti, di Marco Travaglio, Vallecchi Editore, 1995)

Il periodo con la Repubblica e l'Unità. Dopo la chiusura de La Voce, nel 1995, Travaglio ebbe collaborazioni come freelance con diversi quotidiani e periodici, fra cui Sette, Cuore, Il Messaggero, Il Giorno, L'Indipendente, Il Borghese, e ancora con Il Fatto di Enzo Biagi. Nel 1997, in occasione del 25º anniversario della morte del commissario Luigi Calabresi, curò sul settimanale di destra Il Borghese la pubblicazione, in versione integrale e a puntate, delle intercettazioni telefoniche al movimento Lotta Continua (che coinvolgevano fra gli altri Gad Lerner, Giuliano Ferrara, Andrea Marcenaro e Luigi Manconi), riguardanti le telefonate avvenute il giorno seguente l'arresto di Adriano Sofri per l'accusa di essere il mandante dell'omicidio Calabresi. Nel 1998 veniva assunto a la Repubblica come redattore ordinario a Torino per la cronaca giudiziaria. Nel 2001, con il quotidiano romano, concordò poi un contratto da collaboratore fisso, che proseguì fino al 2009. Per la Repubblica tenne una rubrica on-line dal titolo Carta canta, uno spazio in cui sottolineava le incoerenze dei politici italiani, dei commentatori e dei suoi colleghi, attingendo dalle fonti archivistiche giornalistiche. Sempre per il quotidiano fondato da Scalfari curò ancora, nell'edizione cartacea torinese, una rubrica di posta coi lettori intitolata Il Cittadino. È del periodo in cui è redattore torinese a la Repubblica la sua clamorosa intervista rilasciata a Daniele Luttazzi alla trasmissione Satyricon, in onda il 14 marzo 2001 su Rai Due. Tale evento lo renderà famoso al pubblico televisivo e lo metterà al centro di aspre polemiche e dibattiti sulla libertà d'informazione e di stampa e sulla censura della satira in Italia. Qui, due mesi prima delle elezioni politiche del 2001, il giornalista presenta il suo libro-inchiesta L'odore dei soldi, scritto con Elio Veltri, in cui è affrontata l'origine dell'arricchimento di Silvio Berlusconi e sono presentati documenti su atti processuali che descrivono possibili coinvolgimenti del Cavaliere e del suo stretto collaboratore Marcello Dell'Utri con esponenti di Cosa nostra. Dopo quell'intervista vari soggetti (Silvio Berlusconi, Forza Italia, Mediaset, Fininvest i principali) intenteranno in totale otto cause civili per danni contro gli autori e l'editore del libro, nonché contro i responsabili della trasmissione RAI; tutte le cause si concluderanno con il respingimento di tali domande. Dopo quell'intervista il programma dello showman sarà rimosso dai palinsesti RAI tra mille polemiche, che rinfocoleranno ulteriormente a distanza di un anno quando il Cavaliere – ormai presidente del Consiglio – pronuncerà in conferenza stampa da Sofia il cosiddetto "editto bulgaro". Nel settembre 2002, chiamato dai direttori Furio Colombo e Antonio Padellaro, Travaglio inizia una collaborazione con l'Unità come editorialista e commentatore, fino al 2009. Per il quotidiano Travaglio ha curato una rubrica satirica, originariamente intitolata Bananas, in riferimento, sia al film Il dittatore dello stato libero di Bananas di Woody Allen, sia alla frase del 2001 di Gianni Agnelli sulle opinioni di alcuni giornali stranieri riguardo a un'eventuale vittoria elettorale di Silvio Berlusconi: «La cosa che mi è dispiaciuta è che alcuni giornali stranieri hanno dato giudizi sul possibile Presidente del Consiglio, rivolgendosi al nostro elettorato come all'elettorato di una repubblica delle banane». Con l'avvento del governo Prodi la rubrica ha poi cambiato nome in Uliwood Party, in riferimento al film Hollywood Party e alla formazione politica di centro-sinistra L'Ulivo. Nel 2007 questa rubrica ha portato il suo autore a vincere il Premio Satira Politica di Forte dei Marmi. Dopo le Elezioni politiche italiane del 2008 la sua rubrica si trasforma in Ora d'Aria, e, dall'ottobre 2008, in seguito alla riduzione di formato de l'Unità susseguente alla nomina di Concita De Gregorio come nuovo direttore, ne veniva ridotta la pubblicazione al solo lunedì. Contestualmente, per gli altri giorni della settimana, cura una nuova rubrica più breve, in terza pagina, dal nome Zorro, in onore del programma radiofonico di Oliviero Beha Radio Zorro. Il 29 giugno 2009 Travaglio si congeda dai suoi lettori de l'Unità preannunciando il suo passaggio al nuovo giornale, il Fatto Quotidiano: la rubrica Zorro termina il 30 giugno mentre Ora d'Aria chiude definitivamente a settembre. Tra le sue battaglie di questo periodo si ricorda una decisa opposizione alla legge di indulto del 2006, approvata dal Parlamento con maggioranza trasversale, da lui considerata un "colpo di spugna" a favore della parte corrotta della classe politica. In una puntata della trasmissione Annozero di Michele Santoro, ha anche espresso il suo parere negativo nei confronti della riforma Mastella – approvata all'unanimità dalla Camera nell'aprile 2007 (447 Sì, nessun No, 7 astenuti) e mai approvata al Senato per l'anticipata interruzione della XV Legislatura – da lui considerata una "legge bavaglio", poiché fortemente limitativa nell'utilizzo da parte dei giornalisti delle intercettazioni telefoniche. Nel dicembre 2007 si è anche espresso negativamente sull'ipotesi di concessione della grazia all'ex funzionario del Sisde Bruno Contrada, condannato a dieci anni per concorso esterno in associazione mafiosa. A causa di questa posizione è stato duramente contestato da Giuliano Ferrara su Il Foglio. L'8 settembre 2007 ha partecipato con un lungo intervento alla manifestazione V-Day organizzata da Beppe Grillo in Piazza Maggiore a Bologna. Il 25 aprile 2008 ha aderito al V2-Day, partecipando alla manifestazione in Piazza San Carlo a Torino. Nel 10 maggio 2008, nel corso della trasmissione condotta da Fabio Fazio sulla terza rete televisiva della RAI, Travaglio ha parlato del neo Presidente del Senato Renato Schifani, eletto nelle liste del PdL, in riferimento a rapporti societari con persone a vario titolo collegate con attività mafiose. Da questo intervento è nato un "caso" molto discusso nei media con forti prese di posizione da entrambe le parti. Per queste affermazioni Schifani ha querelato Travaglio. L'8 luglio 2008 ha partecipato al No Cav Day, organizzato da Paolo Flores d'Arcais, Furio Colombo e Pancho Pardi per protesta contro le cosiddette "leggi canaglia" varate nei primi mesi del Governo Berlusconi. Oltre a lui e agli organizzatori, sul palco si sono alternati Antonio Di Pietro, Sabina Guzzanti, Rita Borsellino, Moni Ovadia e, in video conferenza, Beppe Grillo.

La fondazione de il Fatto Quotidiano. Marco Travaglio è cofondatore, editorialista e dal 3 febbraio 2015 direttore de il Fatto Quotidiano, il nuovo giornale uscito in edicola il 23 settembre 2009 diretto da Antonio Padellaro. Tale quotidiano è stato annunciato dal giornalista e dagli altri co-fondatori come risposta a una situazione editoriale italiana da molti sentita come non completamente libera, viziata dalle ingerenze dei poteri politici, finanziari e industriali che generalmente costituiscono, finanziano e influenzano la grande informazione e la stampa nazionale. Per queste ragioni il Fatto Quotidiano – di cui sono proprietari in piccola parte anche lo stesso Travaglio, il direttore Padellaro e altri giornalisti membri della redazione – è stato fondato sulla base di scelte del tutto peculiari, come la rinuncia all'utilizzo di finanziamenti pubblici, un equilibrio economico basato principalmente sui ricavi dalle vendite e limitato nella pubblicità, nonché l'impiego di rigorose norme statutarie che prevedono il frazionamento della proprietà su piccoli soci, senza possibilità dunque di avere un azionista di controllo.[29] Per tutte queste ragioni Travaglio e gli altri co-fondatori hanno sempre rivendicato la piena libertà e indipendenza del loro giornale. Il 3 febbraio 2015 il consiglio di amministrazione del Fatto delibera la sua nomina come nuovo direttore del giornale succedendo ad Antonio Padellaro, che rimane editorialista e viene nominato presidente della Società Editoriale il Fatto.

Televisione. Il 14 marzo 2001 viene invitato da Daniele Luttazzi alla trasmissione Satyricon (Rai Due). L'intervista verte sul libro-inchiesta L'odore dei soldi, da lui scritto con Elio Veltri, e scatena vivaci polemiche rendendolo famoso. L'intervista a Marco Travaglio a Satyricon precedette in ordine cronologico l'editto bulgaro di Silvio Berlusconi contro Luttazzi. La presenza come collaboratore in trasmissioni d'informazione televisiva è in seguito caratterizzata dalla cooperazione col giornalista Michele Santoro, col quale formò un sodalizio dal 2006 al 2015. Negli anni sono emerse frizioni e divergenze tra i due - acuitesi in particolare dopo il contestato format offerto da Santoro nella puntata di Servizio Pubblico all'ospite Silvio Berlusconi, dove Travaglio fu escluso dagli intervistatori - mettendo in discussione la collaudata collaborazione, che spinse Michele Santoro a dichiarare sempre più probabile la rottura con Travaglio in quella che fu ultima stagione del talk-show, autunno 2014 - maggio 2015. Travaglio glissò sulle frizioni affermando: "Ogni anno, a fine annata, con Michele facciamo il punto e parliamo della stagione successiva. Lui, come si sa, vuole rinnovare il format. Se Michele mi proporrà di lavorare anche l'anno prossimo, e se il nuovo format mi convincerà, sarò ben felice di continuare". Dal 14 settembre 2006 al giugno 2011 fu collaboratore fisso di Santoro nella trasmissione di approfondimento giornalistico di Rai 2 Annozero, dove ogni anno ha presentato una rubrica personale, e nel 2008 e 2009 ne ha curato la copertina. I monologhi riflessivi di Travaglio all'interno del programma sono stati riconosciuti tra i momenti di maggiore apprezzamento da parte del pubblico televisivo, in cui lo share mediamente accresce di 4 o 5 punti. Sempre con Santoro, nel marzo 2010, Marco Travaglio partecipa a Raiperunanotte, programma realizzato dalla FNSI e USIGRai e trasmesso dal PalaDozza di Bologna in diretta streaming sul web e su diverse emittenti digitali e analogiche, realizzata da Santoro per aggirare la sospensione della messa in onda dei talk show politici della RAI, imposta in occasione delle elezioni regionali del 2010. Esperienza analoga viene riproposta con l'evento Tutti in piedi realizzato da Santoro in collaborazione con la FIOM in occasione della festa dei suoi 110 anni, presso la quale Marco Travaglio è nuovamente ospite, davanti a un pubblico di 25.000 persone, nel parco di Villa Angeletti a Bologna. La collaborazione fra Travaglio e Michele Santoro si rinnovò ancora, dal 2011 al 2015, con la trasmissione Servizio pubblico. La trasmissione nacque dalle ceneri del talk-show Annozero, dopo l'interruzione del rapporto di lavoro tra Santoro e la RAI, seguendo nella prima stagione ancora una volta il modello multipiattaforma di televisioni locali, Internet e il canale satellitare Sky TG 24. Dall'autunno 2012 la trasmissione andò in onda settimanalmente su LA7. L'8 maggio 2014 iniziò la trasmissione Announo, format condotto da Giulia Innocenzi, alla quale Travaglio partecipò con la sua rubrica di commento ai fatti della settimana. Dal settembre 2015, Travaglio è collaboratore fisso della trasmissione Otto e mezzo, condotta da Lilli Gruber su LA7, in esclusiva ogni giovedì.

Periodici, settimanali e riviste. Nel contesto degli outlet legati al mondo della carta stampata, Marco Travaglio ha collaborato sin dagli anni novanta a varie pubblicazioni italiane: il settimanale Sette, allegato del Corriere della Sera, Cuore e Il Borghese. Su l'Espresso arrivò nel 1997, per volere dell'allora direttore Claudio Rinaldi e di Giampaolo Pansa, con due rubriche: una sui voltagabbana e l'altra sulle sciocchezze dette dai politici. Entrambe le rubriche gli furono tolte dal successivo direttore, Giulio Anselmi. Nel 2007, alla morte di Claudio Rinaldi, ne ha ereditato la sua rubrica Signornò. Con l'ex direttore de l'Espresso Bruno Manfellotto la sua rubrica, chiamata Carta canta, occupò l'intera pagina. Dal secondo semestre del 2013 la sua collaborazione a l'Espresso si diradò, venendo pubblicata solo a settimane alterne. Sul numero del 20 febbraio 2015 è uscito l'ultimo articolo della rubrica, chiudendo una collaborazione alla testata durata complessivamente 18 anni. Marco Travaglio scrive dal 1997 anche su MicroMega, rivista italiana di cultura, politica, scienza e filosofia, diretta da Paolo Flores d'Arcais. Travaglio scrisse sul settimanale A, chiamatovi dall'ultima direttrice Maria Latella, dove tenne dal 2006 la sua rubrica fissa Il Guastafeste fino alla chiusura definitiva del periodico, avvenuta col numero dell'11 luglio 2013. Ha scritto anche con i periodici Giudizio Universale, Linus e nel 2008 (assieme a Giuseppe Carlotti) sulla rivista La voce del ribelle, fondata e diretta da Massimo Fini.

Internet. Per quanto riguarda il mondo dell'informazione sul web il giornalista torinese si è da sempre prodigato in molteplici iniziative. Nel 2007, con Peter Gomez e Pino Corrias, ha fondato il blog Voglio Scendere, che ha curato fino a dicembre 2010, trasformatosi poi da quella data nell'attuale Cado in piedi, portale d'informazione gestito dalla casa editrice Chiarelettere. Dal 19 maggio 2008 fino al 27 settembre 2011 ha curato una videorubrica settimanale in diretta streaming sul blog di Beppe Grillo denominata Passaparola, dove commentava generalmente fatti di attualità politica, da settembre 2010 trasmessa anche su Current TV. In termini di numero di visualizzazioni su YouTube Passaparola è stata costantemente nella top 5 dei video italiani settimanali per la categoria "Notizie e politica".

Cinema. Nel 2003 e nel 2005 Marco Travaglio compare nei film-documentari Citizen Berlusconi di Andrea Cairola e Susan Gray e Viva Zapatero! di Sabina Guzzanti. Sempre nel 2005 collabora come consulente alla sceneggiatura del film Bye Bye Berlusconi!, di Jan Henrik Stahlberg. Nel 2006 compare nel film Shooting Silvio di Berardo Carboni nel ruolo di se stesso, ed afferma che uccidere Silvio Berlusconi non è un rimedio al berlusconismo. Nell'ottobre 2007 registra un'intervista sul Partito Democratico e le relative elezioni primarie per il film Visto dal basso di Piergiorgio Bellocchio. Nel 2009 compare nel documentario prodotto da Alessandro Tartaglia Polcini, un ex assistente di volo Alitalia, Tutti giù per aria - L'aereo di carta di Francesco Cordio, sulla svendita della compagnia di bandiera avvenuta nel 2008. Nel 2012 partecipa al documentario sulla situazione politica italiana Girlfriend in a Coma. Nel 2013 compare nel documentario Suicidio Italia - Storie di estrema dignità di Filippo Soldi, vincitore nel 2013 del Globo d'Oro come migliore documentario, sul caso dei suicidi in Italia determinati dalla crisi economica. Nel 2013 interpreta se stesso con un cameo nel film di Marco Ponti Passione sinistra, tratto dall'omonimo libro scritto da Chiara Gamberale. Nello stesso anno partecipa, per la prima volta come attore, al film lungometraggio Il venditore di medicine di Antonio Morabito, prodotto da Amedeo Pagani e presentato l'11 novembre fuori concorso al Festival Internazionale del Film di Roma: Travaglio vi compare nel ruolo di un incorruttibile primario di Oncologia, il professor Malinverni, personaggio che occupa un ruolo strategico nella storia, quasi un punto di svolta nello sviluppo della trama.

Teatro. Nel 2009 e 2010 Marco Travaglio si è esibito in numerosi teatri italiani con lo spettacolo teatrale Promemoria - Quindici anni di storia d'Italia, un monologo del quale è stato autore e protagonista. Dall'aprile 2011 è stato in scena con il suo spettacolo Anestesia totale, di cui è autore e protagonista, insieme all'attrice Isabella Ferrari. Ambientato in una Italia post-berlusconiana venivano prospettate le conseguenze dei decenni appena trascorsi di progressivo sfascio dell'informazione. Da gennaio 2013, ancora insieme a Isabella Ferrari, Travaglio va in scena nei teatri italiani con il suo spettacolo È Stato la Mafia, incentrato sulle vicende della trattativa che coinvolse corleonesi e uomini dello Stato. Nel 2015 organizza il nuovo spettacolo teatrale Slurp - Lecchini, Cortigiani & Penne alla Bava. La stampa al servizio dei potenti che ci hanno rovinati, con la partecipazione di Giorgia Salari per la regia di Valerio Binasco.

Musica. Nel 2013 collabora con i Two Fingerz nella canzone Vaffancuba e con gli ATPC nel brano Sangue, a cui partecipano anche Luca Morino dei Mau Mau, Bunna degli Africa Unite e Nitto dei Linea 77.

Collocazione politica. Travaglio si definisce un liberale da sempre, o meglio, come lui stesso afferma, "liberal-montanelliano". Nella sua ormai celebre intervista rilasciata a Daniele Luttazzi nella trasmissione Satyricon (2001), ha dichiarato di essere un liberale (precisamente «un allievo di Montanelli») che ha trovato "asilo" nell'area di sinistra, ma che non si identifica in quest'area politica. E in interviste più recenti (2010), confermando tali dichiarazioni, ha ribadito piuttosto di avere idee molto più vicine a posizioni che, in altri paesi, normalmente considera rappresentate dalla destra. In un'intervista rilasciata nel 2008 a Claudio Sabelli Fioretti, riportata nel libro Il rompiballe, Travaglio dichiara: «in Francia voterei a occhi chiusi per uno Chirac, un Villepin». «In Germania voterei Merkel sicuro. Mi piacevano molto Reagan e la Thatcher». Ma conclude: «la mia destra non esiste. È immaginaria. È la destra liberale. Cavour, Einaudi, De Gasperi, Montanelli. Tutti morti». Durante la trasmissione di Rai 2 Dodicesimo round ha dichiarato che nelle elezioni 2006 ha votato al Senato «senza turarsi il naso per la prima volta»: questo perché l'Italia dei Valori, afferma Travaglio, «mi ha fatto il regalo di candidare una persona che stimo e che mi onora della sua amicizia, Franca Rame». Sul blog di Antonio Di Pietro, viene pubblicato il 29 marzo 2008 un articolo di Travaglio dove esprime pubblicamente il suo voto ancora a favore dell'Italia dei Valori per le elezioni politiche del 2008, aggiungendo però «in attesa di un nuovo Einaudi o un nuovo De Gasperi», confermando la sua ispirazione liberale. Sul blog Voglioscendere, il 5 giugno 2009, alla vigilia delle elezioni europee ed amministrative 2009, dichiara l'intenzione di sostenere con il voto, ancora una volta, l'Italia dei Valori, perché soddisfatto del suo modo di fare opposizione al governo Berlusconi. Intervistato da Antonello Piroso il 22 marzo 2011, nella trasmissione Niente di personale su LA7, ha ammesso di aver votato Lega Nord – anche se solo in una delle due Camere[49] – alle elezioni politiche del 1996. Il voto al partito leghista è stato giustificato da Travaglio come un adempimento a una promessa che aveva fatto a se stesso subito dopo aver lasciato il Giornale nel 1994: da quel momento avrebbe votato per chiunque avesse «buttato giù» Silvio Berlusconi. Per le elezioni politiche del 2013, in un articolo pubblicato su MicroMega e anche durante le trasmissioni su La7 Servizio Pubblico di Michele Santoro e Otto e mezzo di Lilli Gruber, ha dichiarato il voto per Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia alla Camera e per il Movimento 5 Stelle al Senato. Per le elezioni politiche del 2018, l'8 marzo 2018 a Otto e mezzo di Lilli Gruber su LA7, ha dichiarato il voto per il Movimento 5 Stelle.

Inchieste. Numerosi suoi lavori sono stati successivamente pubblicati sotto forma di libri-inchiesta: il più noto fra questi è senz'altro L'odore dei soldi (scritto con Elio Veltri, pubblicato nel 2001 e riedito nel 2009), in cui attraverso i vari atti processuali si affronta la questione delle origini delle fortune di Silvio Berlusconi. La presentazione del libro durante l'intervista che Daniele Luttazzi fece a Travaglio nel corso della sua trasmissione Satyricon su Rai Due suscitò nel mondo della politica e nei media forti reazioni, soprattutto perché con essa venivano sollevati pubblicamente alcuni dubbi sui rapporti di Berlusconi e Dell'Utri con Cosa nostra. Tali relazioni erano rappresentate dal giornalista ripercorrendo vari atti processuali, in particolare quelli delle inchieste svolte dalla Procura di Caltanissetta sui mandanti delle stragi di Capaci e via d'Amelio (in cui erano indagati Berlusconi e Dell'Utri) e quelli sul processo a Palermo a carico di Dell'Utri per concorso esterno in associazione mafiosa (dove fu poi condannato in primo grado a nove anni di reclusione e in appello a sette anni). Il suo libro-inchiesta e la sua intervista a Satyricon scateneranno in totale otto citazioni a giudizio nei confronti degli autori del libro Marco Travaglio ed Elio Veltri, del suo editore Editori Riuniti, nonché dei responsabili della trasmissione Daniele Luttazzi, Ballandi Entertainment (produttore del programma), RAI e Carlo Freccero (direttore di Rai Due). Gli attori Silvio Berlusconi, Forza Italia, Mediaset e l'ex Ministro delle finanze Giulio Tremonti richiederanno un risarcimento complessivo di 62 miliardi di lire e un ulteriore risarcimento (di importo non precisato) sarà richiesto da Fininvest. La magistratura stabilirà che per tutti gli otto casi in giudizio non vi è stata diffamazione e condannerà pertanto gli attori al pagamento delle spese processuali.

Riconoscimenti per l'attività di giornalista. L'associazione nazionale dei giornalisti tedeschi DJV (Deutscher Journalisten-Verband) gli ha conferito nel 2009 il "premio per la libertà di stampa" Pressefreiheit Preis. La decisione è stata accompagnata da una dichiarazione del presidente dell'associazione Michael Konken: «Onoriamo in Marco Travaglio un collega coraggioso e attento, che si impegna contro tutti gli ostacoli per difendere la libertà di stampa in Italia». Tra i vincitori che l'hanno preceduto ci sono il giornalista serbo Miroslav Filipović e la giornalista russa Ol'ga Kitova. Filipović ha ricevuto il premio per aver scoperto e denunciato pubblicamente i crimini di guerra serbi in Kosovo, Kitova è stata premiata per la sua continua battaglia contro la corruzione in Russia. Il 17 febbraio 2010 gli viene assegnato il Premiolino, assegnato annualmente a sei giornalisti della carta stampata e della televisione come premio alla carriera e per il loro contributo nel campo della libertà di stampa, quale riconoscimento per la sua attività di giornalista.

Conferenze. Nel 2010 è invitato a Parigi quale relatore al dodicesimo ciclo presso i Salons de l'Aveyron sul tema La Democratie en Danger: Les récentes dépénalisations des crimes financiers et économiques en Italie, en France et leur traitement au sein des institutions européennes (Depenalizzazioni dei crimini finanziari ed economici in Italia e Francia e il loro trattamento nel contesto delle istituzioni europee). Nel 2010 è invitato dalla London School of Economics in qualità di relatore per il ciclo di conferenze organizzato a Londra sul tema della libertà di informazione (The Status of Freedom of Information in Italy), illustrando lo stato della libertà di informazione e stampa in Italia con riferimento alla situazione sociale, la legislazione corrente in tema di finanziamento e disciplina dei gruppi editoriali e le concentrazioni monopolistiche nei settori della carta stampata e della televisione. È stato invitato nel 2010 dall'associazione spagnola ItaliaES a tenere una conferenza insieme al direttore de Il Fatto Quotidiano, Antonio Padellaro sui casi di corruzione politica in Italia e della libertà di informazione. La conferenza si è tenuta nell'aula magna dell'ordine degli avvocati di Barcellona.

Processi per diffamazione. Nel corso della sua carriera è stato più volte querelato o citato in giudizio per quanto da lui scritto o dichiarato. All'inizio del 2017 risulta che almeno un procedimento penale si è concluso con una sentenza definitiva di condanna, mentre un altro è in corso. Di seguito sono descritti alcuni dei procedimenti più significativi che lo hanno coinvolto:

Sentenze favorevoli: Dopo aver scritto assieme a Elio Veltri il libro L'odore dei soldi era stato citato in giudizio da Silvio Berlusconi per diffamazione. Nel 2005 il Tribunale civile di Roma ha stabilito che il libro non è diffamatorio ed ha condannato Berlusconi a pagare le spese processuali.

Nel 2013 la sentenza viene confermata in appello.

Nel 2015 anche in cassazione, ma le spese processuali sono state in parte compensate. In seguito all'intervista rilasciata al comico Daniele Luttazzi nel programma Satyricon è stata avviata un'azione civile per danni da parte di Mediaset contro Travaglio, Luttazzi, RAI, il direttore di Rai Due Carlo Freccero e il produttore del programma Bibi Ballandi. Nel 2005 la causa si risolve in primo grado con il rigetto della domanda e con la condanna per Mediaset a rifondere le spese processuali. Nel 2011 la sentenza viene confermata in appello. Il 20 gennaio 2015 la Cassazione conferma la sentenza di appello.

Nel 2005 Cesare Previti ha citato in giudizio Travaglio per una presunta diffamazione nei suoi confronti e nei confronti di Silvio Berlusconi nell'articolo comparso nella rubrica Bananas de l'Unità il 19 aprile 2005. Nel 2007 il tribunale civile di Roma ha rigettato la domanda di Previti e lo ha condannato a rifondere le spese processuali.

Il 6 febbraio 2009 Travaglio, Lucio Caracciolo e Paolo Flores d'Arcais ottengono dal Tribunale di Roma il risarcimento dei danni per la causa per diffamazione intentatagli dal deputato Cesare De Piccoli, per via di un intervento di Marco Travaglio al convegno Proposte per un arcobaleno di pulizia morale, tenutosi a Roma il 14 gennaio 2006 e anche per l'articolo I sommersi ed i salvati, pubblicato su Micromega del marzo 2006, in cui si rivelava che De Piccoli sarebbe stato in possesso di conti in Svizzera, sui quali gli sarebbe stata accreditata una somma di duecento milioni di lire da parte della FIAT.

Nel maggio 2009 la Cassazione conferma un proscioglimento sancito l'11 dicembre 2008 dal GIP di Roma, relativo ad un'indagine per presunta diffamazione ai danni di Fabrizio Del Noce, attraverso la pubblicazione di un articolo su l'Unità del 6 marzo 2007, condannando il querelante al pagamento delle spese processuali e a 1500 euro di ammenda.

Il 9 dicembre 2009 il gip di Roma ha disposto l'archiviazione della causa per diffamazione a mezzo stampa intentata da Cesare Geronzi contro Marco Travaglio, accusato di aver «fornito un'immagine del querelante come persona responsabile di molteplici reati» travalicando «ogni limite nella corretta informazione» e ponendo in essere un pesante attacco «mediante la prospettazione di notizie in parte false e in parte maliziosamente rappresentative», nel suo intervento alla trasmissione Annozero del 1º novembre 2007, nella puntata Arrivano i mostri.

Il 30 gennaio 2013 il tribunale civile di Roma condanna Mediaset e RTI a risarcire la somma di 30.000 euro a Marco Travaglio e Antonio Padellaro in seguito all'ingiusto processo a loro carico riguardo ad un articolo de Il Fatto Quotidiano del 19 settembre 2010.

Il 28 aprile 2009 è stato condannato in primo grado dal Tribunale penale di Roma per il reato di diffamazione ai danni dell'allora direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, perpetrato mediante un articolo pubblicato su L'Unità dell'11 maggio 2007. A fine maggio 2009 viene definitivamente prosciolto in Cassazione dall'accusa di diffamazione. La Corte, oltre aver respinto il ricorso, ha condannato Fabrizio Del Noce al pagamento delle spese processuali e a versare 1500 euro alla cassa delle ammende.

Procedimenti estinti per remissione della querela. Dal 2004 è stato oggetto di un procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, a seguito degli articoli M'illumino d'incenso e Zitti e Vespa, pubblicati sul quotidiano l'Unità nei giorni 12 marzo e 6 maggio di quello stesso anno. Il procedimento ai danni del giornalista si è concluso nel 2008 dopo che la persona offesa, il giornalista Antonio Socci, ha deciso di rimettere la querela a seguito delle scuse pubbliche di Travaglio.

Procedimenti con condanna penale definitiva.

Nel gennaio 2010 la Corte d'Appello penale di Roma lo ha condannato a 1.000 euro di multa per il reato di diffamazione aggravato dall'uso del mezzo della stampa, ai danni di Cesare Previti. Il reato, secondo il giudice monocratico, era stato commesso mediante l'articolo Patto scellerato tra mafia e Forza Italia pubblicato sull'Espresso il 3 ottobre 2002. La sentenza d'appello riforma la condanna dell'ottobre 2008 in primo grado inflitta al giornalista ad 8 mesi di reclusione e 100 euro di multa. In sede civile, a causa del predetto reato, Travaglio era stato condannato in primo grado, in solido con l'allora direttore della rivista Daniela Hamaui, al pagamento di 20.000 euro a titolo di risarcimento del danno in favore della vittima del reato, Cesare Previti. Il 23 febbraio 2011 la condanna per diffamazione confermata in appello per il processo Previti dovrebbe cadere in prescrizione, beneficio al quale Travaglio, che presenta ricorso per Cassazione, non rinuncia. Tuttavia la Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso e la condanna diventa definitiva. Travaglio, sostenendo che sia stata lesa la sua libertà di parola, ricorre alla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, la quale però conferma nel 2017 che l'articolo di Travaglio Patto scellerato tra mafia e Forza Italia fosse effettivamente diffamatorio, poiché l'intercettazione riportata "era essenzialmente fuorviante e confutata dal resto della dichiarazione non inclusa dal ricorrente nell'articolo".

Procedimenti in corso. Travaglio è stato citato in giudizio per diffamazione nei confronti di Tiziano Renzi, per i suoi articoli riguardanti un processo penale per bancarotta che ha visto lo stesso Tiziano Renzi assolto con formula piena.

Sentenze di condanna in sede civile.  

Nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo in cui Travaglio ha definito Previti «un indagato» su L'Indipendente, Previti era effettivamente indagato ma a causa dell'impossibilità da parte dell'avvocato del giornale di presentare le prove in difesa di Travaglio in quanto il legale non era retribuito, il giornalista fu obbligato al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.

Il 4 giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro La Repubblica delle banane scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all'allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L'errore era poi stato trasposto anche su L'Espresso, il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché alla Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L'Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

Il 5 aprile 2005 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all'allora direttore dell'Unità, Furio Colombo, al pagamento di 12.000 euro più 4.000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha condannato a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26.000 euro, a causa di una critica ritenuta «eccessiva» nell'articolo Piazzale Loreto? Magari[96] pubblicato nella rubrica Uliwood Party su l'Unità il 16 luglio 2006.

Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme al direttore dell'Unità, Antonio Padellaro, e a Nuova Iniziativa Editoriale, al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del TG1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione - si leggeva nella sentenza, - difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l'idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l'idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16.000 € al Presidente del Senato Renato Schifani (che aveva chiesto un risarcimento di 1.750.000 €) per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a Che tempo che fa il 10 maggio 2008. Il Tribunale ha invece ritenuto che le richieste di chiarimenti, da parte di Travaglio, circa i rapporti di Schifani con esponenti della mafia siciliana rientrino nel diritto di cronaca, nel diritto di critica e nel diritto di satira.

L'11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del "figlioccio di un boss" all'assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e poi assolto in appello. Travaglio è stato condannato a pagare 15.000 euro.

Il 15 febbraio 2017 il giornale Fatto Quotidiano, diretto da Marco Travaglio, è stato condannato in primo grado dal tribunale civile di Roma per diffamazione nei confronti di Giuliano Amato. La sentenza afferma che negli articoli del Fatto, a firma di Marco Travaglio: "non può non riconoscersi la sussistenza del reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa, sussistendone gli elementi oggettivo e soggettivo, che, come noto, il giudice civile può accertare in via incidentale".

Il 23 gennaio 2018 è stato condannato per diffamazione dal Tribunale di Roma in merito ad un articolo contro tre magistrati siciliani, riguardo alla latitanza di Bernardo Provenzano; la provvisionale disposta ammonta a 150.000 euro.

PARLIAMO DI SANTORO.

Santoro indagato per abusi edilizi nella sua villa. Il giornalista fustigatore finisce nel mirino della Procura di Salerno per le opere di ristrutturazione della casa sul golfo di Amalfi. Tre piani vista mare con terreno, acquistata nel 2009 per 950mila euro. Gli interventi edili sarebbero stati fatti senza la necessaria denuncia e in zona sismica, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale  «Lavori abusivi», questo dice l’articolo di legge violato dal proprietario, dal titolare della ditta esecutrice e dal direttore dei lavori in quella bella casa con vista mozzafiato sul golfo di Amalfi. Ma chi è il proprietario? Lui, il fustigatore massimo dei pubblici peccati, Michele Santoro. A lui, e agli altri due, è stato appena recapitato dalla Procura di Salerno l’avviso di conclusione delle indagini preliminari sui lavori di ristrutturazione della villa comprata nel 2009 dal conduttore di Annozero, per 950mila euro più spese. L’atto (che pubblichiamo qui a fianco) rivela qualcosa che non si sapeva fino ad oggi (né si poteva sapere, valendo il segreto istruttorio) e cioè che Santoro fosse indagato dalla procura salernitana, nella persona del sostituto procuratore Carmine Olivieri, un magistrato che tutti, da quelle parti, definiscono «uno tosto». Nel mirino della procura ci sono due ordini di fatti: una serie di opere edili realizzate nella villa senza la necessaria denuncia all’organo competente, e poi una seconda omissione che riguarda invece le specifiche indispensabili per costruire in zona sismica. Questo configurerebbe, secondo il pm, una contravvenzione ex articolo 113 del codice penale (Cooperazione nel delitto colposo) e poi da quattro diversi articoli del Testo unico dell’edilizia. Scrive il pm nell’avviso di conclusione indagini: «Cooperando colposamente il Santoro quale committente», insieme al progettista e al titolare della ditta esecutrice, «eseguivano opere edili (edificazione di un arco e di un pilastro esterno al piano terra; demolizioni di pareti trasversali interne al piano terra; apertura di un vano di passaggio in un muro al primo piano) afferenti la statica del fabbricato, senza averne fatto previa denuncia allo Sportello unico e/o all’Ufficio del Genio civile». Cioè, abusivamente. Non solo, «eseguivano i lavori indicati in zona sismica senza darne preavviso scritto, omettendo il contestuale deposito dei progetti ed omettendo di attenersi ai criteri tecnico-descrittivi prescritti per le zone sismiche». Ora, la legge prevede che l’indagato abbia venti giorni per presentare una memoria difensiva, chiedere di essere interrogato, rendere spontanee dichiarazioni, o chiedere al pm di disporre nuove indagini. Di solito, però, quando il pm non archivia ma avvisa della conclusioni indagini, è perché ravvede gli estremi per andare in giudizio. E così potrebbe essere anche per Santoro. A meno che, spiega una fonte coinvolta, «non venga depositato il progetto in sanatoria», cioè non venga sanato l’abuso in extremis. Ma sono solo ipotesi di scuola: il procedimento penale, intanto, va avanti. Anche se certamente si tratta di un fatto di poco conto, dal punto di vista giudiziario. È più la curiosità, come conferma la velocità con cui si diffonde la notizia tra Salerno e la costiera, per il coinvolgimento di un personaggio pubblico come Santoro, che da quelle parti è un grande vip. L’indagine della Procura è scattata dopo la denuncia del responsabile di un’associazione di consumatori, Cittadinanza Attiva.

Il suo coordinatore locale, Andrea Cretella, ha raccolto e analizzato una montagna di documenti su quella villa, dopo che diversi cittadini - racconta lui - avevano fatto segnalazioni in merito. L’abitazione, con annesso terreno, è «disposta su tre livelli, composta da quattro vani al piano terra, da tre vani con cucina bagno ingresso ripostiglio e terrazzo al primo piano», si legge nel rogito. Al momento dell’acquisto però la casa non era messa granché, e dunque Santoro ha avviato una serie di lavori di ristrutturazione. La maggior parte di queste opere riguardano il primo piano, i cui locali pare fossero accatastati come stalla e come cantina. Su questo il responsabile di Cittadinanza attiva ha qualcosa da aggiungere: «Apprendo con soddisfazione che tutto quello che avevo denunciato all’autorità giudiziaria è stato riscontrato a verità - commenta l’instancabile Cretella - non perché abbia qualcosa contro gli indagati, ma per un atto di giustizia. Poi nel corso delle indagini, sarebbe emerso che nei locali del primo piano, censiti al catasto come cantina e stalla, non potevano essere effettuati lavori di trasformazione urbanistica in quanto la legge non prevede il cambio di destinazione d’uso. Questa potrebbe rappresentare una sorta di speculazione edilizia». Supposizioni tutte da provare. La casa acquistata da Santoro, peraltro, ha già goduto di un condono edilizio, che ha avuto una lunga storia e un rapidissimo epilogo. La domanda di condono presso il Comune di Amalfi era sta presentata moltissimi anni prima, nel marzo 1986, senza nulla di fatto. Finché la casa non è stata comprata dal noto conduttore, e nel giro di pochi mesi l’abuso è stato sanato. Una velocità che aveva generato dei sospetti in qualcuno, prima che Santoro spiegasse che tutto era stato fatto secondo le regole.

MICHELE SANTORO INDAGATO, TRAVAGLIO TACE….IL POPOLO CONSENTE?

Strano silenzio totale dei media sul fatto che, il difensore dell’onestà, il manettaro di sinistra, il giustizialista del giovedì, il sig. Michele Santoro, è indagato per lavori abusivi nella sua villa milionaria. Ma gli abusi edilizi e l’uso del territorio a fini personali non sono spesso stati discussi nelle puntate delle trasmissioni di Santoro? Nessuno parla della sua villa (da un milione di euro), dei lavori di ristrutturazione, delle specifiche non rispettate pur trovandosi la villa in una zona sismica, delle opere che non sono state denunciate all’organo competente. Travaglio ovviamente rimane zitto, la lobby de l’Espresso-Repubblica tace. Certi sinistri signori sono sempre belli, bravi, onesti e… manettari nei confronti degli altri….

False accuse in tv adesso Santoro rischia la condanna: "Concorso in diffamazione", il conduttore di "Annozero" a giudizio ad Aosta.

L'ospite che mentì sul rivale deve già pagare 25mila euro, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Il danno peggiore l'ha subito mio figlio, ancora più di me. Era un pilota promettente, selezionato per la nazionale di automobilismo al Gp, ma dopo quell'accusa sbattuta in prima serata sulla Rai, senza verifica...

Lo sponsor del suo team era pubblico, i Monopoli di Stato, e di fronte a quel sospetto, insinuato in tv, di aver preso una tangente, è chiaro che la carriera va in pezzi» racconta Mario Gatto, ex dirigente di Forza Italia in Piemonte, ora presidente dell'associazione Globoconsumatori. L'accusa era falsa, l'accusatore, Carmelo Tomasello, ex vicesindaco forzista di Legnano, è stato condannato per diffamazione nel maggio 2012, dal Tribunale di Aosta, a sei mesi di reclusione (pena sospesa) e 25mila euro di risarcimento per danno morale. E Michele Santoro, che ha mandato in onda quel servizio nel 2008, ad Annozero, è stato rinviato a giudizio per «concorso in diffamazione», sempre dal Tribunale di Aosta, decreto emesso tre giorni fa dal gup Marco Tornatore. Nel servizio di Annozero l'ex vicesindaco fornì un piatto prelibato al menù serale di Santoro. Raccontò di aver girato parte di una mazzetta di 180mila euro (per questo è poi finito in carcere) al signor Gatto, che in cambio gli avrebbe procurato un appuntamento con l'allora ministro Claudio Scajola, uomo forte di Forza Italia nel Nord Ovest. Quei soldi dati a Gatto, spiegò l'ex vicesindaco ad Annozero, servivano a finanziare le gare automobilistiche del figlio di Gatto, pilota professionista. Un intreccio di soldi, corruzione e politica, con al centro Scajola. Un colpo da sparare in prima serata, come in effetti Santoro fece. Il servizio, peraltro, riesumava una storia già raccontata da Marco Travaglio, editorialista di Annozero, due anni prima, sull'Unità, dove riportavano le dichiarazioni di Tomasello, il quale «finanziava le gare automobilistiche del figlio di Gatto, che gli promise in cambio di lanciarlo nel firmamento parlamentare grazie alle sue entrature presso Dell'Utri, Pescante, Scajola. Infatti, intascati i primi 90mila euro, Gatto...» etc.

Una storia avvincente, con un unico problema: è falsa. «Dell'Utri non l'ho mai conosciuto, Pescante l'ho visto forse una volta come sottosegretario, Scajola sì lo conosco, e l'ho anche presentato a Tomasello, che allora era vicesindaco. Ma mai avrei chiesto un centesimo per farlo, né ho mai chiesto soldi per mio figlio, com'è stato dimostrato dai magistrati. È stata una accusa infamante, del tutto infondata - racconta Gatto, assistito dall'avvocato Andrea Serlenga del Foro di Torino - Quando vidi quel servizio ad Annozero rimasi basito, fecero parlare Tomasello, che tirava in ballo me, mio figlio e anche Scajola, senza il minimo contraddittorio, senza verifica alcuna. Ricordo che fui costretto a spegnere il cellulare per giorni. Può immaginare che problemi mi ha creato, come presidente di una associazione consumatori, essere considerato un corrotto...».

L'inizio del processo a carico di Santoro, come responsabile della testata Annozero, è previsto per il 27 giugno 2013, la parola al giudice di Aosta, Davide Paladino (non all'amico Antonio Ingroia, trasferito proprio lì, ad Aosta, controvoglia, per decreto ministeriale, ma a fare il procuratore).

Non bastavano Berlusconi e Mastella, a mettere sotto accusa Michele Santoro, scrive Varese News. Ci si è messo anche il tribunale di Varese, che ha condannato per diffamazione con il mezzo televisivo, il popolare giornalista, in un processo in cui aveva come controparte una associazione vicina alla Lega e i suoi aderenti. Santoro ha rimediato mille euro di multa, e un risarcimento stimato in 10mila euro per ognuna delle tre parti civili, l’associazione leghista “Terra insubre” , il suo fondatore Andrea Mascetti (difeso dall’avvocato Attilio Fontana) e l’ideologo del carroccio Gilberto Oneto (difeso all’avvocato Alberto Zanzi). Oltre a questo, 2500 euro di risarcimento per le spese processuali, a testa. Assolti invece i due giornalisti della Rai che in quella puntata de “Il Raggio Verde”, del 2000, realizzarono i servizi: Maurizio Torrealta, vicedirettore di Rainews24 e Paolo Mondani, oggi conduttore di inchieste nella fortunata trasmissione Report.

L’argomento della puntata in oggetto era la destra xenofoba italiana. La trasmissione aveva mostrato una serie di episodi di intolleranza contro gli stranieri e di esplicito antisemitismo, visioni di naziskin e altre ricostruzioni su una serie di fatti inquietanti accaduti nel 2000. In quel contesto, Torrealta condusse una ricostruzione in studio delle vicende accadute, dando poi la parola al servizio realizzato materialmente da Paolo Mondani. Il leghista Andrea Mascetti, nella registrazione visionata la scorsa udienza, veniva raggiunto per telefono e si poteva ascoltare la sua voce negare l’intervista a Mondani. Che, in effetti, non accusava esplicitamente i leghisti di avere tendenze xenofobe. Il giudice Chiara Valori, assolvendo i due collaboratori, ha riconosciuto che nelle parole dei due giornalisti non vi erano elementi diffamatori, ma ha lo stesso attribuito a Santoro la responsabilità di una diffamazione. Per capire esattamente il motivo, bisognerà attendere le motivazioni della sentenza, anche se, secondo i legali della parte civile, è ipotizzabile che la costruzione della puntata - la cornice cioè entro la quale hanno operato i due giornalisti e di cui era responsabile Santoro - possa essere stata percepita come diffamatoria.

Giustizia a senso unico. Santoro può svelare telefono di Silvio. Noi, scrive “Libero Quotidiano”, condannati per aver mostrato il suo.

Nel gennaio 2011 Libero replicò ad Annozero pubblicando il cellulare del teletribuno. Costretti dal tribunale a risarcirlo per "danno esistenziale". Ora c'è anche tanto di sentenza del tribunale: mostrare il numero di telefono di Silvio Berlusconi si può. Invece, se si mostra quello di Michele Santoro, si viene condannati per "danno esistenziale". A dirlo sono i giudici di Roma, che hanno condannato il nostro giornale e il collega Andrea Morigi a risarcire in solido il teletribuno di Annozero (ora di "Servizio pubblico" dei danni non patrimoniali per complessivi 8mila euro, più le spese sostenute nel procedimento di 2.500 euro.

La vicenda risale al 22 gennaio 2011, quando in una puntata di Annozero, Santoro mostrò alla telecamera il cellulare dell'allora premier Silvio Berlusconi. In risposta, Libero titolò: "Lui dà il numero del Cav. Il suo è 348/3406101". Santoro denunciò il nostro quotidiano, sostenendo di aver "subito per alcuni giorni molestie e quindi un danno da turbamento del normale svolgimento della vita".

Denominato giuridicamente come "danno esistenziale". Bastava cambiare numero di cellulare, ma a Michele non è bastato. La corte ha valutato che "Santoro, da giornalista, ha diritto alla tutela della privacy e della riservatezza". Una cosa verrebbe da chiedere ai giudici: non aveva diritto ad analoghe privacy e riservatezza anche Silvio Berlusconi?

PARLIAMO DI MILENA GABANELLI.

Cause Rai per 300 milioni Il cavallo di viale Mazzini azzoppato dalle denunce. "Report" raccoglie il maggior numero di querele. Contenziosi anche per "Annozero" e "Chi l’ha visto?". Una richiesta danni per diffamazione anche alla "Prova del cuoco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. Circa 46 milioni di euro, accantonati per il contenzioso civile della Rai nell’ultimo anno: ecco la provvista dedicata all’eventuale risarcimento delle molte e spesso gigantesche cause che incombono sulla testa del cavallo morente di viale Mazzini (soldi pubblici). Diciamo subito che la cifra messa da parte dalla tv di Stato è molto inferiore al petitum, cioè a quanto viene richiesto da aziende o privati che si sentono diffamati dalla Rai. Lì si arriva a cifre spaventose, che sfiorano (stima nostra) i 300milioni di euro. Oltre ai 5 milioni in ballo con la Fiat (che ne chiedeva 20) per un servizio di Annozero decisi dal tribunale di Torino ma già impugnati dai legali Rai, il grosso delle cause riguarda Report di Milena Gabanelli. Il suo programma di inchieste ha il record di citazioni in tribunale (ma la Gabanelli è un drago anche in difesa, ne ha persa una sola in 15 anni, per 30mila euro), seguita dall’ex programma di Santoro (che per il giudice non c’entra nel caso Fiat, perché «non è esperto di autovetture» e non c’è «nesso psichico» col servizio di Formigli!), e quindi da cifre fisiologiche di contenzioso per Presa diretta di Iacona, Chi l’ha visto, Tg1 e il Tg3, e una causa (annunciata) persino per La prova del cuoco, per una frase della Clerici su un ristorante di Mondello («lì si mangia da schifo»).

Spiccioli in confronto alla montagna di euro chiesti alla Rai per Report. È stata la stessa Gabanelli a fornire un elenco completo delle cause che la riguardano, per un totale spaventoso di 246 milioni di euro richiesti dai presunti diffamati. Da Report, e quindi dalla Rai, chiedono più di 40 milioni di euro (per cinque diverse puntate) gli Angelucci, ramo sanità privata. Pretende 10 milioni di euro dalla Rai il «furbetto del quartierino» Stefano Ricucci, così come l’industriale delle carni Luigi Cremonini, fondatore della Cremonini Spa, che ne chiede 12 di milioni, come risarcimento per un servizio sempre della Gabanelli.

L’operatore telefonico Tre stima in 137 milioni di euro il risarcimento adeguato per una inchiesta di Report, mentre Wind si accontenta di 10 milioni, quanto chiedono sia Cesare Geronzi che il vicepresidente dell’Ansa Mario Ciancio Sanfilippo, il doppio di quanti, invece, ne voleva Ligresti (5 milioni), che però si è visto dare torto dal tribunale di Milano, condannato pure al rimborso delle spese sia della Gabanelli (10mila euro) che dell’autrice del servizio Giovanna Corsetti (7mila).

E poi un’altra decina di cause, per 246 milioni totali che si accollerebbe interamente la Rai. Anche se l’ultimo contratto della Gabanelli ha una novità non da poco, un clausola di manleva solo parziale, per cui se il tribunale riconosce il dolo o la colpa grave con sentenza passata in giudicato, l’azienda può rivalersi sull’autore della diffamazione.

Una limitazione della libertà dei giornalisti o una tutela giusta per un’azienda pubblica? È un nodo su cui il Cda dell’epoca Masi e poi con la Lei ha dibattuto molto, trovando un compromesso con la «clausola parziale». Ed ora la direzione generale - dopo la mazzata Fiat-Annozero - è decisa a portare in Cda la proposta di estendere a tutti i giornalisti Rai la formula trovata per la Gabanelli (mutuata dal contratto nazionale dei dirigenti). Ma su che basi? Per via della natura particolare della Rai, che in recenti sentenze è stata riconosciuta come soggetto di diritto pubblico (non a caso è stato designato un magistrato della Corte dei conti apposta per il Cda Rai), e quindi - come ha osservato Feltri sul Giornale e come ci confermano in termini giuridici fonti di viale Mazzini - «un danno economico alla Rai potrebbe costituire la fattispecie di un danno erariale», perché i soldi della Rai sono soldi pubblici.

Resta da risolvere un problema non da poco: quale giornalista della Rai farebbe più un’inchiesta seria, se corresse il rischio di dover pagare di tasca sua l’eventuale causa civile? Si può davvero equiparare un’impresa editoriale, per quanto pubblica, ad un Comune o all’Anas? Al Cda Rai - attuale o venturo - l’ardua soluzione.

Ma una risposta serve, perché le cause in Rai proprio non mancano, anche da dentro l’azienda. Il conduttore dell’«Italia sul Due» Milo Infante fa causa alla Rai per mobbing, perché si sente oscurato dalla Bianchetti. Il Comune di Portogruaro fa causa perché non arriva bene il digitale terrestre, e poi centinaia di cause di lavoro. Azzoppato dalla cause questo povero cavallo di viale Mazzini.

60 processi, 300 milioni richiesti, una condanna (non definitiva). Questa è “Mi-Jena Gabanelli” (secondo Dagospia), la Giovanna D’Arco di Rai3, che i grillini volevano al Quirinale intervistata da Gian Antonio Stella per "Sette - Corriere della Sera".

«Ma tu come sei, davvero?», le chiese anni fa Giancarlo Perna per Amica. E lei: «Culo basso, poche tette, 48 chili, un metro e 60». Così è fatta la «Gaba»: ti spiazza sempre. Le viene così naturale, ormai, che lo fa perfino involontariamente. Come quando, dopo le «quirinarie» on-line che l'avevano vista vincere con 5.796 voti davanti a Gino Strada e a Stefano Rodotà, le hanno offerto di essere la candidata del MoVimento 5 Stelle alla Presidenza della Repubblica. Giusto il tempo di riprendersi dallo sbalordimento e rideva: «Pensa un po' che il prossimo servizio di Report è proprio sulle onorificenze distribuite dal Colle...».

Come l'hai vissuta questa candidatura?

«Sulle prime mi sono messa a ridere. L'ho trovata divertente. Dopo un quarto d'ora mi sono piombate addosso tante e tali pressioni che ho capito che la dovevo prendere sul serio».

Insomma, non era una boutade.

«Un quarto d'ora dopo c'era un'agenzia. Diceva che Grillo aveva telefonato a Bersani: "Questo è il nostro nome e se lo votiamo insieme poi possiamo metterci d'accordo sulle successive riforme". Non potevo più pensare che fosse una boutade. Solo che era molto più adatto di me Rodotà. Il mio problema era trovare il modo per declinare l'offerta con un riconoscimento adeguato a chi mi aveva scelto».

Insomma, erano voti di stima difficile da respingere...

«Il problema sono state le pressioni intorno (e non credo c'entrasse il MoVimento) del genere "non puoi tirarti indietro, non devi mostrarti vigliacca". Mi era chiara una cosa: che se fai un passo del genere anche se poi non vieni eletto non è che puoi tornare a fare quello che facevi prima. Quindi...».

Ma tu li avevi votati?

«Chi?».

I grillini...

«Per me un giornalista non deve dire cosa vota. In un altro Paese si, ma qui non si può. Perché qui tutto viene strumentalizzato. Te lo buttano addosso. È evidente che ho le mie preferenze, le mie insofferenze, il mio disgusto. Ma parlo attraverso il mio mestiere. Che è una rivendicazione d'indipendenza. Nel momento in cui dico cosa ho votato non son più indipendente. È così. Non vorrei, ma è così».

Quindi, per la delizia di chi finisce sotto i tuoi cingoli, continuerai a fare la cronista.

«Sì».

Sei impegnata da anni nella denuncia delle storture degli ordini professionali: cosa pensi dell'idea di Grillo di abolire solo quello dei giornalisti?

«Mi fa un po' sorridere. Credo che impareranno che esistono altri ordini non meno assurdi. Detto questo, fatico a vedere l'utilità dell'Ordine dei giornalisti. Credo sarebbe più utile, come da altre parti, un'associazione seria e rigorosa nella quale si entra per quello che fai e non tanto per aver dato un esame...».

Ti pesa ancora la bocciatura?

«Vedi un po' tu. L'ho fatto assieme ai miei allievi della scuola di giornalismo. Loro sono passati, io no».

Bocciata agli orali per una domanda su Pannunzio.

«Non solo. Avrò risposto a tre domande su dieci. Un disastro. Mi chiesero cos'era il Coreco. Scena muta».

Come certi parlamentari beccati dalle Iene fuori da Montecitorio...

«Le Iene fanno domande più serie. Tipo qual è la capitale della Libia. Il Coreco!».

Essere bocciata come Alberto Moravia dovrebbe consolarti.

«C'era una giovane praticante che faceva lo stage da noi. Le avevo corretto la tesina... Lei passò, io no. Passarono tutti, io no».

Mai più rifatto?

«No. Mi vergognavo. Per fare gli orali dovevi mandare a memoria l'Abruzzo e io lavorando il tempo non l'avevo».

Nel senso del libro di Franco Abruzzo, giusto?

«Non so se c'è ancora quello. So che era un tomo che dovevi mandare a memoria per sapere tutto di cose che quando ti servono le vai a vedere volta per volta. Non ha senso. Ho pensato che si può sopravvivere lo stesso, anche senza essere professionista».

Lo conservi ancora l'assegno con cui ti pagarono il primo articolo?

«Certo. Era di Cineforum: 5.000 lire. Lo tengo appeso in bacheca. Mai ritirato. Non puoi pagare la gente così».

Potrebbe venirti buono per rispondere di qualche querela: a quante sei arrivata con Report?

«Le querele non sono tante, le cause civili quasi una sessantina».

La più incredibile?

«H3G, la società di telefonia, ci ha chiesto 137 milioni».

Cosa è successo: li hai demoliti in Borsa?

«Io credo d'aver lavorato bene. Loro pensano, a leggere la citazione, che la diffamazione sia cominciata quando ho detto "buonasera" e sia finita quando ho detto "arrivederci". E anche questi toni, per loro, erano diffamatori. Ho accompagnato la mia memoria difensiva con una richiesta dei danni: la loro, per me, è una lite temeraria».

Ci torniamo dopo: al secondo posto?

«L'Eni, che di milioni ne vuole 25».

Perché?

«Abbiamo fatto una puntata a dicembre sulla gestione di Paolo Scaroni e "non è stata apprezzata". Non gli è andato bene niente. Ha fatto una citazione di 145 pagine: dal prezzo del gas alla campagna pubblicitaria, dalla questione ambientale in Basilicata alla busta paga dell'amministratore delegato... Centoquarantacinque pagine! Non una cosa che gli sia andata bene. Niente».

È offensivo ricordare che prende 5 milioni e mezzo di euro?

«Ho letto che sono saliti a sei...».

Quindi ricordandolo in questa intervista lo offendiamo di nuovo?

«Cosa devo dire? Quello che abbiamo raccontato è il meccanismo con cui era arrivato a queste cifre, vale a dire il pagamento delle stock option per cassa. Perché lo stipendio sarebbe più basso. A quelle cifre è arrivato perché le stock option sono state pagate con un sistema a nostro avviso discutibile. Possiamo dirlo?».

Al terzo posto?

«Le Ferrovie dello Stato ci hanno chiesto 26 milioni di euro più due che Mauro Moretti ha chiesto a me personalmente. Ma quella si è risolta bene perché hanno dovuto pagare anche le spese legali».

Poi?

«Poi ne ha chiesti dieci Cesare Geronzi, poi cinque Salvatore Ligresti...».

E Berlusconi, che aveva annunciato una causa per la puntata sulla sua villa ad Antigua?

«Mai vista. L'aveva annunciata, ma poi non l'ha fatta».

Quanti le annunciano, le querele, senza poi farle?

«Non tanti. In genere quando lo dicono, purtroppo, le fanno. Poi ci sono le lettere preventive: "Sappiamo che fate una puntata su questo, sappiamo che avete parlato con Tizio di Caio, sappiate che se intendete nominare questa cosa dando l'interpretazione che noi intuiamo che voi darete, poiché l'azienda quotata in Borsa e questa cosa ci danneggerebbe, bla-bla bla...". Poi magari vedono la puntata e capiscono che non hanno appigli e lasciano perdere. Ma ci provano sempre».

La causa più assurda?

«Una ditta olearia sosteneva che io avessi detto una determinata frase che non mi ero mai sognata di dire. C'erano le registrazioni, che senso aveva querelare?».

Per intimorire.

«Appunto».

Ma in totale a quante richieste danni sei arrivata?

«In milioni di euro?».

Certo.

«Quasi 300 milioni».

Tuo marito e tua figlia resteranno indebitati per l'eternità...

«Un po' di cause le abbiamo già vinte. Adesso saremo intorno a 200».

Ne hai persa qualcuna?

«Una: in quindici anni di Report. Per 30mila euro. C'è ancora l'appello, però. Vediamo».

Tornando alla «lite temeraria»...

«Nei Paesi anglosassoni funziona così: tu mi fai causa chiedendomi una cifra enorme per farmi perdere un sacco di tempo, spingere l'avvocato a consigliarmi a fermare altri eventuali servizi fino alla fine del processo (dieci anni!) e insomma intimorirmi? Se il giudice stabilisce che mi hai trascinato in tribunale per niente colpendo un diritto sacro come la libertà di stampa rischi di pagare il multiplo di quello che hai chiesto come risarcimento».

Tanto per capirci...

«Se il giudice accertasse che H3G ci ha chiesto 137 milioni per motivi pretestuosi e solo per intimorirci, potrebbe condannare l'azienda a pagarne 274. Stai sicuro che ci penserebbero due volte. È una battaglia da vincere. Articolo 21 ha raccolto on-line 120mila firme per chiedere d'inasprire l'articolo 96 del codice di procedura civile e punire in modo più corposo queste liti temerarie adeguandoci al rito anglosassone. Firme già consegnate alla Boldrini».

Tema particolarmente spigoloso soprattutto per le tv, le emittenti radio, i giornali più piccoli...

«Davanti alla minaccia di una causa milionaria il piccolo editore non può reggere le intimidazioni. Anche perché la legge prevede che lui debba accantonare nel fondo rischi una parte di quanto viene chiesto. Sapendo che le cause civili in Italia durano anche una dozzina di anni quanti sono a potersi permettere il lusso di passare anni sotto questa spada di Damocle per combattere fino in fondo una battaglia? Un processo sbagliato e il piccolo rischia di chiudere. Per quello è essenziale cambiare la legge. Il che non vuol dire...».

...che il giornalista può fare quello che gli pare.

«Ovvio. Io non credo che il giornalista debba godere di una particolare clemenza. Un conto è l'errore in buona fede che è sempre dimostrabile, un altro è sputtanare volontariamente qualcuno senza fare i dovuti controlli. Hai sbagliato? Devi pagare. Se colpisco uno in malafede devo essere arrestata. Perché sono pericolosa. Ciò detto non può essere che chiunque abbia la facoltà di trascinarti in tribunale chiedendoti delle cifre insensate. Questo è oggi il più grave problema della libertà d'informazione. E non va mischiato con tutto il resto, a partire dalle intercettazioni... Tutte questioni importanti, per carità. Ma quella centrale è la lite temeraria».

Sempre lì si finisce, sulle intercettazioni: tu sei per pubblicare tutto?

«No. Non credo che abbiamo il diritto assoluto di scrivere sempre comunque tutto».

Per capirci, lo scambio di Sms di coccole tra Anna Falchi e Stefano Ricucci...

«Se servono solo ad alimentare il gossip o la curiosità pruriginosa, no, non devono essere pubblicati».

E chi li pubblica va sanzionato?

«Perché no? Pensiamoci. Decidiamo come, quanto, in che forma perché poi...».

...c'è il rischio che con la scusa di tutelare la privacy sacrosanta dei messaggeri d'amore...

«...ti inventano una leggina per bloccare tutto il resto. Non si può discutere di queste cose in astratto. Va visto caso per caso. Non si può generalizzare. È sempre una questione di buon senso. Non è facile stabilire dove comincia la privacy».

Quella di Peter Arnett, il celeberrimo inviato della Cnn, finì sotto la tua telecamera mentre rimorchiava una prostituta ragazzina.

«Stavo facendo un servizio sui grandi inviati di guerra e mi aveva trascinato per le strade di Saigon fino alla zona dei bordelli. Quando ha cominciato a fare il cascamorto con una ragazzina cosa dovevo fare: spegnere la telecamera? Ho continuato a girare...»

Fu per quella serie che litigasti con Oriana Fallaci?

«Litigare? Non riuscii neanche a parlarci. Con grande fatica arrivai a recuperare il telefono della segretaria. Feci in tempo soltanto a dire: "Buongiorno, mi chiamo Milena Gabanelli, sono una collega". Rispose gelida: "La signora Fallaci non ha colleghe". Clic».

E tu?

«Ho capito che quando contatti qualcuno devi pensare prima che parole usare. Un approccio sbagliato ti brucia ogni possibilità».

Possono essere antipatici, i grandi giornalisti.

«Certo, molti sono costretti anche a difendersi dalla pletora di colleghi che dalla mattina alla sera chiedono interviste, pareri, opinioni... Anch'io posso sembrare antipatica a tanti colleghi che chiamano dalla radio privata o dei siti web di Vipiteno o di Canicattì a tutte le ore. Non è che non voglio, è che a volte proprio non ce la faccio. E magari risulto una odiosa che è arrivata...».

La cosa che ti dà più fastidio?

«Mi dà un fastidio insopportabile che qualcuno sospetti che io abbia fatto questo o quel servizio per fare un piacere alla destra o alla sinistra. Preferisco che pensino che sono una bastarda. Ma che possa essere strumento di qualcuno, no, questo no».

Magari a tua insaputa...

«Ma dai!».

A Stefano Lorenzetto, del Giornale, raccontasti di aver provato «le più grandi antipatie per uomini di sinistra» spiegando che «sono stupidi»: perché?

«Per queste cose qua. Ti telefonano: "Ma come, non me lo sarei mai aspettato da voi!". Cosa vuol dire "da voi"? In tutti questi anni abbiamo mostrato di non guardare in faccia nessuno. Nessuno».

Esempio, l'inchiesta su Di Pietro.

«Appunto».

Visto che potevi essere in lizza, come ti sono sembrate le elezioni per il Quirinale?

«Faccio fatica a trovare le parole adatte. Le hanno già usate tutte».

Hai la tentazione di pensare che un po' di questi politici siano perfino peggiori di come sono stati descritti?

«Sì. Sono interessati a loro stessi. È una battaglia per il posto. Quello che sono lo hanno già dimostrato. È ora che vadano a casa. E non vogliono andarci. Tutto quello che fanno, in troppi, lo fanno solo per restare attaccati lì».

Ce l'ha, qualche amico politico?

«Dici amico personale?».

Sì.

«Non mi pare. Ne conosco, ovvio. Ad alcuni do del tu. Con il sindaco di Bologna. O Franceschini. Ma li incontro solo per motivi di lavoro».

Napolitano se l'è presa anche con alcune campagne di stampa particolarmente sguaiate.

«Non c'è dubbio che ci siano dei giornali molto schierati che non fanno cronaca ma comizi. Ma qui il nodo è la cultura profonda di questo Paese. Se l'informazione è così schierata è difficile avere la percezione della "verità". Questa forse è la nostra maggior colpa».

Fatto sta che, per quanto critichi alcuni aspetti del giornalismo, questo è quello che vuoi fare.

«Certo. Vorrei poter rinascere per rifare esattamente quello che ho fatto».

C'è qualche inchiesta che ti dispiace non aver fatto?

«Forse sui sindacati. Ne abbiamo parlato, si capisce. Ma non come avrei voluto...».

Tema incandescente: ci si scotta?

«Non è che avrei paura di scottarmi. Ma si tratta di un tema così complesso... È un mondo dove è elevato il rischio di sporcarne la parte buona e di non riuscire a essere abbastanza duri con la parte cattiva».

V-DAY PER TUTTI.

Il V-Day di Belle Grillo è diventato argomento di discussione nazionale. A tale proposito, riceviamo e pubblichiamo un'opinione di Antonio Giangrande. Combattendo le mafie e le illegalità, con la cognizione di causa acquisita e con le ritorsioni subite, posso affermare: "il sistema Italia" è marcio in tutte le sue componenti sociali ed istituzionali, nessuna esclusa. Alle denunce penali presentate da giurista è conseguito ingiustamente il reato di calunnia e sempre l'insabbiamento giudiziario. Agli articoli di denuncia redatti da pubblicista è conseguito il reato di diffamazione e di violazione della privacy dei delinquenti. Agli articoli di denuncia redatti da giornalista è conseguito il reato di violazione del segreto istruttorio, quando la notizia non era passata sottobanco dall'ambiente giudiziario. Agli studi sociologici pubblicati da ricercatore è conseguito l'illecito civile del mancato compenso a titolo di diritto d'autore degli articoli di stampa citati. Nonostante tutti gli impedimenti citati, da mie e altre coraggiose inchieste giornalistiche e non giudiziarie, si è provato che i nostri parlamentari sono: pregiudicati, drogati, evasori fiscali, ignoranti, falsi, voltagabbana, vecchi, insabbiatori e puttanieri. Tenendo conto che il Parlamento è lo specchio della società civile italiana e che gli italiani hanno i rappresentanti che si meritano, a questo punto non farei una rivoluzione, che nessuno vuole, nemmeno la massa che prima ti applaude e poi ti lascia solo. A me basterebbe avere in Parlamento non solo tutori di lobby, caste e furbi, ma qualcuno che rappresentasse, veramente e non solo a parole, gli interessi e le aspettative dei disabili, dei disoccupati, dei carcerati e delle vittime del crimine. A me basterebbe che i partiti non fossero proprietà occulta o palese di qualcuno, ma veri strumenti di emancipazione sociale ed economica con perenne ricambio generazionale di competenze. Quindi, il "V. Day", va dedicato a tutti o a nessuno.

LESA MAESTA’ PER I GIUSTIZIALISTI

Ed ecco che l’icona Grillo diventa un simbolo da dileggiare. “La magistratura fa paura”. Beppe Grillo lo ha detto il 15 febbraio 2013, per poi dichiarare di avere sulle spalle 86 processi, scrive il Fatto Quotidiano. Un “record” se confrontato con Silvio Berlusconi, che ne ha 22. La replica di Berlusconi non è mancata, scrive il Fatto Quotidiano: “Non dica sciocchezze, ho 2700 udienze sulle spalle. Nessuno più di me”. Una sfida singolare, se di sfida si può parlare, che accomuna i leader del Pdl e del Movimento 5 Stelle. Entrambi attaccano la magistratura, pur essendo “agli opposti”, come sottolinea Antonello Caporale sul quotidiano. Il Fatto Quotidiano scrive: Doveva capitare che Berlusconi e Grillo iniziassero a competere nella speciale classifica dei "perseguitati" dalla giustizia proprio durante la tramortente settimana delle mazzette, sequel che incrocia e riassume i destini della classe politica e di quella imprenditoriale in un mesto epilogo criminale. Merito di Grillo, questa volta, che da Ivrea si abbandona ad enumerare i processi pendenti sul suo capo: "Sono ottanta e Berlusconi da presidente del Consiglio ne ha 22 meno di me". Il Cavaliere, sensibilissimo al tema, è scattato: "Non dica sciocchezze, ho 2700 udienze sulle spalle. Nessuno più di me". Ecco fatto: primo e secondo. Grillo ieri ha aggiunto: "La magistratura fa paura". Stessa frase che a scadenza regolare l'ex premier non ha mai mancato di pronunciare. Certo i due sono agli opposti e magari la prosa grillina, così densa di approssimazioni, era diretta a contestare questo modello di Stato, implacabile con i deboli ma distratto con i forti. Magari il comico spesso tramortisce anche oltre la propria volontà. Gli accade in ogni comizio, per via di un utilizzo smodato dell'iperbole. Grillo pratica la disinibizione verbale al punto di mettersi fuori anche dalla logica delle cose. Attacca la magistratura allo stesso modo di coloro che dice di combattere. È solo una coincidenza, ma c'è e da sola basta a far presagire un futuro pericoloso corto circuito. Perché in questo cattivo tempo si sovrappongono, in un format oramai indistinguibile, volti di finanzieri arrembanti e capitani d'industria, politici di lungo corso e cravattari di periferia, banchieri collaudati e servi di Cristo. Milano, Siena, Roma, Bari: un tour delle manette segna i giorni che ci separano dalle urne. Questo enorme e diffuso deficit di legalità si somma però a una drammatica crisi economica e si espone a una ferocia di massa finora sconosciuta. La recessione ha condotto migliaia di cittadini a trovare insopportabile quel che fino ad oggi si sono rifiutati di considerare come tale. È quella stessa società immortalata negli anni del berlusconismo che si ribella. Oggi è rivolta. "Il Nord est non esiste più" dice Luca Zaia, presidente leghista del Veneto. Significa che lo smottamento di un intero popolo è in atto e si dirige prevalentemente verso il voto a Beppe Grillo, colui che più chiaramente coniuga alterità al potere, determinazione nella protesta e capacità pervasiva della rivolta sociale. Il ciak dalle piazze è già impressionante: a est come ad ovest è tutto un fuggi fuggi. Corrono da quale disgrazia? E soprattutto verso quale approdo? Sembra pacifico: fuggono via da uno Stato esattore e corrotto, sentono il peso dello spreco e dell'ingiustizia sociale come una bomba ambientale che mina la loro vita e quella delle proprie famiglie. Contestano l'immoralità della classe politica. È il peso dell'illegalità a condurli verso Grillo. Invece ieri il leader del Movimento 5 Stelle riposiziona il suo popolo e lo mette in marcia contro i palazzi di Giustizia. Dopo il voto cambieranno volti e biografie di decine e decine di parlamentari. Palazzo Madama e Montecitorio saranno abitati da inquilini che non avranno esperienze politiche. Sarà cospicuo il numero degli esordienti che gli studiosi di flussi elettorali illustrano come trasversali e mobili nella loro dislocazione ideale. Chi viene da sinistra, chi da destra. Chi è imprenditore e chi studente. Molte donne, molti giovani, molti laureati, secondo le analisi sulle candidature selezionate. L'ingresso di tanti cittadini senza potere nel palazzo del Potere promuove un cambio d'aria benefico per la democrazia, perchè trova persone libere e non già soggiogate dagli apparati e dalle gerarchie. Serviranno però idee da coniugare alla libertà e soprattutto servirà che il leader non eletto (Grillo ha scelto di non candidarsi) abbia chiaro che il suo potere già ora è tale da avergli cambiato i connotati sociali: da uomo comune, benché famoso, a potente. E ieri, magari sovrappensiero, ha appunto fatto un discorso tipico della famiglia allargata dei potenti: guarda che ci sono anch'io, e non permetterti di toccarmi...

All’attacco di Grillo va anche il partito dei giudici. "Sono stupito dalle dichiarazioni di Beppe Grillo che in un momento come questo dice, esattamente come Berlusconi, di avere paura della magistratura. Ma della magistratura non hanno certamente paura i cittadini onesti e perciò noi di Rivoluzione civile stiamo dalla parte degli onesti e della magistratura che li tutela e noi, al contrario di Grillo e Berlusconi, abbiamo le ricette per far pagare finalmente il conto alla casta dei corrotti e degli impuniti". Così Antonio Ingroia, in un post pubblicato sul sito di Rivoluzione Civile, in merito alle dichiarazioni di ieri di Beppe Grillo a Ivrea. "Certo è - prosegue - che la magistratura non dovrebbe spaventare chi non ha nulla da nascondere, ma Beppe Grillo sbraita di trasparenza e alla resa dei conti reagisce come tutti, scrivendo 'Visco infame' nel suo blog quando nel 2008 il ministro propone la pubblicazione on line, provincia per provincia, di tutti i redditi. Per una vera trasparenza fiscale. Come mai?" E poi un attacco alla formazione guidata dal comico genovese. "Il Movimento 5 stelle - scrive Ingroia - è un movimento 'senza'. Senza competenze, senza programma, senza proposte, senza misure contro la corruzione e l'evasione fiscale e senza un leader che abbia il coraggio di candidarsi alle elezioni. Rivoluzione civile invece, è l'unico movimento con i cittadini, con gli onesti, con la magistratura, con il coraggio delle proprie idee e con proposte concrete e definitive che porteremo in Parlamento per abbattere la Casta".

Certo è che per essere onesto e buono devi conformarti al pensiero dei giustizialisti (comunisti), altrimenti diventi come i berlusconiani: brutto, cattivo e disonesto.

GRILLO, L’ARCANGELO DELLA LEGALITA’ TRA CONDANNE E CONDONI.

Grillo, l'arcangelo della legalità tra condanne e condoni fiscali, raccontato da Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Vive all’opposto di come predica e pensa il contrario di ciò che dice. Da ragazzo voleva giocare nella Sampdoria, incontra Baudo poi la Rai lo caccia. E si ricicla imbonitore politico. Ora che Beppe Grillo è un leader, abbiamo un altro spiantato che ha trovato rifugio nella politica, oltre a Di Pietro e De Magistris. Poiché vive all’opposto di come predica e pensa il contrario di ciò che dice, Grillo è continuamente costretto ad arrampicarsi sugli specchi e a spararle grosse. Poco male se fosse rimasto quel che era: un comico di cabaret. Ma poiché si proclama coscienza critica e arcangelo della legalità, è il caso di esaminare l’uomo quale si è manifestato nelle sue 64 primavere. Giuseppe Piero Grillo è cresciuto nel quartiere genovese di San Fruttuoso. Il padre, Enrico, aveva un’aziendina di fiamme ossidriche, la «Cannelli Grillo». Ma poiché né il Giuse (suo vero diminutivo, Beppe è un nome d’arte), né il fratello ne seguirono le orme, l’officina fu ceduta ai dipendenti. Giuse, che era ragioniere, piantò economia e commercio dopo due anni e si mise in proprio. Provò a vendere jeans ma restò in braghe di tela e fu a lungo un bighellone. Stazionava al bar e tifava Sampdoria. Da ragazzino voleva diventare calciatore, ma - come raccontò il dirigente di un club - «era una balena e lo chiamavano Porcellino anche se aveva un buon tocco di palla». In squadra - ha scoperto Filippo Facci - giocavano altri due genovesi poi diversamente famosi: Antonio Ricci, l’inventore di Striscia la notizia, e il killer Donato Bilancia (diciassette omicidi, tredici ergastoli). Bilancia pareva così inoffensivo da meritarsi l’appellativo di «belinetta», diminutivo di belin, parola variamente usata a Genova: «Sei un belin!». Giuse intanto suonava la chitarra, aveva la battuta pronta e tirava tardi. Cominciò a fare del cabaret nelle balere con tiepido successo. Nei primi anni Settanta traslocò a Milano in cerca di miglior fortuna. Inalberò l’attuale barbone (pare per risparmiare sulle lamette) e approdò a «La Bullona», night in. Una sera entrò Pippo Baudo con una troupe Rai che cercava talenti da lanciare. Fu la svolta. Grillo piacque, ma altrettanto un suo amico cabarettista. Poiché l’attenzione di Baudo sul rivale si prolungava, Beppe ebbe una crisi di invidia e si dileguò. Più egocentrico della monaca di Monza, Grillo è soggetto a capricci da primadonna. Il regista Dino Risi, che lo diresse in Scemo di guerra (1984), ha raccontato: «Beppe si ingelosì del rapporto speciale che avevo con Michel Coluche. Così, per ripicca, si diede malato. Per due mesi dovemmo sospendere le riprese. Finché gli fu fatta balenare la minaccia di una penale: da buon genovese si ripresentò sul set». Anni dopo, quando già Grillo era come oggi, Risi aggiunse: «La cosa che gli è riuscita meglio è l’antipolitica. Ma è più attore adesso che non al tempo in cui girava il film. Grillo non crede affatto in ciò che scrive quotidianamente nel blog». Sotto l’ala di Baudo, divenne famoso in tv. Poi incappò nell’incidente. Il 15 novembre 1986, mentre presentava Fantastico 7, mise alla berlina Bettino Craxi, allora premier. Bettino era reduce da un mandarinesco viaggio in Cina con la sua corte e vagonate di champagne. Grillo fece lo spiritoso in diretta: «La cena in Cina... i socialisti... mangiavano... A un certo punto Martelli ha chiamato Craxi e ha detto: «Senti un po’, qua ce n’è un miliardo e sono tutti socialisti?». E Craxi ha detto: «Sì, perché?». «Se sono tutti socialisti, a chi rubano?». Così, fu cacciato dalla Rai e nacque l’imbonitore politico che conosciamo. Niente lo autorizzerebbe a impancarsi, poiché le sue notevoli magagne prevalgono sulle sue scarne virtù. È tirchio, avido, bugiardo e pregiudicato, anche se fa continui gargarismi con la parola legalità. Tutti sanno dell’incidente che causò alla vigilia di Natale 1981, correndo con un fuoristrada su una mulattiera ghiacciata delle Marittime. Tre morti: una coppia di amici e il figlioletto di nove anni. Nei tre gradi di giudizio cercò sempre di sminuire le sue responsabilità. Ebbe un anno e 4 mesi per «macroscopica imprudenza». Chiunque sarebbe rimasto annichilito, evitando per l’eternità di fare le bucce agli altri. Grillo invece, come si sveglia, insulta. Ha trattato da «vecchia puttana» Rita Levi Montalcini; ha dato del «coglione» a Maurizio Lupi; ha minacciato di prendere «a calci in culo» Franco Battaglia, nostro illustre collaboratore, reo di essere nuclearista e denunciare gli inganni ecologisti. Già, l’ecologia. Grillo se ne riempie la bocca ed è al centro del suo M5S. Ma gratta gratta, trovi il saccheggiatore. Il comico, che abita una satrapica villa a Sant’Ilario, vista Tigullio, ha sempre detto di usare poca energia e quel po’ solare. Su queste basi, attaccò l’Enel e l’allora presidente, Chicco Testa, un verde convertito al nucleare. Testa reagì in un’intervista: «Grillo non mi piace. Il suo blog è un concentrato di leggende metropolitane e populismo». Alludeva alle bufale ecologiste che Beppe spaccia ogni giorno via internet. Una volta scrisse che le onde di una coppia di cellulari avevano fatto cuocere delle uova. Un’altra, prendendosela con i detersivi, reclamizzò il biowashball, pallina di ceramica in grado di fare il bucato in lavatrice senza detergenti. Giurò che l’aveva sperimentata con successo. Ma era una bubbola dell’accidente. La biopalla, infatti, non è mai esistita perché era l’invenzione di un articolo satirico inglese per ridicolizzare le fisime ambientaliste. Grillo o ha abboccato da pirla o ha ingannato con dolo i seguaci del blog. Aggiungeva Chicco Testa di avere ordinato una verifica dei consumi di Grillo nel villone. «Diceva che a casa sua con il solare - raccontò Testa, citando la relazione tecnica - produceva tanta energia da vendere quella in eccesso. Venne fuori invece che da solo consumava come un paesino». La sua presunta autonomia energetica si riduceva a un paio di pannelli capaci di fornire al massimo due kilowatt, buoni per l’asciugacapelli. Il tenore di Beppe fa a pugni con lo sviluppo sostenibile di cui si proclama seguace. Ha avuto Ferrari, Porsche, Chevrolet, Maserati, yacht. Ha immobili a Genova, in Sardegna, Torino, Valle d’Aosta, una villa da milord in Toscana. È ricorso due volte al condono edilizio (1997 e 2002) e una a quello fiscale (2003). Ma, a ogni varo di condono, ha condannato con indignati proclami una «pratica che premia i disonesti». Col denaro Beppe non scherza. Ne sa qualcosa la seconda moglie, Parvin Tadjk, che dopo la spesa subiva dal marito controlli di tipo doganale sugli scontrini, al limite della perquisizione corporale. Antonio Ricci ha raccontato che dopo un pranzo «io sparecchiavo, e se buttavo delle briciole, Beppe le recuperava dalla spazzatura e ci impanava la milanese». Da quando ha aperto il blog, cuore del M5S, i suoi redditi sono balzati da 2.133.720 a 4.272.591 euro annui. Attira allocchi a migliaia e lucra con gadget, video, opuscoli ideologici sul «Vaffa Day» (pagamento cash e in dollari), in un sapiente intreccio tra ideali e pecunia. Grillo è ragioniere e i conti li sa fare bene.

Ecco alcune domande a cui Grillo non ha risposto e che Travaglio non ha fatto poste da Francesco Maria Del Vigo e Domenico Ferrara su “Il Giornale”. Dopo l'intervista a Grillo, Travaglio bacchetta chi ha osato criticarlo: "Dicono che le domande erano sbagliate, senza però suggerirci quelle giuste". Eccone alcune. In ginocchio o a schiena dritta? Questione di punti di vista. Per alcuni è stata un'intervista "zerbino", per altri un vessillo giornalistico da sfoggiare. Beppe Grillo concede due paginate di colloquio (così lo ha definito il vicedirettore del Fatto) a Marco Travaglio. E più che il contenuto delle affermazioni del leader del Movimento 5 stelle, stupisce la repentina metamorfosi di Travaglio: da fustigatore di ogni tipo di servilismo a interlocutore docile e mansueto. Tutta un'altra cosa rispetto a quello a cui ci ha abituato. Persino ai lettori del Fatto e ai grillini il colloquio non è andato giù. Sarà mica la prova che il giornale di Padellaro ha sposato le tesi del nonpiùcomico? Illazioni. E per assicurarlo è scesa in campo, prima, l'ad del quotidiano Cinzia Monteverdi (che tuttavia ha ammesso che forse avrebbe fatto qualche domanda in più a Grillo) e poi il diretto interessato (non prima di aver rivelato di aver votato due volte il Movimento 5 Stelle). Travaglio nel suo editoriale al vetriolo di ieri (eccolo rivestire finalmente i panni dell'implacabile accusatore) se l'è presa con i "migliori servi di regime" che impartiscono "lezioni di giornalismo" spiegando che le "domande erano sbagliate, senza però suggerirci quelle giuste". Eccole qui, ti aiutiamo noi. Ma non noi del Giornale, ché poi ci dici che siamo i soliti lacché. Basta che ti fai un giro in rete e cerchi "le domande che Travaglio non ha fatto a Grillo". Noi le raccogliamo e le giriamo al leader del M5S. Nella speranza che qualcuno le faccia e magari Grillo le raccolga. Non si sa mai...

1. I sondaggi vi indicano come seconda forza del Paese. Alle elezioni politiche, chi sarà il vostro candidato premier e con quali logiche verrà scelto?

2. Gianroberto Casaleggio, in una lettera al Corriere della Sera, si è definito il cofondatore del Movimento 5 Stelle, di cui ha scritto le regole, e ha ammesso di dare ai candidati consigli sulla comunicazione elettorale. Qual è il suo vero ruolo all'interno del Movimento?

3. E’ vero che Pizzarotti, neosindaco di Parma, ha telefonato a Casaleggio per chiedere il nulla osta sulla nomina di Tavolazzi (epurato da Grillo) a direttore generale?

4. Lei parla di trasparenza, ma poi (come lamentano alcuni militanti) le riunioni per decidere linee e strategie del M5S vengono fatte a porte chiuse e in forma privata. Non è un controsenso?

5. Lei collega internet alla democrazia diretta, ma poi i suoi interventi sul blog sono unidirezionali e sul web non risponde mai a nessuno, se non per emanare quelli che sembrano veri e propri editti (come quello di non andare in tv o come la minaccia di revocare l’utilizzo del simbolo del M5S). Un altro controsenso?

6. Lei parla di demolizione dei partiti e invoca un processo alla Norimberga. Ma perché nel luglio del 2009 ha annunciato la sua candidatura alla primarie del Partito Democratico?

7. Pensa ancora che lo ius soli (il diritto alla cittadinanza dei bambini nati in Italia da genitori stranieri) sia una questione priva di senso?

8. Nel Non Statuto sul tema del lavoro c'è solo il punto che prevede l'abolizione della legge Biagi. Avete altre ricette per contrastare la disoccupazione?

9. Facevi gli spot per le multinazionali e ora le critichi, come mai?

10. Credi ancora che l'Aids sia una bufala?

11. Perché nel 2000 spaccavi pc durante i tuoi spettacoli e ora veneri la tecnologia?

12. Il M5S è contrario alle coppie di fatto? 

ASSOLTI SE A GIUDICARE E’ UN’AMICA.

Assolti se a giudicare è un’amica. I pm che hanno sostenuto l'accusa contro Nichi Vendola per il caso della sanità in Puglia (dove è stato assolto) hanno scritto una lettera alla Procura di Bari per chiedere che si faccia chiarezza sulla presunta amicizia fra la sorella del governatore Patrizia Vendola e il giudice Susanna De Felice. I due pm infatti sostengono che Patrizia Vendola e il gup che ha prosciolto il leader di Sel con formula piena siano legati da "un'amicizia diretta" e da "frequentazione di amici in comune". Insomma, la De Felice avrebbe dovuto evitare di giudicare Vendola ma non l'ha fatto. Scrivono: "Dopo l'assoluzione che ha smentito in toto l'impianto accusatorio, siamo stati contattati da molti amici e colleghi che ci hanno chiesto come fosse stato possibile che a giudicare il governatore fosse stata un'amica della sorella".

Il re è nudo: c’è qualcuno che lo dice.

Testimonianza di Carlo Vulpio sull’integrità morale di Nicola Vendola, detto Niki.

L’Editto bulgaro e l’Editto di Roma (o di Bari). Il primo è un racconto che dura da otto anni. Del secondo invece non si deve parlare. Eppure lo conosciamo bene in tanti: io, de Magistris, Di Pietro, Santoro, Travaglio, destra, sinistra, giudici e almeno venticinquemila lettori di “Roba Nostra”

Pubblicato il 23 marzo 2010 da Carlo Vulpio sul suo blog

Facciamo un gioco a quiz. Cercate le differenze tra i seguenti casi.

Primo caso.

Un premier (Silvio Berlusconi) chiama l’Autorità di garanzia delle comunicazioni per lamentarsi di un programma tv (Annozero) e per chiederne la chiusura.

Un governatore regionale (Nicola Vendola) chiama la direzione di un giornale (Corriere della Sera) per lamentarsi di un giornalista (Carlo Vulpio) e per chiederne la neutralizzazione.

Secondo caso.

Un premier (Berlusconi) si pronuncia pubblicamente in tv e sui giornali contro due giornalisti (Enzo Biagi e Michele Santoro) e un cabarettista (Daniele Luttazzi) perché non gli aggrada il modo in cui fanno rispettivamente giornalismo e cabaret nella tv pubblica. Questo “pronunciamento” del 2002, a Sofia, diventa l’Editto bulgaro.

Un governatore regionale (Vendola) si pronuncia pubblicamente in tv e sui giornali contro un giornalista (Vulpio) perché non gli aggrada che pubblichi inchieste sul modo in cui è stato eletto governatore alle regionali del 2005, sulla sanità, sulle discariche, insomma su di lui.

Questo “pronunciamento” avviene l’8 luglio 2006, a Roma e a Bari, e pertanto possiamo chiamarlo l’Editto di Roma, o se preferite l’Editto di Bari.

Qualunque persona di buon senso direbbe che i due casi sono uguali. E che dunque anche quello che riguarda l’Editto di Roma (o di Bari) meriterebbe di essere trattato, che so, nella serata speciale “Rai per una notte”, organizzata da Santoro & Co. su Sky tv. E invece no. Il caso che mio malgrado mi riguarda, e che come avete subito capito non è un “fatto personale”, è secondo me anche più grave. E proprio per questo sarà taciuto dai difensori della indipendenza e della libertà d’informazione. E non avrà, come non ha avuto quando è venuto fuori, alcuna “copertura” di Federazione nazionale della stampa, Ordine dei giornalisti, Associazioni professionali, Comitati di redazione eccetera eccetera, o di quelli sempre pronti a scendere in piazza e a salire sui palchi per manifestare per la libertà (di stampa, di espressione, di voto, di religione, di sesso). E ora vi spiego perché dico questo.

L’Editto bulgaro di Berlusconi fu un atto odioso. L’Editto di Roma (o di Bari) di Vendola è stato un messaggio, che se fosse stato pronunciato da chiunque altro, lui per primo non avrebbe esitato a definire mafioso. Perché tendeva non soltanto a neutralizzarmi, ma a intimorirmi esplicitamente, con nome e cognome, e a mettermi fisicamente in pericolo.

Ma andiamo avanti con la nostra storia. Dopo aver pubblicato, già nel 2005, alcuni articoli sulla sanità e sul macroscopico conflitto di interessi dell’assessore regionale al ramo, Alberto Tedesco (Pd, ma di fatto uomo di Vendola), il 7 luglio 2006 pubblico un servizio sul contratto firmato da Vendola per la realizzazione di una discarica in una zona in cui si trovano un bellissimo sito neolitico e una sorgente di acqua minerale. Dire che Vendola si arrabbia è poco. Gli viene il sangue agli occhi. E così, quando il giorno dopo, su una spiaggia del Brindisino, viene trovato un finto ordigno con un messaggio indirizzato a lui in qualità di commissario straordinario per l’emergenza ambientale, ecco che il “gentile”, il “mite” Vendola, – a reti unificate – mi accusa di aver detto falsità e minaccia di querelarmi. Non solo. “La brava persona” Vendola – come lo hanno poi definito i suoi nuovi alleati de Magistris e Di Pietro, che pure conoscono ogni cosa di questa vicenda e delle altre non meno imbarazzanti-, addirittura mi attribuisce la responsabilità morale di quella finta bomba. Ho già scritto tutto (e per fortuna l’ho scritto per tempo) in Roba Nostra (ed. Il Saggiatore). Ma vale la pena ricordare brevemente lo svolgimento della vicenda e il suo epilogo. Così magari Santoro & Co. hanno già la scaletta pronta qualora decidessero di parlarne nella puntata sui/dei “censurati”. Quella discarica è stata poi sequestrata (dunque, non avevo torto e non avevo detto falsità) e Vendola non mi ha mai querelato, semplicemente perché non poteva. Ma telefonava, uh, quanto telefonava al mio giornale… (che, devo dire, in quella circostanza, con il direttore Paolo Mieli, mi difese). Tuttavia, per la gravità delle affermazioni del signor “mite” (“disinformatore”, “provocatore politico”, “insinuatore”) e per tutelare la mia incolumità sono stato io a querelare Vendola.

Fermi. Perché qui comincia l’ultima parte, non meno interessante, della storia.

La mia querela viene presentata alla procura di Bari. E sta ferma lì per due anni e mezzo. Nonostante varie richieste e sollecitazioni, mai una risposta. Poi, per l’appunto dopo due anni e mezzo, quando chiedo al procuratore generale di avocare a sé il caso per inerzia del pubblico ministero nell’esercizio dell’azione penale (obbligatoria, eh, non lo si ripete sempre?), ecco che il pm si “ricorda” all’improvviso di essere “molto amica” di Vendola e quindi chiede di astenersi. Il simpatico pm di cui stiamo parlando si chiama Francesca Pirrelli e per la cronaca è la moglie del senatore pd Enrico Carofiglio, pm in aspettativa, eletto là dove la signora esercita le funzioni di magistrato (quanti spunti per una bella puntata di un talk show, vero?). Ma non è finita. La querela arriva sul tavolo del procuratore, Emilio Marzano, che finalmente il 5 aprile prossimo andrà in pensione (auguri). Fresco della fallimentare inchiesta sui due fratellini di Gravina di Puglia, Salvatore e Francesco Pappalardi , trovati morti in fondo a un pozzo, Marzano non ci pensa due volte a chiedere l’archiviazione della mia querela, che il gip accoglie, con una motivazione che lascio giudicare a voi. E che in sintesi è la seguente. E’ vero, scrive Marzano, che Vendola ha gravemente diffamato Vulpio (e qui uno pensa: ci siamo, ha riconosciuto dove sta la ragione e dove il torto), ma… Ma cosa, accidenti? Ma, prosegue Marzano, Vulpio aveva ripetutamente criticato Vendola, quindi si può ritenere quella di Vendola una reazione comprensibile. E bravo Marzano. Evviva la legge. D’ora in avanti, l’esercizio dei diritti di critica e di cronaca da parte dei giornalisti, garantiti dalla Costituzione, li chiameremo provocazione e chiunque, senza che abbia nemmeno fatto querela, potrà dire ciò che vuole contro i “provocatori” ed esporli a qualunque rischio.

Torniamo al nostro quiz. Sembrava semplice all’inizio, dite la verità. Arrivati a questo punto invece le cose si sono complicate un po’. Purtroppo per voi (e per noi) c’è ancora un altro punto degno di riflessione.

Ed è il terzo caso.

Un premier chiama, vuol far chiudere eccetera, ma intanto, al dunque, non succede niente, poiché Annozero e altri programmi non hanno mai smesso di andare in onda.

Un governatore chiama, minaccia querele, lancia accuse infamanti eccetera, e alla fine qualcosa succede: sarà una coincidenza, ma il sottoscritto adesso è passato a occuparsi (per quanto serenamente) di altri temi.

Domande finali, facili facili.

Secondo voi, di quale delle due vicende del caso numero 3 si è finora parlato? E di quali si parlerà, tra alti lamenti e contrizioni?

Secondo voi, chi è da considerare davvero “imbavagliato”?

Secondo voi, chi è l’unico cattivo che promulga gli editti?

Secondo voi, un programma come Annozero è doppiopesista?

Se sì (o anche se no, è uguale), secondo voi perché quando Annozero ha invitato Vendola (coincidenza, proprio dopo l’accordo con de Magistris e Di Pietro), gli ha cucito addosso una trasmissione su misura? Una puntata in cui il “mite” – che non ha fatto niente per l’inquinamento industriale di Taranto se non una tardiva legge-truffa regionale -, si è persino “venduto” il dramma dei bambini di quella città malati di leucemia, senza che nessuno lo sbugiardasse, visto che il “contraddittorio” era affidato alla signora Alba Parietti?

Secondo voi, è vero che con lo scandalo della Sanità pugliese, se al posto della giunta di centrosinistra ce ne fosse stata una di centrodestra, gli amministratori di centrodestra sarebbero già stati tutti arrestati?

Secondo voi, perché dello scandalo della Sanità in Puglia non si parla quanto si dovrebbe?

I GIUSTIZIALISTI ALLA RESA DEI CONTI.

Berlusconi, Travaglio, Santoro. Reati e diffamatori. Quando la verità non è uguale per tutti.

Condannati, prescritti e diffamatori di professione. Si rischia meno se si è giornalisti di sinistra e dalla parte dei magistrati. A censurare le colpe ci pensano i colleghi giornalisti.

Tra Berlusconi e Travaglio scontro totale: dopo 20 anni il primo faccia a faccia in tv. Il 10 gennaio 2013 da Santoro. 

L'editorialista del Fatto attacca, poi il Cavaliere prende il suo posto e legge il casellario giudiziario del giornalista. Santoro perde la testa

Ebollizione generale nello studio, l'incontro con Travaglio dopo vent'anni di guerra a distanza non poteva essere più spettacolare, con Santoro spalla ideale nel faccia a faccia. Le parti si invertono, con Berlusconi che legge e Travaglio che ascolta l'elenco di addebiti che il suo nemico eterno fa, nei panni di reporter, leggendo il casellario di condanne civili e penali di Travaglio. Nella prima parte, quando Berlusconi ricorda che Travaglio ha iniziato a fare il giornalista di giudiziaria da Torino sul Giornale era proprio con lui come editore, il clima è divertito. Anche quando Berlusconi dice che è colpa di Travaglio se poi Montanelli ha litigato con lui, siamo in pieno show senza acredine. Poi però si arriva alle condanne per diffamazione, che Berlusconi simulando Travaglio legge spietatamente, prendendo dalla lettera preparata dal suo staff. E Santoro comincia a innervosirsi, mentre Travaglio ascolta e annota le precisazioni che farà subito dopo, fino allo scontro con Santoro che esplode e Berlusconi che accusa Travaglio di essere un «diffamatore professionale». Prima di invitare, sempre nel ribaltamento di ruoli, Santoro a lasciare lo studio se non gradisce.

Altre gag poi, quando Berlusconi riprende la sedia occupata momentaneamente da Travaglio, e fa il gesto di pulirla, con Santoro che esplode una seconda volta e Berlusconi che lo intrappola con un: «Ma non si può nemmeno scherzare». Travaglio invece incassa meglio, e replica con un'altra battuta («Se le mie condanne fossero penali lei mi avrebbe fatto presidente del Senato»), due «geni del male». Anche se Travaglio, solo in privato, esprime opinioni piuttosto positive su Berlusconi, la capacità di resistere, per vent'anni, ad attacchi che avrebbero sfiancato un peso massimo, la capacità di conquistare le persone, cosa che Berlusconi prova subito col pubblico, stringendo mani, mentre i fotografi urlano «Presidente una foto con Travaglio!».

Marco Travaglio e la Giustizia

Processi per diffamazione (Fonte Wikipedia)

Nel corso della sua carriera è stato più volte querelato o citato in giudizio per quanto da lui scritto o dichiarato, ma nessun procedimento penale si è concluso con una sentenza definitiva di condanna. A seguito di alcune querele è stato celebrato un processo nel quale è stato assolto. In altri processi civili sono state pronunciate, in primo grado o in appello, sentenze di condanna. In un caso il procedimento si è concluso per remissione di querela e in uno per prescrizione. Di seguito sono descritti alcuni dei procedimenti più significativi che lo hanno coinvolto:

Sentenze favorevoli.

Dopo aver scritto assieme a Elio Veltri il libro L’odore dei soldi era stato citato in giudizio da Silvio Berlusconi per diffamazione; il tribunale civile ha stabilito che il libro non è diffamatorio ed ha condannato Berlusconi a pagare le spese processuali.

In seguito all’intervista rilasciata al comico Daniele Luttazzi nel programma Satyrucon è stata avviata un'azione civile per danni da parte di Mediaset contro Travaglio, Luttazzi, Rai, il direttore di Rai Due, Carlo Freccero, e il produttore del programma Bibi Ballandi. Nel 2005 la causa si risolve in primo grado con la respinta della domanda e con la condanna per Mediaset a rinfondere le spese processuali. Nel 2011 la sentenza viene confermata in appello.

Nel 2005 Cesare Previti ha citato in giudizio Travaglio per una presunta diffamazione nei suoi confronti e nei confronti di Silvio Berlusconi nell'articolo comparso nella rubrica Bananas dell’Unità il 19 aprile 2005. Nel 2007 il tribunale civile di Roma ha rigettato la domanda di Previti e lo ha condannato a rifondere le spese processuali.

Il 6 febbraio 2009 Travaglio, Lucio Caracciolo e Paolo Flores d’Arcais ottengono dal Tribunale di Roma il risarcimento dei danni per la causa per diffamazione intentatagli dall'onorevole Cesare De Piccoli, per via di un intervento di Marco Travaglio al convegno Proposte per un arcobaleno di pulizia morale, tenutosi a Roma il 14 gennaio 2006 e anche per l'articolo I sommersi ed i salvati, pubblicato su Micromega del marzo 2006, in cui si rivelava che De Piccoli sarebbe stato in possesso di conti in Svizzera, sui quali gli sarebbe stata accreditata una somma di duecento milioni di lire da parte della Fiat.

Nel maggio 2009 la Cassazione conferma un proscioglimento sancito l'11 dicembre 2008 dal GIP di Roma, relativo ad un'indagine per presunta diffamazione ai danni di Fabrizio del Noce, attraverso la pubblicazione di un articolo su l’Unità del 6 marzo 2007, condannando il querelante al pagamento delle spese processuali e a 1500 euro di ammenda.

Il 9 dicembre 2009 il GIP di Roma ha disposto l'archiviazione della causa per diffamazione a mezzo stampa intentata da Cesare Geronzi contro Marco Travaglio, accusato di aver «fornito un'immagine del querelante come persona responsabile di molteplici reati» travalicando «ogni limite nella corretta informazione» e ponendo in essere un pesante attacco «mediante la prospettazione di notizie in parte false e in parte maliziosamente rappresentative», nel suo intervento alla trasmissione Annozero del 1° novembre 2007, nella puntata Arrivano i mostri.

Procedimenti estinti per remissione della querela

Dal 2004 è stato oggetto di un procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata dal mezzo della stampa, a seguito degli articoli M'illumino d'incenso e Zitti e Vespa, pubblicati sul quotidiano l’Unità nei giorni 12 marzo e 6 marzo di quello stesso anno. Il procedimento ai danni del giornalista si è concluso nel 2008 dopo che la persona offesa, il giornalista Antonio Socci, ha deciso di rimettere la querela a seguito delle scuse pubbliche di Travaglio.

Procedimenti prescritti.

Nel gennaio 2010 la Corte d'Appello penale di Roma lo ha condannato a 1000 euro di multa per il reato di diffamazione aggravato dall'uso del mezzo della stampa, ai danni di Cesare Previti. Il reato, secondo il giudice monocratico, era stato commesso mediante l'articolo Patto scellerato tra mafia e Forza Italia pubblicato sull'Espresso il 3 ottobre 2002. La sentenza d'appello riforma la condanna dell'ottobre 2008 in primo grado inflitta al giornalista ad 8 mesi di reclusione e 100 euro di multa. In sede civile, a causa del predetto reato, Travaglio era stato condannato in primo grado, in solido con l'allora direttore della rivista Daniela Hamaui, al pagamento di 20.000 euro a titolo di risarcimento del danno in favore della vittima del reato, Cesare Previti. Il 23 febbraio 2011 la condanna per diffamazione confermata in appello per il processo Previti cade in prescrizione.

Sentenze di condanna in sede penale.

Il 28 aprile 2009 è stato condannato in primo grado dal Tribunale penale di Roma per il reato di diffamazione ai danni dell'allora direttore di Raiuno, Fabrizio Del Noce, perpetrato mediante un articolo pubblicato su L’Unità dell'11 maggio 2007. Il processo è, al 2012, pendente in Cassazione.

Sentenze di condanna in sede civile.

Nel 2000 è stato condannato in sede civile, dopo essere stato citato in giudizio da Cesare Previti a causa di un articolo su L’Indipendente, al risarcimento del danno quantificato in 79 milioni di lire.

Il 4 giugno 2004 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile a un totale di 85.000 euro (più 31.000 euro di spese processuali) per un errore contenuto nel libro «La Repubblica delle banane» scritto assieme a Peter Gomez e pubblicato nel 2001; in esso, a pagina 537, si attribuiva erroneamente all'allora neo-parlamentare di Forza Italia, Giuseppe Fallica, una condanna per false fatture che aveva invece colpito un omonimo funzionario di Publitalia. L'errore era poi stato trasposto anche su L’Espresso, Il Venerdì di Repubblica e La Rinascita della Sinistra, per cui la condanna in solido, oltreché la Editori Riuniti, è stata estesa anche al gruppo Editoriale L'Espresso. Nel 2009, dopo il ricorso in appello, la pena è stata ridotta a 15.000 euro.

Il 5 aprile 2005 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme all'allora direttore dell'Unità Furio Colombo, al pagamento di 12.000 euro più 4.000 di spese processuali a Fedele Confalonieri (Mediaset) dopo averne associato il nome ad alcune indagini per ricettazione e riciclaggio, reati per i quali, invece, non era risultato inquisito.

Il 20 febbraio 2008 il Tribunale di Torino in sede civile lo ha condannato a risarcire Fedele Confalonieri e Mediaset con 26 000 euro, a causa dell'articolo "Piazzale Loreto? Magari" pubblicato nella rubrica Uliwood Party su L’Unità il 16 luglio 2006.

Nel giugno 2008 è stato condannato dal Tribunale di Roma in sede civile, assieme al direttore dell'Unità Antonio Padellaro e a Nuova Iniziativa Editoriale, al pagamento di 12.000 euro più 6.000 di spese processuali per aver descritto la giornalista del TG1 Susanna Petruni come personaggio servile verso il potere e parziale nei suoi resoconti politici: «La pubblicazione», si leggeva nella sentenza, «difetta del requisito della continenza espressiva e pertanto ha contenuto diffamatorio».

Il 21 ottobre 2009 è stato condannato in Cassazione (Terza sezione civile, sentenza 22190) al risarcimento di 5.000 euro nei confronti del giudice Filippo Verde che era stato definito «più volte inquisito e condannato» nel libro Il manuale del perfetto inquisito, affermazioni giudicate diffamatorie dalla Corte in quanto riferite «in maniera incompleta e sostanzialmente alterata» visto il «mancato riferimento alla sentenza di prescrizione o, comunque, la mancata puntualizzazione del carattere non definitivo della sentenza di condanna, suscitando nel lettore l'idea che la condanna fosse definitiva (se non addirittura l'idea di una pluralità di condanne)».

Il 18 giugno 2010 è stato condannato[ dal Tribunale di Torino – VII sezione civile – a risarcire 16.000 € al Presidente del Senato Renato Schifani (che aveva chiesto un risarcimento di 1.750.000 €) per diffamazione avendo evocato la metafora del lombrico e della muffa a Che Tempo che Fa il 10 maggio 2008. Il Tribunale ha invece ritenuto che le richieste di chiarimenti, da parte di Travaglio, circa i rapporti di Schifani con esponenti della mafia siciliana rientrino nel diritto di cronaca, nel diritto di critica, nel e nel diritto di satira.

L'11 ottobre 2010 Travaglio è stato condannato in sede civile per diffamazione dal Tribunale di Marsala, per aver dato del figlioccio di un boss all'assessore regionale siciliano David Costa, arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente assolto in forma definitiva. Travaglio è stato condannato a pagare 15.000.

Una tegola giudiziaria che lo ha spinto a rinunciare alla candidatura per le prossime elezioni politiche. Franco Barbato, parlamentare dell’Idv, è indagato dalla Procura di Roma per tentato millantato credito. La vicenda si riferisce ad una presunta richiesta di 20 mila euro all’imprenditore Paolo Viscione per risolvere i problemi che la sua società di assicurazioni aveva con l’Isvap. Una indagine nata alcuni mesi fa a Napoli e trasferita a piazzale Clodio per competenza territoriale.  Ad annunciare l’iscrizione nel registro degli indagati è stato lo stesso Barbato con un post sul suo blog nel quale l’esponente del parto fondato da Antonio Di Pietro annuncia che non prenderà parte alle prossima campagna elettorale. «Sono stato da poco destinatario - spiega Barbato - di un’informazione di garanzia da parte della Procura di Roma che `letteralmente´ mi sconvolge. Sono da questo momento una persona sottoposta ad indagini e la prima riflessione è: non posso candidarmi per le prossime elezioni». Il parlamentare deve, intanto, presentarsi in Procura il prossimo 17 gennaio 2013 perché convocato dal pm Mario Palazzi, titolare del procedimento a suo carico. Per gli inquirenti il deputato «abusando della propria funzione di componente della VI commissione permanente (Finanze) della Camera - è detto nel capo di imputazione -, competente tra l’altro della materia delle assicurazioni, consapevole delle difficoltà in cui versava la Eig Ltd, società di diritto maltese operante in Italia nel settore assicurativo e sottoposta ad attività ispettiva da parte dell’Isvap, ostentando le proprie conoscenze in tale istituto, millantando credito chiedeva a Viscione 20 mila euro». Ad accusare Barbato è lo stesso Viscione, ma anche altri due testimoni dei fatti, avvenuti in un bar del centro di Roma, sostengono la stessa versione dell’imprenditore. Barbato respinge le accuse e parla apertamente di «una montatura» ma «essendo io il primo a sostenere che chi sta nelle Istituzioni non deve essere neanche sfiorato dal sospetto, non posso candidarmi». Proprio nei giorni scorsi il deputato si era recato in Procura a Roma per depositare un esposto con cui chiedeva ai pm di allargare le indagini sui fondi pubblici gestiti dai gruppi parlamentari. «È il sistema marcio, nessuna «vergine» tra i gruppi parlamentari», aveva denunciato ai pubblici ministeri.

Se così fosse, cioè come l’indagato conferma, e stabilito che la sentenza definitiva viene emessa dopo tre gradi di giudizio nei tempi biblici della giustizia italiana, il paradosso dei talebani giustizialisti è che, in caso di non luogo a procedere o di proscioglimento, il cittadino sarebbe stato privato della tutela di chi ha dimostrato in modo esclusivo ed unico di essere veramente meritevole della fiducia dell’elettorato, battendosi da solo contro tutti in un Parlamento che non rappresenta gli interessi del cittadino.

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base.

IL PARTITO DEI MAGISTRATI

A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro... che ti epura. (ammonimento ai giovani socialisti attribuito a Pietro Nenni da Ugo Intini). Un detto da applicare ai manettari di turno genuflessi a quel potere giudiziario in mano ai potentati occulti.

Il progetto di Grillo: uno Stato dei pm con Ingroia premier.

Dopo aver candidato Di Pietro al Colle, il magistrato entra nei piani del M5S. E lui non smentisce: "Ci saranno sempre cose da fare per me". Così le toghe vanno al potere, scrive Emanuela Fontana su “Il giornale”.  Quando si dice le coincidenze. Antonio Ingroia si è trovato nello stesso giorno possibile candidato della coalizione del Movimento 5 stelle (con Di Pietro e la Fiom Cgil), secondo una ricostruzione del quotidiano Il Messaggero, e protagonista di un dibattito all'università di Pavia che avrebbe dovuto essere il suo addio all'Italia prima della trasferta di un anno in Guatemala, l'ultimo intervento pubblico sul suolo patrio. Chi pensava che il magistrato antimafia, sempre più appassionato alla vita politica, fosse già volato dall'altra parte dell'Oceano per l'incarico dell'Onu è rimasto deluso. I suoi sostenitori, invece, hanno seguito la diretta video dall'università, con la suspance dell'indiscrezione che lo vorrebbe candidato premier. Tra previsioni funeste per il futuro immediato («La seconda Repubblica è al tramonto, è peggio della prima. Le mafie faranno di tutto per trovare referenti stabili») e le rivendicazioni del lavoro svolto nell'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia, Ingroia non ha smentito niente. Solo alla fine, a domanda ha risposto. Si candida? Sorriso: «Sono scenari giornalistici, ci si esercita su tante cose, non mi sembra che sia realistico. A me non ha proposto niente nessuno. Anch'io leggendo ho detto: mah». Su Twitter intanto imperversava l'ironia: adesso entreremo nello «Stato dei pm», era una delle battute, in riferimento all'ipotesi assurda di avere due magistrati alla presidenza della Repubblica e a Palazzo Chigi, dopo che proprio Beppe Grillo ha lanciato Di Pietro per il Quirinale. Il procuratore aggiunto di Palermo dice che è concentrato sul Guatemala, dove andrà «per capire meglio le mafie, che sono sempre più network internazionali», ma «se non dovessi appassionarmi all'America Centrale tornerò in Italia, dove ci sarà sempre qualcosa da fare per me». Il biglietto di ritorno si può staccare in quattro e quattr'otto, insomma. Poco prima, aveva sottolineato come il momento attuale ricorda «molto quello che è avvenuto nel '92. La mafia si stia muovendo dietro le quinte per nuovi patti politici mafiosi di lunga durata». La «crisi d'identità dei partiti ricorda molto il viale del tramonto della prima Repubblica». C'è quindi bisogno di «una politica diversa. Abbiamo bisogno di cittadini che si appassionino alla politica in prima persona». E in effetti queste sono proprio le idee di Grillo, sul cui blog, del resto, Ingroia era già intervenuto la scorsa estate con un videomessaggio, che aveva trovato anche parecchi apprezzamenti dei grillini. Qualcuno, già allora, gli aveva proposto online di farsi avanti. La sua candidatura sarebbe un affronto esplicito al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che già sorveglia con apprensione la cavalcata di Grillo. Ingroia o non Ingroia, il problema della leadership comunque per il Movimento 5 stelle esiste. Il comico non si può candidare perché, paradosso, non ha i requisiti previsti dal non-statuto del Movimento. Ha subito infatti una condanna della Cassazione a quattordici mesi per omicidio colposo negli anni Ottanta. Formalmente non potrà essere quindi lui l'aspirante premier. Ha bisogno di un volto, di un nome credibile, che faccia volare il Movimento verso la campagna elettorale. Di Pietro è improponibile per il Movimento e infatti Grillo lo pensa al Quirinale. Le pedine da giocare rimangono poche. Per azzardo Roberto Saviano sarebbe il candidato perfetto, ma magari non piacerebbe al Fatto Quotidiano, che nell'ottica della coalizione sarebbe il quotidiano di riferimento (già lo è per l'Italia dei valori e Ingroia). Oppure si potrebbe pescare dalla Fiom Cgil, che paga però l'assenza di visibilità a livello mediatico. Il segretario generale Maurizio Landini era intervenuto, come Ingroia, sul blog di Grillo, ma in Italia, con tutto il rispetto, non lo conosce quasi nessuno. L'asse Grillo-Di Pietro è intanto confermato da un fedele di Tonino, il senatore Luigi Li Gotti: «Penso che il Movimento 5 stelle vuole fare politica. Questa opzione è la base principale utile per il futuro del Paese. Con questa gente noi parliamo». L'Idv, comunque, non sta morendo. Nascerà un partito nuovo: «È morto un certo modo di intendere il partito, serve un reclutamento diverso e l'allacciamento alla società civile. Ci apprestiamo a fare un partito nuovo con regole diverse», annuncia Li Gotti.

Vi svelo le manovre della lobby di Casaleggio.

Grillo, Di Pietro, Travaglio e De Magistris: ecco tutti i volti della cerchia. L'sms di Giggino a Travaglio: "Vulpio contro Santoro, io mi dissocio", scrive Carlo Vulpio su “Il Giornale”.

Caro direttore, era il 5 maggio 2009 e io - candidato indipendente con l'IdV al Parlamento europeo - rilasciai al Giornale un'intervista in cui affermavo letteralmente che l'Idv era un partito pieno di banditi, che andavano cacciati a pedate. Nota bene: lo dicevo il 5 maggio, cioè «prima» del voto (6 e 7 giugno), consapevole di farmi molti nemici non soltanto all'interno del partito con cui mi ero candidato, ma anche in tutta l'area (stampa, magistratura, associazioni) a esso «collaterale», in alcuni casi in buona fede, in molti altri no. Il giorno della pubblicazione di quella intervista, ecco, puntuale, la telefonata. Non di Di Pietro, ma di Grillo. Di Pietro mi chiamò, lamentandosi della «inopportunità» delle mie parole, ma lo fece subito dopo il comico genovese. Grillo mi disse che non avrei dovuto parlare di quegli argomenti, men che meno con il Giornale.

Ovviamente, come sa chi mi conosce un po', né Grillo né Di Pietro mi impressionarono più di tanto. Anzi, diciamo che non mi fu difficile zittirli, portando esempi concreti di «banditismo dei Valori» che i due conoscevano benissimo e che dimostravano quanto fosse fondata la mia denuncia del doppiopesismo e dell'ipocrisia sui quali essi lucravano moralmente, politicamente ed elettoralmente. Non ce n'era bisogno - poiché la mia stroncatura elettorale era stata decisa fin dall'inizio dalla premiata ditta Casaleggio (che gestiva contemporaneamente forma e contenuti del blog di Grillo, di Di Pietro e dell'Idv) - ma così facendo firmai la mia condanna. Non solo non fui eletto per un paio di centinaia di voti, ma al momento delle «opzioni» il duo Alfano Sonia-De Magistris Luigi, obbedendo al diktat del padrone, scelse in maniera tale da tenermi fuori, così da far scattare il candidato sardo Uggias (sì, uno dei Batman dell'Idv, oggi indagato per peculato), noto anche per essere il difensore del fotografo Zappadu (quello delle foto rubate degli ospiti di Berlusconi a Villa Certosa). Questo non è un racconto «vendicativo» di una persona «tradita». Avrebbe potuto esserlo, se avessi detto queste cose solo oggi. Invece le ho dette «prima», addirittura durante la campagna elettorale (nessun «matto» ha fatto una cosa del genere dalle elezioni del 1948 a oggi) e non una volta soltanto. Il 7 maggio 2009, per esempio, a Ferrara mi capitò una cosa simile e ancor più singolare. Parlavo di libertà di stampa e con me c'erano De Magistris e Nanni (sì, l'altro Batman dell'Idv dell'Emilia Romagna, anch'egli indagato per peculato). Mi permisi di criticare Santoro e le finte battaglie dei «paladini» della libera informazione. Nanni si agitava sulla seggiola, De Magistris addirittura insorse. Io lo mandai al diavolo. Lui si giustificò così: «È che poi Di Pietro, Grillo e Travaglio chiamano me e rompono le palle a me per le cose che dici tu!». Incredibile, De Magistris mi stava dicendo che lo avevano messo a fare il mio cane da guardia. Due giorni dopo, a Pescara, incontrai Travaglio e gliene chiesi conto. Messo alle strette, Travaglio mi mostrò un sms sul suo cellulare: era De Magistris che lo avvertiva: «Vulpio sta attaccando Santoro, ma io mi sono dissociato». Potrei continuare. Su Vendola, per esempio, del quale Grillo, Di Pietro e De Magistris sono diventati alleati nonostante ne conoscessero le imprese di malgoverno. Ma credo che possa bastare, per ora. Altrimenti il Giano bifronte Grillo/Casaleggio potrebbe rilanciare: Di Pietro non più al Quirinale, ma direttamente al vertice dell'Onu.

Intanto l'IDV è nella bufera.

C'è anche Gabriele Cimadoro, parlamentare Idv nonché cognato di Antonio Di Pietro, tra le 54 persone indagate a Palazzago, riporta “Il Corriere della Sera”.  Nel mirino della Procura di Bergamo, come riporta l'Eco, c'è il Pgt di Palazzago e i presunti favori di cui avrebbero goduto alcune licenze edilizie. Non solo: le indagini riguardano anche alcuni terreni che hanno cambiato destinazione d'uso all'interno del Piano di governo del territorio. I reati ipotizzati vanno dall'abuso d'ufficio al falso ideologico e materiale, sino alla tentata concussione. Al cognato di Di Pietro viene contestato il concorso nell'abuso d'ufficio. Per il pm Giancarlo Mancusi, avrebbe fatto pressioni in Comune per indirizzare alcune pratiche. Cimadoro, titolare di una società immobiliare, è di Palazzago e in passato è stato assessore e consigliere comunale. Ma le pressioni, secondo l'accusa, sarebbero avvenute quando non aveva cariche comunali.

"Delinquente chi dice che ho 56 case". Così il leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, incalzato dal finto Bruno Vespa di Striscia la Notizia, su Canale 5, a proposito di quanto denunciato dalla trasmissione di Rai Tre Report. “Contro le calunnie semplicemente la verità”, scrive Antonio Di Pietro sul sito dell’Italia dei valori. “Hanno attribuito quindici appartamenti ai miei figli!”. Evitando di dire la fonte di quell’affermazione falsa, il gioco riconduce all’inchiesta di Report, nel corso della quale sono stati attribuiti (soltanto) tre appartamenti ai figli più piccoli (uno cointestato a Bergamo e uno a testa a Milano). Replicare con un falso alle “perle di disinformazione” e “scientifica opera di killeraggio politico” è un po’ come cadere nella casella probabilità del Monopoli. Probabile che l’abbia detto Report, al quale Di Pietro dice di replicare con la “carta che canta” dal suo sito. Appunto, carta canta, scrive Sabrina Giannini su “Il Corriere della Sera”. Alleghiamo le visure delle sue proprietà visto che dal sito Idv ne troviamo solo alcune. Di Pietro ci tiene a precisare che i suoi appartamenti sono 11 e non 56, “un equivoco che nasce dalla risposta ambigua di Massimo D’andrea, il consulente (di parte) di Elio Veltri nella causa contro Antonio Di Pietro, all’inviata di Report” (Il fatto quotidiano, 3 novembre). Sarebbe stato sufficiente rivedere la puntata “Gli insaziabili” per appurare che l’estensore della perizia (giurata) specifica che tra le proprietà della famiglia Di Pietro ci sono anche i terreni, che hanno un loro valore. Per evitare fraintendimenti, e a conferma di una impostazione garantista, la sottoscritta ha tolto dal dato complessivo le proprietà della moglie e del figlio più grande, Cristiano, e precisato che le proprietà dell’ex magistrato “sono 45, un dato che comprende anche i terreni, le cantine, i garage”.

Giocare sui numeri delle proprietà distoglie l’attenzione dal loro valore, quantificato dal perito all’incirca in cinque milioni di euro, ma con una stima prudenziale. Se il valore di mercato dell’intero cespite della famiglia fosse davvero di quindici milioni potrebbe confermarlo un qualunque esperto esterno al quale Di Pietro potrebbe affidare una controperizia. Nell’intervista a Report emergono ben più gravi criticità sulle quali Di Pietro glissa, per esempio in merito all’appartamento di 180 metri quadri in via Merulana a Roma acquistato nel 2002. «Quando ho visto dalla sua inchiesta che Di Pietro si era ristrutturato l’appartamento di via Merulana con i soldi del partito sono saltato sulla sedia», afferma indignato il capogruppo alla camera Massimo Donadi, «e a me non risulta infatti che in quella casa ci sia mai stata una sede dell’Idv».

D’altro canto è lo stesso Di Pietro a confermarlo in una dichiarazione al magistrato nella quale afferma che è domiciliato in via Merulana dal 2000. La carta che canta è stata mostrata da Report. Non risulta che i magistrati abbiano appurato se dietro quella fattura ci fosse o meno una sottrazione dei fondi del partito per uso privato. Potrebbe chiarirlo Di Pietro, allontanando così il sospetto di un’analogia con Bossi: per una faccenda analoga il leader della Lega Nord è sparito dalla scena politica. Val la pena di rimarcare che anche i suoi trentadue fedelissimi non si sono mai sentiti in obbligo verso gli elettori di chiedere più trasparenza e democrazia al loro leader, pur sapendo che gestiva la cassa del partito con la moglie e l’onorevole Silvana Mura. La stessa incredibilmente nominata dal socio unico Antonio Di Pietro nel Cda della sua società immobiliare Antocri, con la quale ha acquistato due appartamenti poi affittati al partito. Nel corso dell’intervista l’onorevole Di Pietro prima non ricorda che gli anni della gestione a tre della cassa è durata per ben nove anni. Poi non ricorda che in quel periodo i soldi del finanziamento pubblico riversati sul conto corrente sono stati quasi cinquanta milioni di euro, e non lo ricorda nemmeno la tesoriera Silvana Mura. Il presidente dell’Idv mostra a sua difesa i pronunciamenti della magistratura che lo scagionerebbero da ogni sospetto di appropriazione, arrivando addirittura a negare un dualismo tra partito e associazione a tre che invece proprio la magistratura ha più volte rilevato. La verità processuale sbandierata esclude però alcuni fatti (mai accertati e penalmente rilevanti come quello della ristrutturazione della casa di via Merulana a Roma) che attengono al piano dei comportamenti e dell’etica, che per un politico sono dirimenti. E lo sono ancor più nel suo caso, perché agli occhi dei suoi elettori, sensibili alla morale, si è sempre posto come moralizzatore. È proprio a loro che l’ex simbolo di mani pulite certamente non mancherà di mostrare l’unica carta che può davvero cantare dissipando ogni dubbio sull’uso a fini personali dei soldi pubblici erogati al partito: tutta la movimentazione bancaria del partito-associazione dal 2001 ad oggi. I bilanci e le rendicontazioni che mostra oggi, quelle che lui chiama “pezze d’appoggio”, valgono poco o niente, e Di Pietro lo sa da quando raccolse la deposizione di Bettino Craxi nel corso del processo Cusani: «I bilanci erano sistematicamente dei bilanci falsi, tutti lo sapevano ivi compreso coloro i quali avrebbero dovuto esercitare funzioni di controllo nominati dal presidente della camera, ma agli atti parlamentari non risulta». Il resto, appunto, è un gioco di parole e si sa che nel Monopoli ci sono molte caselle dell’imprevisto.

Chi ha 'ucciso' Antonio Di Pietro, il cultore della legalità ed amico intimo e tutore dei magistrati? La colpa non è di Report, ma dei suoi cortigiani che hanno premuto il grilletto (dopo la batosta in Sicilia), scrive  David Parenzo su “Panorama”. Report ha davvero ucciso definitivamente il partito fondato da Antonio Di Pietro? Per individuare i veri assassini dell'Idv bisogna tornare sulla scena del delitto ed analizzare tutti i dettagli della vicenda. Ripercorrendo la storia di questo partito si scopre che anche per l'ex Pm di Mani Pulite la famiglia e' importante e quindi va in qualche modo inglobata nella gestione del suo stesso movimento. Del resto, quando si è fondatori e leader indiscussi, si pensa di poter fare tutto e infatti molto e' stato fatto per la grande famiglia allargata di Tonino. Tutto regolare ma se ci si chiama "Italia dei Valori" un bel giorno devi mettere in conto che su "quei valori" qualcuno ti chieda ragione. L'ex governatore della Sicilia Raffaele Lombardo tiene famiglia e candida il giovane Toti all'Ars, Tonino fece lo stesso con il 35 enne Cristiano Di Pietro, suo primogenito, al consiglio provinciale di Campobasso. Umberto Bossi faceva gestire i suoi affari legati alla casa di Gemonio alla moglie Manuela Marrone (il vero capo del fu "cerchio magico") e lui affida la gestione del bilancio del suo partito in Lombardia alla prima moglie Isabella Ferrara e per l'attuale moglie Susanna Mazzoleni c'è pronto un bel posto nella triade proprietaria dell'associazione Italia dei Valori. Nulla di irregolare, nulla di penalmente rilevante ma se per anni fondi la ragione sociale del tuo partito parlando contro i conflitti di interesse, certo qualche piccolo problema, prima o poi, potrebbe sorgere. Ma la colpa non è di Di Pietro ma di tutti quelli che lo hanno affiancato in questi anni. Come mai solo oggi uno dei suoi pretoriani più fedeli, Massimo Donati, lo scarica con parole di fuoco? "Tradito dal segretario, si comporta come Berlusconi e il suo declino sarà simile" . Il capogruppo dell'Idv dov'era in tutti questi anni? Forse non sapeva della gestione padronale del patrimonio del partito? Forse non aveva mai sentito parlare di un giovanotto chiamato Cristiano Di Pietro? I veri assassini dell'Idv sono i suoi stessi dirigenti, che oggi provano a capitalizzare la sconfitta del capo e a trasformare il partito nell'Italia dei Livori. Facile oggi, dopo lo sbertucciamento della Gabbanelli, sparare sul morto. Lo sapeva anche il trattore di Montenero di Bisaccia che l'onorevole Cimadoro e' il cognato di Di Pietro, eppure tutti zitti, tutti sotto coperta ad ossequiare il capo. Ora che Report - dopo il bagno di sangue delle elezioni in Sicilia - spara, si sappia che a premere il grilletto però sono stati altri. Tutti coloro che in questi anni hanno fatto gli struzzi per avere un piccolo strapuntino di potere. Del resto, come sosteneva il mitico Barone d'Holbach (amico di Diderot) “Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro (… ) Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone (… ) deve tenere presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto.” Questo hanno fatto gli uomini di Tonino, i suoi veri assassini. Trattasi di suicido assistito e i medici che hanno iniettato la dose letale si chiamano: Ivan Rota (cognato di Cimadoro), Silvana Mura, Fabio Evangelisti, Aniello Formisano, Sergio Piffari ecc..ecc..ecc...una vera equipe che in tutti questi anni ha contribuito al "suicidio assistito" del gabbiano dei Valori.

Ma Di Pietro ha un amico interessato. Beppe Grillo. Quando Grillo attaccava Di Pietro. "Ha fondato l'Idv in una sede sotto sequestro dalla Finanza"  spiega un video su “Repubblica tv” e raccontato da Brunella Bolloli su “Libero Quotidiano”. L’uomo giusto per il Quirinale, l’uomo «onesto», l’unico che si è opposto al berlusconismo, insomma Antonio Di Pietro, il nuovo idolo di Beppe Grillo, l’altra metà della coppia politica del momento, è lo stesso Di Pietro di cui il comico-urlante parlava qualche tempo fa? Fenomenale lo show che circola in rete, datato marzo 1998, in cui l’arringatore genovese in una sala gremita di spettatori paganti attacca senza tregua l’ex pm. «Non so se posso dirvelo, ma che resti tra noi 8mila...», esordisce sornione. «Lui è un insegnante di procedura penale e fa le lezioni al Cepu: sarebbe già da vergognarsi solo per questo». Risate. «Ma la notizia clamorosa è che il Cepu ha 102 sezioni in Italia tutte sotto sequestro dalla Finanza». Grillo carica a testa bassa: «Il Cepu è imputato di associazione a delinquere, bancarotta, usura, riciclaggio, e lui ha fondato l’Italia dei Valori in una sede sotto sequestro dalla Finanza». Scattano gli applausi, il concetto di casta è ancora lontano da essere sviscerato, ma il comico di “Te la do io l’America” comincia già ad abbozzare i suoi «vaffa» contro i politici e la corruzione. Tonino, che proprio nel ’98 dà vita al suo partito puntando sulla legalità, è una delle prime vittime. Adesso, invece, è la persona giusta per il Colle. Ma in fatto di coerenza anche l’ex pm non scherza. Come ricorda Claudio Cerasa sul Foglio.it, solo il 26 aprile scorso Tonino prendeva le distanze dal comico. «Tra me e Grillo c’è una sola differenza: io critico, ma voglio costruire un’alternativa, lanciare un modello riformista e legalitario. Lui invece mira a sfasciare tutto e basta». Come dire: che c’azzecca lui con me? E del resto i grillini respingevano le avances dei dipietristi, scaricati dalla foto di Vasto, mollati da Bersani e compagni.

Quella sentenza su Di Pietro che il comico finge di ignorare. Le debolezze del leader Idv non sono una novità recente. Già nel '96 i giudici di Brescia accertarono i favori avuti da inquisiti e il denaro restituito prima di togliersi la toga, scrive Stefano Filippi su “Il Giornale”. Adesso, dopo le inchieste, le dimissioni e la Gabanelli, tutti scoprono chi è davvero Antonio Di Pietro, che peraltro il Giornale ha sempre raccontato: quello dei valori immobiliari, del partito che non ha mai fatto un congresso, del finanziamento pubblico «personale» (per statuto notarile l'Idv appartiene a Tonino e quindi anche i contributi statali). L'equilibrato magistrato che si offrì di interrogare Silvio Berlusconi con queste parole: «Io quello lo sfascio». L'uomo dei piccoli favori avuti da inquisiti, ritenuti privi di valenza penale sebbene accertati da varie sentenze giudiziarie. I 100 milioni di lire incassati, senza dover corrispondere interessi, dall'assicuratore inquisito Giancarlo Gorrini, successivamente restituiti con assegni circolari avvolti in carta di giornale prima di lasciare la magistratura. Altri 100 milioni sempre senza interessi e sempre da un imprenditore inquisito, Antonio D'Adamo, resi nel 1995 in una scatola da scarpe messa agli atti. Buste di contanti ancora da D'Adamo e centinaia di milioni da Gorrini, D'Adamo e Franco Maggiorelli per i debiti di gioco dell'amico Eleuterio Rea. Gorrini era in ottimi rapporti con Tonino benché fosse indagato per bancarotta fraudolenta e condannato per appropriazione indebita. E poi le auto. Una Mercedes da 65 milioni avuta da Gorrini (rivenduta all'amico avvocato Giuseppe Lucibello) e ripagata con altri assegni circolari incassati poco prima delle dimissioni, e una Lancia Dedra per la moglie da D'Adamo. Le case. Una garçonnière dietro piazza Duomo messa a disposizione da D'Adamo e riconsegnata all'inizio del 1994 (che, ricordiamo, è l'anno delle dimissioni dalla magistratura); l'utilizzo per un anno e mezzo di una suite al Residence Mayfair di Roma, dietro via Veneto, pagata da D'Adamo medesimo; un appartamento acquistato a Curno con denaro avuto da Gorrini; un appartamento per il collaboratore Rocco Stragapede fornito da D'Adamo a canone gratuito. I lavoretti per i familiari: per la moglie avvocato, le pratiche legali dalla Maa assicurazioni di Gorrini e le consulenze da D'Adamo; per il figlio, un doppio impiego alla Maa. E infine le piccole regalie: da D'Adamo abiti nelle boutique Tincati, Fimar e Hitman di Milano, telefonini, biglietti aerei Milano-Roma, un mobile-libreria; da Gorrini agende, penne, calze, ombrelli, passaggi su voli privati per battute di caccia. Ricorre questa strana coincidenza: Tonino Di Pietro ha restituito gran parte dei soldi avuti in prestito da inquisiti alla vigilia del grande gesto di togliersi la toga in aula. Perché lasciò la magistratura? Anche questa risposta è stata messa per iscritto in alcune sentenze. Per esempio nei proscioglimenti decretati dai gup di Brescia Roberto Spanò e Anna Di Martino nei primi mesi del 1996. Quest'ultima, che doveva decidere sul rinvio a giudizio di Di Pietro per le accuse di Gorrini, argomentò che l'ex magistrato sarebbe incorso in sanzioni disciplinari se non avesse lasciato l'ordine giudiziario. Ma la sentenza più importante è quella del 29 gennaio 1997 depositata il 10 marzo successivo dal giudice Francesco Maddalo del tribunale di Milano; in questo processo Di Pietro (era parte lesa) non rispose alle domande del pubblico ministero né interpose appello al pari delle altre parti. Ecco alcuni passaggi dalle 192 pagine della sentenza del giudice Maddalo. Pagina 151: «È indubbio che i fatti raccontati da Gorrini si erano realmente verificati». Pagina 152: «Ne viene fuori un quadro negativo dell'immagine di Di Pietro (...) fatti specifici che oggettivamente potevano presentare connotati di indubbia rilevanza disciplinare». Pagina 167: «Decisiva appare l'intenzione di Di Pietro di intraprendere l'attività politica ovvero di ottenere incarichi pubblici di maggior rilievo». Pagina 177: «Il desiderio di lasciare l'incarico giudiziario nel momento di massima popolarità non poteva non essere funzionale e strumentale ad un successivo sfruttamento di questa popolarità, proprio in vista di quella progettata attività politica». Di Pietro non lasciò la toga per difendersi, come ha cercato di far credere (del resto i fascicoli a suo carico furono aperti successivamente) ma per fare politica. L'Italia dei valori, mobiliari e immobiliari.

Antonio Di Pietro «è come Berlusconi io con lui ho rotto definitivamente». Il capogruppo dell'Idv Massimo Donadi dopo aver minacciato le dimissioni è furioso con Tonino che, spiega in una intervista all'Unità, «con noi parlava di rilancio del partito, di date del congresso, poi va al Fatto quotidiano e dichiara sciolto il partito». «Di Pietro - osserva - stava lavorando da tempo a un percorso di avvicinamento con Grillo che si è perfezionato dopo un lungo lavorio sotterraneo» perchè «Grillo non vuole l'Idv, vuole Di Pietro» e «Antonio» ha dimostrato un «cinismo sconvolgente». Donadi aggiunge poi di sentirsi «truffato e tradito» e spera che si possa lavorare a una «nuova Idv». Poi «se il partito deciderà di suicidarsi obbedendo al necrologio di Tonino ognuno sarà libero». In un'intervista a "Repubblica" Donadi sottolinea che «da politico navigato qual è Di Pietro ha chiuso un'operazione sulla pelle dell'Idv».

''Di Pietro? E' in campo ormai da vent'anni, un tempo lunghissimo per un politico. La fine di Berlusconi va insieme alla fine della carriera politica di Antonio Di Pietro. Lo sa anche lui, e' uomo dotato di senso critico. E' giusto uscire di scena in questo momento''. Lo ha detto Michele Emiliano, sindaco di Bari del Pd, al programma radiofonico 'La Zanzara' su Radio24. ''Il Quirinale? Ci ho parlato di recente - dice Emiliano - e non mi sembra predisposto a fare il presidente. Ora deve spiegare immobile per immobile come li ha ottenuti, deve fare una prestazione migliore di quella di Report. Con trasmissioni come quella o ci si prepara bene oppure si declina l'invito''.

E' come Berlusconi". Questa la secca e durissima replica di Federica Salsi all'attacco del leader del Movimento 5 Stelle arrivata dopo la partecipazione della consigliera comunale a Bologna a Ballarò. Tra le 5 Stelle, dopo il celebre fuorionda di Giovanni Favia e il "divincolarsi" del sindaco di Parma, Federico Pizzarotti, c'è una nuova dissidente: la presa di posizione della Salsi è arrivata ad Affaritaliani.it. “La gente conosce il Movimento attraverso il messaggio di Grillo - ha aggiunto -, che si esprime in modo colorito. Lui fa bene perché deve dare la sveglia", ma "mi spiace che reagisca così. Siamo delle persone. Altre volte ha espresso apprezzamento per le mie presenze in tv. Vedo che adesso ha cambiato”.

Ed il sodale Travaglio. Mazzate di Facci: "Grillo, Bossi, Di Pietro. Ormai è una barzelletta umana". Marco fa il manettaro solo con Berlusconi, mentre difende Tonino come un Ghedini qualsiasi. Nessuna novità: non è mai stato credibile, scrive  Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Che noia. C’è un tizio, Marco Travaglio, che vorrebbe in galera i giornalisti che «dicono il falso» ma che è stato condannato penalmente con «prova del dolo» e cioè sapendo di diffamare: sentenza del 15 ottobre 2008, confermata in Appello l’8 gennaio 2010, prescritta il 4 gennaio 2011 senza l’opposizione del condannato. Uno che però ha scritto un milione di volte che una prescrizione equivale a una condanna e che ha pure beccato un sacco di condanne civili. Uno che la mena con l’indipendenza dei giornalisti e però pubblica solo carte di magistrati coi quali peraltro va in vacanza. Uno che è andato pure in vacanza con un tizio poi condannato per favoreggiamento di un prestanome di Bernardo Provenzano. Uno che la mena coi servi berlusconiani e che però ha pubblicato due libri con la Mondadori già berlusconiana. Uno che ha appena fatto un libro che deride chi credeva in Bossi ma che scriveva, con pseudonimo, sulla Padania. Uno che ha intervistato Grillo e alla fine aveva il naso marrone. Uno che ricatta i conduttori di talkshow dicendogli che, se c’è il sottoscritto, non ci sarà lui. Questo tizio, ieri, è riuscito a difendere Di Pietro scrivendo un articolo infarcito di omissioni e di balle: sembrava un ghedini minore. Ha detto che Di Pietro è un personaggio che non ha niente da nascondere: il suo scritto era una barzelletta. Questa sera ne racconta altre. Una è diventata lui.

"Polizia e carabinieri votano tutti per il Movimento 5 Stelle perché mi dicono che hanno due coglioni gonfi così di portare i politici a fare la spesa, accompagnarli ai concerti o a scopare le loro fighette ...". Lo ha detto Beppe Grillo nel suo ultimo comizio a Palermo.

L’IDV DIVERSA DAGLI ALTRI?

Le 56 case dei Di Pietro nel mirino di Report, scrive Ferma Restando su “Giornalettismo”. I soldi finiti nelle casse dei partiti sotto la lente della Gabanelli. Sotto la lente di Milena Gabanelli finisce Antonio Di Pietro. E il racconto di Sabrina Giannini parte proprio dal leader dell’Italia dei Valori, che prende atto “che a voi interessa più lo stuzzicadenti che la trave”. Poi, sempre durante l’intervista che Report manderà in onda stasera, Di Pietro afferra il telefono per chiamare Vincenzo Maruccio, all’epoca non ancora indagato. Ma sono gli altri a finire sotto la lente, come racconta ilFatto: Prima grana bolognese, dice l’ex dirigente Idv Domenico Morace: “Feci una denuncia querela in Procura che riguardava l’intero partito Idv per il territorio di Bologna e chiedevo di essere sentito sui fondi regionali destinati al gruppo regionale. L’ho chiesto 2 anni fa e non ho avuto mai avuto la soddisfazione di essere chiamato se non in concomitanza, successivamente, alla mia intervista su Affari Italiani”. E aggiunge: “Le verifiche che io feci riguardarono le entità di queste somme che Nanni aveva a disposizione e scoprì che si stava parlando di circa 90 mila euro l’anno. A fronte di queste segnalazioni verificai anche che per la mole di denaro che veniva impegnata non c’era un’attività politica di riscontro all’utilizzo di queste somme, oggi con le indagini della magistratura in corso cominciamo a intuire che fine facevano questi denari pubblici”. Poi si passa alle proprietà immobiliari di Di Pietro, cresciute esponenzialmente negli anni, secondo l’ex magistrato anche per le vittorie in tribunale grazie alle querele: Report chiede un parere a un geometra che, per conto di Elio Veltri, ex vicepresidente dell’Idv, ha catalogato e stimato gli immobili e le proprietà della famiglia dell’ex pm: “Escludendo da questa lista le 9 proprietà della moglie e le 2 del figlio maggiore, ne restano 45 comprese di garage e cantine”. Spiega il geometra D’Andrea: “Abbiamo una movimentazione economica del 33% dal 1995 al 2001 e dal 2002 al 2009 che arriva al 67%, prima dei rimborsi elettorali e dopo i rimborsi elettorali, entrambe al netto delle vendite. Dopo il 2001 la famiglia inizia ad acquistare beni”. NEL 1995, racconta la Giannini, Maria Virginia Borletti, figlia del produttore milanese di macchine da cucire, decide di donare a Di Pietro e Romano Prodi una parte dell’eredità, quasi un miliardo di lire (che per l’ex pm non sono più di 500 milioni): “Eppure è lo stesso Di Pietro, nella nota memoria consegnata al magistrato, a dichiarare di avere usato la donazione Borletti per l’acquisto di immobili”. E lui ammette: “Certo che la parte che mi ha dato in donazione l’ho usata personalmente”. La giornalista insiste: “Solo a lei?”. E Di Pietro: “E certo che me l’ha data a livello personale”. Di Pietro annuncia querela: “Fino a ieri sera non sapevo di essere, addirittura, proprietario di una cinquantina di case. Anche se, continuando con queste ripetute diffamazioni, prima o poi, a quel numero potrei anche arrivarci, grazie ai risarcimenti di coloro che mi hanno diffamato e continuano a diffamarmi tutti i giorni”. Lo scrive sul suo blog il leader dell’Italia dei Valori, Antonio Di Pietro, replicando alle polemiche seguite alla trasmissione Report. Il leader Idv allega una documentata replica.

Report e la legalità della famigli Di Pietro, scrive Achille Saletti su “Il Fatto Quotidiano”. Di Pietro ha perso, di improvviso, la sua baldanza. Di fronte ad una giornalista vera di Report ha farfugliato alcune scuse risibili che, credo, abbiano mandato in bestia i suoi non pochi fan. La moglie non è la moglie ma un donna con una propria testa. Immagino che anche il figlio non sia un figlio ma un uomo con una testa. Lo stesso deve valere per il cognato e per i parenti fino al quarto grado. Si fa un partito, si fa una associazione, si fanno convogliare tutti i soldi del “ vituperato” finanziamento ai partiti, alla stessa associazione. La quale, tengo famiglia, è retta da Di Pietro, dalla di lui moglie (la stessa che non è moglie e ha una sua testa) e da una fedelissima della prima ora. Nessun altro, perché la democrazia è pericolosa. Ora, io ho perso da tempo l’interesse verso comportamenti penalmente rilevanti. Mantengo un certo attaccamento, per un concetto assai calpestato dalla classe dirigente di oggi, con modalità più variegate dello stesso rilievo penale, che è il concetto di opportunità umana e politica. Penso che tale concetto debba assorbire la stessa fattispecie penale. Ovvero che sia l’unico reale margine oltrepassato il quale si assiste alla degenerazione della classe dirigente. La coscienza della singola persona si fa stile comportamentale e riflette ciò che i cittadini vorrebbero accadesse nella gestione del danaro pubblico. O che si aspettano, accada. Il concetto di legalità gridato fino al parossismo ha comportato questa degenerazione per cui tutto ciò che non è illegale è possibile. Anche quei comportamenti che, nella vita comune di un cittadino, imporrebbero una seria riflessione sulla loro adozione. Che è quello che accade nei paesi la cui coscienza civile non è ordinata per decreti penali di condanna ma per senso di responsabilità e orgoglio di essere, nella forma e nella sostanza, una persona per bene. Anche Di Pietro entra nel mazzo; non in quello dei gaglioffi (i magistrati, bontà loro, hanno certificato che non lo è) ma in quello, più numeroso e pericoloso per questo paese, dei “furbetti“ che hanno progressivamente sostituito l’astuzia alla intelligenza. Una lotta politica ridotta ad una diatriba tra chi è astuto e chi è corrotto speriamo non rappresenti il futuro della terza repubblica.

Compromessa la credibilità di Di Pietro. L’ex pm deve giustificare spese e scelte. Domenica 29 ottobre 2012, "Report" ha sollevato una serie d'interrogativi sui fondi incamerati dal leader dell'Idv. Ma ci sono anche le elezioni perse in Sicilia (nemmeno un seggio) e le vicende di Maruccio, il "pupillo" indagato per reati gravi. De Magistris e Donadi lo attaccano, Leoluca Orlando osserva...scrive Roberto Schena su “Il Vostro”. Esplodono le contraddizioni nell’Idv. Il risultato del voto in Sicilia, dove il partito non ha nemmeno raggiunto il 4%, è sconfortante. Dopo gli scandali sui fondi regionali nel Lazio che hanno travolto anche il partito di Antonio Di Pietro e dopo che lo stesso ex pm è finito sotto accusa per la gestione del patrimonio del partito, qualcuno pensa che la misura sia colma. Domenica, su Raitre “Report” ha sollevato dubbi sulla donazione Borletti, un miliardo di lire che sarebbe stato destinato all’ex pm in persona, secondo la versione dello stesso Di Pietro. Paradosso: nell’Idv è scoppiata la questione morale. Il sindaco di Napoli, Luigi de Magistris, ha invitato apertamente Di Pietro a farsi da parte e a togliere il suo nome dal simbolo. Il sindaco partenopeo è pronto a lanciare la “lista arancione” per le politiche del 2013. Si è quindi riunito l’ufficio di presidenza dell’Idv, su richiesta giunta da molti esponenti del partito di convocarlo. Il leader dell’Idv lavora a un dossier difensivo che prevede «la pubblicazione delle sentenze di condanna e il relativo risarcimento in denaro per le diffamazioni subite, anche per dimostrare la legittima provenienza del denaro di cui ha disposto». E starebbe preparando una difesa documentata per replicare alle accuse della trasmissione tv. Ma non basta a calmare gli animi. Fra i tre, i rapporti sono sempre stati molto tesi. La vittoria di de Magistris alle comunali di Napoli decretò una pace, rivelatasi presto molto fragile. Critico anche Massimo Donadi, capogruppo alla Camera, che su twitter invoca “un congresso straordinario per rinnovare e non morire”. Fortemente irritato, Di Pietro ha annunciato sul suo blog che “carte alla mano l’Idv dimostrerà la propria correttezza e trasparenza”. «Non dico niente», sono le sue uniche parole ai giornalisti che lo incrociano in Transatlantico alla Camera e gli chiedono un commento sulla puntata di Report. Il presidente dell’Idv allunga il passo e non risponde ai cronisti che insistono. Nel corso del summit dell’Ufficio di Presidenza, di 10 persone, durato otto ore, per la prima volta Di Pietro è stato apertamente criticato. Donadi, presidente dei deputati, ha chiesto la convocazione a breve di un congresso straordinario dell’Idv, evidentemente per rimuovere il suo attuale Capo, perché si accendesse una rissa verbale, con urla varie. Tonino ha ottenuto che si facesse quadrato attorno a lui e che il processo si spostasse verso Donadi. E il congresso si terrà per la primavera del 2013. D’altra parte, il vertice del partito è composto da persone che gli debbono l’esistenza come personaggi politici. Ma la crisi dell’Idv c’è, la si legge su siti e giornali amici, la credibiltà di Tonino è fortemente appannata. «Alle elezioni toglierò il nome dal simbolo», promette Di Pietro. «Comunque – aggiunge – se il Pd ci vuole, bene, altrimenti andremo da soli. Il 5% lo facciamo». Donadi non è d’accordo. E lo accusa di forzare la separazione dal Pd. Pesa il caso eclatante di Vincenzo Maruccio, ex suo avvocato, ex capogruppo alla Regione Lazio, il “cocco” che Tonino ha imposto come consigliere, da settimane indagato non soltanto per la presunta gestione privatistica dei fondi regionali, fatto di per sé gravissimo per un partito come l’Idv, ma anche su un presunto accordo elettorale con elementi della ‘ndrangheta, sui cui la magistratura calabrese sta indagando. Pesano poi le elezioni in Sicilia, con zero consiglieri, quando formalmente il sindaco di Palermo, Leoluca Orlando, è dell’Idv. Ma pesano soprattutto le immagini e le notizie trasmesse domenica da Report, su RaiTre. In un servizio molto accurato, mirato, spietato, preparato nel corso di più di un mese, sono emerse almeno tre vicende inattese, per chi vede in Di Pietro un paladino del rispetto delle regole. La prima storia riguarda la gestione dei rimborsi pubblici indirizzati all’Idv. Tra il 2000 e il 2007 decine di milioni di euro non sono stati trasmessi direttamente al partito, ma – caso unico – ad una Associazione parallela composta da tre sole persone, Tonino, sua moglie e Silvana Mura. Interrogato a sorpresa sul perché la moglie fosse sua socia nell’Associazione che controllava la cassa, Di Pietro ha risposto testualmente: «Ma guardi che mia moglie… non è, non è… mia moglie. È una signora che c’ha una sua testa, è… una sua politica e una sua esistenza». Ma il problema è l’intelligenza della signora? Quanto la giornalista di Report, Sabrina Giannini, ha cercato di intervistare la moglie di Tonino, le telecamere hanno immortalato la sua “fuga”, il rifiuto di rispondere. La seconda vicenda narrata da Report attiene invece ai soldi donati nel 1995 dalla signora Borletti a Romano Prodi e a Tonino Di Pietro per il progetto dell’Ulivo. Ma mentre il Professore risponde tranquillo: «Non ho mai pensato che li avesse dati a me, per la mia bella faccia», semmai al Movimento dell’Ulivo, Di Pietro alla giornalista di Report che gli chiedeva come abbia utilizzato il miliardo di lire ricevuto, ha risposto: «La parte che mi ha dato in donazione, l’ho usata… personale. Me l’ha data a livello personale». L’ha data a me… alla mia bella faccia. La terza questione riguarda il patrimonio immobiliare della famiglia Di Pietro che, secondo Report sarebbe aumentato a partire dal 2000. Alla riunione non si è presentato Leoluca Orlando, che evidentemente non vuole uno scontro aperto contro il leader, ma da Napoli De Magistris attacca Tonino senza remore: «Mi dispiace molto ma serve un cambiamento».

Idv, un partito a rischio estinzione? Viaggio nell'Idv, partito a rischio estinzione: dagli scandali sui fondi all'erosione del bacino elettorale. I sondaggi: Di Pietro al 4% scrive Domenico Ferrara  su “Il Giornale”. "Vogliamo essere un partito di governo". Antonio Di Pietro lo ripete costantemente, con ostentazione e convinzione. Ma, allo stato attuale, l'Italia dei Valori rischia di non entrare nemmeno in Parlamento. Gli ultimi sondaggi Swg certificano un crollo dell'Idv (che ha perso, in solo due settimane, il 2% dei consensi) direttamente proporzionale all'ascesa del MoVimento 5 Stelle. Grillo e Di Pietro, due leader, due amici che sono diventati inevitabilmente concorrenti. Ma la ventata di antipolitica, gli scandali e le diaspore interne hanno favorito il primo e inabissato il secondo. Attualmente, il partito dell'ex pm si attesta al 4,3% e rischierebbe di rimanere alla porta del Transatlantico (sempre che non cambi la legge elettorale). Cosa ha pagato Di Pietro? Gli scandali all'interno del suo partito, i balletti relativi alle primarie e alle alleanze nel centrosinistra, i dissidi con la corrente più moderata. E altro ancora. L'indagine nei confronti del capogruppo dell'Idv alla Regione Lazio, Salvatore Maruccio (indagato per peculato e accusato di aver prelevato a suo favore fondi dai conti del gruppo) ha inciso e non poco. E ha eroso parte della credibilità di Di Pietro nella battaglia per la trasparenza e per la legalità. Ma il caso di Maruccio è solo la punta dell'iceberg. Perché l'Idv non si può certo definire un partito "immacolato" e avulso da ogni sospetto. Anzi. Tralasciando la questione dei transfughi e dei cambi di casacca - ché su questo Di Pietro pare abbia avuto la calamita - la lotta contro gli inquisiti non arriva da un pulpito casto. Di recente, Marylin Fusco, vicepresidente della Regione Liguria, è stata indagata dalla procura di Sanremo per abuso d’ufficio e violazione delle norme in materia di tutela ambientale. Lo scorso giugno, il consigliere regionale della Campania, Dario Barbirotti è stato indagato per una presunta truffa nella gestione dei rifiuti (all'epoca dei fatti contestati era presidente del Consorzio Bacino Salerno 2). Il consigliere provinciale di Bologna, Paolo Nanni, è stato indagato a febbraio scorso per non aver restituito il pass invalidi della suocera, deceduta da due anni. Nell'ottobre 2011, a Bari, l'assessore al Contenzioso, contratti e appalti, Emanuele Pasculli, è stato indagato (in merito a presunte irregolarità di un appalto da 5 milioni di euro) e si è visto revocare l'incarico dal sindaco Emiliano. Come ha ricordato Filippo Facci su Libero, nel 2004, alle comunali di Foggia, Di Pietro ha appoggiato Riccardo Leone (Sdi) "che vantava condanne definitive per ricettazione, rapina continuata, resistenza a pubblico ufficiale, violenza privata, furto continuato e furto in concorso, evasione, danneggiamento continuato e violenza privata continuata, oltre ad aver passato due anni in un manicomio giudiziario". E Domenico Padalino, altro candidato appoggiato (a sua insaputa) da Di Pietro, "vantava due condanne definitive per furto, oltraggio a pubblico ufficiale, inosservanza dei provvedimenti dell'autorità e resistenza a pubblico ufficiale, oltre a essere indagato per porto abusivo d'armi". Paride Martella, ex presidente della Provincia di Latina, è stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta su appalti truccati. Gustavo Garifo, capogruppo provinciale dell’Idv di Genova, è finito in manette a ottobre per aver lucrato sugli incassi delle multe. Andrea Proto, consigliere comunale, reo confesso, ha incassato una condanna a un anno e nove mesi per aver raccolto la firma di un morto. Solo per citare alcuni casi che poco collimano con la vigorosa battaglia contro i condannati in Parlamento, ché la lista potrebbe continuare. Senza considerare poi il figlio di Di Pietro, Cristiano, consigliere regionale a Campobasso, indagato per corruzione, turbativa d’asta e abuso d’ufficio. Anche lo stesso Antonio Di Pietro è stato indagato in passato (la sua posizione è stata poi archiviata) per truffa in merito ai rimborsi elettorali all'Idv e per offesa al capo dello Stato. Ma l'ex magistrato, si sa, è politico animato di grande passione e spesso scivola nelle esagerazioni e nell'irruenza verbale. Basti ricordare i vari paragoni ed epiteti che utilizzò nei confronti di Berlusconi premier: da Hitler a Mussolini, passando per Gheddafi, Videla e Saddam Hussein. Un linguaggio offensivo che ha trovato validi emuli nel suo stesso partito, ché chi va con lo zoppo impara a zoppicare. Come quel Francesco Barbato che, pochi giorni fa alla Camera, auspicò il ritorno in campo di Formigoni e Scopelliti. Solo che il campo concepito dall'esponente dipietrista era quello di concentramento. E poi c'è la questione più politica e che ha visto mandare letteralmente in bambola il leader Idv. Che critica Bersani e poi lo corteggia. Che dice che non vuol rompere con lui ma allo stesso tempo attacca feralmente Monti. Che afferma di candidarsi a premier ma anche di partecipare alle primarie di coalizione. Che accusa Grillo di riproporre le sue idee salvo poi adularlo e avvertirlo che "se stai da solo questi ti fregano", dove per "questi" Di Pietro intende i partiti diversi dal suo. L'ex pm è riuscito pure a complicarsi la vita e a "creare" una corrente interna al suo partito. Una corrente moderata, che si oppone al machismo e all'ostruzionismo di Di Pietro e che vede in Massimo Donadi, capogruppo Idv alla Camera, uno dei principali capofila. Pochi mesi fa, Donadi ha accusato il suo leader di "scondinzolare dietro Grillo", di "mandare tutto al macero" e "di tradire la storia del partito". E oggi, la frattura non si è sanata, dal momento che al Fattoquotidiano Donadi ha dichiarato che "alle primarie andrà a votare per Bersani". Per risalire la china, a Di Pietro non resta che percorrere la strada da lui annunciata: togliere il suo nome dal simbolo del partito. Non si sa mai che così facendo qualcuno torni a votare Idv...

Case e terreni, ecco il tesoro del Batman Idv, scrive “Il Giornale”. Verifiche sui conti di Maruccio, uomo del "cerchio magico" di Di Pietro. E il partito chiude in anticipo la festa di Roma. Sì, di peculato. Mai slogan fu più funesto di quello scelto dall'Idv per la sua manifestazione regionale, a Roma. La «festa» chiude oggi, in clima pessimo e in anticipo di dieci giorni, ma a quanto pare non per lo scandalo Maruccio, l'ex capogruppo indagato per peculato per aver trasferito sui propri conti 700mila euro di fondi pubblici. Chiude prima, spiega la dirigenza Idv, perché la sovrintendenza non ha concesso la proroga per piazza Risorgimento, a pochi metri dalle mura vaticane. E pensare che «Noi, un'altra storia», l'aveva aperta proprio Vincenzo Salvatore Maruccio, calabrese di Vibo Valentia, potente capo dell'Idv in Lazio e membro del ristretto «cerchio magico» di Di Pietro (che pur di fargli spazio ha fatto fuori da coordinatore del Lazio uno come il senatore Pedica, non certo l'ultimo arrivato nell'Idv), il 28 settembre, esultando per la decapitazione della Polverini, «un risultato della nostra opposizione dura in Regione Lazio». Parole di fuoco, che lette adesso, dopo che la Procura ha dettagliato i suoi movimenti bancari alla Batman, hanno il sapore amaro della beffa: «Non consento che si tenti di far passare l'idea che siamo tutti uguali!» tuonava il pupillo del leader Idv. «Noi coi soldi della Regione non abbiamo fatto festini o comprato ville! I nostri conti personali non hanno visto un euro dei soldi del gruppo!». Molto diversa l'opinione del procuratore aggiunto di Roma, Alberto Caperna, e del sostituto Stefano Pesci, che interrogheranno l'ex coordinatore Idv del Lazio (ora commissariato) settimana prossima. I magistrati, che hanno disposto le perquisizioni nelle case e nell'ufficio del dipietrista, trovano «anomali» i bonifici (500mila euro) e i prelievi (200mila euro) fatti da Maruccio a partire dall'aprile 2011, dai due conti del gruppo Idv aperti presso Cariparma e Credito artigiano e gestiti esclusivamente da lui («unica persona fisica abilitata ad operare») verso sette conti correnti personali o cointestati con la moglie Raffaella Sturdà, anche lei avvocato. Operazioni sospette (importi molto elevati, causali generiche o assenti) che hanno insospettito Bankitalia che, come successe per Lusi, ha segnalato i movimenti alla Procura di Roma, e di lì l'inchiesta. Che finora riguarda solo Maruccio, nell'Idv, ma potrebbe allargarsi. Possibile, infatti, che nessuno sapesse? Nessuno controllasse? In un'assemblea infuocata lunedì scorso, prima dell'indagine, il partito (che a Roma ha le casse quasi vuote) ha processato Maruccio per non aver mai comunicato l'aumento dei fondi per i gruppi regionali, votato anche dall'Idv insieme a Fiorito. Possibile nessuno sapesse? Siamo a Roma, non in una sede periferica. E poi in un partito in cui la cassa è severamente controllata dal leader. Possibile che al segugio Di Pietro sfuggano così 700mila euro? Parliamo di complessivi 1.217.000 euro ricevuti dal gruppo consiliare Idv solo nel 2011. E di fatto interamente spesi, visto che l'avanzo della gestione è di soli 5mila euro. Un bilancio attendibile, quello presentato dal capogruppo Maruccio? Falso? Dove sono stati spesi, veramente, quei soldi, visto che li gestiva lui? È quello che sta accertando la Gdf. Sotto la lente ci sono i redditi, i movimenti sui conti correnti anche comuni e le proprietà. La Bmw 530, le spese, gli immobili. Due case più terreni a Maierato, tre a Roma: lo studio, un appartamento alla Balduina e uno nel quartiere Prati, in via Duodo. Nove vani e mezzo con garage, intestato alla moglie e comprato l'anno scorso, per 1 milione di euro, in parte con mutuo di 3mila euro al mese, acceso sul conto comune. Uno dei sette su cui arrivavano i soldi pubblici.

Mariuolo Maruccio, Di Pietro sapeva: "Tonino, quello ci ha svuotato le casse". Prima che il capogruppo nel Lazio fosse indagato, la base del partito aveva avvertito scoperto il buco e chiesto le sue dimissioni, scrive di Brunella Bolloli e Rita Cavallaro su “Libero Quotidiano”. Il consigliere regionale andrà dai pm. E assicura: "Chiarirò tutto". Vincenzo Maruccio aspetta sereno di essere interrogato dai magistrati la prossima settimana. «Spiegherò tutto, non ho usato soldi per me, ma solo per il partito», continua a ripetere l’ex capogruppo Idv indagato per peculato. «Chiarirò ogni cosa nelle sedi opportune e ai magistrati inquirenti, ai quali ho già messo a disposizione la documentazione contabile. Non ho nulla da nascondere. Il mio non è un altro caso Fiorito». Precisazione non casuale, visto che il procuratore aggiunto Alberto Caperna e il sostituto Stefano Pesci, che indagano sulla gestione dei fondi regionali, hanno già mietuto un’altra vittima eccellente: l’ex capogruppo Pdl Franco Fiorito, attualmente in carcere. I pm romani, d’intesa con gli uomini della Guardia di Finanza, vogliono completare l’esame della contabilità dell’Idv e fare luce sulla movimentazione di denaro da parte di Maruccio. In quanto capogruppo regionale e coordinatore del Lazio, ma soprattutto braccio destro del leader Di Pietro, Maruccio aveva grande autonomia nel gestire i fondi del partito. Disponeva lui i versamenti e i prelievi sui tre conti intestati all’Italia dei Valori aperti presso la Banca delle Marche e naturalmente sui suoi personali (una decina). Al punto che, dopo alcuni movimenti poco chiari, gli uffici della Banca d’Italia hanno deciso di inviare la segnalazione alla Finanza che ha proceduto con le perquisizioni. Per ora all’ex segretario viene contestato il trasferimento di circa 700mila euro, 500mila dei quali con bonifici e il resto cash, dal conto dell’Idv aperto al Credito Artigiano.

"Spuntano altri Batman nell’Italia dei Valori. – scrive ancora “Libero Quotidiano” - Perché alla corte di Antonio Di Pietro non c’era solo Vincenzo Maruccio, legale di fiducia del capo ed ex coordinatore del Lazio, oggi indagato per peculato al pari del pidiellino Franco Fiorito. Appena un anno fa le inchieste giudiziarie avevano travolto il predecessore di Maruccio, l’allora tesoriere Norberto Spinucci. L’accusa, in questo caso, è riciclaggio, troppo anche per l’Idv tanto che il cassiere si è dovuto dimettere subito dopo l’avviso di garanzia ed è pure uscito di scena. Nel partito dicono che è «sparito da marzo scorso». Adesso però Spinucci deve ricomparire: i magistrati lo vogliono ascoltare a breve in qualità di persona informata sui fatti per la vicenda dei rimborsi regionali", spiegano Brunella Bolloli e Rita Cavallaro su Libero in edicola oggi. Già, nell'Italia dei Valori non c'è solo il mariuolo Maruccio. Ora anche l'altro avvocato di Tonino Di Pietro rischia di essere processato: si sta parlando non di Spinucci, ma di Sergio Schicchitano, esponente dell'Idv, accusato di falsa fatturazione ed evasione. E, come detto, l'indagine coinvolge anche l'ex tesoriere del Lazio. Insomma, un bandito tira l'altro...

Gli amici scomodi di Di Pietro, nei guai per rapina ed evasione, scrive Filippo Facci.

Dalla Puglia alla Liguria, dalla Calabria alla Sardegna, l'ex pm ha appoggiato numerosi indagati e condannati. Come moralizzatore non è credibile.

Un visino d’angelo incastonato nella crapa di Al Capone: l’indagine su Vincenzo Salvatore Maruccio da una parte accredita le peggiori sciocchezze sulla fisiognomica della malapolitica si affianca ai vari Belsito e De Gregorio) e però dall’altra crea un disastro vero, perché Maruccio non è solo ex assessore ai Lavori pubblici e capogruppo Idv nel Lazio, è l’avvocato di Antonio Di Pietro nello studio di Sergio Scicchitano - a sua volta indagato per false fatturazioni nel giugno 2011 - il quale esercita dove Tonino ha il suo domicilio professionale. Parentesi per i colleghi: gli avvocati calabresi Maruccio e Scicchitano sono quelli che in questi anni vi hanno spedito le querele del molisano. Un disastro, perché il peso specifico di questa vicenda schiaccia l’Italia dei Valori verso il fondo di quella «vecchia politica» che Di Pietro cercava disperatamente di scansare per fiondarsi in direzione Grillo: solo che Grillo attraversa gli stretti a nuoto, Di Pietro intanto si dimena sull’arenile come un pescione appena pescato. Ora pure questa mazzata, a segnare una cesura definitiva: perché Grillo alla fine non prende soldi pubblici, Di Pietro sì; Grillo non ha figli e famigli in politica, Di Pietro sì; Grillo non ha candidato inquisiti, Di Pietro sì; Grillo non è candidato, Di Pietro ha già accumulato cinque mandati ed è in politica da 17 anni, si è pure avvalso dell’immunità europarlamentare: chiedere giusto ai suoi avvocati - quando saranno liberi - per informazioni. 

L’auto blu al mare: figuraccia del moralista Idv.

Il capogruppo al Senato Belisario, sempre pronto a denunciare sprechi e ingiustizie, era a Roma mentre il suo autista sfrecciava al lido di Policoro col lampeggiante acceso e più persone a bordo. E scatta la denuncia per peculato. Questo riporta "Il Giornale".

«Le modifiche al codice della Strada devono servire per ridurre gli incidenti ed evitare le stragi che ogni anno avvengono sulle strade italiane. Per questo vanno introdotte norme che amplino la sicurezza e tra queste certamente non ci possono essere quelle che aumentano i limiti di velocità. Con la vita non si scherza, non si può scherzare, e tutti senza eccezione alcuna devono rispettare le regole: questo vale anche per le auto blu». Era giusto il 4 maggio dell’Anno Domini 2010, quando il senatore dell’Idv, Felice Belisario, così sentenziava dalle pagine virtuali del suo sito internet. Parole sante.

Valori veri, non quelli dell’Italia dei medesimi, ma quelli della prudenza e del rispetto della legge. Sempre e comunque uguale per tutti, come ci ricorda, ogni giorno, Antonio Di Pietro. Già. Ma se poi quelle parole ti tornano indietro come un boomerang due mesi dopo? Ma se un’auto blu, mettiamo proprio quella assegnata (chissà a quale titolo poi?) al senatore Belisario, viaggia talmente a velocità sostenuta da venir fermata da un pattuglia dei carabinieri? E se poi dentro quell’auto blu i militari scoprono che non c’è nemmeno il senatore Belisario ma altre persone? Beh, allora, qualche riga sui giornali questa curiosa vicenda, forse la merita.

È ciò che puntualmente ha fatto, denunciando l’accaduto, la Gazzetta del Mezzogiorno che scrive: «L’auto blu assegnata al senatore Felice Belisario, eletto in Basilicata e capogruppo al senato dell’Italia dei valori, era al lido di Policoro, in provincia di Matera, nel pomeriggio di qualche giorno fa. Ma con le due o tre persone a bordo, uomo al volante compreso, il senatore non c’era. La berlina, una Lancia, ha incuriosito una pattuglia dei carabinieri della Compagnia in fase di normale controllo del territorio poiché aveva il lampeggiante blu sul tetto e andava a velocità sostenuta. Da qui l’alt e la successiva verifica. Tutto in regola. A parte l’assenza del senatore Belisario a bordo. I carabinieri hanno inviato una segnalazione dell’accaduto all’autorità giudiziaria. L’ipotesi: peculato».

Pubblicando la notizia sul suo sito web il 14 luglio 2010, la Gazzetta del Mezzogiorno ha acceso l’indignazione di molti lettori. Leggiamo qualcuno dei commenti più teneri: «Questa è l’Itaglia dei valori - persi o trovati? - valutate!» scrive Paolo Miraglia da Matera. «Come mai un senatore qualsiasi ha un’auto blu e autista a disposizione? Che ci facevano l’autista e company sull’auto blu se il senatore non c’era?» si domanda, giustamente Anto68 da Bari. Mentre Antonio, da Potenza si sfoga: «Finalmente lo hanno fermato! Per le strade di Potenza, soprattutto Viale Marconi, l’autista in questione crede di essere su una pista di Formula1. E meno male che è al servizio di un autorevole esponente del partito de la giustizia è uguale per tutti. Chissà se varrà anche per lui?».

Imbarazzante, ammettiamolo. Sì perché Felice Belisario non è soltanto il capogruppo dei senatori dell’Idv è anche, assieme, naturalmente, a Tonino l’Immarcescibile, l’altro Grande Moralizzatore del partito della pulizia, l’uomo che non si lascia sfuggire un’occasione che è una per bacchettare Silvio Berlusconi e il suo governo. Per spiegare al popolo italiano come le cose andrebbero fatte per il loro bene, nel rispetto, appunto, delle regole della trasparenza e dell’onestà. Così dal suo sito ogni giorno è buono per fare un piccolo comizio: «Il governo Berlusconi - scrive, sconsolato, il 6 luglio 2010 - è in piedi solo perché, ad oggi, non c’è un’opposizione sufficientemente determinata e coesa capace di creare un’alternativa all’attuale maggioranza parlamentare.

Altrimenti il Caudillo di Arcore sarebbe a casa da un pezzo». E il 13 luglio: con questi «fior di galantuomini Idv non può e non deve collaborare, non ci sono governi di solidarietà nazionale che tengano. Nessuna riforma è possibile: sarebbe come consegnare i principi fondanti della nostra Patria nella mani del carnefice».

Tornando all’imbarazzante episodio, l’autista di Belisario, Antonio Scavone, ha detto ai carabinieri che si stava recando dall’assessore regionale dell’Idv, Rosa Mastrosimone, ma i militari non gli hanno creduto e lo hanno denunciato. Dal canto suo Belisario dice di non saperne nulla e garantisce che mercoledì 7, quando dovrebbe essere avvenuto l’episodio, Scavone era con lui a Roma e non a Policoro.

C’è anche da dire che il capogruppo dipietrista di Palazzo Madama non è granché fortunato con gli autisti. Nel 1994, quando era nel Ppi, il suo collaboratore Numida Leonardo Stolfi, fu arrestato per sfruttamento della prostituzione, nel 2000 è stato condannato a nove anni e mezzo. E ora è di nuovo in cella come esecutore materiale di un omicidio. Mentre Antonio Scavone, descritto come un giovane molto focoso e dai modi piuttosto bruschi, è stato espulso dai carabinieri per motivi disciplinari. Ma, insomma, senatore Belisario ci pensi un attimo prima di predicare bene, altrimenti sono figuracce.

Da “L’Espresso” viene un colpo al moralizzatore per antonomasia e per il suo partito di riferimento. Noi sfruttati di Montecitorio. Portaborse vessati: ecco i casi di chi ha deciso di ribellarsi ai politici. Superlavoro, orari impossibili, vessazioni, pagamenti in nero. A volte il difficile rapporto tra parlamentari e portaborse finisce in liti fragorose sbarcando anche in tribunale. E' il caso di Liliana, addetta stampa di Francesco Barbato, il deputato-anticasta dell'Idv, famoso per avere registrato in aula le confessioni del collega Antonio Razzi. Liliana, licenziata l'estate 2011 per "carenza di attività politica", è riuscita alla fine a chiudere la questione con una transazione privata prima che l'intera faccenda finisse davanti al giudice del lavoro. Anche Vincenzo Pirillo, collaboratore di Domenico Scilipoti (ex Idv, ora nei Responsabili), "stufo di essere sfruttato", ha minacciato di recente di trascinare il suo parlamentare in tribunale. "Per un anno ho lavorato dalle nove del mattino alle undici di sera, sabato compreso", ha raccontato. "E la domenica c'erano i convegni e i comizi in Sicilia, senza pernottamento né rimborso spese. Prendevo 600 euro al mese, versati quasi sempre con assegno bancario firmato dal deputato e motivati come pagamento di contratti a progetto". Altro parlamentare balzato agli onori della cronaca, Antonio Razzi: anche lui ex Idv, anche lui come il suo amico Scilipoti pesantemente accusato dal proprio ex assistente. Massimo Pillera, ora giornalista a Trani, ha infatti chiesto al suo ex assistito Razzi (che respinge gli addebiti) la bella somma di centomila euro. A motivare la richiesta di rimborso e indennizzo, Pillera ha portato oltre 2 anni di lavoro in nero (dal 2006 al 2008), pagato in contanti sotto forma di rimborsi spese forfettari bimestrali: "Ho girato in lungo e in largo con Razzi", rivela, "ho lavorato sette giorni su sette, sempre con la promessa che nel 2008, dopo la sua rielezione nel partito di Di Pietro, sarebbe arrivato anche il contratto regolare". Invece, niente. A trionfare in tribunale è stata invece l'ex assistente di Gabriella Carlucci, deputata del Pdl da poco transitata nell'Udc, che dalla parlamentare ha ottenuto circa 10 mila euro a titolo di indennizzo. Lezione servita: la Carlucci ha adesso alle sue dipendenze due collaboratori in piena regola, con contratto a orario e paga concordati. Ancora peggio potrebbe andare a Giuseppe Lumia, senatore del partito democratico, che si è visto citato da un suo ex collaboratore, Davide Romano, al tribunale del lavoro di Palermo. Astronomica la richiesta di indennizzo chiesta all'ex presidente della commissione antimafia: 368 mila euro per 8 anni di mancate retribuzioni, per i danni morali e materiali e per i contributi non versati.

Ma non è nulla rispetto al filmato de “Le Iene” trasmesso il 9 febbraio 2012 nei confronti di Barbato. L’Onorevole Francesco Barbato dell’Italia dei Valori è diventato un moralizzatore della Casta con la sua microcamera all’interno del Parlamento, anche lui però ha la sua carcassa nell’armadio. Una affare risalente al 2009 in cui la sua collaboratrice ha denunciato di essere stata pagata in nero. Barbato ha certo un atteggiamento difforme nei confronti di Liliana. C’è stata un tira e molla finito con un accordo tra le parti in cui Barbato ha pagato diverse migliaia di Euro all’assistente Liliana con obbligo di discrezione e riservatezza tra le parti. Barbato cambia discorso all'insistenza incalzante di Filippo Roma.

Di Barbato si occupò la denuncia su “Il Giornale”: "Io, pagata in nero dai dipietristi". La denuncia di Liliana, collaboratrice del deputato Barbato: "Promise un contratto dopo un periodo di prova. Invece mi ha lasciata a casa. Metteva i soldi in una busta della Camera, senza buoni pasto né assicurazione". La replica: "Era un test andato male".

«Eeeh, mo’ non mi servi, non tengo molto da fare, è estate...». Clic. Fine della chiamata. Fine di un rapporto professionale, seppure coi contorni in chiaroscuro del lavoro nero. Il «principale» in questione, che scarica così il suo dipendente, è il deputato dell’Italia dei Valori Francesco Barbato, un tempo tra i più vicini ad Antonio Di Pietro, sempre tra i più attivi nel condannare la Casta e nel «rappresentare veramente le esigenze dei cittadini», come rivendica spesso in Aula; la «defenestrata», invece, è la sua collaboratrice Liliana. Che dopo quattro mesi da «fantasma» ha ricevuto il benservito. Alla faccia dei Valori e delle esigenze dei cittadini.

Liliana, anche i dipietristi hanno il pessimo vizio di sfruttare i collaboratori?
«Io posso parlare di uno solo, Barbato. E lui questo vizio ce l’ha. Eppure io non sono nata nella bambagia. Ho lavorato tre anni all'ufficio stampa dei Radicali, so cosa vuol dire farmi un mazzo così. Ma almeno avevo un contratto regolare».

Però ha dovuto cambiare...

«Purtroppo sì. Un altro suo collaboratore esterno mi ha detto che l’onorevole Barbato cercava una persona, quindi ci hanno presentati. Un colloquio senza nemmeno parlare di lavoro e un “cominci mercoledì”. Così a febbraio è iniziato il bailamme».

Qualche promessa?

«Semplicemente un contratto dopo un periodo di prova. Ma alla Camera non ci sono regole e quelle che valgono per tutti i lavoratori italiani lì sono ignorate perché con l’autodichiarazione c’è sempre la scusa per mettere all’angolo i principi costituzionali. Quindi passavano i mesi e il contratto non si vedeva. Come del resto Barbato».

Desaparecido?

«In aula c’era, ma è sempre molto difficile parlare. Quando lo vedevo e gli chiedevo notizie sul contratto mi diceva: “Vabbé, mo’ vediamo”».

Intanto lei lavorava...

«Dalle 9.30 alle 19.30, dal lunedì al venerdì. Toh, a volte arrivavo alle 10, ché non abito vicino a Montecitorio, io... Solitamente l’attività di un’assistente è strettamente legata a quella del parlamentare in questione: interrogazioni, appuntamenti, proposte di legge, rassegne stampa. E devo riconoscere che il lavoro svolto per Barbato non era esattamente frenetico».

Nella classifica di produttività dei deputati di Open Polis è 207° su 630. Comunque, dice il saggio: lavoro è se principale paga.

Sennò è volontariato. Lei almeno era pagata?

«Puntualmente. Ma rigorosamente in nero. Andava a prelevare i contanti e li metteva in una bella busta con la scritta “Camera dei Deputati”. Io trattenevo la mia parte e poi lasciavo il resto dei soldi al mio collega».

Prassi comune tra i politici...

«Zero assicurazione, zero buoni pasto. Ho speso un capitale in panini nei bar, dato che io non pranzavo alla buvette con 4 euro come i parlamentari».

Epperò questo incanto si è spezzato...

«E in modo davvero antipatico. Alla vigilia della settimana bianca della Camera, giorni in cui è sospesa l’attività parlamentare, mi ha telefonato il mio collega dicendo di aver “intuito” che non sarei stata confermata. Ho chiamato Barbato che ha fatto il pilatesco: “Devi parlarne con lui, è stato lui che inizialmente ti ha contattata... in estate, sai, non servono persone...”. Eppure il “capo” era lui, era lui che mi pagava, però a decidere era il collega. Mah...».

E tanti saluti.

«Esatto. Mai più sentito. Il 6 giugno mi ha fatto chiamare dal suo collaboratore dicendo che mi lasciava a casa perché non ero all’altezza del compito. Ah, giusto perché d’estate non serviva una figura come la mia, so che il mio posto è già stato assegnato a un’altra. Magari senza contratto. Ma tanto la giustificazione è la stessa: il periodo di prova...».

Cosa chiederebbe a Di Pietro?

«In quest’esperienza gli unici “valori” che ho incontrato sono stati quelli in nero e in busta chiusa. L’Idv parla di ripristino della legalità, trasparenza, aiuto alle fasce deboli e alternativa di diritto: ecco però in concreto come sono stata tutelata. Di Pietro non può tenere sotto controllo tutti i parlamentari, ma deve sapere che ci sono cellule cancerogene nel suo partito».

La stessa cosa che gli rimproverava Barbato a proposito dei membri campani di Idv...

«Appunto. Tralascio commenti».

Francesco Comellini, presidente dell’associazione collaboratori parlamentari, si augura che tutti seguano il suo esempio. Ma lei non teme di non lavorare più al Parlamento?

«Non guardo al rischio ma al coraggio di denunciare ciò che non va. Se uno sta zitto, come spesso i miei colleghi, subisce. Io nei Radicali ho imparato ad agire piuttosto di lamentarmi». 

IDV, spunta il sex-gate, inchiesta di Riccardo Bocca su “L’Espresso”.

Prestazioni sessuali in cambio di una promessa di lavoro in Parlamento. A Bari una denuncia contro il senatore Pedica e l'onorevole Zazzera. La donna parla apertamente di ricatti, ovviamente tutti da dimostrare.

Non bastavano le recenti amarezze elettorali, a guastare il trionfo dell'Italia dei Valori ai referendum. Adesso c'è anche la denuncia presentata il 14 giugno 2011 alla Procura di Bari da Michele Cagnazzo, esperto di criminalità organizzata ed ex responsabile per l'Idv dell'Osservatorio pugliese sulla legalità. La storia che emerge da queste pagine è un misto di sesso e politica, segreti e fragilità umane. Uno scenario tutto da dimostrare, naturalmente, al centro del quale si trova C. M., una donna di 31 anni, che Cagnazzo incontra nell'aprile 2010 negli uffici baresi dell'Italia dei Valori.

"Dopo alcune frequentazioni", scrive nella denuncia, "mi accorsi del fatto che versava in uno stato di non indifferente alterazione emotiva", tant'è che in seguito, acquisita maggiore familiarità, "mi confidava di essere stata vittima di insistenti avances e ricatti da parte del senatore della Repubblica Stefano Pedica e del deputato Pierfelice Zazzera, entrambi iscritti all'Idv". Personaggi non secondari. Zazzera, 43 anni, all'epoca dei fatti era parlamentare Idv e coordinatore regionale del partito in Puglia. Mentre il senatore Pedica, 53 anni, ha una storia che parte dalla Democrazia cristiana, continua nell'Udr di Francesco Cossiga, e sfocia dopo la fondazione del Movimento cristiano democratici europei nel partito dipietrista.

"La stessa M.", scrive Cagnazzo, "mi riferiva che, avendo partecipato in qualità di simpatizzante a diversi dibattiti e conferenze, aveva conosciuto entrambi gli esponenti". E che tutti e due avrebbero iniziato, in tempi diversi, "a compulsarla con insistenti inviti e richieste di appuntamenti al di fuori dell'ordinaria attività politica". L'intenzione della donna ("Laureata in giurisprudenza e inoccupata") nell'accettare una serie di inviti, è a detta di Cagnazzo "comprendere se ci fossero opportunità di lavoro". Tant'è che Zazzera, "avendone carpito lo stato di necessità (...) continuò a tempestarla di telefonate e sms con ripetuti inviti a incontri clandestini", svoltisi all'hotel A. di Massafra (Taranto) "dal maggio 2009 all'ottobre 2009". Circostanze, recita la denuncia, che "si possono evincere benissimo dai registripresenze del suddetto albergo", e che comprenderebbero la promessa di Zazzera a M. "di farle ottenere un posto di lavoro presso l'ufficio legislativo del Parlamento". In cambio, si legge, l'onorevole "chiedeva favori sessuali", e M., "per quanto mi ha riferito, proprio perché versava in gravi difficoltà (...) accettò di accondiscendere alle richieste". In questo contesto, dunque, va ambientata la seconda parte della vicenda.

A un certo punto, Cagnazzo racconta che Zazzera avrebbe invitato "M. a Roma presso il proprio alloggio privato dicendole che era necessaria la presenza di lei, sia perché consegnasse il curriculum, sia per sottoscrivere (...) documenti finalizzati a perfezionare un rapporto di lavoro". L'onorevole, anche in quei giorni, avrebbe chiesto alla donna "insistentemente prestazioni sessuali, promettendole in cambio il proprio definitivo interessamento per la stipula di un contratto". Dopodiché, scrive Cagnazzo, "M., per quanto mi ha riferito, accettò di avere ancora un rapporto sessuale". Sentendosi però precisare da Zazzera che, "se avesse voluto guadagnare definitivamente il ruolo, avrebbe dovuto dedicare le medesime attenzioni sessuali al senatore Pedica"; il quale, "secondo quanto disse Zazzera, avrebbe anche lui messo la buona parola". Il resto è presto sintetizzato.

Pedica, denuncia Cagnazzo, avrebbe raggiunto la donna all'hotel M. di Brindisi. Un incontro in cui "il senatore disse che per avere determinati benefici, avrebbe dovuto avere rapporti sessuali con lui". Da parte sua, si legge nella denuncia, "M. accettò ed ebbe, nel dicembre 2009, un rapporto sessuale con il senatore". E sarebbe stato il preludio di un ulteriore appuntamento, "sempre a fini sessuali, nel gennaio 2010". Finché, "constatando che nulla si muoveva sul fronte del lavoro, M. interruppe i rapporti anche telefonici con i due". Scoprendo in seguito, "con somma sorpresa, di risultare tra i candidati alle elezioni regionali 2010 per la Puglia, nella lista Idv, pur non avendo mai proposto né tantomeno accettato la propria candidatura". Per quest'ultimo aspetto, riferisce Cagnazzo assistito dall'avvocato Renato Bucci, la signora "mi disse di essersi rivolta a un legale".

E sempre Cagnazzo, a seguito di questa vicenda, dichiara di essersi autosospeso da responsabile dell'Osservatorio Idv pugliese sulla legalità: "Cosa che avvenne nel maggio 2010". Ora tocca agli inquirenti il non facile compito di scoprire che cosa sia veritiero, e cosa eventualmente no, in questa brutta vicenda. Una verifica che, per evidenti ragioni, si spera avvenga al più presto.

In seguito alla questione morale nell'IDV sollevata dal Luigi De Magistris su “Libero-News” del 28/12/2010 è uscito un interessante articolo: La questione morale nell'IDV. Antonio di Pietro come Craxi, bersaglio delle monetine del pubblico inferocito. Cambia l'anno, non siamo nel 1993, e la location: il Tonino-bersaglio stava a Matera, e non all'hotel Raphael di Roma. Già, una questione morale nell'Italia dei Valori esiste. Eccome. Per ultimo, a ricordarlo al leader del movimento, è stato Antonio Razzi, il deputato che alla vigilia del voto di fiducia del 14 dicembre 2010 ha abbandonato l'Idv. Meta, la maggioranza di Silvio Berlusconi.

I RAPPORTI CON DE MAGISTRIS - La critica di Razzi coinvolge i rapporti tra Di Pietro e lo stesso De Magistris, "rinviato a giudizio per omissione di atti di ufficio perché non avrebbe indagato, nonostante l'ordine del Gip, su un caso di collusione tra magistrati di Lecce e magistrati di Potenza con ipotesi di reato gravissime", aggiunge Razzi, "che vanno dall'associazione per delinquere all'estorsione". (Probabilmente è l'insabbiamento, oggetto delle denunce del dr Antonio Giangrande, in cui si parlava di una sorta di consorteria mirata all'impunità tra i magistrati di Potenza per i reati commessi da quelli di Lecce). Insomma, si ribadisce che la questione morale c'è, eccome, e riguarda Di Pietro e gli stessi uomini che lui ha scelto e difeso. "De Magistris", conclude Razzi, "doveva autosospendersi dalla carica, volente o nolente, in quanto il codice etico del partito lo impone. Antonio Di Pietro lo ha difeso a spada tratta invece ponendo una deroga a quanto egli stesso prescrisse".

SUPER SCILIPOTI - Insieme a Razzi, a voltare le spalle a Tonino, è stato l'ormai celeberrimo Domenico Scilipoti. Anche in questo caso la "svolta" è arrivata poco prima che la Camera votasse la sfiducia bramata da Gianfranco Fini (sfiducia al Cavaliere che, puntualmente, non si è concretizzata). Scilipoti ha cercato di spiegare che la sua era stata una scelta "di responsabilità politica". Niente da fare, però. Prima ci si sono messi i suoi stessi compagni di partito - Scilipoti ha parlato di vere e proprie minacce ricevute dai vertici della "nomenklatura" -, poi è stato il turno dei media e dei parlamentari di opposizione ("venduto", "corrotto", "voltagabbana", "mezz'uomo" e via dicendo"). Infine non poteva mancare Santoro, che ha spedito la sua troupe a Barcellona Pozzo di Gotto per intervistare la madre - novantenne - del deputato. Il gesto ha scatenato la divertente (e divertita) ira di Scilipoti, che ha trovato massimo sfogo nell'indimenticabile show trasmesso dall'etere di Radio 1.

FLORES D'ARCAIS: "SONDAGGI TRUCCATI" - Facile puntare il dito, parlare di compravendita di parlamentari e mercato delle vacche. Ma guardiamo in casa Idv. Se non bastasse l'accusa lanciata in queste vacanze natalizie dall'intellettuale Paolo Flores D'Arcais (alfiere del partito, che però ha messo sotto accusa Tonino Di Pietro, tacciato di truccare un sondaggio sulla trasparenza nel suo partito), possiamo fare un tuffo nel passato per ricordare tutte le incongruenze che hanno animato il partito della legalità. Il cartello elettorale del padre-padrone che, però, viene abbandonato.

"INDEGNITA' MORALE" - Partiamo dal 2005, quando Beniamino Donnici si permise di dire che l'Idv avrebbe dovuto aderire subito al progetto riformista di Romano Prodi, prima tappa verso la nascita del Partito Democratico. Donnici contestò la decisione di Di Pietro di candidarsi alla primarie dell'Unione, e affermò di voler sostenere Prodi. Il democratico risultato fu l'espulsione  - senza appello - di Donnici dall'Italia dei valori. Il motivo? "Indegnità morale".

INDULTO E DE GREGORIO - Torniamo poi al 2006, quando con il sostegno del centrodestra, al posto della rifondarola Lidia Menapace, fu eletto presidente della Commissione difesa Sergio De Gregorio. Il deputato accettò l'incarico, anche se l'Idv, in un vortice di controsensi, gli chiedeva di declinare l'offerta. Si trattava proprio di quel Sergio De Gregorio finito nell'inchiesta Telecom Sparkle. Certo, vero, l'Idv quando sono sbucati i fondi neri, De Gregorio lo aveva già abbandonato. Lo aveva fatto proprio nel 2006, pochi giorni dopo lo scontro sulla Commissione e pochi giorni dopo le plateali manifestazioni di Tonino sotto Palazzo Madama. Di Pietro cercava di boicottare l'indulto promosso dalla sua stessa coalizione, che all'epoca governava. Ma a favore di quell'indulto votò una deputata dell'Idv. E' Federica Rossi Gasparrini, e contro di lei si concentrò il fuoco incrociato dei pasdaran dipietristi. Morale, lei fa "ciao ciao" con la manina e va con Mastella. Per inciso, anche De Gregorio, sull'indulto, preferì astenersi. Come a dire, "noi nel partito del tiranno Di Pietro non ci vogliamo rimanere". Esattamente quello che pensano Razzi - in maniera - e l'ex fido alleato De Magistris - in modo meno esplicito.

FRANCA RAME - Andiamo avanti di un anno, siamo nel 2007. La defezione è di quelle pesanti. Si tratta di Franca Rame, la moglie di Dario Fò, portata in pompa magna dall'Idv in Senato. Franca non condivide alcune scelte del gruppo, in particolare quella di non votare a favore dello scioglimento della società per la costruzione del ponte sullo stretto di Messina. Insomma: Di Pietro ordina, il partito obbedisce. Ma il dissenso cresce, e le persone l'Idv possono anche abbandonarlo. Così fa la Rame, come un mese prima aveva abbandonato Salvatore Raiti.  Meglio il Partito Democratico. Meglio evitare le bizze di Tonino.

Ancora nel 2007, il movimento Repubblicani Democratici guidato da Giuseppe Ossorio preferì rescindere l'accordo con l'Idv. Non per fare salti (politicamente) pindarici, ma per stringere un'alleanza con i nascenti Democratici. Esattamente come il deputato Salvatore Raiti, che lasciò La Rete per aderire al Pd. Sarà proprio vero che quelli di Scilipoti, Razzi e De Magistris (perchè no...) siano solo capricci, fregnacce e tradimenti?

Esce in edicola un libro che promette di svelare tutti i segreti di Antonio Di Pietro e dell’Idv. Ne parla Libero. Un libro bomba scritto da Mario Dì Domenico, ex amico di Di Pietro e cofondatore dell’Idv. Si chiama “Il "Colpo" allo Stato, la legge è uguale per tutti... salvo alcuni” e promette di esporre al pubblico ludibrio tutti i scheletri nell’armadio dell’Idv e del suo presidente. Dalla raccolta di firme false, agli avvistamenti ad Hong Kong dell’ex pm di Mani pulite in una banca con una pesante valigia, fino alle stravaganti operazioni immobiliari e a strani movimenti circa i rimborsi elettorali. Di Pietro prepara querele, e ha diffidato la pubblicazione del libro. Ma l’editore è andato avanti lo stesso. Ne parla Gianluigi Nuzzi dalle pagine di Libero in un articolo intitolato: “Di Pietro, un libro svela i suoi segreti”. «Già un anno fa – spiega Nuzzi - uscì una prima esplosiva anticipazione del volume. Il «Corriere della Sera» pubblicò in prima pagina la storia di una cena del 15 dicembre del 1992 con commensali d'eccezione. Tra i quali l'allora pubblico ministero, il Tonino nazionale, e l'ex numero tre dei servizi segreti Bruno Contrada, che sarà arrestato poco dopo». Una data non casuale: «quel 15 dicembre, a metà giornata, l'Ansa ha ufficializzato con un dispaccio l'avviso di garanzia contro Bettino Craxi per concorso in corruzione, ricettazione e violazione della legge sul finanziamento pubblico ai partiti». Il provvedimento era firmato «con Saverio Borrelli e gli altri colleghi del pool di Milano proprio da Tonino Di Pietro la sera precedente, il 14. E, ventiquattro ore dopo, il giudice per il quale mezza Italia ormai tifa, sta lì a tavola, Contrada seduto accanto a lui, l'agente americano pronto con la targa premio».

Superati gli ostacoli legali che ne hanno impedito per mesi l’uscita, finalmente vede la luce l’autobiografia non autorizzata del leader dell’IdV Antonio Di Pietro (Colpo allo Stato. La legge è uguale per tutti…salvo alcuni, Edizioni Sì) scritta dall’avvocato Mario Di Domenico, tra i fondatori dell’IdV. Pubblicazione rilanciata in prima pagina in un articolo del quotidiano Libero di Gianluigi Nuzzi che ne anticipa i contenuti. Il libro, infatti, accusa Di Pietro di aver compiuto una nutrita serie di irregolarità, scorrettezze e persino reati. Tonino, manco a dirlo, non ci sta. E annuncia non una, ma 50 querele contro il suo ex collaboratore e amico. Panorama.it ha intervistato Di Domenico, che si toglie qualche sassolino dalla scarpa.

Avvocato, finalmente è riuscito a pubblicarlo…

Oltre alle difficoltà che esistono in ogni lavoro di ricerca nel reperire i documenti che non erano in mio possesso, per portare avanti un discorso di verità, bisogna aggiungere le forti pressioni esercitate almeno da un anno dall’onorevole Di Pietro ai miei editori (Di Domenico è stato costretto a cambiare casa editrice, ndr) per bloccarne l’uscita: montagne di atti spediti per spiegare che lui è il San Giorgio della liberazione e per diffidarne la pubblicazione (Di Pietro di diffide ne ha inviate ben sei).

Ma è in edicola. Di Pietro, tuttavia, dice che lei nel suo libro racconta balle. E annuncia una montagna di querele.

Ho letto stamane che sarebbero 50. Ma io gli rispondo: caro Di Pietro, ne basta una sola. Venga piuttosto in tribunale a rispondere delle pressioni che ha esercitato in questi mesi sulle case editrici che avevano in mano il mio manoscritto: sporgerò querela per violenza privata, intimidazione e diffamazione. Di Pietro parla di una sentenza in cui sarei definito “grafomane di professione”, ma dice il falso. La verità è che sono un ricercatore accreditato al Cnr e, per mestiere, scrivo anche libri.

Di Pietro dice che lei non ha pagato le spese processuali e che la sua casa sarebbe finita all’asta.

I debiti li ho pagati: 20.000 euro di tasca mia, come tutti i cittadini onesti, e non con i soldi degli inquisiti… 

Lei non è il solo ex collaboratore ad attaccare il leader dell’IdV. Com’è che Di Pietro in tutti questi anni si è creato così tanti nemici proprio tra i suoi ex amici?
Perché lui vuole essere il Re Sole, il padrone assoluto del partito. Si finge comunista, ma non lo è e non lo è mai stato. E ora si sta mangiando il Pd. Questo è l’uomo Di Pietro e nel mio libro ho fatto luce su questo aspetto, scrivendo cose che poi già tutti sanno. Volevo affrontare la questione morale di cui parlò Berlinguer e che non può essere trascurata oggi. La verità non deve far paura.

Ed ora che farà?

Sto scrivendo un altro libro di più ampio respiro sulle ombre nella Seconda Repubblica. Si chiamerà Archivio di Stato. E parlerà, ovviamente, anche di Antonio Di Pietro e dei danni che ha recato alla magistratura stessa. Ma non solo: metterò in rilievo altre contraddizioni. Per esempio, pur avendo buoni rapporti con il Carroccio, di cui stimo la maggior parte dei suoi esponenti e che anzi devo ringraziare per avermi aiutato nelle mie ricerche, vorrei far notare che nell’articolo 1 dello Statuto della Lega si parla tranquillamente di secessione. Lo scrissero anche gli indipendentisti siciliani nel 1947 e finirono in galera. No, la legge non è uguale per tutti.

Di Pietro da parte sua risponde alle accuse del libro, rilanciate da Libero, direttamente dal suo blog, pubblicando una corposa documentazione “relativa alle accuse diffamanti e denigratorie del signor Di Domenico”.

QUANTO SEGUE E' IL SUNTO COORDINATO DI ARTICOLI DI STAMPA DI PUBBLICO DOMINIO E DI PUBBLICO INTERESSE. ESSO E' IL SUNTO DI TUTTO QUANTO PUBBLICATO SUI GIORNALI, DI CUI IN CALCE VI E' INDICATA LA FONTE. IL TUTTO RACCHIUSO IN:

"Di Pietro - La storia vera" di Filippo Facci (Mondadori): Tutto quello che pensate su Di Pietro è vero. Purtroppo. E qui lo si documenta.

La recensione del libro di Filippo Facci sul leader dell'Idv di Emanuele Boffi su “Tempi.it”.

"La rassicurazione fu: «È amico nostro». Quando lo inviarono per la prima volta a intervistare Antonio Di Pietro, Filippo Facci, giovane cronista del quotidiano socialista l’Avanti!, sapeva di dover scrivere il genere di articolo da esibire quale «santino da parabrezza». La magistratura aveva indetto uno sciopero contro le parole del capo dello Stato Francesco Cossiga, e solo otto toghe non avevano aderito. Tra queste, appunto, Di Pietro, che sulla porta dell’ufficio aveva affisso il cartello “Qui si lavora” e che al cronista rilasciò dichiarazioni poco lusinghiere nei confronti dei colleghi. Era il 2 dicembre 1991 e Di Pietro «era un amico nostro».

"Antonio di Pietro. La storia vera" è la versione riveduta e ampliata di quella “biografia non autorizzata” che Facci aveva già scritto nel 1996 e che di quel libro conserva l’attacco fulminante: «Neppure la data di nascita di Antonio Di Pietro è del tutto chiara». È un saggio, un’inchiesta giornalistica, ma l’autore ha saputo trasformarla nel ritratto di un carattere, un tipo d’uomo, se si vuole anche assai italiano, leone coi conigli e coniglio coi leoni, che recita in pubblico una commedia su un canovaccio da farsa con finale da tragedia. Un carattere pronto ad ammantare di grandi idealità ciò che altro non è se non losco traffico, piccola miseria, infimo cabotaggio. È la storia di Antonio Di Pietro, uomo di umili natali, mandato a studiare nel seminario di Termoli, che in gioventù accudì pecore, galline e maiali («le mucche lo intimorivano») e che raggranellò i primi soldi come benzinaio, garagista e cameriere. Una vicenda coi suoi risvolti appannati («21 esami in 32 mesi: si laureò con 108, ma non lo disse a nessuno») e i suoi inevitabili insuccessi («l’8 ottobre 1984 la Corte d’appello di Brescia espresse parere negativo sulla sua nomina a magistrato di tribunale: “Fondati dubbi circa l’equilibrio, la diligenza, la riservatezza, lo scrupolo nello svolgimento del lavoro e l’adeguata preparazione professionale del magistrato”»).

E' la storia del pm sbeffeggiato dai giornalisti milanesi («Di Dietro») e che poi, da quegli stessi e da molti altri, fu paragonato alla Madonna o a padre Pio, che divenne persino pietra di paragone per stabilire il successo sulla forfora: «Dopo Mani pulite una bella lavata di testa, Shampoo Clear nuova formula risolve vecchi problemi e nuovi grattacapi». In quel pm si è materializzato il risentimento popolare disposto a tutto, anche ad esaltarsi per i suicidi “giudiziari”, per la ghigliottina degli avvisi di garanzia, per le monetine in testa a Bettino Craxi. Di Pietro è stato per anni il centro gravitazionale dei peggiori livori, sapientemente riciclati in consenso diffuso, addirittura in precetto evangelico: «Nel 1993  – scrive Facci – c’era un sol uomo senza peccato: e scagliava pietre». Poche le voci eretiche, tra queste, in quegli anni, quella del Sabato e il suo famoso dossier del luglio ’93 in cui, scrive Facci, «di vero c’era tutto».

Facci ripercorre la storia di un uomo e del suo partito formato famiglia, delle marachelle del figlio Cristiano, dei disonorevoli voltafaccia anche nei confronti degli amici d’infanzia, dei farlocchi cambi di casacca, dei numerosi accordi sottobanco anche coi politici più impresentabili. C’è tutto quel che c’è da sapere: le case, i soldi, le amicizie infrante, gli affari, le dichiarazioni studiate sulla base della più effimera convenienza, persino qualche curiosa rivelazione – invero non del tutto inedita – sul fatto che «alle politiche del 1994 Di Pietro aveva votato Forza Italia». C’è tutto l’Antonio nazionale dall’infanzia a oggi, passando per il partito, i girotondi, i pacinibattaglia, le grillate in piazza, le liti coi compagni scomodi e impiccioni. è un ritratto psicologico, i cui confini si ricavano dai mille e più episodi documentati con scrupolo quasi divertito. Perché, infine, la cifra principale di quest’anima è il grottesco raggiro per cui si vende per immacolato ciò che è spurio. Ci sarebbe da ridere, se non si trattasse di Di Pietro."

A fare la radiografia dell'attuale gruppo di comando di Idv con il metodo Di Pietro i risultati sono impietosi. Fedina penale immacolata, d'accordo. Fedina politica, molto meno. Nei gruppi parlamentari di Idv trasformisti, riciclati e capibastone sono ben rappresentati. Il senatore Aniello Di Nardo, per esempio, ha cominciato a fare politica a Castellammare di Stabia, nella Dc di Antonio Gava. Eletto deputato nel Ccd di Casini, ha traslocato nell'Udeur di Mastella, ottenendo in cambio la poltrona di sottosegretario all'Interno e la protezione civile in Campania con Antonio Bassolino. Stesso percorso del suo collega a palazzo Madama Giacinto Russo: assessore mastelliano all'Industria, lascia l'Udeur e passa con Di Pietro l'8 febbraio 2008, quando alle elezioni mancano poche settimane, ricompensato con un seggio al Senato. A personaggi così Di Pietro chiede di lasciare le giunte in Campania: gli affetti più cari.

Casi isolati? Macché. Alla Camera c'è Antonio Borghesi, l'uomo della commissione Bilancio, il Tremonti di Di Pietro, che da presidente della Provincia di Verona con la Lega si professava secessionista. Oppure l'eterno Aurelio Misiti, che per due anni mantenne il doppio incarico di assessore ai Lavori pubblici in Calabria nella giunta di destra di Chiaravallotti e di presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici nominato da Pietro Lunardi, alla faccia delle incompatibilità e dei conflitti di interesse. E poi il tarzan David Favia, deputato marchigiano. Un forzista della prima ora, un pasdaran berlusconiano. Al punto che nel 2000 nei suoi volantini chiede agli elettori: "Volete l'Italia di Berlusconi o quella di D'Alema e di Di Pietro?". Lui non ha dubbi, sta con il Cavaliere e viene eletto consigliere regionale. Fino al 2004, quando passa ai mastelliani. Il 27 febbraio di quest'anno, a poche ore dalla chiusura delle liste, altra conversione: Clemente addio, "Idv è il partito più vicino al mio modo di intendere i valori". E questa sì che è un'abiura, altro che Galileo.

"Non ci servono gli estremisti, dobbiamo rappresentare quei moderati che hanno a cuore la legalità. Un elettorato perbenista", teorizza il deputato barese Pino Pisicchio, uno che alla Camera per la prima volta è stato eletto più di vent'anni fa, nella Dc e che ha appena pubblicato un libro sull'Idv. Sarà. Ma non è esattamente il tipo di personale politico che gli elettori si aspettano di trovare. "Siamo un partito che non è ideologicamente ingabbiato, ma programmaticamente evoluto", si difende Tonino. Traduzione: prendere voti a tutto campo. Strapparli alla Lega al Nord, alle liste civiche, all'elettorato legalitario di An e soprattutto al Pd. Con qualche new entry mirata come lo storico Nicola Tranfaglia, nell'ultima legislatura deputato Pdci. E i nuovi dipartimenti affidati a figure di prestigio, tutte legate al Pd: l'ex senatore dell'Ulivo Paolo Brutti parlerà di infrastrutture, al sociologo Pino Arlacchi, esperto dell'Onu sulla droga, sarà affidato il dipartimento internazionale. E di riforma delle istituzioni si occuperà il giurista Stefano Passigli, ex repubblicano, ex senatore ulivista, tra i fondatori del Pd, deluso del partito veltroniano. Altri sono in arrivo.

Nomi che nei piani di Di Pietro dovrebbero consentire di fare il famoso salto, almeno di qualità. Per la quantità bisogna lavorare sulle fasce di elettorato più attratte dal verbo dell'ex pm: i ragazzi tra i 18 e i 34 anni sono al primo posto tra gli elettori potenziali, seguono le donne. I giovani si organizzano via Facebook, fanno i banchetti per raccogliere le firme contro il lodo Alfano davanti alle discoteche. Il coordinatore Massimo Romano è il prototipo del nuovo dipietrista: uomo di legge (studia da avvocato), ambizioso (sogna di fare il sindaco di Campobasso) e molisano come il leader. A reclutare le donne ci pensa la senatrice Patrizia Bugnano, rappresentante della sparuta quota rosa di Idv (due deputate su 28, due senatrici su 14). Con una modalità originale: dalle colonne di 'Gioia' Di Pietro ha chiesto di spedire un curriculum, l'idea è piaciuta, sono in corso i colloqui.

Obiettivo: conquistare l'Italia della protesta. Il monopolio dell'opposizione. E non solo sulla giustizia: la questione morale e il referendum sul lodo Alfano restano i cavalli di battaglia, ma serve anche rafforzare il messaggio sulle questioni economiche e sociali che sono al primo posto delle preoccupazioni degli elettori. Di Pietro studia: tabelle, grafici, carte, emendamenti. Passa da una trasmissione all'altra, infreddolito, febbricitante, combattivo. Con un sogno non confessato: il10 per cento alle elezioni europee. Per raggiungerlo è disposto anche al supremo sacrificio: cancellare il suo nome dal simbolo elettorale di Idv, per dare vita a "una grande lista civica nazionale". La leadership val bene un po' di umiltà. Anche per un uomo della Provvidenza come Antonio Di Pietro.

Tutti gli intrallazzi del clan Di Pietro.

Giudicate voi.

1) Il 23 settembre il senatore Sergio De Gregorio dice al Velino che Cristiano Di Pietro, consigliere provinciale a Campobasso, risulta intercettato e coinvolto in un’inchiesta non ben definita.

2) Il 10 ottobre il settimanale La voce della Campania circostanzia le accuse: la magistratura sarebbe in possesso di intercettazioni dove Cristiano chiederebbe l’assunzione di amici suoi a Mario Mautone, ai tempi provveditore alle opere pubbliche di Molise e Campania.

3) Il 21 ottobre è invece il Giornale, in prima pagina, a riprendere la stessa notizia spiegando che fu Antonio Di Pietro, da ministro delle Infrastrutture, a nominare Mauro Mautone Direttore centrale del settore edilizia e poi presidente di una commissione tecnica sugli appalti autostradali; Di Pietro, genericamente, annuncia querele.

4) Il 3 dicembre il Giornale e il Mattino rivelano che il citato Mautone figura nell’informativa giudiziaria che darà il via alla Tangentopoli partenopea; Di Pietro allora dirama un comunicato dove spiega che in realtà, a metà del 2007, trasferì appositamente il provveditore Mautone «nel momento in cui ho appreso le prime avvisaglie di indagini». Nota: non è chiaro, rileva solo il Giornale, come Di Pietro già a metà del 2007 potesse essere a conoscenza di «indagini» ovviamente coperte da segreto istruttorio.

5) Il 4 dicembre comincia il soccorso di Repubblica: il vicedirettore Giuseppe D'Avanzo scrive che il Giornale ha dato «una notizia farlocca» e parla di un «venticello calunnioso» che si insinua su Di Pietro, persona che sue fonti anonime definiscono «di esemplare correttezza»; Repubblica definisce «sventurato» Cristiano Di Pietro, vittima solo di qualche incauto colloquio telefonico. Nota: la notizia, come visto, non è farlocca per niente; nota 2: Di Pietro, a quel punto, si difende dalle accuse del Giornale spiegando che «come qualsiasi cittadino» aveva saputo «dell’esistenza delle indagini dalle agenzie di stampa». Circostanza, questa, che risulta falsa: nessuna agenzia ne ha mai parlato.

6) Nega e rinega, si giunge a ieri: alcuni quotidiani pubblicano un’informativa della Dia che sbugiarda tutte le uscite precedenti di Di Pietro. Tutta roba che avrete già letto. È la Dia a scrivere di «fuga di notizie» (altro che agenzie) e di un Di Pietro che di colpo, il 29 luglio 2007, mangia la foglia e smette o quasi di parlare al telefono; è Cristiano Di Pietro, spiega la Dia, a chiedere assunzioni e favori a Mario Mautone salvo smettere improvvisamente, dalla stessa data, di chiamarlo o rispondergli al telefono; e Di Pietro, durante una riunione politica coi suoi, a giudicare d’un tratto «troppo esposto» suo figlio. L’informativa e le intercettazioni di Cristiano Di Pietro fanno capolino sulle prime pagine di molti giornali: sono notizie. Tra le tante telefonate ce n’è poi una, pubblicata anche dal Giornale, dove la moglie di Mario Mautone, alla notizia che verrà trasferito, cerca un po’ pateticamente di spronare il marito: «Buttala sul ricatto al figlio, ricattalo sul fatto che lui ha bisogno di te su tante cose». Una frase come un’altra, buttata lì da un’attrice senza parte: tanto che il marito neppure commenta. La Dia, in ogni caso, precisa che il ricatto neppure tentato è comunque «non riuscito».

7) Ed eccoci. Di Pietro dirama un comunicato titolato «Magistrati avanti tutta» che ha dell'incredibile. In precedenza aveva detto di sapere dell'indagine sin dal 2007, grazie a fantomatiche agenzie di stampa: «Non so nulla di più di quello che ho letto sui giornali circa le accuse che vengono mosse a questo dirigente ministeriale», dice ora. Poi: «Quando arrivai al ministero presi una decisione che ora, a ragion veduta, si è dimostrata davvero azzeccata: ho trasferito Mautone ad altro incarico e l’ho spostato di sede, togliendogli quindi ogni possibilità di fare danni».

Cioè: il trasferimento che portò Mautone alla direzione del settore edilizia pubblica e interventi speciali del ministero delle Infrastrutture, guidato da Di Pietro, sarebbe un luogo di espiazione dove non si possono far danni. Né favori. Ma sempre ieri, soprattutto, eccoti il capolavoro di Repubblica. Il soccorso finale. Le intercettazioni, quelle di Cristiano Di Pietro con Mautone, non compaiono. Mentre il rapporto della Dia, quello che evidenzia le contraddizioni e le bugie di Di Pietro, è affogato nel piombo di in un articolo che parla d'altro: la marginalissima telefonata della povera moglie di Mautone («Buttala sul ricatto») diventa il provvidenziale titolo a tutta pagina: «Dobbiamo ricattare il figlio di Di Pietro. Così volevano tenere sotto il ministro». «Così» come? Non lo spiegano. Nel richiamo di prima pagina diventa addirittura così: «Napoli, nelle carte spunta ricatto al figlio di Di Pietro». Nell’articolo, del ricatto, non c’è traccia. E non è tanto una forzatura, non è tanto una faziosità: è una barzelletta. La cui morale, terminato di ridere, è che Antonio Di Pietro resta l’uomo più protetto d'Italia.

(Bolzano- 17 marzo 2002 - ......ha dichiarato Travaglio, ricordando infine, "i 54 procedimenti contro Antonio Di Pietro......

La prima grana giudiziaria è del 7 aprile 1995: a Brescia, Di Pietro, è iscritto nel registro degli indagati per le dichiarazioni del generale Cerciello, che racconta di avere appreso di pressioni esercitate su altri imputati, affinché lo coinvolgessero nelle indagini assieme a Silvio Berlusconi. L’inchiesta, condotta del PM Fabio Salamone, si conclude poco dopo con la richiesta di archiviazione, fatta dallo stesso magistrato che, nel frattempo, però, aveva indagato Di Pietro per varie altre vicende.

Il secondo e terzo proscioglimento arrivano tra il febbraio e il marzo 1996 per le accuse di concussione e abuso d’ufficio per l’informatizzazione degli uffici giudiziari.

Una quarta archiviazione per alcuni esposti di Sergio Cusani.

Il quinto proscioglimento per un’accusa di concussione ai danni dell’ex presidente della Maa assicurazioni Giancarlo Gorrini (prestito di 100 milioni, compravendita Mercedes) e per il reato di abuso d’ufficio per avere favorito l’amico Eleuterio Rea nella nomina a comandante dei vigili urbani di Milano.

Il 15 ottobre 1997 DI Pietro è prosciolto dall’accusa di falso ideologico in relazione alla firma dei verbali di alcuni interrogatori delegati ad ufficiali di polizia giudiziaria.

Il 10 dicembre 1998 è archiviata l’accusa di avere ottenuto l’uso di un appartamento in centro e per aver favorito il socialista Sergio Radaelli nell’inchiesta sulle tangenti Atm.

Il 18 febbraio 1999 Antonio Di Pietro è di nuovo prosciolto dall’accusa di corruzione per aver favorito, nelle sue inchieste, Pierfrancesco Pacini Battaglia.

“Altro che apparentamento nel segno della legalità. Io credo che se Veltroni ha imbarcato Di Pietro lo ha fatto per annettersi tutte le clientele dell’Udc in Calabria e in altre regioni del Sud, visto che queste clientele stanno adesso tutte confluendo nell’Italia dei Valori”.

Le parole e il concetto sono espressi dall’avvocato Franco Romano, che dell’Italia dei Valori è stato responsabile proprio nella regione Calabria, e a raccoglierle solo qualche giorno fa è stato il corrispondente dal Senato di Radioradicale, Alessio Falconio.

Che in una serie di interviste radiofoniche, con la giornalista di “Panorama” Laura Maragnani, con l’ex amico di Di Pietro Elio Veltri e con l’ex socio di partito Achille Occhetto ha sviscerato nell’indifferenza generale dei grandi media il caso Di Pietro. In tutto questo, il prossimo 27 febbraio Antonio Di Pietro dovrà anche comparire in udienza camerale davanti al gip di Roma in veste di indagato per falso e truffa aggravata in relazione all’utilizzo dei soldi pubblici incamerati dall’Idv e dall’ex organo di partito. Insomma Veltroni ancora non lo sa ma la questione morale nel Pd fra poco potrebbe avere il volto, anzi il lato B, di Di Pietro.

Ma nel senso esattamente opposto a quello che crederebbero tutti i suoi ammiratori.

La giornalista Maragnani parla di un “metodo di Pietro” che ben poco sarebbe cambiato dall’epoca delle inchieste subite a Brescia e finite tutte con assoluzioni.

La definizione più bonaria che viene data all’unisono da tutti i testimoni sentiti è quella di un padre padrone che gestisce un patrimonio di ormai 22 milioni di euro.

Nelle interviste si parla di una società, la Antocri (Anna, Totò e Cristiano sono i nomi dei tre figli di Di Pietro) che possiede case a Roma, Milano, Bruxelles, Montenero di Bisacce e persino in Bulgaria e che quelle stesse case le dà poi in locazione al partito, alla sede del giornale, agli uffici.

Sia come sia, l’Italia dei valori è stata segnalata al Consiglio d’Europa perché ad approvarne i bilanci è di fatto un’unica persona, cioè Di Pietro stesso. Che nelle società si avvale anche della ex moglie Susanna Mazzoleni e di un’amica di Brescia, Silvana Mura. L’atto di nascita del sistema di Pietro e del suo partito personale ha anche una data, il 26 settembre 2000. E un luogo: via delle Province 37, Roma. E’ lì che prende forma la “Libera associazione Italia dei valori-Lista Di Pietro, in breve Idv”. L’oggetto sociale? “La valorizzazione, la diffusione e la piena affermazione della cultura della legalità, la difesa dello stato di diritto, la realizzazione di una prassi di trasparenza politica e amministrativa”.

Però adesso uno dei soci fondatori di allora, l’avvocato abruzzese Mario di Domenico, anche lui sentito da Radio radicale, ha fatto un esposto in cui Di Pietro viene accusato proprio di quelle cose che lui per anni ha rovesciato addosso ai politici per dimostrare che sono gli affaristi della politica.

Sulla base dell’esposto di Di Domenico è nata l’inchiesta sfociata nell’udienza camerale del prossimo 27 febbraio in cui di Pietro è formalmente indagato.

Di Domenico ha raccontato come dal 5 novembre 2003 l’associazione partito sia diventata una cosa privata di Di Pietro. Anche dal lato politico il metodo Di Pietro non ha nulla da invidiare a quello Mastella: prima si diceva delle clientele calabresi passate in blocco dall’Udeur all’Idv, ebbene non è da dimenticare che tra questi uomini ce ne sono alcuni che il Di Pietro non farebbe passare sotto silenzio qualora si trattasse di gente presente in altri partiti.

Però per se stesso fa una eccezione. Come nel caso dell’avvocato Armando Veneto, ex Udeur ora maggiorente Idv in Calabria, che nel 1979 aveva tenuto l’orazione funebre del boss Girolamo Piromalli, detto Momo. Di questo fatto ormai si parla persino nei libri di storia, come quello del professor Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti della ‘ndrangheta esistenti in Italia e consulente della stessa commissione parlamentare antimafia. La notizia dei giorni scorsi era che Di Pietro aveva declinato l’invito del direttore di “Panorama”, Maurizio Belpietro, a presenziare a una puntata televisiva di “Panorama del giorno” su Canale 5. Magari l’italiano medio crederà che “il gran rifiuto” sia legato al fatto che Di Pietro non vuole andare nelle stesse tv che dichiara di volere chiudere. Qualcuno più smaliziato potrebbe ritenere che l’ex pm di “Mani pulite” avrà ritenuto di evitare qualche domanda scomoda su vicende personali.

«Al giorno d’oggi la gente conosce il prezzo di tutto e il valore di niente». Che c’azzecca una delle più celebri citazioni di Oscar Wilde con quello che leggerete fra qualche riga? C’azzecca, fidatevi. Pensate che, prima o poi, sarà costretto anche lo stesso Antonio Di Pietro, vessillifero dei Valori d’Italia o dell’Italia dei Valori a riconoscere che quella massima c’azzecca. Perché quei suoi Valori conclamati e sbandierati, giorno dopo giorno stanno diventando sempre più Disvalori. Colpa di scivoloni, scandali e incidenti di percorso che hanno coinvolto soldati e militanti di quello che, così annunciò Di Pietro a suo tempo, sarebbe stato il partito più pulito del Paese. Peccato che nel partito della trasparenza il primo a incespicare più volte sia stato proprio il leader maximo.

(Così come dicono gli eurodeputati Achille Occhetto, Giulietto Chiesa e Elio Veltri (ex amici che ora ne dicono peste e corna ai microfoni di Radio radicale) i quali lo accusano di essersi intascato i cinque milioni di rimborso elettorale per le europee lasciando  a secco il famoso “cantiere”).

Era il febbraio di quest’anno quando Di Pietro attirò l’attenzione della magistratura di Roma per appropriazione indebita, falso in atto pubblico e truffa aggravata ai danni dello Stato finalizzata al conseguimento dell'erogazione di fondi pubblici. Storie di presunte irregolarità commesse dall’ex pm nella gestione delle finanze nell'Italia dei Valori riguardo alle spese elettorali, alle movimentazioni dei conti del suo partito: in tutto, oltre 20 milioni di euro. Più l'antipatica questione di un assegno «non trasferibile» da 50mila euro destinato al partito ma ugualmente incassato da Di Pietro. Fatto sta che la Procura decise di rinviare a giudizio anche la deputata-tesoriera dell’Idv, Silvana Mura. Una bolla di sapone, qualcuno obietterà. Dissoltasi nell’aria all’arrivo dei prima caldi primaverili.

Eppure Di Pietro ci rimane male quando qualcuno, metti il Giornale, mette in piazza alcune sue debolezze. Per esempio il vizietto di giocare a Monopoli comprando case con soldi che non si capisce da quale parte e come arrivino. Tra il 2002 e il 2008 ha speso quattro milioni di euro per collezionare, assieme alla moglie Susanna Mazzoleni, immobili un po’ ovunque da Montenero, a Bergamo, a Milano, da Roma a Bruxelles. Lui non appare mai, fa tutto l’amministratore della sua società immobiliare An.to.cri (acronimo di Anna, Toto, Cristiano, i figli di Di Pietro) compagno di Silvana Mura. Siamo alle solite. Confusione di ruoli e ambiguità fra movimento e associazione con locazioni degli immobili di proprietà di Di Pietro al partito del medesimo. «Da noi c’è posto solo per candidati che oltre al certificato elettorale portano con sé anche il certificato penale», amava ripetere. Evidentemente si deve essere distratto in più d’una occasione se è vero come è vero che Paride Martella, ex presidente della Provincia di Latina, esponente Idv è stato arrestato nell’ambito dell’inchiesta su appalti truccati della Acqua latina, un giro da 15 milioni di euro. In Liguria due suoi consiglieri su tre hanno avuto problemi giudiziari. Gustavo Garifo, capogruppo provinciale dell’Idv di Genova, è stato ammanettato in ottobre per aver lucrato sugli incassi delle multe. Andrea Proto, consigliere comunale, reo confesso, ha incassato una condanna a un anno e nove mesi per aver raccolto la firma di un morto. Giuliana Carlino, consigliere comunale Idv, indagata per aver falsificato migliaia di firme.

Per corruzione è finito in cella il segretario Idv di Santa Maria Capua Vetere, Gaetano Vatiero. Mentre Mario Buscaino, già sindaco di Trapani, nel Luglio del 1998 è stato accusato di concorso in associazione mafiosa per voto di scambio. Maurizio Feraudo, consigliere regionale calabrese, indagato per concussione (per anni avrebbe preteso un tot sullo stipendio da un suo autista) e truffa. A Foggia l’ex assessore ai Lavori pubblici e coordinatore provinciale del partito, Orazio Schiavone, è stato condannato a un mese e dieci giorni per esercizio abusivo della professione. Rudy D’Amico, un altro ex assessore dell’Idv, questa volta a Pescara, e rimasto coinvolto nell’inchiesta «Green Connection» sulla gestione del verde pubblico. E ancora per Aldo Michele Radice, portavoce Idv in Basilicata, consigliere del ministro Di Pietro il Pm ha chiesto 9 mesi per la raccomandazione di un manager sanitario.

Sorridete: perché c’è anche chi l’auto blu, pur non avendola assegnata, se la compra e utilizza lampeggiante e paletta in dotazione al Consiglio regionale. È Ciro Campana, fermato nei giorni scorsi a Napoli dai carabinieri. Campana non è un consigliere, ma un collaboratore esterno del capogruppo Idv, Cosimo Silvestro. Che abbia ancora una volta ragione Di Pietro? «Quando crescono le responsabilità, e la classe dirigente la devi trovare sul territorio - si difende - lo sa anche Gesù Cristo che ogni dodici c’è un Giuda».

E allora, viene da chiedersi, che cos'è un conflitto d'interessi per Antonio Di Pietro  allorché vi sia un rapporto di parentela, piuttosto che di amicizia o di legame professionale? Forse che il rapporto di parentela, al quale Antonio Di Pietro fa riferimento nel lanciare la sua solita populistica accusa nel suo ultimo post, non sia lo stesso che lo riguarda rispetto al di lui figlio Cristiano per l'appunto, per non parlare del rapporto di amicizia e/o professionale con riferimento al di lui avvocato, Scicchitano, membro del consiglio di amministrazione dell'Anas nominato, il 20 luglio 2006, dallo stesso ministro, Presidente Lazio Service S.p.a., Liquidatore Federconsorzi nonché eletto IDV nel Lazio come appariva sino a mesi fa sul sito dell'IDV? Le ovvie risposte che si possono dare strappano un amaro sorriso, siamo alla farsa!!

La coltre di silenzio di Di Pietro sul crack Federconsorzi dopo l'arrivo di Scicchitano come liquidatore Federconsorzi dal 2003, e già nella procedura fallimentare della Cirio, nonché suo legale, eletto nel lazio per l'IDV come amministratore nel 2005, nonché presidente Lazio Service S.p.A.

Scicchitano nell’ottobre 2003 è stato nominato dal Tribunale Civile di Roma Liquidatore Giudiziale della Federazione dei Consorzi Agrari Federconsorzi in Concordato Preventivo.

Esemplare è il fallimento della Federconsorzi. Caposaldo dello scandalo, la liquidazione di un ente che possedeva beni immobili e mobili valutabili oltre quattordicimila miliardi di lire per ripagare debiti di duemila miliardi. L’enormità della differenza avrebbe costituito la ragione di due processi, uno aperto a Perugia uno a Roma. La singolarità dello scandalo è costituita dall’assoluto silenzio della grande stampa, che ha ignorato entrambi i processi, favorendo, palesemente, chi ne disponeva l’insabbiamento.

Paolo Madron: È vero che molti avvocati di parte civile erano aderenti all'Italia dei valori?

Pellegrino Capalbo: Sì, c'era anche Antonio Di Pietro che però a un certo punto si defilò.

Bel sistema all'italiana, quello escogitato dal ministro Antonio Di Pietro per sveltire i lavori delle autostrade: istituire commissioni speciali nominate da lui medesimo in persona. Peccato che finora questi nuovi organismi abbiano prodotto soltanto ritardi e aumenti di costi. Tempi allungati, perché il titolare delle Infrastrutture non è tempestivo nelle nomine. E maggiori spese, perché i commissari insediati sono autorizzati a chiedere parcelle astronomiche: anche il 2 per cento a testa dell'importo complessivo dei lavori.

La denuncia parte dal Friuli Venezia Giulia, dove l'urgenza di accelerare i lavori per alleggerire il sempre più inadeguato sistema autostradale è particolarmente sentita; ma potrebbe riguardare anche altre opere. È tutto scritto in un'interrogazione presentata in consiglio regionale dai capigruppo di Forza Italia, Isidoro Gottardo, e Alleanza nazionale, Luca Ciriani. Succede questo, per esempio: i tre commissari incaricati di valutare l'assegnazione del progetto esecutivo della terza corsia dell'autostrada A4 nella quindicina di chilometri fra Quarto d'Altino e San Donà di Piave hanno mandato un conto complessivo di circa 130mila euro.

La composizione di queste commissioni, infatti, tocca non genericamente al ministero «ma specificamente al gabinetto del ministro Di Pietro». Con il risultato, osservano ancora, di rendere «evidente il grave livello di interferenza politica nella composizione delle commissioni giudicatrici». «Dei tre commissari per il progetto della Quarto d'Altino-San Donà - dice Gottardo - uno era un ingegnere dello Iacp di Gorizia in pensione candidatosi per l'Italia dei Valori, e il secondo un dirigente delle opere pubbliche del Lazio nato a Montenero di Bisaccia. Il terzo è il direttore del dipartimento Anas. Due nomi su tre sono legati personalmente a Di Pietro».

Ma per Di Pietro la famiglia è sacra. «Io sono sempre stato a difesa della legalità». Antonio Di Pietro ieri aveva un comizio a Perugia e in campagna elettorale si possono dire anche cose che rischiano di essere smentite dai fatti, in particolare da quella che Achille Occhetto ha di recente definito «la gestione padronale e autoritaria del suo partito». Se poi ci sono di mezzo i figli...

Anna Di Pietro è brillante, di bella presenza, studentessa all'università Bocconi e parla con quell'accento milanese che non ha mai intaccato la cadenza molisana del papà. Nel marzo 2006 viene assunta dalla Editrice Mediterranea, la società che pubblicava il giornale dell'Italia dei valori: nella redazione romana di via della Vite, una splendida traversa di via del Corso, raccontano però di non averla mai vista, nemmeno per ritirare le buste paga. Insomma, sulla carta è assunta a tutti gli effetti per svolgere il praticantato, che dà diritto a sostenere l'esame da professionista. Solo che non ha mai lavorato.

Al giornale, nel frattempo, avevano pensato che avesse cambiato idea, che di fare la cronista non avesse più alcuna intenzione. E però in mancanza di comunicazioni diverse continuano a darle lo stipendio, che non ha mai ritirato. Non è l'unica figlia eccellente affidata alle cure della direttrice Delia Cipullo. Tra i praticanti figura anche Antonio Formisano, figlio di Nello, capogruppo al Senato dell'Idv. Lui però lavora davvero, tant'è che nella lista dei praticanti ammessi a sostenere il prossimo esame figura iscritto al numero 83.

Di Anna Di Pietro, invece, al giornale del partito avevano perso le tracce. Anche perché nel frattempo, esattamente a luglio 2007, suo padre intima alla Editrice Mediterranea la dismissione della testata Italia dei valori e pone fine al rapporto che faceva del giornale l'organo del suo partito, con i relativi fondi per l'editoria.

L'editore dà seguito alle richieste dell'ex magistrato, restituendogli la titolarità della testata. Da allora di Di Pietro non hanno più notizie dirette. Incoraggiato dalla combattiva Cipullo, l'editore cerca però di andare avanti con il suo giornale che esce fino allo scorso 4 agosto sotto la testata Idea democratica. Ma il disconoscimento dell'Idv porta alla chiusura di «una redazione vera, di persone vere che facevano un giornale vero» spiega Delia Cipullo, «con più di dieci giornalisti». Insomma, ci tiene a precisare orgogliosa, «non uno di quei giornali finti che servono solo ad avere i soldi dell'editoria di partito». A gennaio la sorpresa, Antonio Di Pietro si ricorda del suo ex giornale, e così nella redazione ormai in via di dismissione, cominciano ad arrivare dal suo staff una serie di telefonate.

Alla direttrice viene chiesto di certificare l'avvenuto praticantato di Anna Di Pietro. A fronte di una situazione contributiva regolare, ci tiene a specificare la direzione del giornale, per far sì che la figlia del ministro possa sostenere l'esame da giornalista nella prima sessione utile occorre che Delia Cipullo certifichi ufficialmente l'apporto dato dalla ragazza alla redazione. La direttrice però da questo orecchio non ci sente e risponde alle insistenti richieste con un netto no: «Non firmo la certificazione perché non sussistono gli estremi per farlo. Il praticante deve stare in redazione e io Anna Di Pietro non l'ho mai vista nemmeno una volta. Non ha mai ritirato le buste paga. A tutt'oggi è ancora una dipendente della Editrice Mediterranea, malgrado tutto non l'abbiamo licenziata. Però fino ad ora non ha mai lavorato e quindi non posso firmare alcunché».

L'ultima telefonata è di due giorni fa, giovedì 13 febbraio. Ma la Cipullo continua a non cedere. Per la figlia del ministro Di Pietro niente esame da giornalista. Una questione di rispetto della legge, in teoria lui dovrebbe capirlo.

I figli so' piezz 'e core, si sa, ma un uomo che fonda le sue fortune politiche sulla fama di rigoroso cultore delle regole non può farsi beccare in un plateale fallo di nepotismo: va a finire che in privato sembra adottare esattamente quei metodi «mastelliani» che ama criticare in pubblico.

Comunque al peggio non c'è fine. L'Ordine degli avvocati sospende Di Pietro. Tre mesi di sospensione per l’avvocato Antonio Di Pietro. L’ex pm di Mani Pulite si è visto confermare dal Consiglio nazionale forense la «sanzione» del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Bergamo che aveva già stigmatizzato il «doppio ruolo» ricoperto nei confronti di un amico di Montenero coinvolto in un omicidio: prima il neo avvocato ne prese le difese, poi passò tra le parti civili che sostenevano la tesi dell’accusa. Una cosa che non si fa: «La condotta del professionista - si legge nelle motivazioni della decisione - integra certamente la violazione dei doveri di lealtà, correttezza e di fedeltà (articolo 5, 6, 7 del codice deontologico forense) nei confronti della parte assistita e integra altresì l’illecito deontologico». A seguito degli accertamenti svolti, e della sussistenza degli illeciti contestati, «non può che conseguire la sanzione disciplinare». Calcolata in tre mesi di sospensione dell’esercizio della funzione di avvocato in quanto «adeguata alla gravità dell’illecito compiuto».

Ufficialmente indagato dalla Procura di Roma per concorso in abuso d’ufficio e interruzione di pubblico servizio. Ma anche ufficialmente candidato alle elezioni europee di giugno 2009 per l’Italia dei Valori.

È la posizione di Luigi De Magistris, l’ex pm di Catanzaro che martedì 17 marzo 2009 ha annunciato il suo ingresso in politica nel partito di Antonio Di Pietro. Partito che segue – o dovrebbe seguire – un codice etico interno: divieto di candidatura per chi è indagato e divieto di assumere o mantenere incarichi di governo per chi è rinviato a giudizio. «Noi ci siamo dati questo codice perché la questione morale riguarda chi è presente nelle istituzioni e approfitta di questo ruolo», ribadiva Di Pietro il 28 dicembre 2008 al termine degli incontri del suo partito in Sardegna.

Ora è De Magistris ad essere indagato, insieme ad altri sette pm di Salerno, nel filone dell’inchiesta Why Not. Il magistrato dovrà rispondere delle deposizioni rese alla procura di Salerno nel dicembre 2008: denunciava di essere stato vittima di una manovra dei colleghi di Catanzaro per delegittimare le sue indagini.

Ora che è indagato, però, dovrebbe andare ad allungare la lista degli “impresentabili” di Di Pietro. Che tace.

Parla, invece, De Magistris, ospite trasmissione “Omnibus” su “La 7” del 19 marzo 2009: «L’ipotesi di reato è del tutto infondata. È ridicola e grottesca». Non pare intenzionato a farsi da parte. Anzi. «Sarò indagato per i prossimi 30 anni. Su di me sono stati aperti più di 100 procedimenti, un numero superiore a quello che riguardò i pm di Mani Puliti», è la previsione tra il serio e il sarcastico dell’ex magistrato.

La notizia di una sua iscrizione nel registro degli indagati della Procura di Roma, insieme ad altri sette pm di Salerno, è arrivata poche ore dopo la conferenza stampa, in cui l'ex magistrato era stato presentato da Antonio Di Pietro come candidato indipendente con l'Idv. Il fascicolo nei suoi confronti era stato però aperto già a febbraio e riguarda la «guerra» tra le due Procure di Salerno e Catanzaro relativa all'inchiesta «Why not» — che provocò l'intervento addirittura di Giorgio Napolitano e quello del Csm — e nella quale si sono trovati invischiati e poi scagionati Romano Prodi e Clemente Mastella.

I reati ipotizzati sarebbero quelli di abuso d'ufficio — per aver eseguito una perquisizione che sarebbe andata oltre le necessità investigative e sarebbe stata realizzata in modi «anomali» — e interruzione di pubblico servizio, perché avendo realizzato una perquisizione abusando del proprio ufficio, in questo modo avrebbe anche interrotto l'attività della magistratura in modo non giustificato. Secondo le accuse ora al vaglio della procura capitolina, il sequestro del fascicolo dell'inchiesta Why Not eseguito dalla procura di di Salerno - e ispirato da De Magistris - alla procura generale di Catanzaro costituì — parole dell'ex pg Enzo Jannelli, indagato a Salerno — «un danno devastante per l'intera Magistratura italiana e disdoro anche per quella, pur complessivamente sana, magistratura inquirente salernitana».

Nonostante ciò, Luigi De Magistris è stato in Puglia due giorni per la campagna elettorale dell’Idv per le europee 2009 e non si è lasciata sfuggire l’occasione di attaccare il Pd per la scelta di alcuni candidati alle europee, a partire da Paolo De Castro quale capolista per il Sud, che «a quanto ho capito serve solo a dare la possibilità di mandare in parlamento Alberto Tedesco» (indagato) e, «al di là della vicenda giudiziaria, mi sembra il sintomo di un grave inquinamento della classe politica meridionale».

Quando si dice: il bue chiama cornuto l’asino! Ma non basta.

Antonio Di Pietro è sempre più organico alla casta che dice di combattere: dopo aver candidato l’inquisito De Magistris, dopo non aver eccepito a che il suo figlio mantenesse lo stipendio di consigliere provinciale benché inquisito, dopo aver cooptato mezza famiglia in politica, dopo essersi intestato la ricezione di tutto il finanziamento pubblico del partito, dopo tutto questo, ecco la nemesi definitiva a 17 anni da Mani pulite: l’ex pm si trincera dietro l’immunità parlamentare per non essere condannato in una causa per diffamazione che l’avrebbe sicuramente visto perdente. Il Parlamento europeo, con 654 sì e 11 no e 13 astenuti, ha deciso di non revocare l’immunità, che Di Pietro stesso aveva chiesto dopo averlo pubblicamente negato. E non si tratta neppure di un procedimento penale, ma di una causa civile: significa che Di Pietro l’ha fatto solo per non perdere soldi, proprio come i mostri della casta.

Di questo passo somiglierà sempre più all’imitazione che ne fa Neri Marcorè: dice una cosa, fa il suo contrario. Di Pietro si è fatto proteggere dall’immunità di eurodeputato per una causa civile di diffamazione, dopo aver pubblicamente detto che avrebbe rinunciato alle garanzie da eurodeputato (Ansa, 11 febbraio 2009), dopo aver detto che l’articolo 68 della Costituzione, per l’appunto l’immunità, va cancellato perché «aveva senso quando fu scritto, dopo la fine del fascismo. Ho sempre detto che l’articolo 68 andrebbe abrogato» (Ansa, 23 luglio 2007). Si protegge con l’immunità, ancora, dopo aver fatto sfoggio di eticità sulla pelle del senatore Luigi Grillo, Pdl, raggiunto da rinvio a giudizio nel maggio 2008: «Ora chiederà di non avvalersi dell’immunità parlamentare per farsi giudicare, come responsabilità istituzionale vorrebbe?», disse Di Pietro.

Chiede e ottiene la tutela parlamentare, dopo aver sfidato pubblicamente Silvio Berlusconi sul medesimo punto: «Se vuole querelarmi rinunci all’impunità» (Ansa, 12 aprile 2008); dopo aver tuonato pubblicamente, lo stesso giorno della sua immunità, contro quella del premier, che sarebbe invece segno di «paraculaggine». Qualcosa non torna. Se ne sono accorti pure i suoi elettori, che non nascondono un forte imbarazzo, sfociato persino sul blog del loro leader.

Che c’azzecca Antonio Di Pietro con l’omicidio del giornalista Beppe Alfano assassinato da Cosa nostra nel 1993 a Barcellona Pozzo di Gotto? Ovviamente, nulla. Eppure c’è da chiedersi perché, in una memoria di 75 pagine presentata il 2 aprile 2004 alla Dda di Messina dalla figlia del collaboratore del quotidiano La Sicilia, Sonia Alfano - candidata di punta in tutte e cinque le circoscrizioni nel partito di Tonino - si tiri in ballo proprio l’attuale leader dell’Italia dei valori. E lo si fa accostando il nome dell’ex magistrato molisano a un giro di presunte coperture istituzionali e giudiziarie di cui avrebbero goduto personaggi mafiosi e paramafiosi, come Rosario Cattafi, il cui nome venne alla ribalta con la nota inchiesta sull’Autoparco di Milano, poi con una doppia storia di traffico d’armi, e infine con la divulgazione del cosiddetto «memoriale Cerciello» redatto dal generale della Guardia di finanza, grande accusatore dell’ex pm ai tempi di Mani pulite.

I riferimenti a Cattafi crearono qualche grattacapo a Tonino nel giugno del ’95 quando si sparse la notizia (poi risultata infondata) di una sua iscrizione sul registro degli indagati della procura di Reggio Calabria per aver rallentato, insieme al magistrato Giorgianni, alcune indagini su un traffico d’armi che riguardavano proprio questo Cattafi. Veleni, anonimi e corvi fecero da sfondo alle denunce dell’avvocato Carlo Taormina, difensore del generale Cerciello, che chiese alla procura di Brescia di ascoltare Di Pietro in merito ai suoi rapporti con Cattafi. Non se ne fece nulla. Di Pietro annunciò, e inoltrò, querele. La cosa morì lì. Adesso dai cassetti esce questa memoria nella quale l’attuale candidata dell’Idv, nel 2004, chiese alla procura di Messina di fare luce su una serie di indiscrezioni stampa che parlavano di Cattafi e anche di Tonino.

Ma andiamo per gradi. L’8 gennaio del ’93 Beppe Alfano viene ucciso nella sua auto da sicari di Cosa nostra. Per l’omicidio finiscono condannati, quale mandante, il capomafia di Barcellona Pozzo di Gotto, Giuseppe Gullotti, e come killer, Antonino Merlino. Le indagini sono affidate al pm Olindo Canali, magistrato per bene trapiantato in Sicilia dalla Brianza, una toga considerata molto vicina al giornalista ammazzato al punto da essere considerato suo confidente, e soprattutto suo amico. La famiglia Alfano continua a intrattenere buonissimi rapporti col pm almeno fino all’anno 2001, quando Sonia Alfano non decide di cambiare strategia e di affidarsi al battagliero avvocato Fabio Repici. Da quel momento, nonostante le condanne incassate al processo per la morte del papà, la giovane Alfano comincia a sostenere che l’inchiesta presenta evidenti lacune, che non si è toccato il terzo livello, che vi sarebbero stati depistaggi istituzionali. Da parte dei carabinieri, che avrebbero chiuso un occhio sulla presenza in zona del latitante capomafia catanese Benedetto “Nitto” Santapaola. Da parte, soprattutto, del pm non più amico di famiglia, Olindo Canali, “eterodiretto” dal defunto magistrato Francesco Di Maggio, un tempo magistrato inquirente a Milano, per anni trapiantato proprio a Barcellona Pozzo di Gotto.

Secondo le ricostruzioni giornalistiche (e difensive) riprese e rilanciate nel 2004 da Sonia Alfano, il giudice Di Maggio avrebbe intrecciato rapporti proprio con il noto Rosario Cattafi. Nell’ambito del procedimento poi avviato presso la Dda di Messina (numero 2886/02) utilizzando, e facendo proprie, con forma retorica, le considerazioni espresse il 2 marzo 1998 dal settimanale locale Centonove, Sonia Alfano richiamava l’attenzione della procura di Messina sui rapporti tra il mafioso Cattafi e Antonio Di Pietro, e tra quest’ultimo e tale Francesco Molino, altro mafioso barcellonese.

L’intreccio fra toghe (Canali, Di Maggio, Di Pietro) boss mafiosi (Santapaola e Gullotti) e frequentatori di ambienti e personaggi criminali (Cattafi su tutti) porta la Alfano ad affrontare il caso Di Pietro a partire da pagina 54 della memoria stilata dall’avvocato Repici. Letterale: «È da notare un’altra curiosa coincidenza: a metà degli anni ’80 mentre il dottor Di Maggio era titolare di alcune indagini su Cattafi e raccoglieva dichiarazioni di accusa contro quest’ultimo da Epaminonda, suo uditore giudiziario fu il dottor Olindo Canali». E di seguito. «Di questo curioso intreccio di inchieste, inquirenti e inquisiti, si sono ripetutamente occupati gli organi di informazione. Il settimanale Centonove - si legge nella memoria - in un articolo dal titolo "Un dossier porta ad Hammamet" e avente a oggetto un memoriale prodotto dal difensore del generale Cerciello all’autorità giudiziaria di Brescia contro Di Pietro, scrisse… » e giù varie considerazioni. Tra le quali, questa: «Cattafi a Milano, dove aveva iniziato un’attività nel campo dei farmaceutici e sanitari, rivede e frequenta il giudice Francesco Di Maggio, che ha passato la sua giovinezza fra Milazzo e Barcellona, dove ha frequentato le scuole, compreso il liceo (il padre era appuntato dei carabinieri) e dove ha conosciuto Cattafi di cui è coetaneo. Di Maggio introduce Cattafi nell’ambiente dei magistrati (il 3 aprile ’96 Cattafi ottenne in affitto a Taormina un’abitazione del magistrato in servizio alla procura generale di Milano, Luigi Martino), dove pare Cattafi abbia conosciuto Di Pietro (allora sconosciuto) e la sua donna, poi divenuta sua moglie. Cattafi ha necessità di coperture della magistratura. Conosce - continua la memoria-esposto - anche tale Molino, che è di origine siciliana, che poi diventerà anche amico di Di Pietro. Cattafi viene arrestato su ordine dei magistrati di Firenze per la questione dell’autoparco milanese. I giudici di Firenze intuiscono o vengono a sapere qualcosa sui legami passati fra i due magistrati e Cattafi e cercano di indagare. Scoppia la guerra fra le due procure - prosegue la memoria - e le indagini si interrompono. Di Pietro vola a Messina, dove incontra il pool Mani pulite, in testa il giudice Giorgianni, che più tardi si recherà ripetutamente a Milano da Di Pietro». Nella memoria si fa poi presente che il settimanale Centonove, il 28 febbraio ’98, intervista proprio Cattafi. Il quale conferma d’aver incontrato un paio di volte Di Maggio, mai Di Pietro («l’ho visto un paio di volte in un locale pubblico») e Giorgianni in occasione di un’inchiesta su un traffico d’armi. I riferimenti a Di Maggio sono importanti - prosegue la memoria - per capire la natura dei rapporti col pm Olindo Canali «di cui era certamente a conoscenza Beppe Alfano». E proprio per andare a fondo alla faccenda nella quale è citato Di Pietro, la Alfano chiede alla Dda di Messina di svolgere una lunga serie di atti istruttori, tra i quali «l’assunzione a sommarie informazioni del dottor Olindo Canali» (che verrà ascoltato come persona informata sui fatti) e del giornalista autore dell’articolo su Di Maggio e Di Pietro «per sapere quali siano state le sue fonti di prova e comunque, se prima della redazione di quell’articolo, egli avesse avuto contatti con Canali».

Questo scriveva la Alfano nel 2004. Della tesi Cattafi-Di Maggio-Di Pietro la ragazza continuava a parlare fino al 2006-2007. Da allora, però, Sonia Alfano non segue più quella pista concentrando l’attenzione - quale causale alla base dell’omicidio del padre - sulla latitanza del boss Nitto Santapaola nel barcellonese. La scoperta di Alfano padre del luogo ove a fine del 1992 era tenuto il boss, secondo la figlia, ne determinò l’eliminazione. Pressoché contemporaneamente all’abbandono della pista Cattafi-toghe lombarde iniziano i contatti con il politico di Montenero di Bisaccia che condurranno alla candidatura di Sonia Alfano alle Europee nella lista Italia dei valori. Nessuno, ovviamente, arriva a sospettare una ricompensa elettorale di Tonino all’abbandono della pista “milanese” da parte della Alfano. Ci mancherebbe. Fa riflettere, piuttosto, la decisione della Alfano di rispolverare, nel 2004, fatti vecchi e sepolti.

Prima di entrare in politica, Antonio Di Pietro, ex magistrato, ex poliziotto, ex tecnico della Difesa ed ex trattorista, possedeva una villetta con giardino a Curno, nella bergamasca, che ampliava comprando un'altra villa adiacente di 8 locali.

Una volta entrato in politica fa il salto di qualità.

Nel 1995 comprava un'abitazione da 300 mq a Busto Arsizio che girava al suo partito dopo aver acceso un mutuo per l'80% del valore.

Quando viene eletto al parlamento europeo compra un bilocale di 80 mq a Bruxelles (cifra ignota) mentre, nel 2002, quando è ministro delle Infrastrutture, si accasa a Roma in via Merulana, acquistando una casa di 180 mq e 8 locali per 650.000 euro (mutuo Bnl di 400.000 euro).

Nel 2003 a Montenero di Bisaccia Antonio Di Pietro cede al figlio Cristiano un attico da 173 mq per valore di 300.000 euro in tutto sei vani e mezzo poi ampliati a otto e a 186 metri quadrati (più 16 di garage) il tutto grazie al condono del 2003. Nello stesso anno l'ex-pm compra un appartamento di 190 mq nel centro di Bergamo, mentre la moglie ne compra uno adiacente da 48 mq (valore 800.000 euro).

Nel 2004 se ne aggiunge uno in via Casati a Milano di 190 mq (620.000 euro) e uno di 190 mq a Roma (via Principe Eugenio, un milione e 50.000 euro) ambedue intestati alla An.to.cri, cioè la società da lui stesso creata con un capitale sociale iniziale di soli 50.000 euro. I due mutui contratti ammontano complessivamente a 660.000 euro circa, e in quest'ultima si trasferisce la sede dell'Italia dei Valori che versa l'affitto proprio alla An.to.cri. Non passano due mesi e alla fine di marzo, l'ex pm compra a Bergamo un bel quarto piano, per i figli Anna e Toto: 190 metri quadri in un signorile palazzetto liberty in via dei Partigiani. Lo stesso giorno, con lo stesso notaio, la moglie del segretario politico dell'Italia dei valori fa suo un appartamento di 48 metri quadrati, sempre al quarto piano, oltre a due cantine e a un garage: si parla di una cifra oscillante intorno agli 800mila euro, ma non c'è conferma nemmeno su chi abbia provveduto all'esborso e in quale misura.

Il 2005 è alle porte, e il nuovo appartamento di 190 metri quadri acquistato per 620mila euro in via Felice Casati a Milano - come da rogito stipulato in aprile - Di Pietro lo intesta alla Srl An.to.cri. Poi per un milione e 50mila euro la medesima società immobiliare fa suoi dieci vani (190 metri quadri) in via Principe Eugenio a Roma, dove - stando al bilancio 2005 dell'Idv - trasloca la sede nazionale di rappresentanza politica del partito, fino al giorno prima ubicata in via dei Prefetti 17». Per i due locali Tonino si rivolge alla Bnl e si carica due mutui sulle spalle: 276mila euro da saldare entro il 2015 per la casa milanese, 385mila per quella romana (scadenza 2019). Le pesanti rate Di Pietro inizialmente le ricaverà (salvo poi ripensarci quando scoppia lo scandalo) dal pagamento dei canoni d'affitto versati all'Antocri da un inquilino eccellente: la sua Italia dei Valori. Non è finita. Alla vigilia di Natale del 2005, Susanna Mazzoleni, moglie di Di Pietro e madre dei tre figli, compra un piccolo appartamento in via del Pradello a Bergamo. Poche ore dopo acquista anche un ufficio di quattro vani nella stessa palazzina. Spesa approssimativa? Tra i 400 e 500mila euro.

L'anno successivo, come detto, Tonino compra all'asta con offerte segrete la casa di via Locatelli 29, sempre nella città orobica: 178 mq di superficie catastale, 9 vani, il tutto per una cifra molto bassa: 261.661.000 euro. Qualche mese prima si poteva acquistare solo a non meno di 500 mila euro. Mentre l'anno dopo ancora, per una spesa-lavori consistente (decine, se non centinaia, di migliaia di euro) inizia a ristrutturare la masseria di famiglia in quella Montenero di Bisaccia dove l'ex ministro delle Infrastrutture, a dar retta al «catasto dei terreni» possiede 33 «frazionamenti» pari a 16 ettari di proprietà, in parte ereditati, in altra parte acquistati da parenti e familiari. Secondo la Voce (ma ancora non c'è traccia nelle visure camerali) Di Pietro avrebbe acquistato anche un altro appartamento per la figlia, 60 metri in piazza Dergano a Milano. Di Pietro in aula ha spiegato d'essersi dato al mattone dopo aver venduto l'ufficio politico di Busto Arsizio (a 400mila euro, 100mila li ha dovuti restituire alla banca per il mutuo) e con il ricavato ha acquistato gli appartamenti affittati all'IdV: quello di via Felice Casati a Milano - acquistato dalla Iniziative Immobiliari di Gavirano, Gruppo Pirelli Re - e l'altro, in via Principe Eugenio a Roma (alienato nel 2007). Ha detto che se tornasse indietro non rifarebbe quello che ha fatto, anche se la sua passione per gli affari immobiliari ha travalicato i confini nazionali: Tonino possiede infatti il 50% della Suko, una srl bulgara con sede a Varna.

A fronte di quattro milioni di euro spesi per comperare immobili fra il 2002 e il 2008, l'ex pm ha incassato dalle vendite all'incirca un milione di euro, scremati dalle rimanenze calcolate per i mutui. Niente di penalmente rilevante, come dicono gli ex colleghi di Tonino, ma il conflitto d'interessi torna ora d'attualità per gli approfondimenti operati dal mensile «la Voce delle voci» in contemporanea al reportage del Giornale. Si scopre così che il 16 marzo 2006, in quel di Bergamo, il padre-padrone dell'Idv si aggiudica alle buste, in condizioni burrascose e rocambolesche, un signor appartamento a un prezzo scontatissimo dovuto alle cartolarizzazioni del patrimonio immobiliare dell'Inail. Roba da Svendopoli per vip. Lui non appare mai, fa tutto l'amministratore della sua società immobiliare An.to.cri (che però non agisce in questa veste), nonché compagno di Silvana Mura, deputata Idv, tesoriera del partito e socia dell'Associazione IdV. Visti i precedenti, le confusioni di ruoli, le ambiguità fra «movimento» e «associazione», le locazioni degli immobili di proprietà di Di Pietro al partito dello stesso Di Pietro (gli appartamenti di cui parleremo dopo in via Casati a Milano e in via Principe Eugenio a Roma) non è stata una sorpresa scoprire che anche su quest'ultimo immobile qualcosa non quadra: l'ha comprato Di Pietro, attraverso il convivente della Mura, la quale ha intestate le utenze di casa che corrispondono perfettamente a quelle un tempo in uso all'ex sede della tesoreria nazionale di via Taramelli 28.

Ma i conti non tornano lo stesso. «Anziché minacciare a destra e a manca, - dice Capezzone del PDL - Di Pietro dia un po' di spiegazioni, prima di tutto spiegazioni politiche. È vero o falso che esiste una società An.to.cri che gestisce gli immobili citati dal Giornale? È vero o falso che esiste una associazione formata da tre persone, ovvero lui stesso, la tesoriera del partito Silvana Mura e la moglie che di fatto è un'associazione di controllo rispetto al partito?». «Il problema è che Di Pietro - prosegue Capezzone - deve rendersi conto che se chiede il centoeuno di trasparenza agli altri dovrà garantire almeno il 15-20% di trasparenza su se stesso, sennò è tutta roba da ridere. Come mai tutti quelli che hanno fatto intese politiche con Di Pietro se ne sono andati o hanno fatto causa? Magari avranno torto, ma sarebbe interessante capire perché. Oppure sono tutti berlusconiani? Achille Occhetto, Elio Veltri... Insomma, faccia una bella piazza Navona». « Di Pietro vada a piazza Navona e renda note tutte queste risposte al suo pubblico. Vorrei che i moralisti che fanno le prediche facessero un po' di pulizia nel loro pulpito. Il suo amico Marco Travaglio, per esempio: che sta facendo? Si fosse trattato di un esponente del Pdl avrebbe già fatto 4 articoli sull'Unità più 2 videomessaggi. In quale piscina sta a mollo per non accorgersi di queste cose?».

Anche il Corriere della Sera scrive sugli investimenti dell' ex pm, «i conti non tornano». Un milione di entrate e quattro milioni di euro spesi dal 2002 al 2008. Una girandola di appartamenti e immobili tra Milano, Roma, Bergamo, Busto Arsizio, Curno, Montenero e Bruxelles riconducibili a Di Pietro, la famiglia e la società «An.to.cri.», acronimo Anna, Toto e Cristiano, i tre figli. E curiosità varie, tipo gli investimenti attraverso la Suko, una srl bulgara con sede a Varna che Tonino possiede al 50 per cento. O un appartamento di 178 metri quadri acquistato a Bergamo per 261 mila euro grazie alle cartolarizzazioni Inail e non direttamente, ma tramite il compagno della tesoriera dell' Idv Silvana Mura.

«Una campagna di veleni» del «giornale di famiglia» (Berlusconi) che «inventa un' inesistente connessione tra l' Idv e le mie proprietà», replica dal suo blog Di Pietro. «Gli immobili sono stati acquistati, oltre che con i soldi miei, di mia moglie o con i mutui, anche con soldi che Il Giornale ha già dovuto sborsare negli anni per le innumerevoli diffamazioni perpetrate ai miei danni». Così l' ex pm assicura che metterà «in rete copia degli assegni che mi hanno versato». Precisa: «Non prendo soldi dalle casse dell'Idv». E annuncia che «anche il prossimo appartamento lo comprerò col denaro che dovranno pagare per l' ennesima diffamazione».

C' è chi gli dà ragione, «mi sembra una delle tante porcate a suo danno», considera il giornalista Marco Travaglio: «Non mi pare d'aver letto nulla di nuovo, del resto da quindici anni è l' uomo più diffamato d' Europa, con le decine di cause che ha vinto non mi stupisco dei proventi. Che poi l' accusa arrivi dal quotidiano di proprietà di un immobiliarista che con le case ne ha combinate di tutti i colori, mi pare singolare».

C'è chi si morde la lingua, come Achille Occhetto: «Non parlo di Di Pietro. Noi del "Cantiere" abbiamo già querelato il suo partito che ha preso i soldi nostri in campagna elettorale». L' uomo della Bolognina sbotta contro i mass media: «Avete mandato a casa la gente migliore, e questo è il ceto politico che c'è ora in Italia. Tenetevelo».

E poi c' è Elio Veltri, anche lui del Cantiere, un fiume in piena. «Che ha detto Di Pietro?» Nel blog ha scritto... «Nel blog? Ma stiamo scherzando? Perché una società bulgara? Perché una casa comprata da un prestanome che gliela vende in segreto? In qualsiasi Paese europeo un politico che facesse come lui andrebbe a casa domani. Convochi una conferenza stampa, si sottoponga alle domande dei giornalisti. Ci andrò anch'io». A domandare cosa? «Nel '98 fondammo l'Idv. E due anni più tardi Di Pietro creò clandestinamente, all'insaputa del partito - io, vicepresidente, lo ignoravo - un' associazione con lo stesso nome composta da lui, dalla moglie e da Silvana Mura. Ed è l' associazione "Italia dei valori" a incassare il finanziamento pubblico, non il partito dichiarato "contumace" al processo di Roma». La causa sui finanziamenti contesi è ancora in corso a Milano. «Io ne uscii, ma nel Psi di Craxi c'erano più garanzie, i probiviri! Perché ha fatto quell'associazione? Come può prendere soldi pubblici? Perché in Parlamento nessuno dice niente? E poi dicono che Di Pietro attacca la Casta. Un cacchio. La Casta sta zitta. Perché?».

Ma quante case ha l'onorevole Di Pietro? E con quali soldi le ha acquistate? E' vero che il gip di Roma ha messo nero su bianco che Tonino non ha usato un euro del partito, ma rimane il fatto che sono tante case e tanti soldi. Lui dice che le ha acquistate con le querele ai giornalisti, ma noi restiamo trasecolati da tutto questo giro di denaro e di case intestate a moglie, e a figli e a se stesso. L'imponibile di Di Pietro del 2008? Euro 218 mila, poi c'è la casa dei genitori a Montenero di Bisaccia, dove Di Pietro ha anche una casa colonica e un'azienda agricola. Il leader Idv è poi proprietario del 100% della An.To.Cri. spa, proprietaria di un altro appartamento a Milano. C'è poi un pacchetto azionario Enel da 17.500 azioni. La macchina è una Hyunday Santafè.

L'imponibile di Di Pietro nel 2002 era di 463 milioni di lire, nel 2005 era solo di 175 mila euro, nel 2006 di 189 mila euro e nel 2007 di 218 mila euro. Non abbiamo parole. Siamo basiti. Siamo esterefatti. Ha ragione Capezzone (PDL) il signor Di Pietro prima di fare il grande moralizzatore deve agli italiani una risposta esauriente ed esaustiva su case di proprietà e denaro contante per acquistare, visto che il suo imponibile oscilla da anni intorno ai 200 mila euro soldi con cui a Milano compri solo un bilocale più servizi in zona semicentrale.

Anche a proposito del richiamo ai risarcimenti per diffamazione a mezzo stampa c’è qualcosa che non quadra. Come ha salmodiato Marco Travaglio ad Annozero, «negli Usa un giornalista deve controllare una cosa sola, che la notizia sia vera. In Italia ci sono denunce civili e penali ed esposti all’Ordine...».  È il caso di Antonio Di Pietro, uno dei primi ad appoggiare la manifestazione di Roma del 3 ottobre 2009 sulla libertà di stampa. Un vero recordman della querela con oltre 300 cause (357 secondo Repubblica) contro la stampa e ben 700mila euro incassati. Con buona pace del diritto di critica.

Su “Panorama” del 30 marzo 2010 esce un’inchiesta sconvolgente sulle frequentazioni di Di Pietro.

In Bulgaria le chiamano Zlatni Piasazi, Sabbie d’oro: chilometri di spiagge larghe e affollate, nella località balneare più chic del Mar Nero. Ogni estate, negli eleganti alberghi della riviera si ritrovano i più facoltosi uomini d’affari del paese. È la sera del 19 agosto 2002: sono passate da poco le 10 di sera. La leggera brezza marina non smorza l’afa: il termometro segna più di 30 gradi. Al primo piano del Grand hotel International, un grattacielo di vetro alto 40 piani, i bocchettoni dell’aria condizionata sparano aria gelida. Ma nel resort a cinque stelle il clima si sta comunque surriscaldando: su una passerella sfilano aspiranti miss, piuttosto discinte. A osservarle dall’alto, nella sala riservata ai vip, c’è Antonio Di Pietro, leader dell’Italia dei valori, a quei tempi europarlamentare. Viene sorpreso da un paparazzo bulgaro: indossa camicia bianca a maniche corte e pantaloni color kaki.

Il fotografo coglie il suo sguardo sorpreso. Sembra preoccupato, Tonino. La sua espressione è probabilmente legata alla «qualità» dei commensali. Davanti a lui, in giacca mattone e maglietta bianca, siede Ilia Pavlov, 42 anni: un multimilionario che sette mesi dopo, il 7 marzo 2003, viene assassinato a Sofia. Un cecchino, nascosto fra i cespugli, lo centra da 70 metri: un solo colpo, dritto al cuore. Ucciso come un boss. Trud, il primo quotidiano bulgaro, annota: «L’omicidio è dovuto a interessi inconciliabili tra gruppi mafiosi». Mai condannato in patria, Pavlov viene considerato un tipo poco raccomandabile dalle polizie di mezzo mondo. Comprese l’Fbi e la Cia.

I sospetti trovano conferma in un dossier del 1998: l’ambasciata americana a Sofia lo invia in via riservata all’Uscis, l’ufficio immigrazione degli Stati Uniti. E si parla di Pavlov in questi termini: «Le società dell’imprenditore sono sospettate di riciclaggio, furti e omicidi».

Anche gli altri convitati hanno un passato oscuro. A capotavola, in camicia a quadretti e giacca color tortora, c’è Ahmed Dogan: 48 anni, leader del Movimento per i diritti e le libertà (Dps), il partito che rappresenta i turchi in Bulgaria. È un personaggio molto discusso. Nel 1986 viene arrestato per attività terroristiche. A quell’epoca è a capo di un gruppo estremista, considerato responsabile di diversi attentati. Il più grave è quello del 9 marzo del 1985 alla stazione di Bunovo, minuscolo paesino a est di Sofia: muoiono sette persone, tra cui due bambini.

Dogan resta in carcere sei mesi e 15 giorni. Viene condannato a 10 anni. Ma nel 1989, dopo la caduta del comunismo in Bulgaria, gli concedono l’amnistia. E Dogan comincia la sua ascesa. Fonda il Dps, che diventa l’ago della bilancia nella politica bulgara. Spesso in totale spregio delle regole elettorali. Nel 2007 Dogan dichiara candidamente: «Comprare voti è una pratica europea, diffusa dalla Seconda guerra mondiale». Tanta disinvoltura costringe la Corte costituzionale bulgara a intervenire. Le elezioni parlamentari del giugno 2009 sono falsate: i giudici annullano migliaia di voti nelle sezioni all’estero. I brogli si concentrano nelle roccheforti del partito di Dogan. I 23 seggi incriminati sono tutti in Turchia e qui il Dps ha ottenuto un plebiscito: 18.140 preferenze su 18.358.

Dogan era fraterno amico di Pavlov. Giornali e politici sottolineano spesso il sodalizio. Lo spiega a Panorama l’europarlamentare bulgaro Dimitar Stojanov: «Il partito di Dogan è il volto politico della nostra mafia. E Pavlov è sempre stato sospettato di essere il braccio economico della criminalità organizzata».

Certamente il leader del partito turco non ha mai avuto problemi di finanziamento. Nel giugno del 2005 dichiara in tv: «Il mio partito è circondato da una serie di imprese. Loro ci danno soldi e noi le aiutiamo». Dove finiscano i fondi resta un mistero. Di certo, e alla luce del sole, Dogan sguazza nel lusso più sfrenato: in Bulgaria vive in residenze da favola. Per i giornali di Sofia, una sarebbe intestata a due prestanome: un ex manovale e un’ex parrucchiera. Ma sono almeno cinque le ville e gli alberghi riconducibili a lui, scrive la stampa.

La sera del 19 agosto 2002, in quella sala esclusiva del Grand hotel International, seduto a fianco di Di Pietro c’è un altro uomo: ha la camicia bianca e i pantaloni blu. Viene immortalato di spalle, ma un’altra foto scattata durante la serata non lascia dubbi. Il signore si chiama Ivan Slavkov: è un assistente di Dogan, poi diventerà assessore del Dps a Varna, a pochi chilometri dalle Sabbie d’oro.

Il 17 ottobre 2008 viene arrestato: «Sfruttamento della prostituzione, riciclaggio e traffico di droga». Per i magistrati è il capo di un’organizzazione criminale di 80 persone. Le sue prime prodezze risalgono al 1996: sei anni prima dell’incontro con Di Pietro. Slavkov è tuttora in carcere.

Il quinto commensale è una distinta donna di mezza età: Tania Tzvetanova Zhelyazkova. Vive tra Sofia e Vigevano, dove ha sposato un italiano. La signora compare anche in altre immagini con il fondatore dell’Italia dei valori: incontri che, a Sofia, Tonino ha con diversi politici e uomini d’affari bulgari. Viaggi istituzionali, perlopiù: dal 2001 al 2006 l’ex pm di Mani pulite è europarlamentare.

Va in missione nel paese balcanico almeno tre volte solo nel 2002: tra aprile e novembre. Mentre in agosto, quando viene sorpreso al concorso di bellezza, Di Pietro è in vacanza. Lo rivela a Panorama la stessa Zhelyazkova. È lei a far conoscere Pavlov al leader dell’Italia dei valori. E perché? «Erano entrambi miei amici» spiega al telefono da Sofia, dove è proprietaria di due aziende. «Conosco Di Pietro da tanti anni: me lo ha presentato il mio dentista, Carmelo Tindiglia».

Il medico è consigliere comunale dell’Idv a Vigevano. E Tania Zhelyazkova è la persona che assiste Di Pietro nelle sue trasferte in Bulgaria. Interpellata sulle frequentazioni sospette dell’ex magistrato, la donna prima chiede a Panorama di inviarle le domande per email: «Risponderò entro mezzogiorno di domani» promette. Salvo poi fare marcia indietro, appena letti i quesiti. Nelle telefonate precedenti con Panorama, Zhelyazkova accenna però anche a un incontro fra Pavlov e Di Pietro: «Si sono visti all’hotel Excelsior di via Veneto» ricorda. «Una cena di lavoro: c’erano anche 30 imprenditori italiani interessati a investire in Bulgaria». E c’era anche Sergio De Gregorio, fondatore dell’Associazione italiani nel mondo. La sua presenza viene confermata dalla stessa Zhelyazkova.

Poi De Gregorio è divenuto senatore del Popolo della libertà. Quell’incontro a Roma lo ha raccontato il 5 febbraio 2010 al quotidiano di Sofia 24 Chasa: «Pavlov mi disse di essere l’incarnazione del potere politico ed economico della Bulgaria. Si vantava: “Nel mio paese comandano persone come me”» ha ricordato De Gregorio nell’intervista. «Spiegai a Di Pietro che Pavlov non mi piaceva: parlava e si comportava come un mafioso. Mi rispose che era un grande imprenditore».

Il senatore non lesina dettagli: «Di Pietro aveva intenzione di portare in Bulgaria alcuni imprenditori italiani. Proprio attraverso Pavlov e la sua Multigroup».

La società era la holding del finanziere: la più grande della Bulgaria. All’apice della sua espansione, controlla 120 imprese. Sono attive in tutti i settori, dal turismo all’estrazione mineraria. Un impero costruito dal nulla. Pavlov in gioventù è un campione di lotta: come gran parte dei criminali che spadroneggiano nel paese dopo la fine del comunismo. Ex pugili, pesisti e combattenti ribattezzati dalla stampa bulgara «mutri»: brutti musi. La scalata inizia prima della caduta del regime. È ancora uno studente universitario quando sposa Antoaneta, figlia di Peter Cherghilanov, dal 1973 al 1988 capo dei servizi segreti militari bulgari. È il 1981. Il matrimonio dura solo due anni. Però il legame del rampante finanziere con gli 007 dura tutta la vita. Tanto che affida alcuni posti chiave delle sue aziende a ex agenti.

Un commensale scomodo, per Di Pietro. Che conferma la sua tendenza a intrattenere rapporti conviviali con uomini legati ai servizi segreti. Meno di due mesi prima il Corriere della sera pubblica una foto del 15 dicembre 1992: una cena con carabinieri e uomini dei servizi. L’ex magistrato è accanto a Bruno Contrada, numero tre del Sisde, arrestato nove giorni dopo e poi condannato a 10 anni per «concorso esterno in associazione mafiosa». Di Pietro si è giustificato: «Per me era un funzionario dello Stato, nemmeno lo conoscevo». Ma nel dicembre 1992 la notizia dell’arresto di Contrada circolava da settimane negli ambienti investigativi.

Dieci anni più tardi, in uno sfarzoso hotel di Zlatni Piasazi, l’altra istantanea. Di Pietro siede davanti a Pavlov: un imprenditore in odore di mafia che ha costruito la sua fortuna anche grazie ai legami con gli 007 del regime comunista. Informazioni, stavolta, di pubblico dominio. Contattato più volte da Panorama, Di Pietro non ha voluto commentare le sue frequentazioni bulgare. La mattina di martedì 23 marzo il suo ufficio stampa ha solo fatto sapere che il leader dell’Idv «probabilmente ricorrerà alle vie legali». Senza entrare nel merito dei suoi incontri con Pavlov, né su ogni altro aspetto dell’inchiesta di Panorama.

Dopo il matrimonio con la figlia di Cherghilanov, nel 1988 il magnate conosce l’attrice Darina Gheorghieva, 25 anni. Per le cronache rosa è la «ragazza più bella di Sofia». Sono gli anni in cui Pavlov diventa l’uomo più ricco e potente della Bulgaria: alla sua morte ha un patrimonio di 1,5 miliardi di dollari. La presunta illiceità dei suoi affari è sulla bocca di tutti. L’unico inconveniente giudiziario gli capita nel 1998: il premier Ivan Kostov tenta di incastrarlo per contrabbando. Una delle sue società, la Barteks Trading, è sospettata di avere importato illegalmente 305.914 tonnellate di zucchero. L’azienda paga una multa esorbitante. Ma il finanziere evita il processo per un motivo che sa di beffa. L’inchiesta è archiviata: nessun danno per la concorrenza. Buona parte dello zucchero si sarebbe sciolta con le piogge.

La fama di Pavlov travalica i confini nazionali. Gli Stati Uniti gli negano la cittadinanza per due volte di seguito. Il rapporto dell’ambasciata americana a Sofia parla di riciclaggio, furti e omicidi. È il 1998. Un anno dopo anche la moglie Darina incappa in un incidente diplomatico. Il 22 ottobre 1999 Hillary Clinton, in corsa per diventare senatrice del Congresso, organizza una festa per raccogliere fondi. Alla serata partecipa pure Pavlova, da poco cittadina americana. La donna stacca un assegno di 1.000 dollari per la first lady. Ma il 31 ottobre la donazione viene rispedita al mittente. «Ci sono forti sospetti sulla provenienza dei fondi» dichiara Howard Wolfson, portavoce di Clinton. La notizia fa scalpore: viene ripresa da molti quotidiani e agenzie americane. La signora sconta la poco lusinghiera fama del marito.

L’incontenibile ascesa di Ilia Pavlov termina però il 7 marzo 2003. Sono le 19.50 di un venerdì sera: il finanziere esce dal suo ufficio, nel centro di Sofia. La macchina lo aspetta fuori. L’autista ha già avviato il motore. Pavlov viene trafitto da una pallottola al cuore: muore 20 minuti dopo. Il giorno prima aveva testimoniato al processo per l’assassinio di Andrej Lukanov, l’ex premier bulgaro ucciso nel 1996. Anche lui freddato da un cecchino: un colpo alla testa e uno al petto. Un omicidio per cui viene sospettata la mafia russa. Lukanov era considerato l’artefice della fortuna di Pavlov. Poco prima della morte del primo ministro i rapporti però si erano incrinati. I quotidiani riferiscono di un burrascoso incontro fra i due, avvenuto a Mosca il 30 settembre 1996, due giorni prima dell’uccisione di Lukanov. Il politico sbotta: «Ti ho creato e posso distruggerti». Pavlov risponde a tono: «Non dimenticarti che sono io ora a guidare il treno».

I rapporti tra il finanziere assassinato e Di Pietro vengono confermati a Panorama dall’ex braccio destro di Pavlov, Stojan Denchev, vicepresidente della Multigroup fino a gennaio 2002: «So che si conoscevano. Anzi, erano amici» assicura. Il manager non aggiunge dettagli. Ma le agenzie di stampa bulgare testimoniano che fu proprio Denchev a invitare Di Pietro a Sofia nel novembre del 2002.

È un periodo in cui l’ex magistrato bazzica la Bulgaria non solo in veste istituzionale, ma anche per interessi personali. Il 28 dicembre 2002 a Varna, a pochi chilometri dalle Sabbie d’oro, viene iscritta nel registro bulgaro delle imprese la Suko: una società immobiliare di cui Tonino ha metà delle quote. Un affaire raccontato da Panorama nel novembre del 2007. L’altro 50 per cento è dell’imprenditore Tristano Testa. Di lui si sa poco o nulla. Tranne una sospetta coincidenza: il 26 marzo 2007 diventa consigliere d’amministrazione della Brebemi, l’autostrada Brescia-Bergamo-Milano.

Nello stesso periodo Di Pietro è ministro delle Infrastrutture nel governo guidato da Romano Prodi. Panorama ha cercato di contattare Testa tramite la Brebemi, una società pubblica. Ricevendo però sempre cortesi dinieghi.

Le attività immobiliari di Di Pietro lasciano sorpreso Nicolaj Kamov, un ex parlamentare bulgaro. Uno di quelli che rimase affascinato dalla fama d’integrità dell’ex pm di Mani pulite. Tanto da invitarlo a Sofia nel giugno 2002. «Non sapevo che avesse interessi economici nel nostro paese» dice Kamov a Panorama. «E nemmeno che frequentasse gente come Pavlov. Non sono un magistrato, però la mia opinione su di lui è chiara: era parte della criminalità organizzata. E la sua Multigroup era uno stato nello stato». Anche su Dogan, l’altro commensale di Tonino, il giudizio di Kamov è categorico: «Da vent’anni il suo partito fa brogli elettorali» accusa. «I turchi che non votano per lui sono minacciati. L’ho visto con i miei occhi. L’ho denunciato in parlamento. Ma non è servito a niente».

Le frequentazioni pericolose di Tonino non si limitano però a quelle immortalate la sera dell’elezione di Miss Grand hotel International. A Sofia, Di Pietro incontra anche il deputato Alexander Tomov. L’occasione è una tavola rotonda sulla giustizia. E sei anni dopo, nel 2008, anche Tomov finisce nei guai. In luglio viene indagato come presidente della squadra di calcio del Cska Sofia: avrebbe distratto fondi per 3,5 milioni di euro. La stessa accusa che gli contestano quattro mesi dopo: 15 milioni sottratti dalle casse della Kremikovtzi, la più grande industria metallurgica del paese di cui Tomov era manager. Ora rischia 15 anni di carcere. «Sono una vittima della piovra politica che stritola la Bulgaria» si difende Tomov. E racconta a Panorama dei suoi rendez-vous con Di Pietro: «L’ho visto molte volte, anche all’estero. Sono un suo grande ammiratore e condivido le sue battaglie».

Giudizi lusinghieri. Condivisi anche da Anton Stankov, ex ministro della Giustizia: «Per noi era il simbolo della battaglia contro la criminalità» ricorda. «Tanto che gli ho chiesto consigli per il nostro nuovo codice penale». Tra la primavera e l’estate del 2002, anche Stankov vede Di Pietro un paio di volte. Il 3 giugno 2002 l’ex magistrato è addirittura l’ospite d’onore di un convegno sulla «lotta alla corruzione»: il suo pane quotidiano. Passano due mesi: l’uomo simbolo di Mani pulite si trova a banchettare amabilmente con Pavlov e compagni. Tra i ficus di un lussuoso resort affacciato sul Mar Nero.

TUTTI GLI UOMINI DI ANTONIO DI PIETRO

BEPPE GRILLO.

MARCO CHIOCCI: TRA “VAFFA” E CONDANNE, CAMERE TABU’ PER GRILLO.

 «Vecchia putt...». C’era andato un tantino pesante Beppe Grillo, nel 2001, nell’apostrofare Rita Levi Montalcini durante uno spettacolo a Fossano, nell’hinterland cuneese. Non contento insinuò anche che la scienziata torinese avesse ottenuto il Nobel grazie a una ditta farmaceutica amica che materialmente le aveva comprato il premio. L’azienda tirata in ballo dal comico genovese era la Fida, della quale la Levi Montalcini era stata testimonial per il lancio di un prodotto farmaceutico (il Croniassial) dagli effetti neurotossici.

Era una sera di luglio del 2001 quando, di fronte a migliaia di spettatori, dalla piazza della città degli Acaja, Grillo scandì quelle parole, ritenute «gravemente offensive» dalla senatrice a vita che di lì a poco ordinò ai suoi avvocati di sporgere querela per diffamazione aggravata. Ne scaturì un processo dai risvolti imbarazzanti che si concluse anzitempo poiché Grillo, nell’udienza del marzo 2003 al tribunale di Cuneo, preferì non rischiare una condanna e patteggiò davanti al giudice Luca Solerio, la multa di 4mila euro. Grillo pagò ma poi fece ricorso in Cassazione per quanto concerne la liquidazione e le spese legali che il pubblico ministero di Cuneo - Guido Bissoni - aveva fissato in seimila e 100 euro. Le spese sostenute dalla parte civile nel giudizio di primo grado, da porre a carico dell’imputato Grillo, furono quindi calcolate «in complessivi 4mila e 400 euro più Iva». Dare della «vecchia putt..» alla Levi Moltalcini è costato al Masaniello ligure oltre 8mila e 400 euro. I legali della senatrice preannunciarono anche la richiesta, davanti al tribunale civile, di 500 mila euro quale risarcimento dei danni subiti.

Andrà a sentenza solo nel 2010, invece, la causa civile intentata dall’ex sindaco di Asti, Giorgio Galvagno. Il primo cittadino se la prese con Grillo perché, durante un’altra serata, lo tacciò di essere un tangentista. Era il 2004, il luogo del misfatto, il Teatro Alfieri. Galvagno era in sala, provò a replicare in diretta, chiese di salire sul palco, ma Grillo preferì proseguire oltre senza soddisfare la richiesta. Così, al pari della Montalcini, l’ex sindaco ordinò ai suoi avvocati di trascinare Grillo in tribunale chiedendo 500mila euro di risarcimento. Col tempo si arrivò, da parte di Galvagno, a un tentativo di transazione: «Non voglio niente per me, chiedo che almeno l’incasso della serata sia devoluto in beneficenza». Grillo si oppose sostenendo di non aver mai detto una cosa simile. A smentirlo, secondo Galvagno, centinaia di testimoni.

Il tribunale di Cuneo ha processato Grillo anche per un episodio che certamente gli ha segnato la vita. Era il 1981 quando su un tratto sterrato di montagna a Limone, il suo Chevrolet scuro, finì in un burrone. Lui riuscì a salvarsi gettandosi fuori dall’auto mentre tre dei quattro amici che viaggiavano con lui (tra cui un bambino di 9 anni) morirono sul colpo. In primo grado Grillo venne assolto con formula dubitativa, ossia per mancanza di prove. Il 13 marzo 1985 la sentenza venne ribaltata in appello e il comico fu condannato a un anno e 4 mesi per omicidio colposo plurimo, il risarcimento del danno e sospensione della patente.

Nelle motivazioni della condanna i giudici dissero che era «dimostrato, al di là di ogni possibile dubbio, che l’imputato risalendo la strada da valle, poteva percepire tempestivamente la presenza del manto di ghiaccio (...). L’esistenza del pericolo era evidente e percepibile da parecchi metri, almeno quattro o cinque, e così non è sostenibile che l’imputato non potesse evitare di finirci sopra». Se, dunque, Grillo «disponeva di tutto lo spazio necessario per arrestarsi senza difficoltà» e non lo ha fatto, ciò significa «che ha deciso consapevolmente di affrontare il pericolo e di compiere il tentativo di superare il manto ghiacciato (...). Farlo con quel veicolo costituisce una macroscopica imprudenza che non costituisce oggetto di discussione». L’8 aprile 1988 la Cassazione rese definitiva questa condanna che - seguendo il ragionamento antipolitico ribadito dal comico prima e dopo il V-day - in teoria precluderebbe allo stesso Grillo la sua discesa in campo e la sua eventuale ascesa in Parlamento.

FRANCESCO MARIA DEL VIGO: DI PIETRO – GRILLO, UNICA REGIA, STESSA STRATEGIA

Beppe Grillo e Antonio Di Pietro, due percorsi diversi che finiscono per incrociarsi. Nelle piazze, sui palchi, sotto le bandiere dell’antiberlusconismo ma anche, e soprattutto, in rete. E non si parla del partito che fu di Leoluca Orlando, ma della rete delle reti: internet. Balcone mediatico da cui si affaccia quotidianamente Beppe Grillo, vate incontrastato della blogger generation, e che ultimamente ha iniziato a bazzicare anche l’ex pm molisano.

L’uomo che ha convertito Grillo Ma facciamo un passo indietro. Era appena iniziato il nuovo millennio e, se i computer erano sopravvissuti al millenium bug, poco potevano contro la furia luddista di Grillo che, armato di ascia, sventrava pc durante i suoi spettacoli. Poi la catarsi. Incontra Gianroberto Casaleggio, guru delle strategie di comunicazione sul web, e si converte alla banda larga. Casaleggio, nel 2004 a Milano, fonda con alcuni soci la Casaleggio associati. “L'obiettivo della società – recita il sito dell’azienda-, è di sviluppare in Italia una cultura della Rete attraverso studi originali, consulenza strategica, articoli, libri, newsletter, seminari sulla Rete”.

Guru del web Gianroberto Casaleggio ha le physique du role del “santone” 2.0. Capelli riccioli, occhialini tondi, pochissime foto in circolazione e un alone leggendario che lo segue. Non concede interviste, ama Asimov e McLuhan, appassionato del mondo cavalleresco e della leggenda di Camelot, si narra che gli incontri della sua precedente società, la Webegg, si tenessero attorno a una tavola rotonda nel castello di Belgioioso, vicino a Pavia. Poi, nel 2006 l’incontro con Antonio Di Pietro e l’ennesima conversione.

Di Pietro Anche Tonino capitola e si innamora del web. Apre un blog, assistito dalla Casaleggio associati, che dalla grafica alle tematiche appare a immagine e somiglianza di quello del comico genovese. Vicini in rete e vicini nelle piazze. Quasi che il mezzo di comunicazione abbia influito ad avvicinarli nel panorama politico.

Antipolitica d’affari Quello della Casaleggio associati è un business a 360 gradi. E gli affari vanno sempre meglio. Nel 2006 il fatturato dell’azienda è stato pari a 2,5 milioni di euro, con aumento del 94,6 per cento rispetto al 2005. Nel 2007 si stanzia sui 2,5 milioni. Fra il 2005 e il 2006 l’utile netto dell’azienda è aumentato del 125,8 per cento, pari a 600 mila euro, l’anno scorso si è assestato oltre il milione di euro. Fra le varie attività dell’azienda risulta anche la vendita e la distribuzione on line dei dvd degli spettacoli e dei libri di Beppe Grillo. Rimane un dubbio. Ma perché una società, leader di settore, che “ha la missione di sviluppare consulenza strategica di Rete per le aziende e di realizzare Rapporti sull’economia digitale” ha deciso di investire buona parte delle sue energie su Grillo e Di Pietro?

Politica 2.0 Una risposta la dà di sponda Casaleggio stesso in un commento al volume “The social logic of politics” del politologo Alan Zuckerman, in cui sostiene l’importanza dell’influenza della comunità di riferimento nella scelta politica. Insomma blog, community e social network possono creare senso di appartenenza e identificazione, diventando ottimi strumenti di aggregazione e propaganda, specialmente sulle generazioni più giovani, quelle che smanettano più con la tastiera che col telecomando. Come dire: se Di Pietro non riesce a entrare in casa dal televisore ci entrerà da Facebook o da Myspace. La seconda risposta, in bilico fra il serio e il faceto, è un video fantascientifico e ansiogeno prodotto dalla Casaleggio e gettato come una bottiglia nel mare magnum di Youtube. Si chiama: “La nostra visione del futuro dei media descritto attraverso un video” e alla fine della clip, rimane un po’di inquietudine.

MARCO TRAVAGLIO

"SE LI CONOSCI LI EVITI" di Marco Travaglio e Peter Gomez. Peccato si siano dimenticati di scrivere su di loro e i loro amici.

FILIPPO FACCI: A TRAVAGLIO 8 MESI DI CARCERE, LO SALVA L'INDULTO.

Il presunto collega Marco Travaglio è stato condannato a 8 mesi di prigione e 100 euro di multa perché diffamò Cesare Previti, al quale andrà anche un risarcimento di 20mila euro che sarà probabilmente sborsato dall’Espresso. Il settimanale, infatti, il 3 ottobre 2002 ospitò un articolo diffamatorio sicché la direttrice Daniela Hamaui, a ruota, è stata condannata a 5 mesi e 75 euro che è una pena piuttosto elevata, se rapportata al di lei cosiddetto «omesso controllo». Ma siamo solo al primo grado, e la pena in ogni caso è stata sospesa per entrambi.

La diffamazione è il reato a mezzo stampa per eccellenza, spesso fisiologico a chi scrive di cose giudiziarie: nel caso di Travaglio, tuttavia, la condanna lo trasforma in un classico bersaglio del suo stesso metodo. Il reato è del 2002, ma giudicato nel 2008, dunque è presumibile che andrà in prescrizione prima del giudicato; il reato, inoltre, ricade tra quelli coperti dall’indulto approvato nel 2006; il reato, infine, stando al suo gergo da film con Thomas Milian, trasforma Travaglio in un «pregiudicato» poiché in precedenza era stato condannato sì come diffamatore, ma solo in sede civile. Condannato, oltretutto, sempre per azione di Previti: nel 2000, per un suo articolo pubblicato sull’Indipendente nel 1995, il tribunale l’aveva già condannato al pagamento di 79 milioni che gli furono progressivamente decurtati dal reddito mensile.

Nel febbraio scorso, poi, nella sua Torino, Travaglio è stato condannato a risarcire Mediaset e Fedele Confalonieri per alcune ingiurie pubblicate sull’Unità del 16 luglio 2006; la notizia di questa condanna registrò tra l’altro un curioso episodio: un collaboratore dell’Espresso, Daniele Mastellarini, scrisse sul suo blog che «Travaglio, che è sempre molto preciso sulle condanne altrui, scrive che “dovrò pagare 10mila euro più le spese al dottor Fedele Confalonieri”, mentre in realtà sono 12.000 e dimentica la pubblicazione dell’estratto sul Corriere della Sera, che ha un costo non indifferente. Travaglio non riporta anche la condanna a risarcire Mediaset per 14.000 euro, e soprattutto non dice che davanti al giudice ha definito la propria rubrica “di carattere satirico”». Questo scrisse Mastellarini prima che il suo rapporto con l’Espresso, senza nessuna spiegazione, avesse a interrompersi. Altre querele, come una di Antonio Socci, Travaglio le ha scansate chiedendo pubblicamente scusa.

Ma torniamo a ciò che in una botta sola trasformerebbe Travaglio in pregiudicato o prescritto o indultato. L’articolo del 2002 era sottotitolato così: «Patto scellerato tra mafia e Forza Italia. Un uomo d’onore parla a un colonnello dei rapporti di Cosa Nostra e politica. E viene ucciso prima di pentirsi». E già qui il cosiddetto «sottinteso sapiente» pare chiaro. Lo sviluppo, poi, è ignobile: classico copia & incolla a tesi dove un pentito mafioso spiega che Forza Italia fu regista di varie stragi e fece un patto elettorale con Cosa Nostra. Il pezzo di Travaglio farebbe schifo già così, ma la sua disonestà intellettuale deve ancora dare il meglio. Vediamo. Il pentito del caso, Luigi Ilardo, raccontò queste cose che finirono in un rapporto redatto nel 1993. Ma Ilardo venne freddato da due killer nel 1996, talché «quello che avrebbe potuto diventare un altro Buscetta non parlerà più. Una fuga di notizie, quasi certamente di provenienza “istituzionale”, ha avvertito Cosa Nostra del pericolo incombente». Chi ha raccolto le confidenze del pentito, si legge, è il colonnello dei carabinieri Michele Riccio, in seguito coinvolto in un processo su presunti blitz antidroga pilotati. Riccio, nel 2001, viene convocato nello studio del suo avvocato Carlo Taormina assieme a Marcello Dell’Utri e al tenente Carmelo Canale, entrambi imputati per concorso esterno in associazione mafiosa. Taormina negherà, ma secondo Riccio in quello studio si predisposero cose losche: aggiustare deposizioni, scagionare Dell’Utri, cose del genere. Poi l’infamia. Travaglio cita un verbale reso da Riccio, sempre nel 2001: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti». E praticamente finisce l’articolo: l’ombra di Previti si allunga dunque su traffici giudiziari, patti con Cosa Nostra, regie superiori e occulte.

Il dettaglio, l’infamia, è che Travaglio non mette il seguito della frase. Eccola per intero: «In quell’occasione, come in altre, presso lo studio dell’avv. Taormina era presente anche l’onorevole Previti. Il Previti però era convenuto per altri motivi, legati alla comune attività politica con il Taormina, e non era presente al momento dei discorsi inerenti la posizione giudiziaria di Dell’Utri». Questo è il presunto collega che questa sera arringherà le folle ad Annozero. Questo è Travaglio.

Attacca Vespa: «Marco Travaglio mi scarica addosso la consueta serie di insulti che fanno godere chi dell'antiberlusconismo ha fatto una ragione di vita, ma che costituiscono per il Cavaliere una polizza formidabile per fargli superare il record di durata di Giolitti e Mussolini». Contrattacca Travaglio: «Nel salutare il "dottor Fede", in arte Vespa, mi complimento con lui per essere riuscito a sponsorizzare il suo nuovo libro anche sull'unico giornale che ancora non gli aveva dedicato le consuete raffiche di anticipazioni e recensioni encomiastiche». Schermaglie di contorno in un duro botta e risposta pubblicato sulle pagine dei commenti dell'Unità. Motivo della lite tra i due giornalisti: i processi a Silvio Berlusconi.

Non finisce qui. «Travaglio ricorda che mia moglie era "vicina a Squillante". Mi permetto di ricordare che Renato Squillante era presidente della Sezione Gip di Roma di cui mia moglie era giudice. Travaglio è andato per un paio d’anni in vacanza con Giuseppe Ciuro, maresciallo della Finanza distaccato all’Antimafia (...): sarà poi condannato per violazione del sistema informatico della Procura di Palermo e per favoreggiamento del "re delle cliniche" Michele Aiello, condannato a sua volta (...) per associazione mafiosa. Il legale di Aiello ha detto che il suo cliente, su segnalazione del maresciallo, pagò un soggiorno in albergo di Travaglio. Travaglio ha smentito. Ma alla fine della fiera, giudichi il lettore qual è la situazione più imbarazzante». Risposta: «Quelle vacanze le ho pagate di tasca mia», tanto che ho pubblicato «la ricevuta della carta di credito e i due assegni. Se ho ricordato che la signora Vespa era vicina a Squillante, comunque, non è perché io dubiti dell’onestà della signora Iannini: è perché dubito della serenità di Vespa quando si occupa con grande indulgenza di Previti, Squillante & C., e soprattutto quando invita a «Porta a Porta» i tre Guardasigilli (Castelli, Mastella, Alfano) che hanno nominato sua moglie direttore generale del ministero della Giustizia e, ultimamente, capo dell'ufficio legislativo. Quando Vespa difende le leggi ad personam o nega addirittura che siano ad personam, sta parlando anche del lavoro della sua signora. Il che, in un altro Paese, potrebbe persino configurare un lievissimo conflitto d'interessi».

MICHELE SANTORO

Non bastavano Berlusconi e Mastella, a mettere sotto accusa Michele Santoro. Ci si è messo anche il tribunale di Varese, che ha condannato per diffamazione con il mezzo televisivo, il popolare giornalista, in un processo in cui aveva come controparte una associazione vicina alla Lega e i suoi aderenti. Santoro ha rimediato mille euro di multa, e un risarcimento stimato in 10mila euro per ognuna delle tre parti civili, l’associazione leghista “Terra insubre” , il suo fondatore Andrea Mascetti (difeso dall’avvocato Attilio Fontana) e l’ideologo del carroccio Gilberto Oneto (difeso all’avvocato Alberto Zanzi). Oltre a questo, 2500 euro di risarcimento per le spese processuali, a testa.

GLI ALTRI

La rivista di Paolo Flores investiga sull'amico Tonino: nel partito stanno vincendo i gattopardi ex dc.

Tuttora Tonino Di Pietro, quando gli ricordano il voltafaccia di Sergio De Gregorio, se la cava così: «Lo ha spiegato anche Gesù Cristo: ogni dodici, uno tradisce. Visto che io una volta ho già sbagliato, significa che non sbaglierò più». Il problema è che nell’Italia dei valori la media è stata leggermente superata.

Lo denuncia non un’infoiata polemica della destra, ma una documentata inchiesta sul numero di MicroMega in edicola. Avete letto bene. MicroMega, la rivista diretta da Paolo Flores D’Arcais, accusata dai nemici di giustizialismo e dipietrismo, che ospita gli interventi dei magistrati impegnati, gli atti d’accusa antiberlusconiani di Marco Travaglio, che per prima ha aperto al grillismo.

Il saggio s’intitola C’è del marcio in Danimarca. L’Italia dei Valori regione per regione, consta di cinquanta pagine, è stato scritto da Marco Zerbino e farà discutere. Tesi di fondo: «Esistono due anime di Idv, quella ideal-movimentista da un lato, e quella inciucista e politicante dall’altro», una situazione che «crea spesso a livello locale situazioni di stallo», e di frequente «si risolve a favore della seconda».

Non troverete allora in queste pagine l’intelligente campagna elettorale di Tonino per conquistare il voto d’opinione antiberlusconiano, sedurre intellettuali importanti (da Gianni Vattimo a Giorgio Pressburger, candidati, al simpatizzante Claudio Magris), per schierare nomi impegnati della società civile (da Luigi de Magistris al simbolo antimafia Sonia Alfano). No, accusa MicroMega: «A livello locale, le ali del gabbiano arcobaleno sembrano troppo spesso zavorrate dal peso della sua contiguità a un ceto politico dai modi di fare discutibili, in molti casi approdato all’Idv dopo svariati cambi di casacca, alcuni dei quali acrobatici, e in seguito a ponderatissimi calcoli di convenienza personale. Non proprio quello che si aspetterebbe da un partito che aspira a incarnare un nuovo modo di fare politica».

Se l’origine dei mali è nel partito personale («una forma di autocrazia legalizzata» nella quale «la partecipazione degli iscritti era di fatto impedita ex lege»), il primo male è che questo è diventato il partito record dei commissariamenti. In Piemonte gli ultimi congressi risalgono al 2005. In Veneto è commissariata Treviso. In Friuli sono state a lungo commissariate Udine e Pordenone. In Liguria il capo Paladini in un anno ha allestito un congresso moltiplicando le tessere (da 700 a 7000, roba che neanche il Pd). In Toscana è commissariata Lucca. In Umbria c’è un «garante» (Leoluca Orlando). Nelle Marche tutte le sezioni provinciali sono commissariate. In Campania non si fa congresso dal 2005, come in Puglia. In Calabria spopolava fino a poche settimane fa Aurelio Misiti, ex sindaco comunista di Melicucco, ex assessore della giunta Carraro a Roma, presidente (di nomina berlusconiana) del Consiglio superiore dei lavori pubblici. Tonino lo ha alfin sostituito con Ignazio Messina, capo degli enti locali dell’Idv, che ha ruoli di rilievo anche in Sicilia. Piccolo particolare, Messina, per nove anni sindaco a Sciacca, è uno degli antesignani del trasversalismo: nel 2004 sostenne laggiù il candidato sindaco di Forza Italia, Mario Turturici. Tonino con Silvio, che orrore. Ma accade, e pure spesso, in Italia.

In Liguria Giovanni Paladini, ex Ppi, poliziotto e segretario del Sap (uno di quelli che votarono «per affossare l’inchiesta parlamentare sul G8») tra le tante altre cose, accusa MicroMega, ha inserito in lista alle europee Marylin Fusco, «sua fiamma» (la neodipietrista, in un dibattito tv su Odeon, ebbe cuore di dire «nei confronti di Silvio Berlusconi è in atto una persecuzione»). C’è chi, in quell’entourage, è stato al centro di attenzioni dei pm per rapporti con famiglie calabresi.

Zerbino racconta vita e miracoli di Nello Formisano, capo in Campania. «Insieme all’ex dc potentino Felice Belisario incarna l’ala “pragmatica”, per così dire, dell’Idv: entrambi hanno riempito il partito delle mani pulite di faccendieri e arrivisti, in larga misura di provenienza democristiana».

Grazie a Formisano - scrive - sono entrati Mimmo Porfidia (ex Udeur che verrà indagato dalla Dda di Napoli per il 416 bis), Nicola Marrazzo (attualmente capogruppo in consiglio regionale, «la sua famiglia possiede diverse imprese impegnate nel settore dei rifiuti, quattro delle quali si son viste ritirare dalla Prefettura il certificato antimafia»). È entrato il leggendario Sergio De Gregorio. È Formisano, in posti come Torre del Greco, San Giorgio a Cremano, Qualiano, ad aver reso normali operazioni di «Grosse Koalition alla pummarola», facendo entrare sistematicamente l’Idv in giunte di destra.

Di Belisario MicroMega ricorda che ha lo stesso, diciamo così, talento trasversale; o che ha fatto arrivare al partito uomini del calibro di Orazio Schiavone, ex Udeur, condannato per esercizio abusivo della professione odontoiatrica.

Nelle Marche tutto è in mano a Davide Favia: l’ex fondatore di Forza Italia in quella regione! Ma tra i cambiatori di casacca si potrebbero citare Salvatore Cosma, Ciro Borriello, ovviamente Pino Pisicchio (ex dc, ppi, Rinnovamento italiano, Udeur), e il mastelliano Nello Di Nardo. Fa sobbalzare che, oltre ai tanti funzionari con guai giudiziari, ci sia stata anche la candidatura Idv alla Camera di un iscritto alla P2, Pino Aleffi.

Chi leggerà MicroMega troverà tutti i nomi. Scrive Paolo Flores nell’editoriale che accompagna l’inchiesta: «C’è del marcio in Danimarca, questo si sa (almeno dal 1604). Ma se la Danimarca resta l’ultima terra di speranza per una società civile democratica, raccontare il marcio che razzola in essa, raccontarlo tutto e senza le cautele (cioè autocensure) del “cui prodest?”, diventa un dovere verso la democrazia, e quasi un gesto d’amore». Lo capirà l’altra faccia, quella ideal-movimentista, dell’Italia dei Valori di Tonino?

MicroMega attacca Belisario e Di Pietro: «Basta faccendieri nel Pd». La Stampa di Torino riportando un inchiesta della rivista diretta da Flores Darcais, MicroMega disegna la mappa delle anime presenti nell’Italia dei valori cercando di svelare i punti deboli del partito di Antonio Di Pietro. Quella di MIcromega è un’inchiesta che non fa sconti ai dipietristi.

Già dal titolo: «C’è del marcio in Danimarca. L’Italia dei valori regione per regione».

Il giornalista della Stampa, Jacopo Iacoboni ha sintetizzato l’inchiesta di 50 pagine della rivista di Filosofia e politica di Paolo Flores D’Arcais mettendo in evidenza la tesi di fondo che «esistono due anime di Idv, quella ideal - movimentista da una lato e quella inciucista e politicante dall’altra». Tesi per cui a livello locale lo scontro di queste due anime «crea spesso situazioni di stallo che si risolvono a favore della seconda».

Nella schiera degli “inciucisti” Micromega mette a primo livello Nello Formisani e il capogruppo al Senato, il lucano Felice Belisario. Dall’altro lato, nell’anima definita “Alta” ci sono Sonia Alfano e Gianni Vattimo.

Insomma quello che viene dipinto è un partito che vive di sfide fratricide e di lotte “all’ultimo sangue”.

Il particolare è che mentre sulla Stampa usciva questo articolo che dipingeva scenari da inciuci e spaccature, sul Quotidiano della Basilicata è stata pubblicata un’intervista al segretario regionale dell’Italia dei valori di Basilicata, Michele Radice che attaccava a sua volta il senatore Felice Belisario, reo secondo lo stesso Radice di aver tentato di «defenestrarlo dal partito».

Rimanendo all’intervista di Radice, si comprende che in Basilicata l’Idv non è semplicemente divisa in due anime, la “movimentista” e la “inciucista” ma c’è anche una terza forza che è quella che spinge il partito verso una strutturazione più omogenea ai partiti tradizionali: fatta di tesserati, di sezioni e di voti congressuali senza regie nazionali».

E’ stato un esecutivo movimentato, con liti furiose, quello che ha dovuto affrontare Antonio Di Pietro. Lo scontro c’è stato sia sulla cosiddetta “questione morale” in Campania sia sulla legge elettorale europea (sono più di una decina i parlamentari che si sono espressi contro lo sbarramento del 4%). Ma tensione è salita quando Francesco Barbato ha avuto un violento alterco con Silvana Mura, che ha cercato di strappargli di mano una cartella con su scritto «dossier sulla questione morale nell’Idv». Barbato da tempo chiede a Di Pietro di fare pulizia nel partito in Campania: ieri ha puntato il dito soprattutto su quelle che lui considera «amicizie pericolose con ambienti camorristici» di Nello Formisano (coordinatore regionale) e di Nicola Marrazzo (capogruppo al consiglio regionale). Entrambi presunti all’incontro. Tutta roba da dimostrare, sia chiaro, ma Barbato sostiene che c’è tutto scritto nel suo dossier («ho parlato per tabula, con tanto di documenti giudiziari»).

Ma quando gli è stato chiesto di mostrare le prove, lui si è rifiutato. E’ intervenuta la Mura inferocita: si è alzata, ha cercato di impossessarsi della cartella, le è «sfuggita» nella concitazione qualche parola di troppo («dacci queste carte, stronzo»). A quel punto Barbato se n’è andato, sbattendo la porta. «Mi sono incavolata - racconta Mura - perché lui continua ad accusare esponenti del partito senza avere le prove. Accuse gratuite dicendo di avere documenti, ma non ce li fa vedere. Abbiamo visto come è finita la vicenda di Porfidio, accusato di associazione a delinquere. Non c’è niente...». In tutto questo Di Pietro non ha mosso un dito. Di fronte al j’accuse del deputato ribelle ha preso appunti. Poco prima aveva detto che «i nostri nemici li abbiamo di fronte, non seduti accanto: dobbiamo restare uniti e non beccarci tra di noi». Gli «imputati» Marrazzo e Formisano si sono difesi contrattaccando. Hanno detto che Barbato è un «esibizionista», «un professionista dell’anticamorra», capace solo di coltivare «la cultura del sospetto», che tira fuori roba vecchia di 20 anni. Barbato ha lasciato la riunione ed è andato a sedersi in sala stampa per sentire cosa avrebbe detto Di Pietro. Nell’attesa ha continuato a lanciare i suoi strali contro Di Pietro: «Lui mescola merda e cioccolato». Ora, ha aggiunto, «temo per la mia vita dopo le denunce fatte sulle “relazioni pericolose” con certi clan camorristici». Parole da prendere con le molle. Rimane il fatto che in Campania sta succedendo che molti amministratori dell’Idv si sono autosospesi dal partito. Tra questi i consiglieri comunali di Napoli, Scala e Migliaccio. Anche a Caserta c’è stato un esodo.

In fibrillazione gli amministratori di Salerno. Scala e Migliaccio non hanno presentato la mozione di sfiducia alla Iervolino e sono stati messi alla porta. Ma entrambi chiedono perché Marrazzo (presidente della commissione bilancio) non si è dimesso nonostante il leader dell’Idv abbia chiesto a tutti di abbandonare i posti di responsabilità. Eppure, precisa Migliaccio, la settimana scorsa, «Marrazzo ha portato a casa due nomine di persone a lui vicine. E’ così che si porta avanti un’operazione di sfiducia?». Nella conferenza stampa Di Pietro non è entrato nel merito delle questioni. Ha però detto che bisogna staccare la spina a Bassolino e Iervolino: «L’Idv non accetterà compromessi con il centrodestra. Non ci faremo abbindolare dalle ipocrisie del centrodestra, che adesso presenta mozioni di sfiducia dopo avere preso accordi sottobanco». Si riferiva anche alla mozione (dovrebbe essere votata in settimana) presentata dall’onorevole di An Amedeo Labocetta che impegna il governo a inviare a Napoli una commissione ministeriale «con ampi poteri di indagine su ogni atto amministrativo». Per Di Pietro ci sarà l’autosospensione e decadenza dal partito per chiunque si trovi coinvolto nella questione morale: non bisogna aspettare la sentenza passata in giudicato. «Mio figlio Cristiano - ha detto Di Pietro - che con Romeo c’entra come i cavoli a merenda, pur non avendo ricevuto nessun avviso di garanzia, si è autosospeso dal partito».

Il mondo, forse, lo ricorderà così. Con la camicia bianca ampiamente sbottonata, la pochette e il vestito grigio mentre agita l'agenda rossa di Paolo Borsellino e, nell'altra mano, un cartello con scritto «La mafia ringrazia - Riciclaggio liberalizzato». Ma chi è Francesco Barbato il deputato Idv che ieri alla Camera ha accusato il premier e la maggioranza di essere «mafiosi e criminali»?

Chi è l'uomo che ha scatenato la bagarre in Aula costringendo il presidente di turno Rosy Bindi a sospendere la seduta e Gianfranco Fini a portare il caso davanti all'ufficio di presidenza? La biografia presa dal suo sito dice che è nato a Camposano, paesino della provincia di Napoli, 53 anni fa (su internet è ancora fermo a 51). È stato primo cittadino della sua città e nel 2003 ha fondato, assieme a Roberto Alagna, il Governo Civico, una sorta di rete di tutte le liste civiche presenti sul territorio nazionale. Da lì è nata, nel 2007, la Lista Civica Nazionale e la candidatura da «indipendente» alle politiche del 2008 nelle file dell'Idv. Il suo curriculum ufficioso, però, lo qualifica come una vera spina nel fianco di Antonio Di Pietro.

È stato lui, ad esempio, a sollevare per primo la questione morale dell'Italia dei valori in Campania scagliandosi contro il segretario regionale del partito il deputato Nello Formisano. E anche per questo, oggi, in molti pensano ci sia lui dietro il numero speciale che Micromega ha recentemente dedicato all'Idv mettendone in mostra gli aspetti più oscuri. Ma in verità anche lui ha qualche scheletro nell'armadio. Si tratta di una vicenda risalente al giugno del 2008. Il 5 ottobre 2009 la Camera sta esaminando il decreto Alitalia e Barbato, senza nominarlo, si scaglia contro l'ex ministro delle Comunicazioni Mario Landolfi accusandolo di «armeggiare con i camorristi».

«Ciò risulta da atti giudiziari - accusa -, dove un Gip di Napoli ha trasmesso a questo Parlamento la richiesta di autorizzazione a procedere. Qui, con il Pdl, probabilmente, vi è chi fa praticantato con la camorra». Due giorni dopo la scena si ripete. Il deputato Idv chiede l'estensione del lodo Alfano anche a Landolfi che «ho letto infatti sul Mattino di Napoli sarebbe stato eletto con i voti della camorra...» A gennaio di quest'anno il terzo round: Barbato cita Americo Porfidia, deputato Idv accusato di associazione mafiosa, e ricorda di come questi abbia più volte preso le difese dell'esponente del Pdl «accusato di avere rapporti con la camorra». Stavolta, però, il giudice diventa imputato.

Landolfi, infatti, rispondendo alle accuse ricorda che a ottobre Barbato ha presentato un'interrogazione al ministro dell'Interno per chiedere «provvedimenti urgenti» a tutela di Gaetano Manna presidente dell'associazione anticamorra Acli Terra Campania per la Legalità che gestisce i beni confiscati al clan dei Nuvoletta. Un piccolo problema, dopo l'interrogazione Manna è finito nel mirino della polizia al punto che, il 31 marzo 2009, viene arrestato per truffa. L'accusa è di essersi arricchito vendendo a commercianti falsi diplomi per corsi di aggiornamento obbligatori mai frequentati.

Spunta anche una sua foto con il boss di Pignataro Maggiore Raffaele Ligato (condannato all'ergastolo per l'omicidio del sindacalista Franco Imposimato) mentre il demanio decide di revocare il provvedimento con cui aveva affidato unilateralmente all'associazione la gestione dei beni confiscati. Il pressing su Barbato si fa piuttosto intenso e lui si difende: «Questo Manna non lo conoscevo neppure quando ho presentato l'interrogazione parlamentare. Mi è stato segnalato dalle Acli di Napoli. Non mi appartiene politicamente perché mi risulta essere vicino ad Ana. Tant'è che ho delle foto che lo ritraggono insieme a Landolfi».

Ma mentre le Acli smentiscono legami con l'associazione, il sindaco di Pignataro Giorgio Magliocca offre un'altra versione: «Un parlamentare non dovrebbe mentire mai. Anche quando gli è stato detto che Manna era un personaggio ambiguo, Barbato ha continuato a difenderlo».

20.03.2007 - dossier sul moralizzatore: Fatti concreti vs Parole svuotate. Ecco qualcosa in più su Di Pietro & C di S.Castiglion

Antonio Di Pietro ha detto che il suo sguardo è puntato sullo stesso obiettivo dell’Udeur. L’Udeur con la Nuova di DC di Rotondi, insieme al UDC, vuole ricreare la DC. Indi per cui dovremmo trarre la somma che Di Pietro vuole costruire di nuovo la DC. Ma noi non siamo abituati a scrivere di interpretazioni, abbiamo un modus operandi coerente: guardare ai fatti. Ed allora guardiamo a questi, la conclusione potrebbe non essere così tanto difforme dall’interpretazione.

Antonio Di Pietro, la “zavorra morale” secondo Mastella, ed il paladino della legalità secondo se stesso. Il cosiddetto ed auto-detto “simbolo della questione morale”, ha difficoltà nel dimostrare coerenza, però, tra il dire ed il fare. La questione Etica per le sue parole è una bandiera irrinunciabile. La questione Etica a guardare i fatti da lui compiuti è un optional a cui rinunciare costantemente. Poteva costruire un grande movimento, credibile, con uomini e donne credibili, capace di dare risposta alla rivolta morale crescente nel Paese, ed invece ha scelto un’altra strada: usare la rivolta morale del paese per costruirsi il suo partito, coi suoi vice-re. Ha cacciato e tradito quanti hanno iniziato quel percorso dando fiducia a lui, l’ex pm di Mani Pulite. Ha scelto di avocare a se, anziché il meglio della società civile, come lo esortava (“per l’ultima volta”) Paolo Flores d’Arcais dopo la frattura con il Governo Amato nel 2000, espressioni di quel “peggio” che la rivolta morale avrebbe voluto spazzare via. Così si è visto abbandonare da quanti credevano nella possibilità di un cambiamento, partendo da Elio Veltri.

Ma abbiamo detto che guardiamo i fatti. Ed allora ecco una dettagliata, purtroppo lunga e pesante, rassegna di fatti.

Gli irresistibili “cappuccini” di Di Pietro

Di Pietro, vista la pervicacia, ha un debole per i “cappucci”, non quelli del bar e nemmeno quelli dei conventi. Quelli che sembra proprio prediligere sono i frequentatori dei “templi coperti”. Dopo quelli riscoperti dal Polo, e dai DS, volete che lui mancasse di spalancare le porte dell’Italia dei “Valori” ai massoni e piduisti? Giammai! E così dopo Filippo De Jorio nel 2001 (Roma, tessera P2 n° 511) ha portato nel 2006 alla soglia del parlamento (primo dei non eletti in Sardegna) un altro piduista: Giuseppe Alessi detto Pino (Pisa, tessera P2 n° 762). La storia di questi due baldi giovini della loggia di Licio Gelli (la stessa di Berlusconi, come amava ricordare il Di Pietro d’un tempo) la dice lunga:

De Jorio, fedelissimo di Licio Gelli, da sempre vicino agli ambienti militari e dei Servizi, consigliere politico dell'onorevole Andreotti, è stato anche latitante per il golpe Borghese del 1970 (fu assolto poi su richiesta del pm, Claudio Vitalone, altro uomo di fiducia, da sempre, di Giulio Andreotti, come comprovato storicamente).

Giuseppe Alessi, noto come “Pino”, è stato comandante del nucleo CC a Pisa. Già eletto in Parlamento con Forza Italia nella XIII legislatura.

Ma lui li ha voluti con se, e solo una rivolta a Genova nel 2001 lo fece separare dal fedele De Jorio, che ci rimase male, quando Di Pietro, sull’onda dell’opposizione a quella candidatura di tutta Genova e di D’Arcais, “congelo” la candidatura. Gli è andata meglio nel sodalizio con l’Alessi, che se tutto va bene potrebbe entrare in parlamento già in questa legislatura, e soprattutto con l’elezione a Montecitorio di Giuseppe Ossorio, nominato anche Presidente della Commissione Bilancio della Camera, degno incoronamento per i lunghi anni nel Pentapartito nella Napoli di Vito e Cirino Pomicino (negli anni ottanta al Comune) e poi nei Repubblicani con il Centro- Sinistra in Regione nel 2000 e 2005. Giuseppe Ossorio, oltre che paracadutato dal Pentapartito partenopeo è anche notorio massone del Grande Oriente d’Italia.

Qualche altro fedele del Tonino

Stefano Pedica, per Tonino “il mio Chiti”, capo segreteria politica dell’Italia dei “Valori”. Eletto alla Camera nel 2006, nato a Roma ma eletto in Lombardia 1, a coronamento di una pervicace militanza democraticocristiana in piena Tangentopoli (e lungo tempo ancora). Dal 1987 al 1996 segretario e consigliere di Francesco D’Onofrio (ora dell’UDC), amico di Francesco Cossiga (quel Francesco Cossiga!), nel 1994 quando muore la DC , segue D’Onofrio nel CCD. Nel 1998 fonda insieme a Cossiga l’UDR. Nel 1999 fonda il Movimento Cristiano Democratici Europei, con il quale nel 2003 aderisce al Patto Segni, e nel 2004 si candida alle Europee. Nel 2005 si avvicina alla Nuova DC di Rotondi e, quindi, nel 2006 porta il CDE nell’Italia dei “Valori”.

Luigi Li Gotti, nasce a Crotone, anche politicamente. E’ nell’estrema destra calabrese che inizia a militare l’avvocato. Dagli anni sessanta è un fedele camerata nell’MSI e poi continua in AN. E’ solo nel 2003 che abbandona Gianfranco Fini per aderire all’Italia dei “Valori” di Di Pietro, d’altronde se in AN c’era Publio Fiori, anche qui di massoni e P2 ce ne sono e si sente come a casa. Eletto con l’IdV è stato nominato sottosegretario alla Giustizia del dicastero di Clemente Mastella. E la Giustizia era un cavallo di battaglia…(appunto: era!).

Porfidia Americo, già sindaco di Recale ed amante del “canto”, inteso per quello che voleva fare da bambino, riuscendoci anche in un coro sul modello dello “Zecchino d’oro”, come ama ricordare lui stesso. Ma a Recale, piccolo centro del Casertano, dove la Camorra è di casa con uno dei più forti clan, quello dei Casalesi, la sua Giunta è stata sotto attacco costante per una “quisquiglia”. Un conflitto di interessi che da Sindaco non ha mai voluto risolvere (tanto che la casa di riposo non ha ancora visto ad oggi la cessione delle sue quote, visto che dalla Visura Camerale risulta ancora in società). Inoltre l’opposizione dell’Ulivo chiedeva costantemente di poter visionare la documentazione originale allegata a delibere e bilancio, ma ad oggi risulta “non pervenuta”. La campagna elettorale che lo ha portato alla Camera è stata caratterizzata da un episodio “sgradevole”. L’iniziativa nel vicino comune di Santa Maria di Capua Vetere, con Antonio Di Pietro, è stata promossa (con tanto di firma sui manifesti) da Gaetano Vatiero, arrestato per corruzione nell’aprile 2006 (giustizia ad orologeria?!) non per l’attività di Segretario dell’Italia dei “Valori” del Comune, ma per aver commesso il reato quale Dirigente del Comune di Santa Maria Capua Vetere. Naturalmente sia Di Pietro che Porfidia, dopo aver tuonato all’espulsione, affermavano di non sapere chi fosse quell’uomo e di non averlo mai incontrato. L’espulsione, per la cronaca, non c’è stata. E’ stato adottato una sospensione sino a che la magistratura non avrà chiarito, almeno questo è quanto risulta pubblicamente.

Aniello Formisano, eletto al Senato in Umbria, nato a Torre del Greco – NA, avvocato, dipendente della ASL di Napoli. Proviene dalla Margherita. E’ tra i sottoscrittori dell’emendamento alla Finanziaria 2006, il cui primo firmatario è il Sen. Fuda (del Partito Democratico Meridionale di Agazio Loiero e già stra-noto agli Uffici distrettuali antimafia). Questo emendamento è il famoso comma “ 1346” che prevedeva la drastica riduzione dei tempi di prescrizione dei reati contabili (tra cui quelli contestati, per esempio, al Fuda e a Berlusconi). Il Procuratore della Corte dei Conti ha tuonato contro il provvedimento adottato del Centro-Sinistra, perché con quel comma la prescrizione scattava non più dal momento della scoperta e contestazione del reato, bensì nel momento della commissione del reato. A quel punto, Di Pietro tuonò allo scandalo di quel “comma”, come se non lo avesse notato prima. Ma non si cancella il “comma”, il Governo lo fa approvare dal Parlamento (e vota anche l’IDV) e poi approva un Decreto per annullarne l’effetto devastante. Logico no?

Giuseppe Caforio, eletto al Senato in Puglia, nato in Puglia, è tecnico ortopedico. Con l’Italia dei “Valori” diviene Vice Presidente della Commissione Sanità-Igiene e, folgorando il Parlamento in pochi mesi, diventa anche Vice Presidente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sull’efficacia e l’efficienza del Servizio Sanitario Nazionale, oltre che componente della Commissione Parlamentare d’Inchiesta sui Rifiuti.

Fabio Giambrone, eletto al Senato in Sicilia, è l’uomo ex Margherita che è considerato un ponte non solo con il “giuda” Sergio De Gregorio (poi perché “giuda” non si è capito, visto che il passato di De Gregorio era ben chiaro: prima craxiano poi berlusconiano, vicino alla destra; aveva già i manifesti pronti per candidarsi con FI quando Di Pietro gli ha proposto una candidatura sicura e questi ha colto l’occasione, tra l’altro se uno è abituato a tirare in barca a destra e a manca non può stupirsi se poi chi sale sceglie altre rotte!), ma soprattutto con gli uomini dell’UDC siciliana (quella di Totò Vasa Vasa) e di FI siciliana (quella di La Loggia e Dell’Utri), con cui sta tessendo, pubblicamente, rapporti per portare un allargamento del fronte a sostegno di Leoluca Orlando, in corsa per tornare alla poltrona di Sindaco di Palermo. Che sia per questo suo ruolo di “ponte” che è stato nominato nella “Giunta delle Immunità Parlamentari”? (per interderci la stessa che avrebbe dovuto accompagnare alla porta di Montecitorio Cesare Previti, ma ha perso la strada!)

Egidio Enrico Pedrini. Eletto alla Camera in Piemonte, ex democristiano di lungo corso, già candidato e uomo ligure di Sergio D’Antoni. E’ membro della Commissione Trasporti di Montecitorio. In effetti ama il Trasporto, per lui è una vera passione. Nato a Massa in Toscana e trasferitosi in Liguria, è proprietario, insieme alla figlia, di alcune quote della Società che gestisce l’Aeroporto di Pantelleria. Naturalmente questo non è l’unico interesse di Pedrini, visto che proprio a Roma è Presidente del Consiglio di Amministrazione di società di un’altra passione di Di Pietro, l’Informatica. La Sira srl di Liguori Marco e Sofina srl (socio di maggioranza e amministratore unico Liguori Marco), che fa parte del Consorzio Sky Data Management, in sigla Consorzio SDM.

Aurelio Salvatore Misiti. Eletto alla Camera in Calabria, sua terra d‘origine, è componente della Commissione d’Inchiesta sui Rifiuti. Da anni il suo impegno è al centro di pesantissime contestazioni e critiche da parte degli ambientalisti. E’ considerato il “cementificatore”. Inizia l’attività di “rappresentanza” con il Pci negli anni sessanta (sindaco di Melicucco), diviene anche segretario nazionale della CGIL Scuole. Lo si ritroverà poi in Giunta al Comune di Roma con il Sindaco Carraio (PSI). Con il primo governo Berlusconi nel 1994 raggiunge finalmente l’elezione a Roma. In Calabria è assessore regionale con il centro-destra e con il centro-sinistra, a prescindere. Significativo è l’operato svolto da Assessore ai Lavori Pubblici in Calabria, nella Giunta Chiaravallotti del Centro Destra, su cui le indagini della magistratura ancora si susseguono. Ma Silvio Berlusconi lo chiama e nomina Presidente del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, considerata la sua grande convizione-passione: il Ponte sullo Stretto s’a da fare! Sua la grande difesa della grande opera amata da Cosa Nostra ed ‘Ndrangheta anche a Report di Rai 3, dove ha anche annunciato che: “Intorno al 2010 dovrebbe esserci l’inaugurazione”. Sua la “constatazione” che la Calabria non corre alcun rischio idrogeologico, peccato che natura ed ambiente non si sono adeguate ed i disastri siano arrivati puntuali. Le protezioni e l’appoggio di lobby potentissime in Calabria per lui è scontata.

Giorgio Calò. E’ sottosegretario alle Comunicazioni del Governo Prodi. Di lui si può dire che è l’ombra di Di Pietro. Già assessore provinciale a Milano e già Europarlamentare. Ha sempre ostentato l’odio ed il bisogno di rompere il monopolio imprenditoriale di Berlusconi, mina vagante permanente dell’economia italiana. Tra le contestazioni sempre mosse da Calò, proprietario della Directa, nota e quotata agenzia nazionale di sondaggi, a Berlusconi quella di essere “il più grande inquinatore del mercato dei sondaggi d'opinione”. Indi per cui ha deciso, per combatterlo meglio, di vendergli la sua Directa! Oggi, sappiamo, che il ministero delle Comunicazioni ha assunto la proposta Frattini (Berlusconiano doc) come faro, “punto di riferimento”, per affrontare il Conflitto di Interessi di Berlusconi.

Queste sono notizie, tranquillamente reperibili in rete.

Non siamo andati a vedere altro, non siamo andati a vedere chi sono i singoli candidati alle ultime elezioni politiche, l’unico citato infatti è l’ex piduista in Sardegna, semplicemente perché ha rivelare il suo passato è stato uno dei MeetUp di Beppe Grillo.

Ma come abbiamo detto non andiamo a vedere le questioni particolari, ma puramente quelle Etiche e Morali del partito che vuole essere quello dell’Etica e della Questione Morale, della nuova politica. Ed allora ci si rende conto che la vecchia politica della lottizzazione, della spartizione, di “un ceto politico arroccato come in un feudo che chiede e pretende nomine di governo ed ancor più nei Consigli di Amministrazione, perché portano gettoni di presenza e permettono di gestire meglio le proprie clientele” (come denunciato ‘testualmente’ anche dalla trasmissione W l’Italia di Rai 3 il 18.03.2007) non è finita.

Questo è lo stesso pane della politica effettivamente attuata da Antonio Di Pietro, con la sua “nuova” Italia dei “Valori”.

Di Pietro alla trasmissione “Pane e Politica” ha affermato, e qui la ‘confessione’ è inequivocabile, che “l’Italia dei Valori ha solo un ministro e due sottosegretari nonostante sia il Terzo partito dell’Unione”. A parte il coraggio (e ce ne vuole!) per giustificare la composizione (e le spese conseguenti!) del più pesante Governo della storia Repubblicana (102 tra ministri e sottosegretari), ha superato se stesso, visto che il “Terzo partito dell’Unione”, l’Italia dei Valori, ha meno del 2,3% (nel 2001, quando ancora aveva un po’ di credibilità, aveva il 3.9%).

Ma Antonio Di Pietro ha un aspetto positivo: fa le stesse cose degli altri e lo noti subito (forse perché da lui non ti saresti mai aspettato certi decadimenti etico-morali!).

Ad esempio le nomine nei Consigli di Amministrazione che tutti vogliono perché portano gettoni di presenza e alimentano le clientele, nella classica logica pre-Tangentopoli, sono per lui elemento essenziale, ma d’altronde l’ha detto “Siamo il terzo partito dell’Unione”.

E quindi non ci si può stupire se per lui gli eletti sono sia quelli nelle istituzioni (ed abbiamo visto la “crema” che ha portato in Parlamento, alla faccia del Parlamento Pulito!) ma sono anche quelli che ha fatto nominare per gestire gli affari nei Consigli di Amministrazione dal nord al sud Italia. Sì, per lui sono la stessa cosa, tanto da averli inseriti (non proprio tutti e poi vediamo chi si è dimenticato, sic!) nelle pagine degli eletti dell’Italia dei “Valori”, sul sito ufficiale del partito che ha, ricordiamo, come unico socio titolato a decidere, lui, Antonio Di Pietro. Vediamo.

Gli "eletti" per gli affari nei CDA

Mario Bonomo. Indicato come “eletto” nel CDA dell’Aeroporto di Catania. Un siciliano con un “coraggio” imprenditoriale unico. Tra Siracusa e Ragusa non ha fatto altro in questi anni che aprire e chiudere e riaprire diverse società di gestione del Bingo. Quanti uomini hanno avuto il coraggio di “sfidare” Cosa Nostra su uno dei terreni che questa ha sempre controllato (il gioco!) e soprattutto chi ha mai avuto il coraggio di farlo in territori poveri e controllati da Cosa Nostra? C’è un solo nome, quello di Mario Bonomo (unitamente ai suoi soci che si ritrovano nella stessa sfida!).

Giuseppe Caliaro. Indicato come “eletto” all’IPAB di Vicenza quale Vice Presidente. Qualcuno potrà domandare cosa sia l’Ipab, ed allora ecco che è: Istituto Pubblico Assistenza Beneficenza. Gestiscono un patrimonio immane di beni mobili e immobili, ma anche i fondi per gli orfani della seconda guerra mondiale (non più erogabili, ma loro li tengono bene!), oltre che le donazioni spontanee. A Vicenza si dice che la presidenza dell’IPAB sia l’anticamera per un posto a Roma, visto che è “tradizione”, perché non entrarci?.

Ivan Rota. Indicato come “eletto” nel CDA Infrastrutture spa, di Bergamo. Ivan Rota già candidato in diverse tornate elettorali dalla Lista Di Pietro dopo una militanza nella Democrazia Cristiana, un po’ come tanti in questa lunga lista.

Domenico Cangelli. Indicato come “eletto” nel CDA Mercati Spa di Bergamo.

Giampiero Costantini. Indicato come “eletto” al Museo Naturale Civico di Bergamo quale Presidente.

Dario Domeneghini. Indicato come “eletto” nel CDA della SO.LI.COR, Bergamo.

Sergio Piffari. Indicato come “eletto” come Presidente del GAL, Bergamo.

Vincenzo Signorino. Indicato come “eletto” nel CDA Consorzio Formazione Professionale Provincia di Milano.

Tiziana Tosi. Indicata come “eletto” nel CDA Consorzio Formazione Professionale Provincia di Milano.

Paolo Pagi. Indicato come “eletto” nella Commissione Elettorale della Provincia di Milano.

Giuseppe Calanni. Indicato come “eletto” nel CDA Aziende Farmacie di Cinisello Balsamo.

Riccardo Martucci. Indicato come “eletto” nel CDA Milano Mare.

Giuliano De Palma. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti della Milano Ristorazione.

Mariano Giordano. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti della Farmacie Milano.

Maria Luisa Ricco Paxi. Indicata come “eletto” Revisore dei Conti della AMSA, Milano

Marco Tosi. Indicato come “eletto” nel CDA Sintes spa collegata ASM, Brescia.

Piergiorgio Gazich. Indicato come “eletto” nel CDA San Filippo Spa, Brescia.

Giuseppe Gardoni. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti Aprica spa, Brescia.

Giuseppe Capitani. Indicata come “eletto” Presidente Biblioteca Valle Camonica, Brescia.

Claudio Ferrante. Indicato come “eletto” nel CDA Municipalizzata GAS, Lodi.

Giuseppe Mastrogiorgio. Indicato come “eletto” nella Commissione Elettorale Provinciale, Lecco.

Renato Valsecchi. Indicato come “eletto” nel CDA Polo Logistico SPA, Lecco.

Lorenzo Mazzera. Indicato come “eletto” nel CDA Fondazione Cremona. (A Cremona di eletti dal popolo nemmeno uno! – sic).

Mario Frattarelli. Indicato come “eletto” Presidente Ente Regionale Abruzzo.

Bruno Di Bartolo. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti dell’Ente Regionale Abruzzo. (in Abruzzo, uno fa l’altro controlla! - sic).

Giovanni De Gasperis. Indicato come “eletto” nel CDA Parco Scientifico e Tecnologico dell’Abruzzo.

Rinado Mariani. Indicato come “eletto” Presidente Ente Provincia L’Aquila.

Bruno Chelli. Indicato come “eletto” Presidente del Consorzio Industriale de L’Aquila.

Antonio Giordano. Indicato come “eletto” nel CDA Acqua Spa, Matera.

Carmelo Pierro. Indicato come “eletto” nel CDA Agropis, Matera.

Anna Maria Coletti. Indicata come “eletto” nel CDA ? (non si sa!?), Potenza.

Luigi Passariello. Indicato come “eletto” nel CDA ACSH, Caserta.

Cosimo Boemio. Indicato come “eletto” nel CDA Arzano Multiservizi, Napoli.

Nicola De Vizio. Indicato come “eletto” nel CDA Agenzia Provinciale Energia di Benevento.

Maura Frazzi. Indicata come “eletto” nel CDA Casa di Riposo di Cotignola, Ravenna.

Domenico Capuozzo. Indicato come “eletto” nel CDA Istituzione Castelfranco, Modena.

Giampiero Ferrara. Indicato come “eletto” nel CDA Agenzia dei Trasporti, Modena.

Renato Rondinella. Indicato come “eletto” nel CDA Istituti Educativi, Bologna.

Antonino Calabrese. Indicato come “eletto” nel CDA Università degli Studi, Parma.

Liana Barbati. Indicata come “eletto” nel CDA Istituzione Rete, Reggio Emilia.

Antonio Maggiore. Indicato come “eletto” nel CDA Ente Fiera, Reggio Emilia.

Giuliano Egidi. Indicato come “eletto” nel CDA Agenzia Regionale del Lazio.

Gino Canale. Indicato come “eletto” Presidente Consorzio Turistico, Frosinone.

Raffaele Petrarulo. Indicato come “eletto” Vice Presidente del CDA Ente Diritto allo Studio, Torino.

Antonio Mainardi. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti ASL 8, Torino.

Mario Moiso. Indicato come “eletto” Revisore dei Conti CTO, Torino.

Giuseppina Marcella Rago. Indicata come “eletto” nel CDA ASM, Torino.

Nadia Pastorino. Indicata come “eletto” nel CDA Energia e Territorio, Alessandria.

Nadia Pastorino. Indicata come “eletto” Consigliere Ente Parco, Alessandria.

Alessandro Scarrone. Indicato come “eletto” Consigliere Ente Manifestazioni, Alessandria.

Giuseppe Impallomeni. Indicato come “eletto” Presidente della Siracusa Risorse.

Claudio La Pegna. Indicato come “eletto” nel CDA Amiu, Ragusa.

Patrizia Zavataro. Indicata come “eletto” Presidente SILFI, Firenze.

Nevio Tonelli. Indicato come “eletto” nel CDA Provincia Livorno Sviluppo.

Luca Bogi. Indicato come “eletto” nel CDA EALP, Livorno.

Vladimiro Benedetti. Indicato come “eletto” nel CDA SPIL, Livorno.

Cristiano Tondelli. Indicato come “eletto” nel CDA A.AMPS, Livorno.

Aurelio Donzella. Indicato come “eletto” nel CDA Consorzio Bonifica Ombrone Pistoiese e Bisenzio. (ma anche Consigliere Comunale, così che il controllore ed il controllato lavorino insieme…si semplifica, sic!).

Giorgio Cappellini. Indicato come “eletto” nel CDA Pratofarma.

Con risultano, ad esempio, nella lista on line (come mai?):

Sergio Nicola Aldo Scicchitano, legale di fiducia di Antonio Di Pietro e del Ministro Antonio Di Pietro, già candidato dell’IdV nel 2001 (ma poi ne parliamo dopo) nominato nel CDA ANAS spa.

Enrico Della Gatta, gia responsabile nazionale dipartimento Infrastrutture e Trasporti dell’IdV ma anche già nominato, durante il Ministero di Lunardi (Governo Berlusconi) nel Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, dal 2002 al 2004, nominato nel CDA ANAS spa.

Niente male dunque, per chi rifiutava le lottizzazioni ed il marcato delle nomine per gettoni e comitati d’affari, indispensabile strumento per sorreggere e consolidare le clientele e quindi il peso elettorale, in una spirale in cui competenze ed autonomia delle società partecipate o speciali continuano a cadere, inesorabili, per il prezzo della politica. Così passiamo dagli Enti Regionali, ai Consorzi che gestiscono i fondi regionali, nazionali o europei, per arrivare alle municipali e aziende speciali locali come quelle che operano nel caos e nello scandalo dei rifiuti in Campania. (Per ragioni di spazio, abbiamo omesso, la lista degli “eletti” nelle Comunità Montane).

La passione degli affari è coinvolgente.

Se Di Pietro ha una passione per collocare nei Consiglio di Amministrazione, luoghi di gestione finanziaria, d’affari e assunzioni, non è certo l’unico ad amarli nell’Italia dei Valori. Abbiamo già visto il parlamentare Pedrini. Ma tra gli eletti dell’Italia dei “Valori” nelle istituzioni ve ne sono altri. Non abbiamo approfondito troppo. Abbiamo guardato solo gli Eletti di una Regione dove non vi erano nomine nei CDA, la Liguria. Ed abbiamo scoperto che erano già impegnati tra il Molise di Di Pietro e Roma.

Carmen Patrizia Muratore. Nata a Trapani, cancelliere al Tribunale di Chiavari in aspettativa, già candidata nel 2001 e già assessore a Chiavari nel 2002 è poi stata eletta in Consiglio Regionale della Liguria (quella del vice re Claudio Burlando!), dove è stata nominata segretaria del Consiglio.

E’ Amministratore Delegato (con tutti i poteri di gestione) della GEST.COM (aperta nel 2005 a Isernia, nel Molise di Di Pietro e poi trasferita a Roma nel 2006). La società è stata fondata con Atto Notarile in Genova e di qui sono stati seguiti tutti i passaggi. La Gest.Com è di proprietà della Pimarfin Srl, Bisag srl e conta la propria partecipazione nella Alfa.com srl. Presidente del CdA è Marti Vito Paolo, nato a Barletta e residente a Roma. Consiglieri: Repetto Claudio, nato e residente in Alessandria; Arata Franco (altro dirigente dell’IdV) nato a La Spezia e residente a Chiavari con un passato nella Finanza. Nel Collegio Sindacale: Tassi Giorgio, presidente, è nato e residente a Sondrio; Calissano Federico, sindaco effettivo, è nato e residente a Genova; Mercaldo Luca, sindaco effettivo, nato e residente a Milano; Galardi Giovanna, sindaco supplente, nata e residente a Genova; Scarmiglia Antonio, sindaco supplente, è nato e residente a Taranto. La Società ha come oggetto sociale la gestione, l’accertamento e la riscossione dei tributi per conto di enti pubblici sia in Italia che all’estero nonché la gestione, liquidazione, accertamento e riscossione di tutte le entrate tributarie comunali, provinciali e regionali; tutte le entrate e/o attività dei Consorzi, società o aziende consortili; tutte le entrate patrimoniali comunali, provinciali e regionali, nonché di aziende consortili, compresa la gestione dei parcheggi auto; tutti i diritti, canoni, tariffe, sanzioni amministrative di competenza degli enti sopraccitati; tutte le entrate derivanti dalla gestione della rete gas e della rete idrica; la postalizzazione delle sanzioni amministrative comprese quelle relative alla violazione del codice della strada. Inoltre la Gest.com può effettuare autonomamente e/o disgiuntamente dal rapporto di concessione, per conto degli enti pubblici e per conto terzi, i censimenti tributari e patrimoniali, le rilevazioni tributarie e patrimoniali, l’aggiornamento ed il controllo dei ruoli inerenti imposte, tasse, tributi, diritti, canoni patrimoniali, canoni ricognitori, canoni non ricognitori, tariffe e quant’altro può formare oggetto di entrata a favore degli enti stessi. Ma non è finita qui: la Gest.com può compiere qualsiasi operazione commerciale, industriale, immobiliare, mobiliare e finanziaria atta al raggiungimento dello scopo sociale, compresa la facoltà di rilasciare avalli, fideiussioni, ipoteche ed in genere garanzie reali e personali.

Ma Carmen Patrizia Muratore è anche Amministratore Delegato della GEST.NET srl (aperta nel 2006 a Isernia, nel Molise di Di Pietro e poi trasferita a Roma nel 2006). La società è stata fondata con Atto Notarile in Genova e di qui sono stati seguiti tutti i passaggi. La Gest.Net è di proprietà della Giura srl, Pimarfin srl e conta la propria partecipazione nella Omega.net srl. Presidente del CdA è Marzo Giuseppe, nato e residente in Lecce. Consiglieri: Marti Vito Paolo, nato a Barletta e residente a Roma; Pisani Giovanni Graziano, nato a Catanzaro e residente a Genova. Nel Collegio Sindacale: Bovi Giorgio, presidente, è nato a Lecce e residente a Roma; Tassi Giorgio, sindaco effettivo, è nato e residente a Sondrio; De Matteis Giovanni, sindaco effettivo, nato e residente a Lecce; Campita Ermanno, sindaco supplente, nata e residente a Roma; Scarmiglia Antonio, sindaco supplente, è nato e residente a Taranto. La Società ha come oggetto sociale l’identico della Gest.com: la gestione, l’accertamento e la riscossione dei tributi per conto di enti pubblici sia in Italia che all’estero nonché la gestione, liquidazione, accertamento e riscossione di tutte le entrate tributarie comunali, provinciali e regionali; tutte le entrate e/o attività dei Consorzi, società o aziende consortili; tutte le entrate patrimoniali comunali, provinciali e regionali, nonché di aziende consortili, compresa la gestione dei parcheggi auto; tutti i diritti, canoni, tariffe, sanzioni amministrative di competenza degli enti sopraccitati; tutte le entrate derivanti dalla gestione della rete gas e della rete idrica; la postalizzazione delle sanzioni amministrative comprese quelle relative alla violazione del codice della strada. Inoltre la Gest.com può effettuare autonomamente e/o disgiuntamente dal rapporto di concessione, per conto degli enti pubblici e per conto terzi, i censimenti tributari e patrimoniali, le rilevazioni tributarie e patrimoniali, l’aggiornamento ed il controllo dei ruoli inerenti imposte, tasse, tributi, diritti, canoni patrimoniali, canoni ricognitori, canoni non ricognitori, tariffe e quant’altro può formare oggetto di entrata a favore degli enti stessi. Ma non è finita qui: la Gest.com può compiere qualsiasi operazione commerciale, industriale, immobiliare, mobiliare e finanziaria atta al raggiungimento dello scopo sociale, compresa la facoltà di rilasciare avalli, fideiussioni, ipoteche ed in genere garanzie reali e personali.

(Anche a Genova è attiva una società con identiche finalità, si chiama Gest-Line ed è al centro di pesanti contestazioni, arrivano a pignorarti la casa de non ha pagato una multa che magari non ti era mai stata recapitata o non avevi per nulla preso)

L’immobiliare Antocri di Di Pietro.

La “Voce della Campania” ha reso noto un fatto pubblico. Un’indagine avviata dalla Magistratura a seguito di un dettagliato esposto dell’Avv. Di Domenico (uno dei molti che aveva creduto in Di Pietro e nell’Italia dei Valori), sulla società di Antonio Di Pietro, l’immobiliare ANTOCRI (da Anna, Toto e Cristiano, i figli), l’acquisizione con mutuo da parte di questa di due immobili che sono poi stati affittati all’Italia dei Valori (il cui unico titolare a decidere è Antonio Di Pietro). Rendere nota un indagine in corso è dovere d’informazione! Rendere nota un’indagine in corso su un Ministro della Repubblica è, come sino a qualche tempo fa sottolineava Di Pietro, un dovere perché i cittadini devono sapere. Ma, dai toni e dal marito della missiva dell’Avvocato di Antonio Di Pietro alla Voce della Campania, sembra proprio che il principio dell’informazione e della trasparenza valga per gli altri ma non per lui. Non gli piace proprio, sembra, aprire le sue agende e i suoi fascicoli (alla faccia della trasparenza!) Il legale dell’ex pm afferma che vi è la richiesta di archiviazione, ma come ricorda Elio Veltri, il GIP potrebbe non disporla e decidere diversamente. Ma noi, come DemocraziaLegalità e come la Voce della Campania, non ci poniamo il problema sull’innocenza o meno di Antonio Di Pietro, stabilirlo è compito esclusivo della Magistratura. Quello che ci siamo posti è il problema etico e morale. E qui, davvero, la “difesa” non regge. Vi è un conflitto di interessi enorme, ed è grave che anziché risolverlo, come in parte hanno fatto altri, lui minacci querela, richieste di danni, non affrontando il merito della questione. Ma, come abbiamo detto e sempre fatto, vediamo i fatti.

La ANTOCRI srl è stata costituita in Bergamo nel 2003. Ha come Amministratore Unico Belotti Claudio, nato e residente a Chieri (BS), “Compagno di vita o coniuge di Silvana Mura”. Socio Unico è Antonio Di Pietro. Nel 2004 entra nel CDA Mura Silvana, che lo lascerà nel luglio 2006.

La Antocri srl con un mutuo acquista due immobili, uno a Milano ed uno a Roma. L’Antocri ha come uniche entrata quelle dei canoni di affitto degli immobili acquistati.

L’Italia dei Valori inizia a ricevere i rimborsi elettorali (sulla base della legge approvata dal Parlamento per garantire ai partiti il finanziamento pubblico che era stato abolito con un Referendum). Giungono quindi a ruota i fondi relativi alle elezioni politiche del 2001 (quando l’Italia dei Valori sfiorò il 4% ed elesse un senatore, il bergamasco Valerio Carrara, che appena insediate le Camere passo con Forza Italia), e via via a seguire quelli relativi alle elezioni amministrative, regionali, europee e nazionali.

Antonio Di Pietro, forte dell’Atto Notarile, ha uno Statuto reale dell’Italia dei Valori che gli conferisce pieni ed unici poteri. Di fatto è l’unico titolare, unico socio. La decisione su ogni cosa compete a lui. Tesoriere dell’IdV è Silvana Mura, eletta anche lei alla Camera dei Deputati.

L’Italia dei Valori prende in affitto due immobili, uno a Milano ed uno a Roma. Entrambi gli immobili sono affittati dalla Antocri.

L’Italia dei Valori (Antonio Di Pietro) stipula un contratto con la Antocri (Antonio Di Pietro) La Antocri (Antonio Di Pietro) riceve regolari pagamenti dei canoni di affitto dall’Italia dei Valori (Antonio Di Pietro). La Antocri (Antonio Di Pietro) paga regolarmente le rate del mutuo dei propri immobili con gli introiti derivanti dall’affittuario Italia dei Valori (Antonio Di Pietro).

L’aspetto di regolarità giudiziaria, torniamo a ripetere, non è di nostra competenza, spetta solo alla magistratura, ma quello etico si, ancora di più visto che Di Pietro si presenta come il simbolo della “Questione Morale”. Non è poi accettabile una risposta sul modello Silvio Berlusconi: l’amministratore dell’Azienda non sono io, quindi non c’è alcun conflitto. Curioso è che Antonio Di Pietro era il principale accusatore di Berlusconi per il Conflitto di Interessi ed ora usa le parole del Cavaliere per rispondere ad un quesito sulla sua persona.

Ma su questo rimandiamo all’inchiesta giornalistica della Voce della Campania che spiega nel dettaglio il tutto.

Ma prima di andare oltre occorre segnalare un’altra “coincidenza” (capitano proprio tutte a lui - sic!). Il giornale dell’Italia dei “Valori”, si chiama “Orizzonti Nuovi”. Deve essere un nome che ha folgorato Silvana Mura e consorte.

Vediamo perché: in Milano, nel 2005, viene costituita una società denominata “Progetto Orizzonti srl”. Soci della stessa sono Silvana Mura e Belotti Claudio, consorte/compagno della Mura e amministratore unico anche qui, come per l’immobiliare Antocri di Antonio Di Pietro. La società ha come oggetto sociale: l’attività editoriale esercitata attraverso qualunque mezzo e con qualunque supporto anche elettronico e pertanto in particolare l’attività di edizione, pubblicazione, promozione e commercializzazione di giornali, quotidiani, periodici, illustrati, saggi, monografie di carattere economico, sociale, politico e culturale, nonché l’esercizio di attività di edizione di testata giornalistiche – anche telematiche – proprie o altri, la produzione di informazione attraverso la gestione di mezzi a stampa, informatici, anche su supporti magnetici e/o elettronici e attraverso quant’altro reso disponibile dalle attuali e future tecnologie, la realizzazione di servizi giornalistici e attività di comunicazione per conto di terzi.

Chissà se questa realtà può essere (o sia già stata) utile per “non disperdere” i contributi pubblici che lo Stato riconosce ai Partiti e Movimenti politici presenti in Parlamento per promuovere i propri giornali (quotidiani o periodici, cartacei o telematici). Le intenzioni ci sono tutte e vista la frattura con “il Giuda” Sergio De Gregorio, esperto in materia, questa società casca a fagiolo. 

Prima di passare al legale di Tonino, affrontiamo un altro aspetto della “coerenza” di Di Pietro, che, sempre, la Voce della Campania mette in evidenza.

Di Pietro, tra Pomicino e Patriciello.

Anche qui è una questione Etica, perché come avevamo già ricordato, siamo ostinatamente convinti della veridicità di quanto affermava Paolo Borsellino. Nel 1989, in un incontro con gli Studenti in Veneto, affermava: “Vi è stata una delega totale e inammissibile nei confronti della magistratura e delle forze dell’ordine a occuparsi esse solo del problema della mafia (…). E c’è un equivoco di fondo: si dice che quel politico era vicino alla mafia, che quel politico era stato accusato di avere interessi convergenti con la mafia, però la magistratura, non potendone accertare le prove, non l’ha condannato, ergo quell’uomo è onesto…E no! (…) Questo discorso non va, perché la magistratura può fare solo un accertamento giudiziale. Può dire, be’ ci sono sospetti, sospetti anche gravi, ma io non ho le prove e la certezza giuridica per dire che quest’uomo è un mafioso. Però i Consigli comunali, regionali e provinciali avrebbero dovuto trarre le dovute conseguenza da certe vicinanze sospette tra politici e mafiosi, considerando il politico tal dei tali inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Ci si è nascosti dietro lo schema della sentenza, cioè quest’uomo non è mai stato condannato, quindi non è un mafioso, quindi è un uomo onesto!”.

Ecco perché certe scelte di Di Pietro, su uomini, candidati ed eletti, personaggi vicini a lui ed al movimento sono gravissime. Per una questione Etica (lui diceva che la Questione Morale è pre-politica, che viene prima di tutto, ma nei fatti è come gli altri nel calpestarla, con l’aggravante per lui, rispetto agli altri, che questi non si erano (sono) fatti paladini dell’Etica). Perché diciamo questo?

In parte abbiamo già risposto. Leggendo chi sono i candidati ed alcuni degli eletti, che abbiamo riportato, dovrebbe essere già chiaro. Ma vi è di più, come evidenziato, appunto, dalla Voce della Campania.

Antonio Di Pietro, in difficoltà per la presentazione delle liste, chiede aiuto a Cirino Pomicino. Ora, non ricorda chi è costui? Non ricorda che è un pregiudicato, con gli altri, al centro della campagna “Parlamento Pulito” di Beppe Grillo, che lui aveva sottoscritto? Ma soprattutto non ricorda che fu proprio lui, ancora con la toga, a farlo condannare a Milano? Probabilmente non ricorda o non vuole ricordare e Cirino Pomicino, nel suo ultimo libro, lo sbeffeggia tranquillamente.

Cirino Pomicino indica a Di Pietro uno dei suoi pupilli: Aldo Patriciello. Di Pietro, di conseguenza, si rivolge a Patriciello. Uomo degli affari, dalla sanità al cemento, più volte eletto a furor di popolo, un passato nella DC e nel UDC.

Matton d’oro, quelli del Patriciello. Ma pericolosi. Se ne era resa conto la Procura di Roma che a fine anni 90 aveva confezionato un’inchiesta terremoto che ha visto indagati vertici imprenditoriali (in prima fila la pomiciniana ICLA e la PIZZATOTTI [di cui ci siamo già occupati approfonditamente e di cui si era già occupato anche Di Pietro, e che è legata allo stesso mondo di molti degli ambienti (p2 e pentapartito) già indicati sopra, e che ha a tutt’oggi incarichi e appalti per infrastrutture in Italia), politici (l’ex presidente della Regione Campania Antonio Rastrelli e altri camerati), bancari e ministeriali. Una sfilza di appalti in tutta Italia, ma soprattutto nell’area campana, sarebbero stati al centro di una vera e propria cupola affaristica. L’inchiesta – come sovente capita a Roma – è finita tra le nebbie degli stralci & delle prescrizioni.”

”Un rilievo a parte meritano gli accertati rapporti – scriveva il Gip Otello Lupacchini nel 1999 – tra la ICLA spa e le imprese riconducibili a Patriciello Aldo, socio della SO.GE.CA, destinataria di una fornitura per l’ICLA dell’importo di 24,300 miliardi. La predetta società veniva raggiunta da Comunicazioni della Prefettura di Caserta in data 23 luglio 1996, laddove di evidenziava la sussistenza di tentativi in corso di infiltrazione mafiosa, tendenti ad indirizzare le scelte della società. Di fatto, ad un controllo nel cantiere di Mignano Montelungo della SO.GE.CA., in data 17 gennaio 1997, emergeva che le attività in corso si avvalevano di automezzi riconducibili al CO.V.IN., consorzio volontario inerti di Casagiove, collegato all’organizzazione mafiosa dei Casalesi, secondo le dichiarazioni di Carmine Schiavone”. “Patriciello Aldo – veniva aggiunto nel documento – in qualità di Assessore della Regione Molise, costituisce il fondamentale riferimento per Chianese Vincenzo (ispettore capo al ministero del Tesoro e presidente del collegio sindacale TAV spa, ndr) nella trattazione degli affari che costui gestisce in favore della società S.E.TEC., nella quale risultano interessati lui stesso e il genero, per il conseguimento di lavori relativi alla costruzione di un aeroporto regionale in Molise.”

Ma di questo si occupa anche la Commissione Antimafia , con un rapporto del gennaio 1996 sulla SO.GE.CA.: “Significativa si delinea la situazione della ICLA spa, soggetto che attribuisce lavori all’impresa SO.GE.GA., incaricata della fornitura di materiali per 64 miliardi, dei quali circa 41 mediante forniture da realizzarsi in collaborazione con la CALCESTRUZZI”.

Sui rapporti ICLA – SO.GE.CA. esiste anche un rapporto della Digos di Frosinone, marzo 1997, oltre ad un rapporto dei Ros di Roma del novembre 1998.

La cosa curiosa è che fu proprio Antonio Di Pietro ad indagare sui rapporti intercorsi tra la pomiciniana ICLA e la CALCESTRUZZI del gruppo FERRUZZI.

L’indagine vide anche il lavoro di Giovanni Falcone ad inizio 1991 a seguito di un rapporto su “Mafia e Appalti”.

Nel rapporto veniva dettagliatamente evidenziati i collegamenti di alcune società del mattone nazionali (fra cui la napoletana FONDEDILE, poi passata sotto il controllo dell’ICLA), con alcuni politici e cosche mafiose potenti per il controllo di appalti in mezza Italia e riciclaggio di denaro sporco. Il “ministro dei lavori pubblici” di Cosa Nostra, Angelo Siino, farà riferimento ai lavori per l’Alta Velocità.

Sia Giovanni Falcone che Paolo Borsellino, saltarono in aria pochi mesi dopo, per mano di Cosa Nostra. Si apriva la stagione stragista di Cosa Nostra, conclusasi con la “trattativa” e l’insabbiamento della mafia siciliana, sempre più attiva ma sempre meno visibile e ben protetta (da Corleone al Parlamento, come ben evidenziato nel libro “I Complici” di Abbate e Gomez).

Qualche altro interesse di Patriciello, coincide prontamente con le indagini della magistratura.

La famiglia Patriciello  ha forti interessi anche nella Sanità da anni. Tutto ruota alla loro creatura, la NEUROMED , nata come struttura per malattie neurologiche e poi ritrovatasi convenzionata, a suon di milioni, per oculistica, cardiologia e riabilitazione. L’amministratore delegato, prima le ultime elezioni regionali del Molise, è Mario Pietracupa, eletto nell’UDC. Ed ecco un altro bel conflitto di Interessi miliardario di questa Italia. La NEUROMED può contare su un grande amico di Patriciello, Giovanni Di Renzo, direttore generale della Sanità, della Regione Molise, poi rimosso per inchieste giudiziarie.

Nel 2002 il Tar del Molise blocca la convenzione della ASL 2 di ISERNIA, alla NEUROMED, per l’utilizzo di laboratori di cardiologia e oculistica. Nel 2003 la Regione Molise restituisce questi laboratori e avoca a se la competenza. “La cosa scandalosa – denunciano alla ASL di Isernia – è che la Regione ha dapprima occultato la delibera di Giunta sul bollettino regionale pubblicando un solo rigo con la dicitura ‘trasferimento attività ambulatoriali’, quindi ha omesso di comunicare la decisione proprio alla ASL, che lo è venuta a sapere per caso nel gennaio 2004 quando un suo dirigente parlò con una impiegata di NEUROMED. E fatto ancora più vergognoso è che nonostante lo stop dichiarato dal Tar per le prestazioni non previste dal contratto con la Regione , NEUROMED abbia tranquillamente continuato ad erogarle, ben convinta che la Regione avrebbe poi risolto il tutto”.

Continuano alla ASL di Isernia: “Un altro grosso regalo per NEUROMED è arrivato il 20 settembre 2003, sotto forma di determina, la numero 93, siglata dal Direttore Generale e amico Di Rienzo. (…) In sostanza Di Renzo ha attribuito senza uno straccio di istruttoria l’applicazione del codice di disciplina ospedaliera n. 75, ossia l’alta specialità per l’attività riabilitativa. Perché possa essere concesso questo codice, che consente di triplicare i rimborsi per i 56 posti letto che NEUROMED assegna a questa branca, l’istituto interessato dovrebbe essere dotato di un reparto di ortopedia, cosa di cui NERUOMED non dispone. Oppure dovrebbe stipulare un contratto con un ospedale vicino fornito di tale reparto, cosa che la clinica dei Patriciello non ha mai fatto”. Di qui l’apertura dell’inchiesta da parte della magistratura.

Anche la ASL 3 di CAMPOBASSO non è così lontana. Due casi emblematici.

Siamo nel 2004, quando due medici sono stati “comandati” da una struttura privata, NEUROMED, presso la ASL. All ’Agenzia Sanitaria Regionale, ARAN, commentano così: “Una cosa inaudita e fino ad oggi mai verificatasi!”.
, la cui famiglia è potente soprattutto nella terra d’origine, nel casertano, a Santa Maria di Capua Vetere (ne avevamo già parlato per un eletto in parlamento (Americo Porfidia).

Chi sono questi due medici “inseriti” dalla ASL dalla società dei Patriciello? Vediamo.

Florindo Magnifico. Ha un fratello che è dirigente della Regione Molise, un cognato è fra i tre firmatari per conto della ASL del famoso “comando”. A dirigere la ASL 2 allora era Sergio Florio, numero uno al Pascale di Napoli da cui è stato allontanato dopo polemiche. Adesso il Florio, legato al presidente della Giunta Regionale molisana, Iorio, è al vertice dell’ASL UNICA del Molise.

Qui, anche, sono diverse le inchieste ed i rinvii a giudizio della Procura di Campobasso, da quelle per alcuni interventi chirurgici in day hospital ma registrati (e pagati) come ricoveri ordinari, a quelli per truffa, malversazione ai danni dello Stato, abuso d’Ufficio a carico del Di Renzo, del presidente di NEUROMED Erberto Melaragno, di Mario Pietracupa – ex amministratore delegato – e di Aldo Patriciello. Nella richiesta di rinvio a giudizio di Patriciello, il PM Fabio Papa, afferma tra l’altro: “Aveva intravisto nella struttura, realizzata con un corposo finanziamento della collettività, un goloso obiettivo sia per confermare ed espandere l’ascesa a polo sanitario privato del suo istituto, (NEUROMED, ndr) sia per confermare, grazie alla popolarità di queste iniziative, evidentemente sempre contrabbandate come possibilità di posti di lavoro e di sviluppo locale, la propria ascesa di politico molto votato, sia per l’ovvio lucro che poteva derivare”.

I tre, Patricello – Di Renzo – Pietracupa -, sono in attesa dell’esito di un altro rinvio a giudizio per il pagamento privilegiato a NEUROMED per 4 milioni di euro.

Ma i Patriciello non si fermano e tornano nella terra che gli portò le prime fortune con le cave, il Casertano. Qui acquistano la VILLA DEI PINI di Piedimonte Matese. Anche su questo affare la Procura di Santa Maria Capua Vetere, sembra aver aperto già un nuovo fascicolo.

…e l’Avvocato di Di Pietro

Sergio Nicola Aldo Scicchitano, calabrese di peso, oltre che legale di Antonio Di Pietro (per cui nel 2001 si era già candidato al Senato) è anche Consigliere di Amministrazione dell’ANAS spa (quella con cui lavora il Ministero retto da Antonio Di Pietro), liquidatore giudiziale C.P. FEDERCONSORZI, presidente della LAZIO SERVICE spa e coadiutore giudiziario Amministrazione straordinaria GRUPPO CIRIO. Così si legge nella sua carta intestata della missiva inviata, via fax, alla Voce della Campania (clicca qui), a cui però non è seguita la fornitura pubblica della documentazione citata dal legale di Tonino.

Nella carta intestata l’Avvocato si è dimenticato di indicare qualche cosa. Anche lui come molti dell’Italia dei “Valori” ama gli affari. Ed ecco che si riempiono questi vuoti. Anche qui, come per il resto delle notizie riportate nel presente “dossier” volto solo a raccontare fatti!, lo studio è tratto dalle Visure Camerali pubbliche. Ed allora…

Sergio Nicola Aldo Scicchitano si è dimenticato di citare la sua importante società VIP SPORTING CLUB srl. Società in cui divide la proprietà con Del Pasqua Paola, Nistico’ Sostene, Tarizzo Mario. L’amministratore è Nistico’ Sostene. La Società , costituita nel 1998 e registrata nel 1999, ha partecipazioni nel CONSORZIO PER IL PROGRAMMA TURISTICO DEL SOVERATESE E DELLE SERRE CATANZARESI.

Questo CONSORZIO, dove si contano moltissime partecipazioni, oltre alle agevolazioni previste e concesse, i finanziamenti pubblici.

Ecco quanto risulta dalla Visura tra i soci e altri titolari: Strangis Giuseppe (1944), IES EC snc, IMIS srl, FLORA srl, IGEA srl, Paparo Francesco (1965), GAL Serre Calabresi soc.cons. arl, Potente Franco (1959), TEKNES EUROPA srl, Fusto Domenico (1963), EDEN TURIST sas di Russo Maria Teresa e Giusepe & C, Iamello Francesco (1978), Iamello Santina (1976), Migisano Giovanni (1958), Confraternita SS Rosario, Migliarese Serafino (1963), Spadea Roberto (1947), Parrocchia S.Maria Catt. Maggiore, Lentini Francesco (1948), Russomanno Teresina (1950), Santoro Francesco (1967), Staglianò Giuseppe (1953), LOBARDO COSTRUZIONI srl, Campa Thomas John (1969 cittadinanza statunitense), IOZZO srl, Battaglia Antonio (1951), Ranieri Maria Giovanna (1959), Fraietta Antonio (1974), Pileggi Alfredo (1958), Chiesa S.Rocco, Migliaccio Franca (1956), Candiloro Giampaolo (1963), Morello Elisabetta (1923), SALAPADU’ srl, Barbieri Pietro (1952), Epifani Andrea (1937), Sgotto Luciana (1964), Procopio Antonella (1957), MAXEN srl, Cirillo Gerlinden Patricia (1966 cittadinanza tedesca), Valeo Giovanni (1965), Blandini Alfonso (1931), Danieli Luciano (1949), Ranieri Carmelo (1958), Anellino Concetta (1962), GINPOLIS di Pisano Maria Anna & C sas, Pizzi Domenico (1960), Smeraldi Achille (1973), GEFIS srl, Tinello Atonia (1936), DIAGNOSTICA NAUSICAA srl, Sinopoli Saverio (1958), TERRE ALTE srl, GA.LA. sas di Citraro Maurizio & C, Regenass Anita (1964 cittadinanza svizzera), Samà Pasquale (1944), Sgrò Orlando (1973), Pascali Luigi (1913), TOURINVEST srl, Sgrò Sergio (1970), Sgrò Giovanni (1964), SOCIETA’ MERIDIONALE AZIENDALE (SMA) di Guido Paola – Guido Simona & C sas, NETTUNO WIND & SAIL CHARTER di Guido Vera & C sas, ATTIVITA’ TURISTICHE CALABRESI, Gallelli Domenico (1964), ASSOCIAZIONE SVILUPPO TERRITORIO, Staglianò Antonio (1951), Denarda Salvatore (1959), Galati Manuel (1974), Grassi Paolo (1942), Proganò Rocco (1961), SERVICE FOOD srl, Mammone Aldo Natale (1947), Giorgio Teresa (1958), CALABRIA PRODUCE sas di Bova Carlo, Truglia Antonio (1977), Buttiglieri Romualdo (1956), Pelaggi Anna (1949), Bova Giovanni (1971), Lentini Vittorio Antonio (1964), Rosanò Angela (1972), Tropeano Domenico (1950), SNC IL VELIERO di Corosiniti Grazioso e Corosiniti Giuseppe, Pascali Sandra (1966), LA CASA DELLA PASA FRESCA di Palcido Migali sas, M.P.K. di Roverati Tommaso & C sas, Galati Nicola (1958), Bova Rosa Maria (1966), TA.CO sas di Concetta Tavano & C, Bova Paolo (1969), Chiesa Maria S.della Grazia, Fabiano Vincenzo (1981, cittadinanza svizzera), ZAGARE sas di Sestito Francesco & C, COOP CONCA D’ORO srl, Circosta Irene (1974), BONTA’ DELLE SERRE CALABRESI soc.coop.consort. arl, Vitaliano Pietro Salvatore (1967), Macrina Giovanni Bosco (1953), Quaranta Giuseppe (1974), POLDO soc. coop, Piattelli Giovanni (1949), Montesano Giuseppe (1929), VERDEORO soc. coop. Agricola, STELLAMARIS soc. coop, Commodoro Antonio (1961), Gatto Maria Speranza (1930), Samà Vittoria (1947), MAURIZIO RUBINO sas, PETRUSO DI BIASE MARIA TERESA, GIANNINI NICOLA & C snc, Laugelli Pietro (1963), CARELLO snc di Maida Dott. Antonio & C, LA GIARA snc di Iamello R. e Rosanò M. & C, Fiumara Francesco (1969), AZIMUTH di Giorla G. & C sas, Ruffolo Rita (1958), LA PALAPA di Vacca Armando & C sas, PIRAMIDE snc dei fratelli Riccio Nicola e Franco, PEGASO di Nicola Riccio & C sas, Battaglia Barbara (1947), PASQUINO CALCESTRUZZI di Passante Domenico & C sas, Ranieri Umberto (1958), Palleria Rocco (1975), AZZURRA srl, Roverati Tommaso (1966), OVERSEAS srl, Troiano Vincenzo (1950), Ferri Maria Barbara (1963), INV.I.TUR. snc di Ferrara Italo e Sacchi Maria Giovina, SADA srl, Richetta Maria (1951), Fodaro Domenico Antonio (1947), Manni Federico (1957), Manni Annunziata (1959), BOTTERIO 2001 srl, HOTEL IL PESCATORE d’Aiello Giuseppe &C sas, PAGUS srl, LA PERGOLA srl, Barbuto Francesco (1958) Costa Domenico (1958), De Barberis Francesco (1953), FINVEST FINANZIARIA IMMOBILIARE D’INVESTIMENTO srl, PELINGA srl, Pirro Salvatore (1950), Esposito Giovanni (1930), Ritocco Roberta (1967), Mungo Anna Maria (1969), AZIENDA AGRICOLA DEI FRATELLI PIRRITANO snc, LA S.M .E.D. di Perronace Davide & C a.s., LA TAZZA D ’ORO di Monea Lorenzo & C sas, ESTATE srl, POGGIO DE’ NORMANNI srl in LIQUIDAZIONE, BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI MONTEPAONE, TURINVEST srl, Passafaro Giulio (1968), GESTIONI MARE srl, VIP SPORTING CLUB srl.

IL CONSORZIO per il TURISMO che vede tra i partecipanti (beneficiari delle agevolazioni e dei finanziamenti) soggetti tra i più disparati come ad esempio quella per la Fecondazione Assistita (idea vacanza?), e molte che avevano già ricevuto i finanziamenti della 488, vede come Amministratore il Presidente del Consoglio Direttivo MUZZI’ Mario di Catanzaro (1943), come Vice Presidente SAINATO Pietro di Locri (1949), gli altri Consiglieri sono: PAPARO Francesco di Catanzaro (1965), MAZZA Domenico di Catanzaro (1949), IOZZO Mario di Catanzaro (1941).

Il primo dei soci (abbiamo rispettato l’ordine della Visura), Giuseppe Strangis, è stato rinviato a Giudizio a Catanzaro, quale presidente di altro Consorzio, Corasoll, insieme a Giovanni Dima (ex assessore all’agricoltura in Regione, di AN), al termine di un indagine del GICO per appropriazione indebita di fondi pubblici e voto di scambio.

Crediamo che l’Avvocato Scicchitano abbia, quindi, molto impegno in questa attività, visto che in terra di Calabria e della Basilicata è difficile poter competere con certi “gruppi di potere” che vedono uniti politici-imprenditori-mafia ma anche avvocati e magistrati, proprio nel settore dei finanziamenti nazionali ed europei e per i villaggi turistici, ed in generale nella promozione e nelle strutture turistiche, come evidenziato dalle recenti indagini, con arresti eccellenti e rinvii a giudizio a Vibo e Potenza-Matera.

Questo, sicuramente gli da molto da fare. Come ad esempio gestire la più grande azienda di precariato del Lazio, la Lazio Service , di cui è Presidente. (Ma Di Pietro non era contro il precariato?, mah).

Certamente con la sua esperienza nell’ANAS conosce bene certi meccanismi di infiltrazione mafiosa e quindi possiamo stare tranquilli. Va sempre tutto bene! In questa nuova Italia, di “Valori“ e “nuova politica”.

PS 1

Qualcuno potrebbe dimenticare che l’Italia dei Valori, con i suoi gruppi Parlamentari, ha assunto una posizione “in difesa delle prerogative dei deputati condannati e indagati per mafia”. Infatti ha votato contro sia alla proposta di legge dell’On. Angela Napoli sia dell’Emendamento dei Comunisti Italiani che volevano proibire l’accesso in Commissione Antimafia a condannati ed indagati per reati contro la pubblica amministrazione e reati di mafia. L’avreste mai detto?

E secondo voi può essere vero che in Calabria, la “terra prediletta” di Prodi ma anche di Di Pietro (oltre che del suo legale Scicchitano che è stato ripetute volte negli anni chiamato come legale dalla Regione Calabria – con quella siciliana - responsabile dell’intasamento degli uffici giudiziari) viste le sue numerose visite “guidate” dall’Aurelio Misiti, l’Italia dei Valori, con il suo Consigliere Regionale Maurizio Feraudo, anche membro della Commissione Regionale sulla Mafia, NON ha mai chiesto le dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio Regionale con una maggioranza (trasversale) di eletti inquisiti-imputati-rinviatiagiudizio-condannati-prescritti-oagliarresti?

Certamente che si!

Non solo non ha mai chiesto le dimissioni, ma si è organizzato benissimo per lavorare al meglio, assumendo un componente del Coordinamento Regionale dell’IDV in Regione, Lizzano Alessio (1965) e chiedendo, dopo la litigata tra Tonino e Beniamino, di sostituire l’Assessore Donnici che non rappresentava più l’Italia dei “Valori” in quella “limpida” giunta. Ma non è tutto, l’impegno per la legalità del Consigliere Regionale calabrese Feraudo è strepitosa, forse perché è anche membro della Commissione Regionale sulla Mafia. Non solo continua a votare a sostegno della Giunta Loiero, ma con una sanità controllata dalla ‘ndrangheta (esempi? Asl di Locri e Asl di Vibo – sembra in arrivo anche una pesantissima Relazione anche su quella di Melito Porto Salvo!) e lui, l’esponente locale del “moralizzatore” ha tuonato, nell’aprile 2006, quando la Relazione Basilone era conosciuta solo per qualche piccola indiscrezione: “Occorre andare in fondo”. Peccato che da allora non ne abbia più parlato! Sulla Sanità a Vibo Valentia, diceva nel 2006, che “laddove dovesse confermarsi l'impianto accusatorio… preoccupano e destano sconcerto” aggiungendo “Il quadro che ne sta venendo fuori…conferma che l'azione dell'esecutivo regionale, improntata sul rigore e sull'affermazione della legalita' ad ogni livello, e' il presupposto ineludibile per garantire alla Calabria quello sviluppo che in passato e' stato negativamente compromesso e condizionato da simili episodi" (AGI 23.05.2006).

I risultati raggiunti dalla Regione li vede solo lui, noi ne avevamo già parlato e se vuole può darci un occhio.

Infatti: la Asl di Locri è stata Commissariata dal Governo Centrale (non dalla Regione che approvava puntualmente i Bilanci che non esistevano o erano tarrocati!) ed è di pochi giorni fa la notizia che a Vibo Valentia la ‘ndrangheta controllava, come a Locri, la Asl. Notizia contenuta in un ennesima Relazione dei reparti investigativi dello Stato.

La Regione dove era? E poi non gli hanno detto che il 90% delle strutture sanitarie pubbliche della sua regione sono state trovate, pochi mesi fa, con gravissime irregolarità dai NAS? Probabilmente nessuno gli ha detto nulla, e probabilmente, quindi, non sa nemmeno che ogni anno approva stanziamenti di fondi (quest’anno un aumento di stanziamento di oltre 100milioni di euro) che vengono mangiati dalla ‘ndrangheta anziché servire per le cure e la tutela della salute dei suoi concittadini?

Nessuno gli ha spiegato che è la Regione l’Ente che nomina i Dirigenti delle ASL e che controlla Bilanci e le gestioni? Ma chi lo ha mandato? Ahh, scusate, Di Pietro.

SCANDALI DALL'EMILIA ALLA CALABRIA.

Scandali dall'Emilia alla Calabria Pd scosso da inchieste e arresti. Bologna indagati i vertici della Provincia, a Cosenza due consiglieri ai domiciliari. A Torino Fassino sotto attacco: "Ha svenduto agli Agnelli una mega-area pubblica", scrive Massimo Malpica su “Il Giornale”. Venti di burrasca giudiziaria si abbattono sul Pd a una manciata di giorni dalle primarie, e soffiano anche su quell'Emilia dove i bersaniani avevano appena finito di sospirare per l'assoluzione del presidente regionale Vasco Errani, fedelissimo del segretario. Nei guai, stavolta, finisce Beatrice Draghetti, presidente della Provincia di Bologna, indagata insieme al suo vicepresidente Giacomo Venturi e all'ex assessore al Bilancio Maria Chiusoli. Indagati anche l'ex sindaco di Bologna, Flavio Delbono, e l'ex assessore comunale al Bilancio Villiam Rossi. Tutti, secondo i pm, responsabili di abuso d'ufficio in concorso «per aver procurato al Consorzio cooperative costruzioni (Ccc) un rilevante vantaggio patrimoniale», relativamente a un appalto pubblico da 90 milioni di euro. Gli amministratori del Pd sono accusati di aver permesso alla coop di incassare i finanziamenti per progettare e realizzare il people mover, monorotaia che collegherà stazione e aeroporto, trasferendo il «rischio d'impresa» all'agenzia di trasporto pubblico bolognese, l'Atc. Ma se in Emilia piovono magagne giudiziarie sul partito di Bersani, il tempo è grigio anche in Calabria. A Cosenza ieri sono stati arrestati dalla Dia due consiglieri provinciali del Pd: l'ex sindaco di Rende Umberto Bernaudo e l'ex assessore ai lavori pubblici dello stesso comune Pietro Ruffolo, quest'ultimo già indagato e arrestato nel 2010 nell'ambito di un'altra indagine per la quale, rinviato a giudizio, ha scelto di «autosospendersi» da assessore provinciale. I due esponenti del Pd - considerati vicinissimi al capogruppo regionale del partito, Sandro Principe - secondo la Dda di Catanzaro avevano finanziato e poi capitalizzato con 8 milioni di euro una cooperativa di servizi per «garantire occupazione e pagamento di uno stipendio mensile a soggetti legati da vincoli di parentela o contiguità a esponenti apicali del clan Lanzino». In pratica la coop Rende 2000, ribattezzata Rende Servizi dopo essere divenuta a partecipazione comunale grazie ai due politici e a 8 milioni di fondi pubblici, assicurava uno stipendio al luogotenente del clan, Michele Di Puppo, allo stesso boss della 'ndrangheta Ettore Lanzino e ad altre persone affiliate o vicine all'associazione mafiosa, in cambio dell'appoggio elettorale in occasione delle consultazioni del 2009, vinte appunto dal centrosinistra. A incastrare i due esponenti del Pd una serie di intercettazioni telefoniche dalle quali è emerso anche «l'utilizzo dei dipendenti (della cooperativa, ndr) per lo svolgimento della campagna elettorale di Bernaudo e Ruffolo». Per il gip, che ha escluso l'aggravante del metodo mafioso (la Dda ha impugnato il provvedimento) «l'unica funzione economica» della coop era «assicurare una retribuzione» ai dipendenti vicini al clan Lanzino. Intanto a Torino Piero Fassino è al centro di una polemica, priva al momento di risvolti giudiziari, per la cessione in concessione alla Exor di John Elkann dei 180mila metri quadri della Cascina Continassa per 10,5 milioni di euro, 0,58 euro al metro quadrato. L'area, attigua al nuovo stadio della Juve, dovrebbe diventare il centro d'allenamento della squadra, ma sono previsti anche 33mila metri quadri di metrature destinate all'edilizia: cinema, centro benessere, hotel e case di lusso. Ma il via libera in aula è stato travagliato: tre consiglieri del Pd si sono astenuti, uno ha votato contro. E Oscar Giannino, torinista oltre che giornalista, ha urlato allo scandalo: «Regalo immondo».

ANNA CHE SOGNA IL CSM AZZOPPATA DAL MARITO INQUISITO.

Non solo. Anna, l'ex pm che sogna il Csm azzoppata dal marito inquisito. Costretta a lasciare il Parlamento dopo 25 anni, la Finocchiaro punta alla poltrona prestigiosa, ma la sua foga moralizzatrice è meno credibile dopo i guai del consorte, scrive Giancarlo Perna su “Il Giornale”. Peggio di così non poteva andare ad Anna Finocchiaro nell'affannosa ricerca di una poltrona sostitutiva di quella che perderà nel 2013. La piacente senatrice del Pd, da sei anni capogruppo a Palazzo Madama, dovrà infatti lasciare il Parlamento nel quale piantò le tende cinque lustri fa. Vi arrivò trentaduenne facendo strage di cuori con la sua prorompente - ma distante - bellezza all'antica, se ne va cinquantasettenne statuaria e severa com'era venuta, ma più furbastra e rotta ai sotterfugi di Palazzo. Con sette legislature alle spalle, Anna ha stracciato il limite di tre fissato dallo statuto del partito. Né può sperare in un'eccezione per i suoi meriti, poiché due calibri più grossi e di pari anzianità parlamentare, Walter Veltroni e Max D'Alema, hanno deciso di ritirarsi, rinunciando a trattamenti di favore. Risoluzione che l'ha spiazzata togliendole ogni illusione di rivestire il laticlavio ancora qualche annetto, giusto per toccare la sessantina, spruzzare di grigio i folti capelli e tornare pacificata nella sua Catania profumata di zagare. L'improvvida alzata d'ingegno dei due dioscuri, è stato il primo ostacolo contro cui ha cozzato la sua ferma volontà di sedere comunque su una bella poltrona nei prossimi anni. Il secondo intoppo è più personale. Sfumata la possibilità di Palazzo Madama, Anna ha pensato di trasmigrare al Csm quale membro eletto dal Parlamento. Si garantirebbe quattro anni di auto blu, un buon appannaggio e il presentat'arm del piantone all'ingresso. Come ex magistrato, ne ha la capacità tecnica; come onorevole di lungo corso, la caratura politica. Per la riuscita del piano, si è affidata a Pier Luigi Bersani, segretario del partito e maestro di trattative sottobanco. È il suo faro da quando, Max D'Alema, l'idolo d'antan, si è sfarinato. Tutto pareva filare liscio finché, a fine ottobre, la magistratura catanese le ha rinviato a giudizio il marito, Melchiorre Fidelbo, per abuso di ufficio e truffa. Inquietante da parte degli ex colleghi l'incriminazione del congiunto in coincidenza con la candidatura al Csm. Segnale di non gradimento o atto dovuto non rinviabile? Chissà. E ancora: è opportuno per una signora che ha sotto processo l'amato consorte (Fidelbo e Finocchiaro sono coppia affettuosa e affiatata) l'ingresso nell'organo di controllo dei giudici o, invece, la nomina rischia di apparire una pesante interferenza nella causa? È un brutto pasticcio, senatrice, e non le sarà facile decidere appropriatamente alla luce della sua storia. Ricordo, da fervido ascoltatore delle sue intemerate in tv, quante volte con la sua voce dalle profonde risonanze baritonali ha condannato a spada tratta chiunque sia stato sfiorato dal sospetto. Ferrigna e impietosa, ha giudicato il ministro Bossi, caduto in disgrazia, «incompatibile col ruolo che ricopre»; ha ingiunto a Tremonti di «dimettersi», per un presunto affitto di favore; su Claudio Scajola, che già si era dimesso, ha voluto egualmente infierire rilevando che la situazione «era insostenibile»; per tacere dei reiterati liscio e busso al Cav, tra epiteti («nano della politica») e anatemi («deve farsi da parte, è incompatibile»). Quindi, per tornare al suo dilemma se insistere o desistere dal Csm, dovrà ora mostrarci se la sua implacabilità, finora applicata ad altri, vale anche per sé. L'imputato Melchiorre è un bravo ginecologo, un ottimo compagno e il primo fan della moglie. Incoraggiò Annuzza a entrare in Parlamento nonostante fosse incinta e ha accudito la prima quanto la seconda bambina mentre lei si faceva strada a Roma. Per un quarto di secolo è rimasto pressoché invisibile finché, un annetto fa, è balzato alle cronache per avere ottenuto - in favore di Solsamb, srl cui è cointeressato - un appalto regionale di 1,7 milioni per informatizzare il presidio sanitario di Giarre. Forse è stato preso di mira a causa della moglie illustre, fatto sta che il giorno dell'inaugurazione dei lavori un tizio inalberò un cartello con la scritta: «Anna Finocchiaro, vergognati». Con un balzo, lei gli fu addosso. «Vergogna di che?», sibilò. La scena fu ripresa, un periodico di Catania pubblicò il video, Finocchiaro minacciò querele e la faccenda divenne pubblica. La Regione mandò ispettori che sentenziarono la violazione delle regole e l'appalto fu revocato. Emerse che, per ottenerlo, Melchiorre avrebbe fatto indebite pressioni e aleggiò il sospetto - maligno e non provato - che la potente consorte ci avesse messo lo zampino. Di qui, il processo e l'antipatica impasse che ora costringe Annuzza a rivedere i programmi futuri. La senatrice è senza dubbio un'ambiziosa carrierista che cela le mire personali col paravento del femminismo. Non rivendica gli onori per sé - sostiene - ma per affermare il diritto della donna a raggiungere i massimi traguardi che la lobby maschile le preclude. «Il fenomeno - ha sostenuto - si chiama soffitto di cristallo: le donne vedono le cariche più alte, ma un soffitto di cristallo impedisce loro di salire». Finocchiaro parla per esperienza. È stata infatti candidata alle supreme sfere, ma poi lasciata con un palmo di naso da un uomo. Nell'aprile 2006, doveva diventare ministro dell'Interno di Prodi. La spuntò invece Giuliano Amato. Il mese successivo, circolava il suo nome come capo dello Stato, dopo che Prodi aveva bofonchiato: «Ci vuole un segno di novità. Magari una donna». Al Quirinale salì invece Napolitano. Lei, che si era illusa, dichiarò indispettita al Corsera: «Un uomo col mio curriculum l'avrebbero già nominato presidente della Repubblica». Esagerava. All'epoca, il suo curriculum erano cinque legislature da ciompo e un ministero senza portafoglio (Pari opportunità) nel 1996. In realtà, è stata più vittima di se stessa che della maschia prepotenza. Esemplare la vicenda della candidatura nel 2007 alla segreteria del nascente Pd. Nell'ultimo congresso dei Ds a Firenze, maggio 2007, Finocchiaro fece un divino discorso, interrotto da ventuno applausi. Aveva il partito in pugno e le vele al vento. D'Alema, suo mentore, la benedisse: «Sei tu la mia candidata» alla guida del futuro Pd. Invidiosetta ma profetica, la collega Livia Turco osservò acidula: «D'accordo su una donna. Ma non strumentalizzata dagli uomini». Annuzza fece spallucce e, poiché su Max avrebbe messo la mano sul fuoco, si cullò nell'attesa dell'incoronazione. Era ancora impalata alla promessa, quando in giugno Fassino e D'Alema, in combutta con l'interessato, si accordarono su Veltroni capo del Pd. Finocchiaro seppe del bidone a cose fatte. Non sbatté il pugno sul tavolo, né sul grugno di D'Alema. Si accucciò all'istante, prona e obbediente, con il tipico riflesso comunista di soggezione al capo. Ecco perché, a furia di inghiottire rospi, è ancora inappagata e tuttora ingorda di pubbliche prebende. A noi pagare il conto delle sue frustrazioni.

SPRECHI ED ABUSI E C’E’ CHI MUORE DI FAME

DISASTRO PD

Quarantatrè milioni per una bonifica che non c'è: indagato Bassolino. Inchiesta sulla più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa, scrive “Libero Quotidiano”. L'ex governatore della Campania si era assunto degli obblighi cui sapeva fin dall’inizio di non poter far fronte sprecando di fatto il denaro. Assunzioni senza concorso pubblico, segretarie di partito che lavorano a Montecitorio continuando a essere pagate dalla Regione, e ancora governatori sospettati di loschi affari nella sanità regionale. Non c'è giorno che la cronaca giudiziaria non associ i nomi di illustri personaggi del centro sinistra a reati quali l'abuso di ufficio o lo spreco di denaro pubblico. Zaia Veronesi, segretaria storica di Pierluigi Bersani, era dipendente in regione Emilia Romagna fino al 2010, ma aveva ricevuto un incarico per tenere i rapporti con le istituzioni centrali e con il Parlamento: secondo l'ipotesi accusatoria non vi sarebbero prove delle prestazioni lavorative per la Regione da parte della donna per circa un anno e mezzo nel periodo compreso tra il 2008 e il 2009. L'ex sindaco di Napoli Rosa Russo Iervolino è stata indagata per 215 assunzioni senza pubblico concorso nella società in house del Comune "Napoli Sociale". Il Pm ha chiesto oggi 20 mesi di carcere per Vendola che sarebbe intervenuto, in qualità di presidente della Puglia, sulla dirigente della Asl premendo per la riapertura dei termini di un concorso a primario ospedaliero. Ultima in ordine cronologico la notizia che anche l'ex governatore Antonio Bassolino è indagato per danni per le casse dello Stato per complessivi 43 milioni di euro. Tanto è costata ai cittadini la più volte annunciata bonifica del litorale flegreo e dell’agro-aversano, che la Regione Campania, la cui giunta all’epoca era presieduta da Antonio Bassolino, affidò alla Jacorossi imprese spa. L’operazione "Nimby" - acronimo inglese a significare "non nel mio giardino" - ha portato alla luce un caso di spreco di denaro pubblico legato al contratto stipulato nel 2002 tra la società Jacorossi, Regione e il Commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque della Regione Campania per la realizzazione del progetto "piano per la gestione degli interventi di bonifica e rinaturalizzazione dei siti inquinati del litorale domizio-flegreo e agro versano". Il vice procuratore generale della Corte dei Conti campana Pierpaolo Grasso ha potuto rilevare che l’affidamento dell’appalto era intervenuto non solo senza gara pubblica e in assenza della prevista certificazione Soa - necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico - ma anche senza tener conto dei pareri negativi espressi dai competenti uffici ministeriali e dall’Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente, per i quali il progetto presentato dalla Jacorossi risultava carente di informazioni necessarie. L'appalto del valore complessivo di oltre 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l'impiego di 380 lavoratori socialmente utili fu comunque affidato a questa società. Inoltre Commissariato di Governo e Regione, committenti del contratto, secondo l’indagine della procura della Corte dei Conti regionale si erano assunti obblighi cui sapevano fin dall’inizio di non poter far fronte, sia per i tempi di esecuzione troppo stretti, sia per le proteste delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il mancato rispetto degli obblighi contrattuali ha comportato conseguenze negative per i profili finanziari, costringendo il committente a sostenere costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e a non utilizzare i lavoratori socialmente utili, ai quali, tuttavia, ha continuato a erogare retribuzioni. Diversi contenziosi sorti in sede civile tra Jacorossi Spa, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario, nel quale, oltre a dover riconoscere, per le proprie inadempienze, la somma di 21,8 milioni di euro quale risarcimento dei danni subiti dalla Spa, è stato inspiegabilmente disposto un ulteriore affidamento alla stessa società dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Nel danno erariale quantificato, dalla procura contabile, circa 22 milioni di euro sono proprio il corrispettivo del risarcimento danni riconosciuto alla Jacorossi Spa, 17 milioni circa i maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti presso terzi e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica.

La Faccenda vista da sinistra.

Nei guai in tutto 17 tra politici e tecnici: tra questi anche l'ex ministro Bordon e l'intera giunta dell'epoca. L'inchiesta della Corte dei Conti ha fatto emergere alcune irregolarità nelle procedure per la bonifica del litorale domizio ed agro. Così scrive "Il Fatto Quotidiano". Ci sono anche l’ex governatore della Campania Antonio Bassolino, l’ex ministro dell’Ambiente Willer Bordon e l’ex sottosegretario al Lavoro Raffaele Morese tra i 17 politici e tecnici ai quali la Corte dei conti della Campania chiede la restituzione di oltre 43 milioni di euro di danno erariale. La vicenda è quella delle bonifiche del litorale domizio ed agro aversano affidate nel 2002 alla Jacorossi Imprese spa attraverso un accordo stipulato tra l’azienda, la Regione Campania ed il commissariato di Governo per l’emergenza bonifiche e tutela delle acque. L’invito a dedurre della Corte dei Conti è stato inviato anche agli ex sub commissari per l’emergenza rifiuti Angelo Vanoli e Arcangelo Cesarano e all’intera giunta all’epoca dei fatti: l’ex vice presidente della Regione Campania Antonio Valiante e gli ex assessori Adriana Buffardi, Vincenzo Aita, Gianfranco Alois, Luigi Gesù Anzalone, Teresa Armato (attualmente parlamentare del Pd), Ennio Cascetta, Maria Fortuna Incostante (anche lei parlamentare del Pd), Federico Simoncelli, Marco Di Lello, Luigi Nicolais (oggi presidente del Cnr) e Rosalba Tufano. Le indagini condotte dal nucleo di polizia tributaria della Guardia di finanza di Napoli, confluite nel procedimento del vice procuratore generale della Corte dei conti Pierpaolo Grasso, hanno fatto emergere anomalie e incongruenze nei contratti, nelle liquidazioni economiche, nell’impiego degli ex lavoratori socialmente utili. Irregolarità che si sarebbero tradotte in un salasso per le casse pubbliche. L’affidamento dell’appalto avvenne senza gara pubblica e in assenza della certificazione Soa, necessaria a comprovare la capacità tecnica ed economica dell’impresa per l’esecuzione dell’appalto pubblico. Inoltre il contratto sarebbe stato concluso nonostante i pareri negativi degli uffici ministeriali e dell’Anpa (l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente), perplessa sulle carenze del progetto. Alla Jacorossi venne affidato un appalto di 117 milioni di euro per la progettazione e l’esecuzione degli interventi di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale dei siti del litorale domitio flegreo e dell’agro aversano attraverso l’impiego di 380 lavoratori socialmente utili. Ma secondo gli inquirenti era lampante sin dal momento della sottoscrizione che le condizioni del contratto erano impossibili da rispettare: tempi di esecuzione troppo ristretti, forti opposizioni delle comunità locali all’apertura di nuovi siti. Il commissariato contestava all’impresa i continui ritardi, l’impresa li imputava al mancato reperimento da parte del commissariato delle discariche necessarie allo smaltimento dei rifiuti speciali. Così sono stati sostenuti costi non preventivati per lo smaltimento dei rifiuti presso impianti di imprese terze e non sono stati utilizzati gli “lsu”, che però hanno continuato a riscuotere gli stipendi. Prima di finire in cassa integrazione. I contenzioni sorti in sede civile tra la Jacorossi, il Commissariato alle Bonifiche e la Regione Campania si sono conclusi nel 2007 con la stipula di un accordo aggiuntivo-transattivo al contratto originario. La Jacorossi ha riscosso un risarcimento danni di quasi 22 milioni di euro e persino un ulteriore affidamento dei servizi di asporto rifiuti e bonifica. Alla cifra di 43 milioni di danno erariale si arriva sommando a questi 22 milioni di euro, altri 17 milioni circa quali maggiori costi sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti in altre aziende e circa 4 milioni di euro per quanto pagato dall’Inps a titolo di cassa integrazione ai 380 lsu nei periodi di fermo delle attività di bonifica. Negli anni scorsi la vicenda Jacorossi fu oggetto anche di un’inchiesta della Procura di Napoli che accese un faro sulle infiltrazioni camorristiche nei subappalti delle bonifiche. Il 12 ottobre 2009 i carabinieri del Noe guidati da Sergio De Caprio, il “capitano Ultimo” che catturò Toto Riina, sentirono a Napoli il pentito Gaetano Vassallo, l’imprenditore che dal 1987 al 2005 ha smaltito scorie tossiche sul territorio campano per conto dei clan. Il “ministro dei rifiuti” del boss Francesco Bidognetti affermò di sapere “che la Jacorossi aveva ottenuto la grande commessa pubblica grazie ad aderenze politiche. Di suo so per certo che non effettuava alcun lavoro ma si limitava a distribuire i lavori tra più ditte. In sede locale (omissis) la distribuzione avveniva sulla scorta delle conoscenze e del vincolo camorristico”. L’inchiesta penale, che coinvolse tra gli altri Bassolino e l’ex prefetto di Napoli Alessandro Pansa, entrambi in qualità di ex commissari all’emergenza rifiuti, oltre ai vertici romani della Jacorossi, si concluse con l’archiviazione. Mentre quella contabile, che ha toccato altri soggetti e ha contestato altri tipi di responsabilità, è andata avanti sino alla citazione in giudizio per 43 milioni di euro.

Bassolino. Non è la prima volta che succede.

Inchiesta rifiuti a Napoli, indagato Bassolino. Arrestati prefetto ed ex vice di Bertolaso. Le misure cautelari sono state prescritte per 14 persone, tra cui Marta Di Gennaro, ex vice del capo della Protezione Civile e il prefetto Corrado Catenacci. L'accusa è di aver consentito lo sversamento di percolato in mare scrive “ Il Fatto Quotidiano” Sono nomi di spicco quelli coinvolti nell’inchiesta sui rifiuti a Napoli che in mattinata ha portato all’arresto di Marta Di Gennaro, ex vice di Guido Bertolaso alla Protezione Civile, e del prefetto Corrado Catenacci, ex commissario ai rifiuti della Regione Campania. E tra le 38 persone indagate risultano pure l’ ex presidente della Regione Antonio Bassolino, l’ex assessore regionale Luigi Nocera e l’ex capo della segreteria politica di Bassolino, Gianfranco Nappi. L’operazione per reati ambientali è stata eseguita in varie zone d’Italia dai carabinieri del Noe (Nucleo operativo ecologico) e dalla Guardia di Finanza di Napoli, coordinata dalla procura della Repubblica di Napoli. A Di Gennaro e Catenacci è stato concesso il beneficio degli arresti domiciliari. Nella stessa operazione sono state arrestate altre 12 persone. Le accuse sono di associazione per delinquere, truffa e reati ambientali. Sequestri di documentazione sono stati messi in atto in diverse sedi istituzionali, come la Prefettura di Napoli, la Regione Campania ma anche la Protezione civile di Roma e in sedi di aziende di rilievo nazionale. Nel corso delle indagini è stata accertata l’esistenza di un accordo illecito tra pubblici funzionari e gestori di impianti di depurazione campani che ha consentito, per anni, lo sversamento in mare del percolato (rifiuto liquido prodotto dalle discariche di rifiuti solidi urbani), in violazione delle norme a tutela dell’ambiente. Il percolato veniva immesso senza alcun trattamento nei depuratori dai quali finiva direttamente in mare, contribuendo ad inquinare un lunghissimo tratto di costa della Campania, dal Salernitano fino al Casertano. Le ordinanze di custodia cautelare (otto in carcere e sei ai domiciliari) sono state eseguite a Napoli, Roma, Caserta e Parma. L’indagine, durata fino al luglio 2010 e prosecuzione di quella conclusa nel maggio 2008 (nota con il nome di ‘Operazione Rompiballe’, che ha portato all’arresto di 25 indagati per traffico illecito di rifiuti) è stata sviluppata mediante attività tecniche, nonché riscontri documentali, che hanno permesso di acquisire gravi indizi di colpevolezza nei confronti di ex uomini politici, professori universitari, dirigenti della pubblica amministrazione e tecnici delle strutture commissariali che si sono avvicendati al Commissariato per l’emergenza rifiuti della Regione Campania dal 2006 al 2008.

Magna magna tutto rosso.

Zoia, il ritratto della segretaria su cui è scivolato il buon Bersani: la sacrestana della chiesa rossa. La signora Veronesi è da vent'anni al fianco del segretario del Partito Democratico. Talmente "fedele" da seguirlo ovunque (a spese della Regione Emilia Romagna), scrive Andrea Morigi su “Libero Quotidiano”. Altro che partiti liquidi o di plastica. Finché resisteranno donne d’apparato come la sessantenne Zoia Veronesi, le strutture politiche sopravvivranno anche ai terremoti giudiziari. Mai vista a perdere tempo alla buvette o a chiacchierare in giro per i corridoi della Regione Emilia Romagna. Anche chi lavora da decenni nei palazzi di viale Aldo Moro, a Bologna, l’avrà incrociata sì e no una decina di volte. Si era fatta le ossa per nove anni al seguito del segretario degli allora Ds, Mauro Zani, un “duro” che si è ritirato dalla politica rifiutando perfino di iscriversi al Pd, considerandolo troppo socialdemocratico. Lei invece è gentile, simpatica, per niente burbera e arrogante. Minuta, capelli rosso tiziano, qualche lentiggine, non si presenta certo con l’aria della pasionaria trinariciuta. Eppure, la sua dedizione alla causa nasce da una scelta di vita, quasi da sacrestana della chiesa rossa. Obbediente fino in fondo, quando all’inizio degli anni Novanta il partito la affida alla stella nascente Pier Luigi Bersani, “la Zoia” porta tutta la propria esperienza e le proprie conoscenze. Da allora, fra il 1993 e il 1996, per accedere al neo-presidente della Regione Emilia Romagna si deve passare obbligatoriamente da lei. Del segretario del Pd, lei sa tutto. Non è mica una che sta lì a pettinare le bambole, direbbe il suo superiore diretto. Tiene lei l’agenda, anche quella personale, cioè privata. Ne sa più lei, sull’uomo di Bettola, di chiunque altro, compresi i familiari. Se scegliesse di parlare, insomma, verrebbe giù tutto il sistema, a partire dagli intrecci fra il settore pubblico e il mondo delle cooperative. Perciò la trattano tutti con i guanti. Tranne qualche magistrato che, magari con il segreto intento di scardinare l’omertà degli ex comunisti, decide di entrare senza tanti complimenti nel bel mezzo della cruciale battaglia per le prossime primarie del Pd. Finora, il caso Greganti insegna, i compagni avevano attivato gli anticorpi e così si erano salvati dalle indagini che li hanno lambiti da Tangentopoli in avanti. Poi, proprio a partire dalla cerchia di stretta fiducia di Bersani, si sono staccati i primi pezzi con il caso Penati. E ora arrivano le picconate propria sulla fidatissima Zoia, indagata dalla procura di Bologna con l’ipotesi di reato di truffa aggravata ai danni della Regione Emilia Romagna. In realtà, così avevano inteso tutelarla. Basta verificare il suo curriculum. Da dipendente della Regione, fra il 1996 e il 2001, all’epoca dei governi dell’Ulivo, le viene concessa l’aspettativa per seguire Bersani al ministero delle Attività produttive prima e ai Trasporti poi, dove sarà assunta come collaboratrice esterna nello staff del ministro. Con la sconfitta elettorale del centrosinistra, torna in Regione, dove nel frattempo, dal 1999, si è insediato Vasco Errani. La inquadrano come dirigente, anche se non risulta in possesso di una laurea. Nel frattempo, libero da gravosi impegni istituzionali, Bersani fonda con l’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco l’associazione Nens, acronimo di “Nuova economia nuova società”. All’organizzazione viene chiamata la signora Veronesi, che si conferma affidabile e precisa, visto che attualmente continua a ricoprire lo stesso incarico. L’unico incidente di percorso càpita nel 2010, quando il parlamentare bolognese Enzo Raisi solleva il caso: come mai nonostante l’incarico di «raccordo con le istituzioni centrali e con il Parlamento» nel gabinetto del Governatore emiliano, la signora Veronesi è sempre a Roma, ufficialmente alla sede di rappresentanza della Regione presso la Capitale? Così la Zoia si dimette. Subito la assumono al Pd. Pensano di aver sistemato tutto. E comunque di averla protetta. Perché è una specie in estinzione. Come lei, ormai, non ce ne sono mica più. Nemmeno a Bologna.

Bologna, indagata per truffa segretaria storica di Bersani. La donna è accusata di truffa ai danni dell' Emilia-Romagna: è stata trasferita nel 2010 a Roma per tenere i rapporti istituzionali tra Regione e Parlamento, ma per la procura di Bologna del suo lavoro non c'è traccia. La difesa: "Nessuna irregolarità". Il finiano Raisi, che presentò l'esposto: "Feci il mio dovere. Persino Berlusconi mi disse che avevo fatto male a presentarlo", scrive Luigi Spezia su “La Repubblica”. L'esposto che ha inguaiato la segretaria di Bersani

Zoia Veronesi, ex storica segretaria di Pierluigi Bersani quando era ministro dello Sviluppo Economico e prima ancora quando era presidente della Regione Emilia-Romagna, dal ‘93 al ‘96, risulta indagata per truffa aggravata nell’inchiesta del pm Giuseppe Di Giorgio, iniziata nel marzo 2010 dopo un esposto dell’onorevole Enzo Raisi, Fli, e del consigliere comunale di Bologna Michele Facci (Pdl). Il reato, secondo l’ipotesi di accusa, è stato commesso nei confronti della stessa Regione Emilia-Romagna. L’ex funzionaria regionale, che lavora ancora nello staff del segretario ma assunta dal Pd, è stata chiamata a rendere un interrogatorio in Procura per spiegare che lavoro abbia svolto a Roma in circa un anno e mezzo, dal giugno del 2008 al gennaio 2010, inquadrata in una nuova posizione dirigenziale per tenere il "raccordo con le istituzioni centrali e con il Parlamento". Secondo quanto emerso nell’indagine, non risultano tracce di questa sua funzione ed ecco quindi spiegata l’accusa di truffa: avrebbe percepito per circa un anno e mezzo stipendio e indennità da parte della Regione senza prestare in effetti la sua opera.

Bersani: "Giusto che magistratura accerti". "Visto che c'è un esposto, ancorchè di Raisi, è giusto che la magistratura accerti. Io sono sicuro che le cose siano state fatte per bene". Così il segretario del Pd Pier Luigi Bersani commenta il caso dell'informazione di garanzia a Zoia Veronesi. Quella nuova posizione venne istituita dalla Regione (a firma del capo di gabinetto Bruno Solaroli, ex parlamentare Pci) il 27 maggio 2008, poco dopo la caduta del governo Prodi (il 7 maggio). Nei due anni del governo Prodi, Zoia Veronesi, prese un’aspettativa dalla Regione Emilia Romagna e a Roma fu la segretaria di Bersani ministro. Nell’esposto del deputato Raisi, si chiede se "è solo una coincidenza il fatto che la Regione abbia istituito una nuova posizione dirigenziale nel maggio 2008, cioè subito dopo la formazione e il cambio del nuovo governo nazionale per permettere alla signora Veronesi di rimanere a Roma, anche dopo il venire meno dell’incarico al Ministero?". Ciò che l’esposto vuol suggerire è che quella figura sia stata creata ad hoc per fare in modo che Veronesi continuasse a rimanere a Roma e a svolgere l’attività di segretaria dell’ex ministro Bersani. Lei aveva già spiegato di essere in realtà una dipendente regionale a tutti gli effetti: "Lavoro 36 ore e nel tempo libero e nei week-end faccio ciò che mi aggrada". Zoia Veronesi si è poi dimessa dalla Regione il 28 gennaio 2010 e dall’aprile successivo ha accettato di lavorare di nuovo con Bersani diventato segretario del Pd nell’ottobre 2009.

Il procuratore Giovannini. "Le indagini allo stato sono circoscritte alla signora Veronesi. Ovviamente sono stati acquisiti ed esaminati tutti i documenti sull'iter burocratico relativo al distacco a Roma". Lo dichiara il procuratore aggiunto Valter Giovannini, portavoce della procura di Bologna.

La difesa. L’avvocato Paolo Trombetti che la difende, dichiara che tutto sarà chiarito: "Abbiamo interessa a chiarire in questo interrogatorio che non c’è stata nessuna irregolarità da parte di chicchessia, tantomeno della signora Veronesi". E ha concluso: "Non avremo problemi a dimostrare che in realtà Zoia Veronesi è stata funzionaria al 100 per cento della Regione anche in quel periodo e porteremo tutte le prove al magistrato".

Raisi: "Ho fatto il mio dovere". "Nel 2010 feci cinque esposti. Uno di questi riguardava la Veronesi. Avevo avuto dei documenti e delle carte dove si configuravano dei reati a suo carico. Ho verificato la loro veridicità, presentandoli alla magistratura". Così Enzo Raisi, ex deputato Pdl ora di Fli, commenta la notizia di Zoia Veronesi. "Io sono un garantista nato - dice all'Adnkronos Raisi- finchè non interviene una sentenza di condanna, sono tutti innocenti. Ma sono confortato dal fatto che avevo visto bene e ho fatto fino in fondo il mio dovere istituzionale. Ricordo ancora che mi criticarono e presero in giro per questi cinque esposti. Persino Berlusconi, quando venne a Bologna, mi disse che avevo fatto male a presentarli", rivela il coordinatore regionale di Fli in Emilia Romagna.

Il Pd: "Assoluta serenità". Il segretario del Pd Pier Luigi Bersani ha accolto con "assoluta serenità" la notizia di una informazione di garanzia alla sua storica segretaria zoia veronesi, a seguito di un esposto del deputato finiano Enzo Raisi. Il leader del Pd, apprende la dire, non ha nascosto lo stupore per una contestazione del tutto infondata. A Largo del Nazareno fanno notare che "a onor del vero, per il partito, Zoia ha fatto per molto tempo del volontariato". E quanto all'iniziativa di Raisi, commentano i vertici Pd: "Raisi tira fuori questa storia a ogni elezione".

Truffa e abuso su appalto da 1,7 milioni, rinviato a giudizio il marito della Finocchiaro. Nell'udienza preliminare di stamattina il giudice Marina Rizza ha rinviato a giudizio il marito della senatrice e altri quattro indagati per una presunta truffa sull'appalto da 1,7 milioni per informatizzare il Pta di Giarre, che venne assegnato senza gara pubblica. Secondo l'accusa il marito della senatrice avrebbe fatto pressioni sui dirigenti dell'Asp, scrive Salvo Catalano su “La Repubblica”. Quattro rinvii a giudizio nell'ambito dell'inchiesta sulla procedura amministrativa che aveva portato, a Catania, all'affidamento senza gara dell'appalto per l'informatizzazione del Presidio territoriale di assistenza (Pta) di Giarre, assegnato alla Solsamb srl, società guidata da Melchiorre Fidelbo, marito della senatrice del Pd Anna Finocchiaro. Tra loro lo stesso Fidelbo, il manager dell'Asp etnea Antonio Scavone, l'ex direttore amministrativo dell'Azienda sanitaria provinciale di Catania Giuseppe Calaciura, e il direttore amministrativo dell'Asp Giovanni Puglisi. Non luogo a procedere per la responsabile del procedimento, Elisabetta Caponetto. I quattro devono rispondere di abuso d'ufficio e di truffa su un appalto da 1,7 milioni di euro per l'informatizzazione del sistema ospedaliero affidato senza gara d'appalto alla società di Melchiorre Fidelbo. Il Gip ha accolto la richiesta del pubblico ministero Alessandro La Rosa, che aveva chiesto il rinvio a giudizio per Fidelbo e gli altri quattro indagati: Giuseppe Calaciura, attuale direttore del Parco dell'Etna, all'epoca dei fatti direttore amministrativo dell'Asp di Catania; Giovanni Puglisi, direttore amministrativo ed Elisabetta Caponetto, responsabile del procedimento. Quest'ultima è stata prosciolta. A loro si è aggiunto all'inizio dell'estate, su richiesta dello stesso Gip Rizza che ne ha chiesto l'iscrizione nel registro degli indagati, anche Antonio Scavone, ex manager dell'Asp di Catania. Per tutti, i reati contestati sono abuso d'ufficio e truffa aggravata. Oggi il pubblico ministero ha ripercorso le tappe che hanno portato alla richiesta di rinvio a giudizio. Un appalto da 1,7 milioni di euro per l'informatizzazione del Presidio territoriale giarrese assegnato dall'Asp di Catania alla società Solsamb, di proprietà di Fidelbo, senza nessuna gara d'appalto e quindi non considerando il divieto di affidare incarichi esterni senza bando di evidenza pubblica. Secondo l'accusa Fidelbo avrebbe fatto pressioni sui dirigenti dell'Asp. Un ruolo importante, in tal senso, avrebbe assunto sull'asse Catania-Palermo anche Scavone, che avrebbe favorito con alcune delibere l'affidamento dell'appalto alla Solsamb. "Non esiste né la truffa, né l'abuso d'ufficio - ha sostenuto Carmelo Galati, legale di Scavone - perché l'impostazione accusatoria manca dei presupposti di legge. Quale sarebbe la norma violata? Non c'è stato un rapporto diretto tra l'azienda e la Regione, ma tra lo Stato e la Regione". La sentenza del giudice Rizza, lo stesso che a giugno ha chiesto al pm l'imputazione per Scalone e l'aggravamento del capo di accusa, è attesa a breve.

Vedova Fortugno. Condannata l'eroina antimafia Pd: il tramonto di "Lady legalità". Maria Grazia Laganà, parlamentare del Partito Democratico, condannata in primo grado: nei guai per le forniture ospedaliere. In imbarazzo tutto il partito scrive Andrea Scaglia su “Libero Quotidiano”. Condannata, sia pur in primo grado. Per truffa, falso e abuso. Due anni di carcere, pena sospesa. Certo la notizia è clamorosa, e non solo perché trattasi di parlamentare del Partito Democratico, dunque ennesima tegola giudiziaria per Bersani e compagnia. A essere giudicata colpevole dal Tribunale di Locri è stata infatti Maria Grazia Laganà. Vedova oggi 53enne di quel Francesco Fortugno che, all’epoca vicepresidente del Consiglio regionale calabrese in quota Margherita, venne assassinato il 16 ottobre 2005. Giusto l’altro giorno la Cassazione ha confermato in via definitiva gli ergastoli per un mandante - Giuseppe Marianò - e due esecutori. In qualche modo sconfessando la pista politico-mafiosa, e invece confermando la ricostruzione incardinata su una vicenda di rancori e gelosie professional-elettorali ambientata proprio all’ospedale di Locri - dove lavorava lo stesso Marianò e anche la moglie di Fortugno. Per anni Maria Grazia Laganà ha ripetuto che i veri mandanti andavano cercati più in alto. E dopo l’elezione al Parlamento nel 2006 - sponsorizzata da Walter Veltroni e ripescata dopo i solito complicato gioco di rinunce e recuperi - ha rappresentato un punto di riferimento per quanto riguarda le manifestazioni di sensibilizzazione contro lo strapotere della ‘ndrangheta in Calabria. Per questo la condanna della Laganà fa sensazione: perché ha sempre fatto della legalità un punto fermo del suo impegno politico. Peraltro, lei ha sempre ripetuto - anche nelle dichiarazioni spontanee in aula prima del verdetto - di essere innocente. Si è autosospesa dal partito, «per evitare qualsiasi speculazione politica». La vicenda che ha portato alla condanna della Laganà risale proprio a quando rivestiva il ruolo di vicedirettore sanitario dell’ospedale di Locri. Un’inchiesta cominciata dopo l’omicidio di Fortugno, in seguito allo scioglimento dell’Asl in questione e dopo la relazione compilata al commissario straordinario subentrato, il prefetto Paola Basitone, poi divenuta vice capo della Polizia. E comunque, le accuse si basano sulle dichiarazioni - che evidentemente la Corte ha ritenuto essere sufficientemente riscontrate - di un’ex dirigente dello stesso ospedale, Albina Micheletti - assolta nel processo. La quale ha raccontato d’essere stata convocata nell’estate del 2005 dalla Laganà. E questa, alla presenza dello stesso Fortugno, avrebbe caldeggiato l’approvazione di una fornitura per il pronto soccorso da parte della ditta Medinex di Reggio Calabria. Dunque mascherine, divise, set universali per pazienti, supporti per terapia infusionale, borse di ghiaccio e quant’altro. Il commissario in carica in quel periodo, Benito Stanti, riferì poi in tribunale che arrivarono effettivamente in ospedale tre forniture di materiale ospedaliero per un valore di poco inferiore a 800mila euro, e di essersi insospettito perché la fornitura pareva eccessiva - un magazziniere gli confermò che di articoli del genere già ce n’erano a sufficienza, e comunque la Medinex si riprese parte del materiale, per circa 130mila euro. In ogni caso, per falso e abuso sono stati condannati a un anno e quattro mesi anche un altro ex dirigente dell’Asl, Maurizio Marchese, e Pasquale Rappoccio, che della Medinex era il titolare. Rappoccio venne poi arrestato nell’ottobre 2011 dall’Antimafia con l'accusa di intestazione fittizia di beni e connivenze con la cosca Condello, e anche coinvolto nelle inchieste sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Lombardia. Il direttore di Libero, Maurizio Belpietro, chiede a Bersani: che fai ora, la cacci? O dato che non è del Pdl continuerai con il doppiopesismo di sinistra?

Generalmente si dice che i partiti rubano soldi ai cittadini con il finanziamento pubblico mascherato da rimborso elettorale. Mai si era sentito che i partiti fossero derubati essi stessi dai loro componenti. Bene. E’ successo anche questo.

Luigi Lusi, l'ex tesoriere della Margherita indagato per appropriazione indebita per aver preso dalle casse del partito 13 milioni di euro, prova a difendersi. Dice: "avevo bisogno di quei soldi e li ho presi. Ho lavorato dieci anni come amministratore...". Il senatore Pd si dice pronto a patteggiare la condanna. Ai magistrati si è detto pronto a restituire il maltolto. Ma la proposta di fidjussione che è già stata depositata - secondo quanto scrive il Corriere - copre 5 milioni di euro. Una cifra di gran lunga inferiore rispetto a quello che sarebbe l'importo del maltolto. Lusi ha spiegato che il resto dei soldi è servito a pagare le tasse, ma non è apparso convincente e bisognerà effettuare nuove verifiche. Il partito accetterà l'offerta di Lusi per la restituzione di soli 5 milioni. Nell'attesa i magistrati stanno valutando l'eventualità di disporre il sequestro cautelativo dei beni immobili ma anche di convocare quei dirigenti di Democrazia e Libertà che sostengono di aver chiesto una verifica dei bilanci già nei mesi scorsi, ma di non aver ottenuto nessuna risposta.

Da “Panorama”  si apprende che la Margherita era stata già sciolta ma i soldi fluivano ancora dalle casse del partito che non era più, dissolto petalo dopo petalo e innestato nella Quercia, a quelle del suo tesoriere vivo, vegeto e sempre più florido. Dal conto corrente del (fu) partito di Rutelli e Parisi a quelli personalmente collegati all’ex capo dei Boy Scout e senatore del PD alla seconda legislatura, Luigi Lusi. Certo, la prima legge che ha infranto Lusi è proprio quella dei benemeriti Scout. Con l’aggravante grottesca di succhiare linfa a un ramo morto, un partito zomby che aveva perso la sua funzione politica ma continuava a svolgere una funzione reale di drenaggio fondi (pubblici) e relativa redistribuzione (privata). All’insaputa anche di chi di quel conto era cointestatario, cioè l’ex sindaco di Roma Francesco Rutelli.

Regola numero 8: “Lo Scout sorride e fischietta in tutte le difficoltà”.

Regola numero 9: “Lo Scout è economo”. Non sappiamo se Lusi, accusato di aver dirottato su società e conti propri o della famiglia quasi 13 milioni di euro di finanziamento pubblico a Democrazia e Libertà, abbia l’animo di fischiettare, come non fosse stato colto con le dita nella marmellata. Certo, “un economo” lo era. Probabile che sia rimasto ligio anche ad altre regole: essere cortese, amico degli animali, ubbidiente verso i genitori e il Capo Pattuglia, amico di tutti e fratello di ogni altro Scout. Ma ha inciampato, magari sorridendo, sulla regola numero 1 della Legge dello Scout (“L’onore di uno Scout è di esser creduto”), la 2, sulla fedeltà alla Patria e ai datori di lavoro, e la 10: “Lo Scout è pulito nel pensiero, nella parola e nell’azione”.

Rutelli oggi è parte lesa, degli intrallazzi del suo tesoriere non sapeva né aveva sospettato nulla. Chi, invece, aveva subodorato la truffa e protestato e chiesto lumi nelle riunioni da zombi della Buonanima Margherita è il professor Arturo Parisi. Una voce di bilancio fantasma di 4 milioni di euro, per esempio, Lusi l’avrebbe giustificata come obolo per Dario Franceschini nelle primarie contro Bersani. Ma Franceschini nega. Gli altri, da Gentiloni a Fioroni, da Bianco a Santagata, per arrivare ai confluenti della Quercia con in testa lo stesso Bersani, dicono che nulla sapevano e nulla si immaginavano. Il bilancio era stato pubblicato sull’organo della Margherita, Europa. Per quel che vale. Ma la cosa più incredibile è che i soldi erano veri, e infatti si sono trasformati al tocco della bacchetta magica di Lusi in una villa a Genzano e un appartamento milionario in una delle più eleganti vie del centro di Roma, dietro Campo de’ Fiori, e in flussi milionari in più tranche (per non dare nell’occhio) verso una società collegata a Lusi in cambio di consulenze di facciata.

Vizi privati e pubbliche virtù: quando il Tribunale di Milano decise di non ammettere il patteggiamento per gli imputati nel fallimento Parmalat, Lusi, che oggi sembra voglia chiedere il patteggiamento, esultò perché erano state “riconosciute le ragioni di decine di migliaia di italiani che hanno visto azzerati i loro risparmi in uno degli scandali finanziari più catastrofici della storia d’Italia. Una decisione che conforta chi crede che nel nostro Paese le leggi ci siano e vadano rispettate”. Inquieta pensare che uno come lui abbia ricoperto nella sua carriera incarichi da consigliere giuridico del Comune di Roma per le politiche della casa e della sicurezza, delegato del sindaco, poi nelle municipalizzate Metroferro e Trambus, tesoriere nella campagna elettorale del 2001 di Rutelli per Palazzo Chigi, infine “cassiere” della Margherita. Che già era un fossile della politica. Ma un fossile d’oro.

Luigi Lusi ha ammesso di aver sottratto 13 milioni di euro dai bilanci della Margherita. Come hanno reagito alla vicenda gli ex dirigenti di quel partito? E che cos'hanno detto al “L’Espresso” i colleghi di Lusi di oggi, cioè i vertici di del Pd? Ecco qua:

«Lusi? Affari suoi. Io non commento la storia di uno che ha già ammesso di essersi preso i soldi per farsi la casetta piccolina in Canadà.» (Rosy Bindi).

«Mi sembra che si stia parlando di una persona diversa da quella che conosco.» (Roberto Giachetti).

«Io non do mai giudizi prima di aver letto le carte ma di certo Lusi riscuoteva la fiducia di tutti, erano riconosciute le sue capacità di tesoriere.» (Giuseppe Fioroni).

«Siamo incazzati e addolorati. La Margherita intende recuperare tutto il maltolto.» (Francesco Rutelli, ex leader Margherita).

«C'erano alcune voci opache. Somme consistenti in uscita che non convincevano. Per questo chiesi di sospendere l'assemblea per avere tempo di leggere meglio il bilancio. Ma eravamo in scadenza dei termini per l'approvazione del bilancio e quindi si andò avanti. Ma ottenni che si istituisse un organismo di verifica. Però questa commissione non veniva mai convocata. Alla fine si decise una data. Era novembre. Io tornai da un viaggio in Cina per partecipare. Ma la riunione andò deserta. Non venne nessuno». (Arturo Parisi).

«Noi non ne sapevamo niente». (Pierluigi Bersani).

«Le voci del bilancio erano troppo riassuntive e chiesi chiarimenti. Infatti l'assemblea di fine giugno andò per le lunghe e alla fine il bilancio preventivo 2011 non fu votato e il chiarimento rinviato a un organismo ad hoc. Sono molto turbato, è un'accusa che addolora.» (Pier Luigi Castagnetti).

«Questa storia meno si commenta e meglio è»; «In passato ho contestato in più di un'occasione l'integrità dei processi di rendicontazione e la trasparenza dei bilanci»; «E' da tre anni che non ci è consentito di vedere i bilanci e, conseguentemente, di approvarli»; «E' una storia strana. Va bè che Lusi gestiva con abbondante autonomia i bilanci, ma c'è un revisore dei conti. Un comitato di tesoreria politico, composto da tante persone, mica da uno solo. Sono troppi soldi, la cosa non si spiega...»; «Mi sembra sia riuscito a bypassare troppi controlli.» (Renzo Lusetti).

«Ho chiesto più volte le carte e non me le hanno date. Le cose che so le dirò ai giudici, se mi chiameranno.» (Giulio Santagata. In seguito ha precisato: «Era solo una conversazione scherzosa»).

«Il potere amministrativo, in base allo Statuto, era interamente nelle mani del senatore Luigi Lusi: persona da tutti stimata.» (dalla nota diffusa dalla Margherita dopo lo scoppio dello scandalo).

I “comunisti” con i loro alleati ex avversari: i democristiani. Si considerano da sempre i migliori dal punto di vista intellettuale: o sei con loro o sei nulla. Invece sono ignoranti perché si nutrono solo con cultura sinistroide. Efficienti dal punto di vista amministrativo per favorire al meglio i loro amici a scapito degli altri, creando consenso. Gli avversari non li combattono, li distruggono con la violenza, spesso giudiziaria. Inquadrati ed omologati ad un “Kapo” e alla sua idea conforme e retrograda, che non si discute, ma si impone agli altri. Con le primarie, spesso, l’ala più oltranzista, fondamentalista ed organizzata si impone con il solo 10% di tutto l’elettorato di sinistra.

Non parliamo di questione morale, per carità. Quelli lì - quelli del Pd - mica ne vogliono sentire parlare. A partire dal leader Pier Luigi Bersani che si appiglia alle querele per far passare i giornalisti come una macchina del fango messa in moto per minare la superiorità dei democratici. Perché, dal sistema di tangenti che avrebbe orchestrato Filippo Penati, dall'amministrazione della sanità pugliese targata Alberto Tedesco e dall'affaire Enac che ha fatto scattare le manette per l'ex consigliere al ministero dei Trasporti di Bersani, Franco Pronzato (tanto per fare qualche esempio, solo gli ultimi in ordine cronologico), non si evince mica che in via del Nazareno qualche problema con la giustizia esiste. Macchè! Quelli lì - quelli del Pd - sono diversi, sempre e comunque. Diversamente ladri, magari, ma diversi, dice il Giornale.

Guai a parlare di questione morale, guai a dare il nome giusto alle cose: la parola "mazzetta" è off limit. Eppure, secondo una inchiesta di Panorama, dal Piemonte alla Sicilia sono oltre cento i membri del Partito democratico finiti nelle maglie della giustizia per i reati più diversi. "Una contabilità devastante - si legge - per il partito che ha sempre affermato la propria diversità e cha fatto della questione morale il proprio cavallo di battaglia".

Vallo a spiegare al Partito democratico che i reati non sono mai diversi a seconda di chi sia a infrangere la legge, che aver votato a favore della carcerazione del pdl Alfonso Papa e contro quella di Tedesco, che a negare sempre e comunque l'esistenza di una questione morale non giova affatto al dibattito.

«Il Partito Democratico? Premetto che ormai è una vicenda estranea ai miei interessi politici perchè ho ormai preso le distanze dopo alcune reazioni assolutamente smodate». Lo dice il senatore Alberto Tedesco in un'intervista a Radio Ies in cui spara a zero su Rosy Bindi.

«La Bindi parla di carcere da sette mesi, ma la stagione del '92 che l'ha resa protagonista non tornerà più. Rosy Bindi ricevette, come reso noto in un libro di Pomicino mai smentito, un finanziamento di 50 milioni dalla corrente andreottiana, nonchè dell'appoggio di Andreotti che la fecero salire al Parlamento europeo. Era il 1989. Prima era una sconosciuta. Nonostante ciò non si fece nessuno scrupolo nel condannare Andreotti, anche prima della conclusione del procedimento».

La lettura di Panorama dell’estate 2011 sotto l’ombrellone per i vertici del Partito democratico rischia di diventare il codice etico approvato nel 2008 e in particolare l’articolo 5, quello sulle «condizioni ostative alla candidatura e obbligo di dimissioni». Infatti l’elenco di uomini del Pd coinvolti in inchieste della magistratura sembra un bollettino di guerra da aggiornare giorno per giorno.

I dirigenti di via Nazionale hanno tirato un sospiro di sollievo quando, martedì 26 luglio 2011, è arrivata l’ultima infornata di arresti in provincia di Pescara: tra i fermati anche l’ex presidente del consiglio regionale Mario Roselli e il sindaco di Spoltore, Franco Ranghelli, entrambi recentemente fuoriusciti dal Pd (Ranghelli è stato espulso). In ogni caso c’è poco da stare allegri: il 21 luglio 2011 sono stati perquisiti uffici e abitazione del vicepresidente del consiglio regionale lombardo ed ex capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani, Filippo Penati, nell’ambito di un’inchiesta su presunte tangenti milionarie, mentre il 28 giugno sono scattate le manette per Franco Pronzato, ex consigliere al ministero dei Trasporti di Bersani e di Claudio Burlando. In questa inchiesta i pm romani contestano le presunte mazzette pagate dagli imprenditori Viscardo e Riccardo Paganelli per agevolare il proprio lavoro in diverse regioni «rosse», dalla Toscana all’Umbria fino alle Marche. Una giaculatoria di nomi che turba i piani alti del Pd. L’ordine di scuderia è quello di dimettersi una volta colti con le mani nel sacco. Ma qualcuno resiste. O, se si dimette, viene richiamato all’ovile. Come è successo a Michele Mazzarano, ex dirigente del Pd pugliese, candidato alle elezioni comunali nella sua Massafra (Taranto), a cui il segretario regionale Sergio Blasi ha chiesto di riprendere il proprio posto. Il senatore Alberto Tedesco, invece, si è dimesso, dopo che i compagni di partito lo avevano salvato a Palazzo Madama dalla richiesta di arresto.

Esattamente 30 anni fa, il 28 luglio 1981, uno dei padri nobili del partito, Enrico Berlinguer, lanciava un anatema che oggi suona beffardo, quasi una profezia al contrario: «La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti» disse in una celebre intervista a Repubblica, «fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati». Per l’allora segretario del Pci «ladri, corrotti, concussori delle alte sfere della politica e dell’amministrazione» andavano «scovati», «denunciati», «messi in galera».

All’epoca Massimo D’Alema era segretario pugliese dei comunisti e la sua affettuosa biografia su Wikipedia ci informa che dopo l’intervista di Berlinguer «si attestò sulla stessa posizione e cominciò una dura battaglia per impedire al Psi di fare della Puglia una solida base politica e di potere». Oggi, però, sono le marachelle dei suoi amici e sostenitori a creare il maggiore imbarazzo al Pd. Soprattutto in Puglia, dove, per esempio, è stato recentemente condannato e rinviato a giudizio l’ex sindaco di Gallipoli, quel Flavio Fasano di cui D’Alema è stato pure «compare» di nozze.

In verità le vicissitudini giudiziarie del Pd attraversano tutte le correnti e quasi tutte le regioni. Sono ormai decine, se non centinaia, i casi di malaffare o furberia di cui sono protagonisti personaggi e amministratori del partitone della sinistra. Panorama ha fatto un piccolo censimento e ha contato oltre cento casi di uomini (molti) e donne (poche) che avrebbero violato la legge e tradito gli elettori. I reati più contestati sono corruzione, abuso d’ufficio e turbativa d’asta. Non abbiamo inserito nell’elenco il presidente di circolo stupratore seriale o il killer di camorra (tra l’altro assassino e vittima erano entrambi iscritti al Pd), così come l’assessore spacciatore. Non sono stati conteggiati gli indagati per calunnia o diffamazione.

Ci siamo concentrati su corrotti e concussori (presunti o già condannati), quelli che Berlinguer voleva mandare in galera: allignano nei circoli del Pd quanto o più che in altri partiti. Un fenomeno che, come dimostra l’inchiesta di Panorama, è particolarmente allarmante al Sud, dalla Campania alla Puglia, passando per Calabria e Sicilia, tutte regioni dove il Pd governa o ha governato. Qui hanno problemi con la giustizia molti big del Pd dall’ex governatore calabrese Agazio Loiero, agli ex sindaci di Napoli Antonio Bassolino e Rosa Russo Iervolino, alla sbarra per la cattiva gestione dell’emergenza rifiuti.

Iniziano a preoccupare anche le regioni del cosiddetto «buongoverno», dalla Toscana all’Emilia-Romagna, all’Umbria. Qui la politica sembra diventata un ufficio di collocamento, come dimostra l’indagine condotta a Perugia dal pm Sergio Sottani, che da mesi scava sul voto di scambio e su gare d’appalto. In questo fascicolo è stata iscritta sul registro degli indagati l’ex presidente della regione Maria Rita Lorenzetti, attuale presidente di una partecipata delle Ferrovie dello Stato, accusata di abuso d’ufficio. Per la procura avrebbe tenuto in caldo un posto da quadro di settimo livello in una asl perugina per la sua ex capogabinetto. Che in un’intercettazione si lamentava del possibile ritorno al vecchio posto di lavoro: «Con 1.500 euro al mese poi non so cosa mangiare». Più o meno lo stipendio di una buona fetta degli elettori del Pd.

Il virus della corruzione sembrerebbe meno diffuso al Nord, però qui il Pd è spesso all’opposizione, mentre dove amministra, per esempio in Liguria, i problemi non mancano. Ora l’inchiesta della procura di Monza su Penati sembra aprire una pericolosa voragine. E comunque i rapporti tra politica e affari sono sempre più evidenti. Una stagione inaugurata da D’Alema premier con quella che l’economista Guido Rossi battezzò la «merchant bank» di Palazzo Chigi. L’ex premier sostenne la scalata alla Telecom di Roberto Colaninno e prese una sbandata per la razza padana di Emilio Gnutti, poi condannato per insider trading.

Anche Gianpiero Fiorani e Stefano Ricucci, prima dei guai giudiziari, ebbero rapporti e interessi convergenti con gli allora Ds. Nel 2007 i giornali pubblicarono le telefonate trionfanti registrate dai finanzieri due anni prima di Piero Fassino e D’Alema con Giovanni Consorte, ex presidente Unipol impegnato nella conquista della Bnl. «Abbiamo una banca!», «Facci sognare!» esultavano i due politici al telefono. Il gip milanese Clementina Forleo, che voleva approfondire quei rapporti e utilizzare le intercettazioni, venne costretta a fare i bagagli e a trasferirsi in un altro tribunale. Ma questo non è bastato a evitare problemi a molti finanzieri rossi, compagni di cene e di barca di svariati politici del Pd: sono finiti nei guai lo stesso Consorte, condannato a 3 anni per aggiotaggio, e Vittorio Casale, immobiliarista arrestato a giugno per bancarotta fraudolenta, Piero Collina, potente presidente del Consorzio cooperative costruttori indagato per corruzione a Bologna, come Vincenzo Morichini, intermediario di affari, procacciatore di finanziamenti per la fondazione Italianieuropei di D’Alema; Giovanni Errani, fratello del presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco, è finito invece sotto inchiesta per finanziamento illecito ai partiti con la sua cooperativa.

Con questi esempi non deve essere facile per quadri e amministratori del partito stare a guardare senza approfittare. Come dimostra la nostra inchiesta. E chissà se oggi Berlinguer si iscriverebbe al Pd.

L’elenco pubblicato da Panorama è aggiornato al 2011.

Legenda:
P patteggiamento o condannato

A arrestato

I indagato

R rinviato a giudizio o imputato

Piemonte 8

A P Bartolomeo Valentino ex assessore di Collegno (Torino): 2 anni per concussione.

P Antonio Tenace assessore della Provincia di Novara: 2 mesi e 20 giorni per violazione del segreto d’ufficio.

R Michele Cressano consigliere comunale a Vercelli: falso ideologico e abuso d’ufficio.

P Giusi La Ganga candidato alle ultime elezioni comunali del Pd: 20 mesi di reclusione e multa di 500 milioni di lire per finanziamento illecito ai partiti.

I Giuseppe Catizone sindaco di Nichelino: abuso edilizio.
R Andrea Oddone sindaco di Ovada: omicidio colposo.

I Franco De Amicis ex segretario Pd Basso Canavese: bancarotta fraudolenta.

Liguria 8

A Franco Pronzato ex consigliere di Claudio Burlando e Bersani: corruzione.

A Franco Bonanini presidente del Parco delle Cinque Terre e parlamentare europeo: truffa e associazione a delinquere.

A Roberto Drocchi funzionario, ex candidato di Savona: truffa continuata e falso in atti pubblici.

I Vito Vattuone consigliere regionale: associazione per delinquere, corruzione e altri reati.

I Giancarlo Cassini assessore regionale all’Agricoltura: associazione a delinquere, corruzione e altri reati.

P Massimo Casagrande ex consigliere comunale di Genova: 1 anno e 6 mesi per corruzione.

P Claudio Fedrazzoni ex consigliere comunale di Genova: 1 anno e 6 mesi per turbativa d’asta.

P Stefano Francesca ex portavoce del sindaco di Genova: 1 anno e 4 mesi per corruzione.

Lombardia 2

I Filippo Penati ex presidente della Provincia di Milano: corruzione, concussione e finanziamento illecito.

A Tiziano Butturini ex sindaco di Trezzano sul Naviglio: 2 anni e 5 mesi per corruzione.

Emilia-Romagna 9

I Luigi Ralenti sindaco di Serramazzoni (Modena): corruzione e turbativa d’asta.

I Alberto Caldana ex assessore della Provincia di Modena: peculato.

P I Flavio Delbono ex sindaco di Bologna: 1 anno e 7 mesi per truffa aggravata, peculato, intralcio alla giustizia.

I Alberto Ravaioli sindaco di Rimini: abuso d’ufficio.

I Aldo Preda, ex senatore, Cinzia Ghirardelli, membro coordinamento provinciale, Cesare Marucci, ex consigliere comunale di Ravenna, Gianluca Dradi ex assessore di Ravenna: tutti per falso in bilancio.

I Nerio Marchesini attivista: trasferimento fraudolento di valori di una ‘ndrina calabrese.

Toscana 15

R Alberto Formigli ex capogruppo in comune a Firenze: associazione per delinquere, corruzione e altri reati.

R Salvatore Scino vicepresidente del consiglio comunale: falso ideologico.

I Andrea Vignini sindaco di Cortona (Arezzo): abuso d’ufficio.

I Graziano Cioni ex assessore di Firenze: corruzione e violenza privata.

I Gianni Biagi ex assessore all’Urbanistica di Firenze: corruzione.

I Gianluca Parrini consigliere regionale: abuso d’ufficio.

I Gian Piero Luchi ex sindaco di Barberino del Mugello: abuso d’ufficio.

I Alberto Lotti ex vicesindaco di Barberino del Mugello: corruzione e abuso d’ufficio.

I Paolo Cocchi ex assessore regionale: abuso d’ufficio.
I Daniele Giovannini ex assessore comunale di Barberino del Mugello: abuso d’ufficio.

I Giovanni Guerrisi consigliere comunale di Barberino del Mugello: falso ideologico.

I Marzio Flavio Morini sindaco di Scansano (Grosseto): corruzione.

I Fabrizio Agnorelli sindaco di Piancastagnaio (Siena): truffa aggravata e falso.

R Fabrizio Neri ex sindaco di Massa-Carrara: abuso d’ufficio.

I Antonella Chiavacci ex sindaco di Montespertoli: omissione di controllo.

Umbria 7

I Eros Brega presidente del consiglio regionale: peculato e concussione.

I Maria Rita Lorenzetti ex presidente della regione: abuso d’ufficio.

I Maurizio Rosi ex assessore regionale alla Sanità: abuso d’ufficio.

I Luca Barberini consigliere regionale: peculato.

I Nando Misnetti sindaco di Foligno: peculato.

I Sandra Santoni ex capo di gabinetto di Lorenzetti: peculato.

R Giacomo Porrazzini ex sindaco di Terni ed ex deputato europeo: disastro ambientale e truffa.

Marche 1

P Fabio Sturani ex sindaco di Ancona: 1 anno e 9 mesi e interdizione dai pubblici uffici per 5 anni per concussione.

Puglia 7

P Domenico Gatti sindaco di Modugno (Bari): falso ideologico.

I Alberto Tedesco senatore: associazione per delinquere, corruzione, concussione, turbativa d’asta, abuso d’ufficio e falso.

I Michele Mazzarano ex segretario organizzativo del partito: finanziamento illecito ai partiti.

R P Flavio Fasano ex sindaco di Gallipoli (Lecce) ed ex assessore provinciale ai Lavori pubblici: 2 anni per falso e rinviato a giudizio per turbativa d’asta.

A I Sandro Frisullo ex vicepresidente della regione: associazione a delinquere e turbativa d’asta.

I Antonio De Caro capogruppo al consiglio regionale ed ex assessore di Bari alla Mobilità e al traffico: tentativo d’abuso d’ufficio.

I Adolfo Schiraldi ex presidente consiglio comunale di Triggiano (Bari): concussione.

Calabria 4

R I Agazio Loiero ex governatore regionale: associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio e imputato per abuso d’ufficio.

R Nicola Adamo ex vicepresidente della giunta regionale: associazione per delinquere, falso e abuso d’ufficio e imputato per associazione per delinquere, concussione, abuso d’ufficio.

A I Pietro Ruffolo assessore comunale di Cosenza: associazione per delinquere finalizzata alla truffa e al riciclaggio, e arrestato per detenzione abusiva d’armi.

P Giuseppe Mercurio ex capogruppo al Comune di Crotone, 4 anni per voto di scambio.

Veneto 2

P Statis Tsuroplis imprenditore iscritto al partito ed ex consigliere del sindaco di Venezia: 1 anno e 9 mesi per corruzione.

P Tullio Cambruzzi, tesserato pd e manager pubblico: corruzione, ha patteggiato 2 anni.

Lazio 5

Piero Marrazzo ex presidente della regione dimessosi dopo una vicenda di cocaina e trans.

R Francesco Paolo Posa ex sindaco di Frascati e consigliere provinciale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

I Guido Milana eurodeputato ed ex presidente del consiglio regionale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

I Ruggero Ruggeri consigliere provinciale: truffa, falso e indebita percezione di erogazioni pubbliche.

R Valdo Napoli ex assessore all’Ambiente di Montefiascone: corruzione.

Campania 13

R I Antonio Bassolino ex presidente della regione: epidemia colposa e omissione d’atti d’ufficio, sotto processo per truffa aggravata ai danni dello Stato e frodi in pubbliche forniture e per peculato.

I Rosa Russo Iervolino ex sindaco di Napoli: epidemia colposa e omissione in atti d’ufficio.

I Andrea Lettieri ex sindaco di Gricignano d’Aversa (Caserta): concorso esterno in associazione mafiosa.

I R Vincenzo De Luca ex senatore e sindaco di Salerno: abuso d’ufficio, concussione, associazione per delinquere finalizzata a truffa e falso.

P Corrado Gabriele consigliere regionale ed ex assessore regionale: 4 anni e 3 mesi per pedofilia.

A R Aniello Cimitile presidente della Provincia di Benevento: falso.

I Enrico Fabozzi sindaco Villa Literno: concorso esterno in associazione mafiosa.

A I Fabio Solano componente direttivo cittadino pd di Benevento: truffa.

I Giuseppe Russo cons. regionale: truffa. Carlo Nastelli ex consigliere comunale di Castellammare: tentata estorsione.

R Carlo Nastelli, Nino Longobardi, Antonio Cinque ex consiglieri comunali di Castellammare di Stabia: truffa ai danni dello Stato e concorso in falso.

Sardegna 3

I Renato Soru, ex presidente regione, consigliere regionale e membro della segreteria nazionale: aggiotaggio, assolto in primo grado per abuso d’ufficio e turbativa d’asta.

P Graziano Milia presidente Provincia di Cagliari: 1 anno e 4 mesi per abuso d’ufficio.

I Roberto Deriu, presidente Provincia di Nuoro: abuso d’ufficio.

Abruzzo 7

R Ottaviano Del Turco ex presidente della regione: associazione per delinquere, concussione, corruzione e altri reati.

R Antonio Boschetti ex assessore regionale alle Attività produttive: associazione per delinquere, concussione e altri reati.

R Bernardo Mazzocca ex assessore regionale alla Sanità. associazione per delinquere, concussione e abuso d’ufficio.

R Camillo Cesarone ex capogruppo alla regione: associazione per delinquere, concussione e corruzione.

P Luciano D’Alfonso ex sindaco di Pescara: 4 mesi per abuso d’ufficio.

I Massimo Cialente sindaco dell’Aquila: rifiuto in atti d’ufficio.
I Fabio Ranieri consigliere comunale dell’Aquila: truffa.

Basilicata 4

I Franco Stella presidente Provincia Matera: indagato per abuso d’ufficio.

R Prospero De Franchi ex presidente del consiglio regionale: rinviato a giudizio per falso e truffa.

R Pasquale Robortella consigliere regionale e sindaco di San Martino d’Agri: rinviato a giudizio per truffa ai danni dell’Ue.

I Nicola Montesano consigliere comunale di Policoro (Matera): indagato per falso e turbativa d’asta.

Sicilia 7

A Gaspare Vitrano deputato regionale: concussione.

I Elio Galvagno consigliere regionale: falso in bilancio.

I Salvatore Termine consigliere regionale: falso in bilancio.

I Vladimiro Crisafulli senatore: falso in bilancio, rinviato a giudizio per abuso d’ufficio.

I Giuseppe Picciolo deputato regionale: calunnia.
P Vittorio Gambino funzionario: falso in atto pubblico.

P Giuseppe Palermo funzionario: falso in atto pubblico.

LE GRANE GIUDIZIARIE.

La nascita del Partito Democratico ha creato le condizioni per una svolta, non soltanto politica, ma anche culturale e morale, nella vicenda italiana. [..] Si è creato così un vuoto politico molto pericoloso, che ha dato spazio alla demagogia populistica, all’arroganza di ristrette oligarchie e anche a poteri opachi che tendono a sottrarsi al controllo della legge e delle istituzioni democratiche. […] Il Partito Democratico sa bene che anche la conquista di nuovi diritti può rivelarsi effimera, se non si afferma un’etica pubblica condivisa, che consenta agli italiani di nutrire un senso più alto dei loro doveri.

Questo è quello che potete leggere sfogliando le 11 pagine del Manifesto dei valori del Partito Democratico, mentre di tutt’altro tenore sono le notizie che arrivano da tutta la Penisola. A Firenze, Napoli, Roma, Genova e Perugia, in Abruzzo, Campania, Toscana e Calabria, nelle carte dell’inchiesta Why Not di Luigi De Magistris, emergono fatti e misfatti molto imbarazzanti per un partito che vorrebbe rilanciare l’etica della politica.

Caso Marrazzo, Del Turco. Inchieste. Arresti. Appalti. Finto tesseramento. Scandali, corruzioni,persino delitti (a Castellammare di Stabia, omicidio di Gino Tommasino, consigliere Pd ucciso da un camorrista iscritto al partito).

Cose dell'altro mondo?

In merito all’arresto di Luigi Bianchini, già coordinatore di un circolo del Pd di Roma e accusato di essere l'autore di diversi stupri nella capitale, "E' incredibile - osserva Marino - che un criminale già coinvolto in odiosi reati possa essere arrivato a coordinare un circolo del Pd". Questo proverebbe "che nel Pd abbiamo una questione morale grande come una montagna, che non può essere ignorata". Il senatore si interroga sui criteri con cui vengono individuati i coordinatori dei circoli. "E' chiaro che non sono scelti liberamente ma imposti - dice - per rispondere agli equilibri delle correnti e senza nemmeno sapere chi siano, che cosa hanno fatto nella vita, se davvero in grado di guidare un circolo, anche dal punto di vista morale".

Le primarie del Pd sono un esaltante esercizio di democrazia partecipata o un'operazione manipolata della volontà dei capibastone? Ognuno può pensarla come meglio crede ed è lecito essere certi che i grandi numeri sbandierati dai responsabili del partito sull'affluenza alle primarie (3 milioni di elettori hanno votato su internet o presso i gazebo autotassandosi con 2 euro) siano realistici, anche perché probabilmente è vero. Bersani, che pur essendo una pedina di D'Alema ha lasciato un ottimo ricordo da Ministro dello Sviluppo Economico, ha vinto abbastanza nettamente ma siamo sicuri che sia andato tutto liscio?

Già in fase precongressuale sono stati sferrati duri attacchi, soprattutto da parte dei sostenitori della mozione Marino, alle procedure di tesseramento e voto nei circoli, in particolare della Campania e della Calabria, ma i tanti casi sono arrivate molte testimonianze di brogli.

A Omnibus (il talk show politico della mattina su La7) è stato dimostrato come una giornalista a Castellammare di Stabia abbia votato addirittura 4 volte nell'arco della stessa giornata.

Alcune perplessità poi ci sono state segnalate anche per la velocità di comunicazione dei dati ufficiali. In un paese in cui i risultati elettorali giungono solitamente con molte ore di ritardo rispetto alla chiusura dei seggi, in questo caso i risultati ufficiosi (frutto di exit poll? Mistero a riguardo) sono giunti pochi minuti dopo la chiusura dei seggi e, incredibilmente, rispecchiano perfettamente lo scrutinio ancora in corso. Incredibile in un paese in cui i sondaggisti fanno solitamente sondaggi avventati e imprecisi.

«La verità è che il pesce puzza dalla testa», sparava a zero in un’intervista Achille Occhetto su Pd e dintorni. Titillato sulla questione morale, l’ex capo della Quercia ammetteva che l’olezzo che emana il suo vecchio partito è forte e proviene da capo, corpo e coda. Prima ancora che il Pd andasse definitivamente in trance col caso Marrazzo, da mesi ombre ben più cupe si allungano sul Partito democratico. Inchieste giudiziarie, sospetti, mala politica e scandali stanno travolgendo gli eredi di Berlinguer dalla Calabria alla Puglia, dalla Basilicata alla Campania, passando per il Lazio. La supposta superiorità morale della sinistra s’è così sciolta come neve al sole in moltissime regioni da loro amministrate.

In Campania il Pd è praticamente finito in una discarica. Qui il governatore Antonio Bassolino è stato rinviato a giudizio su richiesta della Procura di Napoli con ipotesi di reato che vanno dalla frode in pubbliche forniture, alla truffa ai danni dello Stato, abuso d’ufficio, falso e reati ambientali, nel periodo in cui era commissario straordinario per l’emergenza rifiuti. Immondizia che ha infestato la regione per mesi, fino all’intervento col pugno di ferro del governo Berlusconi. Pressato dai suoi affinché lasciasse, Bassolino è rimasto però incollato alla poltrona ripetendo a macchinetta di «avere le mani pulite».

Situazione imbarazzante pure a Napoli dove la giunta guidata da Rossa Russo Iervolino è stata decapitata dall’inchiesta sulla delibera della Global Service, società in gara per aggiudicarsi un mega appalto per una serie consistente di lavori pubblici e manutenzioni di competenza del Comune. Qui in manette sono finiti due assessori e due ex componenti della squadra del sindaco. La quale, di fronte alle accuse e alle relative richieste di farsi da parte, ha avuto lo stesso atteggiamento del suo collega di partito: «Sono una persona per bene, non me ne vado». Grumi di collusione con la camorra a Castellammare di Stabia dove un consigliere comunale del Pd è stato addirittura ucciso da un compagno di partito che frequentava lo stesso circolo.

Più a sud stessa musica. Il governatore della Calabria Agazio Loiero è finito nella celebre maxi inchiesta «Why Not?» e anche per lui è arrivato un avviso di garanzia con accuse pesanti: corruzione semplice e corruzione elettorale. Imbarazzo nel partito e reazione piccata dell’indagato: «Dimostrerò di essere estraneo ai fatti». Chiacchieratissimo pure l’ex vicepresidente della giunta Loiero, attuale capogruppo regionale del Pd e coordinatore del partito, Nicola Adamo. Anche per lui una richiesta di rinvio a giudizio nella medesima inchiesta, dopo aver avuto guai giudiziari per ipotetici finanziamenti «pilotati» che hanno interessato aziende amministrate dalla moglie.

Una vera e propria bufera giudiziaria s’è invece abbattuta sull’ex assessore alla Salute della Regione Puglia e poi senatore piddino, Alberto Tedesco. L’uomo di Vendola, indagato con una quindicina di persone per presunti abusi relativi alla fornitura di servizi da parte di società private ad alcune Asl della regione, si difende: «Le accuse su di me? Falsità». Di fatto, tutti gli atti della giunta Vendola sono finiti nel mirino dei pm della Procura di Bari. Scandalo sanità e scandalo escort ha provocato l'azzeramento della giunta.

Guai giudiziari anche per il Pd in Basilicata dove, nell’indagine che ha portato all’arresto per tangenti dell’amministratore delegato di Total Italia, Lionel Levha, c’è finito pure il deputato Salvatore Margiotta. Richiesta di arresti domiciliari negata da Montecitorio e Tribunale del riesame che ha recentemente annullato il provvedimento. Beghe giudiziarie anche per il presidente della Regione Vito De Filippo, accusato di favoreggiamento e rivelazione di segreto d’ufficio. E beghe politiche: la sua giunta s’era dimessa in blocco a fine 2008.

Insomma, grane su grane, che hanno coinvolto sia i vertici che la base del partito. A Roma, per esempio, è finito in manette un presunto stupratore seriale che poi si è scoperto essere coordinatore di un circolo piddino dell’Eur. «C’è una questione morale grande come una montagna», aveva commentato in quell’occasione il candidato alla guida del partito Ignazio Marino. Concetto opposto a quello espresso dal dalemiano Nicola Latorre: «Nel Pd non esiste una questione morale». Il pesce non sembra aver voglia di decapitarsi.

CANDIDATI AL PARLAMENTO: ELEZIONE 13 APRILE 2008

CONDANNATI, PRESCRITTI, INDAGATI, IMPUTATI E RINVIATI A GIUDIZIO

Fonte “Se li conosci li eviti” di Marco Travaglio e Peter Gomez

Partito democratico (18)

Benvenuto Romolo: Ex Margherita, condannato in primo grado nel 1999 a 140 mila lire di ammenda per percosse all’ex convivente. I fatti risalgono alla metà degli anni Novanta. Il legame fra i due si era ormai deteriorato. L’uomo politico pensò bene di concluderlo a ceffoni. La donna lo denunciò e ne ottenne la condanna. In appello, poi, Benvenuto chiese scusa e risarcì il danno, ottenendo la rimessione di querela, il «non luogo a procedere» e l’estinzione del reato.

Bubbico Filippo: Ex Ds, rinviato a giudizio e poi assolto in primo grado per abuso d’ufficio nel processo sulla defenestrazione del direttore generale dell’Asl di Venosa (Potenza); indagato a Catanzaro dal pm Luigi De Magistris per truffa aggravata all’Unione europea in un’inchiesta su 20 miliardi di lire di fondi comunitari stanziati per un progetto di bachicoltura in Basilicata mai decollato; indagato ancora a Catanzaro nell’inchiesta «Toghe lucane» del pm De Magistris con le accuse di associazione per delinquere, abuso e truffa in relazione a diverse operazioni del presunto «comitato d’affari» lucano nella sanità e nei finanziamenti europei a villaggi turistici in Basilicata.

Carra Enzo: Ex Dc ed ex Margherita, condannato in via definitiva a 1 anno e 4 mesi per false dichiarazioni al pubblico ministero. Per i giudici, Carra è un falso testimone che, con il suo «comportamento omertoso» e la sua «grave condotta antigiuridica», ha giurato il falso dinanzi al pool di Milano nel 1993, tentando di «assicurare l’impunità a colpevoli di corruzione, falso in bilancio e finanziamento illecito» nella maxitangente Enimont.

Castagnetti Pierluigi: Ex Dc ed ex Margherita, ha una prescrizione per corruzione. Il 5 dicembre 2002 il pm di Ancona Paolo Gubinelli ha chiesto il suo rinvio a giudizio per corruzione, accusandolo di aver ricevuto una tangente di 15 milioni di lire nel 1991-92 dall’imprenditore anconetano Luigi Marrino in cambio del decreto di concessione dell’Istituto vendite giudiziarie. Secondo l’accusa, Castagnetti – all’epoca capo della segreteria politica del segretario Dc Mino Martinazzoli – avrebbe accettato quel denaro «per compiere atti contrari ai doveri del suo ufficio rivestito» nell’interesse non solo di Marrino, ma anche di un monsignore di Reggio Emilia, Pietro Iotti, che aspirava a ottenere una quota dell’Ivg. Ma il 15 aprile 2003 il gup Sante Bascucci gli concede le attenuanti generiche e dichiara così prescritto il reato. Cocilovo Luigi: Ex Dc ed ex Margherita, rinviato a giudizio a Palermo per corruzione, viene assolto nel 2002 pur essendo ritenuto responsabile del reato, cioè di una mazzetta di 350 milioni versatagli da un imprenditore edile del Ragusano, Domenico Mollica, in cambio della “pace sindacale” nei suoi cantieri. Colpevole, ma assolto: com’è possibile? Semplice. Il Tribunale e poi la Corte d’appello di Palermo, in base alla cosiddetta legge costituzionale del «giusto processo», sono costretti a cestinare la confessione dell’imprenditore che l’aveva corrotto: utilizzata per condannare Mollica per aver corrotto Cocilovo, non può essere usata per condannare Cocilovo per essere stato corrotto da Mollica. Motivo: è stata resa dinanzi al pm, ma non ripetuta in tribunale, dunque inutilizzabile nei confronti di terze persone. Che però Cocilovo si sia fatto corrompere, i giudici del Tribunale lo ritengono più che assodato, tant’è che lo definiscono «collettore di tangenti... disposto a concedere favori sindacali». Crisafulli Vladimiro: Ex Ds, ha visto finire in archivio l’indagine a suo carico per concorso esterno in associazione mafiosa alla Procura di Caltanissetta, nata dal del filmato dei carabinieri che lo ritraeva in un hotel di Pergusa mentre abbracciava e baciava il boss di Enna, Raffaele Bevilacqua, e discuteva con lui di appalti pubblici, assunzioni e favori vari; in un’altra indagine, aperta per rivelazione di segreti d’ufficio dalla Procura di Messina, la sua posizione è stata stralciata con richiesta di archiviazione al gip, che non s’è ancora pronunciato.

Cusumano Stefano: Ex Dc, nel 1999 quand’era sottosegretario al Tesoro per l’Udeur nel governo D’Alema, ma non parlamentare, fu arrestato a Catania per concorso esterno in associazione mafiosa e turbativa d’asta nell’indagine sugli appalti truccati da 120 miliardi di lire per la costruzione dell’ospedale Garibaldi; il 13 aprile 2007 è stato assolto dall’accusa di mafia, mentre la turbativa d’asta è caduta in prescrizione.

D’Alema Massimo: Ex Ds, s’è salvato per prescrizione del reato (accertato) di finanziamento illecito nel processo a proposito di 20 milioni di lire in nero versatigli nel corso di una cena, negli anni 80, dal boss delle cliniche Francesco Cavallari, legato alla Sacra corona unita; ha poi avuto un’archiviazione a Reggio Emilia per i presunti fondi neri incamerati dal Pci-Pds; archiviata a Roma anche l’inchiesta per finanziamento illecito nata a Venezia, che lo vedeva indagato con Achille Occhetto e con Bettino Craxi; a Parma invece, dove Calisto Tanzi sosteneva di averlo finanziato con inserzioni pubblicitarie sulla rivista della sua fondazione Italianieuropei, D’Alema è rimasto un semplice testimone; infine la Procura di Milano sta ancora vagliando la sua posizione nell’ambito delle indagini sulla scalata dell’Unipol alla Bnl di Consorte nell’estate del 2005: il gip Clementina Forleo, che ipotizzava un suo concorso nell’aggiotaggio di Consorte, ha trasmesso gli atti alla Procura, sostenendo che non è necessario il permesso del Parlamento europeo per usare nei suoi confronti le famose intercettazioni telefoniche.

De Filippo Vito: Ex Margherita, indagato e arrestato nel 2002 nell’inchiesta del pm Woodcock, che chiedeva di condannarlo a 1 anno e 6 mesi per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e alla turbativa d’asta (presunte mazzette pagate dalla ditta De Sio per vincere appalti da enti come Inail ed Eni-Agip in Val d’Agri), De Filippo viene assolto alla fine del 2004 insieme ad altri politici coinvolti (mentre vengono rinviati a giudizio gli imprenditori presunti corruttori); indagato nel 2004, sempre a Potenza, per associazione a delinquere di stampo mafioso, scambio elettorale politico-mafioso, corruzione e turbativa d’asta per presunti rapporti con esponenti della cosche della ’ndrangheta e poi archiviato in fase d’indagine; rinviato a giudizio e assolto dall’accusa di abuso d’ufficio per uno scandalo della sanità. A quest’ultimo proposito, come per il suo coimputato Bubbico, il pm chiede la condanna sua (e di altri 10 imputati) a 1 anno e 8 mesi per aver cacciato nel 2001 dalla direzione generale dell’Asl 1 di Venosa (Potenza) Giuseppe Panio e averlo sostituito a Giancarlo Vainieri, gradito alla giunta e in particolare ai Ds, sebbene i giudici del lavoro avessero reintegrato al suo posto il dirigente defenestrato. Ma nella tarda serata del 3 marzo 2008, proprio mentre a Roma i vertici del Pd lo inseriscono nelle liste per le elezioni politiche, il Tribunale assolve lui e gli altri imputati perché «il fatto non costituisce reato». Forse perché, dopo la controriforma dell’abuso del 1996, il reato scatta solo se è dimostrato l’interesse patrimoniale di chi fa e di chi riceve il favore e la volontà specifica di agevolare qualcuno e sfavorire qualcun altro. C’è infine un’indagine sulle pressioni politiche per alcune nomine ai vertici delle aziende ospedaliere lucane. Il pm Woodcock, nel 2007, chiede al Gip di inoltrare al Parlamento la richiesta di usare le intercettazioni telefoniche «indirette», in cui alcuni indagati chiacchierano con 9 parlamentari (tra i quali il governatore De Filippo e l’allora ministro Mastella, che parlano della rimozione del direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza, Michele Cannizzaro, dopo il coinvolgimento di quest’ultimo nell’inchiesta «toghe lucane» a Catanzaro). Il gip respinge la richiesta, perché nel frattempo la Consulta ha demolito la legge Boato, sostenendo che non occorre il permesso delle Camere per usare telefonate in cui compaia la voce di un parlamentare nei confronti di persone intercettate, ma non indagate. Dunque il pm potrà proseguire il suo lavoro senza chiedere nulla al Parlamento. In questa indagine, secondo un quotidiano locale della Basilicata, è inquisito anche De Filippo. Ma questi smentisce e la Procura tace.

Gozi Sandro: Fedelissimo di Romano Prodi, è indagato – secondo «Panorama» – per associazione per delinquere, truffa e violazione della legge Anselmi sulle logge segrete dalla Procura di Catanzaro, nell’ambito dell’inchiesta «Why Not» sui fondi pubblici succhiati da consulenze fittizie e società create da politici calabresi (e non) di destra e di sinistra. «Why Not» è una società di lavoro interinale (appartenente al consorzio Clic) che fa capo al ciellino Antonio Saladino, leader calabrese della Compagnia delle Opere, che nel 2006 avrebbe promesso e forse anche raccolto voti per il centrosinistra.

Laganà Fortugno Maria Grazia: Ex Margherita, la vedova di Franco Fortugno – il medico e vicepresidente del Consiglio regionale calabrese assassinato in un agguato mafioso il 16 ottobre 2005 davanti al seggio dove si vota per le primarie dell’Unione – è indagata in una delle inchieste della Procura di Reggio Calabria sulla malasanità nell’ospedale di Locri, dove il marito era primario in aspettativa e la signora vicedirettrice sanitaria. Ipotesi di reato: truffa ai danni dello Stato, per presunte forniture sanitarie irregolari.

Latorre Nicola: Ex Ds, è stato indagato a Potenza per favoreggiamento, poi ha visto la sua posizione finire in archivio: ascoltando alcune telefonate di un gruppo di uomini d’affari in rapporti con lui e con l’ex presidente del Perugia Calcio, Luciano Gaucci, i magistrati avevano ipotizzato che fosse stato Latorre ad avvertire l’imprenditore dell’indagine a suo carico. Altre intercettazioni telefoniche l’hanno portato Latorre a un passo dal finire indagato a Milano per le scalate bancarie dei furbetti del quartierino. La sua voce è stata infatti registrata più volte, mentre discuteva con il numero uno di Unipol, Giovanni Consorte, dell’assalto alla Bnl, e addirittura con Stefano Ricucci, impegnato nella scalata al Corriere. Il gip Forleo, quando si è trattato di trasmettere le conversazioni al Parlamento per ottenere l’autorizzazione al loro utilizzo, ha scritto che almeno otto telefonate di Latorre (e D’Alema) attestano «i ruoli attivi ricoperti» nella scalata Unipol a Bnl, «contrassegnati all’evidenza da consapevole contributo causale» all’aggiotaggio addebitato a Consorte. Ora la sua posizione è al vaglio della Procura di Milano, a cui il gip Forleo ha trasmesso gli atti, dopo che il Senato ha negato l’ok all’uso delle intercettazioni a suo carico.

Lolli Giovanni: Ex Ds, è imputato in udienza preliminare a Bari per favoreggiamento nell’inchiesta sui presunti abusi della Missione Arcobaleno. Nel 1999 il governo D’Alema lancia l’operazione umanitaria «Arcobaleno» per sostenere i profughi kosovari fuggiti in Albania durante la guerra civile. Secondo l’accusa, durante e dopo la Missione, la Protezione civile allora presieduta da Franco Barberi, grazie a una fitta rete di complicità e amicizie con «esponenti apicali della politica», mise in piedi una «associazione a delinquere finalizzata alla commissione di reati contro la Pubblica amministrazione» (peculato, concussione, corruzione, abuso d’ufficio) e «ogni altro reato necessario o utile per i perseguimento degli scopi illeciti». In pratica la magistratura ritiene di aver scoperto enormi ruberie, tangenti e dirottamenti degli ingenti fondi pubblici stanziati per i profughi, ma in realtà rimasti in Italia. Per questo la Procura barese ha chiesto nel febbraio del 2007 il rinvio a giudizio di 26 persone, a cominciare da Barberi, giù giù fino a Lolli. Nel 1999, quand’era responsabile nazionale Associazionismo e Sport dei Ds, Lolli avrebbe informato due indagati che il loro telefono era sotto controllo, facendo così saltare gli accertamenti in corso da parte degli investigatori. Di qui l’accusa di favoreggiamento. L’udienza preliminare è in corso dal 10 maggio 2007. I reati, a tale distanza dai fatti (l’indagine partì nel gennaio del 2000), rischiano la prescrizione.

Lusetti Renzo: Ex Dc, ex Margherita, già pupillo di De Mita, già assessore a Roma nella giunta Rutelli, in quest’ultima veste nel 2001 è stato condannato dalla Corte dei conti a risarcire il Comune di Roma oltre 2 miliardi di lire per consulenze ingiustificate. In appello l’importo è stato ridotto di un quinto.

Margiotta Salvatore: Ex Margherita, è indagato a Potenza per falso ideologico e a Catanzaro, secondo l’Ansa, per abuso d’ufficio. La prima inchiesta è condotta dal pm Henry John Woodcock, che nel luglio del 2006 ha proposto al gip Alberto Iannuzzi di chiedere alla Camera l’autorizzazione a utilizzare conversazioni telefoniche in cui compare anche la voce di Margiotta. Il caso – dov’è indagata anche la signora Margiotta, cioè il capo della Mobile di Potenza, Luisa Fasano, per abuso d’ufficio – nasce dalle indagini che il 6 maggio 2006 portarono all’arresto del faccendiere Massimo Pizza, accusato di aver messo in piedi un’organizzazione specializzata in grosse truffe ai danni di imprenditori. Dalle intercettazioni telefoniche saltò fuori che Fasano e Margiotta parlavano di una contravvenzione per eccesso di velocità fatta all’autista del deputato e, secondo l’accusa, si interessavano per farla annullare. Margiotta avrebbe addirittura stilato una dichiarazione ufficiale, su carta intestata della Camera dei Deputati, per attestare che il suo autista correva perché lui doveva assolutamente arrivare in tempo a una riunione con un importante ministro della Margherita. Di qui l’accusa di falso ideologico. Ma dalle conversazioni della Fasano – sia con il marito, sia con altre persone – emergerebbe anche una fitta rete di rapporti con uomini politici (soprattutto del centrosinistra), amministratori locali, alti magistrati di Potenza (in particolare il sostituto procuratore generale Gaetano Bonomi) e uomini delle forze dell’ordine, finalizzati a interessi personali e di carriera. Di qui l’ipotesi di peculato e rivelazione di segreto d’ufficio. L’inchiesta di Catanzaro, che riguarda anche i coniugi Margiotta, è quella denominata «Toghe lucane» e condotta dal pm Luigi De Magistris: l’episodio per cui sarebbe indagato Margiotta per abuso d’ufficio è il suo presunto ruolo nella nomina di Michele Cannizzaro (marito della pm potentina Felicia Genovese, indagata e trasferita a Roma) a direttore generale dell’ospedale San Carlo di Potenza. Nella stessa inchiesta è indagata certamente per abuso d’ufficio anche la moglie Luisa Fasano, che il 7 giugno 2007 ha subito anche una perquisizione a casa e in ufficio: in quel momento si è appreso che è accusata di aver «influenzato» – dalla postazione privilegiata di capo della Mobile di Potenza – varie indagini aperte dalla Procura, «insabbiandone» alcune, ostacolando l’attività di magistrati e investigatori, operando per «non garantire il genuino andamento dei procedimenti», cercando di «influire sul loro corretto andamento», «insabbiandone» alcuni e favorendo «il ruolo politico del marito» deputato. Letta la notizia sull’Ansa, Margiotta ha smentito di essere sotto inchiesta («non mi risulta essere indagato e comunque che non ho ricevuto alcun avviso di garanzia»), confermando che invece lo è la sua signora.

Papania Antonio: Ex Margherita, il 24 gennaio 2002 ha patteggiato davanti al gip di Palermo una pena di 2 mesi e 20 giorni di reclusione per abuso d’ufficio. La vicenda risale al 1998. Papania, all’epoca assessore regionale al Lavoro, venne coinvolto in un’inchiesta condotta dalla Procura di Palermo su una compravendita di posti di lavoro. Secondo i magistrati, alcuni esponenti di un sindacato, il Failea, avevano promesso assunzioni a quindici ex detenuti in cerca di lavoro in cambio di somme di denaro che arrivavano fino a 3 milioni di lire. Per le assunzioni i sindacalisti si sarebbero rivolti a pubblici ufficiali e politici. A Papania, che aveva dato lavoro a disoccupati privi dei titoli richiesti dalla legge, i pm avevano contestato il concorso esterno in associazione a delinquere e l’abuso d’ufficio. La prima accusa è stata però archiviata dal gip. Secondo gli investigatori, Papania era stato contattato dall’organizzazione, guidata da Francesco Paolo Alaimo, arrestato, per ottenere l’inserimento dei disoccupati. In un’intercettazione ambientale Alaimo parlava con un altro indagato di una percentuale del 3 per cento da pagare a Papania solo quando fosse riuscito «a far traghettare i soldi gestiti dalla Regione a un’associazione costituita appositamente suggerita dal politico». Secondo Papania però non vi fu mai nessuna promessa di tangente. L’indagine ha riguardato piani di inserimento professionale, cantieri di lavoro, lavoratori socialmente utili, precari tante volte scesi in piazza per sollecitare assunzioni, scatenando proteste con incidenti.

Rigoni Andrea: Ex Margherita, è stato condannato a 8 mesi di reclusione in primo grado per un abuso edilizio sul monte di Porto Azzurro, all’isola d’Elba, insieme alla madre, alla sorella e al direttore dei lavori. In appello, poi, si è salvato grazie alla prescrizione del reato.

Vitrano Gaspare: Ex Margherita, è stato condannato dalla Corte d’appello di Palermo a 9 mesi di reclusione per falso in atto pubblico e imputato in Tribunale per abuso d’ufficio. Secondo l’accusa, per sanare una irregolarità che lo avrebbe fatto decadere da deputato regionale della Sicilia per aver presentato in ritardo la domanda di aspettativa, avrebbe falsificato i registri di presenza nel suo ufficio di dipendente dell’ente Regione, con la complicità di altri due funzionari.

DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO E DELLA SOCIETA' CIVILE.

Corruzione nel cuore dello Stato. Solo alla Difesa 130 dipendenti sotto accusa. Al Mef c'è chi si porta via pure i timbri. Nel giro di due anni hanno subito provvedimenti disciplinari per reati penali anche 800 dipendenti della Guardia di Finanza. Neppure la Presidenza del Consiglio e il Consiglio di Stato sono immuni. Ecco la radiografia degli illeciti nelle istituzioni che non avete mai letto. E l'Anac corre ai ripari: dipendenti onesti, segnalate a noi, scrive Thomas Mackinson su “Il Fatto Quotidiano”. Al Tesoro c’è chi si porta via pure i timbri. Se parlare di 60 miliardi l’anno quasi non impressiona più, si possono però citare i 130 dipendenti della Difesa per i quali nel giro di due anni l’amministrazione ha avviato procedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti. Certo potevano essere anche di più, visto che l’amministrazione conta 31.589 dipendenti tra militari e civili. Fatto sta che tra il 2013 e il 2014 per 109 di loro è scattata la sospensione cautelare dal servizio con privazione della retribuzione, cinque sono stati licenziati in tronco. A cercare bene si scopre che neppure la Presidenza del Consiglio, coi suoi 3.382 dipendenti, è immune agli illeciti: negli ultimi due anni Palazzo Chigi ha dovuto vedersela con un dirigente accusato di peculato e sei procedimenti disciplinari legati a vicende penali, una delle quali per rivelazione di segreto d’ufficio. Nel frattempo al Ministero dell’Economia e Finanze si sono registrati 15 casi su 11.507 dipendenti, compreso quello che s’è portato a casa i timbri dell’ufficio, e vai a sapere per farne cosa.

La mappa anche le guardie fanno i ladri. Pillole da una casistica che disegna una inedita “mappa della corruzione” nelle amministrazioni che sono il cuore dello Stato. La si ottiene analizzando una per una le “relazioni annuali sull’attività anticorruzione” che i funzionari responsabili della prevenzione delle amministrazioni pubbliche devono predisporre entro il 31 dicembre di ogni anno, così come previsto dalla legge Severino (n.190/2012), le norme in fatto pubblicità e trasparenza (decreto n. 33/2013) e le successive “disposizioni sulla condotta per i pubblici dipendenti” (n. 62/2013). Prescrizioni cui ha contribuito in maniera importante l’Autorità nazionale anticorruzione (Anac), fornendo le linee guida del Piano nazionale anticorruzione, elaborando schemi operativi e modelli organizzativi e operativi per le amministrazioni e predisposto formulari destinati alla raccolta, gestione e diffusione dei dati nei piani triennali delle singole PA. Un articolato sistema di prevenzione e contrasto che – visti i numeri – sembra ancora insufficiente a contenere un fenomeno che si consuma prevalentemente nelle amministrazioni statali. Il bubbone, infatti, è tutto lì, come certificano le 341 sentenze pronunciate negli ultimi 10 anni dalla Corte dei Conti per casi di corruzione e concussione: il 62% ha riguardato i dipendenti dello Stato, a pari merito col 12% quelli dei comuni, sanità, enti previdenziali e assistenziali. Residuali, al momento, i reati che riguardano province, regioni e università. Dunque il problema è nel cuore dello Stato. E la tendenza non sembra cambiare, anzi. Dai documenti aggiornati a dicembre si apprende anzi di amministrazioni che hanno visto raddoppiare gli episodi di illecito penale nel giro di un anno. Al Ministero per i Beni culturali ad esempio erano stati 12 nel 2013, nel 2014 sono stati 24. Altri rapporti fanno intravedere la penetrazione verticale dell’inquinamento corruttivo. Non fa gli argine, ad esempio, il Consiglio di Stato. Siamo in casa di giudici, non ci si aspetterebbe che ladri e corrotti avessero dimora. Invece su 869 dipendenti sono stati avviati 15 provvedimenti disciplinari per fatti penalmente rilevanti, due sono terminati con il licenziamento. E che cosa succede, allora, a casa delle guardie? La Finanza reprime gli illeciti. Ma molto lavoro arriva direttamente dai suoi uffici, e su dimensioni di scala impressionanti. La Gdf conta 433 dirigenti, 2.477 ufficiali, 56mila tra ispettori, appuntati e finanzieri. Negli ultimi due anni le Fiamme Gialle hanno avviato ben 783 procedimenti disciplinari per fatti penali a carico dei propri dipendenti: 17 riguardano ufficiali, 766 personale non dirigente o direttivo. Con quali effetti e sanzioni? Una degradazione generale: 658 sanzioni disciplinari di corpo, 40 sospensioni disciplinari, 66 perdite di grado. Nota di colore: nel cortocircuito tra guardie e ladri spunta anche il finanziere “colluso con estranei per frodare la Finanza”. La via italiana all’anticorruzione, visti questi, sembra ancora in salita. La difficoltà è palese, avvertita e denunciata sia dall’interno degli uffici pubblici e sia all’esterno, come in più occasioni ha segnalato la stessa Anac. I responsabili della trasparenza lo dicono chiaramente: a due anni dalla legge che è il perno delle politiche di contrasto al fenomeno, le amministrazioni non hanno poteri effettivi, non ricevono risorse adeguate, devono muoversi in un quadro normativo sempre più complesso e farraginoso che affastella leggi su leggi. Solo gli obblighi di pubblicazione hanno raggiunto quota 270. “Un monitoraggio efficace è difficilmente attuabile”, ammette Luigi Ferrara, da sei mesi responsabile anticorruzione del Mef, “anche in considerazione del fatto che l’Amministrazione non ha poteri d’indagine e che i terzi potenzialmente interessati sono molto numerosi”. E abbiamo visto quanto.

Una macchina senza benzina. Che non va avanti. Il dito è puntato sull’insufficienza di strumenti e risorse per debellare la natura pervasiva e sistemica della corruzione. Si è fatto un gran parlare dei fondi per l’authority, spesso centellinati in nome del risparmio. Per nulla di quelle che servono alle amministrazioni per utilizzare gli strumenti via via codificati dal legislatore per fare opera di prevenzione dall’interno. L’impressione, ammette un funzionario, è che si vuol fare la guerra a parole, a costo zero. E questo atteggiamento vanifica gli sforzi. Un esempio? Il personale individuato dalle amministrazioni per vigilare sui settori a maggior rischio si sarebbe dovuto formare “senza ulteriori oneri per lo Stato, nella Scuola superiore della pubblica amministrazione”. Questo dice la legge 190. Ma quasi mai succede. “Alcune misure e raccomandazioni, per lo più riferite alla Scuola Superiore dell’economia e delle finanze, sono state superate a seguito della soppressione della Scuola medesima”, fa notare con sottile ironia il responsabile anticorruzione del Mef, Luigi Ferrara. L’Anac gli dà ragione, sottolineando come il legislatore avesse assegnato alla formazione un ruolo essenziale, ma a distanza di un anno era ancora “la tessera mancante del mosaico”. Tanto che le attività progettate dalla Scuola nazionale dell’amministrazione “non si può dire siano andate a regime”. A volte le carenze riguardano cose banali: “Mancano gli applicativi informatici ad hoc per il supporto dell’attività di monitoraggio e di attuazione delle misure anticorruzione”, mette a verbale il capo dipartimento per la programmazione e la gestione delle risorse umane del Miur, Sabrina Bono. Del resto, spiega, il nuovo complesso di norme che ha investito le amministrazioni si scontra con la mancanza di personale dedicato. Per far seguito agli impegni previsti dalla normativa anticorruzione la funzionaria si è avvalsa di un dirigente e di due funzionari che “hanno svolto tali funzioni congiuntamente ai compiti assegnati in ragione dell’ufficio d’appartenenza”. Uno modo delicato per dire che non c’è personale da dedicare alla missione, a fronte di un aumento esponenziale degli adempimenti. In questo quadro, l’invito a ciascuna amministrazione a disegnare una propria politica di prevenzione rischia di cadere nel vuoto.

L’authority chiama in causa la politica. Sono criticità ben note all’Anac che negli anni ha lanciato più volte l’allarme sul rischio che le iniziative assunte si traducano in un mero adempimento formale degli obblighi, senza effetti reali sul malcostume nella cosa pubblica. Già nel primo anno di applicazione della 190/2012 l’Autorità chiamava in causa la politica e inviava al Parlamento una durissima relazione: “Appare particolarmente problematica – si legge – la constatazione che il livello politico non abbia mostrato particolare determinazione e impegno”. La rampogna era diretta al legislatore che affastellava leggi su leggi per spegnere l’incendio della corruzione salvo dimenticarsi di aprire i rubinetti. Ma era rivolta anche ai vertici delle amministrazioni pubbliche che all’invito a render conto delle proprie attività, segnatamente in fatto di trasparenza, rispondevano alzando un muro di gomma. Dopo un anno, per dire, solo l’8% dei ministeri si era premurata di indicare un responsabile interno. Molte non trasmettevano i dati, altre non davano seguito agli obblighi in materia di pubblicazione. Con la beffa finale, segnalata direttamente da Cantone pochi mesi dopo, per cui – a fronte del quadro sopra descritto – “la quasi totalità dei dirigenti pubblici ha conseguito una valutazione non inferiore al 90% del livello massimo atteso”.

Quelle denunce mai fatte. Ecco l’ultima speranza. Il dato fa poi il paio con la scarsa propensione dei dipendenti degli “uffici” a denunciare “fatti penalmente rilevanti per i quali siano venuti a conoscenza in ragione del proprio rapporto di lavoro”. Doveva essere la mina che fa saltare il sistema dall’interno, il famoso whisteblowing di matrice anglosassone, tanto enfatizzato dai mezzi di informazione all’indomani dell’approvazione della legge Severino. E quanti “sussurrano”? Pochi, quasi nessuno. Le “Relazioni” dei responsabili anticorruzione confermano che le segnalazioni si contano sulle dita di una mano e che quasi mai arrivano da dentro gli uffici, nonostante la promessa protezione contro rappresaglie e discriminazioni. Se ci sono, quasi sempre arrivano da fuori. Esempi. La Difesa, con 30mila dipendenti, registra un solo caso che abbia comportato una misura di tutela del segnalante. Il Ministero dell’Istruzione ha 4.223 dipendenti in servizio. Il responsabile anticorruzione nel suo rapporto conferma che la procedura è attivata via mail. Quanti l’hanno usata in due anni? Nessuno. Segno che il timore e l’omertà tengono ancora banco negli “uffici”. E forse per questo lo scorso 9 gennaio l’Anac ha diramato una nota per segnalare la propria competenza a ricevere segnalazioni.

Consiglieri, commessi e segretari. Ecco il Parlamento dei parenti. La burocrazia più ricca di intrecci familiari d’Italia? È quella delle Camere. Legami L’ex tesoriere della Margherita Lusi aveva il fratello in Senato e il cognato alla Camera, scrive Sergio Rizzo “Il Corriere della Sera”. Chi guarda con apprensione alla fusione fra le amministrazioni di Camera e Senato, per possibili traumi o crisi di rigetto, si può tranquillizzare. Il ruolo unico è già stato realizzato, con reciproca soddisfazione, per via familiare. La recente nomina all’impegnativo incarico di segretario generale di Montecitorio di Lucia Pagano, figlia dell’ex consigliere della Camera Rodolfo Pagano e moglie del nuovo capo dell’informatica di Palazzo Madama, Mauro Fioroni, ne è la certificazione più limpida. In Italia non esiste burocrazia con intrecci parentali e dinastici così diffusi e profondi come in quella del Parlamento. A tutti i livelli: da quelli più bassi ai più elevati. E altri casi, oltre a quello di Lucia Pagano, rendono bene l’idea. Il suo vice Aurelio Speziale, per esempio, è sposato con Gloria Abagnale, consigliere del Senato. Giovanni Gifuni, consigliere della Camera, è figlio dell’ex potentissimo segretario generale di Palazzo Madama Gaetano Gifuni. Mentre l’ex vicesegretario generale della Camera Carlo Goracci è il papà di Alessandro Goracci, alto funzionario del Senato. E se il padre di Ugo Zampetti, fino a qualche giorno fa capo indiscusso della burocrazia di Montecitorio, era il responsabile della biblioteca di Palazzo Madama, quello dell’attuale segretario generale del Senato Elisabetta Serafin era solo un commesso. Commesso come anche il papà di Daniela D’Ottavio, consigliera d’Aula. A dimostrazione del fatto che l’ascensore sociale, fermo ormai ovunque, qui non è mai andato in manutenzione. «vietato» Anche se qualche volta s’inceppa. Figlio di un ex consigliere della Camera, Fabrizio Castaldi ne sarebbe diventato a 43 anni uno dei segretari generali più giovani di sempre se la sua candidatura non fosse naufragata in extremis. Come quella di Giacomo Lasorella, incidentalmente fratello della giornalista Rai Carmen Lasorella. E quella del possibile terzo incomodo Costantino Rizzuto Csaky, consorte di Maria Teresa Stella, consigliera della Camera al servizio biblioteca. Parentela, quest’ultima, che ci riporta a un illustre caso del passato. Fece scalpore, cinquant’anni orsono, il matrimonio fra Antonio Michela-Zucco, nipote dell’omonimo inventore della rivoluzionaria macchina di stenotipia, e Magda Sammartino. Erano entrambi stenografi del Senato e la cosa venne considerata causa di incompatibilità. Per rimuoverla fu deciso il trasferimento della moglie alla Camera. Dove Magda Sammartino fu protagonista di una splendida carriera arrivando, prima donna nella storia, all’incarico di vicesegretario generale. Ma erano altri tempi. i Oggi la presenza di coniugi nelle stanze dei bottoni della stessa amministrazione non scandalizza più davvero nessuno. Marito e moglie sono il capo servizio controllo parlamentare Carlo Lomaglio e la direttrice dell’ufficio pubblicazioni della Camera Consuelo Amato: figlia del magistrato ed ex capo dell’amministrazione penitenziaria Nicolò Amato. Marito e moglie sono Stefano Cicconetti, dirigente di Montecitorio ora in pensione, e la sua collega ancora in servizio Maria Teresa Calabrò: figlia del potentissimo ex presidente del Tar Lazio e dell’Agcom Corrado Calabrò. Marito e moglie sono Alessandro Palanza, ex vicesegretario generale della Camera e la funzionaria Martina Mazzariol. Attualmente vicepresidente della Fondazione Italiadecide di Luciano Violante, Palanza ha guidato a lungo un’amministrazione nella quale aveva un ruolo di rilievo anche sua sorella Maria Rita. Marito e moglie sono Pietro Calandra, alto dirigente del Senato poi finito all’autorità di vigilanza dei lavori pubblici su indicazione del Pd e la funzionaria di Palazzo Madama Stefania Boscaini. Ma si potrebbe andare avanti chissà quanto, notando come il gioco degli intrecci e delle parentele non sia limitato ai soli burocrati. Dice tutto quello intorno alla funzionaria della Camera Giuliana Coppi. Figlia del principe del Foro Franco Coppi, legale di Silvio Berlusconi, è sposata a sua volta con un altro avvocato. Non uno dei tanti. Il suo nome è Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia eletto al consiglio superiore della magistratura in quota al partito di Berlusconi. Si potrebbe anche ricordare come il vicesegretario della Camera Guido Letta sia il nipote di Gianni Letta e cugino di Enrico Letta. Oppure che il funzionario del Senato Luigi Ciaurro sia figlio dell’ex ministro liberale Gianfranco Ciaurro, scomparso ormai quindici anni fa. O che Valentina Loiero, figlia dell’ex governatore della Calabria Agazio Loiero, e Giulia Laganà, figlia dell’ex parlamentare del Pd Tana De Zulueta, facciano parte dello staff della presidente Laura Boldrini. La cui segreteria, peraltro, era stata per otto mesi guidata da Marco Cerase, genero di Alberto Asor Rosa, prima che venisse trasferito ad altro incarico per far posto all’astro emergente Castaldi. Come dimenticare poi che l’ex tesoriere della Margherita Luigi Lusi, ex senatore, aveva il fratello direttore del servizio del Senato, mentre suo cognato Francesco Petricone è funzionario della Camera? E che Cristiano Ceresani, un altro funzionario della Camera già vicecapo legislativo di Gaetano Quagliariello e oggi addirittura capo con il ministro Maria Elena Boschi, è il marito di Simona De Mita, quindi genero dell’ex presidente del Consiglio e attuale sindaco di Nusco Ciriaco De Mita?  

Più di 5 milioni di italiani con la tangente o la raccomandazione, scrive Paolo Comi su “Il Garantista”. C’è una ricerca del Censis, che è stata presentata a Roma, molto interessante su svariati argomenti (la ricerca è sul rapporto tra mondo produttivo e pubblica amministrazione) e che ci fornisce in particolare un dato sul quale sarà giusto riflettere. Questo: quattro milioni e mezzo di italiani ammettono di avere fatto ricorso a una raccomandazione per ottenere una maggior velocità (e un buon esito) alle pratiche disperse nei meandri dell’amministrazione pubblica. E addirittura 800 mila ammettono di avere fatto un regalino a dirigenti e funzionari per avere in cambio un atto dovuto. Regalino, a occhio, è qualcosa di simile alla tangente. Le cifre poi vanno lette bene. Se quattro milioni e mezzo ammettono, è probabile che altri quattro milioni e mezzo non ammettono. E così per gli 800 mila. Le cifre vere potrebbero essere 9 milioni di raccomandazioni e un milione e seicentomila piccole tangenti. Se consideriamo che non tutta la popolazione attiva (e cioè circa 40 milioni di persone) ha avuto bisogno di velocizzare pratiche nella pubblica amministrazione (diciamo circa la metà) otteniamo questo rapporto: su 20 milioni di persone che hanno avuto problemi con la pubblica amministrazione, 9 milioni hanno fatto ricorso a una raccomandazione, perché conoscevano qualcuno, un milione e seicentomila ha pagato una tangente, altri 9 milioni e quattrocentomila se ne sono stati buoni buoni in fila ad aspettare. E’ abbastanza divertente intrecciare questi dati coi dati su coloro che chiedono più rigore, più pene, severità e ferocia contro la corruzione. Corrotti, corruttori e ”punitori” di corruttori e corrotti, spesso, sono la stessa persona. La ricerca del Censis ci consegna una realtà nitida e incontrovertibile: almeno la metà degli italiani fa uso di forme soft di corruzione. E le forme, probabilmente, sono soft perché non esistono le possibilità che siano hard. Perché questi nove milioni non hanno né potere né soldi. Naturalmente di fronte a questo dato si può dire: colpa dei politici che danno il cattivo esempio. Beh, questa è una stupidaggine. Non c’è un problema di cattivo esempio, perché anzi, da almeno vent’anni, i politici e i giornalisti e tutti i rappresentanti delle classi dirigenti, delle professioni, dei mestieri e della Chiesa, non fanno altro che indicare la corruzione come il peggiore dei mali che ammorba la nostra società. Il problema è che spesso, gli stessi, ricorrono in qualche modo alla corruzione e non si sentono per questo incoerenti. Qualche caso un po’ clamoroso di ipocrisia è saltato fuori recentemente dalla cronaca, fior di imprenditori antimafia e anticorruzione presi con le mani nel sacco. La gran parte dei casi però non emerge. Potete star sicuri, ad esempio, che una buona parte degli opinionisti, dei giornalisti e dei politici che tutti i giorni si impancano e vi fanno la lezione di moralità, qualche mancetta l’hanno lasciata, qualche pagamentino in nero lo hanno accettato, qualche rimborso spese di troppo… L’altro giorno, in una intervista divertentissima, il vecchio Pippo Baudo raccontava, sorridendo, di quando il principe dei moralizzatori, Beppe Grillo, si faceva pagare dalla Rai il rimborso spese per il soggiorno a Roma, se lo metteva in tasca, e poi andava a mangiare e a dormire a casa di Pippo. Il vecchio Baudo se la rideva, e ha anche raccontato di quel giorno che Beppe gli ha detto: «Magari, per sdebitarmi, lascio una mancia alla Nena». La Nena era la donna di servizio di Baudo, e Baudo subito ha detto a Beppe che gli pareva un’ottima cosa, e gli ha chiesto quanto pensava di lasciarle. Grillo, vecchio genovese, ha risposto: «Che dici, cinquemila?». «Non sarà troppo?, gli ha ribattuto, ironico, Pippo Baudo. E allora Grillo ha sentenziato: «No, meno di 5000 no, allora è meglio niente». E non gli ha lasciato niente… Così il rimborso se l’è preso tutto intero. Non sarà colpa dell’esempio, ma comunque è colpa dei politici. La raccomandazione e la tangente sono un frutto del modo nel quale è organizzata la vita pubblica. E i politici di questo sono responsabili. La mancata trasparenza (nella pubblica amministrazione come negli appalti) è la causa vera della corruzione. Perché la rende possibile e perché la rende indispensabile. Però di tutto questo frega poco a tutti. Prendiamo la questione degli appalti. E’ chiaro come l’acqua che il sistema complicatissimo vigente (in Italia ci sono oltre 30 mila stazioni appaltanti, e non si sa a chi rispondano, e non si sa chi decide, e ognuna adopera criteri tutti suoi per valutare, e non sia sa chi e come può controllare ed eventualmente indagare) consegna poteri discrezionali enormi a un certo numero di persone e -spesso – ad alcuni politici. Che naturalmente esercitano questo potere. Alcuni, meritoriamente, in modo onesto – ma perché sono disperatamente onesti loro, incorruttibili – alcuni in modo meno onesto, o comunque traendone qualche utilità. Moltissime volte l’appalto viene assegnato senza gara. Altre volte col sistema del ribasso dei prezzi, che è un sistema assurdo perché consegna un potere immenso a chi decide e presuppone un rapporto forte e sregolatissimo tra impresa e stazione appaltante. Dovrebbe essere abbastanza chiaro che, in seguito a una perizia seria, si può stabilire che costruire in quel luogo una scuola con certe caratteristiche e di una certa grandezza costa una cifra tot. Diciamo 10 milioni. L’appalto non può essere dato a chi chiede meno. Se uno mi offre di fare quella scuola a 5 milioni, mi sta fregando. O pensa di fare la scuola con la carta pesta, o pensa di farla piano piano e che tra due anni chiederà una revisione prezzi e otterrà 15 milioni ( e poi magari la farà lo stesso di carta pesta…). L’appalto deve essere concesso a una cifra fissa all’azienda che da le maggiori garanzie. E da un numero ridottissimo e quindi controllabile di stazioni appaltanti. Se fosse così sarebbe molto difficile corrompere qualcuno. E la stessa cosa per le pratiche della pubblica amministrazione. Vanno semplificate, spesso abolite, deburocratizzate e risolte in tempi certi. Ottenere qualcosa del genere sarebbe una riforma seria. Una riforma dello Stato molto, molto più utile e profonda dell’abolizione del Senato e roba simile. Perché nessuno le chiede queste leggi? Perchè la politica e l’intellettualità italiana sono nelle mani di un cerchio magico (che si è costruito, trasversale, attorno al triumvirato Anm-Travaglio- Salvini) il quale se ne frega delle riforme e chiede solo pene severe. Per loro non contano le leggi, le idee, contano gli anni di carcere e basta. Adesso hanno stabilito che la pena massima per la corruzione sale da otto o dieci anni. E sono felici, e brindano, e sentono le manette tintinnare allegre. Riforma forcaiola e inutile. Il problema non è di tenere un povero cristo in prigione per due anni di più, il problema è di rendergli impossibile la corruzione. Ma questa idea non piace a nessuno. Non piace a Salvini, non piace a Travaglio, non piace all’Anm, non piace, probabilmente, neanche a Renzi, e nemmeno ai 4 o 9 o 10 milioni di italiani delle raccomandazioni e dei regalini. A loro piace solo sapere che impiccheranno Lupi con una corda d’oro.

Repubblica inetta, nazione corrotta, scrive Massimo Cacciari su “L’Espresso”. Nonostante gli angeli vendicatori di Tangentopoli la corruzione dilaga ancora in Italia. E la spiegazione si trova in Machiavelli: è l’incapacità di governare a produrre malaffare e conflitti d’interessi. Corruzione, corrotti, corruttori. Non si parla d’altro. Ma come? Non avevamo stretto un patto col destino dopo Tangentopoli? Che mai più saremmo incorsi in simili peccati? Non erano discesi dal Sinai eserciti di Di Pietro, con il loro seguito di angeli vendicatori? E ancora non vi è chi tema le loro pene? Neppure i nipotini di Berlinguer e i giovani scout? Nulla dunque può spezzare l’aurea catena che dalle origini della patria va ai Mastellas e da lì ai Boccias, e abbraccia in sé destri e sinistri, senes, viri et iuvenes? Ah, se invece di moraleggiare pedantemente, leggessimo i padri! «Uno tristo cittadino non può male operare in una repubblica che non sia corrotta» (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Libro III, cap.8). Niccolò vedeva dall’Albergaccio meglio che noi ora da Montecitorio. Tristi cittadini sempre ci saranno. Ma in una repubblica che non sia, essa, corrotta, poco potranno nuocere e facilmente essere “esiliati”. Gli “ordini” contano, le leggi, che non sono fatte dai giudici. Le leggi non cambiano la natura umana, ma la possono governare. È la repubblica corrotta che continuamente produce i corrotti. E quando una repubblica è corrotta? Quando è inetta. Quando risulta impotente a dare un ordine alla molteplicità di interessi che la compongono, quando non sa governare i conflitti, che sono la ragione della sua stessa vita, ma li patisce e li insegue. Se è inetta a mutare in relazione all’“occasione”, se è inetta a comprendere quali dei suoi ordini siano da superare e quali nuovi da introdurre, allora è corrotta, cioè si corrompe e alla fine si dissolverà. Corruzione è anzitutto impotenza. E impotenza è incapacità di “deliberare”. Una repubblica strutturata in modo tale da rendere impervio il processo delle decisioni, da rendere impossibile comprendere con esattezza le responsabilità dei suoi diversi organi, una repubblica dove si è costretti ogni volta alla “dannosissima via di mezzo” (sempre Niccolò docet), alla continua “mescolanza” di ordini antichi e nuovi, per sopravvivere - è una repubblica corrotta e cioè inetta, inetta e cioè corrotta. Ma quando questa infelice repubblica darà il peggio di sé? Con megagalattiche ruberie da Tangentopoli? Purtroppo no. Piuttosto (“banale” è il male), allorchè diviene quasi naturale confondere il privato col pubblico, concepire il proprio ruolo pubblico anche in funzione del proprio interesse privato. Magari senza violare norma alcuna - appunto perché una repubblica corrotta in questo massimamente si manifesta: nel non disporre di norme efficaci contro i “conflitti di interesse”, di qualsiasi tipo essi siano. Una repubblica è corrotta quando chi la governa può credere gli sia lecito perseguire impunemente il «bene particulare» nello svolgimento del proprio ufficio. Che questo “bene” significhi mazzette, o essere “umani” con amici e clienti, “essere regalati” di qualche appartamento, manipolare posti nelle Asl o farsi le vacanze coi soldi del finanziamento pubblico ai partiti, cambia dal punto di vista penale, ma nulla nella sostanza: tutte prove della corruzione della repubblica. Poiché soltanto “il bene comune è quello che fa grandi le città” (Discorsi, Libro II, cap.2). Il politico di vocazione può riuscire nel difficile compito di tenerlo distinto sempre dal suo privato. Il politico di mestiere, mai. Quello che si è messo alla prova nei conflitti della repubblica senza corrompersi, può farcela. Il nominato, il cooptato, che abbia cento anni o venti, mai. Ma abbiamo forse toccato il fondo. E questo deve darci speranza. Per vedere tutta la virtù di Mosè, diceva Niccolò, era necessaria tutta la miseria di Israele.

ALL’INIZIO FU TANGENTOPOLI. L’ultimo bilancio dell’inchiesta mani pulite, condotta dal pool di magistrati della procura di Milano, risale al febbraio del 1999. Anche perché da allora la stessa inchiesta mani pulite può dirsi morta, mentre Tangentopoli continua ad imperare. A sette anni dall’avvio delle indagini sulla corruzione politica e finanziaria che va sotto il nome di Tangentopoli, cominciate il 17 febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa, il solo pool di Milano aveva indagato 3.200 persone, aveva chiesto 2.575 rinvii a giudizio e aveva ottenuto 577 condanne, di cui 153 con sentenza passata in giudicato. Le statistiche ci dicono ancora che fino alla fine 1997 la guardia di finanza aveva accertato reati fiscali legati a Tangentopoli per un importo di 3.609 miliardi. Sono cifre che bastano da sole a dare un’idea della diffusione in Italia del sistema della corruzione che ha riguardato arricchimenti personali, ma anche e soprattutto maniere illecite di finanziamento dei partiti mediante il sistema delle tangenti, le cosiddette bustarelle, pagate da imprenditori ad esponenti politici. Quello che le statistiche non possono però raccontarci riguarda i criteri in base ai quali, non solo il pool di Milano, ha portato avanti queste inchieste. Anche perché, pur essendo – per ammissione degli stessi magistrati inquirenti - la corruzione estesa a tutti i partiti, nessuno escluso, decapitando di fatto solo una parte della classe politica e permettendo ad un’altra di salire al potere, l’inchiesta giudiziaria mani pulite ha avuto un notevole impatto sugli assetti istituzionali del Paese.

Mose, ultimo capitolo della tangentopoli della Seconda Repubblica. Da Bertolaso a Galan, passando per Penati, scrive Pietro Salvatori su “L’Huffingtonpost” All’inizio fu Tangentopoli. Una purga benefica per il sistema, dicevano. Qualcosa non deve essere andato per il verso giusto se vent’anni dopo un pubblico ministero come Carlo Nordio presenzia ad una conferenza stampa snocciolando parole come queste: “Avendo trattato Tangentopoli 20 anni fa posso dire che gran parte della corruzione scoperta oggi è simile e molti dei protagonisti sono gli stessi. Ma questo è un sistema molto più sofisticato". Punto. Si riparte da Expo, Mose, la cricca del G8, gli scandali milanesi, il “colpo di culo” del terremoto abruzzese. Se è vero, come sosteneva Honoré de Balzac, che “la corruzione è l’arma della mediocrità”, la grande aspirazione della classe politica emersa nel post-Tangentopoli sarebbe dovuta essere quella di elevare la schiera dei mediocri spazzati via dalle procure in un giardino di ottimati dai saldi principi e dalla retta condotta. Non sembra essere andata così. Perché nel pieno di una crisi economica di portata storica il ricorso alle Grandi opere salvifiche è stata spesso la bandiera sotto la quale combattere per creare occupazione, sviluppo e rivitalizzare una filiera produttiva in debito d’ossigeno. Ma è indubbio che quella dei “big deal all’amatriciana” è sovente stata un’etichetta latrice di operazioni opache, appalti pilotati, se non di corruttele. Gli ultimi sono gli episodi che hanno visto trentacinque arresti nell’ambito della realizzazione del Mose, il gigantesco sistema di paratoie mobili che dovrebbe isolare Venezia dai rovesci delle maree. Trentacinque paia di manette sono scattate ai polsi di altrettanti indagati. Tra questi figurano l’azzurro Renato Chisso, assessore regionale ai Trasporti, il democratico Giampietro Marchese, collega di Chisso in Regione, ma soprattutto Giorgio Orsoni, sindaco Pd della città lagunare. I provvedimenti di custodia cautelare sarebbero stati trentasei, se non che il berlusconiano Giancarlo Galan siede tra i banchi della Camera, e per lui bisognerà attendere l’autorizzazione a procedere da parte di Montecitorio. Quello delle fila di Forza Italia è uno sfarinamento che va avanti da tempo. Per tacer del leader, le inchieste che coinvolgono i fedelissimi dell’ex Cavaliere occupano da mesi le pagine della cronaca giudiziaria: da Denis Verdini (sotto botta per la gestione del Credito cooperativo fiorentino) a Marcello Dell’Utri (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), passando per Claudio Scajola, arrestato per aver favorito la latitanza dell’ex collega onorevole Amedeo Matacena. La vecchia guardia, si dirà. Vero, ma solo in parte. Perché, a molte delle figure riemerse da un’epoca che fu, si affiancano volti nuovi di una classe dirigente maturata dopo il 1994. Prendiamo Orsoni. Fino alla metà degli anni zero ha guidato la società ingegneristica dell’aeroporto di Venezia ed è stato consigliere di amministrazione alla Biennale. La sua frequentazione con gli ambienti della politica è tutto sommato residuale (tecnico al ministero dei Lavori pubblici dal ’96 al ’98, un’esperienza da assessore del capoluogo lagunare terminata nel 2005) fino al 2010. È quando la svolta fusionista veltroniana si è consumata da tempo che viene individuato come volto nuovo, profilo da grand commis tecnico, da presentare sul palcoscenico nazionale, lanciato nel 2010 verso la polverizzazione dell’avversario di centrodestra, Renato Brunetta, e da innalzare a guida Democratica di uno dei patrimoni storici dell’umanità. Sorte condivisa da Giampietro Marchese, che, forte di una prima elezione in consiglio regionale nel 2005, non ha ancora festeggiato il primo decennio con una targhetta di un certo rilievo sulla porta dell’ufficio. Orsoni avrebbe ricevuto soldi per finanziare la propria campagna elettorale, in cambio di “agevolazioni” ai suoi co-imputati una volta eletto. Proprio da questo punto di vista, sono stati i magistrati che indagano sull’altro grande scandalo delle ultime settimane, quello che riguarda l’Expo 2015, a mettere in luce un paradigma delle inchieste che hanno terremotato la politica del post-Tangentopoli. Mentre vent’anni fa ci si sporcava le mani avendo come scopo principale quello di apportare benefici al proprio partito, oggi a muoversi sono cupole ramificate che sì coltivano rapporti con la politica o che ne fanno parte, ma che si mettono in moto per tornaconto personale. Così se alla metà degli anni ’90 si poteva dare a Primo Greganti il beneficio del dubbio che i soldi in nero fossero transitati per un suo conto avendo come destinazione finale il sol dell’avvenire, oggi l’accusa è quella che si sia mosso per intascarsi una bustarella degli appalti che tentava di pilotare. Così come i suoi sodali tripartisan nella cricca che sguazzava nelle ricche commesse dell’esposizione universale: l’ex democristiano Gianstefano Frigerio, e l’ex senatore berlusconiano Luigi Grillo. Anche qui un miscuglio di protagonisti datati di un’epoca che sembrava archiviata si unisce senza soluzione di continuità a rampanti arrivisti dell’ultima ora, come il responsabile dell’ufficio contratti Angelo Paris, che ha ammesso di aver commesso alcuni dei presunti illeciti contestatigli “per la promessa di una futura carriera”. La primogenitura della lunga serie di mani sporcatesi nel tentativo di drenare parte del fiume di denaro diretto verso le grandi opere è dell’uomo nuovo per eccellenza dell’epoca d’oro di Silvio Berlusconi, quel Guido Bertolaso che ha guidato le sorti di mezza Italia da capo della Protezione civile e sottosegretario della presidenza del Consiglio. Una carriera folgorante, rimasta invischiata in un “sistema gelatinoso” che lo ha visto coinvolto insieme ad Anemone e Balducci, accusati di aver distratto soldi dall’organizzazione del G8 della Maddalena, dai cantieri messi in piedi per i 150 anni d’Italia e dall’allestimento dei mondiali di nuoto. Vecchi sistemi, uomini e fini nuovi. Il trait d’union delle due epoche è quel Filippo Penati che non ha conosciuto il carcere forse solamente perché la prescrizione è intervenuta a estinguerne i reati. Anche il “sistema Sesto” era imperniato su opere pubbliche. Da un lato due aree industriali (le cosidette Falck e Marelli) per la cui riqualificazione, secondo gli inquirenti, girarono una serie di mazzette. Dall’altra l’acquisto (dal gruppo Gavio) della Provincia di parte delle quote della Milano-Serravalle, con un danno per le casse erariali stimato in 119 milioni di euro. Penati ha un cursus honorum nel corpaccione dei partiti della Prima repubblica simile a quello di Greganti. Ma i fatti contestatigli risalgono a quando, da semplice assessore di Sesto San Giovanni, arrivò a toccare con mano il potere vero, come presidente della Provincia meneghina, un incarico che lo fece incamminare verso la grande sfida (persa) per la guida del Pirellone contro Roberto Formigoni. Da semplice quadro di partito negli anni nei quali l’Italia veniva sconvolta dalle inchieste del pool di Milano, è nella Seconda Repubblica che l’ex sindaco di Sesto San Giovanni si proiettò sul panorama nazionale. Prima da presidente provinciale, nel 2004, poi da membro del coordinamento del Pd veltroniano, infine da capo della segreteria politica di Pier Luigi Bersani una volta che questi vinse le primarie per la segreteria del 2009. Insomma, per le mele marce della politica dalla metà degli anni ’90 a oggi, le grandi opere sono spesso “una botta di culo”. Così Ermanno Lisi, assessore della giunta di centrosinistra de L’Aquila, definiva il terremoto che provocò 309 vittime nel capoluogo abruzzese. In barba alle bare e alle migliaia di sfollati, Lisi vedeva nelle montagne di soldi che sarebbero arrivati per la ricostruzione una grande opportunità di business. Dello stesso parere sembrerebbero altri tre amministratori aquilani: il vicesindaco Roberto Riga, indagato per una presunta mazzetta da 30mila euro, un ex consigliere comunale con delega, Pierluigi Tancredi del Pdl, accusato di corruzione, e un altro ex assessore, Vladimiro Placidi. Solo punte dell’iceberg in un sistema che ha portato l’Autorità di vigilanza dei contratti pubblici a trasmettere negli ultimi anni alle procure e alla Corte dei Conti più di settanta indagini e quasi mille denunce per false dichiarazioni nelle gare di appalto. Tante, troppe, per la voracità di quella classe politico-imprenditoriale che si doveva affrancare dalla mediocritas dei propri padri. E che, al contrario, a dar retta a Nordio, insieme ai suoi predecessori rischia di trasmettere sugli schermi degli italiani il brutto film di una nuova Tangentopoli.

Tangenti Mose, Massimo Carlotto: «Il Nord è più criminale del Sud». Tangentopoli in Veneto. Lo scrittore Carlotto: «All'estero ci studiano come laboratorio della nuova malavita economica». Intervista di Gabriele Lippi su “Lettera 43”. Chi ha letto i suoi libri, probabilmente, nella mattinata di mercoledì 4 giugno 2014 è rimasto meno stupito di altri. Di intrecci tra criminalità e politica in Veneto, Massimo Carlotto ne aveva parlato anni prima che lo scandalo Mose scoppiasse coinvolgendo il sindaco di Venezia Giorgio Orsoni, l'assessore regionale alla Infrastrutture Renato Chisso e l'ex governatore, ora deputato di Forza Italia, Giancarlo Galan. «NORD PIÙ CRIMINALE DEL SUD». Nessuna sorpresa dunque per Carlotto, che a Lettera43.it spiega come questo sistema fosse «evidente da tempo», e racconta come, ormai, «il Nord è ben più criminale del Sud» e viene studiato nelle università straniere «come il laboratorio della nuova criminalità economica». Una situazione riemersa con prepotenza dalle acque torbide dei canali veneziani. Massimo Carlotto, scrittore nato a Padova.

DOMANDA. Politica, malaffare, criminalità. Quello scoppiato a Venezia sembra un romanzo di Carlotto.

RISPOSTA. Devo dire che questo l'avevo raccontato in Alla fine di un giorno noioso.

D. Sapeva già tutto?

R. In Veneto si aspettava da tempo questa azione della magistratura, il sistema era evidente, era stato messo a nudo dai comitati sul territorio.

D. Come si sapeva?

R. Le denunce sono state fatte nel corso degli anni in un silenzio assordante e nella protervia con cui i politici coinvolti rispondevano alle domande dei comitati. La battaglia è stata gestita da una minoranza forte e agguerrita del Veneto. Ora, finalmente, il territorio può tirare un sospiro di sollievo.

D. Corruzione e politica. Cosa sta succedendo al Veneto?

R. Nulla di nuovo. Questo è un sistema che ha governato la Regione per moltissimi anni. Ci sarà un motivo per cui nelle università straniere il Nord Est italiano è studiato come il laboratorio della nuova criminalità economica. Si è creata una connessione tra la criminalità e tre ambienti fondamentali della società: imprenditoria, politica e finanza.

D. E da questa unione cosa è nato?

R. Un sistema che ha permesso nel passato grandi accumulazioni di capitale che poi si sono riversate in tutti questi agganci nel mondo dei grandi appalti. Ma si tratta di una situazione definita ormai da tempo.

D. Quello del Nord Est virtuoso e motore dell'economia italiana è un falso mito, dunque?

R. Il mito è dovuto anche al fatto che ci sono stati moltissimi imprenditori onesti che hanno creato un sistema economico vincente. Poi si sono infilati anche quelli che hanno accumulato grandi ricchezze evadendo sistematicamente le tasse, con il lavoro nero, con lo smaltimento illegale dei rifiuti industriali.

D. La superiorità morale del Nord vantata dalla Lega non esiste?

R. Lo dico da moltissimo tempo che il Nord è ben più criminale del Sud, perché i veri affari avvengono qui. Bisogna dire la verità anche sui tempi in cui le mafie si sono insediate in Settentrione. La 'ndrangheta è arrivata a Torino nel 1964. È l'Italia nel suo complesso che ha un sistema criminale di cui bisogna liberarsi al più presto.

D. L'inchiesta sul Mose andava avanti da anni, ma si aspettava uno scandalo di tali proporzioni?

R. Mi sorprende solo il coinvolgimento del sindaco di Venezia. Gli altri nomi circolavano da tempo nell'ambito delle indagini e tra coloro che si occupavano di queste cose.

D. Il sindaco di Venezia, un assessore regionale, l'ex presidente della Regione. Uno scandalo bipartisan. La politica veneta è tutta da rottamare?

R. Esiste anche una parte della politica onesta, anche in senso bipartisan. C'è però un sistema che ha governato il Veneto per tantissimi anni e che ora deve essere debellato completamente. Ma poteva essere fatto prima.

D. In che senso?

R. Si sta facendo ora un'opera di pulizia che prima della magistratura toccava alla politica. Agli elettori. Il sistema politico era evidente, ma si è preferito mantenerlo perché era fortemente ancorato a quello economico.

D. Come si spiega il ritorno forte della magistratura sugli appalti?

R. Credo che siano cambiati anche gli equilibri politici, in particolare per quanto riguarda il Veneto. Pensare che il lavoro dei magistrati non sia influenzato da queste cose significa non essere ancorati alla realtà. D'altra parte gli appalti sono diventati un'occasione di riciclaggio del denaro sporco per la criminalità organizzata.

D. Come mai proprio gli appalti?

R. Quando la criminalità ricicla su attività normali non c'è guadagno, c'è una perdita che la guardia di finanza calcola intorno al 30%. Investendo in attività pubbliche, invece, la criminalità riesce anche a guadagnare sui soldi che investe, oltre a riciclarli.

D. Per Galan c'è una richiesta d'arresto. Pensa che il parlamento darà l'ok?

R. Questo non lo so ed è difficile dirlo. Quello che secondo me è politicamente importante è la dimensione complessiva dell'inchiesta per cui il sistema nel suo complesso è stato messo a nudo.

D. Sembra anche qualcosa che va oltre Tangentopoli. Tra gli indagati ci sono magistrati, ex generali della guardia di finanza. La criminalità si insinua ovunque.

R. Questo è il dato della mutazione antropologica di questa società. La dimensione dell'agire criminale è di una illegalità diffusa che ha contagiato nel suo complesso la società.

D. Cioè?

R. Non c'è aspetto che non sia toccato o influenzato da queste forme illegali. Niente di cui stupirsi in un Paese in cui la corruzione aumenta del 100% ogni anno.

D. Se fosse un libro di Carlotto come andrebbe a finire?

R. Arriverebbe qualcuno che mette tutto a tacere, come successo con Tangentopoli. Si sono accordati sul 10% di tangente e tutto è continuato nella normalità, fino allo scandalo successivo. In questo Paese gli scandali sono serviti spesso a sanare le contraddizioni. Questo è un po' diverso, ma non bisogna abbassare la guardia per il futuro.

D. Insomma, il lieto fine c'è solo per i cattivi della storia.

R. Esattamente.

Basta sdegno e chiacchiere. Trentuno anni e costi quadriplicati. Quando diremo basta alle mazzette? Per il Mose ci sono voluti nove volte i tempi del colossale ponte di Donghai, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. «Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta. L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento...». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose... Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla... Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva... Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

Dopo i «100 motivi per amare l’Italia». Ecco (almeno) 10 motivi di vergogna. L’amore per il nostro Paese non cambia ma vicende come quella di Venezia (Mose), o di Genova (Carige) e Milano (Expo), impongono una riflessione, scrive Beppe Severgnini su “Il Corriere della Sera”. Abbiamo appena pubblicato su Corriere.it «100 buoni motivi per amare l’Italia». Sono stati tradotti in inglese, spagnolo e francese. Vicende come quella di Venezia (Mose), Genova (Carige), Milano (Expo) - tanto per restare alla cronaca di questi giorni, e restare lontani dalle paludi romane e dai buchi neri del sud - non ci fanno cambiare idea. Ma onestà impone di aggiungere, ai 100 motivi d’orgoglio, almeno 10 motivi di vergogna: intraducibili. Ecco perché, purtroppo, in queste ore l’Italia ci imbarazza.

1. Perché tutti sono innocenti finché non è provata la colpevolezza. Ma insomma.

2. Perché gli oppositori drammatizzano e i governanti minimizzano. Salvo scambiarsi i ruoli al prossimo giro.

3. Perché la fame è fisiologica, ma l’ingordigia è patologica: dove finiscono tutti quei soldi? Cosa se ne fanno? Quanti auto tedesche e appartamenti svizzeri deve comprare, un uomo, prima di essere sazio?

4. Perché le grandi opere, da decenni, sono occasioni di grandi saccheggi. Ma ce ne accorgiamo sempre dopo.

5. Perché la nostra indignazione è tribale: il peccato è grave quando lo commettono i nostri avversari. Altrimenti, parliamone.

6. Perché i collettori di frustrazioni sono lì che aspettano. E non tutti sono inoffensivi come Grillo & C.

7. Perché viene il dubbio che non ci meritiamo Venezia, sprechiamo Milano, svergogniamo Genova, umiliamo Siena, roviniamo Roma. E al Sud, ormai, abbiamo rinunciato.

8. Perché «Delitto e castigo», in Italia, è solo il titolo di un romanzo russo che hanno letto in pochi. C’è sempre un’amnesia, un’amnistia o una prescrizione per tirarsi fuori dai guai.

9. Perché le pene italiane sono drammatiche, lontane e incerte. Quando dovrebbero essere proporzionate, rapide e certe.

10. Perché abbiamo la memoria di un pesce rosso (quattro secondi). Dimentichiamo tutto subito. E qualcuno, questo, se lo ricorda bene.

Corruzione, la Grande Ipocrisia. L'analisi. Da Tangentopoli in poi, e per un infinito ventennio di malaffare, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto male, scrive Massimo Giannini su “La Repubblica”. Cos'altro deve succedere, per convincere la politica a muovere un passo concreto, tangibile e inequivocabile, contro la corruzione che torna a minare le basi della convivenza civile e della concorrenza economica? Quante altre retate devono accadere, per spingere il governo e il Parlamento a ripristinare con un atto definitivo, responsabile ed efficace, il principio di legalità di cui in questi anni di fango hanno fatto strame tutti, ministri e sottosegretari, amministratori centrali e cacicchi locali? Domande tutt'altro che oziose (o capziose), di fronte all'acqua lurida che tracima dal Mose, dove proprio la politica si è definitivamente messa "a libro paga", esigendo quello che i magistrati chiamano "lo stipendio di corruzione". Da Tangentopoli e Mani Pulite in poi, e per un infinito ventennio di malaffare pubblico e privato, non solo si è fatto assai poco. Ma quel poco che si è fatto lo si è fatto assai male. Grandi proclami, piccoli compromessi. Leggi-feticcio, da dare in pasto al popolo bue. E poi appalti in deroga a volontà, per lucrare fondi neri. Non solo in epoca berlusconiana, che sappiamo straordinariamente nefasta sul piano etico. Anche in tempi più recenti, che speravamo finalmente proficui sul piano della ricostruzione morale e della legislazione penale. Così non è stato. Così non è ancora. E al presidente del Consiglio Renzi, che meritoriamente dichiara di voler "cambiare verso" all'Italia anche dal punto di vista della giustizia e che opportunamente si accinge a dare più poteri al commissario anti-corruzione Cantone, non è inutile ricordare quanto è accaduto e quanto sta ancora accadendo. Al di là degli annunci, che pure servono a scuotere la coscienza di un Paese disabituato al meglio e assuefatto al peggio, ma che da soli non bastano a consolidare nell'opinione pubblica la percezione di un vero cambiamento. Da troppo tempo - interrotti solo dai blitz dei pm sulle infinite cricche tricolori, dal terremoto dell'Aquila al G8 della Maddalena, dai mondiali di nuoto al sacco di Carige, dall'Expo milanese al Mose veneziano - abbiamo ascoltato alti lai e asciugato lacrime di coccodrillo. Ma nulla è cambiato, nei codici e nelle norme di contrasto. C'è come l'accidiosa consapevolezza che la corruzione, con i suoi 60 e passa miliardi di "fatturato" l'anno, rappresenti una parte essenziale e forse irrinunciabile del Pil nazionale. Così l'establishment, politico ed economico, celebra a ogni nuovo arresto la Grande Ipocrisia. Interviste sdegnate, riunioni d'emergenza. Poi più nulla. O leggi fatte male, a volte col legittimo sospetto che le si vogliano esattamente così, per convenienza bipartisan. Non parliamo, stavolta, dei misfatti compiuti da Berlusconi premier. Sono tristemente noti. Diamo dunque per acquisite le 12 leggi ad personam azzardate dall'ex Cavaliere sulla giustizia. La colossale occasione, miseramente mancata, è stata la legge Severino, approvata dal governo Monti nel novembre 2012. Insieme a qualcosa di buono (le nuove norme sulla decadenza e l'incandidabilità, che costano allo stesso Berlusconi condannato il seggio al Senato) la legge "spacchetta" inopinatamente il reato di concussione, riducendo i reati (e dunque i tempi di prescrizione) per l'ipotesi meno grave (ma infinitamente più frequente) dell'"induzione". L'anomalia viene segnalata dai magistrati, rilevata dal "Sole 24 Ore" e da "Repubblica", che ne chiede conto al ministro Guardasigilli consegnandole 250 mila firme raccolte a favore di una "seria legge contro la corruzione". Ma non c'è niente da fare. La legge passa così com'è, con la benedizione trasversalissima delle appena nate Larghe Intese: "tecnici" montiani, Pd e Pdl votano compatti, alla Camera: 480 favorevoli, solo 19 contrari, il Parlamento approva. Di lì nascono tutti i guai successivi. Berlusconi userà i benefici derivanti dal caos normativo innescato dalla legge Severino nel processo Ruby. La stessa cosa farà Filippo Panati nel processo Falck. Un caos che nel frattempo viene autorevolmente certificato. A febbraio di quest'anno tocca alla Ue, nel suo rapporto sulla corruzione, evidenziare la lunga "serie di problemi irrisolti" lasciati dalla legge Severino (prescrizione, falso in bilancio, autoriciclaggio, voto di scambio) e stigmatizzare "gli effetti della frammentazione del reato di concussione". Il 15 marzo tocca invece alla Corte di Cassazione denunciare per sentenza i danni causati da quella legge all'esercizio della giurisdizione, e chiedere a governo e Parlamento di porvi rimedio al più presto. La richiesta cade nel vuoto. Mentre cominciano a scoppiare i nuovi scandali, governo e Parlamento non solo non raccolgono l'invito. Ma si muovono lanciando al Paese segnali contraddittori, su tutti i fronti che riguardano lo Stato di diritto. Due esempi, ma clamorosi perché passati sotto silenzio. Il 28 gennaio 2014 il governo Letta approva il decreto legge numero 4, "disposizioni urgenti in materia di emersione e rientro dei capitali detenuti all'estero". È la cosiddetta "voluntary disclosure", in voga in altri Paesi dell'Unione. Ma da noi viene allentata oltre misura. Al Senato il testo originario viene modificato, le imposte dovute sui capitali rientrati vengono dimezzate e i reati di frode "con altri artifici", oltre alla omessa o infedele dichiarazione, vengono depenalizzati. Di fatto, quasi un colpo di spugna, che alla fine non passa solo perché la Camera il 19 marzo decide di stralciare queste norme e di farle confluire in un ddl che sarà presentato in futuro. Per uno scampato pericolo, un disastro compiuto. Il 17 maggio è entrata in vigore la legge numero 67, che introduce la possibilità di chiedere l'affidamento in prova ai servizi sociali nei procedimenti per delitti economico-finanziari con pene fino a 4 anni di detenzione. In questi casi, su richiesta del soggetto incriminato, si sospende il processo e si avvia un percorso di servizio e risarcimento, di durata massima 2 anni, al termine del quale il reato si estingue. Nella lista dei delitti per i quali si può ottenere il beneficio ci sono l'omessa dichiarazione dei redditi, la truffa, il falso in bilancio e persino il furto. Questo sì, a tutti gli effetti, ha le fattezze di un "colpo di spugna", studiato proprio per i reati dei "colletti bianchi". Il Parlamento approva unanime la legge, il 2 aprile scorso, nell'indifferenza dei più. Mentre riesplodono le nuove e vecchie Tangentopoli, che vedono il potere politico alternativamente vittima e a volte carnefice di quello economico, il Parlamento invia dunque questi strani segnali di fumo al Paese. Delinquere non è poi così compromettente. Alla fine si può scendere a patti. Di fronte a tanto cinismo consociativo, la Grande Speranza si chiama Matteo Renzi. Solo lui può spazzare via la Grande Ipocrisia chiamata lotta alla corruzione. Ma le prime mosse del premier non sono confortanti. Nel discorso sulla fiducia alle Camere, il 22 febbraio, il nuovo presidente del Consiglio non dice una parola sul tema della legalità e delle strategie di contrasto al malaffare. Un silenzio che assorda, e che spinge Roberto Saviano a scrivere una lettera aperta al premier, su "Repubblica" del 28 febbraio. Renzi raccoglie la sollecitazione, e il giorno dopo annuncia dal salotto di Fabio Fazio, a "Che tempo che fa", la nomina di Raffaele Cantone alla guida dell'Autorità anti-corruzione, nata un anno prima e mai formata. È un primo indizio, che sembra rassicurante. Ma le mosse successive, purtroppo, non sembrano trasformarlo nella prova che tutti aspettiamo. La vicenda del Documento di Economia e Finanza, non aiuta a capire qual è la vera strategia del governo. Il Consiglio dei ministri, riunito a Palazzo Chigi, approva il Def l'8 aprile. Renzi ne illustra le linee guida, con le solite slide. Il giorno dopo, sul suo sito, il ministero dell'Economia pubblica il testo integrale. A pagina 27 del Piano Nazionale delle Riforme, compare un ricco capitolo dedicato alla giustizia: "Asset reale per lo sviluppo del Paese", è il titolo. Pier Carlo Padoan, dai tempi dell'Ocse, ha bastonato duramente l'Italia, proprio per i ritardi sulla corruzione. Per questo, nel Def, il ministro scrive parole chiarissime, non solo sulla giustizia civile e amministrativa, ma proprio sulla lotta alla corruzione: occorre "rivedere la disciplina del processo penale, con particolare riferimento all'istituto della prescrizione, ferma restando l'esigenza di assicurare la certezza e ragionevolezza dei tempi". Più avanti: "Introduzione dei reati di autoriciclaggio e autoimpiego, anche rafforzando il 41 bis". E infine: "È necessario affrontare in modo incisivo il rapporto tra gruppi di interesse e istituzioni e disciplinare i conflitti di interesse e rafforzare la normativa penale del falso in bilancio". Finalmente una dichiarazione programmatica impegnativa. Il segno che "cambiare si può". Ma sei giorni dopo, quando il Def arriva alle Camere per l'avvio dell'iter parlamentare, il testo è sorprendentemente cambiato. Il capitolo Giustizia rimane, alle pagine 29 e 30, e poi a pagina 63, nel capitolo II.10 intitolato "Una giustizia più efficiente". Si parla di tutto, dalla riforma della giustizia civile al sovraffollamento carcerario, dalle leggi già varate sul voto di scambio a quelle contenute nella Severino. Si propone la "mediazione obbligatoria" e la "depenalizzazione dei reati minori", la "difesa dei soggetti più deboli" e la "tutela dei minori". Ma per quanto li si cerchi, i paragrafi sulle modifiche al processo penale, dalla prescrizione all'autoriciclaggio, dall'autoimpiego al falso in bilancio, non ci sono più. Chi e perché le ha cancellate? Una spiegazione possibile, anche se parziale, la forniscono gli atti parlamentari. Il 16 aprile, durante il dibattito in Commissione Giustizia della Camera, i deputati Cinquestelle almeno per una volta fanno bene il loro mestiere. Alfonso Bonafede "ritiene che sia estremamente grave che nella formulazione presentata alle Camere del Def in data 9 aprile 2014 venga fatto espressamente riferimento all'esigenza di affrontare definitivamente entro giugno 2014 il problema dei tempi di prescrizione e che ieri, martedì 15 aprile, dopo che nella serata di lunedì 14 aprile il presidente del Consiglio si sia incontrato con Silvio Berlusconi, sia pervenuta alle Camere una "errata corrige" da parte della presidenza del Consiglio, nella quale è stato cancellato ogni riferimento alla questione della prescrizione". La risposta di Donatella Ferranti, presidente della Commissione, arriva di lì a poco: "Le correzioni apportate con l'errata corrige - replica l'esponente del Pd - erano state in realtà segnalate dagli uffici del Ministero della Giustizia alla Presidenza del Consiglio la scorsa settimana". Dunque, non sarebbe stato il premier a "depotenziare" il testo, e meno che mai l'avrebbe fatto dopo l'incontro di due ore, a Palazzo Chigi, con l'ex Cavaliere. Possiamo credere alla ricostruzione della Ferranti. Ma l'anomalia resta. E se a "sbianchettare" i paragrafi sul programmato giro di vite per la prescrizione, l'autoriciclaggio e il falso in bilancio è stato il ministro Orlando, e non Renzi, che differenza fa? Di nuovo: che segnale si vuol mandare al Paese? Siamo all'oggi. La gigantesca metastasi delle mazzette, che si propaga da Milano a Venezia nel corpo malato dell'"operosa Padania", obbliga il governo a fare qualcosa, subito. Orlando ha preso tempo sui vari provvedimenti già all'esame del Parlamento da più di un anno (dal testo della Commissione Fiorella sulla prescrizione alle diverse proposte sul falso in bilancio). Ha rinviato tutto a un più organico disegno di legge anti-corruzione, originariamente previsto entro l'estate e ora forse anticipato alla prossima settimana. Ma nel frattempo deve battere un colpo, almeno sulla promessa attribuzione dei pieni poteri a Cantone e magari anche sull'autoriciclaggio. Se ci riuscirà, al Consiglio dei ministri di domani, sarà tanto di guadagnato. Ma di fronte alla nuova Questione Morale, che torna a devastare drammaticamente il Paese e a sporcarne irrimediabilmente l'immagine, non basta più la narrazione riformista. Serve l'azione riformatrice. Chiara e severa, senza concessioni e senza ambiguità. Anche così si difende la memoria di Enrico Berlinguer dagli iconoclasti pentastellati.

Democratici divisi anche sulle mazzette. Fassino: "Orsoni uomo onesto". Ma i renziani non vogliono scandali. Moretti: "Nuova classe dirigente per mettere fine alla corruzione", scrive Fabrizio Boschi su “Il Giornale”. È sempre così. Quando succedono queste cose è tutto un fuggi fuggi. Quello non c'entra, quell'altro è innocente, ci auguriamo che la magistratura faccia chiarezza al più presto, bla bla bla. A una settimana dai sorrisoni a trentadue denti mostrati al Nazareno, dopo la schiacciante vittoria di Renzi alle Europee, da ieri mattina il Pd si è improvvisamente ammutolito. Anzi no, di chiacchiere se ne sono sentite sin troppe, ma del fiume di parole sgorgate dalle bocche dei dirigentoni e esponentoni del partito, qualcuna non solo era dissonante, ma in certi casi contrastante. Nordisti contro sudisti. Veneti contro il resto del mondo. Soprattutto la nuova contro la vecchia guardia. Ex comunisti contro neo demo-renziani. C'è da capirli ahiloro. Il loro cristallino sindaco di Venezia, di specchiata moralità e ineccepibile levatura, è finito in manette. E si levò nell'aria un unico attestato di stima: «Chiunque conosca Orsoni non può dubitare della sua correttezza e della sua onestà». Parola di Piero Fassino, sindaco di Torino. Virginio Merola gli fa eco da Bologna. Ma loro appartengono al vecchio, due che Renzi, se fosse il rottamatore, avrebbe già rottamato (per motivi anagrafici). Uno ad uno hanno fatto capolino i nuovi, o quelli rivestiti di nuovo, come la ex bersaniana, poi ultrà renziana, Alessandra Moretti, che da ex vicesindaco di Vicenza scarica tutte le colpe sui vecchi compagni con una frase che i politici di razza definirebbero «concreta»: «È arrivato il tempo che una nuova generazione di politici si prenda la responsabilità di scommettere sul futuro». Parole sacrosante. L'altra conterranea, Laura Puppato, ex sindaco di Montebelluna in provincia di Treviso, salita a forza sullo stipato carro renziano, dà la colpa di tutto questo marciume a quei vecchi bacucchi del suo partito, in via di rottamazione: «Dall'inchiesta sul Mose viene fuori la parte peggiore della politica del passato», mentre «noi con Renzi stiamo voltando pagina da tutto questo». E pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Sandro Gozi, si smarca dalla puzza che fuoriesce dalla laguna, tirando fuori un evergreen: «Siamo il governo del cambiamento». Quel discolo di Pippo Civati non ci casca e pretende «una maggiore selezione della classe dirigente». Il filosofo ex sindaco di Venezia, Massimo Cacciari aveva la soluzione in tasca ma, guarda caso, nessuno l'ha ascoltato: «Da sindaco, durante i governi Prodi e Berlusconi ebbi modo di ripetere che le procedure assunte non permettevano alcun controllo da parte degli enti locali e che il Mose si poteva fare a condizioni più vantaggiose. L'ho ripetuto milioni di volte». L'eurodeputato rieletto David Sassoli s'improvvisa spazzino e si augura che si faccia «pulizia rapidamente» con un pizzico di retorica: «Voglio una Repubblica fondata sul lavoro non sulle mazzette». Sarà il prossimo ad essere rottamato.

Quella verità inconfessabile: "Niente affari senza tangenti". Dall’interrogatorio dell’imprenditore Maltauro emerge la fotografia di un Paese in via di decomposizione. "Ho quasi settant’anni, mettiamo fine a questo sistema", scrivono Luca Fazzo Enrico Lagattolla su “Il Giornale”. È come nel '92, è come Mani Pulite. No, «è peggio». È l'Italia delle tangenti vista con gli occhi di chi, le tangenti, le paga. Enrico Maltauro è un imprenditore. Un mese fa finisce in carcere perché - sostengono i pm di Milano - ha versato stecche per avere i lavori di Expo. «Tutto vero», conferma Maltauro davanti al giudice. «Ammetto», dice l'imprenditore all'inizio dell'interrogatorio di garanzia. Ma a Maltauro non basta, e chiede al gip Fabio Antezza di poter fare «una premessa». È la fotografia di un Paese in via di decomposizione. Così eccola, la metastasi della corruzione. «Questa vicenda - mette a verbale l'imprenditore - è collegata alla vicenda del '92. Perché io lo chiamo, lo definisco stato di necessità da parte di un professionista che svolge e gestisce la mia attività, di avere la necessità della sua presenza sul mercato delle opere pubbliche e dei lavori banditi dallo Stato (...). Una persona che fa il mio mestiere ha l'assoluta necessità di avere un contatto, un'interlocuzione, un rapporto con la... diciamo con le stazioni appaltanti». È una consapevolezza antica. «Parlo dalla metà degli anni '80». «Mi sono perfettamente reso conto - insiste Maltauro - che esiste una totale e assoluta invadenza e una totale e assoluta dominanza della... chiamiamola politica, con le sue varie diramazioni. Con il sottogoverno, con la politica, con le espressioni amministrative periferiche, rispetto alla gestione di questo mercato. Per cui in qualche modo, in modo assoluto e in modo assolutamente forte, in modo assolutamente in certi casi patologico, viene a essere necessitato un collegamento e un contatto di questo genere». L'imprenditore vicentino scava nel passato. «Io avevo avuto un'esperienza molto negativa negli anni '90 (ha patteggiato una pena a un anno per le tangenti sugli appalti di Malpensa 2000, ndr), dopodiché decisi sostanzialmente non dico di cambiare mestiere, ma di ritirarmi in un altro tipo di attività». Maltauro racconta di aver lavorato in Libia, e dopo qualche anno di essere tornato in Italia. «Nell'ambito di questa mia rientrata nel sistema italiano, mi sono assolutamente reso conto che la situazione che avevo lasciato tanti anni prima non solo non era cambiata, ma forse sotto un certo aspetto era anche peggiorata». E in che modo l'Italia di oggi è peggio di quella di vent'anni fa? «Il sistema dei partiti - spiega ancora Maltauro - che fino agli anni '90, '92, '93 comunque sia aveva un suo ordinamento, una sua gerarchia, aveva una sua logica, bella, brutta, sbagliata, giusta, questo è un altro ragionamento, però c'era una sorta di gerarchia, di ordine, di riferimento, di definizione. Negli ultimi anni qui la situazione si era sfarinata, prendendo delle caratteristiche assolutamente personalizzate. Gruppi di potere, gruppi di influenza, gruppi di lobby, gruppi di gestione di attività/nomine/conseguenze delle nomine». Quindi, che fare? «O lavoriamo all'estero, cosa che peraltro abbiamo fatto, oppure vendiamo l'attività, cosa che io ho pensato moltissime volte». Maltauro racconta di aver provato a cercare dei partner stranieri, vendendo quote della propria società. «Abbiamo fatto un preliminare con un'importante azienda austriaca (...). Era un'operazione di grande qualità e di grande livello, anche perché è una delle grandi società europee, per cui era una cosa che mi rendeva molto contento». Ma «non riuscimmo a concludere quell'operazione». Motivo? «Il consiglio di amministrazione della multinazionale austriaca prese paura, molto semplicemente detto, della situazione italiana. E vennero a dirci: Guardate, tutto a posto dal punto di vista dei numeri, però noi non ce la sentiamo di approfondire». E così, sfumati i capitali stranieri, Maltauro ritiene di non avere avuto altre alternative. «Siamo una società che ha mille e ottocento dipendenti a libro paga (...), è un'azienda che ha quasi cent'anni». E per «trovare delle soluzioni dal punto di vista anche dell'acquisizione del lavoro (...), ho avuto la necessità, diciamo così, di aumentare o impostare un mio livello di comunicazione con la... chiamiamola politica, con la para-politica, con le lobby della politica, chiamiamole come vogliamo. E rispetto a questo, a questo che io definisco stato di necessità, si incardina il procedimento che mi vede in questo momento protagonista. Io non contesto minimamente i fatti. (...) Ho quasi settant'anni e questo momento mi mette nella volontà e nell'assoluta decisione di porre una censura definitiva con questo tipo di situazione».

Siamo un popolo di corrotti? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di malaffare, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Ma una risposta negativa, pur ineccepibile, non soddisfa più, scrive Giovanni Belardelli su “Il Corriere della Sera”. Se si abbattessero le ville che hanno distrutto le nostre coste, tanti italiani sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati Testo: C’è qualcosa, nel modo d’essere e di agire degli italiani, che ci rende più inclini di altri popoli a infrangere regole e norme, o quanto meno ci spinge a tollerare con disinvoltura che altri lo facciano? Credo che in questi giorni, di fronte all’ennesimo episodio di corruzione seriale, un interrogativo del genere si sia riproposto con una forza fin qui inedita. Per dirla in modo brutalmente sintetico, siamo un popolo di corrotti? Il fatto è che una risposta negativa, pur ineccepibile (a intascare od offrire tangenti non sono «tutti», ma sempre persone con un nome e un cognome), non soddisfa più. Non allontana la sensazione che certi fenomeni di corruzione, se effettivamente sono presenti in tutte le democrazie sviluppate, in Italia appaiono non solo più diffusi ma anche radicati nella cultura del Paese, quasi fossero parte dell’identità della nazione, ne caratterizzassero l’anima profonda. E neppure funziona più, di fronte a una sequenza di scandali che pare ininterrotta, la consolatoria spiegazione che attribuisce il malaffare diffuso a un certo numero di politici e imprenditori disonesti, aiutati da qualche pubblico funzionario senza scrupoli. Non perché queste responsabilità non ci siano davvero tutte, come mostrano le cronache di questi giorni. Ma perché da tempo quelle stesse cronache danno regolarmente notizia di piccole e grandi ruberie, truffe, imbrogli (dai falsi permessi per disabili all’alterazione delle autocertificazioni sul reddito) che coinvolgono una platea di cittadini non proprio ristretta e segnalano la sostanziale accettazione di fenomeni di illegalità di massa. Insomma, al mito della società civile onesta, che si contrappone alle varie cricche politico-affaristiche, non crede ormai più nessuno. Del resto, l’idea che il nostro Paese abbia qualche serio problema nel rapporto con la legge circola da secoli. Era proprio questo che tra Sette e Ottocento (l’epoca del Grand Tour, che aveva l’Italia tra le sue mete obbligate) sostenevano tanti osservatori stranieri: convinti che ogni popolo avesse un suo «carattere nazionale», vedevano negli italiani una grande vitalità e creatività, bilanciate però da una scarsa o nulla inclinazione a rispettare le leggi, a guardare oltre il proprio interesse individuale concepito nell’accezione più egoistica del termine. In anni più vicini a noi, le scienze sociali non hanno fatto altro, in fondo, che dare una veste scientifica a quella diagnosi, evocando il «familismo amorale» o la scarsa «cultura civica» degli italiani. Si è trattato di spiegazioni suggestive, anche se mai interamente convincenti. In ogni caso, il deficit di etica pubblica e privata di cui soffre il Paese sembra innegabile. Ma questo riconoscimento dovrebbe portare a qualcosa di più efficace del solito auspicio di trasformazioni culturali profonde, che vedranno semmai i nostri nipoti. Dovrebbe indurre a dare un qualche riconoscimento a quella parte del Paese che tutto sommato le leggi le rispetta, ma che non si sente adeguatamente valorizzata dalle istituzioni. In attesa, infatti, di una rivoluzione culturale, se verrà e quando verrà, che cambi la mentalità collettiva, i pubblici poteri dovrebbero puntare il loro sguardo, ad esempio, su quegli italiani che abusi edilizi non ne hanno fatti, ma vedono chi invece ne ha compiuti godere in assoluta tranquillità i frutti del proprio comportamento. Sono pur sempre le istituzioni, come sostenne ai suoi tempi Jean-Jacques Rousseau, a formare «il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo». E allora, se - invece di promuovere tanti corsi, giornate, navi della legalità, invece di obbligare ogni università ad avere il suo bel «piano triennale anticorruzione» - si abbattessero un po’ delle ville e villette che hanno distrutto chilometri delle nostre coste, tanti italiani certo insorgerebbero. Ma tanti altri, è probabile, sentirebbero che lo Stato non li ha abbandonati, che punta su di loro per uscire prima o poi dalla palude fatta di una illegalità e una corruzione accettate, più o meno fatalisticamente, come normali.

La mazzetta incurabile, scrive Marcello Veneziani su “Il Giornale”. Non riesco più a indignarmi per la corruzione. Troppo seriale, scontata, inestirpabile, trasversale per suscitare ancora rabbia. Il sistema col tempo è peggiorato: si prendono mazzette senza realizzare le opere e poi ieri portava almeno benefici a cascata, oggi resta ai diretti interessati. È stupida la reazione «mandiamoli tutti a casa»; e poi chi subentra, in base a quale sortilegio sarà più affidabile? Sono forse cambiati i criteri di selezione, sono mutate le motivazioni, ci sono differenze «etniche», culturali o religiose che possano farci dire che i nuovi sono diversi? Chi ci dice che i miracolati di Grillo ma anche quelli di Renzi, diventati di colpo classe di potere, siano più affidabili rispetto ai loro predecessori? Vi ricordate cosa fecero i craxiani rispetto ai vecchi marpioni dc & soci? E la soluzione non è nemmeno dare poteri enormi ai giudici o invocare nuove leggi, normative più toste. Non serve e s'è visto. Per arginare la corruzione restano tre vie non ancora intraprese: rendere più semplice il sistema e le sue norme, sfoltendo i passaggi e i poteri di veto, perché più controlli ci sono e più potenziali corrotti ci saranno; selezionare la classe dirigente sulla base di curriculum, competenza, capacità e non in base a criteri cosmetici, demagogici o di affiliazione ai clan e ai capi; scegliere i politici in base alla motivazione che li muove, se sono spinti da molle civili e ideali o no, perché se quel che conta siamo io, i miei e la nostra vita, la corruzione è dietro l'angolo. E si ripeterà in eterno.

Certi sindaci d’Italia tra mazzette, furtarelli e le accuse di spaccio di marijuana. I guai penali e amministravi di (alcuni) amministratori pubblici. I casi degli ultimi sessanta giorni, scrive Alessandro Fulloni il 2 aprile 2015 su “Il Corriere della Sera”.

1. Condanne, arresti e dimissioni. C’è quello (caso classico) che intasca mazzette, l’altro (caso inedito) che si appropria dei risparmi che gli avevano affidato due anziane sorelle decedute. Poi c’è il primo cittadino che potrebbe essere sottoposto (e sarebbe un record) per due volte nel giro di venti mesi alle applicazioni della legge Severino sulla corruzione. C’è anche l’amministratore «sceriffo» - noto alle cronache per aver fatto arrestare tre ladri - che si fa beccare per spaccio. Storie di (alcuni) sindaci italiani: quelli che alla guida di comuni grandi e piccoli (circa 8 mila) talvolta amministrano con eccessiva disinvoltura la cosa pubblica. Ecco, per stare agli ultimi sessanta giorni, le vicende più singolari. Tra condanne, arresti e le attese di pareri della Consulta sull’applicazione della Severino. Il caso più noto di questi giorni è quello del sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino, arrestato lunedì nell’ambito dell’inchiesta della Procura di Napoli sulle opere di metanizzazione sull’isola e detenuto nel carcere di Poggioreale. Martedì si è dimesso dando mandato al suo legale di consegnare al segretario generale del Comune di Ischia una lettera nella quale comunica la sua decisione, presa «al solo fine di potersi difendere libero da vincoli e ruoli istituzionali». Nella lettera Ferrandino scrive di avere «la serenità di chi è straconvinto della propria innocenza e di chi ritiene di avere sempre operato nell’esclusivo interesse della cittadinanza e di chi crede fermamente nella giustizia italiana».

2. Il sindaco che si appropria dei risparmi delle sorelle morte. Si sarebbe appropriato di una somma di denaro di circa 36 mila euro, i risparmi di una coppia di anziane sorelle che poi sono morte. Per questo motivo è stato arrestato dai carabinieri, con l’accusa di peculato, il sindaco di Santa Maria Salina (nel Messinese), Massimo Lo Schiavo. Le due sorelle, malate e bisognose di assistenza, erano proprietarie di una casa e di vari beni. Nel giugno del 2013 furono trasferite in una casa di riposo di Leni, sull’isola di Salina, per essere curate. La loro abitazione fu sigillata e le anziane chiesero all’amministrazione di custodire i loro risparmi: 36 mila euro, 212 dollari australiani e 180 dollari americani. Il sindaco ha preso il denaro e lo ha sigillato in due buste alla presenza dei vigili urbani. Dopo la morte di una delle donne ed è stato nominato un amministratore di sostegno dell’altra anziana. Poco tempo dopo è deceduta anche la sorella e l’amministratore ha chiesto di avere la somma di denaro e le chiavi dell’abitazione. A questo punto il sindaco avrebbe accampato alcune scuse dicendo che la somma era solo di 25 mila euro e di non sapere dove fossero le buste perché le avrebbe perse durante un trasloco. Ha poi consegnato seimila euro all’amministratore, chiedendogli di aspettare il versamento delle somme restanti. Nel corso delle indagini i carabinieri hanno però trovato a casa del sindaco le buste, che erano state in precedenza sigillate, vuote. Nel corso della perquisizione nell’abitazione del sindaco sono stati trovati anche 12 mila euro, in parte anche in valuta straniera. Sono in corso accertamenti per stabilire la provenienza del denaro.

3. La mazzetta al sindaco dei record. Una mazzetta di 100 mila euro in cambio di un appalto di otto milioni per realizzare alloggi popolari. È la contestazione della Procura di Bari nei confronti di Sergio Povia, sindaco di centrosinistra di Gioia del Colle, arrestato il 6 febbraio dalla Finanza. Arresti poi revocati dal gip. Ma il primo cittadino (più volte alla guida della cittadina pugliese a partire dal 1993: un record) a seguito della bufera giudiziaria, si è dimesso. Con lui erano finiti in carcere anche l’ex vicesindaco e l’imprenditore che aveva allungato la mazzetta. I reati contestati sono corruzione e turbativa d’asta. Secondo il pm Eugenia Pontassuglia, le persone arrestate (sia politici che dipendenti comunali e liberi professionisti) in cambio della tangente avrebbero fatto in modo che l’imprenditore si aggiudicasse la gara per numerosi alloggi. Gli indagati avrebbero tenuto una «molteplicità di condotte collusive sia nella fase concernente la pubblicazione del bando di gara, predisposto dai funzionari comunali seguendo le direttive indicate da Posa e contenute in elaborati tecnici redatti da professionisti di sua fiducia, sia la fase successiva».

4. «Fumo» e bilancino in casa dell’assessore «sceriffo». Droga e un bilancino di precisione all’interno della cassaforte di casa. Con l’accusa detenzione ai fini di spaccio è stato arrestato, giovedì 26 marzo, l’assessore alla sicurezza di Pieve Fissiraga (Lodi) , il leghista Antonio Iannone (soprannominato l’assessore «sceriffo»). I carabinieri che hanno perquisito la sua abitazione, gli hanno intimato di aprire la cassaforte: all’interno c’erano 250 grammi di hashish, uno di marijuana e un bilancino. Il tribunale di Lodi ha convalidato il fermo concedendogli gli arresti domiciliari. Iannone si era fatto la fama di «assessore sceriffo». Nell’autunno scorso, ad esempio, aveva bloccato quasi da solo e fatto arrestare tre romeni sorpresi a rubare rifiuti nella piazzola ecologica del paese.

5. Condanna in Appello per l’ex sindaco di Buccinasco. L’11 febbraio l’ex sindaco di Buccinasco (nel Milanese), Loris Cereda, arrestato nel marzo 2011 per un giro di tangenti legate ad appalti per la nettezza urbana e per il cambio di destinazione d’uso di alcune aree della cittadina, è stato condannato a 3 anni e 6 mesi (e 20.000 euro di provvisionale al Comune) per corruzione dalla seconda Corte d’Appello di Milano. L’accusa imputava a Cereda (che in primo grado aveva avuto 4 anni e 3 mesi) una tangente di 7mila euro per garantire l’approvazione di una convenzione tra il Comune e una società per la concessione d’uso di un’area verde «da destinare a parcheggio». Inoltre l’allora sindaco avrebbe accettato 25mila euro e la messa a disposizione di due Ferrari e una Bentley per garantire l’approvazione di una delibera di «rinnovo del contratto per i servizi di igiene urbana» con «contestuale subappalto».

6. Il Caso Ostia e il «minisindaco» dimissionario. A Ostia, municipio del comune di Roma, il minisindaco (Pd) Andrea Tassone è dimissionario. Un gesto annunciato il 18 marzo dallo stesso Tassone in chiave di allarme antimafia: troppo forti le pressioni della criminalità organizzata, «non ho gli strumenti per andare avanti. Non ho mai chiesto un carrarmato per combattere le mie battaglie ma almeno una piccola mazzafionda l’avrei desiderata». Una vicenda però in chiaroscuro, che mette in imbarazzo il Pd: tra le condizioni per continuare, Tassone (citato nelle carte di Mafia Capitale dal faccendiere Salvatore Buzzi che lo definisce «nostro») ha posto l’allontanamento del comandante dei vigili di Ostia Roberto Stefano. Ma Stefano ha condotto l’inchiesta sui chioschi del lungomare di Ostia, dove «ballano» 300 mila euro per le opere a scomputo, un’indagine per la quale risultano indagati (con elezione di domicilio) lo stesso Tassone e anche l’assessore ai Lavori pubblici Antonio Caliendo (anche se lui nega). Morale: dimissioni (almeno sinora) definitive. Consiglio municipale a un passo dallo scioglimento. E nuove elezioni praticamente certe.

7. Il sindaco che diventa senatore «grazie» a legge Severino. Fosse un calciatore, Domenico Auricchio, detto «Mimì», fedelissimo di Berlusconi, sarebbe un numero 7, genere Franco Causio. Claudio Sala o Bruno Conti, capace di saltare l’avversario con un dribbling secco. Auricchio invece è un sindaco-senatore, e il dribbling lo ha fatto infilandosi in uno di quei «varchi» non previsti dal la legge Severino. Grazie alla quale è arrivato a palazzo Madama, per usare le parole del presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone «dopo una condanna di primo grado» per la quale da sindaco - due anni fa - è stato «sospeso per effetto della Severino». «Epperò può entrare in Parlamento perché era il primo dei non eletti». Ma ora c’è un nuovo caso. Terminata la sospensione di 18 mesi, Auricchio è tornato sindaco in piena regola. Nuova tegola il 18 marzo: quando è stato condannato per abuso d’ufficio. I giudici del tribunale di Nola lo hanno giudicato colpevole dell’installazione di un chiosco abusivo in pieno Parco Nazionale del Vesuvio: una concessione avvenuta, secondo l’accusa, senza passare dall’ufficio tecnico. Ora il sindaco-senatore rischia una nuova applicazione della Severino. La seconda in 20 mesi. E sarebbe record.

8. De Luca, attesa per il parere della Consulta. Vincenzo De Luca, 65 anni, è stato per quattro volte sindaco di Salerno, due volte deputato e sottosegretario ai Trasporti nel governo Letta. Una trafila dal Pci al Pd. Ora per il centrosinistra è il candidato (vincente alle primarie) alle prossime regionali in Campania. Il 21 gennaio è stato condannato ad un anno di reclusione per abuso d’ufficio per la nomina di un ex collaboratore come project manager del termovalorizzatore. Il giorno dopo il prefetto di Salerno ha disposto la sua sospensione in base alla legge Severino che prevede tra le altre misure, la sospensione e decadenza degli amministratori locali in condizione di incandidabilità (appunto come De Luca, condannato per un reato contro la pubblica amministrazione). L’ex sindaco di Salerno attende ora una decisione della Corte costituzionale. Che presto, anche se il ruolo non è ancora stato assegnato a un relatore, dovrà vagliare la costituzionalità della legge anticorruzione varata dal governo Monti. Se venisse eletto governatore della Campania in assenza di una decisione della Corte, De Luca verrebbe immediatamente sospeso su richiesta della presidenza del Consiglio. Però, un minuto dopo De Luca farebbe ricorso al Tar. Poi si vedrà.

Mafia: neri, rossi e boss. Chi comanda a Roma. La ragnatela criminale di Carminati aveva unito politici di destra e sinistra. Il volto nuovo del potere criminale in un saggio-inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo che svela intrecci con vip, calciatori, professionisti e imprenditori, scrivono Lirio Abbate e Marco Lillo su “L’Espresso”. È l'inchiesta più clamorosa dell'ultima stagione, l'incredibile ragnatela di potere creata intorno al Campidoglio da Massimo Carminati. Adesso quella rete di malaffare viete setacciata da un saggio scritto da Lirio Abbate de "l'Espresso" e da Marco Lillo de "il Fatto". "I Re di Roma" (Chiarelettere, 256 pagine): prende il titolo dall'inchiesta giornalistica del nostro settimanale che nel 2012 svelò la spartizione criminale della metropoli capitolina, prima ancora che le indagini ne ricostruissero l'organizzazione. Ecco in anteprima il capitolo finale, sulla matrice politica di questo scandalo: a comandare era il terrorista mai pentito che dava ordini a uomini di destra e sinistra. In libreria per Chiarelettere il nuovo libro inchiesta di Lirio Abbate e Marco Lillo: ''I Re di Roma. Destra e sinistra agli ordini di mafia capitale''. Una storia incredibile, che è poi diventata l'inchiesta di Pignatone e che propone al lettore una mappa inquietante e dettagliata di ''un sistema criminale senza precedenti, che ha dominato Roma con la complicità di politica e istituzioni. Un sistema che pesa sui cittadini con disservizi visibili ogni giorno''. E dunque "Mafia Capitale" è di destra o è di sinistra? Massimo Carminati è il capo dell’organizzazione ed è un ex Nar, non certo un ex Br. Poche storie: «mafia Capitale» è di destra. Gaber risponderebbe: eh no, sembra facile. Il Nero è socio dipendente di una coop rossa, la 29 giugno, dunque lo vedi che «mafia Capitale» è di sinistra? L’ex sindaco di Roma, Gianni Alemanno, è indagato per associazione mafiosa con Buzzi e Carminati, dunque «mafia Capitale» torna a destra. Sì, ma Giuliano Poletti, da capo della Legacoop, andava a cena con uno dei capi di «mafia Capitale», Salvatore Buzzi, e dunque è di sinistra. Sì, ma a quella cena c’era pure il manager dell’Ama legato ad Alemanno, Franco Panzironi, dunque è di destra. E Ignazio Marino si faceva finanziare la campagna elettorale dalla coop rossa 29 giugno, quella che poi lucrava sugli immigrati, lo vedi che è di sinistra? Peccato che la coop 29 giugno finanziava la fondazione di Gianni Alemanno, mica quella di Renzi, quindi è di destra. Dimentichi che il Rosso finanziava anche le cene elettorali dell’attuale premier, quindi è di sinistra. Sì ma Buzzi faceva il tifo per il centrodestra alle elezioni comunali del 2013 e poi, per cambiare il bilancio del Comune a favore della sua cooperativa, sono intervenuti Massimo Carminati e il segretario del sindaco Alemanno, mica Che Guevara. Quindi è di destra. Il bilancio del Comune con le correzioni a favore della coop amica di Carminati, però, poi lo approvavano anche i consiglieri del Pd, quindi «mafia Capitale» è di sinistra. Alla fine forse è più corretto prendere atto che «mafia Capitale» è sia di destra che di sinistra, ma tradisce insieme i valori della destra e quelli della sinistra. Chi fa saltare le regole della concorrenza e del libero mercato, chi usufruisce di sconti e condoni per continuare a violare la legge, come hanno fatto Buzzi e Carminati, è la negazione dei valori della destra economica e sociale. All’opposto, chi usa persino il disagio degli immigrati, dei nomadi e dei senzatetto per gonfiare il proprio portafoglio compie il peggiore tradimento possibile ai valori della sinistra. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Se «mafia Capitale» fosse solo di destra o solo di sinistra, sarebbe più facile da combattere. Invece, gli affari rossi e quelli neri si mescolano e diventano verdi: il colore dei soldi. Carminati è socio della coop di Buzzi che con una mano scrive discorsi di ringraziamento al ministro Poletti e al premier Renzi e con l’altra sostiene e finanzia le elezioni di Gianni Alemanno. L’ex collaboratore di Veltroni, Luca Odevaine, è lo sponsor delle cooperative care al Vaticano e a Giulio Andreotti. Dov’è la destra e dov’è la sinistra? Sono in parlamento e governano insieme da molti anni, prima con Mario Monti, poi con Enrico Letta e ora con Matteo Renzi. Non è un caso se l’opposizione si è rivelata inefficace sia nell’era Veltroni che nell’era Alemanno. Solo il lavoro del Ros dei carabinieri e dei magistrati della Procura di Roma ha scoperchiato il verminaio che oggi, a prescindere dalle possibili condanne, è già sotto gli occhi di tutti. In tutte le indagini maggiori del 2014, dall’Expo al Mose fino a «mafia Capitale», sono emerse tre costanti: la presenza di finanziamenti non trasparenti alle fondazioni dei politici di destra e di sinistra; la nomina di manager incapaci e asserviti al potere politico a capo delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi pubblici che gestiscono le grandi opere; l’alleanza tra coop rosse e coop bianche per entrare negli appalti maggiori. Se il governo Renzi avesse voluto, avrebbe potuto approvare un decreto per intervenire su questi problemi composto di tre articoli: tutti i finanziamenti a una fondazione nella quale figuri un politico in qualsiasi veste, non solo quelli ai partiti, devono essere resi pubblici su internet; i manager delle municipalizzate, delle società miste e dei consorzi che devono gestire soldi pubblici sono scelti con concorso nazionale per titoli, primo dei quali la fedina penale intonsa; le cooperative che sono sorprese a truccare le gare o a corrompere pubblici ufficiali perdono ogni beneficio di legge dal punto di vista fiscale. In pochi giorni l’ampia maggioranza destra-sinistra che ha dominato la scena della politica italiana negli ultimi anni avrebbe potuto risolvere i tre problemi posti dall’indagine su «mafia Capitale». Non ci sarebbero stati più i finanziamenti «segreti» della coop rossa a Gianni Alemanno né le nomine di soggetti condannati per ricettazione come Riccardo Mancini a capo dell’Eur Spa. Le cooperative rosse sarebbero state più accorte ad assumere un tipo come Massimo Carminati. Invece il governo Renzi ha preferito proporre l’ennesimo pacchetto di grida manzoniane che aumentano le pene minime senza sfiorare i veri nodi delle fondazioni, delle municipalizzate e del sistema cooperativo. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? All’indomani della scoperta di «mafia Capitale», l’animo dei politici è confuso, molto confuso. E non solo a livello locale. Il presidente del Consiglio Renzi difende il suo ministro Poletti, fotografato quando era responsabile delle coop, insieme a Buzzi, e dice: «È un galantuomo». E annuncia il commissariamento del Pd romano con Matteo Orfini. Il premier è «sconvolto, perché vedere una persona seria come il procuratore di Roma parlare di mafia mi colpisce molto. Vale per tutti il principio di presunzione di innocenza e il governo ha scelto Raffaele Cantone per l’anticorruzione. Certe vicende fanno rabbia, serve una riflessione profonda». E ancora: «Certo, l’epicentro è l’amministrazione di Alemanno, ma alcuni nel Pd romano non possono tirare un sospiro di sollievo». E così il presidente di Dem annuncia che il partito a Roma è «da rifondare e ricostruire su basi nuove». Ci sono un assessore e il presidente del consiglio comunale indagati e dimissionari e altri esponenti sotto inchiesta. E il sindaco Ignazio Marino parla di «pressioni» sulla sua amministrazione e assicura che «ha sbarrato le porte a chiunque volesse influenzarla in qualsiasi modo». E dell’ormai ex assessore alla Casa, Daniele Ozzimo, indagato e dimessosi, che nel rimpasto di giunta era in predicato per assumere le deleghe al sociale, dice: «L’ho conosciuto per la sua forza nell’imporre la legalità». Il ciclone giudiziario soffia anche su quello che è stato il partito di Silvio Berlusconi a Roma, il Pdl. A cominciare da Gianni Alemanno, ex sindaco, indagato per associazione mafiosa, che appena ricevuto l’avviso di garanzia si autosospende dagli incarichi in Fratelli d’Italia-Alleanza nazionale e afferma su “Libero” e “la Repubblica”: «Un anno e mezzo fa, dopo il primo articolo de “l’Espresso” sui “quattro re di Roma”, tra cui Carminati, che io non ho mai conosciuto, anzi pensavo fosse morto oppure in pensione, sono cominciate le allusioni. Allora chiesi ai miei collaboratori: ma voi avete contatti, ci parlate? Fu un coro di no». La scena che descrive l’ex sindaco potrebbe essere quella di una commedia. Ma la storia è seria per poterci ridere sopra. E Alemanno ribadisce la propria innocenza: «Due cose non rifarei. La prima: trascurare la composizione della squadra. Ho sbagliato i collaboratori. Ma è capitato pure a Veltroni con Odevaine, che era il suo vicecapo di gabinetto e che io ho allontanato appena arrivato in Campidoglio. La seconda: non aver agito in totale discontinuità con il passato». «Salvatore Buzzi – aggiunge Alemanno – il patron della cooperativa 29 giugno, io l’ho trovato ed è cresciuto sotto le amministrazioni di sinistra. Non volevo fare la figura del sindaco di destra che caccia tutti quelli di sinistra». Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra? Fra intercettazioni e sviluppi investigativi, nell’inchiesta finiscono nomi di politici, non solo quelli indagati ma anche altri che, pur non essendo stati colpiti da provvedimenti giudiziari, vengono trascinati in questa storia dai protagonisti dell’indagine. Nelle lunghe conversazioni spunta anche il nome di un altro politico di destra, l’ex ministro Ignazio La Russa. Di lui parlano Pozzessere e Carminati: «Ignazio doveva mette’ a pareggia’ all’interno... i conti di Ligresti... Ignazio faceva... fa il capo bene lui... me lo ricordo, da ragazzini era così, eh, io quando andavo a Milano... la federazione del Mis erano solo loro, lui, Romano, er padre... vanno ai congressi e gli rompono sempre il cazzo al padre, gli dicono che era mafioso perché era amico di Ligresti ... è Ligresti che viene da me, no io che vado da lui». E c’è anche Gianni Letta, l’ex sottosegretario alla presidenza del Consiglio. Buzzi punta alla gestione del Cara di Castelnuovo e ottiene un incontro con Letta per tentare di sensibilizzare il prefetto di Roma. Ma cos’è la destra, cos’è la sinistra?

LA SINISTRA: IERI DIVERSI. OGGI CATTIVI E DANNOSI...OSSIA UGUALI.

Ieri diversi, oggi cattivi dannosi e pericolosi, scrive Bruno Manfellotto su “L’Espresso”. Duecento tesserati in due ore. Falso un iscritto su cinque. Il rapporto sul Pd romano fa impressione. Ma sarebbe bene farne altri simili in tutto il paese. Cattivo. Dannoso. Pericoloso. No, non è un virus. Si parla di Pd, la Ditta, l’ex Pci della diversità berlingueriana. Secondo la lettura choc di Fabrizio Barca. E non è una battuta scappata in tv, ma il punto d’arrivo di un’analisi minuziosa svolta su 110 circoli romani del Pd, durata finora sei mesi, ricca di documentazione e di testimonianze dei militanti (è tutto sul blog di Barca assieme al resoconto del suo precedente “Viaggio in Italia”, personale inchiesta alla scoperta del partito condotta nel 2013 provincia per provincia). Dunque, un lavoro serio. Confesso che non mi era mai capitato di leggere parole così dure, precise e taglienti sulla realtà interna di un partito, scritte per di più da qualcuno che in quel partito milita convintamente. Che siano poi firmate da Barca, uomo colto, scrupoloso, rigoroso servitore dello Stato, è una garanzia in più di fedeltà e qualità. E però, nonostante questo, il rapporto non ha avuto finora l’eco che merita. Forse perché riguarda solo il Pd romano; o perché nei giorni in cui è stato diffuso un primo documento (il lavoro continua), giornali e tv erano presi dalla strage di Tunisi e dal pasticciaccio Lupi-Incalza. Ma nemmeno nei giorni successivi il dibattito è decollato, anzi tutto è ricominciato stancamente come prima, con le minacce di scissione a sinistra, le battutine sferzanti di questo contro quello e la sempiterna ricerca di un anti-leader, stavolta individuato nell’ottimo Giuliano Pisapia che non ha fatto a tempo ad annunciare di non volersi ripresentare a sindaco di Milano per essere candidato a sua volta a capo di una cosa che non c’è. Certo, Roma è stata colpita da Mafia Capitale, l’inchiesta che ha investito anche frange di Pd, spinto Matteo Renzi a commissariare il partito e a sua volta il commissario Matteo Orfini a incaricare Barca dell’indagine. Ma quando si legge di assenza di trasparenza, di deformazioni clientelari, di scorribande dei capibastone, di - testuale - carne da cannone da tesseramento (si citano casi di “duecento tessere in due ore”, e si scopre che un tesserato su cinque è falso), sale il timore che la malattia non si fermi all’ombra del Cupolone. Del resto, quando il Pd ha chiamato a raccolta i suoi elettori, penso alle primarie, ne sono capitate di tutti i colori, e non solo nel 2012 (una per tutte, i cinesi in fila a Napoli). E alzi la mano chi non ha pensato subito a infiltrati, brogli, tessere false. Renzi ha provato a evitare in Campania lo scontro Vincenzo De Luca-Andrea Cozzolino, ma invano: si è dovuto beccare De Luca con tutto il seguito di legge Severino e dintorni. Non era andata meglio in Emilia dove i due candidati Stefano Bonaccini, caro al premier, e Matteo Richetti sono finiti in una delle mille inchieste della magistratura. In Liguria è finita con Sergio Cofferati che denuncia brogli. E l’altro giorno, mentre Massimo D’Alema scaldava animi scissionisti, Renzi cercava di scongiurare la candidatura a sindaco di Enna di Vladimiro Crisafulli, ieri giudicato “impresentabile” alle politiche e oggi sponsorizzato dal Pd locale. Intanto ad Agrigento le primarie del centrosinistra vedevano in testa Riccardo Gallo Afflitto, vicesegretario regionale di Forza Italia, promotore di una lista civica. Molte cose non tornano. E non c’è da meravigliarsi se alle ultime regionali il Pd ha dimezzato i voti nella sua Emilia e a Livorno, storica roccaforte rossa, ha conservato sì un sontuoso 52 per cento, ma è stato punito alle contemporanee comunali nelle quali gli elettori hanno preferito il grillino Nogarin. Intendiamoci, nel suo viaggio Barca ha incontrato anche un robusto Pd né cattivo né dannoso né pericoloso, anzi, ma che spesso fatica a imporsi sull’altro. Là dove ce la fa, ecco i “luoghi ideali”, simili a quelli dove in questi mesi sono stati avviati significativi progetti pilota. Mi permetto di suggerirne un altro: che almeno un circolo in ogni città chieda a Renzi di estendere il metodo Barca in tutta Italia così che l’indagine sullo stato del Pd conquisti il primo posto nel programma del partito. Sì, forse ne vedremo delle belle. Ma lo sforzo di trasparenza e di pulizia aiuterebbe a riprendere quella fiducia in se stessi che in tanti è andata dispersa.

A D’Alema bonifici per 87 mila euro. Vino e fondazione, i versamenti all’ex premier. I pm potrebbero sentirlo Nelle intercettazioni i timori dei dirigenti della coop Cpl: siamo ascoltati, scrivono Fulvio Bufi e Fiorenza Sarzanini su “Il Corriere della Sera”. Erano forniture annuali quelle che la «Cpl Concordia» ordinò all’azienda «La Madeleine» di Massimo D’Alema. Spumante e vino rosso per 22.500 euro. Complessivamente i versamenti ammontano dunque a 87mila euro in tre anni. Soldi che i vertici della cooperativa sostenevano di aver elargito «perché è molto più utile investire negli “Italianieuropei”». E di questo si parlerà domani nel corso degli interrogatori di garanzia di Francesco Simone, che curava le pubbliche relazioni dell’azienda, e del presidente Roberto Casari, entrambi arrestati per dall’associazione per delinquere, corruzione, turbata libertà degli incanti, riciclaggio, emissione di fatture per operazioni inesistenti. E chiarimenti sulla natura di questi rapporti potrebbero essere chiesti allo stesso D’Alema: i magistrati stanno valutando la sua convocazione dopo aver ascoltato la versione degli indagati. Non sarà l’unico. L’inchiesta che ha portato in carcere il sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino per le tangenti che avrebbe preso per affidare la metanizzazione dell’isola alla «Cpl» si allargano ai rapporti della cooperativa con le altre Fondazioni create dai politici. E inseguono i soldi all’estero: a San Marino, dove Simone dice di poter muovere fondi, ma soprattutto in Tunisia. È lo stesso manager, in passato fedelissimo di Bettino Craxi, a vantarsi con il presidente del consiglio di amministrazione Maurizio Rinaldi, della propria capacità di muoversi nel Paese africano: «Se tu vuoi vieni una volta con me in Tunisia che è una cosa più sicura, ti apri il tuo conto oppure fai un’altra società che costa duecento euro... Tunisia, offshore, dove tu sei socio unico e garante, nella mia stessa banca, così è più veloce l’operazione». Lui faceva la spola continuamente e quando si trattava di nascondere i soldi da far rientrare in Italia li nascondeva nei posti più strani, compreso il passeggino del figlio. Nelle conversazioni intercettate nel marzo del 2014 Simone parla con una dipendente di «Italianieuropei» per l’acquisto di 500 libri di D’Alema da presentare a Ischia. Specifica di essere «disposto a pagare cifra piena se i soldi vanno alla Fondazione», altrimenti chiede uno sconto del 10 per cento. La donna lo rassicura che il pagamento sarà diretto e così si accordano per la fornitura dei volumi «ma anche del vino, uniamo l’utile al dilettevole».
In realtà quelle bottiglie non sono le uniche acquistate. Secondo una nota dei carabinieri del Noe, delegati alle indagini, «nel 2013 sono state comprate 1.000 bottiglie di spumante per 14.600 euro e nel 2014 altre 1.000 bottiglie di vino rosso per 7.900 euro». Uniti a tre bonifici da 20.000 euro l’uno elargiti alla Fondazione e alle centinaia volume «Non solo euro» fanno 87.300 euro. Quando decidono quali Fondazioni devono finanziare i vertici di «Cpl» sono molto espliciti, come spiega il responsabile commerciale in un colloquio del maggio scorso. Verrini : «Il mio problema però è questo, queste persone poi quando è ora, le mani nella merda ce le mettono o no?». Simone : «...dobbiamo pagarlo perché ci porta questo e chiudiamo questo, no venti ma anche duecento...». Non si sa a chi si riferiscano, gli atti sono coperti da omissis «per ragioni investigative». Certo è che un filone dell’indagine, come scrive il giudice, si concentra sui versamenti «al mondo politico-istituzionale, ovvero a quelle fondazioni o associazioni che in qualche modo sono espressione di tale mondo». E infatti sottolinea come «il tenore e il contenuto della conversazione appaiono fondamentali anche per la valutazione delle esigenze cautelari, e in particolare della pericolosità sociale dei protagonisti della vicenda, rappresentando lo “specchio” della strategia aziendale di tale cooperativa, con particolare riferimento ai rapporti e alle relazioni “patologiche” esistenti tra gli uomini espressione di tale cooperativa da una parte ed esponenti politici (e più in generale della pubblica amministrazione) dall’altra, rapporti sovente “schermati” attraverso triangolazioni con fondazioni varie e di varia natura». Accertamenti che riguardano anche i rapporti diretti con chi si sarebbe mostrato disponibile ad agevolarli, come il sottosegretario Simona Vicari, vera promotrice dello sblocco di 140 milioni di euro nella legge di stabilità come loro avevano sollecitato e sul conto della quale sono tuttora in corso nuove verifiche. Dalle intercettazioni raccolte dagli investigatori si capisce che alla Cpl c’era la consapevolezza di essere al centro di una indagine. «Siamo ascoltati», dice Simone a Verrini. In un’altra conversazione Simone fa riferimento al generale della Guardia di Finanza Michele Adinolfi (già coinvolto in altre inchieste) e parla della necessità di ricercare microspie negli uffici della cooperativa: «Ho parlato con un assistente di Adinolfi... Serve fare una bonifica, Nicò! Quando mi autorizzi chiamo il generale, ce la facciamo fare, però ovviamente ci farà un prezzo di riguardo. Però facciamola».

A SINISTRA: DA ACCUSATORI AD ACCUSATI LE COSE CAMBIANO.

D’Alema e il caso Ischia: «Così la magistratura si delegittima da sola. Il Csm e l’Anm devono intervenire». L’ex premier: «Non ritengo legittimo l’uso di intercettazioni come quello nei miei confronti. Abolito il finanziamento pubblico ai partiti, ora si criminalizza quello privato», scrive Giovanni Bianconi su “Il Corriere della Sera”. Il giorno dopo, Massimo D’Alema è ancora «indignato e offeso».

Davvero non ha trovato una ragione a giustificazione dei magistrati che hanno inserito il suo nome nell’ordine d’arresto per le presunte tangenti a Ischia?

«E quale potrei trovare? Si parla di un’ipotesi di reato, tutta da dimostrare, in cui io non c’entro. Non c’era alcuna necessità di utilizzare intercettazioni fra terze persone, senza valore probatorio, dove si parla di me de relato. Allora mi viene il sospetto che ci sia un motivo, per così dire, extra-processuale».

Sarebbe a dire?

«Dubito che la notizia dell’arresto del sindaco di Ischia e qualche suo presunto complice sarebbe finita sulle prime pagine dei giornali, se nell’ordinanza non fossero stati citati D’Alema, Tremonti, Lotti o qualche altro personaggio di richiamo. Ma se questa fosse la logica che ha ispirato i magistrati, ci sarebbe da preoccuparsi. Non per me, ma per il funzionamento della giustizia. Anche perché negli ultimi tempi si sono susseguite diverse assoluzioni che hanno sconfessato le indagini, soprattutto nei confronti di amministratori locali addirittura arrestati. Se le inchieste avessero l’obiettivo di una più efficace ricerca delle prove, anziché di qualche forma di pubblicità, credo sarebbe più utile alla giustizia e alla moralità pubblica».

Che fa, delegittima anche lei la magistratura solo perché stavolta è stato toccato dal «pubblico ludibrio» delle intercettazioni?

«Io non delegittimo nessuno. Sono stato a lungo indagato e sempre prosciolto, anche quando avevo responsabilità di governo. Un pm ha dovuto risarcirmi per i tempi troppo lunghi di accertamento della verità, a spese dei contribuenti, come credo che per altre ragioni sia capitato pure al pm di Napoli titolare di questa indagine. Credo però che l’organo di autogoverno della magistratura, il Csm, ma anche l’Associazione magistrati, dovrebbero esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola. Non ritengo legittimo un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti».

Ha riforme da suggerire?

«No, dico che serve maggiore autocontrollo tenendo presente che i magistrati devono accertare fatti e reati, senza attribuirsi funzioni politiche o pubblicistiche di altro genere. Proprio per mantenere integro il rispetto che si deve alla funzione giudiziaria e che io conservo: sono un garantista, ma anche un legalitario».

Nelle intercettazioni gli indagati dicono che lei era disponibile a «mettere le mani nella merda» per loro, e che già gli «aveva dato delle cose»; parole che per pm e giudice non sono affatto irrilevanti. Non è questo suo presunto ruolo che dovrebbe indignarla e offenderla?

«Io ho solo aderito agli inviti a partecipare a iniziative pubbliche. Non ho fatto niente per queste persone, che sono state interrogate: immagino che se i magistrati avessero ritenuto di dovermi contestare dei reati lo avrebbero fatto. D’altra parte, se hai motivo di ritenere che ci sia stato un illecito, me lo contesti e io mi difendo. Insomma, compito del magistrato è provare a verificare il contenuto di quelle parole, che possono essere millanterie, frasi in libertà o qualunque altra cosa, prima di darle in pasto al pubblico».

Lei che rapporti aveva con le persone arrestate?

«Il sindaco di Ischia Ferrandino l’ho conosciuto nel 2014, quindi quando il presunto reato era, eventualmente, già stato consumato. Con i responsabili della Cpl, Roberto Casari e Francesco Simone, avevo rapporti più risalenti nel tempo, ma non ho mai fatto alcunché di illecito, né me l’hanno chiesto. Del resto se in due anni di intercettazioni non c’è la mia voce qualcosa vorrà dire...».

Dunque non sa perché dicessero quelle frasi?

«Io no. Mi auguro che i magistrati lo chiedano a loro».

E l’acquisto dei suoi libri e dei suoi vini?

«L’acquisto dei libri, legato a una presentazione in concomitanza con un’iniziativa elettorale a favore di Ferrandino candidato alle elezioni europee del 2014, rientra nei finanziamenti che noi raccogliamo per la fondazione Italianieuropei , un’associazione culturale che pubblica una rivista prestigiosa e svolge molte iniziative importanti. Tutto alla luce de sole, così come le donazioni, regolarmente messe a bilancio. Quando abbiamo cominciato, sedici anni fa, abbiamo ricevuto sostegno da Pirelli, dalla Fiat, da De Benedetti e molte altre imprese. Quanto al vino, mi scusi ma mi viene da sorridere: se i pm vogliono acquisire agli atti una buona guida enologica scopriranno che i nostri spumanti sono segnalati tra i migliori, ed è notorio che in occasione delle festività le aziende ne acquistano in quantità per regalarli. Li abbiamo venduti e fatturati, concedendo la possibilità di pagare quattro mesi dopo: siamo noi che abbiamo fatto il favore alla cooperativa, non viceversa».

L’acquirente dice che fu lei a chiedere di comprare...

«Nel particolare non mi ricordo. Ma in generale consiglio a tutti di comprare il nostro vino. Spero non sia un reato grave... Ho sentito anche dire che siccome io sono una persona nota c’è chi compra per simpatia e dunque questa sarebbe concorrenza sleale, ma vale anche il contrario: c’è chi non compra per antipatia, come è ovvio e lecito che sia. Dov’è il reato?».

Reati a parte, ci sono questioni di opportunità politica che emergono dalle indagini e hanno un loro peso. Come è capitato all’ex ministro Lupi.

«Premessa la mia totale solidarietà nei suoi confronti, credo che ci sia un po’ di differenza tra l’avere la responsabilità di un ministero e contemporaneamente rapporti con chi ottiene appalti e commesse, lavorando proprio con quel ministero, e chi, senza incarichi istituzionali, continua a fare politica da privato cittadino».

E raccoglie fondi per la sua fondazione, come faceva quando era parlamentare...

«Prima è stato abolito il finanziamento pubblico dei partiti, ora si criminalizza il finanziamento privato della politica. E dopo che resterà? Lo chiedo in generale, perché Italianieuropei non ha mai beneficiato di finanziamenti pubblici, ma ha sempre vissuto con il sostegno di semplici cittadini e imprenditori. Sono favorevole a regole di maggiore trasparenza nel finanziamento delle fondazioni, magari accompagnate con qualche serio incentivo fiscale. Ma episodi come quello di cui stiamo parlando spaventano le persone e le allontanano anche da legittime attività di sostegno. Per questo io sono preoccupato: non per l’azienda di famiglia, ché anzi, gli ordini dei vini stanno aumentando in segno di solidarietà, bensì per il futuro di Italianieuropei».

E per il futuro del Pd? I fatti emersi negli ultimi tempi non sono sintomo di una «questione morale» nel partito e nella sua classe dirigente?

«Il Pd è un partito di governo a tutti i livelli. E questo, naturalmente, lo espone a rischi di compromissione e inquinamento, che non debbono essere sottovalutati. È evidente che ci vuole maggiore vigilanza».

La vera storia del vino di D'Alema. Presto interrogato dai giudici, scrive di Giacomo Amadori su “Libero Quotidiano”. In questa storia è tutto rosso o per lo meno rosé: le Coop, le presunte tangenti e pure il vino. Infatti nell’inchiesta della procura di Napoli che indaga sui fondi neri e le presunte mazzetta pagate dalla Cpl Concordia, spunta il nome dell’azienda vitivinicola della famiglia di Massimo D’Alema, La Madeleine, adagiata sulle colline umbre tra Otricoli e Narni (Terni). Nei giorni scorsi l’ex premier è stato avvistato nello stand dei produttori umbri del Vinitaly, intento a vendere personalmente le sue etichette. Ma dalle nuove carte giudiziarie apprendiamo che per piazzare i suoi “rossi” Baffino preferisce andare sul sicuro e rivolgersi ai vecchi compagni. Uno degli arrestati di ieri, il barese Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, il 6 novembre aveva dichiarato agli inquirenti: «Confermo che la Cpl ha acquistato 2.000 bottiglie di vino prodotte dall’azienda della moglie di D’Alema, tuttavia posso rapprsentarvi che fu Massimo D’Alema in persona, in occasione di un incontro casuale tra me, lui, il suo autista e il presidente Casari a proporre l’acquisto dei suoi vini». Il giudice Amelia Primavera nell’ordinanza chiosa con una certa perfidia: «Visto il prezzo pagato dalla Cpl Concordia per ciascuna delle 2.000 bottiglie di vino acquistate (non si tratta di un prodotto da somministrare in una mensa aziendale) si tratta evidentemente di un’altra delle "eccezioni" cui faceva riferimento lo stesso Simone per parlare dell’acquisto dei libri». Ma quanto valgono 2 mila bottiglie di nettare rosso dalemiano? L’ordinanza non lo svela. La moglie di Massimo D’Alema, Linda Giuva, procuratore speciale dell’azienda, si limita a farci sapere che i prodotti sono stati inviati in tre momenti diversi (novembre 2013, aprile 2014 e ottobre 2014) e che «gli acquisti sono stati fatti in occasione delle festività». Tre le etichette vendute: il prodotto base, in vendita a 9,50 euro, il Cabernet Franc "Sfide"; lo spumante Nerosé (17,50 euro) e il pinot nero Narnot, (29 euro, 70 il magnum). Tutte ideazioni dell’enologo dei vip Riccardo Cottarella. «I pagamenti sono avvenuti tramite bonifico bancario che hanno seguito le fatture di circa mediamente 130 giorni (…) i prezzi sono stati quelli di listino». La signora sottolinea che la Cpl il regalo non lo ha fatto a loro, ma ai propri clienti, visto che i vini della Madeleine piacciono e «un’etichetta è esaurita da più di tre mesi». Forse per questo la coop si è anche preoccupata di organizzare la presentazione dell’ambrosia di casa D’Alema nell’isola di Ischia. Il solito Simone ne discute al telefono con la segretaria della Fondazione Italianieuropei dello stesso D’Alema: «Io ho poi parlato con (…) la Linda (…) perché siccome noi come Cpl abbiamo preso anche alla signora del vino (…) volevamo fare un’iniziativa di presentazione del vino suo loro a Ischia con tutti i ristoratori e gli albergatori una cosa bella… l’utile al dilettevole: presenteremo il libro (di D’Alema ndr) e…». Il vino. Simone ha le idee chiare: «Volevo organizzare un fine settimana a Ischia per presentare il libro e poi a latere senza ovviamente nessuna evidenza pubblica mentre il libro sarebbe una manifestazione pubblica».  Quindi in piena campagna elettorale per le Europee del 2014 "il compagno D’Alema" come lo chiamano un po’ ironicamente gli indagati, promuove la sua ultima impresa editoriale e la moglie, a rimorchio, le bottiglie. La coppia nel luglio scorso ha avuto l’onore di ricevere praticamente sotto casa, a Gallipoli, (storico buen retiro dalemiano) il premio Barocco, «condotto con sobrietà da Alba Parietti» si legge sul sito della Madeleine. Nella motivazione si ricorda «che la nuova avventura imprenditoriale rappresenta una delle tante "Sfide" che Linda Giuva ha portato avanti nella sua vita, ricordando così il nome di uno dei prodotti della Madeleine». La Parietti che premia l’amica Linda è la metafora perfetta di una "sfida" solo immaginaria, la vendita del proprio vino nel circuito delle coop rosse più riconoscenti e disponibili. Nella Madeleine non mancano altri incroci curiosi. Per esempio il socio dei figli di D’Alema è l’imprenditore barese Francesco Nettis, conosciuto attraverso Roberto De Santis, sodale da quasi 40 anni di Baffino e già armatore della sua barca a vela. De Santis è stato recentemente perquisito nell’inchiesta sulle Grandi opere di Firenze e con Nettis ha usufruito di una vacanza in barca a Saint Tropez con belle fanciulle al seguito a spese di Giampaolo Tarantini, il presunto procacciatore di escort per Silvio Berlusconi. L’esclusiva crociera doveva servire a «ricompensarlo (De Santis ndr) delle conoscenze (D’Alema compreso ndr) che mi aveva fatto fare» ha detto Tarantini a verbale. E gli intrecci non sono finiti. Nel 2009 Francesco D’Alema, erede non ancora diciannovenne dell’ex premier, ha acquistato il 40 per cento dell’azienda agricola da un prestanome dell’avvocato Sergio Melpignano, fiscalista noto alle cronache anche per alcune traversie giudiziarie oltre che proprietario di un esclusivo resort molto amato dal fu Lìder Maximo. Per dieci mesi questo professionista è stato il socio "occulto" del cadetto di casa D’Alema. Poi l’ex segretario dei Ds ha acquistato l’intero pacchetto. Non prima di aver indicato a Melpignano, il nome del "compagno" Adolfo Orsini, ex dipendente di Asl e sindaco di Città di Castello (Perugia), per l’incarico di «rappresentante delegato della società agricola» nell’acquisto dei «diritti di reimpianto» di viti presso diversi agricoltori locali. Orsini nel 2010 diventa così l’amministratore unico dell’Agenzia regionale umbra per lo sviluppo e l’innovazione in agricoltura ed è probabilmente anche grazie alla sua esperienza che la Madeleine ottiene 57mila euro di finanziamenti regionali. Orsini è stato socio anche nella Soluzioni di business (Sdb) di Vincenzo Morichini, pure lui umbro, ex socio di D’Alema nella barca a vela Ikarus e suo fundraiser per la fondazione Italianieuropei. Quando nel 2011 Morichini viene coinvolto in una vicenda di appalti e mazzette, legati all’Enac, l’ente dell’aviazione civile, il nome di Orsini finisce in un pizzino con un elenco di presunti contributi sospetti a politici, ma la sua posizione viene subito chiarita. Il 27 settembre 2013, con un decreto del ministero delle Politiche agricole, è nominato consigliere dell’Istituto di servizi per il mercato agricolo e alimentare (Ismea), poltrona su cui è stato riconfermato l’estate scorsa. Ecco la morale della favola: per le sue “Sfide” D’Alema preferisce affidarsi a un rodato circuito di amici e compagni. Che, miracolosamente, ottengono incarichi ed appalti. Per poi brindare, magari, con un Nerosé della real casa.

"Non sono come Lupi". D'Alema passa nel torto pure quando ha ragione. Nel difendersi dalle insinuazioni cade nella solita superiorità morale della sinistra. E così la vigliaccata su di lui finisce in secondo piano, scrive Renato Farina su “Il Giornale”. È stato sputtanato a sangue, anzi a vino, merda e libri, con un cocktail di intercettazioni micidiali fornito dalla ditta Woodcock. Nessuna indagine su di lui, ma citazioni perfette per annegarlo a testa in giù nel cabernet della sua cantina. Una vigliaccata, non si fa. A nessuno. E lo abbiamo scritto. Come reagisce, Massimo D'Alema? È inutile, è più forte di lui: crede di essere il primo e unico essere superiore vittima di questo trattamento di immersione nella fossa dei coccodrilli. Siccome però vede che c'è un altro tizio arrivato lì poco fa tra le fauci degli alligatori, precipitato anche lui con al collo le intercettazioni senza essere indagato, che fa D'Alema? Come un Conte Ugolino lo morde sulla nuca. In prima pagina, Il Mattino di Napoli titola: «Io, offeso e indignato non sono come Lupi». È un messaggio destinato al popolo comunista, ma se possibile diretto anche a Zeus che poteva tirargli fulmini, inviargli come a Prometeo un'aquila a squarciargli il petto e a divorargli il fegato: però solo a lui. Cos'è questa confusione? Cosa ci fa lì, anche Maurizio Lupi? No, questo per D'Alema è insopportabile. Persino quando ha ragione, Massimo D'Alema riesce ad aver torto, a manifestarsi per quella creatura umana sì, ma diversa, tipicamente figlia dell'educazione comunista, per cui lui, gettato a terra da mosse schifose dell'avversario, riesce a rivoltarsi e per prima cosa sputazza sui compagni di sventura. È superiore moralmente anche nelle intercettazioni. Guai ad accomunarlo alla genia degli esseri che non sono stati introdotti da piccoli alla visione estatica di Palmiro Togliatti. Nello specifico. Dove sta la differenza con Lupi? Abbiamo provato a scavare. In effetti. La storia dei vini firmati D'Alema acquistati dalla cooperativa Concordia, nel numero di duemila bottiglie, sono cose normali, normalissime. Ad esempio. A Predappio si produce il vino del Duce, un sangiovese ovviamente nero, e i nostalgici lo acquistano non per le recensioni del Veronelli e del Gambero Rosso, ma poiché credono di rinvenirvi sentori residui di olio di ricino e di palmizi imperiali per la gloria dell'idea fascista. Immaginiamo accada la stessa cosa con le etichette di casa D'Alema: sono un segno di appartenenza, le Coop rosse si specchiano in quei riflessi e così i loro clienti, se mai avessero un dubbio, capiscono chi è il loro santo in Paradiso, e nella vigna. Ovvio. In fondo, anche se con finali diversi, sono entrambi, Benito e Massimo, ex primi ministri. Siamo assolutamente certi che per decidere la commessa (i prezzi per i privati, comprensivi di Iva, partono dalle 9,50 euro del Cabernet Franc Sfide alle 17,50 del Nerosè) abbiano nominato una commissione di enologi che hanno assaggiato alla cieca trenta diverse bottiglie di rosso, scegliendo il migliore. O no? Così per i cinquecento libri prodotti coi grappoli ubertosi cresciuti nella testa del medesimo D'Alema, Non solo euro. Anche lì ordinati si suppone previa consultazione di una severa e imparziale giuria della Fondazione Gramsci. O no? Ciascuno ha le sue idee. Ma perché caro D'Alema ci tieni così tanto a stabilire le distanze da Lupi, implicitamente dandogli del disonesto? Sostieni di essere un «pensionato», mentre Lupi era un ministro, dunque è diverso, molto diverso. Le intercettazioni fanno presente tuttavia che in realtà D'Alema vi è rappresentato come un pensionato piuttosto vispo e in carriera. Siamo costretti alla citazione da D'Alema, se no come si fa il paragone? «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Insomma: comprano per imbonirsi uno molto bravo a interessarsi delle cose, e che presto diventerà super-ministro. E com'è nato l'acquisto della partita di vini dalemiani? Stralcio di verbale d'interrogatorio dell'acquirente: «Posso rappresentarvi che fu D'Alema in persona in occasione di un incontro casuale, a proporre l'acquisto dei suoi vini». Si noti poi il particolare fornito dal compratore per conto della Coop Concordia: i vini sono dell'«azienda della moglie di D'Alema». Secondo noi ha ragione D'Alema. Non è come Lupi. Lupi è meglio.

Giuliano Ferrara a Massimo D'Alema: scrivi un libro. Un consiglio, quasi un'esortazione quella che Giuliano Ferrara fa a Massimo D'Alema su Il Foglio, scrive “Libero Quotidiano”. Un consiglio elargito sotto forma di una lettera che comincia così: "Gentile D'Alema che lei si senta "indignato e offeso". Una cooperativa amica può comprare derrate di suoi libri ed ettolitri del suo vino senza che il venditore debba sentirsi infamato da un reato penale, magari per accostamento a pratiche corruttive del sindaco di Ischia (da provare) o addirittura al clan dei Casalesi specie se l'accostamento sia ricavato da intercettazioni in cui se ne dicono delle brutte". Ferrara spiega come anche lui sia "schifato" dall'uso che ne viene fatto dalle intercettazioni. E evidenzia come Il Foglio si sia sempre "indignato e offeso" "di fronte a questa manomissione del diritto e della verità storia e dell'autonomia della politica".  Fatta questa premessa, l'ex direttore dà un consiglio all'ex premier: scrivere un libro. Un libro-verità "che metta definitivamente le cose a posto". Sarebbe un caso editoriale. E poi la battuta finale: "Ne acquisteremmo tre, quattrocento copie, e poi faremmo un brindisi con il suo buon vino di Umbria". 

Arrestato il vino di D'Alema. Milioni, mazzette e bottiglie: manette nel Pd e nella super coop, scrive Salvatore Tramontano su Il Giornale”. Dopo Lupi, D'Alema. I malpensanti diranno che chi attraversa la strada di Renzi si ritrova con la faccia nel fango. È la teoria del gatto nero, che si specchia con quella governativa dei gufi. La realtà è meno scaramantica e forse anche un po' più preoccupante. Lupi e D'Alema non sono indagati, ma la condanna delle intercettazioni vale più di una sentenza. Sono le frasi a effetto che fanno la differenza, i simboli. A Maurizio Lupi sono stati fatali la mezza raccomandazione a favore del figlio e l'orologio superlusso, per D'Alema il vino comprato dalla Coop coinvolta nello scandalo e il dialogo «rubato» tra due esponenti della stessa cooperativa. Ecco cosa si sono detti: «Ci sono politici che mettono le mani nella merda e quelli che non lo fanno. D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi. Ci ha dato delle cose». Quello che un tempo era l'uomo forte del Pd urla tutta la sua rabbia contro questo gioco di ventilatori. Si chiede come sia possibile che queste intercettazioni del tutto irrilevanti ai fini dell'inchiesta finiscano su stampa e tv. Perché? Con quale obiettivo? Secondo quale legge ed etica? Benvenuto a giustiziopoli. D'Alema ha fatto conoscenza con il metodo Woodcock, il pm acchiappavip, che da Fabrizio Corona a Vittorio Emanuele, da vallettopoli alla famiglia Mastella si è specializzato nel tanto rumore per nulla. Solo che le risposte alle sue domande sono tutte a sinistra. Le procure da almeno vent'anni i processi li fanno prima. Le intercettazioni da strumento utile per le indagini sono ormai una gogna politica. Ed è certo che le carte non escano da sole dagli uffici giudiziari per accomodarsi nelle pagine dei giornali. C'è qualcuno che le passa e spesso sceglie i tempi dell'uscita. L'indignazione di D'Alema è arrivata con decenni di ritardo. Non era lui quello della scossa sulla testa di Berlusconi? Ma peggio di D'Alema stanno le Coop rosse. Non c'è inchiesta che negli ultimi tempi non le veda protagoniste. È la caduta buzziana di Mafia capitale, è l'affare delle grandi opere, e questa volta a Ischia finisce nella polvere la Cpl Concordia, re del metano e una delle cooperative più antiche d'Italia. Sembra la fine di un sogno, di un'utopia. C'era una volta la coop sei tu, il sogno padano della terza via tra capitalismo e comunismo. La coop riconosciuta e protetta dalla Costituzione. C'è da chiedersi invece come la ragnatela delle Coop rosse sia diventata una fabbrica di appalti sospetti, in una zona grigia di politica e affari. Una cooperazione a delinquere.

D'Alema minaccia il giornalista: "Mi dica il nome, la denuncio". Il giornalista di Virus gli chiede del vino acquistato dalla coop finita nell'inchiesta per mazzette. D'Alema sbotta: "La querelo". Nicola Porro: "Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi", scrive Sergio Rame Mer, 01/04/2015, su “Il Giornale”. "Gli acquisti (del vino, ndr) sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd, sono stati regolarmente fatturati e sono avvenuti in prossimità delle festività, evidentemente per fare regali come fanno molte imprese". Massimo D'Alema perde le staffe e sbotta. Non riesce proprio a sopportare la domanda di un giornalista di Virus che gli chiede delle bottiglie di vino acquistate dalla CPL Concordia, la cooperativa rossa finita nell'inchiesta per mazzette a Ischia. "Io la querelo - tuona l'ex premier davanti a tutti - non sarebbe il primo oggi". Poi minaccia: "Mi dia il suo nome, le arriverà una denuncia". All'Università di Bari, dove partecipa al convegno Sprofondo Sud sull’ultimo numero della rivista Italianieuropei, D'Alema si scontra duramente con Filippo Barone, giornalista della trasmissione Virus che domani sera torna su Rai 2 con Nicola Porro. Barone interroga l'ex premier proprio sull'opportunità di mischiare una convention del Pd alla vendita di vini. "Come risulta chiaramente dalle fatture - replica, secco, l'ex Ds - quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni, in prossimità di festività, evidentemente per fare regali, come fanno molte imprese e sono stati fatturati ad un trattamento di favore, con pagamenti a quattro mesi e non in una convention del Pd". Come ricostruisce lo stesso D'Alema, si è trattato di "acquisti avvenuti nel corso di due anni, regolarmente fatturati e non certo nel corso di una convention del Pd, non c’entra nulla". Poi, rivolgendosi al giornalista di Virus che gli ha posto la domanda, aggiunge: "E siccome sto denunciando diversi giornali, denuncerò anche lei, lei dice cose sciocche". In una intervista al Corriere della Sera, poi, D'Alema invita il Csm e l’Associazione nazionale magistrati a "esercitare una maggiore vigilanza affinché certe misure non siano superate e la magistratura non si delegittimi da sola". "Non ritengo legittimo - conclude - un uso delle intercettazioni come quello che è stato fatto nei miei confronti". Ogni volta che l'abuso delle intercettazioni va a colpire un democrat, si apre un caso nazionale. Quando tocca a un esponente del centrodestra, allora tutto passa sotto silenzio. "Si risparmi le querele - scrive Nicola Porro su Facebook - si adoperi piuttosto per cambiare le leggi". Il caso D'Alema sarà tra i temi della puntata di Virus di domani. "Sono convinto, per quello che conta, che queste intercettazioni sono una schifezza - continua Porro - per di più il metodo Woodcock che ben conosco, si basa su intercettazioni a strascico". Il conduttore di Virus è d’accordo con D'Alema sul fatto che se non lo avessero tirato in ballo, tutta l’inchiesta avrebbe avuto minore rilevanza mediatica. "Detto questo - chiosa - mi chiedo per quale dannato motivo quando si è parlato delle intercettazioni e delle leggi che le volevano regolamentare il nostro Leader maximo non si è adoperato per farle passare anzi in un caso le ha esplicitamente affossate. E mi chiedo per quale motivo la sinistra fino a quando non è toccata direttamente fischietta facendo finta che non ci sia un problema con la giustizia spettacolo". Poi Porro incalza: "Ci spieghino, cosa dobbiamo fare allora? le intercettazioni del Cav, dei suoi amici, di oscuri consiglieri regionali, di faccendieri vari; favolette come la culona della Merkel o regali di Rolex possono finire in tv, diventare miti e quelle che riguardano Dalema no? Domani - conclude Porro - Virus ha intenzione di parlare anche di queste cose e delle inchieste di Woodcock il cui stile di intercettazione e di inchieste viene improvvisamente scoperto dalla sinistra. Ben arrivata e si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi".

D’Alema: «Tutelare non indagati». Denuncerò chi dice il falso». In mattinata sfuriata contro un giornalista sulla questione dei vini alle coop. In serata replica dell’Anm: «Pensare ai reati». Gratteri: punire pubblicazione arbitraria, scrive “Il Corriere della Sera”. «Che noi abbiamo venduto dei vini alla cooperativa Cpl è vero, però non ho capito perché questo debba essere contenuto in un atto giudiziario dal momento che non è un reato». Massimo D’Alema non usa mezzi termini riguardo alla vicenda che lo vede coinvolto, intercettato nell’ambito di un’indagine per presunte tangenti a Ischia. «Non sono indagato per nessun reato - ha detto con fermezza da Bari, dove si trovava per un convegno della Fondazione che presiede Italiani Europei. Allora - ha continuato - perché si devono rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone, tra l’altro in questo caso si tratta di mia moglie, che non sono indagate, che non hanno compiuto alcun reato. E che vengono semplicemente gettate in pasto così all’opinione pubblica per poter essere diffamate. Occorre - ha concluso - una tutela delle persone che non sono indagate». Concetti che aveva già ribadito in un’intervista al Corriere,sostenendo che, così facendo, «la magistratura si delegittima da sola». E in serata arriva la reazione dell’Anm: «Fermare l’attenzione sui fatti gravi di corruzione che stanno emergendo, non sulle polemiche»: è l’invito alla stampa dell’Anm. .La riservatezza «va tutelata», ma «non si mettano in discussione le intercettazioni come strumento di indagine». A proposito del diritto di difesa e riservatezza delle comunicazioni, nel frattempo, una nuova fattispecie di reato di «pubblicazione arbitraria di intercettazioni» viene proposta dalla commissione Gratteri. Il nuovo reato si accompagnerebbe, tra l’altro, alla previsione dell’«inedito divieto» all’autorità giudiziaria a inserire il testo integrale delle intercettazioni. Quest’ultima disposizione - è scritto nella proposta - «mira a una tutela rafforzata del diritto di privacy, eliminando il fenomeno negativo della divulgazione, proprio tramite gli atti dell’autorità giudiziaria, del contenuto di informazioni che esulano l’accertamento processuale. Si vuole così porre uno deciso e serio sbarramento alla possibilità che la lesione alla sfera riservata degli intercettati possa trovare la sua origine nell’ attività di impiego procedimentale o processuale dei risultati delle intercettazioni». Intanto, a margine del convegno, è scoppiata una lite tra D’Alema e un giornalista del programma tv Virus. «Lei ha detto -si è infuriato l’ex premier - che ho venduto il vino durante una convention del Pd, come si chiama lei, scusi? Devo trasmettere al mio avvocato questa informazione. La prego di mandare questa registrazione, avrà una denuncia». Un’intemerata che si è svolta sotto gli occhi delle telecamere: «Quegli acquisti sono avvenuti nel corso di due anni non in una convention del Pd. Lei dice delle cose sciocche perché quegli acquisti, come risulta chiaramente dalle fatture sono avvenuti nel corso di due anni, sono stati regolarmente fatturati, sono avvenuti in prossimità delle festività evidentemente per fare molti regali come fanno molte imprese e sono stati fatturati con trattamento di favore, diciamo, perché con fatture a 4 mesi», ha spiegato, ribadendo: le bottiglie «non sono state vendute nel corso di una convention del Pd, quindi la pregherei, siccome sto denunciando, oggi, diversi giornali, denuncio anche lei, con l’occasione». «Ben arrivata» alla sinistra sulla questione intercettazioni e «si risparmi le querele. Si adoperi piuttosto per cambiare le leggi», scriveva qualche ora dopo sulla sua pagina Facebook Nicola Porro, conduttore di Virus, criticando l’uscita dell’esponente Pd. «Mi dispiace di essermi arrabbiato con un collega - si è giustificato poco dopo D’Alema - ma metterei in guardia i giornalisti dal dichiarare o scrivere simili e palesi sciocchezze». E che all’ex premier la faccenda non sia andata giù lo rivela la nota dei suoi legali, che dicono di aver «ricevuto mandato di tutelare la sua onorabilità in sede sia civile che penale da ricostruzioni evidentemente errate e strumentali che compaiono oggi su alcuni organi di stampa». Sono sempre gli avvocati a ricostruire: «L’on. D’Alema - sottolineano - non ha personalmente ricevuto alcunché dalla cooperativa CPL Concordia, né direttamente né indirettamente. La CPL Concordia ha acquistato copie del libro `Non solo euro´ in occasione di una manifestazione politica in vista delle consultazioni elettorali europee del 2014 e, nell’arco di un biennio, circa 2.000 bottiglie di vino dell’azienda agricola della famiglia del Presidente D’Alema, regolarmente fatturate e pagate con bonifici a quattro mesi di distanza dalla fornitura. Infine la CPL Concordia ha effettuato, in tre diverse annualità, finanziamenti del tutto leciti alla Fondazione Italiani Europei, che notoriamente non è una fondazione personale dell’on. D’Alema ma un istituto che egli presiede e dirige, politicamente e culturalmente, a titolo del tutto volontario, senza beneficiare né direttamente né indirettamente dei contributi che la stessa riceve per la sua attività». Il caso D’Alema riporta così alla ribalta il tema delle intercettazioni, che spesso coinvolgono anche non indagati all’interno di inchieste delicate (vedi recentemente il caso Lupi, costretto a dimettersi da ministro).«Un intervento del legislatore sarebbe opportuno, non limitando l’intervento della magistratura e non mettendo il bavaglio alla stampa, ma tutelando l’onorabilità e la riservatezza delle persone non indagate», dice il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Giovanni Legnini, a margine di un convegno su «Economia e legalità» a Roma. «Il presidente D’Alema pone un tema serio, quello della riservatezza e dell’onorabilità delle persone non indagate - ha commentato Legnini - Il Csm però non è munito di poteri d’intervento d’ufficio, può intervenire se investito dal pg o dal ministro». Il tema della fuga di notizie, quindi, «meriterebbe un intervento legislativo appropriato».

Massimo D'Alema: "Una legge per tutelare chi non è indagato", scrive “Libero Quotidiano”. "Non sono indagato per nessun reato, perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Massimo D’Alema non ci sta a vedere il suo nome negli atti dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia e, dal foyer del teatro Petruzzelli di Bari, invoca una legge che avrebbe evitato anche le dimissioni dell'ex ministro Lupi che si è fatto da parte dopo essere stato coinvolto, pur non essendo indagato, nello scandalo "Grandi Opere". Una legge ad hoc - "Serve un intervento legislativo per tutelare l'onorabilità delle persone non indagate, per proteggerle da campagne diffamatorie come questa che mi vede protagonista, me e la mia famiglia", ha tuonato l'ex presidente del Copasir ribadendo la sua difesa: "E' falso che ho ricevuto bonifici per 87mila euro, per questo a partire da oggi abbiamo cominciato a muovere la carta bollata e a intraprendere azioni legali contro quanti hanno avviato questa campagna scandalistica priva di qualsiasi fondamento". Diffamazione - "Ho già avuto modo di esprimere tutta la mia indignazione - ha proseguito D'Alema - per la divulgazione di notizie che riguardano persone a me vicine che non sono indagate, messe in collegamento con un'indagine con cui non hanno nessuna attinenza. Questo episodio conferma quanto affermato oggi dal vicepresidente del Csm, ossia che occorrono delle norme per tutelare i non indagati. Perché rendere pubbliche in un atto giudiziario cose private di persone come mia moglie?". Quanto alla Fondazione di cui è presidente, ha precisato: "Definirmi beneficiario dei contributi raccolti dalla Fondazione ItalianiEuropei di cui risulto essere presidente protempore a titolo gratuito è un'affermazione falsa che ha solo carattere diffamatorio". 

Massimo D'Alema, parla la moglie Linda Giuva: "Il vigneto? Lo abbiamo acquistato per i nostri figli", scrive “Libero Quotidiano”. Travolto dal suo vino, Massimo D'Alema perde le staffe. Un uomo nel mirino, Baffino. E ora, in suo "soccorso", scende in campo niente meno che la moglie, la riservatissima Linda Giuva, che da sette anni gestisce il vigneto di famiglia, intestato ai figli Giulia e Francesco. Rompe il silenzio, la signora, e lo fa in un'intervista concessa a Repubblica dove parla dei 15 ettari di terreno dei quali 6,5 sono impegnati dal vigneto. "Vorrei fare il mio lavoro - si sfoga -, la produttrice di vino, onesta e laboriosa, senza dover essere inseguita da insulti e basse insinuazioni". Ma non è tutta pubblicità? Sì, lo è, la signora D'Alema conferma: "Abbiamo avuto in queste ore un'impennata di ordini inimmaginabile". La signora racconta che il vigneto, quando fu acquistato, era un allevamento di bovini. Poi spiega perché lo comprarono: per la prole, "con lo sguardo rivolto al futuro dei figli". I vini dei D'Alema, insomma, come una "garanzia" per il futuro dei loro pargoli. Parla il macellaio - Nell'articolo, in cui la signora Linda Giuva si sbottona ben poco, Repubblica si spende poi nell'elogio di D'Alema, citando voci che da Narni, in provincia di Terni, assicurano come "Massimo qui ha portato un po' di benessere". Nell'articolo si dà la parola anche a Fabrizio Nunzi, il macellaio del Paese, che presenta le bottiglie e spiega che un tempo votava per Silvio Berlusconi, ma ora con D'Alema si dà del tu. "Lui mi chiama e io gli preparo il filetto, la coppa di testa o il capocollo, di cui è ghiottissimo". E' forse arrogante, Baffino? Il Macellaio ovviamente rassicura tutti: "Lo pensavo anche io prima di conoscerlo, invece è un uomo senza spocchia. Doveva vederlo ad agosto alla sagra, il Vinotricolando, sembrava uno di noi: era lì con il suo banchetto, fermava le persone". L'inchiesta? "Non ci credo - taglia corto il macellaio -. Il suo vino davvero è buono, lo vogliono in tanti, e dopo questo polverone ancora di più".

Caro Massimo, benvenuto tra i perseguitati, scrive Tiziana Maiolo su "Il Garantista". Negli Stati Uniti il magistrato si tiene le intercettazioni ben strette nel proprio cassetto”. Così il giornalista Federico Rampini nella trasmissione Piazza pulita, ricorda, dal Paese in cui vive e lavora, l’anomalia italiana paragonata a un sistema, come quello americano, dove in uno spazio dieci volte più grande, il numero complessivo delle intercettazioni è pari alla metà di quelle italiano. E del resto, non occorre andare lontano per avere l’esempio di un magistrato che di recente è stato capace di “tenere ben strette nel proprio cassetto” le intercettazioni che lui stesso aveva disposto. Parliamo del Procuratore aggiungo di Venezia Carlo Nordio, che è riuscito a condurre un’inchiesta colossale come quella sul Mose senza che neppure una riga fosse sfuggita dalle maglie del segreto investigativo, intercettazioni comprese. Il che significa che è possibile evitare lo “sputtanamento”, soprattutto di persone non indagate, purché il magistrato, che è il custode naturale della riservatezza delle indagini, lo voglia. E quindi, a contrario, ogni volta che la notizia scappa, significa che il magistrato, prima di tutto ( e con lui le forze dell’ordine che dipendono dal Pm ) lo ha voluto. Intercettazioni depositate in edicola, si dice, con ammiccamento complice, tra giornalisti. E’ capitato, buon ultimo, a un esponente del Pd, Massimo D’Alema, non uno qualunque, ma che ha il torto di non essere sull’inginocchiatoio davanti a San Matteo. Sadicamente, e con un po’ di malizia, avremmo preferito che la vittima dell’ennesimo circo mediatico-giudiziario fosse un amico del premier Renzi, secondo il detto del “chi la fa l’aspetti”. Perché questo problema delle intercettazioni in edicola in genere viene preso a cuore solo da chi lo subisce e dai propri amici. Inoltre gli argomenti usati per lo “sputtanamento”, soprattutto del personaggio politico, sono sempre quelli più adatti a suscitare invidia sociale, dal posto di lavoro per il figlio o l’orologio di valore simbolico come il Rolex ( se così non fosse non esisterebbero i falsi ), come nel caso di Maurizio Lupi, o le bottiglie di vino pregiato come nel caso di Massimo D’Alema. Lo “sputtanamento” è costruito ad hoc per istigare i cittadini all’odio e all’invidia. Il personaggio individuato serve da cappello su inchieste che spesso non conquisterebbero le prime pagine (con conseguente tam tam televisivo e sui social ) senza “il nome” del politico da rosolare. E qui si apre un problema di politica giudiziaria molto serio. Da un po’ di tempo i magistrati delle indagini preliminari hanno introdotto il costume di allegare all’ordinanza di custodia cautelare il testo delle intercettazioni. Il documento complessivo è “a disposizione delle parti”, il che non vuol dire che siano atti pubblici. Ma ormai è come se lo fossero, perché magistrati e forze dell’ordine li distribuiscono a piene mani ai giornalisti dietro l’alibi che i responsabili di queste propalazioni potrebbero anche essere gli avvocati. Ma quale difensore avrebbe interesse a rendere pubbliche intere pagine che danneggiano il loro assistito? La risposta è ovvia. Inoltre, in mezzo alle intercettazioni, ne viene allegata abilmente qualcuna che riguarda un uomo politico famoso, che non è indagato, che spesso non è neppure intercettato (come nel caso di D’Alema ), ma di cui parlano altri. Che cosa si imputa, con titoloni e strilli, al non-indagato che diviene immediatamente un imputato al Tribunale del popolo? Il “comportamento”. Il re dei cattivi comportamenti resta sempre Silvio Berlusconi, e giù moralismi a palate. Ma insomma, anche Lupi e D’Alema: era opportuno che…..e giù moraleggiando. A nessuno ( o quasi ) viene in mente di considerare che il magistrato dovrebbe limitarsi, se proprio deve, ad allegare all’ordinanza solo le intercettazioni relative alla commissione di reati, e non ai comportamenti, soprattutto se di persone estranee. E comunque che dovrebbe tenerle ben strette nel proprio cassetto, come Nordio e tutti i magistrati Usa insegnano. Purtroppo queste questioni non riguardano più solo il mondo della politica, come insegna tutto quanto il processo a Massimo Bossetti, che è già diventato il processo della pubblica moralità, di cui sono diventate vittime, oltre all’imputato, tutte le donne della sua famiglia, nella cui vita affettiva e sessuale si fruga con rara morbosità, in modo che tutti noi “spettatori” possiamo sentirci più virtuosi. Il problema delle intercettazioni (una volta erano i verbali d’interrogatorio ) in edicola non ha soluzione, purtroppo. Perché ogni volta che il Parlamento o un Governo cercano di metterci mano, partono sempre con il cercare di erogare sanzioni all’utilizzatore finale, il giornalista, arrivando persino a tentare di punirlo con il carcere. Si sa già come va poi a finire, con i sindacati, gli articoli ventuno, le senonoraquando, tutti a protestare con il bavaglio sulla bocca e la cosa finisce in niente. Del resto una parte ( ma solo una parte ) di ragione i giornalisti l’hanno, perché il cane cui viene dato l’osso, come fa a non rosicchiarlo? L’unica punizione che veramente meriterebbero certi giornalisti è di essere intercettati, non solo al telefono, anche in camera da letto o sulla Comasina, che è una strada abitualmente popolata da prostitute. Per il resto, l’unico che dovrebbe essere sanzionato ( ma da chi? Dai suoi colleghi?) è il naturale custode della notizia, colui che l’ha prodotta e che dovrebbe tenerla “ben stretta nel proprio cassetto”.  Ecco perché il problema non ha soluzione, ecco perché è inutile lamentarsi, caro compagno D’Alema. Benvenuto tra noi.

Arrangiatevi, scrive Filippo Facci su “Libero Quotidiano”. Riassunto. Nel 2005 ci fu una convergenza tra Berlusconi e i Ds per una legge sulle intercettazioni, ma nel 2006 i Ds bocciarono la proposta (Castelli) perché c'era la campagna elettorale. Dopo la diffusione delle intercettazioni su Antonveneta, poi, i Ds ricambiarono idea e nel 2007 ci fu la legge proposta da Clemente Mastella: fu votata da Ds, Margherita, Verdi e Rifondazione comunista, ma poi - tra polemiche arroventate - si arenò al Senato. Nel 2008, durante la campagna elettorale, Walter Veltroni promise di riesumare la proposta, ma poi ricambiò idea e, in giugno, si accodò alla posizione di Di Pietro e dell'Associazione nazionale magistrati, anche se nel programma Pd restava scritto che pubblicare intercettazioni durante le indagini andava espressamente proibito. Nel 2010 il governo Berlusconi cercò di blindare finalmente una legge, ma fioccarono manifestazioni (anche un'assemblea di direttori di giornale) e il provvedimento si sfarinò, con Massimo D'Alema che definì la norma "ostruzionistica per le indagini". Nel 2013 i "saggi" nominati da Napolitano dissero che l'uso delle intercettazioni andava ridotto, ma il Pd, in Commissione giustizia, rispose che "il tema non è una priorità". Ora D'Alema non è indagato come non lo era Maurizio Lupi, tuttavia "io non do gli appalti" specifica il Migliore. Il quale è stato sputtanato dalle intercettazioni come Maurizio Lupi, tuttavia "D'Alema non è ministro" specifica l'altro Migliore, il piddino Gennaro. Insomma, D'Alema: vedi titolo.

SPUTTANATI E SPUTTANANDI.

Pd, scandali e risse: la deriva che Matteo Renzi non riesce a fermare. Travolto dalle inchieste. Infiltrato da affaristi e mafiosi. Con gli iscritti in fuga. Il partito democratico è in crisi. E il segretario e premier non sembra poterla controllare, scrive Marco Damilano su “L’Espresso”. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito buttato», travolto da indagini giudiziarie e da minacce di scissione. È il Pd che si avvia alle elezioni regionali di fine maggio raccontato nell'inchiesta dell'“Espresso” di questa settimana. Un viaggio da Nord a Sud in quello che l'ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano definisce «un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». Con il più importante dei suoi leader storici, Massimo D'Alema, in guerra con la magistratura e con la stampa dopo intercettazioni e notizie senza rilevanza penale che accostano la sua fondazione ai dirigenti della cooperativa Cpl Concordia arrestati da pm napoletani. A Roma e a Ostia il Pd è chiamato a liberarsi dai condizionamenti della mafia. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta quattro mesi fa. In Campania c’è il caso di Vincenzo De Luca e l'arresto a Eboli di funzionari accusati di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi che in realtà è di Forza Italia. Nelle Marche, al contrario, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca guiderà una lista civica di centrodestra con gli uomini di Berlusconi. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Decisionista da capo del governo, da segretario del Pd Renzi si rivela immobilista. Nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro di lui c’è il deserto. «vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente», dice Antonio Bassolino. E sulla scissione, avverte il grande vecchio Alfredo Reichlin, «vedo in Renzi una preoccupazione. Lui sa che non si fa un partito del 40 per cento che vuole rappresentare il Paese nel profondo senza un rapporto con l’elettorato di sinistra e le sue rappresentanze». Ma anche per questo il Pd renziano rischia di apparire un'occasione perduta. Un partito buttato.

Ma che razza di partito è diventato il Pd? Scosso dagli scandali, da nord a sud. Succube dei vecchi apparati. In calo drammatico di iscritti. Diviso fino al rischio di scissione. Si avvicinano le elezioni regionali e il Pd è del tutto fuori controllo. E Renzi sembra incapace di agire, continua Marco Damilano. Vecchia pietra/per costruzioni nuove/vecchio legname/per nuovi fuochi...». Il senatore del Pd Mario Tronti quasi sussurra i versi di Thomas Stearns Eliot per festeggiare i cento anni di Pietro Ingrao, l’ultimo comunista, il sopravvissuto del secolo delle ideologie. Nell’auletta dei gruppi parlamentari applaudono le prime file, il capo dello Stato in carica (Sergio Mattarella) e il presidente emerito (Giorgio Napolitano), Pier Luigi Bersani e Achille Occhetto, Anna Finocchiaro e Luciano Violante, Emanuele Macaluso e Aldo Tortorella, antichi più che anziani. Vecchie pietre, vecchio legname. Le nuove costruzioni, il Pd di Matteo Renzi, non si vedono in sala. Non c’è un ministro a testimoniare la presenza del nuovo corso, neppure un vice-segretario. «Il governo? E chi è?». Massimo D’Alema, seduto a due posti di distanza dall’ex rivale Occhetto, sfodera l’acidità dei momenti peggiori. Il giorno prima il suo nome è rimbalzato nell’inchiesta giudiziaria che ha portato   ll’arresto del sindaco Pd di Ischia Giosi Ferrandino , candidato alle europee. Notizie non rilevanti ai fini penali sull’acquisto di bottiglie di vino di produzione dalemiana e di cinquecento copie del suo libro, più finanziamenti di 60mila euro (registrati) della cooperativa Cpl Concordia alla fondazione Italianieuropei, corredate da intercettazioni («D’Alema è uno che mette le mani nella m...»), ma che bastano a far infuriare l’ex premier. Galeotto fu il libro: “Non solo euro”, il testo in questione, fu presentato a Roma da Renzi il 18 marzo 2014, quel giorno Matteo assicurò che per la futura Commissione europea il governo avrebbe scelto «le persone più forti che abbiamo». D’Alema si era riconosciuto nell’identikit, invece Renzi designò Federica Mogherini. È anche da quella promessa che parte la guerra che oggi dilania il Pd. Il fantasma di una mini-scissione che agita il partito del 41 per cento alle elezioni europee, con la minoranza interna che minaccia di non votare la legge elettorale Italicum quando a fine mese approderà alla Camera. Un atto che segnerebbe una rottura irreparabile. «Operazione 27 aprile», la chiama Pippo Civati. Ma la vera guerra contro il passato che preoccupa Renzi non è quella contro i leader della minoranza (Pier Luigi Bersani, Gianni Cuperlo, Stefano Fassina, Rosy Bindi, Pippo Civati), divisi tra loro. È la difficoltà a far cambiare verso al Pd, dopo quasi un anno e mezzo di segreteria. Divisioni. Iscritti in fuga. Infiltrazioni di ogni tipo, comprese quelle della criminalità mafiosa. «Un partito non solo cattivo ma pericoloso e dannoso», ha scritto l’ex ministro Fabrizio Barca nel suo rapporto sul Pd romano, in cui «traspaiono deformazioni clientelari e una presenza massiccia di “carne da cannone da tesseramento”» e che «subisce inane le scorribande dei capibastone». A Roma il centrosinistra governa dal 1993, salvo la parentesi di Gianni Alemanno dal 2008 al 2013, l’inchiesta Mafia Capitale sta sfiorando le amministrazioni del Pd e i suoi uomini-chiave. L’ultimo indagato, il cinquantenne Maurizio Venafro, era il capo di gabinetto di Nicola Zingaretti alla presidenza della regione Lazio. Nato e cresciuto nella Fgci di Goffredo Bettini e nelle sezioni di borgata del Pci, nessuno ha mai messo in discussione la sua correttezza ma è il modello Roma fatto persona, per più di venti anni nelle stanze del potere romano: capo staff di Francesco Rutelli in Campidoglio, affiancandolo nella candidatura a premier nel 2001, capo del dipartimento comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo e infine braccio destro di Zingaretti. Negli stessi giorni è stato sciolto il municipio di Ostia, governato dal Pd, per collusioni con la mafia. Roma è l’unica situazione locale in cui Renzi si è mosso con rapidità, nominando commissario il presidente del partito Matteo Orfini. Che non è un estraneo alle beghe correntizie, è stato in cordata per anni con il deputato Umberto Marroni (uno dei commensali, tra l’altro, nella cena in cui il futuro ministro Giuliano Poletti sedeva a tavola con Gianni Alemanno e con il socio del boss Massimo Carminati Salvatore Buzzi). Nel partito li chiamavano i Dalemerrimi o i Dalebani, per sottolineare la fedeltà al loro capo di allora, D’Alema. In minoranza a Roma, dove dominavano Bettini, Zingaretti, i veltroniani. Oggi Orfini sta con Renzi, ha impugnato la bandiera del rinnovamento: azzeramento delle commissioni in Campidoglio, inchiesta sui circoli, invito ai consiglieri comunali ad andare in Procura a denunciare le situazioni sospette. In altre situazioni, invece, il Pd nazionale stenta a intervenire. In Calabria non è stata ancora completata la formazione della giunta di Mario Oliverio, eletta il 23 novembre, quattro mesi fa. E non si può neppure dare la colpa all’inesperienza, dato che il nuovo presidente è entrato per la prima volta nel consiglio regionale calabrese nel 1985, quando Renzi aveva dieci anni. In Campania c’è il volo del calabrone Vincenzo De Luca su cui pesa una condanna in primo grado per abuso di ufficio e che per la legge Severino potrebbe essere costretto a sospendersi dalla sua funzione in caso di elezione. Ma ha vinto le primarie e si presenta come l’uomo di Renzi in regione. Intanto a Eboli un funzionario del Comune e un imprenditore sono stati arrestati con l’accusa di sfruttare donne immigrate: certificati falsi di residenza in cambio di voti alle primarie comunali per il Pd. In Sicilia c’è lo scambio delle identità. Nella pirandelliana Agrigento il candidato vincente alle primarie del Pd Silvio Alessi in realtà è di Forza Italia, sponsorizzato dal presidente del Pd isolano Marco Zambuto (ex cuffariano, ex alfaniano, oggi faraoniano, nel senso di Davide Faraone, il sottosegretario all’Istruzione capo dei renziani in Sicilia) che è andato in visita ad Arcore da Silvio Berlusconi. Nelle Marche, dopo dieci anni di governo, il presidente uscente del Pd Gian Mario Spacca si è buttato dalla parte opposta e guiderà una lista civica di centrodestra aperta a Forza Italia. In tutte queste situazioni c’è un solo protagonista, il Pd di sempre, con i vecchi uomini e i vecchi metodi, e un grande assente, il nuovo corso di Renzi. Il leader egemone a Roma, che strapazza e umilia gli avversari, nei territori finisce in minoranza o è costretto ad affidarsi ai professionisti del trasformismo. E dietro il leader c’è il deserto. I renziani, per ora, non esprimono una classe dirigente, un’organizzazione, una cultura politica. Faticano a darsi un nome. Una settimana fa i renziani della Lombardia si sono riuniti per la prima volta tutti insieme con il segretario regionale Alessandro Alfieri e con il numero due del Pd nazionale Lorenzo Guerini. E hanno deciso di chiamarsi “maggioranza del Pd”, così, senza altri aggettivi. Qualunque altra definizione, tipo quella dei catto-renziani vagheggiata dagli amici di Graziano Delrio, avrebbe fatto infuriare il premier. Di riforma del Pd si stanno occupando due ex avversari del leader, Orfini e il bolognese Andrea De Maria, incaricato di preparare un evento a Cortona. Sul tesseramento è stato chiamato a lavorare il deputato di Arezzo Marco Donati, renziano della prima ora. Compito delicato. Nel 2014 a Bologna, la città rossa per eccellenza, nell’anno del boom elettorale renziano, si sono persi per strada un quarto degli iscritti. I circoli chiudono: erano tre a Sasso Marconi, ne è rimasto uno e il nuovo segretario cittadino è stato votato da cinquanta irriducibili (su 400 iscritti). Altrove è il contrario, c’è il tesseramento gonfiato di anime morte. L’ex deputato di Sel Gennaro Migliore, ora renziano, spedito da Orfini a monitorare il municipio romano di Tor Bella Monaca, non si separa mai da una cartellina rossa che contiene i primi risultati dell’indagine: almeno un quarto delle tessere è di provenienza incerta, sospetta. «Ho votato per Renzi alle primarie e lui è un politico di razza», osserva un padre nobile del Pd come Antonio Bassolino, «ma vedo una contraddizione profonda tra il Pd di Roma e il territorio e tra Renzi e il renzismo. C’è una grande distanza tra il segretario-premier e la sua classe dirigente, una questione che continua a restare irrisolta e che è sempre più urgente. È una difficoltà quasi tecnica: con l’attività di governo che assorbe ogni energia dove può trovare Renzi il tempo di affrontare le tante questioni locali?». Le elezioni regionali sono ormai vicine. Un nuovo test per il Pd renziano dopo le trionfali europee del 2014 e le regioni conquistate negli ultimi mesi (l’Emilia confermata nonostante inchieste e astensioni e Sardegna, Piemonte, Abruzzo e Calabria strappate al centro-destra). Se sulla legge elettorale dovesse arrivare lo strappo della minoranza le conseguenze sul voto sarebbero imprevedibili. Ma ancora più imprevedibile è che il premier decisionista sul rinnovamento del partito si riveli immobile. Abbandonando il Pd al vecchio legname. Senza costruzioni nuove.

La Ditta del Pd si rottama da sola. Ischia, Roma, le cooperative. Nuovi scandali che coinvolgono soprattutto uomini ex Pci. Ma con un partito così Renzi non può rinnovare il Paese, scrive Luigi Vicinanza su “L’Espresso”. C'è dell'umorismo involontario nel titolo dell’ultimo libro di Massimo D’Alema, “Non solo euro”, cinquecento copie del quale sono state acquistate dalla cooperativa rossa Cpl Concordia, quella che trafficava con il sindaco d’Ischia. E già, non solo euro. Ma anche vino. Duemila bottiglie di rosso. Dalemiano, rigorosamente. Acquistate sempre dalla stessa coop. Saperi & sapori: la via rivoluzionaria per la conservazione del potere. Nulla di illegale, è stato ripetuto. Ed è bene ribadirlo. Come nel caso del Rolex regalato al figlio dell’ex ministro Maurizio Lupi. Così si usa a Roma e dintorni. D’altra parte è tutto ancora da verificare il fondamento dell’inchiesta condotta da un pm napoletano famoso non certo per i risultati processuali. Intanto però le carte giudiziarie, prima di un reato, ci parlano di una diffusa spregiudicatezza nei comportamenti. Non è roba da codice penale, ma da codici di stile. Ecco dunque sempre dalla Cpl Concordia un versamento di 60mila euro alla fondazione che fa capo a D’Alema, Italianieuropei. Con tre distinti bonifici negli anni. Dunque verosimilmente fatturati. Ma rimasti finora riservati. Difficile credere a una donazione disinteressata. L’associazione dalemiana, interpellata da “l’Espresso” tre mesi fa in occasione di una preveggente copertina, “Le casseforti dei politici”, disse di preferire la segretezza dei conti alla trasparenza sui nomi dei donatori. Perché quel tipo di finanziamento non ha regole. Ognuno fa come gli pare. Leader nazionali e capetti di periferia si sono intestati la loro fondazione. Di destra come di sinistra. Promuovono convegni, riviste e vino quando serve. Senza vergogna. Una onorevole tradizione politica, tramandata dal Pci di Berlinguer, si spappola definitivamente in affarucci di bottega o in tangenti d’oro. Con le cooperative rosse sempre più spesso al centro di inconfessabili patti scellerati. Peggio del peggior capitalismo. Corruttori delle regole di mercato in nome di una solidarietà sociale perduta e umiliata. Appare dunque come una beffa della storia l’accusa rivolta a Matteo Renzi dalle agitate minoranze interne del Pd: non sei di sinistra. Riducendo l’essere di sinistra a un’etichetta, a una rendita di posizione, senza valori e contenuti. La “ditta” di bersaniana memoria si è disintegrata per colpa dei suoi troppi difetti, prima ancora che per la rottamazione renziana. Da Ischia a Venezia, lungo tutto lo stivale, è un festival di pasticci. Tale da mettere a rischio la stessa sopravvivenza del Partito democratico, con tutta l’arroganza della “vecchia guardia”. È il tema della nostra inchiesta di copertina di questa settimana. Al premier-segretario questo partito sta stretto più di quanto dica Massimo D’Alema che ancora pochi giorni fa evocava manovre di scissione. Fuori da Palazzo Chigi e dalla stanze del Nazareno è evidente l’assenza di controllo. Il rinnovamento non si intravede oltre il perimetro degli studi tv. Non è necessario spingersi nel profondo Sud, basta restare a Roma. Il rapporto stilato da Fabrizio Barca, dirigente rigoroso, studioso di valore, racconta di un’organizzazione inquinata, dannosa (vedi “l’Espresso” n. 13): un iscritto su cinque è fasullo; la compromissione con i clan di Mafia Capitale inquietante. Il contenitore è corrotto. C’è ancora del contenuto da salvare? Con buona pace di quegli onesti e generosi militanti resistenti a ogni choc. Per lo stesso Matteo Renzi è difficile liberarsi di notabili e capifazione quando questi controllano ingenti pacchetti di voti. Giosi Ferrandino, il sindaco di Ischia arrestato, alle europee del maggio scorso ha rastrellato in tutto il Sud oltre 80mila preferenze. Sì, quelle stesse preferenze che, secondo convenienza, vengono sbandierate come strumento di democrazia e partecipazione per la selezione dei gruppi dirigenti. E i risultati si vedono. Negativi. La narrazione renziana è lontana dalla realtà. Non basta rottamare. Quel che resta del Pd va rifondato. È in gioco la stessa credibilità del segretario e del suo progetto politico. Se non rinnova in casa, come può rinnovare l’Italia?

Finché incassate soldi di nascosto, scrive Alessandro Gilioli su L'Espresso". «Restano misteriosi e non accessibili molti dei flussi finanziari che rappresentano forme diverse di finanziamento del sistema della politica nel nostro paese». E poi: «Avere dati dettagliati sui finanziamenti che i partiti hanno ottenuto dai privati sarebbe stato interessante. Sfortunatamente, questi dati sono risultati non recuperabili». E ancora: «Il nostro lavoro è stato reso difficoltoso dalla difficoltà di accesso ai dati e dalla bassa qualità degli stessi (…). L’esigenza della trasparenza e della massima fruibilità dei dati rappresenta ancora un obiettivo da raggiungere». Queste parole testuali appaiono nel report ufficiale sui costi della politica rilasciato dall'ex commissario alla spending review, Carlo Cottarelli, finalmente reso pubblico: e ora si capisce anche meglio perché Cottarelli non è più lì. Non sarà un eroe dei due mondi, ma ha detto l'indicibile: e cioè che i partiti prendono soldi in mille modi che noi non sappiamo, che quando uno (nominato dal governo!) cerca di scoprirlo gli mettono i bastoni tra le ruote e che infine la trasparenza sui finanziamenti veri alla politica, in questo Paese, è lontanissima. È curioso come la cannonata ad alzo zero di Cottarelli sia apparsa on line proprio mentre D'Alema abbaiava e querelava in giro perché sui giornali era uscita l'intercettazione che riguardava lui e la sua fondazione. Nell'intercettazione, lo ricordo, il regista degli affari sporchi della cooperativa Cpl Francesco Simone dice: «Bisogna investire negli Italianieuropei dove D’Alema sta per diventare commissario europeo... D’Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi e ci ha dato delle cose». Lo stesso Simone parla poi con un’impiegata della Fondazione «dell’acquisto da parte di “Cpl” di alcune centinaia di copie dell’ultimo libro del politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un’azienda agricola riconducibile allo stesso D’Alema». Nella perquisizione alla Cpl sono stati infine trovati «tre dispositivi di bonifici effettuati da “Cpl” in favore della Fondazione Italianieuropei ciascuno per l’importo di 20 mila euro nonché un ulteriore dispositivo di bonifico per l’importo di 4.800 euro per l’acquisto di 500 libri di D’Alema dal titolo “Non solo euro”». Come noto, D'Alema si è incazzato come un puma perché sono usciti quei verbali: «È incredibile diffondere intercettazioni che nulla hanno a che vedere con l’indagine, la giustizia non può avere come fine quello di sputtanare le persone, ma deve avere come fine la ricerca dei responsabili dei reati». Poi ha pure perso un po' la calma. Le fondazioni dei politici in Italia sono prevalentemente macchine per finanziare i politici stessi e soprattutto non rivelano a nessuno i nomi dei loro finanziatori: «Ottengono i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto e sono fuori da ogni possibilità di controllo», come ha detto il presidente dell'Autorità Anticorruzione, Raffaele Cantone. In particolare, quando nel dicembre scorso "l'Espresso" ha chiesto a ItalianiEuropei chi la finanziava, ha ottenuto un secco diniego con la seguente spiegazione: «Preferiamo la privacy alla trasparenza. I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite». Quindi quei verbali che tanto hanno fatto infuriare D'Alema sono stati sostanzialmente un (pur minuscolo) squarcio di verità sui finanziatori segreti della sua Fondazione. E allora, il problema in questo Paese è un verbale processuale depositato che restituisce ai cittadini una piccolissima porzione di un loro diritto sacrosanto - sapere chi finanzia privatamente la politica - o è il fatto che la politica si faccia finanziare in modo torbido e segreto? Ecco: con permesso, finché i partiti e i politici incassano i soldi di nascosto dai cittadini, tramite le loro fondazioni, credo che qualsiasi loro lamentela sulla pubblicazione dei verbali "sputtananti" abbia davvero scarsa credibilità, scarsa autorevolezza, ma soprattutto scarsissima ragion d'essere.

"D'Alema attacca i cronisti ma ce l'ha con Woodcock". Il suo braccio destro a Palazzo Chigi: "Coi giornali ha un rapporto morboso. Per lui bisogna 'lasciarli in edicola'. Anche sua madre non li sopporta. Ma da premier rimise tutte le querele", scrive Andrea Cuomo su "Il Giornale". «Massimo è un antico professore di liceo. Uno di quelli che quando ti interroga va a fondo, non si accontenta di risposte abborracciate. Per questo non sopporta la superficialità del giornalismo attuale». Fabrizio Rondolino ride quando gli chiediamo del D'Alema che minaccia di querele i giornalisti, lui che ne è stato responsabile della comunicazione, lui che ne è stato amico (spesso) e nemico (talvolta), lui che l'altro ieri si è preso anche la briga di ordinargli, per solidarietà, due casse di vino Madeleine («una di NarnOt e una di Sfide»).

Rondolino, va bene che noi giornalisti siamo spesso degli adorabili cialtroni. Ma lui non se la prende troppo?

«Ma lui sbaglia, perché se il sistema informativo è questo, la battuta di agenzia che dà il titolo, bisogna essere furbi e cavalcarlo. O ignorarlo, come fa Renzi, che non considera i giornali, per lui sono già morti, lo bastonano e fa finta di nulla, lui punta su tv e social network».

Proprio un bel quadretto...

«Lo aveva detto lo stesso D'Alema a Prima Comunicazion e negli anni Novanta: i giornali bisogna lasciarli in edicola».

Ecco, la profezia si avvera.

«Sì, ma per altri motivi».

Torniamo a D'Alema. Si ricorda qualche episodio?

«Sì, ma non d'ira, semmai di sarcasmo. Ricordo una giornalista che gli si avvicinò col microfono sguainato: Segretario, posso farle una domanda? E lui, gelido: L'ha già fatta. E si allontanò lasciando la collega con un palmo di naso».

Si racconta anche di una fatwah nei confronti di Augusto Minzolini quando era notista politico della Stampa.

«Io già non lavoravo più con D'Alema. Peraltro a me il Minzo sta simpatico. Ma quella volta avrà scritto qualcosa di antipatico o di terribilmente vero».

Un rapporto insanabile tra Baffino e l'informazione.

«Sì, ma nato da un amore tradito. D'Alema, da vecchio comunista, ha sempre avuto un rapporto morboso con la carta stampata. Antonio Gramsci fondò prima i giornali e poi il Pci. E non era Marx che diceva che il giornale è la preghiera mattutina dell'uomo moderno? No, mi sa che era Hegel».

Sì, Hegel.

«Che poi anche la mamma di D'Alema ce l'aveva con i giornalisti. La incontrai solo una volta e mi trattò come una persona poco affidabile».

Magari aveva ragione la signora. Ma scatti di ira mai?

«Non ricordo urla o porte sbattute. Non voglio fare psicoanalisi da bar, ma questo è uno dei suoi problemi. Lui è un vecchio illuminista, pensa davvero che la ragione sovrasti tutto. Da qui l'estremo autocontrollo, che si manifesta in quella postura sempre contratta. La mente controlla le passioni. Punto».

Una persona fredda.

«Ma no, poi non è affatto freddo. È timido, legato alla famiglia, ama la moglie. Ma questa sfera affettiva è sepolta dentro la corazza dell'illuminista».

Sa perdonare?

«Mettiamola così. Una delle cose che mi ha insegnato è che la battaglia politica non è mai personale. Lui le ha prese e le ha date non dico con fair play ma con l'atteggiamento del giocatore di scacchi che se perde non cerca scuse e pensa alla rivincita. Infatti quando diventò presidente del Consiglio, nel 1998, rimise tutte le querele, primo e unico a farlo. Da leader di una parte politica era diventato il presidente di tutti gli italiani e pensò a un gesto distensivo».

Ne rimise una anche a me.

«Che poi, lui, ora, mica ce l'ha con i giornalisti ma con la magistratura. Se la prende con la stampa perché non può prendersela con Woodcock che lo ha gettato in una vicenda in cui non è nemmeno indagato».

Con lei si è mai arrabbiato?

«Quando fallì la scalata alla poltrona di commissario europeo, per Europa scrissi un pezzo affettuoso in cui sostenevo che era la fine della sua carriera politica. Qualcuno glielo fece notare e lui: Non mi occupo di giornali clandestini».

Alla faccia dell'affetto. E in che rapporti siete ora?

«Ma dài, buoni; gli voglio bene, gli compro anche il vino».

Chieda lo sconto. Col caldo i rossi non si vendono più.

«Allora lo pretendo».

Michele Santoro attacca i dalemiani: "Siete dei miserabili". Il conduttore attacca anche "Baffino" e i suoi vini acquistati dalle Coop, scrive Mario Valenza su "Il Giornale". Dopo le intercettazioni e le polemniche sul caso Ischia piovute addosso a Massimo D'Alema, Michele Santoro attacca "Baffino" nel suo monologo iniziale a Servizio Pubblico. In apertura di puntata, Santoro si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. "C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza 'Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'".

Michele Santoro attacca Massimo D'Alema: "Grazie a te il prossimo leader maximo sarà Matteo Salvini", scrive “Libero Quotidiano”. Non vedeva l'ora Michele Santoro di togliersi altri sassi delle scarpe contro Massimo D'Alema. E tutto il caos sulle intercettazioni che riguardano il Baffino a proposito dell'inchiesta sulle tangenti al comune di Ischia è stata l'occasione ghiotta per il tribuno di La7. In apertura a Servizio Pubblico si è rivolto direttamente all'ex presidente del Consiglio sfottendolo sui tanti ruoli che ha ricoperto finora, da politico a presidente della fondazione Italianierupei fino al vignaiolo. C'è chi ha parlato malissimo dei suoi vini, come l'ex sindaco di Salerno Vincenzo De Luca, candidato Pd alla presidenza della Campania: "Ha detto che il tuo vino è una schifezza, lo ha fatto per far piacere a Renzi e per i titoli sui giornali - ha detto Santoro - così come fanno i miserabili ex amici di D'Alema che non perdono occasione per sputargli in faccia. Oppure - aggiunge il conduttore - come i soci della Coop Concordia che apprezzano il fatto che D'Alema è uno capace di mettere 'le mani nella m...'". Secondo Santoro il grande vincitore rimane ancora una volta Matteo Renzi e quasi si intravede una nuova sfavillante ossessione dopo Berlusconi. "D'Alema non sarà condannato perché non ha fatto niente di illecito - dice Santoro - lo saranno però quelli che hanno creduto in lui, condannati a tifare Renzi per evitare il trionfo della Destra". E poi c'è un altro merito di Baffino, cioè quello di aver fatto scappare gli elettori delle periferie, i lavoratori: "Che continueranno a non credere più nel socialismo e voteranno Matteo Salvini. Uno - aggiunge Santoro - che sa solo ripetere 'a casa, a casa' oppure 'Santoro a casa'. Uno così originale - ha concluso un infiacchito Santoro - corre il rischio di diventare il leader maximo, altro che D'Alema".

Istituzioni, coop e imprese: chi finanzia Italianieuropei. Italianieuropei può contare su un fatturato di 1,2 milioni di euro. Nonostante i fondi stiano calando, la fondazione si sostenta attraverso finanziamenti diretti e inserzioni pubblicitarie di garndi imprese: ecco chi sostiene economicamente la fondazione di Baffino, scrive Sergio Rame su Il Giornale. "... È molto più utile investire negli Italiani Europei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo, capito... D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi ci ha dato delle cose...". È il brano di un dialogo intercettato tra Francesco Simone e Nicola Verrini, due degli arrestati nell'ambito dell'inchiesta sulle opere di metanizzazione che hanno interessato i comuni dell'isola di Ischia. È la prima conversazione, riportata nell'ordinanza di custodia, nella quale si fa riferimento a Massimo D'Alema. Ed è il gip Amelia Primavera a sottolineare come per "comprendere fino in fondo e per delineare in maniera completa il sistema affaristico organizzato e gestito dalla Cpl Concordia, appare rilevante soffermarsi sui rapporti intrattenuti tra i vertici della cooperativa e l'esponente politico che è stato per anni il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl Concordia, che è tra le più antiche cosiddette cooperative rosse". Rapporti che passano anche attraverso la fondazione dell'ex premier: Italianieuropei. Che peso ha economicamente e politicamente la fondazione di D'Alema? Difficile a dirlo con esattezza. Come riporta la Stampa, Italianieuropei può contare su un fatto di 1,2 milioni di euro. La maggior parte di questo bottino viene portato a casa dalla pubblicità che, nonostante la crisi dell'editoria e gli appena mille abbonati alla rivista di riferimento della fondazione, tiene botta. Come aveva spiegato il segretario Andrea Peruzy, agli inserzionisti vengono proposti pacchetti da 30mila euro. Tra questi troviamo Mps, Enel, Eni, Unicredit, Rai e Aeroporti di Roma. Tanto per citarne alcuni. La lista è lunga. La struttura, però, costa. Nell'ultimo triennio, per esempio, la Solaris, la srl che pubblica i libri e le riviste della fondazione, ha chiuso in negativo: meno 115mila euro nel 2011, meno 214mila euro nel 2012 e meno 154mila euro nel 2013. Ogni volta il buco è stato ripianato dalla fondazione. Negli ultimi giorni sono crescite le pressioni su D'Alema per capire da dove arrivano i soldi che "gonfiano" le casse di Italianieuropei. "D'Alema faccia i nomi di tutti i suoi donatori - tuona il piddì Fabrizio Barca - così si potrebbe tramutare una cosa sgradevolissima in una grande sfida". Di questi nomi si sa poco è niente. Come ricostruisce la Stampa, i primi finanziatori furono poco più di una ventina. Misero insieme un miliardo di lire: 103mila euro dalla Lega delle Coop guidata da Ivano Barberini, 100mila euro dalla Cooperativa estense, 50mila euro dall'Associazione nazionale delle cooperative e dalla Lega coop di Modena, 25mila euro dalla Lega coop di Imola. E ancora: la Romed di Carlo De Benedetti, la Fiat e la Pirelli. Cifre che variavano dai 25 agli 80mila euro. Non mancavano certo imprenditori come Guidalberto Guidi, gli Angelucci, Francesco Micheli, Vittorio Merloni, Alfio Marchini, Claudio Cavazza e Giuseppe Clementi. Italianieuropei non è una fondazione ad appannaggio di D'Alema. Nel comitato di indirizzo siedono infatti politici come Gianni Cuperlo, Anna Finocchiaro, Ignazio Marino e Franco Marini. Negli ultimi anni i finanziamenti si sono ridotti. Ma, stando a quanto riportato dalla Stampa, ancora nel 2012 veniva finanziata da Finmeccanica e Poste con cifre oltre i 25mila euro. Tra gli inserzionisti della rivista, invece, troviamo ancora Piaggio, Fs, British american tocacco e, appunto, Finmeccanica. "Stiamo valutando le modalità con cui rendere noti i nomi dei nostri sostenitori - ha spiegato nei giorni scorsi la portavoce Daniela Reggiani - naturalmente nel rispetto della normativa e della loro privacy".

La Coop finanziava anche Renzi, Bersani e Meloni, scrive “Libero Quotidiano”. Non solo Massimo D’Alema. Emergono sempre nuovi particolari dalle carte dell'inchiesta di Napoli  sui finanziamenti della cooperativa Cpl Concordia. Secondo quanto riporta Il Fatto Quotidiano avrebbe finanziato una cena elettorale di Matteo Renzi, ha versato 17.000 euro al Pd di Roma e ha dato contributi elettorali un po’ a tutti: a Ugo Sposetti ed Eugenio Patané del Pd, al comitato "Per Ignazio Marino sindaco di Roma", alla lista civica Zingaretti e al Pd marchigiano. Ma le elargizioni erano bipartisan perché dalle carte dell’inchiesta spunta il nome dell’esponente di Fratelli d' Italia Antonio Paravia e al comitato "Io sto con Giorgia Meloni". Il Fatto riporta l’interrogatorio del direttore generale affari esteri Cpl Fabrizio Tondelli che diece: "Io non darei soldi a nessun politico e infatti anche quando si è parlato di partecipare alla cena di Renzi io ero in disaccordo, non trovavo alcuna utilità. Tuttavia il cda per motivi commerciali e di opportunità ha poi stabilito diversamente e quindi ha erogato il contributo". L’elargizione era sempre dichiarata. E quello che colpisce è proprio la trasversalità di queste donazioni: nel novembre 2014, la cooperativa registra 5.000 euro in uscita per i democratici. Matteo Renzi ha organizzato due cene di raccolta fondi, il 6 a Milano e la replica il 7 a Roma. Ma la cooperativa ha finanziato le campagne elettorali anche in precedenza, quando c’erano ancora di Ds. Nel 2011 il candidato sindaco di Bologna Virgilio Merola ha ricevuto un assegno di 20.000 euro. “ Lo stesso periodo spediva 10.000 ciascuno ai dem di Pesaro, di Ferrara, il doppio a Urbino, un obolo (2.000) a Foggia e Frosinone.”, scrive ancora il Fatto. E poi soldi al comitato di Bersani. Tra il 2013 e il 2014 sono emerse altre donazioni: 10.000 per il senatore Ugo Sposetti (Pd); 5.000 per il deputato Alfredo D' Attorre; 10.000 per la lista civica Zingaretti e altri 10.000 per il comitato Zingaretti; 6.000 per una cena elettorale di coppia Zingaretti-Marino; 2.000 per il comitato "io sto con Giorgia Meloni" e 3.000 per Antonio Paravia di Fratelli d' Italia; 2.500 per Ignazio Marino sindaco di Roma e 5.000 per Antonio Decaro sindaco di Bari; 2.000 per il mandato a Strasburgo di Cecile Kyenge e 4.000 per l' ex ministro Flavio Zanonato; 1.000 per Antonella Forattini in Lombardia e 10.000 per Eugenio Patané, consigliere regionale poi indagato a Roma nell' ambito di Mafia Capitale; 17.000 per il Partito democratico della provincia di Roma. Non solo politici, Ma anche solidarietà: centinaia di euro, sono state versate per le associazioni locali, per un progetto a Chernobyl, per i genitori con figli disabili, per un omaggio alla fondazione di Umberto Veronesi. Un investimento maggiore per la beatificazione di Giovanni Paolo II vale uno sforzo in più, 25.000 euro.

Tangenti, ecco come la Coop rossa riusciva a cancellare le multe e ottenere onorificenze, scrive “Libero Quotidiano”. L'interrogatorio per Francesco Simone, definito dai magistrati "l'uomo-chiave" dell'inchiesta sulle tangenti a Ischia, è fissato per oggi. Nel frattempo emergono nuovi elementi sulla cooperativa Cpl di Modena che dimostrano come il responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo abbia tessuto una rete con molteplici fili annodati con la Fondazione Italianieuropei di Massimo D'Alema, ma anche con la fondazione Big Bang che ha sostenuto Matteo Renzi. Una rete che riusciva ad ottenere qualsiasi cosa chiedesse, persino delle onorificenze per il presidente della CPL, Roberto Casari.

Le onorificenze - Casari, infatti, nel 2011 era stato nominato cavaliere del lavoro, ma non bastava. Simone, rivela il Messaggero, si da da fare per averne una anche da Palazzo Chigi. Lo dimostra una telefonata tra lui e un funzionario della prefettura di Modena, Daniele Lambertucci, a cui ha delegato la partita. "Io ho scritto e ho parlato con il capo della segreteria di Poletti che però è stato incasinato tra Germania Parigi con Renzi quindi non mi ha ancora risposto", dice Simone a Lambertucci. "Nel frattempo ho incrociato la responsabile dell' ufficio onoreficenze di Palazzo Chigi e mi diceva di proporlo come Grande Ufficiale o Commendatore". Il funzionario conferma e Simone incalza: "Eh come si può fare in questo caso deve arrivare dalla Prefettura su segnalazione di qualche cittadino...". Lambertucci gli spiega che "sempre su segnalazione deve arrivare". Alle preoccupazioni di Simone, il funzionario replica: «"Sta andando tutto velocemente a noi fa fede il nostro riferimento la teniamo monitorata noi sotto controllo già è partita a velocità supersonica".

Le multe - La solerzia di Lambertucci per accontentare Francesco Simone è documentata anche da altre intercettazioni. Come quelle per far annullare delle multe di Roberto Casari in cambio di biglietti per la partita del Modena, o per accelerare l'attribuzione di un certificato antimafia che potrebbe servire alla Coop per ottenere un appalto in Sicilia. "Te l'ho girata due minuti fa", dice il funzionario a Simone in base agli atti pubblicati dal Messagero, "l'ho messa a posto, la situazione con il verbale lì è definitiva per sempre... Dì al presidente di pensare al Modena che ci servono tre punti alla Spezia". Poco dopo, a Lambertucci arrivano i biglietti per la partita del Modena e le magliette dei calciatori. E lo stesso fa per l'inserimento della Cpl Concordia nella white list antimafia: "L' inserimento nella white list era stata un po' rallentata visto alcune vicissitudini passate, senza parlarne abbondantemente a telefono...".

Berlusconi intercettato: vogliono arrestarmi su ordine Napolitano. Nelle carte dell’inchiesta spunta anche il nome dell’ex Cavaliere, scrive “Il Corriere della Sera”. Anche il nome dell’ex premier Silvio Berlusconi spunta tra le migliaia di intercettazioni dell’inchiesta sulle tangenti a Ischia. Sono le 11.31 dell’11 maggio dello scorso anno. È Silvio Berlusconi, tramite la sua segreteria - annotano i carabinieri del Noe - a chiamare Amedeo Laboccetta, ex parlamentare del Pdl. È lui ad essere intercettato, perché gli inquirenti intendono chiarire soprattutto la natura dei suoi contatti con Francesco Simone, il responsabile delle relazioni istituzionali della cooperativa CPL, arrestato nei giorni scorsi. Con Laboccetta il Cavaliere «parla, tra l’altro, della situazione di crisi sociale. Berlusconi dice inoltre - scrivono ancora i carabinieri - che i giudici, anche su ordine del Capo dello Stato, aspettano soltanto un suo passo falso per avere la scusa ed arrestarlo». Nell’atto giudiziario in questione, che è una richiesta di proroga delle intercettazioni nei confronti di Labocetta datato 5 giugno 2014, non c’è la trascrizione testuale della telefonata ma solo il sunto della conversazione. Stessa cosa in molti altri atti in cui lo stesso il passaggio viene riportato, sempre in forma sintetica. Gli investigatori si occupano di Laboccetta in quanto ritenuto una delle persone della «rete relazione» di tom-tom Simone, il consulente della Cpl che «arrivava dovunque».
In particolare, al di là del lavoro svolto per conto della cooperativa rossa, Simone aveva stretto rapporti con Alessandro Clementi, della Wave Investment partners di Roma, una società che si occupa di gestione e recupero del credito al quale segnalava aziende che vantavano dei crediti, anche con la pubblica amministrazione, disposte a cederli alla Wave. E Laboccetta era stato da poco nominato presidente della società campana Gori che vantava qualcosa come 170 milioni di crediti nei confronti sia dei privati che della Pa. «Laboccetta - scrivono i carabinieri, dando conto dell’esito di una intercettazione - dice che sarebbe opportuno fare una manifestazione d’interesse perché una gara avrebbe tempi più lunghi, ma Simone si raccomanda di non spargere la voce sulla questione che stanno trattando, trovando d’accordo il suo interlocutore». In un successivo colloquio intercettato tra Simone e Clementi «si parla del nuovo Decreto che è stato emanato e che stabilisce che solo le banche possono acquistare e scegliere i crediti relativi alla pubblica amministrazione». In questo contesto Clementi «fa presente che `quella roba lì´ vista con Laboccetta non può farla con il decreto legge in questione. In conclusione Simone dice però a Clementi di andare avanti con Laboccetta e company rassicurandolo che probabilmente il decreto decadra’». È in questo scenario che i carabinieri del Noe annotano i «contatti frequenti» di Laboccetta «sia con l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi che con l’ex deputato Marco Milanese», in passato consigliere dell’ex ministro Giulio Tremonti e coinvolto in diverse inchieste. Viene citata in particolare la telefonata dell’11 maggio, nella quale Berlusconi e e Laboccetta «commentano la situazione di crisi che c’è in giro...disoccupazione giovanile e problema immigrati e l’Europa che non prende posizioni». Segue la considerazione di Berlusconi sui giudici che «aspettano solo un suo passo falso» per arrestarlo. La conversazione chiude con la proposta di Labocetta di far incontrare al Cavaliere, di lì a poco, «l’amico Marco», riferendosi a Milanese. Berlusconi acconsente, ma poi di fatto l’incontro salta. Alcuni giorni prima, emerge sempre dagli atti dell’inchiesta, Laboccetta era stato a cena con Milanese e la compagna di questi, la quale aveva incontrato Berlusconi a Palazzo Grazioli quello stesso pomeriggio. «È stata una cena molto, molto interessante», riferisce alle 23.58 Laboccetta a Berlusconi, aggiungendo che martedì avrà «..un promemoria analitico, preciso e puntuale che è veramente interessantissimo».

CON LO SPUTTANAMENTO C'E' LA GALERA...ANCHE PER I MAGISTRATI.

Marcello Sorgi: "Lo Stato mi passo le intercettazioni del ministro", scrive Enrico Paoli su “Libero Quotidiano”. Benevento, metà gennaio del 2008. Al centro del tavolo della grande sala c'è lui, Clemente Mastella da Ceppaloni. Anzi il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sempre da Ceppaloni. L’aria è tesa, come arroventato è il clima politico nazionale. Un governo sta per cadere e un ministro è appena finito nel tritacarne per colpa delle solite intercettazioni. Clemente ha appena confermato le dimissioni da Guardasigilli. Nella conferenza stampa convocata a Benevento ribadisce la decisione comunicata il giorno prima alla Camera, con un accorato intervento in Aula. «Ho parlato con il presidente Prodi e confermo le mie dimissioni per la mia dignità, onorabilità, perché non voglio sentirmi uno della casta, ma essere cittadino comune». Già, un cittadino comune. Riponiamo il nastro della storia e torniamo al presente, perché a quel «cittadino comune», allora ministro, fu riservato un trattamento fuori dal comune. Di quelli che mettono in discussione un intero sistema, non solo quello giudiziario, da cui tutto è partito e dove tutto dovrebbe finire. «Sono davvero inquietanti le rivelazioni del dottor Marcello Sorgi, editorialista de La Stampa, ascoltate nel corso della puntata di Porta a Porta», spiega l'ex ministro della Giustizia, «nella quale si è parlato di intercettazioni». «Sorgi ha fatto riferimento alle mie vicende giudiziarie, ricordando che, da inviato a Napoli per seguire proprio queste vicende», spiega ancora Mastella, «si ritrovò al caffè Gambrinus in compagnia di 4 colleghi giornalisti». Cose che capitano a chi fa questo mestiere, un po' meno tutto il resto. Sorgi ha raccontato che, dopo una telefonata giunta a uno dei suoi 4 colleghi, si presentò al loro tavolo un funzionario della Prefettura che gli consegnò una chiavetta contenente i file di tutte le intercettazioni che riguardavano il ministro della Giustizia e i membri della sua famiglia. «Marcello Sorgi nel ricordare l’episodio», afferma Mastella, «si è detto sconcertato per il fatto che, mentre cadeva il Governo Prodi, un funzionario dello Stato si era apprestato in modo solerte, senza che ne avesse alcun dovere istituzionale, a fornire in anteprima i contenuti di intercettazioni, alcune delle quali, in quanto riferite a Mastella ministro, la Corte Costituzionale ha ritenuto non utilizzabili ai fini processuali». Roba fuori dal comune dunque. Mastella si è detto «sconcertato», per non dire altro, dal racconto fatto da Sorgi, preso forse da «crisi del settimo anno (da quando i fatti da lui raccontati si svolsero, nel gennaio del 2008, ndr)». «A maggior ragione resto allibito ed esterrefatto io», dice ancora l’ex leader dell’Udeur, «resto sempre più convinto che in quella circostanza si mossero poteri che lentamente spero di decifrare, poteri che concorsero in maniera violenta ad umiliare la mia persona, la mia famiglia, e che determinarono la caduta del governo Prodi». Poteri forti o poteri deboli poco importa. Conta il fatto che questa, tutta la storia, testimonia l’esistenza di un vero mercato delle intercettazioni per far cadere a comando questo o quello. Ovviamente a distanza di otto anni dai fatti raccontati da Sorgi e appresi da Mastella poco importa stabilire il cui prodest politico (destra, sinistra, centro?). Conta capire come sia possibile che un pezzo dello Stato, trattandosi un funzionario della Prefettura, abbia potuto agire in quel modo. In barba a tutte le regole del gioco. Ovviamente l’intera storia di Mastella rimanda al caso D’Alema e alle polemiche che ne sono scaturite. L’ex presidente del Consiglio è stato investito in pieno dalla divulgazione delle intercettazioni connesse alla vicenda giudiziaria che ha il suo punto di riferimento nel sindaco di Ischia. Tentare similitudini è pressoché impossibile, però i dubbi restano. Se non gli stessi, certamente simili. Chi pilota il gioco?

D’Alema il garantista, scrive Francesco Ghidetti su “Quotidiano Nazionale”. Massimo D’Alema guarda le agenzie nel suo studio alla Farnesina: «Che monnezza. Che imbarbarimento», mormora. Sono i giorni della pubblicazione delle intercettazioni con Giovanni Consorte (sì, quelle del celebre «facci sognare») durante la cosiddetta ‘scalata Bnl’. L’allora ministro degli Esteri è disgustato. Pubblicare così significa – ripete l’allora fedelissimo (ora renzianissimo) Nicola Latorre – «metterci alla berlina» con frasi fuori contesto. Una vicenda riaffiorata anche nei dispacci dell’ambasciata statunitense diffusi da Wikileaks. Il cablogramma è del 3 luglio 2008, le parole di D’Alema risalgono al 2007 (balbettante secondo governo Prodi in carica): «La magistratura è la più grande minaccia per lo Stato italiano». Vengono dette all’ambasciatore Usa di stanza nella Capitale, Richard Spogli. Scoppia il caos. E il Nostro precisa: «Accanto a osservazioni ovvie su fughe di notizie e intercettazioni viene riportato un giudizio abnorme sulla magistratura che non ho mai pronunciato, che non corrisponde al mio pensiero e che evidentemente all’epoca è stato frutto di fraintendimento tra l’ambasciatore Spogli e me».E potremmo continuare. D’Alema, di sé, ama dare un’immagine di garantista («e legalitario», tiene a precisare) che, chissà, sarebbe bene applicasse a tutti i casi. Tralasciando la sfuriata di ieri – la domanda era volutamente provocatoria e lui, diciamo, c’è cascato – secondo alcuni scrittori di cose giudiziarie l’ex premier definiva Mani Pulite «Soviet di Milano». Oppure, in occasione dell’indagine (1993) di Carlo Nordio, esprimeva pensoso timore: «Questo avviso colpisce la credibilità di chi lo ha inviato. È un episodio che mi preoccupa, perché in questo modo finisce per creare un generale discredito delle istituzioni e c’è anche un rischio di delegittimazione della magistratura. Quell’avviso è un teorema». Per la cronaca D’Alema uscì dalla maxi inchiesta sulle coop rosse senza un graffio e, anzi, riuscì anche a essere risarcito dal ministero della Giustizia per il ritardo nell’archiviazione per circa 9mila euro. E così sempre. O prosciolto o archiviato o prescritto. Oppure, vista la mala parata, deciso a rimediare alla gaffe. Come nel caso dell’appartamento dalle parti di viale Trastevere a Roma. Quasi 150 metri quadri affittati a equo canone. Nessun reato, ma quel milione (di lire) e poco più pagato dall’allora nastro nascente della politica italiana parve un privilegio. Dopo aver denunciato una violentissima campagna mediatica – furono «sbattuti in prima pagina», parole sue, «nomi, cognomi, indirizzi, numero civico e nome sulla targhetta» – decise di lasciare. Comprò un appartamento nella zona Nord della Capitale (pieno di libri e molto bello, dicono, a due passi da uno storico liceo ‘rosso’). Lo annunciò in tv. Ecco, per sommi capi, il garantista D’Alema. Sicuro come pochi che il sistema tangentizio riguardasse solo Dc e Psi, ma guarda un po’. E che il «compagno G» (Primo Greganti, quello che, in manette nel 1993, negò di aver preso tangenti per il partito tenendo testa agli agguerriti inquirenti milanesi), di recente tornato agli onori (diciamo) della cronaca, sia degno di essere considerato innocente sino a sentenza: «Ho imparato che il 40-45 per cento delle persone accusate vengono prosciolte». Ah. Ma vale per tutti? Legittimo sospetto...

Intercettazioni, legalità, giustizia e ipocrisia: la lezione del “caso” D’Alema, scrive Bepi Lima su Sicilia News. Saranno i mucchi di rifiuti accatastati ai bordi delle strade; sarà il letame figurato che esce dalle conversazioni “private” di politici e amministratori; saranno gli alti lai del viticoltore D’Alema contro la pubblicazione delle intercettazioni che riguardano i non indagati; sarà l’ipocrisia di chi punta il dito su quelli che vengono gettati in pasto all’opinione pubblica, sperando di non essere il prossimo nella lista, ma qualcosa di chiaro e di vero, ogni tanto, bisogna dirla. Il nostro sistema politico, burocratico, amministrativo e giudiziario, per dirla eufemisticamente, fa acqua da tutte le parti. In principio furono i dollari di Washington e i rubli di Mosca, che foraggiavano le rispettive parti politiche per tenere l’Italia al di qua o al di là della cortina di ferro: la pioggia di soldi veniva utilizzata per costruire solidi apparati di partito (DC e PCI), i leader (De Gasperi, Togliatti, Nenni, Ingrao, Amendola, La Malfa etc.) erano persone integerrime che conoscevano l’esistenza dei fondi neri ma “non si sporcavano le mani”. Lo stesso Andreotti, il cui soprannome “Belzebù” era indicativo delle nefandezze vere o presunte che gli venivano attribuite, si svegliava ogni mattina alle 5, andava a messa, lavorava 18 ore al giorno e conduceva una vita monacale. Quelli che rubavano in proprio (i mariuoli li avrebbe definiti Craxi nel 92) erano pochi e non rivestivano posizioni di vertice. Certo la Chiesa raccoglieva soldi e voti per la DC, le Coop rosse facevano lo stesso per il PCI, ma un’idea di “bene comune” esisteva ancora. Poi il Partito Socialista scivolò da Nenni e Pertini ai nani e alle ballerine che circondavano il sunnominato Craxi: la prima crepa visibile della morale pubblica, perché come vizi privati anche la Prima Repubblica non si faceva mancare niente: nelle segrete stanze si narrava di illustri politici che praticavano la pedofilia, non con 17enni sviluppate alla Ruby, ma con bambini – bambini. Eppure tutto questo restava ermeticamente riservato e nemmeno gli avversari politici si azzardavano a sollevare il velo. Meglio? Peggio? Non sappiamo dirlo. Si preservavano le Istituzioni dalle miserie umane. E siamo a Tangentopoli, la finta operazione di pulizia, che eliminò i Professionisti della politica (con la P maiuscola,) quelli che prima di arrivare al vertice avevano fatto decenni di gavetta, sostituendoli con le terze e quarte file di arrivisti: caduto il muro di Berlino e svanita ogni ideologia, era aperta la caccia a prebende, privilegi e mazzette, per migliorare il tenore di vita personale e delle future generazioni. Partiti politici come taxi, dove si paga la corsa e si scende, alla ricerca di un altro mezzo di locomozione che porti più velocemente alla meta. Così stando le cose, la nostra convinzione è che, se si intercettassero l’80 % degli amministratori pubblici e del loro entourage, il quadro che ne verrebbe fuori sarebbe ben più grave di quello che ha costretto il ministro Lupi a dimettersi. Con la “tremenda” accusa di avere favorito il proprio figlio, laureato con 110 e lode in Ingegneria, nella ricerca di un posto a duemila euro al mese, oltre ad aver ricevuto (udite, udite) anche un abito sartoriale e un orologio di marca. E con la ragionevole certezza che almeno la metà di quelli che lo hanno fatto fuori, hanno scheletri di ben altre dimensioni nei loro armadi. Chiudiamo con il tema delle intercettazioni: noi italiani siamo un popolo veramente strano. Godiamo un mondo nel leggere sui giornali le porcherie che riguardano gli altri, ma gridiamo al colpo di Stato se qualcuno propone di intercettare le mail private per combattere il terrorismo. Mentre le intercettazioni sono diventate un formidabile strumento di potere: per eliminare qualche concorrente politico basta mettere sotto osservazione la sua cerchia di collaboratori, per far uscire paginoni di fango. A giustificazione di questo sistema barbaro, si tira in ballo l’obbligatorietà dell’azione penale: una sorta di favola per bambini poco svegli perché, se io magistrato sono alle prese con migliaia di sviluppi investigativi è chiaro che dovrò scegliere quali portare avanti e così scatta la discrezionalità. Per esempio se Fassino chiede a Consorte: “Abbiamo una banca?” viene considerato una sorta di tifoso dell’Unipol, come quando un fan juventino domanda: “Vinceremo lo scudetto?”. E gli danno pure un risarcimento di 80 mila euro perché la sua frase è stata pubblicata dai giornali, ledendo la sua immagine. Cosa sarebbe successo se, invece, si fosse deciso di intercettare tutto il management Unipol (amanti e segretarie comprese) per capire se e in che modo i soldi della compagnia assicurativa aspirante banca, passavano in parte al PDS, dando un’altra chiave di lettura all’entusiasmo di Fassino? Non lo sapremo mai, così come non conosceremo mai le abitudini sessuali e gli stili di vita di tutti i protagonisti, che sarebbero stati il naturale corollario della pubblicazione delle intercettazioni. Quindi il sistema va rifondato: come, ne parleremo quando si sarà attenuato il senso di nausea.

Sputtanati e sputtanandi. Sarebbe comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo" D'Alema. Ma lo scandalo vero, in questa faccenda, è l'uso delle intercettazioni, scrive Giorgio Mulè su Panorama. L’ultima fatica della Procura di Napoli ci consegna l’ennesimo caso di sputtanamento politico e mediatico a uso e consumo dei libidinosi delle intercettazioni. Il metodo è sempre lo stesso, il protagonista pure. Quanto al metodo è quello, solito, d’inserire in un provvedimento giudiziario brandelli di conversazioni assolutamente irrilevanti sul piano penale, ma esplosive su quello politico e giornalistico. Il protagonista, poi, è ancora una volta il sostituto procuratore Henry John Woodcock, cioè il pm che passerà alla storia come protagonista mai punito dei più allucinanti flop giudiziari della Repubblica. In questa giostra impazzita e barbara che sono le intercettazioni, stavolta è salito Massimo D’Alema, ovviamente da non indagato come si usa in questa giungla che vorrebbero contrabbandarci per giustizia. Sarebbe stato molto comodo per Panorama cavalcare lo "scandalo". Perché questo giornale e questo direttore hanno più volte incrociato le lame con l’ex presidente del Consiglio, duramente attaccato per i rapporti che storicamente hanno legato e legano il partito democratico al mondo delle cooperative rosse. Rapporti stretti e consolidati, che i dirigenti del Pd di oggi e di ieri hanno goffamente negato nonostante l’evidenza dei fatti. La coerenza rispetto a una linea che ha sempre indicato come stella polare il rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti i cittadini unita allo schifo che proviamo ogni volta che le inchieste si trasformano in una micidiale macchina del fango (vogliamo parlare del processo Ruby e di Silvio Berlusconi, assolto dopo cinque anni di gogna?) ci impongono di stare dalla parte di D’Alema. Ci fa quindi specie che il presidente del Consiglio e segretario del Pd, Matteo Renzi, non abbia sentito l’obbligo di pronunciare nell’immediatezza dei fatti, con un tweet o davanti alla direzione del suo partito, parole chiare e nette contro questa barbarie. Sarebbero state parole coraggiose pronunciate da un vero leader. Ma, come sappiamo, coerenza e coraggio sono doti che Renzi contempla unicamente quando ha un tornaconto personale (vedi il caso Lupi). Peggio per lui. Perché è scritto nelle stelle, diciamo così, che sarà solo una questione di tempo: prima o poi anche lui finirà sui giornali, magari da non indagato, come nuovo socio del grande club degli sputtanati a causa di conversazioni telefoniche intercettate. La puzza si sente già in lontananza perché, come ci informa il Fatto quotidiano, esisterebbe almeno un’intercettazione irrilevante ascoltata dai pm di Napoli nell’ambito dell’inchiesta in cui è stato tirato in ballo D’Alema; una conversazione tra Renzi e un generale della Guardia di finanza, un ufficiale abbondantemente sputtanato quattro anni fa dal solito Woodcock e poi regolarmente archiviato. Al pavido Renzi, che non trova le parole per schierarsi contro la barbarie consumata ai danni di D’Alema, suggeriamo allora di darsi una mossa. Conviene anche lui - eccome - sbrigarsi a varare un provvedimento che limiti questa ignominia. Non pensi agli italiani rovinati e sputtanati senza motivo, pensi a se stesso che oggi è nelle vesti dello "sputtanando" prossimo venturo. Statene certi, stavolta la legge la farà.

Toh, ora i compagni scoprono il fetore delle intercettazioni. Le parole rubate al telefono hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena, scrive Vittorio Feltri su “Il Giornale”. Fin dagli anni Cinquanta la sinistra si dà tante arie e suole dividere l'umanità in buoni e cattivi, mettendosi dalla parte dei primi che essa definisce non a caso progressisti. Già. Talmente progressisti da arrivare ultimi in ogni circostanza. Lo abbiamo constatato anche stavolta a proposito delle intercettazioni, da decenni al centro di polemiche, oggetto di numerose proposte di legge dibattute all'infinito eppure rimaste lettera morta poiché prive del nullaosta indovinate di chi? Degli ex o postcomunisti, decida il lettore come chiamarli; tanto, comunisti erano e la loro mentalità settaria è ancora intatta dai tempi che furono. Il problema è semplice. Ai politici col birignao e sedicenti colti in quanto militanti o simpatizzanti di sinistra, le parole rubate al telefono (contenenti millanterie e forzature di ogni genere sul cui significato occorrerebbe detrarre la tara) hanno fatto comodo finché i derubati erano avversari da esporre alla berlina, da emarginare e, infine, escludere dall'arena. Un gioco facile facile. Le Procure inserivano negli atti processuali le registrazioni di colloqui malandrini, compresi quelli penalmente irrilevanti ma giornalisticamente interessanti, piccanti, e a divulgarle provvedeva solerte la stampa, suscitando la curiosità morbosa dell'opinione pubblica. Gli sventurati, vittime delle incursioni nella loro vita privata, venivano infilzati con soddisfazione da chi se ne avvantaggiava. Questo tipo di falli erano e sono impuniti: manca una legge apposita che li sanzioni. Clemente Mastella, quando era guardasigilli, predispose una normativa per arginare il traffico delle intercettazioni (poco giudiziarie e molto gossippare), però la maggioranza progressista che all'epoca reggeva il governo lo mandò al diavolo, creando i presupposti per eliminarlo dalla scena. È chiaro a chiunque che le intercettazioni violano il segreto delle conversazioni private, ma poiché di solito riguardano la gente comune (della quale non importa nulla a nessuno nel Palazzo) oppure «nemici» di partito da sputtanare, ogni iniziativa tesa a disciplinare la materia è stata sistematicamente bocciata. Per lustri il personale politico di destra e centrodestra ne ha fatto le spese, mentre quello di sinistra ne ha tratto dei benefici sotto il profilo elettorale, essendo scontato che dai faldoni dei tribunali non uscisse nemmeno un sospiro delle loro telefonate innocenti o no. Una pacchia per i progressisti durata fin troppo. Infatti la musica sta cambiando. Qualche spiffero velenoso comincia ad ammorbare le sacre stanze degli «intelligenti per antonomasia», i quali, sfiorati dal fetore delle intercettazioni, sono sul punto di cambiare idea; anzi, l'hanno cambiata, tanto è vero che si stanno attrezzando per impedire la fuga di notizie frutto di «furti» negli uffici dei magistrati. Come? Sbattendo in galera i giornalisti «ricettatori» del materiale scottante. Se la stampa aiuta la sinistra, i progressisti predicano in favore del diritto alla libertà della medesima; se, invece, essa si concede un attacco antigauche, allora meditano d'ingabbiare i ficcanaso delle redazioni. Sinché erano i berlusconiani a essere massacrati dai quotidiani con paginate e paginate di chiacchierate intime, non c'era anima bella che suggerisse di porre fine alle gratuite diffamazioni. Al contrario, adesso i progressisti, colpiti dalle indiscrezioni, invocano la Costituzione affinché agli scribi sia tolta la licenza di ferire con la penna riportando il contenuto di nastri registrati su ordine delle Procure. Questa è la storia delle intercettazioni che attendono ancora - per poco, suppongo - una regolamentazione: non per vietarne l'impiego a scopo investigativo (ci mancherebbe), bensì perché si pubblichino soltanto quelle relative all'accertamento di reati. Ci si domanda come sia possibile procedere in questo senso. Visto che siamo tanto cretini da non recuperare in proprio una soluzione che salvi la capra (la dignità delle persone) e i cavoli (giudiziari), sarebbe opportuno dare un'occhiata alle legislazioni di altri Paesi e copiare la migliore. Non è un'operazione complicata, basta alzare i glutei dalla sedia ministeriale e recarsi, per esempio, negli Stati Uniti a verificare come agiscano le autorità americane. Chi avrà l'energia per affrontare la trasferta scoprirà che negli Usa non sfugge una parola dei discorsi intercettati. Motivo? I magistrati statunitensi non mollano ai giornalisti neppure uno spiffero. Sarà perché ignorano l'esistenza di Pulcinella, per loro il segreto è una cosa seria.

Intercettazioni. Piano Gratteri: galera giornalisti che pubblicano le irrilevanti, scrive Redazione Blitz. Il ministro della Giustizia Andrea Orlando, nell’ambito della riforma della Giustizia da affrontare con un complicato iter legislativo (due deleghe al Governo), ha bloccato la proposta della commissione istituita a Palazzo Chigi e guidata dal procuratore antimafia Nicola Gratteri in tema di intercettazioni. Nel testo, ne descrive i contenuti Francesco Grignetti de La Stampa, era previsto anche il carcere per i giornalisti che pubblicano quelle irrilevanti. Gratteri ha ipotizzato un nuovo reato: la pubblicazione arbitraria di intercettazioni. Si sanzionerebbe chi pubblica le intercettazioni “acquisite agli atti di un procedimento penale” ma “irrilevanti ai fini della prova”. Per i trasgressori, praticamente si applicherebbe solo ai giornalisti, prevista una sanzione da 2mila a 10mila euro o la detenzione da 2 a 6 anni. Ha spiegato Orlando: “La Commissione Gratteri ha fornito un importante contributo. Chiaramente non tutti i punti diventeranno testo di legge”.

Vi sono molte cose condivisibili nella lenzuolata pubblicata dal “Fatto Quotidiano” dedicata alle riforme presentate dalla commissione guidata dal procuratore Nicola Gratteri, mancato ministro della Giustizia per veto di un malfidato Napolitano, scrive Dagospia. Per esempio, è razionale interrompere la prescrizione con la formulazione dell’imputazione e farla cessare dopo la sentenza di primo grado. Ed è giusto sancire che le prove restino valide anche se cambia il giudice del dibattimento, come è comprensibile lo sforzo di aumentare il ricorso al rito abbreviato e al patteggiamento. Un po’ meno prudente, e garantista, l’ansia di ridurre i ricorsi “inammissibili” e l’idea di punire il voto di scambio mafioso anche senza le intimidazioni. Ma sono vicende sulle quali è lecito e utile discutere. Fa invece letteralmente accapponare la pelle la parte che riguarda le intercettazioni. Gratteri vuole istituire un nuovo reato ad hoc (ne abbiamo troppo pochi…) che si chiama “Pubblicazione arbitraria delle intercettazioni”, dove nell’aggettivo “arbitrario” c’è già tutta la pericolosità di un reato, appunto, “arbitrario”. Il reato consiste in un divieto ai magistrati di utilizzare il testo integrale delle intercettazioni negli atti, “a meno che la riproduzione testuale dell’intera comunicazione intercettata non sia rilevante ai fini della prova”. E poi nel divieto ai cronisti di “divulgare i dati”. Per ora, come si vede, la formulazione del reato è piuttosto vaga ma non meno pericolosa. In compenso ecco le pene: reclusione da due a sei anni e la multa da 2.000 a 10.000 euro. Fermiamoci un attimo e respiriamo: sei anni di carcere per la pubblicazione “arbitraria” di un’intercettazione? Ma non vi sembra un’enormità? Dagospia di intercettazioni ne pubblica pochine, ma il “Fatto” letteralmente ci campa. Solo perché la proposta arriva da un magistrato amico facciamo finta di nulla? Se anziché Gratteri a proporre il carcere fosse stato Carlo Nordio, vicino a Forza Italia, e se al governo ci fosse Silvio Berlusconi non starebbero tutti gridando al bavaglio liberticida?

Intercettazioni: e se anche rischiassi la galera? G. Antonio Stella: "pubblicherei", scrive Ugo Dinello su “Articolo 21”. "Una cosa indecente che va chiamata con il suo nome: censura". L'uomo dall'ironia garbata per antonomasia, Gian Antonio Stella, il giornalista del "Corriere della Sera" che riesce a mettere alla berlina i potenti senza mai farli urlare al complotto, dopo aver letto cosa prevede il disegno di legge Alfano, lascia il fioretto e afferra la clava. Quel disegno che mente anche nel nome (parla di "tutela della privacy" quando invece mira a impedire alla stampa di seguire qualsiasi "attività d'indagine" cioè qualsiasi tipo di notizia, soprattutto quelle sgradite ai potenti) gli fa perdere, solo per un istante, il consueto aplomb. Non l'ironia. E soprattutto non la voglia di opporvisi.

"Una cosa indecente. Se fanno una legge in cui si stabilisce che il magistrato, o il brigadiere, o il cancelliere o l'avvocato che passa le notizie ai giornalisti - se non lo può fare, perchè mica è detto che l'avvocato non lo possa fare - e ammesso che vengano incastrati con prove ritenute "inoppugnabili", perfino per l'avvocato Ghedini, perfino per l'avvocato Longo, o per l'avvocato Previti, o per l'avvocato Sammanco (tutti legali di Berlusconi ndr), se fosse incastrato persino per queste persone e decidessero di dargli 10 anni di galera, facciano. Perché se c'è una legge che stabilisce che non si possono diffondere le notizie per tutelare il segreto istruttorio è giusto che ci sia una punizione. Ma che vengano puniti dei giornalisti perché pubblicano delle notizie che riescono a procurarsi, beh, questo è indecente. E se questo disegno passasse è l'anticamera della censura. Bisogna chiamare le cose con il loro nome e allora lo chiamino "disegno di legge sulla censura". E a quel punto anche chi come me è sempre stato molto, ma molto, ma molto riottoso a fare paragoni fra Silvio Berlusconi e il duce - e secondo me sono paragoni per ora improponibili - beh, se passasse questa legge l'unico precedente che avrebbe nella storia sarebbe proprio la censura fascista".

Brutale. E a te? Cioè, se dopo questa legge capitasse di avere per le mani...

"Pubblicherei.."

... una notizia che..

"...pubblicherei..."

... ti fa andare in galera se...

"... pubblicherei..."

E se il tuo editore ti dicesse: "Caro Gian Antonio, scusa ma io di pagare un milione di euro di multa per raccontare la verità agli italiani non ho proprio l'intenzione". Perché sarà questa una delle armi della censura. Multare gli editori "disobbedienti". Che fai?

"Beh, in quel caso si aprirà un contenzioso tra me e il mio editore. Sarebbe la prima volta".

Perchè quello degli editori è un bel capitolo...

"Su questo bisogna essere molto chiari. La storia di questi anni ci ha dimostrato che i giornali e le tivù del gruppo Berlusconi sono stati molto, mooolto generosi di intercettazioni fornite ai loro lettori. Diciamo la verità: quando ha potuto usare le intercettazioni tutto il gruppo che ruota intorno al presidente del Consiglio Berlusconi altroché se le ha usate. Caspita se le ha usate. Vogliamo ricordarci le campagne di stampa su Fassino intercettato sulla banca?".

E pure intercettazioni abusive....

"Appunto, vogliamo ricordarci tutti gli altri casi? Ma ce ne sono stati decine. Tanto è vero che quando sono venute fuori le prime voci sul giro di vite in questo settore, persino Vittorio Feltri fece dei pezzi durissimi contro quest'ipotesi. Difatti io sono sicuro che Vittorio Feltri, se uomo d'onore come credo sia, tornerà su questo tema opponendosi a questo disegno di legge. Perché è un tema che lui ha già affrontato duramente e lo ha detto in modo molto chiaro. Ricordo una polemica tra lui e la dirigente di Mediaset passata alla Rai e intercettata, Deborah Bergamini, fu una polemica durissima. Io condivido totalmente quello che ha scritto Vittorio Feltri quella volta. Quindi condivido totalmente ciò che pensava il direttore scelto da Silvio Berlusconi per il giornale di suo fratello".

Ricominci a divertirti...

"Sì, perché è molto divertente vivere in un Paese in cui il garantismo vale solo per Berlusconi e non per i ragazzi di Emergency e le "intercettazioni infami" sono solo quelle che riguardano lui e non quelle che riguardano gli avversari. E' davvero molto divertente questo paese. C'è un'idea dell'uguaglianza dei cittadini che è assai bizzarra".

Caso Escort, l’ira di Sgarbi sulle intercettazioni: “Magistrati criminali, vadano in galera”, scrive “Il Fatto Quotidiano”. Furia incontenibile di Vittorio Sgarbi ai microfoni de La Zanzara (Radio24) sulle intercettazioni delle conversazioni tra Berlusconi e Tarantini: “Sono intercettazioni abusive. Questa magistratura criminale usa i soldi nostri per occuparsi dei cazzi degli altri. Si usa troppa tolleranza nei confronti di gente infame che usa la giustizia per scopi politici e di affermazione. Vadano a fare in culo questi magistrati che si occupano di pettegolezzi e di stronzate coi soldi nostri”. Con il suo noto linguaggio sopra le righe, il critico d’arte aggiunge: “Berlusconi è un comico da cinepanettone, quello che dice nelle telefonate è una cosa da conte Mascetti, da gagà di Dapporto. E’ puro varietà. E noi paghiamo le tasse per questa gentaglia, che continua a inondare i giornali di schifezze. Soldi dello Stato per queste puttanate. Ma intercettino il buco del culo questi incapaci di Bari che non sanno che cazzo fare se non pettegolezzi. Hanno rotto i coglioni”. E continua: “Mattarella li mandi in galera, dica a questa gente che non deve diffondere merda inutile. Dica: ‘Archiviate tutto’ per carità di patria, non se ne può più. D’altra parte, tutto il mondo è pieno di ricchi che pagano le donne. Si pensi a Kennedy o a Clinton, che si è fatto fare pompini da tutti gli Usa, o a Fidel Castro, che ha avuto 35mila donne. E poi quanti soldi Berlusconi dà a sua moglie? Lei viene mantenuta perché non lavora”. Su Tarantini Sgarbi afferma: “L’ho conosciuto assieme alla moglie e a Checco Zalone in un posto bellissimo in Puglia, vicino a Monopoli. Tarantini è come Lavitola e Corona, cioè gente che non ha fatto niente in vita sua. Processi su questa roba, quando l’Italia è in miseria, l’economia non funziona, si buttano soldi in stronzate, cadono i monumenti. Vadano in galera questi magistrati” di Gisella Ruccia.

Intercettazioni telefoniche: cosa dice la legge, scrive Zeus News. Cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche, che cosa permettono di scoprire, come vengono eseguite e perché finiscono sui giornali. Ormai è diventata un'abitudine consolidata: succeda quel che succeda là fuori, ogni due mesi in Parlamento si deve discutere di intercettazioni telefoniche. Ma cosa sono realmente le intercettazioni telefoniche? Che cosa permettono di scoprire? Come vengono eseguite? E come mai finiscono sui giornali?

La legge. A differenza di quello che avviene in molti altri paesi, in Italia le forze dell'ordine (Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia Postale, etc.) godono di pochissimo potere discrezionale e, salvo rari casi, non possono avviare o gestire un indagine di propria iniziativa. Le indagini di polizia vengono avviate e coordinate dalla Procura della Repubblica, nella figura del Procuratore Generale o di un Sostituto Procuratore. In entrambi i casi si tratta di un Magistrato Inquirente, non di un poliziotto. Il Procuratore, a sua volta, non ha assolutamente nessun potere discrezionale riguardo alle indagini: nel momento in cui viene a conoscenza di un reato è tenuto, per legge, ad avviare un'indagine. Diversamente finisce in galera per omissione di atti d'ufficio. Questa è la famosa "obbligatorietà dell'azione penale". Durante l'indagine il Procuratore agisce sotto il controllo del Giudice per le Indagini Preliminari e al termine dell'indagine presenta le sue tesi al Giudice per l'Udienza Preliminare, che decide se rinviare l'imputato a giudizio o se archiviare il caso. Se la tesi del Procuratore viene considerata abbastanza solida, il caso viene passato al Pubblico Ministero che rappresenterà l'accusa (lo Stato) in tribunale. Salvo rari casi, tutti i processi penali (quelli in cui si rischia la galera) si celebrano davanti ad un collegio giudicante formato da un giudice titolare e da due giudici "a latere". Per i casi di omicidio e cose simili si celebrano addirittura davanti alla famosa "corte d'assise" formata da due giudici "togati" (due magistrati di professione) e da sei "giudici popolari" (semplici cittadini scelti a caso nelle liste elettorali). In Italia, una sentenza diventa "esecutiva", e quindi si può finalmente mettere in galera il malfattore, solo al termine del terzo e ultimo grado di giudizio (la Corte di Cassazione). Se questo vi sembra un sistema bizantino e iper-garantista, siete in buona compagnia. Praticamente tutti gli studiosi di diritto ritengono che il sistema giudiziario italiano sia tra i primi al mondo per livello di garantismo e per complessità, soprattutto per quanto riguarda la parte penale. All'interno di questo schema, le intercettazioni entrano in gioco solo quando esiste un fondato sospetto che una persona possa utilizzare il telefono, la posta elettronica o altri mezzi di comunicazione per portare a termine il suo piano criminoso. In altri termini, in Italia non si possono fare intercettazioni "a caso". Non si possono nemmeno fare "monitoraggi" generici nella speranza di "beccare" qualcuno mentre organizza una rapina. Si può procedere a una intercettazione solo quando esistono delle fondate ragioni per pensare che l'Indagato usi il telefono per il proprio "business" criminale e solo quando il reato ipotizzato è di una certa gravità. Per avviare una intercettazione è necessario l'ordine del Giudice per le Indagini Preliminari, che solitamente agisce su richiesta del Procuratore della Repubblica o di un suo Sostituto. L'intercettazione iniziale può avvenire solo sullo specifico numero telefonico per cui è stata richiesta e non può durare più di 15 giorni. Se durante questo periodo vengono raccolte delle "notizie di reato" o degli "indizi di reato" di un certo valore, allora l'intercettazione può essere protratta per altri 15 giorni (e poi altri 15, ad infinitum) ed allargata ad altre utenze telefoniche, diversamente viene terminata. Il materiale raccolto durante le intercettazioni è coperto da segreto istruttorio fino al momento in cui viene depositato presso la Cancelleria del Tribunale insieme al resto delle prove a carico e insieme alla richiesta di rinvio a giudizio. A quel punto diventa pubblico. Sia gli avvocati della Difesa che qualunque privato cittadino (o giornalista) possono richiederne una copia. Il fatto che tutto il materiale raccolto dall'Accusa sia di pubblico dominio è la conseguenza di un principio di Diritto universalmente riconosciuto e che serve a proteggere l'Imputato. Se così non fosse, si potrebbero celebrare processi farsa "a porte chiuse" alla maniera di Stalin. In questo modo, invece, l'Imputato può sapere di cosa viene accusato e può difendersi pubblicamente.  Questa situazione è molto diversa da quanto avviene in molti altri paesi. Ad esempio, negli Stati Uniti (e in quasi tutti i paesi di lingua inglese) la Polizia può avviare un'indagine di sua iniziativa e può mettere in atto una intercettazione telefonica senza nessun mandato di un Giudice. Può tranquillamente fare intercettazioni "a caso" e può svolgere "monitoraggi" di vario tipo. Addirittura, in alcuni casi, possono eseguire delle intercettazioni telefoniche anche moltissimi altri "enti" che non hanno nulla a che fare con la Polizia. Ecco come Antonio Ingroia spiega nel suo libro la situazione che esiste in USA e UK: "Ebbene, negli Stati Uniti, le intercettazioni sono consentite non solo per i reati più gravi, di competenza dell'FBI, ma anche per i reati previsti dai singoli stati, per cui le intercettazioni possono essere disposte dal procuratore federale, dal procuratore di ciascuno stato, dalle polizie locali e persino dalle polizie municipali (che corrispondono ai nostri vigili urbani!). Per non parlare dei corpi antiterrorismo e persino dalle autorità di controllo della Borsa!"."In Gran Bretagna, poi, il potere di ordinare delle intercettazioni, senza che sia necessaria l'autorizzazione di un Giudice, è riconosciuto ai Servizi Segreti, a tutte le articolazioni della Polizia e a una selva di enti pubblici che vanno dagli istituti finanziari, ai direttori degli istituti di pena, fino addirittura ad uffici postali e pompieri!" Quello che si vede in telefilm come NCIS o CSI è effettivamente la pratica quotidiana in molti paesi di lingua inglese ma, in qualunque paese europeo, porterebbe i poliziotti dritto in galera per abuso di potere. Tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere l'Europa un "faro nella notte" per quello che riguarda la protezione del cittadino dalle intercettazioni e l'Italia viene da sempre considerato il paese più garantista d'Europa da questo punto di vista. Questo avviene già da molto, molto prima che si iniziasse a parlare di riforma della legge sulle intercettazioni. Un'ultima parola sulle intercettazioni dei parlamentari. In Italia è vietato porre sotto intercettazione il telefono di un parlamentare (e quindi anche quello di un Ministro o di un altro esponente del Governo e delle Istituzioni, come il Presidente della Repubblica). Nemmeno un Giudice può ordinare una intercettazione di questo tipo. Ma, allora, com'è possibile che appaiano sui giornali le intercettazioni del Presidente del Consiglio, dei suoi Ministri e di altri Parlamentari? Questo avviene perché questi parlamentari si intrattengono in conversazioni compromettenti con loschi figuri che non godono della loro stessa prerogativa. Quando questi malviventi vengono rinviati a giudizio, i materiali raccolti a loro carico devono essere resi pubblici per permettere loro di difendersi pubblicamente. Il Giudice non potrebbe fare diversamente nemmeno se lo volesse. Si noti che solo in Italia è vietato intercettare i parlamentari. In tutto il resto d'Europa, ed in gran parte del mondo (USA, Canada, Australia, Giappone, persino in Russia, etc.), un parlamentare è un semplice cittadino agli occhi della Magistratura e quindi non gode di nessuna protezione in più rispetto al normale "Signor Rossi". La famosa "immunità parlamentare", inoltre, salva il parlamentare solo dalle conseguenze delle azioni che compie nello svolgimento delle sue funzioni, non dalle conseguenze delle sue azioni criminali. Si noti anche che il contenuto delle intercettazioni telefoniche (che siano rilevanti o meno ai fini dell'indagine, che riguardino privati cittadini o parlamentari) viene considerato di pubblico dominio in praticamente tutti i paesi del mondo alla sola condizione che le intercettazioni siano state depositate come atti in un processo.

REATO IMPUNITO: LA FUGA DI NOTIZIE.

Non solo “sti signori” sono impuniti per motivi di colleganza e di casta, ma, addirittura è impedito parlarne. Su “Panorama” e su “Il Giornale” la testimonianza di una giornalista. “Non sono ancora le 9 quando in casa di Anna Maria Greco, la cronista de "Il Giornale" «colpevole» di aver scritto un articolo intitolato La doppia morale della Boccassini, suonano alla porta. Tranne la figlia che si sta preparando per uscire, gli altri dormono tutti. Ad alzarsi è il marito. L’uomo non fa in tempo ad aprire, che in un attimo quelli hanno già imboccato la strada per la camera da letto. Manco si trattasse di dover scovare un pericoloso latitante pluricondannato, i carabinieri si presentano in cinque. Devono subito localizzare la giornalista e notificarle l’ordine di perquisizione disposto dal procuratore aggiunto Pierfilippo Laviani nell’ambito dell’indagine a carico del membro laico del Consiglio Superiore della Magistratura Matteo Brigandì, accusato di abuso d’ufficio per aver passato, proprio a lei, un fascicolo riservato. Anna Maria non è indagata di nulla. Ha solo scritto un articolo riguardante un procedimento disciplinare a carico di Ilda Boccassini risalente al 1982 quando, la principale accusatrice di Silvio Berlusconi per il caso Ruby, fu costretta a difendersi davanti al Csm dopo essere stata beccata in atteggiamenti amorosi con un giornalista di "Lotta continua". Anna Maria non è indagata, eppure le rivoltano la casa: setacciano stanza per stanza, smontano cassetto per cassetto, controllano foglio per foglio. Alla fine della perquisizione le porteranno via il suo pc personale, le agende, i documenti, ogni singolo foglio con la sigla “Csm”, come se non fosse normale trovarne nella casa di una cronista che da vent’anni si occupa di giudiziaria. «La cosa più grave – racconta Anna Maria a "Panorama.it" mentre è ancora in attesa di firmare il verbale della perquisizione assistita dal suo avvocato – è che si sono portati via pure il pc di mio figlio, al quale io non ho mai nemmeno avuto accesso. Speriamo che almeno quello ce lo restituiscano in fretta». Eh già, perché magari è proprio nel computer del figlio 24enne che Anna Maria avrebbe potuto nascondere il fascicolo incriminato, a meno che non l’abbia occultato nella redazione romana del Giornale perquisita anch’essa in mattinata. «Io quel fascicolo l’ho visto, ma non ce l’ho. E comunque non sapevo che si trattasse di carte segrete dal momento che riguardano un procedimento risalente all’’82 conclusosi, come ho anche scritto nel mio articolo, con un’assoluzione per la Boccassini. Dov’è il segreto?» . La Greco, che in tutta la sua carriera non ha mai subito una perquisizione domiciliare, non nasconde rabbia e sorpresa. Da una parte è ancora scossa per quanto accaduto poche ore prima in casa sua, dall’altra si sente delusa e amareggiata perché a “denunciarla” su un giornale è stata proprio una che fa il suo stesso mestiere. Anna Maria non fa nomi, ma è semplice capire a chi alluda. Il giorno dopo la pubblicazione del suo articolo, infatti, su "Repubblica" Liana Milella svela la presunta fonte dello scoop del Giornale sulla Boccassini, ossia lo stesso Brigandì oggi accusato d’abuso d’ufficio. «Qui siamo davanti a un fatto clamoroso: una giornalista che, invece di tutelare un principio cardine del nostro lavoro come la copertura delle fonti, arriva a fare una cosa del genere. Dovrebbe vergognarsi». Nessun attestato di solidarietà, dunque, da chi per mesi si è battuto contro il bavaglio alla libera informazione? «Macché solidarietà! Da altri sì, non certo dai colleghi di Repubblica». A parte scovare il fascicolo che le avrebbe passato Brigandì, secondo la Greco, dietro la doppia perquisizione ordinata oggi in casa sua e al Giornale, c’è una chiara intenzione intimidatoria nei confronti di chi esercita questa professione. «Da oggi il mio lavoro diventerà ancora più difficile di quello che è normalmente, – spiega la cronista - occuparsi di giustizia, e in particolare della condotta dei magistrati, è sempre più rischioso. Anche quando hai in mano fatti e documenti certi che comprovano delle responsabilità a loro carico, devi muoverti in punta di piedi». Secondo la Greco, invece di essere una casa di vetro, trasparente agli occhi dei cittadini, la giustizia è sempre più una casa di piombo, «se nemmeno dopo 30 anni dalla chiusura di un procedimento a suo carico, la gente ha diritto di sapere cosa ha fatto un magistrato, che democrazia è? Perché non si dovrebbe parlare oggi di un fatto che può essere d’interesse per l’opinione pubblica dal momento che quel magistrato si sta occupando di un’indagine che riguarda la privacy di una persona? Perché – si chiede ancora Anna Maria mentre aspetta solo che la lascino andare a casa e riprendere il suo lavoro – i cittadini non dovrebbero sapere certe cose?».” «I carabinieri - ha spiegato la giornalista - mi hanno detto che dovevano procedere a una perquisizione personale e, di fronte a una donna carabiniere, ho dovuto spogliarmi integralmente. Non si tratta quindi semplicemente di una consegna degli abiti, come sostenuto dalla procura, ma di una procedura molto imbarazzante. Confermo altresì, come scritto nel mio articolo, di non essere stata toccata. Mi chiedo - ha concluso - se sia normale che una giornalista venga costretta a rimanere nuda di fronte a un'esponente delle forze dell'ordine senza nemmeno essere indagata. Lascio il giudizio ai lettori».

Fughe di notizie. Fughe inarrestabili. Fughe senza colpevole. È così che va la giustizia italiana da quando la giustizia fa notizia. Dal primo ciak di Mani pulite. Certo, allora gli arresti si susseguivano sul nastro della procura, al quarto piano, e qualche volta il Gabibbo arrivava sotto casa prima dei carabinieri e prima delle manette. Oggi gli spifferi portano sui giornali frammenti di verbali in tempo reale, notizie che servono a far discutere, ma non aggiungono un grammo all’inchiesta, intercettazioni che poi, a bocce ferme, riservano sorprendenti riletture. La contabilità degli incendi mediatici, quella non la tiene più nessuno. Figurarsi. Già nell’ormai lontanissimo 1995, un’epoca fa, gli avvocati del Cavaliere, contestavano 130 fughe non ortodosse. Numeri che oggi, se aggiornati, verrebbero polverizzati. Numeri che, naturalmente, nessuno dentro i palazzi di giustizia ha mai preso sul serio. Perché le Procure spesso considerano la fuga un episodio deplorevole, ma non un reato, così come invece è, specie se commesso da un loro collega. E perché le poche indagini aperte sono davvero, per dirla con il linguaggio della magistratura, atti dovuti. Atti dovuti e nulla più. Atti senza futuro. Gli avvocati del Cavaliere, ma non solo loro, hanno depositato nel tempo diverse denunce, a Milano, e anche a Brescia, competente per i reati compiuti dalla magistratura di rito ambrosiano. In un caso e nell’altro i risultati sono stati nulli.

Ed è inutile contestare, tanto il potere in Italia è nelle mani della magistratura, non nelle mani del popolo. Ed infatti, a seguito della perquisizione del 1 febbraio 2011 presso l’abitazione di Anna Maria Greco e presso la redazione de "Il Giornale" disposta dalla procura di Roma attinente alla pubblicazione di documenti interni al Csm riguardanti il procuratore aggiunto di Milano Ilda Boccassini, la Federazione nazionale della stampa aveva commentato in una nota: “Oggettivamente, non se ne può più. Nello scontro politica-magistratura non possono essere chiamati a pagare i giornalisti se danno notizie, ancorché su di esse e sulla loro valenza in termini di interesse pubblico, ciascuno possa avere opinioni diverse. La perquisizione di oggi a carico della collega de 'Il Giornale' Anna Maria Greco appare, allo stato, assolutamente incomprensibile, oltreché, nei fatti, pesantemente invasiva". "Le notizie 'riservate', non escono mai con le proprie gambe. - aggiungeva la nota FNSI - Ma se si volesse prendere a prestito una espressione del moderno linguaggio politico-giudiziario, si potrebbe dire che si va a cercare presunte colpe, neanche meglio precisate, nell''utilizzatore finale'. Cosi non si può andare avanti. Ai giornalisti è chiesto, tanto più in questa fase di scontro politico e istituzionale dai toni esasperati, di alzare l’asticella della responsabilità, per non fare la fine dei vasi di coccio. Ma occorre misura e rispetto, da parte di tutti". Critica sulla vicenda, per altri profili, anche l'Unione Camere Penali. "Si possono esprimere ampie riserve, non solo estetiche, in merito allo 'scoop', strumentale e bacchettone, del 'Giornale' sulla dottoressa Ilda Boccassini, che segna l'ennesimo episodio di imbarbarimento dello scontro in atto, cosi come si possono anche avanzare fondati interrogativi - afferma una nota della Giunta UCPI - sulla necessita di custodire come il terzo segreto di Fatima gli atti dei procedimenti disciplinari dei magistrati risalenti a trenta anni fa, ma non ci si può esimere dal registrare anche l'inusitato spiegamento di mezzi processuali con cui, ancora una volta, la magistratura reagisce quando viene coinvolto un collega". "Mentre tante Procure leggono sonnacchiose sui quotidiani gli atti dei propri processi, di cui per legge e vietata la pubblicazione, quando viene interessato un magistrato scattano prontamente i sigilli alle stanze di un organo costituzionale e si perquisiscono con altrettanta solerzia quelle di un giornale, anch'esso avamposto del diritto di manifestazione e diffusione del pensiero, difeso dalla Costituzione", commentano i penalisti. "Se ce ne fosse stato ancora bisogno, abbiamo avuto la riprova", conclude la nota UCPI, "di quanto sia discrezionale non solo l'esercizio dell'azione penale, ma anche le sue stesse modalità, con buona pace del principio di eguaglianza che tutti invocano".

LE COOP ED IL SISTEMA SCOPPIATO.

Un sistema sCOOPpiato: i vantaggi fiscali non hanno più senso, scrive Maurizio Belpietro su “Libero Quotidiano”. Alcune note a margine della vicenda che ha visto il sindaco Pd di Ischia finire in galera. Lo accusano di aver preso mazzette dalla cooperativa che eseguì i lavori per la metanizzazione dell'isola. Fin qui niente di straordinario: è ciò che capita spesso - anche tra i progressisti - quando ci sono di mezzo opere pubbliche e dunque i soldi dei contribuenti. Siccome chi paga sono appunto gli italiani, le imprese pagano con generosità, assecondando ogni desiderio di politici e funzionari. Siamo alla solita corruzione. Ciò che è meno solito è il susseguirsi di inchieste che vedono al centro le cooperative. Cambiano i nomi, cambiano i vertici, ma il sistema è lo stesso. Le coop, ossia delle società che dovrebbero ispirarsi a criteri etici e di solidarietà fra i lavoratori, in realtà si comportano come qualsiasi impresa, anzi peggio di qualsiasi impresa, usando metodi spicci e spregiudicati degni di una gang e soprattutto "oliando" a suon di tangenti la pubblica amministrazione. Già alcune cooperative sono un'anomalia, perché pur essendo colossi in grado di fare concorrenza a primarie ditte private godono di una fiscalità di vantaggio, che consente loro di risparmiare su tasse e contributi. Ma visto che oltre a comportarsi come qualsiasi azienda del settore, si muovono anche come i più disinvolti corruttori, la cosa si fa insopportabile. Eppure, da Mafia capitale al Mose si capisce che queste coop sono abituate a ottenere gli appalti pubblici ad ogni costo, anche violando la legge. Ha senso dunque favorirle abbassando solo a loro le imposte? Non si distorce il mercato più di quanto già non lo distorcano le bustarelle? Altro che sostenere la necessità di rivedere il sistema degli appalti, come l'altro ieri ha dichiarato il presidente di Lega Coop Mauro Lusetti, qui bisogna rivedere il sistema delle coop, soprattutto di quelle collaterali alla politica, che, guarda caso, sono di sinistra.

Cooperazione a delinquere: ormai è pioggia di inchieste. Dall'ultimo caso di Ischia fino alle tre coop coinvolte nel "sistema Incalza" per realizzare le grandi opere. Quei soldi all'ex ministro Kyenge, Zingaretti e Sposetti, scrive Gian Maria De Francesco su “Il Giornale”. Se si volesse scherzare con il codice penale (ma solo per ironia, giacché la materia è serissima), si potrebbe inventare un nuovo reato: la «cooperazione a delinquere». Un po' per celia e un po' perché tutti gli ultimi grandi scandali legati a fenomeni corruttivi che hanno interessato le Procure di mezza Italia vedono quasi sempre tra gli indagati esponenti di spicco delle coop, soprattutto di quelle «rosse». Insomma, la storica gemmazione del vecchio Pci, la terza via del fare impresa - né capitalismo né comunismo ma socialità - non è poi così diversa da quella tradizionale. Il viaggio a ritroso non può non partire dalla fine. Con la coop rossa Cpl Concordia, gigante modenese della distribuzione del gas, che avrebbe «unto» numerose ruote, in particolare quelle del sindaco di Ischia Giosi Ferrandino e dell'ex premier Massimo D'Alema, per garantirsi l'appalto per la metanizzazione dell'isola campana. Un contratto da 160mila euro all'albergo del primo cittadino ischitano, tre bonifici da 20mila euro a ItalianiEuropei (ma «nel Pd – giura il presidente Matteo Orfini – non credo ci sia questione morale»). Poi si contano i 2mila euro all'ex ministro Cécile Kyenge, altri 10mila nel 2013 per la Lista Civica Nicola Zingaretti, 10mila euro nel 2013 per l'ex tesoriere dei Ds, Ugo Sposetti. Non trascurabili altri 6mila euro al Pd Comitato Provvisorio Roma che, sempre nel 2013, aveva ottenuto un finanziamento da 10mila euro dalla 29 Giugno di Salvatore Buzzi. Basta tornare a due settimane fa ed è la Procura di Firenze a salire in cattedra denunciando il «sistema Incalza», cioè il potere del super dirigente del ministero delle Infrastrutture di indirizzare appalti e commesse. Nell'occhio del ciclone tre Coop rosse: la Cmc di Ravenna, partecipante al consorzio Cavet che ha realizzato la Tav Firenze-Bologna, è accusata di aver versato oltre 500mila euro a Incalza tra il 1998 e il 2008. Le fanno compagnia la reggiana Coopsette («favori» in cambio della nomina dell'imprenditore Perotti alla direzione di alcuni lavori) e la Cmb di Carpi. Ancora un po' indietro e si palesa la corruzione di Mafia Capitale. Al centro c'è sempre una cooperativa rossa, la 29 giugno di Salvatore Buzzi: una piccola grande holding di servizi da 59 milioni di fatturato. Dalle pulizie alla nettezza urbana, dai centri di accoglienza ai campi rom. Gestita da un dominus in grado di far sedere al proprio tavolo il presidente della LegaCoop, Giuliano Poletti (oggi ministro), e il sindaco di Roma Gianni Alemanno. «I classici risolutori di problemi, che vanno a mette' 'e mani nella merda». È il braccio destro di Buzzi, l'ex Nar Massimo Carminati, parlando proprio delle Coop a introdurre quel vocabolo triviale che si ritroverà anche nelle intercettazioni napoletane su D'Alema. Nell'inchiesta milanese sugli appalti Expo, invece, si ritrova il colosso Manutencoop e anche un protagonista della prima Tangentopoli, il «compagno G.», ossia Primo Greganti, che aveva un contratto di consulenza con la Cmc di Ravenna. Cambiano città e temi, ma i protagonisti sono sempre le coop che, tra un «favore» e l'altro ai politici amici, riescono ad ottenere commesse pubbliche importanti. E anche il Mose di Venezia non è esente dal sistema. «Il 20% dei lavori alle aziende Iri, 60% a quelle private, 20% alle cooperative rosse», raccontò al pm Nordio un dirigente Italstat circa trent'anni fa. L'inchiesta dell'anno scorso ha dimostrato che l'impostazione non è cambiata molto. Le coop presenti nei consorzi che dovevano realizzare il sistema di barriere mobili «finanziavano» la politica per garantirsi la prosecuzione del sistema. E che dire dell'ex presidente della Provincia di Milano Filippo Penati che impose la Ccc di Bologna per la riqualificazione dell'area Falck di Sesto San Giovanni? E poiché le coop rosse sono nate e cresciute all'interno della «famiglia» Pci-Pds-Ds-Pd, occorre interrogarsi sulla natura di questo rapporto. In alcuni casi, i risvolti penali sono spariti per prescrizione, causa ridefinizione del reato di concussione da parte del governo Monti (con incluso salvataggio delle grandi coop). Ma c'è anche un sostanzioso profilo politico: Cpl Concordia, 29 giugno, Cmb, Ccc, Manutencoop e compagnia cantante sono spesso comparse nell'elenco dei finanziatori (leciti, per carità) del partito: sia di quello tinto di rosso dei vecchi Bersani, D'Alema e Veltroni sia quello più sbiadito di Renzi. I Comuni di Roma, Venezia e Ischia, la Provincia di Milano, se guidati dal centrosinistra, avevano, tra gli altri, un interlocutore privilegiato che, a sua volta, compariva tra gli sponsor del partito. E quando si parla di grandi appalti, il «sistema» non trascura mai o quasi mai le Coop. Forse non c'è nemmeno corruzione o concussione, è solo familiarità.

«Il sistema criminale» della Coop rossa. Dopo il caso Incalza & Co, la corruzione scuote di nuovo il Paese. Questa volta a finire nel mirino degli inquirenti è la storica cooperativa modenese Cpl Concordia. Sotto accusa l'ex presidente, vari mananger e il sindaco Pd di Ischia, Giuseppe Ferrandino. E tra i contatti politici nelle carte spuntano i nomi di D'Alema e Bobo Craxi, scrivono Giovanni Tizian e Nello Trocchia su “L’Espresso” Ombre rosse sugli appalti in Campania. C'è la storica cooperativa emiliana, la Cpl Concordia, c'è il primo cittadino dell'isola verde, ci sono faccendieri e imprenditori e compaiono i nomi di politici di rango, come Massimo D'Alema, che non è indagato. Il gip lo definisce un «sistema criminale». Un altro. L'ennesimo. Dopo Incalza & Co: ecco il nuovo capitolo del romanzo criminale italiano. I vertici della cooperativa Cpl concordia - arrestati l'ex presidente Roberto Casari, l'ex socialista Francesco Simone (relazioni esterne), Nicola Verrini (area commerciale) - avevano messo in piedi un 'protocollo criminale'. Corrompevano funzionari e politici per accaparrarsi gli appalti nel settore della realizzazione di impianti energetici, in Campania, e emettevano false fatture per “pagare tangenti e altre utilità”. Non badavano a costi e la corruzione non si fermava a politici e funzionari: se serviva, a libro paga, finivano pure gli uomini del clan. Un meccanismo rodato. In provincia di Caserta, infatti, i vertici di Cpl si erano accordati anche con esponenti della criminalità organizzata e con i politici conniventi con gli ambienti camorristici. Tutto è ben definito nell'intercettazione tra Simone e Verrini quando distinguono i politici in due categorie, quelli che 'mettono le mani nella merda' e gli altri. Loro hanno fatto sempre affidamento sui primi. C'è un particolare inedito che l'Espresso ha scovato. L'inchiesta nasce dalle intercettazioni disposte nei confronti di Giuseppe Incarnato: «Dal monitoraggio degli ascolti emergevano – scrive il Gip – preziosi spunti investigativi». Incarnato, che non risulta indagato, è protagonista già di una indagine relativa all'indebitamento della clinica del Vaticano, l'Idi di Roma. Al telefono parla con Francesco Simone, personaggio chiave del sistema, discutendo di alcune gare bandite dalla regione Campania. Quella di oggi, considerando anche gli omissis, è solo la prima tappa dell'inchiesta sul sistema della Cpl Concordia.  Otto sono finiti in carcere, Simone Arcamone, responsabile tecnico del comune di Ischia, è finito ai domiciliari, per due è scattato l'obbligo di dimora. Tutto parte dall'esigenza di metanizzare l'isola. La storica cooperativa modenese, in cambio dei «favori» di Ferrandino per l'assegnazione dei lavori - avrebbe stipulato due «fittizie convenzioni» (ciascuna da 165 mila euro) con l'Hotel Le Querce di Ischia, di proprietà della famiglia del sindaco, ciascuna da 165 mila euro, a fronte della «messa a disposizione» di alcune stanze durante le stagioni estive 2013 e 2014 per i dipendenti della società modenese. Il sindaco, al secondo mandato, era diventato 'un factotum al soldo della Cpl”. E pensare che si definiva campione di legalità, che 'andava inculcata ai giovani', e aveva fondato anche un osservatorio coinvolgendo magistrati ed esponenti istituzionali. Oggi è in carcere con l'accusa di corruzione. Sarebbe lui l'articolazione politica di quello che viene definito dagli inquirenti «un vero e proprio sistema». Altre utilità ottenute dal sindaco sarebbero state l'assunzione del fratello, Massimo Ferrandino, come consulente della Cpl  e almeno un viaggio tutto pagato in Tunisia. Secondo l'accusa l'amministrazione avrebbe favorito l'azienda emiliana, che a sua volta avrebbe pagato tangenti grazie ai fondi neri costituiti in Tunisia con la società Tunita Sarl, riconducibile a Francesco Simone, responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Cpl Concordia, definito dagli inquirenti «personaggio chiave» della vicenda. Simone è un vecchio socialista di scuola craxiana. «Nasce socialista come segretario di Bobo Craxi che fu una delle prime persone che mi fece conoscere, e all'inizio Simone spese questa sua conoscenza per introdurre la Cpl in Tunisia, nazione nella quale i Craxi avevano forti entrature. Non so se Bobo Craxi sia mai stato legato da rapporti formali (consulenze, contratti ... ) con la Cpl» racconta ai pm un testimone. Un paragrafo dell'ordinanza è dedicato ai rapporti della Cpl Concordia con esponenti politici, in particolare con Massimo D'Alema che è estraneo all'indagine. Relazioni tra la storica cooperativa rossa e "il leader dello schieramento politico di riferimento per la stessa Cpl”. Simone parla al telefono con Nicola Verrini nel marzo 2014: “ Preferisco investire negli ItalianiEuropei dove D'Alema sta per diventare commissario europeo”. E più avanti: “D'Alema mette le mani nella merda come ha fià fatto con noi ci ha dato delle cose”. Poi a proposito dei rapporti con D'Alema si evidenzia nell'ordinanza “l'acquisto da parte della Cpl di alcune centinaia di copie dell'ultimo libro del predetto politico nonché di alcune migliaia di bottiglie del vino prodotto da un'azienda agricola riconducibile allo stesso D'Alema”. Il numero delle copie è pari a 500, le bottiglie, invece, duemila. Così come l'11 maggio la presentazione del libro di D'Alema ad Ischia viene curata dalla Cpl Concordia e si tiene nell'albergo 'Le Querce' della famiglia Ferrandino. Ci sono poi, nell'ultima parte del paragrafo, i finanziamenti erogati dalla Cpl alla fondazione Italianieuropei.  Vengono ritrovati nella perquisizione nella sede di Cpl Concordia, tre bonifici da 20 mila euro (periodo 2012-2014). Non solo i libri di D'Alema, la Cpl ha acquistato anche copie del libro dell'ex ministro Giulio Tremonti. Vengono acquisite due fatture rispettivamente di 7440 euro e di 4464 euro. Massimo D'Alema ha chiarito subito: «Rapporti trasparenti, non ho avuto alcun regalo e alcun beneficio personale. L'acquisto delle bottiglie di vino è stato fatturato e pagato con bonifici». Ferrandino è stato il primo dei non eletti alle utlime Europee. E se Andrea Cozzolino, eurodeputato, avesse vinto le primarie contro Vincenzo De Luca e poi le regionali avrebbe dovuto lasciare il posto proprio al sindaco di Ischia. Ferrandino in quella campagna elettorale si è dato molto da fare. Nelle intercettazioni, mentre parla di voti da raccogliere in Campania, fa riferimento anche a un fedelissimo di Matteo Renzi, Luca Lotti (sottosegretario alla presidenza del Consiglio), con il quale avrebbe dovuto parlare, senza specificarne il motivo.

Coop Adriatica: 60 mila copie del libro di Landini per far breccia nel cuore dei soci. Il segretario della Fiom ha scritto "I miei primi Primo Maggio" per spiegare il senso della festa ai bambini. E il colosso della grande distribuzione lo regalerà a tutti i clienti, scrive Natascia Ronchetti su “L’Espresso”. Maurizio Landini Sulla festa dei lavoratori sono davvero sulla stessa lunghezza d’onda. Anzi, il feeling è così forte da valere 60 mila copie. Il libro di Maurizio Landini e del giuslavorista Umberto Romagnoli, “I miei primi Primo Maggio”, sarà il cadeau di Coop Adriatica per i suoi soci e clienti. Decisione presa in prima persona dal presidente del colosso della grande distribuzione di area Legacoop, Adriano Turrini, che dell’ultima opera del segretario della Fiom vuole riempire gli scaffali dei suoi 195 punti vendita, tra Veneto, Emilia Romagna, Marche e Abruzzo, tra ipermercati, supermercati, minimarket. L’idea l’aveva in serbo da tempo. E l’ha realizzata senza badare a spese, visto che il libro – rivolto ai bambini e pubblicato dalla piccola casa editrice “L’io e il mondo di TJ”, in vendita dall’1 aprile in tutte le librerie della rete Coop a 5 euro – sarà regalato nella settimana che precede il Primo maggio a tutti coloro che entreranno in un negozio della rete commerciale, nelle quattro regioni, per fare la spesa. Fino ad esaurimento di tutte quelle 60mila copie già comprate e pronte per essere distribuite a tappeto. “Conosco da tempo Turrini – dice Landini -. Ci stimiamo, ma non c’è un vero e proprio legame di amicizia. Però io non mi occupo di distribuzione anche se penso che l’idea di donarlo alle famiglie con bimbi sia un’idea molto intelligente. E poi ogni merito va a chi ha pensato il libro: Iaia Pasquini e lo psichiatra Emilio Rebecchi. Sia chiaro che né io né la Fiom prendiamo un euro”. Quanto a Turrini, prima ancora di decidere di farne incetta per omaggiare i consumatori, ha firmato anche la prefazione. Riservandosi, in seconda battuta, di giocare in casa anche per la presentazione ufficiale del libro, a Bologna, il 23 aprile all’Ambasciatori: la libreria che nel centro della città, grazie alla partnership tra Coop Adriatica e Oscar Farinetti, ha proposto (con successo) il mix tra lettura e buona tavola. Sarà sempre Turrini, infatti, a introdurre la presentazione del libro. Una questione di affinità elettive. Anche se la politica, giura, in questo caso non c’entra nulla. Tutto si ferma al tema del lavoro: “Per molti aspetti non condivido le opinioni e le proposte di Landini – spiega Turrini -. Ma sui valori del Primo maggio e sul lavoro come diritto delle persone, fondamentale per la dignità e la vita di ciascuno, abbiamo sicuramente un punto di vista comune”. Se la casa editrice – specializzata in libri per l’infanzia – è davvero micro altrettanto non si può dire dello sponsor, visto il peso di Coop Adriatica. Un big da oltre due miliardi di fatturato capace di spalancare a Landini le porte della cooperazione nella sua roccaforte. E di aiutarlo a far breccia nel cuore di quasi tre milioni di soci.

TANGENTOPOLI ED IL POTERE DELLE FONDAZIONI.

Tangentopoli di Ischia: il vero potere adesso passa per le Fondazioni. Da mafia Capitale allo scandalo Penati, tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscono per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader di tutti gli schieramenti: da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno, scrive Gianluca Di Feo su “L’Espresso”. Mafia Capitale, lo scandalo Penati e adesso anche la tangentopoli ischitana. Non è un caso se tutte le inchieste dell'ultima stagione finiscano per sottolineare il ruolo che le fondazioni hanno assunto nella vita politica nazionale. È lì che - in maniera lecita o illecita - affluiscono i finanziamenti per i leader e persino per i gregari di tutti gli schieramenti, da Massimo D'Alema a Gianni Alemanno. E, di fatto, oggi questi organismi hanno rimpiazzato le vecchie correnti. «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha detto il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone, il primo a porre la questione in un'intervista a “l'Espresso” nello scorso dicembre. L'indagine sulle mazzette a Ischia accende i riflettori sulla prima di queste creature, ItalianiEuropei, nata nel 1998 per volontà dell'allora premier Massimo D'Alema. Al di fuori della rilevanza penale, l'invito dell'uomo della coop Concordia a «investire in ItalianiEuropei» si traduce in tre bonifici da 20 mila euro ciascuno. Soldi motivati nelle intercettazioni dal loquace Francesco Simone, perché «D'Alema mette le mani nella merda come ha già fatto con noi... ci ha dato delle cose». Sessantamila euro sono poca cosa, forse, rispetto alle somme che girano nei circuiti del malaffare. E un versamento attraverso bonifici sembra rispettare tutte le forme della legalità. Ma quanti altri contributi ha ricevuto ItalianiEuropei? Impossibile saperlo. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ha spiegato la portavoce di D'Alema Daniela Reggiani a Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi, autori tre mesi fa di un'inchiesta de “l'Espresso” sulla questione: «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». Correttezza verso chi paga, non certo verso i cittadini. Questo è il cuore del problema. Fondazioni e associazioni simili sono lo snodo della vita politica ma sfuggono a qualunque controllo. Salvo rare eccezioni, non c'è trasparenza: non devono spiegare chi le finanzia, né come usano le risorse. Le regole contabili sono minime, senza nessuno di quegli obblighi a cui devono sottostare i finanziamenti ai partiti e ai parlamentari. Eppure si tratta di organismi con sedi prestigiose e uffici nel centro storico di Roma, che editano riviste patinate e organizzano convegni di alto livello. Ad esempio «ItalianiEuropei», come scrisse Marco Damilano su “l'Espresso”, ha sede in piazza Farnese, di fronte all'ambasciata francese: nel 2012 aveva un patrimonio di un milione e 600 mila euro, una rivista mensile da appena mille abbonati e da 582 mila euro di pubblicità, a consultare il bilancio della società editrice Solaris (tra gli inserzionisti: Eni, Enel, British American Tobacco, Finmeccanica, Trenitalia, Monte dei Paschi). Già l'indagine romana sulla ragnatela di Massimo Carminati aveva evidenziato il fiume di cash che affluiva nei conti di diverse fondazioni. C'era Gianni Alemanno con la sua “Italia Futura”, sulla quale è stata dirottata gran parte dei 285 mila euro pagati da Salvatore Buzzi, reuccio delle cooperative romane e braccio destro dell'ultimo re criminale della capitale. E c'era persino l'associazione intitolata alla memoria di Alcide De Gasperi a cui vanno 30 mila euro: è presieduta da Angelino Alfano, a cui invano “l'Espresso” ha chiesto lumi su tutti gli sponsor. Ma non sono solo i big a usare questi circoli come bancomat. Luca Odevaine, il funzionario che arbitrava lo smistamento dei profughi diventato l'ultimo grande business, nelle intercettazioni sembra alterare le attività di “Integra Azione” a suo piacimento, sfruttandone i bilanci per mascherare i quattrini ottenuti dalla rete di Carminati. Una ricerca dell'università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti ne ha censite ben 105: il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Negli anni duemila ogni politico di spicco ne ha creata una. E sono protagoniste sempre più frequenti delle cronache giudiziarie. Dalle vicende di Luigi Lusi, ex tesoriere della Margherita, sono spuntati i fondi a “Centro per il futuro sostenibile”, sigla con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta, che secondo l'Ansa sarebbe indagato per i rincari della Metro C, notizia da lui smentita. Invece la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Altero Matteoli, ex ministro sotto inchiesta per la tangentopoli del Mose, è stata chiamata in causa nello scandalo Enac. La trasparenza, quando c'è, è sempre parziale. “Open” di Matteo Renzi indica parte degli sponsor, ma non fa luce su chi partecipa a caro prezzo alle cene elettorali, né all'impiego delle disponibilità. «A livello di percezione questa situazione ha raggiunto limiti di indecenza», ha dichiarato Cantone, chiedendo una legge che stabilisca criteri rigorosi anche per questo settore. Perché ormai il merchandising usato per finanziare la politica sembra senza confini. La cooperativa Concordia compra duemila bottiglie di vino dalle cantine di D'Alema e si assicura cinquecento copie del suo saggio “Non solo Euro” per 4800 euro. Ma, in omaggio alla trasversalità imperante, ne paga quasi 12 mila per due diverse opere letterarie di Giulio Tremonti. Un investimento in cultura che forse può spiegare la frenesia editoriale di tanti politici.

Il trucchetto delle fondazioni per nascondere le mazzette. I think tank legati ai politici non sono tenuti a dichiarare chi li finanzia o a depositare un bilancio. Ormai è boom di "pensatoi": sono oltre 100 e spesso finiscono nelle inchieste, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. L'ultima stima ne conta più di cento, 105 per la precisione. Per tutti i gusti, da destra a sinistra, da leader a presunti tali, nessuno si fa mancare una fondazione. Se lievitano a vista d'occhio è perché offrono diversi vantaggi, soprattutto in tempi di magra per il finanziamento pubblico ai partiti. Le fondazioni ricevono fondi ministeriali, accedono al 5 per mille, hanno sgravi fiscali, a differenza dei partiti possono ricevere donazioni da aziende pubbliche - munifici colossi come Eni, Finmeccanica, Poste - ma il grosso delle risorse arriva da tasche private, ed è qui il principale vantaggio dei think tank : non sono tenute a dichiarare chi le finanzia, neppure a depositare un bilancio, tutto al riparo da sguardi indiscreti. «Non siamo neppure obbligati a tenere una contabilità ufficiale delle erogazioni che riceviamo» racconta il presidente di un'importante fondazione politica, legata ad un ex ministro. Così negli ultimi anni il flusso di denaro si è spostato dalle segreterie di partito alle segrete stanze delle fondazioni, che puntualmente spuntano in miriadi di inchieste per corruzione, da Mafia capitale con la «Nuova Italia» di Alemanno, fino a quella sulla coop Cpl. Il presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone ha segnalato ancora il problema: «È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni». In questo campo Massimo D'Alema è un precursore, perché la sua fondazione Italianieuropei , prestigiosa sede in piazza Farnese a Roma, festeggiava già nel 2008 i dieci anni di vita. Il volume celebrativo edito per l'occasione riporta anche un po' di cifre e di nomi. Circa 350mila euro di donazioni, arrivati da big come la Glaxo, multinazionali del tabacco come Philip Morris, aziende di elettrodomestici come Merloni, e poi Pirelli, Ericcson, e una serie di coop: Coop Estense, Legacoop Imola, Lega Nazionale Coop e Mutue, Lega Ligure delle Coop... Chi la finanzi adesso non si sa (anche se basta comprare la rivista bimestrale e vedere chi sono gli inserzionisti di pubblicità, a botte di decine di migliaia di euro, tutte grosse aziende con tanta voglia di buone relazioni con la politica), perché alla richiesta la fondazione dalemiana risponde che i nomi non si fanno, per la privacy («Dai finanziamenti si potrebbe desumere l'orientamento politico di chi ha elargito il contributo» ha spiegato lo stesso D'Alema). Privacy che altrove, come in Germania, dove le fondazioni sono ampiamente finanziate dallo Stato, non esiste, perché si devono seguire precise e severe regole di trasparenza. Anche a Bruxelles è così, e D'Alema lo sa bene, visto che presiede un'altra fondazione, la Foundation for European Progressive Studies (espressione del Partito socialista europeo di cui fa parte il Pd), che nell'ultimo hanno si è presa 3 milioni di euro di fondi dalla Ue. Dietro le carriere politiche c'è spesso l'attivismo di una fondazione. Tosi è arrivato alla rottura con la Lega proprio per la sua fondazione «Ricostruiamo il Paese», 57 sedi in tutta Italia, finanziatori ignoti. Enrico Letta, appena diventato premier, ha chiuso la sua VeDrò, appena visitata dalla Guardia di finanza, ma l'associazione politica è servita a preparare la strada di premier di larghe intese (tutti invitati a Vedrò). Quella di Renzi, prima la Big Bang e poi la Fondazione Open, guidate dal braccio destro Carrai, sono stati i motori della repentina ascesa del sindaco di Firenze, concentrando finanziamenti, sponsor, amicizie. Renzi, in piena guerra di primarie Pd (coi bersaniani che lo accusavano di ricevere soldi persino da Usa e Israele...), ha pubblicato una lista di finanziatori. Ma sugli sponsor di Renzi e sui partecipanti alle cene di fund raising resta un'ampia zona di mistero. Come in tutte le altre. Sarà per questo che piacciono tanto?

Fondazioni, così i politici ora fanno cassa. I finanziamenti ai leader piccoli e grandi ora passano attraverso questi enti, che possono operare senza alcun controllo. Ecco come la fine dei fondi pubblici cambia il rapporto tra il Parlamento e le lobby, scrivono Marco Damilano e Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Il palazzo delle fontane all'Eur di Roma illuminato per la cena del Pd Doveva essere un anticipo di futuro. Il partito all’americana. Il fund raising, la raccolta fondi, limpida e trasparente come un ruscello di montagna. Venerdì 7 novembre la prima cena di auto-finanziamento del Pd a Roma (dopo quella di Milano) era stata un successone. Ottocento tavoli, mille euro a testa, il presidente del Consiglio Matteo Renzi festeggiato come uno sposo. «Esperimento riuscito, da ripetere». Il mondo nuovo della politica finanziata dai privati. Che si è rivelato invece, tre settimane dopo, il solito mondo di mezzo. Il confine sottile e buio che separa la vetrina del potere dalle bande criminali scoperte dall’operazione Mafia Criminale. Alla cena con il premier c’era anche Salvatore Buzzi, presidente della cooperativa “29 giugno”, arrestato con l’accusa di essere il cassiere della banda romana guidata da “Er Cecato”, come ha raccontato il suo vice Claudio Bolla: «Il tavolo alla cena di Renzi è costato 10 mila euro, ha pagato tutto la cooperativa e, tra i nostri soci, c’è anche Massimo Carminati». Si realizza la profezia del boss ex Nar intercettato: «Tutto è possibile, che ne so, che un domani io posso stare a cena con Berlusconi». O con il suo giovane successore a Palazzo Chigi, ignaro. «I nomi si vedono. Sono tutti pubblici e registrati. Chiedete al tesoriere del partito Francesco Bonifazi», ha garantito il premier in tv il 3 dicembre. A due settimane di distanza, però, la lista degli invitati e dei contributi non è saltata fuori. Nell’attesa, l’inchiesta “Mafia Capitale” e le regalie dei presunti criminali alla politica arrivano proprio mentre i leader provano faticosamente a costruire un nuovo modello di approvvigionamento, dopo che l’abolizione del finanziamento pubblico (che entrerà a regime nel 2017) sta già dissanguando le casse dei partiti. Dunque, l’antica domanda resta più attuale che mai. Chi finanzia la politica? E perché? «Non ci sono più i partiti. È inutile imporre la trasparenza nei bilanci dei partiti, che ormai sono spompati e nessuno li finanzia più. Oggi il vero potere passa per le fondazioni», ha denunciato una settimana fa a “l’Espresso” il presidente dell’Autorità anti-corruzione Raffaele Cantone. «Le fondazioni ottengono, spesso attraverso altre mediazioni, i quattrini che sono il vero motore delle campagne elettorali. Possono intascare centinaia di migliaia di euro senza darne conto. Oggi sono fuori da ogni possibilità di controllo». Le fondazioni politiche sono un punto di intersezione tra interessi pubblici e privati, legali e inconfessabili, di lobby e di cordate che si incrociano e si incontrano, senza nessun obbligo di trasparenza dei bilanci e dei finanziatori. Una terra di mezzo, appunto. E sono il fantasma che si aggira tra le pagine dell’inchiesta su “Mafia Capitale”. Spulciando tra le migliaia di documenti e intercettazioni si scopre, infatti, che gli enti finiti nell’ordinanza (alcuni solo di striscio) sono ben cinque. Come il magistrato Cantone, anche l’ex Nar Carminati e il compare Buzzi avevano capito che i think-tank possono essere scatole vuote. Da riempire di soldi e tangenti. Matteo Renzi alla cena di finanziamento del Pd Anche se dei pensosi convegni sull’economia e delle conferenze sul Mediterraneo ai boss fregava nulla, non è un caso che nell’ordinanza d’arresto la parola “fondazione” venga pronunciata dagli indagati 45 volte. Sono i soggetti giuridici spuntati come funghi negli ultimi dieci anni, enti dove la trasparenza è un accessorio e il lobbismo spinto è l’unico, vero core business. Pronti a degenerare in una macchina per corrompere dirigenti pubblici, ungere i facilitatori, riciclare e fare ottimi affari. Dal think-tank all’americana al think-“tanke” all’amatriciana. “Il Tanke” era il soprannome che “Er Cecato” dava a Franco Panzironi, in testa all’elenco degli arrestati, ex amministratore delegato dell’Ama, la municipalizzata romana dei rifiuti, e segretario della fondazione di Gianni Alemanno “Nuova Italia”. La onlus che il “Tanke” usava come una sorta di bancomat. Secondo i pm, infatti, i padrini di “Mafia Capitale” avrebbero finanziato il club di Gianni per almeno tre anni, da gennaio 2012 allo scorso settembre, versando centinaia di migliaia di euro: al pensatoio dell’ex sindaco di Roma, tra bonifici e bustarelle, secondo i pm sarebbero arrivati dalle cooperative dei boss contributi per 265 mila euro. In cambio, l’organizzazione avrebbe ottenuto appalti pubblici e utilità di ogni tipo. «Quello è ’na cambiale, l’ho messo a 15 mila al mese», ride Buzzi al telefono, facendo riferimento all’affitto della sede della centralissima via San Lorenzo in Lucina, nello stesso palazzo in cui c’è la sede nazionale di Forza Italia. Panzironi dai presunti mafiosi otteneva di tutto e di più: da orologi di lusso alla «rasatura del prato di zone di sua proprietà». Ma il “Tanke” era direttore operativo anche di un’altra prestigiosa associazione, la “Fondazione per la pace e la cooperazione internazionale Alcide De Gasperi”, presieduta per decenni da Giulio Andreotti, con ottime entrature in Vaticano e nella finanza bianca (tra i consiglieri spicca Giovanni Bazoli accanto a Vito Bonsignore, condannato per corruzione). Buzzi gira 30 mila euro anche a loro, e incontra Panzironi negli eleganti uffici di Via Gregoriana. Al tempo l’ente era presieduto dall’ex berlusconiano Franco Frattini, ma dal luglio 2013 è stato sostituito dal numero uno del Viminale, Alfano. Anche sul sito della “De Gasperi”, come su quello di “Nuova Italia” manco a dirlo, non c’è alcuna sezione “trasparenza”. Abbiamo provato a contattare per giorni il segretario generale Lorenzo Malagola per chiedere lumi sui finanziatori privati, ma non ci ha mai richiamato. Anche Alfano non ha voluto rispondere alle nostre domande. «Sottolineiamo però», tiene a far sapere il suo staff, «che la fondazione non è di un politico, esiste da trent’anni, e che presidente onorario è la figlia di De Gasperi». Andiamo avanti. Se nel paragrafo dell’ordinanza dedicata alle «frequentazioni di Carminati» spunta Erasmo Cinque, costruttore coinvolto nelle inchieste sul Mose e sull’Expo nonché autorevole membro del cda della “Fondazione della liberà per il Bene comune” dell’amico ex ministro di An (oggi in Forza Italia) Altero Matteoli, un uomo del “Cecato” aveva messo piede anche in altre due associazioni, stavolta di tendenza democrat. Stefano Bravo, per gli inquirenti lo “spallone” del clan, il commercialista che portava i denari oltreconfine, è stato tra i promotori della “Human Foundation”, una creatura dell’ex ministro Pd Giovanna Melandri. Ma era - ha scoperto “l’Espresso” - anche presidente del collegio dei revisori della Fondazione “Integra Azione”, fondata da Legambiente. L’ente, che ha un logo profetico in cui una mano rossa ne stringe una nera, era presieduto da Luca Odevaine (l’ex vice-capo di gabinetto di Walter Veltroni al soldo di Buzzi finito in galera) e da Francesco Ferrante, ex senatore del Pd. «È un paradosso, noi di Human foundation siamo nati proprio perché crediamo nella trasparenza assoluta di stampo anglosassone», spiega furiosa la Melandri, che solo pochi giorni fa ha scoperto che uno dei fondatori del suo circolo (nell’elenco spiccano anche il viceministro all’Economia Carlo Calenda e il filosofo Sebastiano Maffettone) è considerato dai pm uno dei complici dell’ex terrorista nero. «Noi siamo parte lesa. Se il dottor Bravo sarà condannato ammetteremo di aver sbagliato a scegliere un collaboratore, ma con “Mafia Capitale” non abbiamo nulla a che spartire». È un fatto che la Human sia tra le pochissime onlus a indicare sul sito le aziende che sponsorizzano i suoi progetti: si va da Unicredit e Telecom, passando per Banca Mediolanum a Sorgenia, che hanno versato liberalità da un minimo di 10 mila (contributore “bronze”) a un massimo di 50 mila euro l’anno (contributore “platinum”). «Solo Vodafone ha messo di più per un master alla Cattolica», chiosa la Melandri, che sostiene l’apoliticità della sua creatura. Presentata al mondo però con una lettera di Giorgio Napolitano, l’intervento dell’allora premier Mario Monti, i saluti dell’allora ad Enel Fulvio Conti e le conclusioni di Giuliano Amato. Il commercialista oggi indagato lavorava anche in un’altra fondazione di sinistra, “Integra Azione”, un ente creato nel 2010 per favorire «l’integrazione tra i popoli». «Abbiamo fatto progetti di cui sono orgoglioso, con fondi europei, all’ospedale Pertini di Roma, la Coca-Cola ha contribuito per un progetto a Rosarno», interviene Ferrante, che l’anno scorso ha lanciato il nuovo partito ambientalista “Green Italia”. «Il centro per gli immigrati di Mineo, in Sicilia? È vero, nelle intercettazioni ne parlavano Odevaine e Buzzi, ma “Integra” non c’entra nulla, era un affare personale di Luca». Comunque, la onlus ha organizzato dei corsi per mediatori culturali, proprio per il centro vicino Catania che Buzzi sognava di trasformare in un nuovo business della banda. Con l’abolizione del finanziamento pubblico e con la ricerca di sponsor privati che potranno contribuire al massimo per 100 mila euro, le fondazioni avranno un peso sempre più rilevante nella politica. Come avviene in Francia, Usa, Gran Bretagna. Ma se lì i controlli sono stringenti (in Germania, ad esempio, le fondazioni sono una per partito, finanziate quasi interamente dallo Stato, controllate dalla Corte dei conti e obbligate alla pubblicità e alla trasparenza dei bilanci) il modello italiano è più simile al far west. Prendiamo la più famosa delle fondazioni politiche, a lungo considerata la più influente di tutte, la fondazione Italianieuropei di Massimo D’Alema, con elegante sede in piazza Farnese a Roma, di fronte all’ambasciata francese. Se chiedi la lista dei finanziatori rispondono a muso duro che loro, finché la legge non cambierà, non divulgheranno un bel nulla. «Diciamo che preferiamo la privacy alla trasparenza», ragiona Daniela Reggiani, portavoce del fondatore del pensatoio. «I nostri bilanci sono depositati alla prefettura, non ci sono i nomi e i cognomi ma trovate entrate e uscite. Non è giusto che l’origine di un contributo venga svelata, se chi l’ha fatto sapeva di poter rimanere nell’ombra. È una questione di correttezza». In linea con quanto affermato dallo stesso D’Alema nel 2011: «Dai finanziamenti si potrebbe desumere l’orientamento di chi ha elargito il contributo». L’ex premier lo dichiarò tre anni fa, quando la sua fondazione finì nella bufera per il coinvolgimento di Vincenzo Morichini nello scandalo degli appalti truccati dell’Enac (l’imprenditore amico di D’Alema era il procacciatore di finanziamenti della fondazione, ha patteggiato un anno e sei mesi per corruzione e frode fiscale). Tra le onlus vicine al centro-sinistra non sempre la trasparenza è stata considerata una virtù. Nel 2012 l’allora tesoriere della Margherita Luigi Lusi fu arrestato per appropriazione indebita dei rimborsi elettorali del suo partito. Poco dopo un’inchiesta de “l’Espresso” scoprì che Lusi, nel 2009, aveva girato oltre un milione di euro al “Centro per il futuro sostenibile”, fondazione con vocazione ambientalista creata da Francesco Rutelli e dall’attuale assessore ai Trasporti della Capitale Guido Improta. Lusi aveva bonificato il denaro quando Rutelli aveva già fondato un altro partito, l’Api. Lo stesso “Cfs”, poi, versò decine di migliaia di euro alla nuova formazione politica: nessuno di questi contributi fu mai dichiarato, né dall’Api né da Rutelli. Due vicende con gli stessi protagonisti, ma che corrono separate. Per il furto dei rimborsi elettorali Lusi è stato l’unico condannato. Anche la “Fondazione della Libertà” che fa riferimento a Matteoli è stata tirata in ballo nella vicenda delle tangenti Enac. L’ex ministro delle Infrastrutture ha sempre smentito qualsiasi coinvolgimento, ma oggi non può certo negare di conoscere bene Erasmo Cinque, l’imprenditore a cui Carminati ha fatto visita nel maggio del 2013. I nomi di Matteoli e di Cinque - che è nel cda della fondazione con l’ex deputato Marcello De Angelis, ex di Terza posizione, cinque anni di carcere alle spalle e una carriera come cantante del gruppo musicale 270bis, riferimento all’articolo del codice penale sulle associazioni con finalità di terrorismo - sono finiti anche nelle inchieste sul Mose e dell’Expo. Il boom delle fondazioni è stato raggiunto nel 2012-2013, quando la crisi dei partiti ha toccato l’apice. Secondo una recente ricerca dell’università La Sapienza curata dal politologo Mattia Diletti sono oggi 105, in crescita esponenziale: erano appena 33 nel 1993, anno di passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica. Il 34 per cento sono think-tank di carattere personale, legate alla figura di un leader o di un capo-corrente. Nell’ultimo decennio, in pratica, ognuno si è fatto la sua, con nomi immaginifici (Claudio Scajola con la “Cristoforo Colombo”) o banalotti (“Fare Futuro”, “Futuro Sostenibile”, “Costruiamo il Futuro”). L’ultima arrivata è “Ricostruire il Paese” del sindaco di Verona Flavio Tosi, leghista in rotta di collisione con Matteo Salvini: tesserarsi costa dieci euro, nell’agenda degli eventi dell’ultimo mese c’è la partecipazione di Tosi a “Un giorno da pecora” e a “Virus”, i comitati locali si chiamano “fari” (accendiamo un faro...) ma sui donatori non c’è illuminazione. Così come nulla si sa di preciso su “Costruiamo il futuro”, la fondazione del ministro delle Infrastrutture Maurizio Lupi, oggi gettonatissima, perché il destino degli enti e le loro fortune economiche segue la parabola dei loro promotori. Vice-presidente è l’ingegnere valtellinese Lino Iemi, legato alla Compagnia delle Opere, immobiliarista con il pallino dei centri commerciali e degli shopping center, edificatore di una controversa città-mercato in Sardegna. Chi meglio di lui, per costruire il futuro? L’unica associazione che ha messo on line i bilanci dettagliati e l’elenco dei suoi finanziatori è anche la più in voga del momento. La fondazione “Open”, un tempo chiamata “Big Bang”, organizza gli incontri annuali della stazione Leopolda e fa riferimento diretto al premier Renzi. Tra i donatori ci sono i deputati e i senatori renziani al gran completo, compreso il tesoriere del Pd Bonifazi che ha elargito 12 mila euro. Ma anche l’ex presidente della Fiat Paolo Fresco (25 mila euro), l’ex presidente della cassa di risparmio di Firenze Jacopo Mazzei (10 mila), il finanziere Davide Serra (125 mila euro) di casa a Palazzo Chigi (era a pranzo da Renzi una settimana fa). Tutto regolare. Eppure sulla trasparenza resta ancora molto da fare. In occasione dell’ultima Leopolda Open, con una nota ufficiale, ha fatto sapere che in due anni di vita ha raccolto due milioni in donazioni, e che ogni kermesse costa circa 300 mila euro: il resto è stato speso «in due elezioni primarie, il sito della Fondazione e tantissimi eventi e incontri socio-culturali in tutta Italia», di cui però non si hanno evidenze. Incuriosisce, inoltre, che Renzi da un lato come segretario del Pd partecipi alle cene di auto-finanziamento per il partito e dall’altro promuova una fondazione privata affidata ai suoi fedelissimi. Ancor più curioso che il board sia composto da sole quattro persone: Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Marco Carrai e il presidente Alberto Bianchi. Rispettivamente il ministro delle Riforme, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, il più fedele consigliere del premier e l’avvocato di Matteo, presidente di Open nominato a primavera anche membro del cda dell’Enel. Le fondazioni, dicono gli esperti, saranno la prossima frontiera della politica “all’americana”. In realtà le onlus hanno preso la solita declinazione: all’italiana. Nella ricerca della Sapienza emerge che a fare da padrone nelle sponsorizzazioni sono i più importanti enti pubblici e le principali banche: Eni, Enel, Finmeccanica, Autostrade, Telecom, Edison, Unicredit, Intesa-SanPaolo, Ferrovie. Le nove sorelle che fanno girare l’economia italiana. Talmente inserite nel meccanismo che Enrico Letta, da premier, si sentì in dovere di sciogliere la sua associazione VeDrò per non finire stritolato in un circuito di pressioni e di lobbying. Molti ex VeDrò sono però confluiti tra i renziani della Leopolda: i deputati Ernesto Carbone e Lorenza Bonaccorsi, Simonetta Giordani, passata da Autostrade al governo Letta come sottosegretaria alla Cultura e infine nominata da Renzi nel cda di Ferrovie. Nei prossimi anni, quando il finanziamento pubblico sarà interamente cancellato, i soldi arriveranno da lì. Imprenditori ed enti pubblici che foraggiano fondazioni, guidate da politici che decidono gli aiuti alle aziende e nominano i vertici delle stesse partecipate. Un bel circuito di interessi, lasciamo perdere il conflitto, roba fuori moda. I think tank sono destinati a evolversi: da struttura personale a disposizione del capocorrente di turno a società di consulenza da cui attingere per personale, risorse, classe dirigente. Un passo ulteriore verso la destrutturazione della politica. Perché dopo la grande torta del finanziamento pubblico, in assenza di trasparenza e certezza su chi versa soldi alle fondazioni, non finiremo in una nuova casa di cristallo, come si auguravano in tanti, ma in un territorio ancora più oscuro. E pericoloso.

La selva oscura delle fondazioni e quel controllo che non c’è, scrive Sergio Rizzo su “Il Corriere della Sera”. Che una cooperativa finanzi una fondazione politica, come sembrava essere nei progetti della Cpl Concordia finita nell’inchiesta sulle mazzette al sindaco pd di Ischia, non è affatto uno scandalo. Nelle democrazie occidentali è questa la forma con cui i privati contribuiscono anche alla formazione della classe dirigente dei partiti. Ma in piena trasparenza. Proprio quella che invece in Italia manca: alimentando il sospetto che la funzione principale di queste fondazioni, moltiplicatesi in modo esponenziale negli ultimi anni proprio mentre l’opinione pubblica premeva per imporre ai partiti regole più stringenti, sia decisamente più prosaica. Ai magistrati che indagano su Mafia capitale Franco Panzironi, ex segretario generale della Nuova Italia di Gianni Alemanno e insieme collaboratore della Alcide De Gasperi di Franco Frattini, ha raccontato che le fondazioni politiche sono un comodo salvadanaio dove gli imprenditori mettono soldi in cambio dell’accesso a un sistema di relazioni. Lungi da chi scrive il voler fare di tutta l’erba un fascio. Ma il problema esiste, e lo sanno bene i partiti. Che però di metterci mano seriamente non ne hanno alcuna intenzione. Nel 2012, mentre si discuteva alla Camera il taglio dei rimborsi elettorali, un emendamento pensato da Linda Lanzillotta e Salvatore Vassallo che mirava a imporre le stesse regole di trasparenza previste per i partiti anche alle fondazioni, fu impallinato da destra e da sinistra. Due anni più tardi, nella legge sulla presunta abolizione del finanziamento pubblico, ecco spuntare finalmente quell’obbligo. Peccato che sia inapplicabile. La norma di cui parliamo dice che sono soggette agli obblighi di trasparenza validi per i partiti le fondazioni i cui «organi direttivi» siano nominati «in tutto o in parte» dai partiti medesimi. Neppure una di quelle esistenti ricade in questa fattispecie. E siccome chi l’ha scritta non ha l’anello al naso, la norma aggiunge che le regole di trasparenza, (per esempio la pubblicazione online di tutti i contributi di entità superiore a 5.000 euro) si applicano anche a quelle fondazioni che destinano più del 10 per cento dei proventi al finanziamento di attività politiche. Si tratta soltanto di stabilire come e chi controlla che quel limite non venga superato. Ma di questo non si fa cenno. Fatta la legge, non si deve neppure fare la fatica di trovare l’inganno. Quante fondazioni resterebbero in vita se le regole della trasparenza venissero correttamente applicate e fatte rispettare, non possiamo dirlo. Ma sul fatto che sia ormai necessario intervenire senza furbizie ci sono pochi dubbi. Lo sostiene con fermezza anche il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Che per questo si è beccato una punzecchiatura dalemiana dalla Velina rossa con l’invito a far pubblicare tutti i contributi alle fondazioni,«anche a quelle di Firenze». Bersaglio: Matteo Renzi. Ma forse Pasquale Laurito, autore della Velina, non aveva consultato il sito della renziana Fondazione Open. Avrebbe trovato una lunga lista di finanziatori. Dai 175 mila euro del patron del fondo Algebris Davide Serra ai 50 mila dell’ex presidente Fiat Paolo Fresco e della sua consorte Marie Edmée Jacqueline, ai 60 mila della Isvafim di Alfredo Romeo, ai 62 mila del finanziere molisano Vincenzo Manes... Va però detto che non compaiano i nomi di chi non ha dato l’assenso alla pubblicazione. Come se la privacy possa valere per i finanziamenti a una fondazione che fa riferimento al premier e con un consiglio direttivo nel quale accanto al suo amico del cuore Marco Carrai ci sono il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi, il sottosegretario alla presidenza Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi, nominato dal governo nel consiglio di amministrazione dell’Enel. Nessuna lista abbiamo trovato invece nel sito della Italianieuropei presieduta da Massimo D’Alema, di cui Claudio Gatti e Ferruccio Sansa ricordano nel loro libro «Il sottobosco» alcuni finanziatori: gli imprenditori Alfio Marchini e Claudio Cavazza, i gruppi Pirelli e Asea Brown Boveri, nonché le immancabili Coop, queste ultime per 103.291 euro. Per la sinistra Italianieuropei è stata un formidabile rompighiaccio. Da allora è stato un fiorire di fondazioni, associazioni, centri studi, think tank. Pier Luigi Bersani e Vincenzo Visco hanno messo su Nuova economia nuova società. Anna Finocchiaro la Fondazione Cloe. Walter Veltroni la scuola di politica Democratica, che ha cambiato nome in Idemlab. Impossibile poi non citare Astrid di Franco Bassanini e Glocus di Linda Lanzillotta. Come pure le associazioni Riformismo e solidarietà dell’attuale sottosegretario (all’Economia) Pier Paolo Baretta e Libertà Eguale del viceministro (stesso ministero) Enrico Morando. E il network trasversale di Enrico Letta e Angelino Alfano, Vedrò. La destra non è stata certo da meno. Ecco allora la Free Foundation di Renato Brunetta. Poi la già citata Nuova Italia di Alemanno, adesso orfana di quel Panzironi finito nella bufera giudiziaria romana: al suo posto Claudio Ferrazza, avvocato dell’ex sindaco di Roma. Orfana del medesimo soggetto pure la Alcide De Gasperi di Frattini, dove Panzironi, ha raccontato l’ex ministro degli Esteri, era arrivato dietro consiglio di Alessandro Falez, imprenditore della sanità con solidissimi rapporti vaticani. Quindi la Cristoforo Colombo per le Libertà di Claudio Scajola, con un comitato politico presieduto dall’ex ministro Mario Baccini: il quale a sua volta ha una propria fondazione, la Foedus. Ecco poi la Fondazione della Libertà per il Bene Comune: presidente l’ex ministro delle Infrastrutture Altero Matteoli, al suo fianco il costruttore suo braccio destro Erasmo Cinque insieme a Roberto Serrentino e Giovan Battista Papello, entrambi già piazzati all’Anas dalla destra. Ecco ancora Italia Protagonista di Maurizio Gasparri. E Riformismo e Libertà di Fabrizio Cicchitto. Mentre si chiama Europa e civiltà la fondazione di cui è presidente onorario Roberto Formigoni. Per non parlare di Magna Carta di Gaetano Quagliariello, che ha il merito di esporre gli stemmi (ma non i contributi) dei soci fondatori, fra cui Erg e Mediaset: mentre non troviamo più l’elenco dei soci aderenti, dove tre anni fa figurava anche la holding pubblica Finmeccanica. Esiste ancora il Movimento delle Libertà dell’ex parlamentare di Forza Italia Massimo Romagnoli. Come Città Nuove, embrione di quello che poteva essere il partito della ex presidente della Regione Lazio Renata Polverini. E sopravvive pure Costruiamo il futuro, forse un tantino abbacchiata dopo quello che è successo al suo presidente (autosospeso) Maurizio Lupi.

TANGENTOPOLI E LE CONSULENZE TRUCCATE.

"Mose, un miliardo bruciato in tangenti e consulenze". L'inchiesta di Venezia. Il costruttore Baita: un euro su cinque sprecato per le spese extra. Le risorse dissipate anche in assunzioni di favore e studi tecnici inutili per realizzare l'opera, scrivono Giuseppe Caporale e Corrado Zunino su “La Repubblica”. C'è un miliardo di troppo nel prezzo del Mose, cantiere costato ad oggi 5,6 miliardi pubblici. Quel miliardo di troppo lo ha evidenziato il più importante tra i costruttori, Piergiorgio Baita che ha guidato la Mantovani spa fino al suo arresto, 28 febbraio 2013. Quel miliardo non è servito a far crescere la mastodontica opera idraulica, ad assumere i progettisti più qualificati, a pagare macchinari, bonifiche, straordinari. È servito solo ad alimentare il Consorzio Nuova Venezia, appaltatore unico della diga da trenta chilometri. Fin qui la magistratura ha certificato 22,5 milioni di tangenti consegnate dal consorzio a sindaci e presidenti di Regione, magistrati delle acque e della Corte dei conti, consiglieri regionali, finanzieri, spioni. A questo bottino minimo (il 4 per mille del valore dell'opera, ben al di sotto della media delle mazzette italiane) vanno però aggiunti i costi delle "utilità" certificate: le ville ristrutturate a carico della pubblica comunità, i soggiorni in grand hotel di Venezia e Cortina, i voli privati, le vacanze in Toscana pagate alla famiglia di Paolo Emilio Signorini, funzionario della Presidenza del Consiglio. E, ancora, i contratti a progetto offerti nelle "aziende Mose" a figli e fratelli di magistrati, le molte assunzioni precisamente inutili: la figlia di Paolo Splendore, direttore dei servizi segreti del Triveneto, la figlia di Giovanni Artico, importante funzionario della Regione Veneto, quindi Giancarlo Ruscitti, ex funzionario della sanità utile per ottenere l'appalto dell'ospedale di Padova. Il conto del malaffare s'impenna, infine, contabilizzando le consulenze inutili, gli studi idrogeologici commissionati e neppure letti. "Tutti insieme noi costruttori abbiamo girato al consorzio cento milioni l'anno", dice l'ingegner Baita, maggior azionista Cnv da undici stagioni. Fanno un miliardo, qualcosa in più, lasciando fuori i venti precedenti anni di vita del raggruppamento Nuova Venezia. È una tangente globale pari al 20 per cento dell'opera: i conti iniziano a tornare. Nelle 437 pagine delle richieste di arresto della procura veneziana si trovano molte conferme a quella cifra sprecata, un miliardo di euro, in illecite "pubbliche relazioni". Le regole della tangente collettiva - i costruttori dovevano fare una colletta ogni volta che veniva richiesto - le impose il capo supremo Giovanni Mazzacurati quando prese in mano le redini del consorzio monopolista in Laguna. Nel 2002. "La mia azienda aveva appena rilevato le quote del Consorzio appartenute a Impregilo, un investimento da 70 milioni che ci trasformava negli azionisti più importanti", ha messo a verbale l'amministratore della Mantovani, Piergiorgio Baita. "L'ingegner Mazzacurati mi convocò e, in sede, mi precisò una serie di regole non scritte che vigevano tra i soci. La più importante era questa: dovevamo impegnarci tutti a retrocedere al consorzio, in nero, le somme concordate". Il secondo obbligo era che "nessuna delle singole imprese, salvo ordine supremo, poteva permettersi di pagare direttamente politici e funzionari: le tangenti dovevano sempre passare attraverso il consorzio". Mazzacurati, che pretendeva di essere l'unico a gestire i rapporti politici più alti - incontrò diverse volte a Roma Silvio Berlusconi e Gianni Letta "per spiegare come stavano i lavori del Mose e farli procedere più velocemente" - riceveva le buste di denari personalmente dai costruttori. Altre volte mandava uno dei suoi collaboratori: Luciano Neri o Federico Sutto. Raccoglievano e consegnavano al presidente. "Era Mazzacurati a decidere il fabbisogno di fondi extracontabili, a scegliere chi doveva anticipare le somme nei momenti di crisi. Era lui, durante le campagne elettorali, a dettare gli importi del finanziamento ai partiti. Noi della Mantovani e quelli di Fincosit sostenevamo rappresentanti del Pdl, Condotte e Coveco il Pd. Solo la mia azienda ha retrocesso al consorzio sei milioni di euro". Retrocesso, si dice così. Significa " restituire in nero" parte del denaro pubblico ricevuto per trasformarlo in tangente. Già, nel tempo il collezionista di "rientri" aveva perfezionato il" sistema di retrocessione", come illustra il prospetto recuperato dalla finanza nel novembre 2011. Le quattro aziende più importanti - la Mantovani, la Coedmar, la Fincosit e la cooperativa Coveco - si facevano carico di "ritornare" al loro consorzio il 50-6-0 per cento degli importi indicati nelle "prestazioni di servizio", studi idrogeologici e consulenze tecniche. La stessa aliquota (50-60 per cento dell'appalto) le aziende dovevano riconsegnarla sulla voce "anticipazione di riserve" (fondi messi da parte in attesa di richieste urgenti). Infine, le quattro grandi aziende grandi e le due minori dovevano garantire il 5-6 per cento dei ricavi derivanti dai "lavori in sasso": la gettata di massi fatta per alzare dighe alle quattro bocche del Mose. "Il sospetto che qualcuno di noi costruttori cercasse di barare al gioco della colletta c'era ", confessa Baita. Spiegano i magistrati: "Accettato l'importo richiesto, le imprese stipulavano con il consorzio contratti fittizi per prestazioni sovradimensionate nell'importo. I contratti venivano tutti predisposti dal ragionier Neri". Un esempio? "La coop Coveco riceveva una fattura dalla sua azienda San Martino di 2-00 mila euro e faceva la fattura di200 mila euro al Consorzio Venezia Nuova. Dopo un mese Pio Savioli con la sua macchinetta andava a prendere 1-00 mila euro in contanti dalla San Martino e li portava in Piazzale Roma all'amico Neri ". Che li girava a Mazzacurati, che li distribuiva a Orsoni e Galan. Alla fine di ogni esercizio le singole imprese dovevano taroccare i loro bilanci annuali per spiegare gli esborsi extra Mose. E predisporre relazioni con l'elenco delle riunioni e degli incontri formali. "Attività mai svolte", dicono i magistrati, "che saranno coperte da Valentina Croff, rappresentante legale del Consorzio ". Per telefono, intercettati, si sentono dirigenti di società quantificare il falso: "Per merce sollevabile con i moto pontoni posso mettere trenta tonnellate?... No, è rischioso, metti solo dieci".

Lupi, le consulenze d'oro del suo ministero. Sul sito delle Infrastrutture, 48 pagine e 478 file raccontano dei contratti (e dei rinnovi di anno in anno) degli “esperti” scelti fuori dai ranghi della Pubblica Amministrazione di cui si è avvalso il dicastero. Dai 136 mila euro per Incalza ai 60 mila netti per Girlanda. Con buona pace della spending review, scrive Sonia Oranges su “L’Espresso”. Quarantotto pagine per poco meno di 480 file che, sul sito del ministero della Infrastrutture , raccontano della valanga di consulenze e collaborazioni, spesso ottimamente pagate, di cui si è avvalso in questi anni il dicastero guidato da Maurizio Lupi. Di certo lo era quella di Ercole Incalza, il superdirigente arrestato lunedì scorso per un presunto giro di tangenti sulle grandi opere. Incalza lo scorso anno, ha ricevuto 136mila euro dal ministero per guidare la struttura tecnica di missione: un cococo d’oro, che fa sbiadire la pensione da 60 mila euro annui, pure percepita dal dirigente ora in manette. D’altra parte, la struttura di missione brilla per quantità e consistenza delle consulenze assegnate: circa una Ercole Incalza ventina quelle da 75mila euro annui, destinate a professionisti (soprattutto avvocati e ingegneri) che spesso portano avanti carriere parallele: quelle svolte privatamente, e quelle costruite negli anni all’interno della pubblica amministrazione, con redditi da quadro, senza aver mai vinto alcun concorso. Carriere parallele in cui i confini tra pubblico e privato sono pericolosamente sfumati, almeno a leggere i dettagli dei curriculum. Sergio Mastrangelo è al ministero dal 2011 come esperto, pur essendo presidente di consorzi privati impegnati nella ricostruzione in Abruzzo. Alfredo Cammarano, fino al 2009 è stato dipendente dell’Economia e funzionario apicale del Cipe, poi consulente per il gruppo che doveva costruire una pezzo di autostrada tra l’aeroporto di Grazzanise e la Domitiana, infine consulente delle Infrastrutture. La lista di nomi è lunga. C’è il brindisino Donato Caiulo che da dirigente del porto pugliese finì pure lui in un’inchiesta sul rigassificatore. C’è un manager dell’information technology come Domenico De Rinaldis che contemporaneamente lavora anche con il ministero dello Sviluppo economico, e c’è l’avvocato Massimo Ricchi, pedeegree forense maturato nello studio di Giuseppe Consolo, che si è già sperimentato al Cipe e al ministero della Giustizia. Ma anche negli altri settori del ministero, gli appannaggi dei collaboratori non lasciano a desiderare. Di certo non si lamenta Nicola Bonaduce, consigliere per gli affari regionali di Lupi, già suo capo segreteria alla Camera e con un passato milanese a dirigere le relazioni istituzionali della Compagnia delle Opere: porta a casa un compenso da 90mila euro l’anno, che arrotonda con i 28mila euro provenienti dall’incarico di consigliere di indirizzo dell’Istituto nazionale di Ricovero e Cura degli Anziani. Che nulla hanno a che fare con ponti, strade e porti, ma poco importa nella logica dei giri di poltrone del palazzo. Rocco Girlanda La stessa logica che spiega la permanenza al ministero delle Infrastrutture di Rocco Girlanda, pure lui indagato nell’ultimo scandalo delle opere pubbliche. Nel dicastero era sottosegretario forzista durante il governo Letta, e quando gli azzurri abbandonarono il governo, preferì lasciare gli azzurri ed entrare in Ncd, conservando la poltrona. E se il cambio della guardia a Palazzo Chigi gli è costato il sottogoverno, alle Infrastrutture è rimasto lo stesso. Come consulente “esperto per l'approfondimento delle problematiche inerenti l'autotrasporto ed il trasporto merci e concernenti il miglioramento dell'efficienza del trasporto pubblico locale, nonché per i rapporti con il Cipe”, per un corrispettivo di 60mila euro annui. Netti.

Tangenti grandi opere, Giulio Burchi: "La spartizione delle direzioni lavoro, una delle vergogne di questo paese", scrive Claudia Fusani su L'Huffington Post. Passerà alla storia per quel grido “Ercole, Ercolino (Incalza, ndr), che decide tutto lui, al 100%i” condiviso con l’amico imprenditore al telefono.. Oppure per l’altra: “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento”. O magari per quella straordinaria ammissione: “I soldi che ho guadagnato a stare in questo Paese di merda deregolarizzato…”. Ogni inchiesta regala uno o più personaggi, una o più frasi destinati ad entrare nella cronaca. E quindi nella storia. Pennellate gergali che hanno il potere di spiegare più di mille pagine di atti giudiziari. Nei faldoni di “Sistema”, l’inchiesta della procura e del Ros di Firenze sulla “Cricca delle Grandi Opere” (o della Struttura tecnica di missione) si ritaglia un ruolo molto particolare Giulio Burchi, imprenditore modenese di 65 anni (li ha compiuti proprio in questi giorni) che forse è azzardato chiamare “compagno” ma certo vanta una buona amicizia con un compagno storico come Ugo Sposetti. Il “compagno” Burchi, dunque. Dal punto di vista giudiziario ha un ruolo abbastanza defilato tra gli oltre cinquanta indagati. E’ indagato per false fatturazioni (200 mila euro) e traffico di influenze (346 bis cp), uno dei nuovi reati contro la corruzione introdotti dalla famosissima legge Severino. Burchi avrebbe cioè utilizzato le proprie conoscenze per ottenere la direzione dei lavori di un tratto (20 km) della Salerno-Reggio Calabria. Eppure, nonostante la marginalità, è quasi un Virgilio che accompagna gli investigatori nella selva oscura della Struttura di missione. Colui che, essendoci dentro da anni, ne rivela nelle intercettazioni presunti meccanismi e segreti. Con una caratteristica: il compagno Burchi odia e ama il sistema. Scrivono i pm fiorentini Turco, Mione e Monferini: “Benchè in numerose conversazioni intercettate Burchi non perda occasione per stigmatizzare il rapporto illecito tra Ercole Incalza e Stefano Perotti, è un soggetto perfettamente inserito nel sistema illecito”. Quando si ha notizia dei primi arresti per Expo tra cui quello di Antonio Acerbo, il sub commissario di Expo, Burchi ammette: “Anch’io ho fatto compromessi ma i soldi che ho guadagnato a stare in questo paese di merda deregolarizzato non li avrei mai potuti guadagnare in Inghilterra o in America”. Una gola profonda. A sua insaputa. Il “compagno” Burchi, ad esempio, è il primo ad indicare agli investigatori il buco nero dell’inchiesta, dove nasce il malaffare nella cricca della Struttura di missione. Il 5 giugno 2014, commentando le notizie sull'indagine della Procura di Venezia sul Mose, afferma: “Ci sono due elementi che sono assolutamente non procrastinabili, togliere dalla Legge Obiettivo il fatto che il general contractor possa nominarsi il direttore dei lavori”. E’ quello che i pm chiameranno “il grimaldello del collaudato sodalizio criminale: “Una direzione dei lavori siffatta, dove il controllore è per contratto anche il controllato, è lo strumento che fa transitare su società e soggetti privati enormi somme di denaro (per compensi non inferiori all’1% dell’importo dei lavori appaltati, ma in molti casi fino addirittura al 3%), prive di sostanziale giustificazione ed inquadrabili nel prezzo di una dazione corruttiva”. Detto in modo ancora più chiaro, “utilità illecite in favore del sodalizio medesimo costituite dal conferimento dell’incarico professionale di direzione lavori e spesso da una miriade di assunzioni o consulenze collaterali alla gestione dell’appalto, del tutto fittizi, in favore di amici degli amici del pubblico ufficiale o di suoi prestanome o accoliti”. Così, in un’intercettazione del 21 ottobre 2014, Burchi dice: “La spartizione fantastica di queste direzioni lavori commissionate dai general contractor è una delle vergogne grandi di questo Paese perché affidando alle stesse imprese la direzione dei lavori hai depotenziato la funzione di controllo dello Stato. Una cosa che se tu la spieghi ad un inglese non ci riesci ... Un mio amico inglese mi ha detto che non era possibile, che mi sbagliavo”. Ecco perché i pm definiscono “ricordo quasi patetico le mazzette” rispetto alla “moderna prassi corruttiva” dove i “professionisti nominati direttori dei lavori (nell’inchiesta Sistema è il caso dell’ingegnere Perotti, ndr) e gli stessi funzionari (l’ingegnere e dirigente generale del ministero Ercole Incalza e suoi sodali, ndr) fanno parte di un’unica compagine criminale che condivide strategie, azioni e proventi illeciti”. Giulio Burchi è un supermanager dai molti incarichi: presidente del consiglio di amministrazione di Italferr spa dal 2004 al 2007, siede in diversi cda (la Autocamionabile della Cisa spa; autostrade lombarde; società di progetto autostrada diretta Brescia Milano; serenissima A4) anche di partecipate miste ed è referente della Siteco s.r.l. (servizi di engineering e di consulenza tecnica), e della “Siteco Informatica s.r.l.”. È stato anche socio dell’invidiatissimo “Perottino”(Stefano Perotti, arrestato con Incalza, Cavallo e Pacella) che definisce “il loro uomo su tutto”, quello che ha preso “diciassette direzioni lavori sempre con lo stesso sistema” ma che è vissuto nell’ambiente come “una spina nell’occhio” perché “Incalza glielo ha fatto digerire in molte situazioni in cui ne avrebbero fatto anche a meno”. Nelle numerose intercettazioni i pm rintracciano il filo rosso di una prassi volta “inequivocabilmente a procurarsi false fatture per abbattere gli utili”. Questo per testimoniare l’originalità e l’affidabilità della gola profonda. Che infatti rivela vari aspetti del sistema. Quello dei figli, ad esempio: il figlio di Acerbo che si scambia incarichi e consulenze con il padre ex numero 2 di Expo; il figlio di Lupi, di alcuni amici del giovane ingegnere e di altri figli di dirigenti del ministero che beneficiano di posti di lavoro. Burchi è una fonte preziosa anche nel raccontare un altro effetto collaterale dell’inchiesta Sistema: la ricerca di posti di lavoro. “Non faccio altro che fare l’ufficio di collocamento” dice al telefono con l’amico Ugo Sposetti (il senatore Pd che a sua volta in questi giorni ha paragonato “alla Caritas” il suo interessamento “per persone che hanno bisogno”). Burchi si attiva spesso per trovare posti e incarichi in favore di persone indicate da Sposetti o dal viceministro alle Infrastrutture Riccardo Nencini il quale “scrivono i pm, s’interfaccia con il Burchi tramite l'ex parlamentare Mauro Del Bue”. Il 3 aprile 2014 il supermanager chiede a Del Bue di procurargli un appuntamento con Nencini. Subito dopo Del Bue chiede a Burchi: “Tu potresti dargli qualche contributo di questo tipo anche a Nencini, ci sono delle nomine da fare in giro, ci interessa sistemare due o tre persone in qualche ente”. Altre intercettazioni spiegano che in effetti Burchi ha chiesto a più soggetti, tra cui il viceministro, un intervento per una nomina in Terna. Il 17 maggio 2014 sempre Burchi dice al telefono: “Sistemare uno in un collegio, mi può essere utile, Riccardo Nencini è vice ministro”. Magari sono solo millanterie ma è significativo di come ragionano gli uomini della cricca. Che in certi momenti sembrano non poterne più dello strapotere di Perotti. Il 5 aprile Burchi è al telefono con un altro manager, Giovanni Gaspari. Parlano dell’appalto e delle direzione lavori dell’autostrada in Libia. Perotti vuole e otterrà anche quella. Gaspari auspica qualche intervento di “pulizia”, probabilmente dal governo: “Speriamo che vada avanti, un po’ di pulizia la dovrebbe fare, però non sta pulendo quello che gli altri stanno facendo lì alle Infrastrutture... Lupi & C stanno facendo”.

La Procura di Milano: «Giulio Tremonti corrotto». Ecco le accuse. Richiesta dei pm al Senato: l'ex ministro va processato per corruzione. Nel mirino una tangente da 2,5 milioni su un affare miliardario di Finmeccanica, mascherata da parcella del suo studio professionale. Le ammissioni del suo ex braccio destro, Marco Milanese, e degli altri faccendieri arrestati, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Un grande ministro. Il suo studio professionale privato. E una parcella da due milioni e mezzo di euro. C'è questo triangolo d'oro alla base dell'inchiesta che ha spinto la Procura di Milano a chiedere al Senato l'autorizzazione a procedere contro Giulio Tremonti. L'ex ministro dell'Economia ora rischia di finire sotto processo per corruzione. In Italia l'unico precedente di questa speciale procedura risale agli anni neri dello scandalo Lockheed. Come qualsiasi altro indagato, Tremonti va considerato innocente e lo rimarrà fino a un'eventuale condanna definitiva. Ma rispetto ai normali cittadini ha un'arma in più: grazie a una legge costituzionale del 1989, i suoi colleghi parlamentari hanno il potere di bloccare con un veto politico il processo contro il senatore Tremonti. L'indagine riguarda un affare del gruppo Finmeccanica che si è rivelato disastroso per le casse dello Stato. Ma ha garantito una ricca parcella allo studio fiscale fondato dal professor Tremonti. Nel 2008 l'azienda statale, allora guidata da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista il gruppo statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo astronomico: 5 miliardi e 200 milioni di dollari, che all'epoca corrispondono a 3,4 miliardi di euro. Oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato: lo Stato italiano ci ha rimesso più di due miliardi di dollari. Tra i consulenti fiscali di quell'operazione spicca lo studio Virtax, di cui è socio fondatore Tremonti, che quando diventa ministro lo affida al suo fidato collega Enrico Vitali. Finmeccanica è una grande società controllata dal governo, che ha il potere di nominare gli amministratori. Inoltre il ministero dell'Economia deve sborsare 250 milioni di euro per l'aumento di capitale necessario a garantire gli imponenti prestiti bancari spesi per comprare Drs. Nel 2008, dunque, sembra a tutti impensabile varare un'operazione così costosa senza l'appoggio di Tremonti. Che infatti vede il numero uno di Finmeccanica ancor prima delle elezioni, quando è già sicura la vittoria di Berlusconi: nel suo interrogatorio, però, Tremonti «non ha memoria» di quel primo incontro con Guarguaglini. La richiesta di autorizzazione a procedere cita numerosi testimoni, già sentiti da diverse procure (Roma, Napoli e Milano) nelle indagini su Finmeccanica: tutti confermano che Tremonti all'inizio è contrario a quell'operazione miliardaria dell'azienda statale. Il problema è che l'ostilità del ministro smette di manifestarsi proprio quando lo studio Virtax ottiene quella consulenza da due milioni e 615 mila euro. La data del contratto di assistenza fiscale con Finmeccanica è veramente imbarazzante: 8 maggio 2008, lo stesso giorno in cui Tremonti diventa ministro del quarto governo Berlusconi. L'indagine, come impone l'apposita legge sui reati commessi dai ministri nell'esercizio dei loro poteri, è stata condotta da tre magistrati estratti a sorte. Riuniti nel cosiddetto «tribunale dei ministri», hanno avuto solo solo 90 giorni di tempo per chiudere l'intera inchiesta. Tremonti intanto ha potuto esaminare tutti gli atti d'accusa, presentare prove a discolpa e farsi interrogare. Ma non ha convinto nessuno dei tre giudici istruttori. Il primo pilastro dell'accusa è il rovesciamento della posizione di Tremonti, che sembra avvenire in perfetta coincidenza con la consulenza fiscale milionaria incassata dal suo studio. Lo testimonia perfino il suo ex braccio destro, Marco Milanese, l'ex parlamentare di Forza Italia già protagonista del caso dei soldi in nero per affittare una casa di lusso per il ministro a Roma: l'indagine romana che ha spinto Tremonti a patteggiare la sua prima condanna per finanziamenti illeciti. Riascoltato dal tribunale dei ministri, Milanese spiega di aver assistito personalmente all'incontro tra il ministro e Guarguaglini. E conferma che all'inizio «Tremonti si lamentava che queste società, tra cui Finmeccanica, andassero a investire all'estero e non in Italia». L'ex braccio destro, già inquisito per le tangenti del Mose di Venezia, non vorrebbe dire di più. Ma quando il tribunale dei ministri gli contesta le dichiarazioni che lui stesso aveva già reso in precedenza ai pm, l'ex onorevole Milanese conferma di aver saputo, dall'interno di Finmeccanica, «che l'affare era stato concluso e che al riguardo della contrarietà con Tremonti avevano trovato una strada... attraverso il coinvolgimento dello studio Vitali». Nello stesso interrogatorio Milanese rivela che il ministro Tremonti, per le comunicazioni più riservate, «non usava il suo telefono, ma prendeva il mio o quello della capo-segreteria». Anche Lorenzo Borgogni, ex responsabile delle relazioni esterne di Finmeccanica, dichiara di aver «accompagnato Guarguaglini allo studio a Roma di Tremonti, che gli domandò come mai non investiva in Italia ma negli Stati Uniti». In quel momento Tremonti non era ancora ministro e secondo Borgogni il suo parere «era molto condizionato dalla Lega», preoccupata per la sorte della fabbrica Agusta che ha sede a Varese, la città di Bossi e Maroni. Sul collegamento tra la parcella e il successivo via libera, invece, Borgogni all'inizio sostiene di non ricordare bene: «Può darsi che abbia detto che sicuramente con un coinvolgimento dello studio, anche il ministero.... la posizione di Tremonti sarebbe stata più in difficoltà». Ma quando gli viene contestato un altro verbale, lo stesso Borgogni finisce per confermare che il movente dell'incarico «era certamente quello di inserire lo studio di Vitali, che poi voleva dire anche Tremonti, nell'orbita delle società che lavoravano per Finmeccanica, e soprattutto in un'acquisizione di questo genere». L'accusa più esplicita arriva da Lorenzo Cola, il faccendiere romano di estrema destra che ai tempi di Guarguaglini era incredibilmente diventato il rappresentante di Finmeccanica nella trattativa miliardaria con gli americani. Cola riassume così la posizione iniziale del ministro: «Gurauaglini mi informò che Tremonti gli disse: “Voi andate a investire questi grandi capitali all'estero, quando noi in questo momento avremmo altre emergenze, tipo Alitalia”». Lo stesso Cola aggiunge che in seguito Guarguaglini (che invece nega tutto) gli rivelò che «per avere il consenso di Tremonti e poter fare l'operazione, era stato necessario dare questa consulenza allo studio professionale». Di consulenze per quell'affare, in effetti, Cola se ne intende: lui stesso ha intascato più di 16 milioni di dollari, che Finmeccanica (azienda statale quotata in borsa) gli ha versato su un conto intestato a una società offshore. L'ex titolare dell'Economia è stato attaccato più volte, durante tutto il ventennio berlusconiano, per i presunti conflitti d'interessi tra l'attività pubblica e quella privata, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro delle tasse con quello di consulente fiscale delle aziende. Ogni volta che è tornato al potere con Berlusconi, in effetti, Tremonti ha lasciato ai suoi partner tutte le attività dello studio, restandone socio esterno, per ridiventarne titolare solo quando non era più ministro. E così nel 2006, nei due anni di governo Prodi, nella sede centrale di via Crocefisso a Milano è tornata la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008, quando è ridiventato ministro, il suo nome è scomparso dall'elenco dei professionisti associati. Anche la consulenza a favore di Finmeccanica, quindi, è stata gestita dal suo socio principale, Enrico Vitali, che aveva fondato lo studio negli anni '80 insieme a Tremonti. Ma i magistrati milanesi ora si sono convinti che quella parcella, benché intestata ad altri, sia stata il prezzo sborsato da Finmeccanica per “comprare” il consenso del ministro. Una tangente ben mascherata con una fattura in apparenza regolare. Il tribunale dei ministri è arrivato a concludere che quella consulenza era fittizia, cioè serviva solo a dare una giustificazione cartacea al passaggio di soldi, anche grazie ad altre deposizioni. Alessandro Pansa, allora direttore generale di Finmeccanica, anche lui ora coinvolto suo malgrado nell'indagine per corruzione, ha dichiarato che fu Guarguaglini a imporgli la scelta dei consulenti fiscali. Ai quali Pansa impose uno sconto: quattro milioni in tutto, anziché i cinque richiesti. A chiudere il cerchio delle testimonianze sono gli altri consulenti di Finmeccanica: i tributaristi italiani della società Ernst & Young. Che confermano di aver dovuto accettare, con imbarazzo, la richiesta di Vitali di incassare la fetta più grande della parcella, cioè due milioni e mezzo. Anche se il lavoro effettivo di consulenza a Finmeccanica l'aveva fatto proprio e soltanto Ernst & Young. Un manager di questa società dichiara testualmente che Vitali e i suoi colleghi «erano puri spettatori», nel senso che «l'intero lavoro» era a carico di Ernst & Young, e quasi si scusa della sua testimonianza, precisando: «Non volevo essere offensivo nei confronti di nessuno, era proprio una constatazione di quello che è veramente accaduto». A questo punto i giudici del tribunale del ministri passano in rassegna tutti i documenti che dovrebbero dimostrare l'effettivo contenuto della consulenza fornita dallo studio fiscale di cui Tremonti è fondatore e comproprietario. Il controllo è possibile perché la Procura di Roma, con il pm Paolo Ielo, ha sequestrato già nel 2010 l'intero dossier Drs nella sede di Finmeccanica. Mentre l'indagato Vitali ha potuto presentare al tribunale tutti gli atti del suo studio. Quindi i giudici milanesi passano in rassegna tutte le carte, una dopo l'altra, ma non trovano neppure un atto dello studio Virtax che possa rappresentare una qualsiasi forma di esecuzione della consulenza contrattata con Finmeccanica. E tantomeno giustificare una parcella da due milioni e mezzo. Ci sono soltanto email, resoconti di riunioni orali e informazioni generiche sulle leggi fiscali americane, scaricabili anche da Internet. Tutti gli atti più importanti sono stati compilati da Ernst & Young: lo studio Virtax, osservano sconsolati i giudici, si è limitato «ad apporre il proprio logo successivamente alla redazione del documento».

Giulio Tremonti: "Mai chiesto nulla a Finmeccanica". La replica dell'ex ministro alla notizia delle indagini avviate dalla procura di MIlano nei sui confronti per presunti reati ministeriali, scrive R.I. su “L’Espresso”. «Non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica. Anche per questo, come sempre, ho assoluta fiducia nella giustizia». Così l'ex ministro Giulio Tremonti ha replicato alla notizia delle indagini avviate dalla procura di Milano. «Ben prima di entrare nel governo, insediatosi venerdì 8 maggio 2008 - spiega Tremonti in una nota - mi sono cancellato dall'ordine degli avvocati e sono uscito dallo studio in base ad atto notarile e perizia contabile. Ci sono rientrato solo nel 2012, un anno dopo la fine del governo, come prescrive la legge. Nel durante ho interrotto tutti i rapporti con lo studio». «L'operazione DRS-Finmeccanica - prosegue - ha interessato e coinvolto la politica industriale e militare di due Stati. Come risulta dai documenti SEC e Consob, l'operazione è iniziata nell'ottobre 2007 ed è stata conclusa lunedì 12 maggio 2008. Anche seguendo il calendario, si può dunque verificare che, per la sua dinamica irreversibile e per la sua natura internazionale, l'operazione non era da parte mia né influenzabile, né modificabile, né strumentalizzabile. In questi termini, non ho mai chiesto o sollecitato nulla ed in nessun modo da Finmeccanica».

Quanti affari col metodo Tremonti. Tre milioni al “suo” studio per sbloccare un’operazione di Finmeccanica: l’ex ministro indagato per corruzione. Ma per i pm anche altri casi sono sospetti. A partire dal Mose, scrive Paolo Biondani su “L’Espresso”. Giulio Tremonti Un grande ministro. Il suo studio privato. E una ricca parcella. C’è un triangolo d’oro alla base dell’inchiesta che ha convinto la Procura di Milano a iscrivere nel registro degli indagati il nome di Giulio Tremonti, per la prima volta accusato di corruzione. L’indagine riguarda un affare di Stato: una colossale acquisizione decisa nel 2008 dall’allora vertice del gruppo Finmeccanica, che si è poi rivelata disastrosa per le casse pubbliche. Ma che in compenso ha garantito una parcella invidiabile allo studio tributario fondato dal professor Tremonti. Ricostruendo quell’operazione, i magistrati hanno acceso un faro su un presunto schema corruttivo: il sospetto è che possa aver funzionato anche in altri casi clamorosi. Dall’intrigo fiscale Bell-Telecom ai finanziamenti-scandalo per il Mose di Venezia. Un quadro che ha portato i pm ad approfondire anche altre indagini collegate, per verificare un’ipotesi d’accusa più ampia: una sorta di “sistema Tremonti”. Per ora la Procura di Milano ha fatto partire solo la prima procedura di messa in stato d’accusa davanti al tribunale dei ministri, che riguarda una presunta triangolazione tra l’allora ministro dell’Economia, lo studio professionale da lui fondato e il gruppo Finmeccanica. Nel maggio 2008 quel colosso statale, allora guidato da Pierfrancesco Guarguaglini, acquista la holding statunitense Drs, che è un grande fornitore di tecnologie militari, per un prezzo senza precedenti: 5 miliardi e 200 milioni di dollari. Tra i consulenti di quell’acquisizione compare lo studio Vitali, Romagnoli, Picardi & associati, che ha come socio fondatore proprio Tremonti. Finmeccanica versa a quello studio una parcella netta di due milioni e 400 mila euro, quasi tre con l’Iva. L’azienda statale è controllata dal governo, che nomina i dirigenti, per cui è impensabile varare un’operazione così costosa senza il via libera del ministero dell’Economia. Durante le trattative, secondo la ricostruzione dei magistrati, Tremonti si dichiara contrario. Ma all’improvviso diventa favorevole, proprio alla vigilia dell’accordo. E ora si scopre che, pochissimi giorni prima di questo “ribaltone”, il socio più importante dello studio da lui fondato aveva siglato quella ricca consulenza con Finmeccanica. Per un affare indubbiamente sbagliato: oggi il valore del gruppo americano si è quasi dimezzato. A conti fatti, lo Stato italiano ci ha perso più di due miliardi di dollari. L’accusa di corruzione è stata formalizzata dai pm Roberto Pellicano e Giovanni Polizzi dopo un vertice con il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati, che ha esaminato gli atti e autorizzato l’iscrizione. Gli indizi finora raccolti hanno convinto i magistrati, in sostanza, che quella parcella milionaria fosse la vera spiegazione del cambio di linea del ministro Tremonti.  L’ex titolare dell’Economia era stato attaccato più volte, nel ventennio berlusconiano, per gli ipotetici conflitti d’interessi legati al suo studio, ma ha sempre replicato di non aver mai mescolato il suo ruolo di ministro con la sua professione privata. Ogni volta che è tornato al governo, infatti, Tremonti ha sempre rivendicato di aver lasciato ai suoi partner tutte le consulenze dello studio, restandone socio dall’esterno, per ridiventarne titolare solo dopo aver perso la carica. E così nel 2006, durante il governo Prodi, nella sede di via Crocefisso a Milano era ricomparsa la sigla «studio Tremonti», ma nel 2008 il suo nome è sparito dalla lista dei professionisti. La consulenza per Finmeccanica sarebbe stata gestita, in particolare, dal suo socio più fidato, Enrico Vitali, che fondò lo studio insieme a lui negli anni Ottanta. Ma ora i magistrati avanzano l’ipotesi che quella parcella intestata al collega nascondesse il prezzo pagato da Finmeccanica per “comprare” il sì del ministro. Tra gli atti d’accusa ora inviati al tribunale dei ministri, compaiono anche gli interrogatori di Marco Milanese, che è stato il braccio destro di Tremonti per un decennio. Arrestato per corruzione per l’inchiesta sul Mose di Venezia, Milanese ha confermato che Tremonti era contrario all’affare Drs, ma cambiò idea in circostanze poco chiare. Il sospetto di una consulenza fittizia, secondo l’accusa, troverebbe riscontro anche nei tempi strettissimi: Finmeccanica avrebbe affidato l’incarico allo studio dei soci di Tremonti appena cinque giorni prima di siglare l’acquisizione. Le anomalie dell’affare e i dubbi sulla consulenza-lampo verrebbero indirettamente riscontrati anche da altri testimoni d’accusa, come Alessandro Pansa, il manager che sostituì Guarguaglini, e gli altri consulenti di Finmeccanica, soprattutto i tributaristi italiani della Ernst & Young. Ora Tremonti potrà difendersi davanti al cosiddetto tribunale dei ministri, composto da tre giudici estratti a sorte. La procedura è regolata da una legge costituzionale del 1989, che è molto singolare: di fronte a un possibile reato commesso da un ministro, le procure hanno il divieto di trovare prove. «Omessa ogni indagine», come impone quella legge, possono soltanto avvisare l’indagato. È la stessa procedura finora applicata soltanto all’ex ministro Altero Matteoli, accusato di corruzione nell’inchiesta sulle bonifiche-scandalo della Laguna di Venezia. L’inchiesta su Tremonti è nata dalle istruttorie delle Procure di Napoli e Roma sul gruppo Finmeccanica, che avevano svelato il ruolo di Lorenzo Cola, un faccendiere che nell’era di Guarguaglini era diventato un’eminenza grigia. Intercettandolo, si è scoperto che proprio lui gestì la trattativa miliardaria su Drs, fissandone il prezzo senza alcuna verifica indipendente (in gergo, “due diligence”). Per la sua mediazione non ufficiale, pure Cola sarebbe riuscito a farsi pagare da Finmeccanica una consulenza da favola: 16 milioni e mezzo di dollari, che l’azienda statale gli avrebbe versato addirittura su un conto offshore, nascosto al fisco. Nell’aprile scorso, quando “Il Fatto Quotidiano” pubblicò le prime indiscrezioni sull’affare Drs, Tremonti si dichiarò all’oscuro di tutto: «Non so nulla». Ma a questo punto i magistrati stanno valutando se sia necessario trasmettere al tribunale ministeriale anche il fascicolo sulla tangente da mezzo milione che gli industriali del Mose di Venezia hanno ormai confessato di aver versato a Marco Milanese. Quella mazzetta, nella primavera 2010, ebbe il sicuro effetto di sbloccare centinaia di milioni di fondi pubblici in precedenza fermati dal ministro. E l’ordine di pagare Milanese, secondo il manager pentito Piergiorgio Baita, sarebbe venuto dal grande capo del Consorzio, Giovanni Mazzacurati, «dopo un incontro con Tremonti a Roma». Finora l’ex ministro aveva avuto pochissimi guai giudiziari: l’anno scorso ha dovuto patteggiare un’accusa di finanziamento illecito, a Roma, per l’affitto in nero della lussuosa residenza che gli aveva procurato proprio Milanese. Gli stessi pm lombardi del caso Finmeccanica però stanno tenendo aperta anche l’inchiesta sulla Bell, la cassaforte lussemburghese della scalata a Telecom, che era difesa dallo studio Tremonti. I suoi soci italiani furono costretti a pagare le prime tasse in Italia solo nel 2007, dopo il ritorno al governo di Prodi e Visco, versando al fisco ben 156 milioni di euro. Un altro incrocio pericoloso tra Tremonti, il ministero e lo studio tributario su cui ora i magistrati vogliono accendere nuove luci.

TANGENTOPOLI E L’ELUSIONE DELLA GARA CON LA DIVISIONE DEGLI INCARICHI.

Giuseppe Ferrandino era già nel mirino di Raffaele Cantone: affidava lavori senza appalti. L'autority Anticorruzione si era già occupata del comune di Ischia, scoprendo che in modo "ricorrente e praticamente sistematico" eludeva l'obbligo di ricorrere alle gare, spezzettando gli incarichi (e i soldi) in tanti piccoli lotti. "Una procedura in contrasto con la legge", scrisse il presidente sei mesi fa, scrive Susanna Turco su “L’Espresso” il 3 aprile 2015. Lavori affidati evitando le gare d’appalto. Un sistema che lottizzava gli incarichi per le opere pubbliche, distribuendoli a pioggia, senza un disegno unitario e in contrasto con la legge. Scarso rigore nelle procedure, nessuna voglia di animare una sana concorrenza. Già mesi fa, prima che esplodesse l’inchiesta sulla metanizzazione di Ischia, il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone aveva avuto modo di occuparsi del comune guidato da Giuseppe Giosi Ferrandino, ora in carcere. E non certo per fargli i complimenti. La lente dell’ex magistrato e del consiglio dell’Anac si è posata sui criteri di affidamento degli incarichi per rifare scuole strade, palestre e altre opere pubbliche di Ischia. Incrociando nomi, cifre e opere, ha scoperto che il comune attuava una sorta di divide et impera: soldi distribuiti a destra e sinistra, affidando direttamente gli incarichi senza passare da gare e concorsi.  Atti e materiale di una certa rilevanza: tanto che Cantone ha doverosamente mandato il fascicolo alla procura di Napoli. Tutto è cominciato  un paio d’anni fa, con la segnalazione alla Prefettura di Napoli da parte del consigliere comunale di Ischia Carmine Bernardo. Da Napoli, hanno poi richiesto all’Avcp (ora inglobata nell’Anac) di fare una valutazione complessiva sulla legittimità delle procedure, tra il 2009 e il 2012. Dall’analisi del dossier, come risulta dall’atto depositato il 29 ottobre 2014,  è venuto fuori che in modo “ricorrente e praticamente sistematico”, il comune ha spacchettato i vari interventi che riguardavano un edificio, impianto sportivo o area urbana, in modo tale che lo stesso “oggetto” risulta affidato più volte, a più imprese, per effettuare lavori leggermente diversi gli uni dagli altri. Per esempio, dicono le carte, il campo sportivo Mazzella è oggetto di cinque diversi affidamenti tra il 2009 e il 2010. Gli incarichi formali differiscono di poco gli uni dagli altri: riguardano tutti, in un modo o nell’altro “l’adeguamento e la messa a norma” (o “in sicurezza”) del campo; solo che in un caso si tratta della “progettazione”, nell’altro della “direzione dei lavori”, in un terzo della “fase di esecuzione”, oppure di “opere di completamento” o ancora di “opere complementari”. Una ricchezza lessicale grazie alla quale gli incarichi risultano tutti diversi, non perfettamente sovrapponibili; eppure riguardano sempre lo stesso campo sportivo. Non si poteva fare un intervento unico? Certo, si poteva. Solo che sarebbe stata necessaria una gara d’appalto, perché la pubblica amministrazione può affidare direttamente un lavoro soltanto se l’importo dell’opera non supera i 40 mila euro complessivi (prima erano 20 mila). E al comune di Ischia non piace superare quel limite. Preferisce di gran lunga dare 19 mila euro a quattro imprese diverse, piuttosto che 80 mila euro a una sola, ma dopo una gara pubblica. Così, si deduce dalle cifre pubblicate, è accaduto per il campo sportivo Mazzella, per il quale l’amministrazione ha speso in cinque tranche un totale di 81 mila euro. Ma non è l’unico esempio che Cantone riporta: per le varie opere di “manutenzione straordinaria e riqualificazione” di via Iasolino, si superano i 40 mila euro (ma gli affidi sono spezzettati in tre); per le “opere di ingegneria” sulla scuola media Scotti si superano i 56 mila euro (ma spezzettati  in cinque affidi). Insomma, conclude l’Anticorruzione: “Tali modalità di affidamento, che appaiono tra l’altro in contrasto con l’esigenza tecnica di un’attività unitaria per la progettazione e conduzione dell’opera, hanno determinato, limitando i corrispettivi per le prestazioni affidate a importi sempre inferiori a 20.000 euro, procedure di affidamento meno rigorose di quanto di fatto richiesto ove si fosse considerato l’intervento unitario”. Meno rigore nelle procedure, e lavori che alla fine rischiano di essere meno coerenti. La stessa passione per la parcellizzazione, nota l’Autorità, il Comune la nutre non solo pre le prestazioni professionali e i relativi lavori, ma pure gli appalti. Tra il 2008 e il 2013, per esempio, sempre per la scuola Scotti ha avviato ben nove procedure d’appalto, per un importo a base d’asta che complessivamente supera di molto il milione di euro. Eppure si tratta, complessivamente, di attuare l’adeguamento normativo (misure antincendio, abbattimento delle barriere architettoniche, manutenzione straordinaria, eccetera) del medesimo complesso architettonico. Nelle sue controdeduzioni di fronte all’Autorità, il comune ha argomentato che si è trattato di “singoli interventi autonomamente finanziati”,  per anni diversi, “in alcuni casi anche da Enti diversi”, e quindi “con modalità e tempi di attuazione differenti”, e che rispondono a “finalità autonome e specifiche derivanti dalle singole leggi”. Insomma: ciascun intervento fa storia a sé, non si sarebbero potuti accorpare, e in alcuni casi “non si potevano assolutamente prevedere”. Motivazioni che però non hanno convinto del tutto Cantone: “Non sono state fornite specifiche e puntuali motivazioni che avrebbero impedito una più razionale visione di insieme delle esigenze di intervento”, scrive  in conclusione il presidente dell’Anticorruzione. “Di contro emerge il carattere ricorrente e praticamente sistematico della fattispecie rilevata, che ha determinato l’assenza di procedure concorsuali”,  un “modus operandi che appare di fatto elusivo di procedure di affidamento più rigorose che sarebbero state, invece necessarie, ove si fosse considerato l’importo complessivo degli incarichi da affidare al medesimo professionista”. Insomma, materiale buono per i magistrati, se riterranno doversene occupare.

SE SGARRI A PARLARE, I MANETTARI TI QUERELANO.

Facci massacra Travaglio: querela tutti (pure un morto) e perde, scrive “Libero Quotidiano”. Mettetevi seduti. Il collega Marco Travaglio e il suo avvocato Caterina Malavenda hanno querelato la bellezza di 49 articoli del Giornale tutti insieme, più altri dei siti Dagospia e Macchianera: e cioè 27 articoli miei, 3 di Gian Marco Chiocci, 3 di Maria Giovanna Maglie, 2 di Alessandro Sallusti, 2 di Mario Giordano, 2 di Paolo Bracalini, 2 di Paolo Granzotto, più 1 a cranio scritti da Vittorio Feltri, Vittorio Sgarbi, Alessandro Caprettini, Francesco Cramer, Renato Farina, Cristiano Gatti, Gianni Pennacchi (che al momento della querela era morto da due anni) più la missiva di un lettore, Renato Niccodemo. Ho scritto «querelato» per comodità, ma era una causa civile (che punta direttamente ai soldi) la quale il 14 febbraio 2011 è stata intentata principalmente al Giornale e che mirava a 400mila euro di risarcimento più la pubblicazione della sentenza su tre quotidiani, a caratteri doppi del normale. I soldi dovevano ristorare la sofferenza di Marco Travaglio in quanto da marzo 2008 a dicembre 2009 - si legge - «con cadenza giornaliera è stato oggetto di attacchi diffamatori, insulti personali e notizie false e denigratorie». La causa-querela per diffamazione vantava 57 allegati e citava il sottoscritto quale «giornalista che si è distinto per numero e gratuità degli attacchi nei confronti di Travaglio... Una vera e propria campagna di stampa, della quale Facci rappresenta la punta di diamante, ma che trova in editorialisti e giornalisti il necessario compendio». In altre parole io avrei rivolto «epiteti offensivi» nonché «false informazioni circa vacanze trascorse con persona indicata come favoreggiatore di mafiosi», oltre ad averlo indicato «quale portavoce di uomini politici e magistrati». Com’è finita? Ci limitiamo ai dati secchi e ci asteniamo dal commentare: anche se la tentazione sarebbe forte. La sentenza ha negato un risarcimento e ha stabilito che anche «la richiesta di pubblicazione della sentenza deve essere rigettata», mentre le spese processuali s’intendono «integralmente compensate tra le parti». La sentenza è passata in giudicato perché sono scaduti i termini per l’impugnazione, ma questo dopo che le parti (gli avvocati) hanno raggiunto un accordo affinché ai querelanti siano rifuse le spese legali. Il giudice Serena Baccolini, il 5 marzo 2014, ha infatti deciso che «la domanda risarcitoria deve essere rigettata» in quanto Travaglio & Malavenda hanno chiesto soldi «senza argomentare in ordine alla sussistenza del pregiudizio patito», giacché «spetta a colui che chiede il risarcimento offrire la prova dell’evento dannoso e dei pregiudizi conseguenti». Cioè: fare una causa semplicemente ammassando articoli scritti contro Travaglio («introdurre un contenzioso caratterizzato da una pluralità di condotte») comportava perlomeno che il giornalista allegasse «l’incidenza lesiva dei singoli scritti...». Insomma, Travaglio doveva anche spiegarli, questi danni patiti, ergo descriverli al giudice: altrimenti qualcuno potrebbe pensare che volesse soltanto lucrare querelando dei suoi colleghi, gente che, oltretutto, non ha mai querelato lui, nonostante il linguaggio che adotta regolarmente. I legali dei querelati, su questo, si sono anche permessi di fare dei chiari esempi «di come Travaglio si rivolge a terzi», in particolare contro Facci, Feltri e Belpietro. Non dispiacerà se omettiamo. Va detto che, tra i 49 articoli descritti nella citazione, il giudice ha intravisto solo tre casi (3) in cui a suo dire è stato «violato il principio della continenza formale»: due sono miei (12 maggio 2008 e 1° maggio 2009) e uno è di Renato Farina (15 dicembre 2009). Eviteremo di ripetere le tre espressioni che il giudice ha ritenuto diffamatorie. Per signorilità, tuttavia, eviteremo di ripetere anche tutte quante le espressioni che, in 46 articoli su 49, non sono state ritenute diffamatorie. Poco importa che sostantivi all’apparenza innocui («fighetta», «scarabeo», «becchino») siano state giudicate «legittimo esercizio del diritto di critica». Altri contenuti però riportano a fatti accaduti o a questioni ricorrenti, e il contenuto della sentenza va comunque registrato: se non altro, anche qui, per legittimo esercizio del diritto di cronaca e di critica, e fermo restando che le sentenze non possono essere, al di là delle abitudini di Travaglio, gli unici parametri a cui guardare. In vari articoli dello scrivente, per esempio, si citava la vacanza trascorsa da Marco Travaglio con il maresciallo della Dia Giuseppe Ciuro, inquisito per favoreggiamento di un mafioso: secondo la sentenza, «il fatto è vero per pacifica ammissione anche dell’attore, e non è controverso che Ciuro sia stato arrestato nel novembre 2003 per favoreggiamento nei termini indicati. L’articolo nasce come risposta alle dichiarazioni di Travaglio sulle dedotte frequentazioni dell’on. Schifani... La circostanza riferita da Facci, sempre relativamente alla vacanza trascorsa da Travaglio in una struttura sottoposta ad amministrazione con sottrazione alla proprietà, è vera». E su questo non ci piove. Secondo il giudice, poi, si può scrivere che Travaglio è un «pregiudicato» (16 ottobre 2008: «Facci, accostando genericamente il termine “pregiudicato” a condanne penali e a condanne in sede civile, e con il ricorso del virgolettato, ne fa intendere ai lettori l’uso non tecnico, mentre del tutto irrilevanti risultano le dedotte inesattezze sulla prescrizione del reato in cui avrebbe potuto incorrere Travaglio»). Ma su questo, paradossalmente, non siamo neppure completamente d’accordo col giudice, anche se ci dà ragione: vero è che la sentenza non fa giurisprudenza - perché non ha il sigillo della Cassazione - ma ci lascia perplessi che un giudice possa valutare come meramente «non tecnica» l’adozione del termine «pregiudicato» per un condannato in sede civile, quale era Travaglio. Le condanne di Travaglio in sede penale sono un altro discorso. Ci sono poi, ancora, varie espressioni ritenute lecite dal giudice e che attengono soltanto a «un giudizio di Facci sull’attività di Travaglio nel mondo del giornalismo». Ripetere queste espressioni, ora, sarebbe stucchevole. In futuro, ci si limiterà a riusarle.