Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

 

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

 

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

GOVERNOPOLI

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

L’ITALIA DEL MALGOVERNO,

OSSIA, LA POLITICA COME ESEMPIO DI MORALITA’

 

 

TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).

 

  

"Art. 1 della Costituzione: L’ Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro (non sulla libertà e la giustizia). La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione. (I limiti stabiliti al potere popolare indicano una sudditanza al sistema di potere. Il potere popolare è delegato ai Parlamentari e agli organi da questi nominati: Presidente della Repubblica, Governo, organi di Garanzia e Controllo. La Magistratura è solo un Ordine Costituzionale: non ha un potere delegato, ma una funzione attribuita per pubblico concorso. In realtà si comporta come Dio in terra: giudica, ingiudicata).

Un'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobby, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere. La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione.

l'Italia sia una repubblica democratica e federale fondata sulla Libertà e la Giustizia. I cittadini siano tutti uguali e solidali.

I rapporti tra cittadini e tra cittadini e Stato siano regolati da un numero ragionevole di leggi, chiare e coercitive.

Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.

Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.

Sia garantita a tutti ogni garanzia di accesso al credito per meritevoli finalità economiche o bisogni familiari necessari.

Sia libera ogni attività economica, professionale, sociale, culturale e religiosa. Il sistema scolastico o universitario assicuri l'adeguata competenza, senza vincoli professionali di Albi, Ordini, Collegi, ecc. Il libero mercato garantirà il merito. Le scuole o le università siano rappresentate da un preside o un rettore eletti dagli studenti o dai genitori dei minori. Il preside o il rettore nomini i suoi collaboratori, rispondendo delle loro azioni.

Lo Stato assicuri ai cittadini ogni mezzo per una vita dignitosa.

Ai disabili sia garantita l'accessibilità, l'adattabilità e la visibilità dei luoghi di transito o stazionamento.

Il lavoro subordinato pubblico e privato sia remunerato secondo efficienza e competenza.

Lo Stato chieda ai cittadini il pagamento di un unico tributo, secondo il suo fabbisogno, sulla base della contabilità centralizzata desunta dai dati incrociati forniti telematicamente dai contribuenti, con deduzioni proporzionali e detrazioni totali. Agli evasori siano confiscati tutti i beni. Lo Stato assicuri a Regioni e Comuni il sostentamento e lo sviluppo.

Sia libera la parola, con diritto di critica, di cronaca, d'informare e di essere informati, così come sia libero l'esercizio della stampa da vincoli di Albi, Ordini e collegi.

I senatori e i deputati, il capo del governo, i magistrati, i difensori civici siano eletti dai cittadini con vincolo di mandato. Essi rappresentino, amministrino, giudichino e difendano secondo imparzialità, legalità ed efficienza in nome, per conto e nell'interesse dei cittadini. Essi siano responsabili delle loro azioni e giudicati e condannati. Gli amministratori pubblici nominino i loro collaboratori, rispondendone del loro operato.

Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico.

Il Parlamento voti e promulghi le leggi propositive e abrogative proposte dal Governo, da uno o più parlamentari, da una Regione, da un comitato di cittadini".  

di Antonio Giangrande

 

  

 

SOMMARIO I PARTE

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande).

INTRODUZIONE

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

ITALIA. DEMOCRAZIA COL BROGLIO.

AI MIEI TEMPI...AI MIEI TEMPI...

COS’E’ LA POLITICA OGGI?

LA LUNGA STORIA DEI POPULISMI.

IL POLITICAMENTE CORRETTO. LA NUOVA RELIGIONE DELLA SINISTRA.

PARLIAMO DI LEGALITA'. LA REPUBBLICA DI ZALONE E DI FICARRA E PICONE.

LA MORALITA' DEGLI UOMINI SUPERIORI.

A MIA INSAPUTA. QUELLI CHE NON SANNO.

L’ITALIA E LE RIVOLUZIONI A META’.

C'ERA UNA VOLTA LA SINISTRA. LA SINISTRA E' MORTA.

LA DIFFERENZA TRA LA POLITICA DEI MODERATI E L'INTERESSE PRIVATO DEI COMUNISTI.

IL TRAVESTITISMO.

C'ERA UNA VOLTA LA DESTRA.

C’ERANO UNA VOLTA I LIBERALI.

LA RIVOLUZIONE CULTURALE DA TENCO A PASOLINI, DA TOTO’ A BONCOMPAGNI.

MAI NULLA CAMBIA. 1968: TRAGICA ILLUSIONE.

1977: LA RIVOLUZIONE ANTICOMUNISTA.

FASCISTI-COMUNISTI PER SEMPRE.

L'ITALIA ANTIFASCISTA. 

MALEDETTO 25 APRILE.

PRIMO MAGGIO. FESTA DEI LAVORATORI: SOLITA LITURGIA STANTIA ED IPOCRITA.

LA FINE DELLA DEMOCRAZIA.

IL COMUNISMO, IL FASCISMO ED I 5 STELLE: LA POLITICA COL VINCOLO DI MANDATO.

DEMOCRAZIA: LA DITTATURA DELLE MINORANZE.

LE DONNE (DI IERI E DI OGGI) PIÙ IMPORTANTI E BELLE DELLA POLITICA ITALIANA.

GLI ULTIMI 25 ANNI DEGLI ITALIANI.

IL LIMBO LEGISLATIVO. LE LEGGI TEORICHE.

LA REPUBBLICA GIUDIZIARIA, ASPETTANDO LA TERZA REPUBBLICA.

IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.

STORIA DELL’AMNISTIA.

I TRADITORI, OSSIA I FRANCHI TIRATORI.

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

LA DEMERITOCRAZIA.

IN QUESTO MONDO DI LADRI.

CHI FA LE LEGGI? 

I PEONES DEL PARLAMENTO. 

"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.

MAFIA, PALAZZI E POTERE.

MAFIA DEMOCRATICA.

BUROCRAZIA. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!

LA LIBERTA'.

LA DEMOCRAZIA E' PASSATA DI MODA?

A PROPOSITO DI TIRANNIDE. COME E QUANDO E' MORTO HITLER?

L'ANTIPOLITICA E L'ASTENSIONISMO.

L’ANTIPOLITICA E LE SUE VITTIME. IL PACIFISMO.

IL PARTITO INVISIBILE. ASTENSIONISMO, VOTO MIGRANTE E VOTO DI PROTESTA: I MOTIVI DI UNA DEMOCRAZIA INESISTENTE.

E’ STATO LA MAFIA!

ITALIA MAFIOSA. IL PAESE DEI COMUNI SCIOLTI PER MAFIA SE AMMINISTRATI DALL’OPPOSIZIONE DI GOVERNO.

LEZIONE DI MAFIA.

DEMOCRAZIA A SINISTRA. VOTI TRUCCATI, ELEZIONI TAROCCATE.

I DEBITI SI PAGANO, ANCHE IN GRECIA !!!

POLITICA E SPETTACOLO: DIETRO LA MASCHERA C'E' IL NULLA.

E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.

IL MONDO SEGRETO DEGLI ITALIOTI.

IL MONDO SEGRETO DELLE CASTE E DELLE LOBBIES.

IL MONDO DEI TRASFORMISTI.

IL MONDO DELLE CRICCHE.

I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.

PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.

POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.

LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.

TUTTI DENTRO CAZZO!

LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.

ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.

STATO DI DIRITTO?

CHI E’ IL POLITICO?

CHI E’ L’AVVOCATO?

DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?

DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.

CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.

2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.

ITALIA DA VERGOGNA.

ITALIA BARONALE.

CASA ITALIA.

ITALIA.  SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.

LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.

ITALIA: PAESE ZOPPO.

QUANDO I BUONI TRADISCONO.

DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.

FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.

ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.

ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.

QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?

LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.

27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.

FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.

LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.

LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.

SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.

MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.

LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.

UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?

FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.

LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?

L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.

L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.

PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.

NON VI REGGO PIU’.

BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!

FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.

SE NASCI IN ITALIA…

DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.

GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.

L’ANTIMAFIA DEI RECORD.

LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.

LA VERA MAFIA: LO STATO ESTORTORE E CORROTTO.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

MAFIA E TERRORISMO DA QUALE PULPITO VIEN LA PREDICA. L’ITALIA CODARDA ED IL PATTO CON IL DIAVOLO. MEGLIO PAGARE IL PIZZO.

 

SOMMARIO II PARTE

 

PROFESSIONE PORTAVOCE E PORTABORSE: CHE DOLORI...

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

GLI INFLUENCER.

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

TANGENTI: CORRUZIONE E COLLUSIONI. LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.

CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.                          

IL SUD TARTASSATO.  

DISSERVIZI A PAGAMENTO.

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

CITTADINI. MANIFESTARE E DEVASTARE. IMPUNITA’ CERTA.

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

LA VERA MAFIA E’ LO STATO. E PURE I GIORNALISTI? DA ALLAM ALLA FALLACI.

INCOSCIENTI DA SALVARE? COME SI FINANZIA IL TERRORISMO ISLAMICO.

IL BUSINESS DEGLI ABITI USATI.

COME SIAMO O COME CI HANNO FATTI DIVENTARE.

MILANO: DA CAPITALE MORALE A CAPITALE DEL CAZO.

IL DUALISMO MILANO ROMA. LA RIVALITA' TRA DUE METROPOLI IN SOSTANZA UGUALI NEL DELINQUERE.

L’INTELLIGENZA E’ DI SINISTRA?

L'UGUAGLIANZA E L’INVIDIA SOCIALE.

GLI INTOCCABILI E LA SOCIETA’ DELLE CASTE. 

INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.

COME TI GABBO IL POPOLINO. RIFORMA FARLOCCA DELLA DISCIPLINA SULLA RESPONSABILITA’ CIVILE DEI MAGISTRATI.

POTENTE UGUALE IMPUNITO.

AMMINISTRATORI SOTTO ATTACCO.

DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!

BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!

IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.

USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.

MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.

E POI PARLIAMO DELL'ILVA.

EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.

CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI. 

SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.

USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.

CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.

COSI' HANNO TRUFFATO DI BELLA.

GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?

A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?

CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI  E PER SEMPRE.

I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.

LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.

QUANTI GUAI CON LA GIUSTIZIA PER GLI EX AN.

IL PARLAMENTO DEI PRIVILEGI E DEI POMPINI AI COMMESSI. 

A PROPOSITO DI COMMESSI PARLAMENTARI E DEI LORO STIPENDI.

L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.

ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.

LA CASTA VIEN DA LONTANO.

ITALIA. NAZIONE DI LADRI E DI IMBROGLIONI.

PARLAMENTARI SENZA ARTE NE' PARTE. COME DA POVERI SI DIVENTA MILIONARI.

LA POLEMICA SULLA NOMINA DEI PRESIDENTI DI SEGGIO E DEGLI SCRUTATORI.

LA VITTORIA CENSURATA DEL PARTITO DEL NON VOTO.

IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI.

LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.

L’ITALIA DEI PAZZI. UNA REPUBBLICA DEMOCRATICA FONDATA SULLA BUROCRAZIA. CANCELLATE 10 LEGGI, NE NASCONO 12.

GIUSTIZIA E POLITICA MADE IN SUD.

BUROCRAZIA E DISSERVIZI. IL SUPPLIZIO DEGLI ITALIANI.

LO STATO DELLA CASTA: COME EVADE LE TASSE E COME TRUFFALDINAMENTE SI FINANZIA.

LO SPRECO DELLA CARTA PARLAMENTARE.

IL PAESE DELLE STAZIONI FANTASMA.

IL PARLAMENTO DEI POMPINI E DELLE BOTTE DA ORBI.

MAI DIRE MAFIA: IL CALVARIO DI ANTONIO GIANGRANDE.

E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?

IL SEGRETO DI PULCINELLA. LA MAFIA E’ LO STATO. 

TUTTO IL POTERE A TOGA ROSSA.

GIUDICI IMPUNITI.

PERCHE’ I REFERENDUM ABROGATIVI SONO UNA STRONZATA.

C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!

IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.

I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.

MAGISTRATI? SI', COL TRUCCO!!

MANETTE FACILI, IDEOLOGIA ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.

LA VERITA’ NON E’ UGUALE PER TUTTI.

PARLIAMO DEL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA FRANCESCO COSSIGA: TRA GLI ITALIOTI UOMO SOLO CONTRO LO STRAPOTERE DELLA MAGISTRATURA.

MENZOGNE DI STATO. DOVE VANNO A FINIRE I NOSTRI SOLDI?

LA TRUFFA DEI CONCORSI PUBBLICI E DELLA STABILIZZAZIONE DEI PRECARI.

COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.

APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.

LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.

GLI INNI DEI PARTITI ED I PENTITI DEL PENTAGRAMMA.

ED I 5 STELLE...STORIE DI IGNORANZA.

ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.

POPULISTA A CHI?!?

LA CASTA CORROTTA E SFRUTTATRICE.

LA CASTA ASSENTEISTA.

LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.

CASTA SENZA VERGOGNA.

CASTA ANTICASTA.

BEPPE GRILLO ANTI CASTA ED ANTI LOBBY? MA MI FACCIA IL PIACERE!!!!

PAGARE LE TASSE: SI’, MA PERCHE’?

PARLIAMO DELLA RAPPRESENTANZA POLITICA.

ISTITUZIONI, LEGALITA' E MORALITA'

PARLIAMO DI VOTO DI SCAMBIO IN PARLAMENTO: NATURALMENTE IMPUNITO!

PARLIAMO DEL FINANZIAMENTO PUBBLICO.

LA CASTA DEI TESORIERI DI PARTITO.

IL PARLAMENTO DEGLI INQUISITI.

GLI IMPRESENTABILI, SE LI CONOSCI, LI EVITI: IN TUTTI I PARTITI.

RISSE PARLAMENTARI.

VOTI NOSTRI.

ROBA NOSTRA.

NOMINATI ED ASSENTI. IL PARLAMENTARE NON RISPONDE ALLE E-MAIL.

SCRANNI  VUOTI, PIANISTI, RISSE. ECCO L’ESERCITO DEGLI ASSENTEISTI.

CASA NOSTRA.

PAPPONI DI STATO.

PRIVILEGI E BENEFITS.

ENNESIMO RICORSO AL GOVERNO CONTRO I CONCORSI FORENSI TRUCCATI, INVIATO PER CONOSCENZA AI 630 DEPUTATI, AI 320 SENATORI, AI 72 PARLAMENTARI EUROPEI. RISULTATO: LETTERA MORTA.

RICORSO ALLE ISTITUZIONI CONTRO GLI INSABBIAMENTI.

RICORSO MINISTERIALE CONTRO GLI INSABBIAMENTI.

DENUNCIA PENALE AL CSM CONTRO GLI INSABBIAMENTI.

ESPOSTO ALLE ISTITUZIONI CONTRO GLI INSABBIAMENTI.

 

 

 

 

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande)

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Tra i nostri avi abbiamo condottieri, poeti, santi, navigatori,

oggi per gli altri siamo solo una massa di ladri e di truffatori.

Hanno ragione, è colpa dei contemporanei e dei loro governanti,

incapaci, incompetenti, mediocri e pure tanto arroganti.

Li si vota non perché sono o sanno, ma solo perché questi danno,

per ciò ci governa chi causa sempre e solo tanto malanno.

Noi lì a lamentarci sempre e ad imprecare,

ma poi siamo lì ogni volta gli stessi a rivotare.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Codardia e collusione sono le vere ragioni,

invece siamo lì a differenziarci tra le regioni.

A litigare sempre tra terroni, po’ lentoni e barbari padani,

ma le invasioni barbariche non sono di tempi lontani?

Vili a guardare la pagliuzza altrui e non la trave nei propri occhi,

a lottar contro i più deboli e non contro i potenti che fanno pastrocchi.

Italiopoli, noi abbiamo tanto da vergognarci e non abbiamo più niente,

glissiamo, censuriamo, omertiamo e da quell’orecchio non ci si sente.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Simulano la lotta a quella che chiamano mafia per diceria,

ma le vere mafie sono le lobbies, le caste e la massoneria.

Nei tribunali vince il più forte e non chi ha la ragione dimostrata,

così come abbiamo l’usura e i fallimenti truccati in una giustizia prostrata.

La polizia a picchiare, gli innocenti in anguste carceri ed i criminali fuori in libertà,

che razza di giustizia è questa se non solo pura viltà.

Abbiamo concorsi pubblici truccati dai legulei con tanta malizia,

così come abbiamo abusi sui più deboli e molta ingiustizia.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Abbiamo l’insicurezza per le strade e la corruzione e l’incompetenza tra le istituzioni

e gli sprechi per accontentare tutti quelli che si vendono alle elezioni.

La costosa Pubblica Amministrazione è una palla ai piedi,

che produce solo disservizi anche se non ci credi.

Nonostante siamo alla fame e non abbiamo più niente,

 c’è il fisco e l’erario che ci spreme e sull’evasione mente.

Abbiamo la cultura e l’istruzione in mano ai baroni con i loro figli negli ospedali,

e poi ci ritroviamo ad essere vittime di malasanità, ma solo se senza natali.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Siamo senza lavoro e senza prospettive di futuro,

e le Raccomandazioni ci rendono ogni tentativo duro.

Clientelismi, favoritismi, nepotismi, familismi osteggiano capacità,

ma la nostra classe dirigente è lì tutta intera da buttà.

Abbiamo anche lo sport che è tutto truccato,

non solo, ma spesso si scopre pure dopato.

E’ tutto truccato fin anche l’ambiente, gli animali e le risorse agro alimentari

 ed i media e  la stampa che fanno? Censurano o pubblicizzano solo i marchettari.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Gli ordini professionali di istituzione fascista ad imperare e l’accesso a limitare,

con la nuova Costituzione catto-comunista la loro abolizione si sta da decenni a divagare.

Ce lo chiede l’Europa e tutti i giovani per poter lavorare,

ma le caste e le lobbies in Parlamento sono lì per sé  ed i loro figli a legiferare.

Questa è l’Italia che c’è, ma non la voglio, e con cipiglio,

eppure tutti si lamentano senza batter ciglio.

Che cazzo di Italia è questa con tanta pazienza,

non è la figlia del rinascimento, del risorgimento, della resistenza!!!

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Questa è un’Italia figlia di spot e di soap opera da vedere in una stanza,

un’Italia che produce veline e merita di languire senza speranza.

Un’Italia governata da vetusti e scaltri alchimisti

e raccontata sui giornali e nei tg da veri illusionisti.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma se tanti fossero cazzuti come me, mi piacerebbe tanto.

Non ad usar spranghe ed a chi governa romper la testa,

ma nelle urne con la matita a rovinargli la festa.

Sono un italiano vero e me ne vanto,

ma quest’Italia mica mi piace tanto.

Rivoglio l’Italia all’avanguardia con condottieri, santi, poeti e navigatori,

voglio un’Italia governata da liberi, veri ed emancipati sapienti dottori. 

Che si possa gridare al mondo: sono un italiano e me ne vanto!!

Ed agli altri dire: per arrivare a noi c’è da pedalare, ma pedalare tanto!!      

Antonio Giangrande (scritta l’11 agosto 2012)

 

 

  

 

 

 

 

SECONDA PARTE

 

PROFESSIONE PORTAVOCE E PORTABORSE: CHE DOLORI...

Professione portavoce. Che dolori…, scrive Francesco Damato il 25 Settembre 2018 su "Il Dubbio".

IL RACCONTO. Non ditelo, per favore, a Rocco Casalino perché potrebbe montarsi la testa, e fare chissà quali altri bizzarrie o provocare chissà quali altre polemiche come portavoce del presidente del Consiglio. O potrebbe cadere in depressione sapendo di quanti lo hanno preceduto senza riuscire a cambiare il corso degli eventi politici, sviluppatisi nel bene e nel male a prescindere dal suo omologo di turno. Direttamente o indirettamente di portavoce di governo e oltre, e di segretari di partito, arrivati o non a Palazzo Chigi o al Quirinale, o passativi solo come interlocutori, ne ho conosciuti e sperimentati un centinaio. Il più influente di tutti è stato anche il più lontano dallo stile e dalle tentazioni di Casalino, non foss’altro per ragioni scientifiche, diciamo così. Mancavano ai tempi di Nino Valentino, il portavoce del presidente della Repubblica Giovanni Leone, i maledetti telefonini e varianti di oggi, a usare i quali la tua voce e i tuoi sfoghi, insulti, minacce e quant’altro finiscono in rete e ti fanno rischiare la destituzione, magari dopo una prima solidarietà o copertura, come quella non mancata a Casalino. Che Conte e il capo formale dei grillini, Luigi Di Maio, hanno difeso dagli attacchi procuratigli dal proposito imprudentemente confessato di farla pagare cara, quando verrà il momento, ai dirigenti del Ministero dell’Economia contrari, sino al sabotaggio, al programma di spese in deficit datosi dal governo gialloverde. Giovanni Leone si fidava a tal punto di Nino Valentino, un funzionario erudito e riservato di Montecitorio conosciuto quando il giurista napoletano era presidente della Camera, da delegargli compiti politici che sorpresero, a dir poco, la delegazione democristiana recatasi nella sua abitazione nel dicembre del 1971 per comunicargli la candidatura al Quirinale. Era ormai fallita la lunga corsa del presidente del Senato Amintore Fanfani ed era sopraggiunto anche il no opposto per pochi voti, a scrutinio segreto, dai parlamentari dello scudo crociato ad Aldo Moro, allora ministro degli Esteri e già segretario del partito e presidente del Consiglio. “Parlatene pure col buon Valentino”, disse Leone ai dirigenti della Dc che lo invitavano a prepararsi agli effetti politici della sua elezione, largamente prevedibili per la rottura intervenuta proprio sulla successione al Quirinale col partito socialista guidato da Giacomo Mancini. Bisognava mettere nel conto una crisi di governo e un turno di elezioni anticipate, utile anche a rinviare non di uno ma di due anni lo scomodissimo referendum contro la legge sul divorzio. Che la Dc avrebbe perduto nel 1974 compromettendo il ruolo centrale conquistato nelle elezioni storiche del 18 aprile 1948.I fatti furono più forti della buona volontà e delle relazioni di cui era capace Valentino. Che nel 1977 preferì farsi assegnare la segreteria generale del Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro piuttosto che rimanere nell’ultimo anno del mandato del Quirinale, peraltro interrotto anticipatamente di sei mesi con le dimissioni imposte a Leone dai due partiti maggiori – la Dc e il Pci – e dal governo monocolore democristiano di Giulio Andreotti che ne dipendeva in Parlamento. Il povero Valentino si era speso inutilmente dietro e davanti alle quinte per difendere il suo presidente dal fango di una campagna denigratoria conclusasi nei tribunali a suo vantaggio, ma dopo ch’egli era stato sfrattato dal Quirinale, una volta venutagli a mancare con la morte per mano delle brigate rosse la difesa di Moro. Per la cui liberazione dalla prigione dei terroristi, peraltro, Leone aveva deciso di sfidare la linea della cosiddetta fermezza predisponendosi alla grazia per una dei tredici detenuti con i quali i sequestratori del presidente della Dc avevano reclamato di scambiare l’ostaggio. Tutt’altro profilo, quello di un semplice passa parola, ebbe il portavoce del successore di Leone al Quirinale: il simpatico Antonio Ghirelli, scelto d’istinto, proprio per la sua simpatia e per la colleganza professionale di giornalista, da Sandro Pertini. Che però, molto più realista o meno sensibile di quanto non lasciasse trasparire pubblicamente, non esitò a sacrificarlo due anni dopo, destituendolo durante una visita ufficiale a Madrid. Ai giornalisti che si erano radunati davanti all’albergo per chiedergli clemenza per il collega, appena invitato a rientrare a Roma coi propri mezzi, Pertini rispose con il pollice verso, come se fosse al Colosseo nei panni di un imperatore romano. Il povero Ghirelli aveva fatto le spese di una intemerata romana dell’allora segretario della Dc Flaminio Piccoli. Che aveva protestato contro l’opinione di Pertini, espressa dalla Spagna e riferita da Ghirelli ai colleghi, che il presidente del Consiglio Francesco Cossiga dovesse dimettersi per il procedimento d’incolpazione in corso in Parlamento con l’accusa di avere favorito la latitanza di un figlio terrorista del collega di partito Carlo Donat– Cattin. Al quale invece Cossiga riteneva di avere solo consigliato di indurre il figlio Marco, se avesse avuto modo di contattarlo, a consegnarsi spontaneamente alla polizia per l’uccisione del magistrato Emilio Alessandrini, avvenuta a Milano l’anno prima. Consapevole di avere addebitato a torto a Ghirelli il suo giudizio su Cossiga, il presidente Pertini colse la prima occasione che gli capitò per ripararvi, ma solo dopo tre anni, nel 1983. Quando Bettino Craxi formò il suo primo governo, fallito il tentativo compiuto nel 1979 di approdare a Palazzo Chigi, fu proprio Pertini a raccomandargli come portavoce Ghirelli. Che si rivelò con Bettino tanto leale quanto efficace nel segnalargli tempestivamente agguati, come quello che stava compiendo silenziosamente la sinistra democristiana nel 1985 boicottando la campagna referendaria sui tagli alla scala mobile contestati dal Pci. Per rianimare un appuntamento con le urne che rischiava l’indifferenza Ghirelli improvvisò a pochi giorni dal voto a Palazzo Chigi una conferenza stampa in cui Craxi rialzò la posta in gioco avvertendo che avrebbe aperto la crisi di governo, con le dimissioni, “un minuto dopo” l’eventuale sconfitta. Che non arrivò anche per effetto di quel monito. Per tornare al Quirinale, dopo Pertini fu la volta di Francesco Cossiga. Che, anziché richiamare Luigi Zanda, suo portavoce negli anni tragici trascorsi al Viminale, e sfociati nel sequestro di Moro, scelse come portavoce il diplomatico Ludovico Ortona, rimasto afono per un bel po’ di tempo, al pari del presidente, sino alla svolta improvvisa e profonda delle picconate. Una svolta gestita interamente dal capo dello Stato, che telefonava di persona a giornalisti e a redazioni sconvolgendo le prime pagine già confezionate in tipografia. Fu una stagione pirotecnica che Ortona visse con una sofferenza, a dir poco, di cui fui testimone e anche partecipe, avendo più volte tentato, su sua richiesta, e sempre inutilmente, di fermare il presidente sulla strada di un attacco al presidente del Consiglio in carica Andreotti, o al capo dell’opposizione comunista Achille Occhetto o al troppo timido, secondo lui, segretario della Dc e mio amico personale Arnaldo Forlani. Quest’ultimo aveva allora come portavoce Enzo Carra, abbastanza allineato alla sua forte alleanza di governo con i socialisti, contrariamente alla precedente esperienza come segretario del partito di maggioranza, fra il 1969 e il 1973. Allora Forlani, costretto dagli eventi a sospendere il centrosinistra e a riesumare il centrismo con la formula della “centralità”, si era curiosamente tenuto come portavoce un giornalista per niente convinto di quella linea: Mimmo Scarano. Di cui molti sospettavano nella Dc che fosse addirittura iscritto al Pci. Il fatto è che Forlani sapeva fare benissimo, quando occorreva, il portavoce di se stesso smentendo la pigrizia attribuitagli dai fanfaniani di più stretta osservanza, che ripetevano la rappresentazione fatta di lui da Fanfani in persona: “una mammoletta che non vuole essere colta per non appassire”. Arnaldo invece a tempo debito gli si sarebbe rivoltato contro dimostrando di sapere camminare bene sulle proprie gambe. Anche Moro e Andreotti, pur così diversi fra loro, facevano uso molto parco dei loro portavoce. I quali non a caso scherzavano con chi li assillava di richieste e chiarimenti dicendo di essere piuttosto dei portasilenzio. Il portavoce storico di Moro fu Corrado Guerzoni. Andreotti ne avvicendò nei sette governi presieduti nella sua lunga carriera almeno tre: l’amico Giorgio Ceccherini, che aveva a lungo confezionato con lui la rivista quindicinale “Concretezza”, Stefano Andreani e Pio Mastrobuoni. Che, ancora convinto nella primavera del 1992 che Andreotti potesse essere eletto al Quirinale dopo la strage di Capaci, rientrando come presidente del Consiglio fra le soluzioni “istituzionali” imposte dall’urgenza dell’attacco terroristico– mafioso allo Stato, si sentì annunciare da lui con voce sommessa: “Guarda che domani eleggeranno Scalfaro”. Il quale si portò sul colle come portavoce Tanino Scelba, nipote dell’uomo alla cui scuola il capo dello Stato era cresciuto nella Dc, facendone da giovane il sottosegretario al Ministero dell’Interno: Mario Scelba. Ne avrebbe poi preso anche il posto, nel 1983. Tanino, pace all’anima sua, era di una tale disciplina e devozione come portavoce da interrompere anche vecchi rapporti di amicizia personale con giornalisti ed altri che entrassero in polemica con Scalfaro, peraltro in un momento in cui era facile che ciò accadesse per l’eccezionalità degli avvenimenti. Erano, in particolare, gli anni terribili di “Mani pulite”, quando il Quirinale tutelava come santuari le Procure di Milano e di Palermo, di punta nell’offensiva, rispettivamente, contro tutto ciò che sapeva, prima ancora di essere davvero, corruzione e mafia. In materia di disciplina e devozione Tanino Scelba riuscì a superare anche Giampaolo Cresci, che da portavoce di Fanfani una volta lo tolse d’impaccio in auto assumendosi la responsabilità di un soffietto d’aria che era sfuggito al capo, e scusandosene. Ma un ricordo particolare merita, da parte di un vecchio cronista politico, Antonio Tatò, Tonino per gli amici, portavoce del segretario del Pci Enrico Berlinguer. Lo chiamavamo ironicamente “fra Pasqualino”, versione maschile della storica suor Pasqualina di Papa Pacelli, Pio XII. Lui, Tonino, ne rideva, ammettendo di svolgere un ruolo ben più ampio e solido di quello ufficiale. Con quella stazza fisica che aveva, il doppio quasi di Berlinguer, che era timido quanto Tonino spavaldo, più che il portavoce Tatò sembrava il pretoriano del segretario comunista. Al quale non si accedeva se non si superava l’esame preventivo del portavoce, fosse pure in attesa di incontro o di intervista il più orgoglioso o prestigioso giornalista su piazza. Lo raccontò con dovizia felice di particolare Giampaolo Pansa, mandato dal “Corriere della Sera” alle Botteghe Oscure per una intervista che avrebbe terremotato la politica con la confessione di Berlinguer di sentirsi “più sicuro”, per l’autonomia del suo partito da Mosca, sotto l’ombrello dell’alleanza atlantica. Di tutt’altra pasta si sarebbe rivelato nell’ormai ex Pci Fabrizio Rondolino, che da portavoce di Massimo D’Alema ne divenne uno dei critici più acuminati, al pari di Claudio Velardi, anche lui dello staff dalemiano nella breve esperienza di “Max” a Palazzo Chigi. Una menzione a parte, infine, e forse allettante per Casalino, è dovuta ai portavoce destinati a diventare anch’essi politici: Francesco Storace per Gianfranco Fini e Paolo Bonaiuti, ormai ex anche come deputato, ma soprattutto Antonio Tajani per Silvio Berlusconi. Che lo ha appena promosso delfino anche per la posizione apicale assunta nel Parlamento europeo.

Il portavoce che abbaia, scrive il 22 settembre 2018 -Eugenio Giudice su Nuova Società. Il caso sollevato dalle cattive maniere, oltre che dal lauto stipendio, di Rocco Casalino, l’ex gieffino portavoce del premier e stratega della quasi vincente campagna elettorale Cinque Stelle non è il caso di Rocco Casalino, ma di un sistema che ha sempre più bisogno di pugili che di comunicatori. È facile pensare anche a Torino, ai piccoli Casalino di casa nostra, ai portavoce di presidenti di Regione e di sindaci del capoluogo, ma anche di importanti istituzioni finanziarie, di società, che fanno e disfano informazione, che provano a fare e disfare carriere, e che poi, se spogliati delle loro funzioni tornano ad essere il poco che sono sempre stati. Alcuni si nascondono, altri prendono di petto l’interlocutore, minacciano, alludono. Eppure, giornalisti “tutti d’un pezzo”, se li disputano come fossero loro i sindaci, i premier, gli ad, dimostrando poca considerazione per la propria professione. Altri – bel coraggio – li affrontano a colpi di “testata”: grazie al peso del giornale per cui lavorano riescono a essere un tantino meno proni, anche se non sempre. Ma è la morale di Sergio Leone, ricordate? «Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile…». C’entra il potere, la forza. La professione ancora una volta, è coinvolta solo per inciso. Per i giornalisti dei piccoli giornali – o del web, dove spesso il traguardo è già soltanto avere una dichiarazione, per lo più inutile, del potente di turno – invece, l’alternativa è tra soccombere e l’emarginazione. Basterebbe invece ricordare almeno alcune cose elementari. I portavoce non danno quasi mai notizie. Potrebbero invece confermarle, e sarebbe già tanto, o smentirle. Sarebbe sufficiente che i portavoce anziché tentare di dettare gli articoli, dessero semplicemente le informazioni che possono dare in modo trasparente, magari nero su bianco. E che i giornalisti non li utilizzassero come fonte riservata. Ce ne sarebbe comunque abbastanza per scrivere cose interessanti. Ma la responsabilità di un portavoce che è costretto dall’indole o dal contratto, spesso molto più sostanzioso di un redatore, a fare il pit bull, non è del tutto sua. È di un committente che non ha una buona opinione dell’informazione, che ha qualcosa da nascondere, magari anche la sua insicurezza, e cerca di tenere i giornalisti a distanza. E in questo caso basterebbe un servizio d’ordine, non un iscritto all’Ordine. Come si dice ai giardini, la colpa non è mai del cane, ma del padrone.

Movimento 5 Stelle: "Abolire l'Ordine dei Giornalisti", scrive Federico Sanapo, Esperto di Cronaca, Autore della news (Curata da Maurizio Ribechini), il 25/09/2018 Blasting News. Il Movimento ritorna sulla questione dell'abolizione dell'Odg dopo la vicenda che ha visto coinvolto Rocco Casalino, portavoce del premier Conte.  Ordine dei giornalisti: M5S sostiene l'abolizione. Sarebbe già sul tavolo del governo giallo-verde il provvedimento con il quale si darebbe il via all'abolizione dell'Ordine dei Giornalisti. Lo si apprende proprio dal blog del Movimento 5 Stelle, che in una nota pubblicata sulla propria piattaforma web, ha criticato aspramente l'operato dello stesso Ordine. La vicenda incriminata dal M5S è quella che ha visto protagonista qualche giorno fa il portavoce del premier Conte, vale a dire Rocco Casalino. Come si ricorderà infatti, il portavoce, durante una telefonata con un collega che, come lui stesso, svolge la professione di giornalista, ha usato alcune frasi poco felici nei confronti dei funzionari del Ministero dell'Economia. Le motivazioni del M5S per l'abolizione dell'Ordine. Per il M5S l'Ordine dei Giornalisti dovrebbe essere abolito, soprattutto alla luce di quanto accaduto dopo i fatti qui esposti. Infatti per i pentastellati tale Ordine non sanzionerebbe quei giornalisti che, come in questo caso, avrebbero agito solo per interessi di parte e non per dare una notizia e informare i cittadini. Almeno questo è quanto dichiarato sul blog dei Cinque Stelle. Per dovere di cronaca, Rocco Casalino è stato attualmente deferito e non sanzionato, proprio dell'Odg della Lombardia che, nei suoi confronti, ha aperto un'istruttoria con la quale si dovrà analizzare il linguaggio utilizzato dallo stesso nella conversazione telefonica, per capire se quest'ultima violi la deontologia professionale a cui tutti i giornalisti sono chiamati ad attenersi, secondo quanto stabilito dalla legge n.69 del 1963 che disciplina la professione giornalistica. In poche parole, sempre a detta del Movimento, l'Ordine avrebbe sanzionato (in realtà, come visto, per adesso solo sottoposto ad un normale giudizio) Casalino, e non invece i giornalisti che hanno divulgato l'audio. Difatti si trattava di una conversazione privata che, secondo le regole deontologiche del giornalismo, non si dovrebbe mai divulgare.

Elvira Savino (FI): "Grillini allergici alla democrazia". Sulla dichiarazione da parte dei Cinque Stelle di voler abolire l'Ordine dei Giornalisti, è intervenuta anche la deputata di Forza Italia Elvira Savino. Infatti, secondo quanto affermato al Corriere dalla stessa esponente di Forza Italia, in corso ci sarebbe una vera e propria rappresaglia dei "grillini", i quali secondo la Savino, non amerebbero la democrazia, a cui sarebbero “allergici!”. Per la deputata, sarebbe in pericolo la libertà di stampa nonché di informazione. Anche il Consiglio Nazionale dell'Ordine dei Giornalisti, in una nota diramata sul proprio sito web a firma del direttore Carlo Verna, ha preso le distanze dall'atteggiamento avuto nel blog dai pentestellati. Lo stesso Casalino ieri si è difeso davanti a Valerio Staffelli, inviato di Striscia la Notizia, che gli ha consegnato il classico Tapiro d'Oro: "Mi sono lasciato un po' andare", ha ammesso il portavoce di Conte.

Tutte le volte che in 70 anni la politica ha tentato di abolire l'Ordine dei giornalisti. Il Movimento 5 stelle non è il primo partito a dichiararlo inutile. Dal presidente Luigi Einaudi a Sergio Mattarella, passando per repubblicani, radicali, leghisti, post-comunisti e liberali, tutte le volte che la politica ha provato ad abolire l'albo professionale, scrive Arcangelo Rociola il 26 settembre 2018 su Agi.

ALBO GIORNALISTI. Il Movimento 5 stelle non è il primo partito a proporre l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti (Odg). Quella che si sta consumando in queste ore è solo l’ultima di una serie di battaglie che vanno avanti da più di 65 anni, ovvero già da prima che l’ordine stesso esistesse. Molti anni prima che l’abolizione dell’ordine arrivasse sui tavoli del governo Conte, come ha annunciato il Movimento in queste ore dopo il caso scoppiato per la pubblicazione dell’audio del portavoce del premier Rocco Casalino (Repubblica).

Breve storia dell'Albo (poi Ordine) dei giornalisti. Quaranta anni prima, nel 1925, fu istituito l’ “Albo generale dei giornalisti professionisti”. Progenitore di quello che oggi chiamiamo Odg, istituito dal regime fascista, regolava l’accesso alla professione, i requisiti per farla, i contratti, istituiva la figura del direttore responsabile e chi poteva diventarlo (solo i professionisti). Modificato, riformato durante i primi anni della Repubblica, non senza un’epurazione temporanea dei giornalisti che si erano compromessi con il regime fascista, conclusasi nel 1946 con il loro reintegro in massa deciso dal segretario del Partito comunista Palmiro Togliatti, l’albo è stato sempre oggetto di dibattito, alcune volte di scontro, anche aspro, nel mondo politico. A dire il vero, se lunga è la fila dei suoi detrattori, non ci sono stati suoi grandi sostenitori. Tra di loro c’è Antonio Gramsci che ne vedeva uno strumento necessario per insegnare strumenti di comunicazione alle masse popolari. E ovviamente del fascismo, da cui l’intellettuale marxista mutuò l’idea della necessità di creare "nuovi giornalisti" (Odg). A memoria di rete, ma confermata dai libri di storia del giornalismo italiano, il primo attacco all’albo è di Luigi Einaudi. Secondo presidente della Repubblica Italiana (1948-1955), nel 1945, mentre era presidente della Banca d’Italia, alla vigilia della Costituente, scrisse in un passo molto citato: “Albi di giornalisti! Idea da pedanti, da falsi professori, da giornalisti mancati, da gente vogliosa di impedire altrui di pensare colla propria testa”. Convinto sostenitore delle idee liberali, Einaudi era convinto che “giornalisti sono tutti coloro che hanno qualcosa da dire o che semplicemente sentono di poter dire meglio o presentar meglio la stessa idea che gli altri dicono o presentano male…Giudice della dignità o indegnità del giornalista non può essere il giornalista, neppure se eletto membro del consiglio dell’ordine od altrimenti chiamato a dar sentenza sui colleghi”. Da notare il fatto che nei passaggi citati di questa lettera non ci sia mai alcun accenno alla veridicità dei fatti (Il buongoverno, Laterza 1973, Vol. II pagg. 627-629, dalla lettera pubblicata da Il Fatto quotidiano).

Nasce l'ordine dei giornalisti, e subito la prima proposta di abolirlo. L’ordine per come lo conosciamo noi è nato nel 1963. Diventa un ente pubblico con funzione di vigilare sull’operato dei giornalisti e di tutelarli. Tra le novità rispetto alla sua prima forma, c’è nell’articolo due della legge che lo istituisce l’obbligo al “rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede”. Insieme ad una serie di norme che regolano l’accesso alla professione, l’albo dei professionisti e dei pubblicisti, diritti e doveri del giornalista, e la vigilanza del ministero della Giustizia sull’ordine stesso.

Tutte le volte che la politica ha provato ad abolire l'Ordine dei giornalisti:

Gli anni '70: il Partito Repubblicano. Da lì a cinque anni cominciano le prime battaglie anti-corporative. Il primo partito a condurla è quello Repubblicano, guidato allora da Ugo La Malfa. Tre parlamentari, tutti giornalisti, professionisti o pubblicisti, nel 1973 chiesero l’immediata abrogazione della legge approvata qualche anno prima (Linkiesta). La loro proposta però non venne approvata in Parlamento. Ma già in questi anni cominciano a cavalcare questa battaglia un altro partito, che la porterà avanti per altri 20 anni almeno: I radicali. “Nel 1974 iniziarono una forma di disobbedienza civile, sostituendo i direttori dei giornali di partito con persone non iscritte all’albo, violando così un articolo della stessa legge 69” (Lettera43).

Gli anni '80: il Partito Radicale. Ma sono stati gli Anni 80 quelli delle grandi battaglie del leader Marco Pannella. Strenuo oppositore degli ordini professionali, in particolare si scaglio più volte contro quello dei giornalisti. Da parlamentare, insieme a Francesco Rutelli, propose di sostituire l’albo obbligatorio con una ‘carta d’identità professionale’ sul modello francese (Linkiesta).

Gli anni '90: il referendum, Berlusconi, D'Alema e la proposta di Mattarella. Nel 1992 l’idea fu mutuata e rilanciata dal deputato del Movimento Sociale Italiano Pinuccio Tatarella: “Gli albi hanno una sola ragion d'essere, quando siano non solo aperti ma facoltativi e quando l'esercizio della professione giornalistica sia libero a tutti”, diceva (Il Foglio). Cinque anni dopo la proposta diventò uno dei sette quesiti del referendum abrogativo voluto dai Radicali. Le cronache del tempo raccontano che a firmare per questo referendum si recò anche, in piazza Duomo a Milano, anche il fondatore di Forza Italia Silvio Berlusconi, sostenuto da tutto quello che allora era chiamato il Polo delle Libertà. La domanda sulla scheda recitava così: “Volete voi che sia abrogata la legge 3 febbraio 1963, n. 69, nel testo risultante dalle modificazioni apportate dalle leggi 20 ottobre 1964 n. 1039 e 10 giugno 1969 n. 308 e dalle sentenze della Corte costituzionale n. 11 e n. 98 del 1968, recante "Ordinamento della professione di giornalista”?”. Risultato? 8,5 milioni di italiani votarono a favore, il 65% circa, ma il referendum non raggiunse il quorum e non se ne fece nulla. Sulla stessa linea di Berlusconi e Pannella c’era anche la Lega Nord di Umberto Bossi, anche lei da sempre a favore dell’abolizione dell’ordine come un po’ tutti i partiti di destra. Fece quindi scalpore al tempo anche la dichiarazione a sostegno dell’abrogazione dell’ordine dell’allora segretario dei Democratici di Sinistra Massimo D’Alema: “Ho votato per l'abrogazione dell'Ordine dei giornalisti insieme a 14 milioni di cittadini”, disse, secondo quanto si legge nell’archivio di Repubblica, causando polemiche con alcuni esponenti della allora maggioranza di governo, in particolare a sinistra tra Verdi e Rifondazione comunista.

Nel 1997 invece fu l'attuale Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, quattro anni dopo aver dato il nome alla legge elettorale del 1993, il Mattarellum, a proporre il superamento dell'Ordine dei giornalisti proponendo, con con altri deputati dell’Ulivo, la creazione di un “Consiglio superiore dell’informazione”. Un organo di controllo, come il Csm, che avesse il compito di tutelare l'autonomia professionale dei giornalisti e vigilare sulla loro deontologia. Ma anche in quel caso non se ne fece nulla (Lettera43).

Gli anni 2000: la proposta del Pdl dopo il caso Boffo. Un sostegno piuttosto trasversale quindi. Ma da allora di abrogazione dell’ordine non si parlò quasi più, seppure l’argomento rimase sullo sfondo del dibattito politico. Poi verso la fine del 2010, con Berlusconi al governo, torna il tema dell’abrogazione dell’ordine con il Popolo delle Libertà che crea un gruppo di lavoro incaricato di redigere una legge per cancellare l’ordine dei giornalisti (Reuters). Anche allora fu un provvedimento disciplinare a riattivare i politici contrari all’ordine: si trattava della vicenda Dino Boffo, allora direttore di Avvenire, oggetto di un dossier pubblicato da Vittorio Feltri, allora direttore de Il Giornale, ritenuto compromettente ma la cui veridicità non fu mai provata. Feltri fu sospeso dalla professione per sei mesi, su decisione dell’Ordine. Per Fabrizio Cicchito (Pdl), che ne diede notizia alla stampa, quel provvedimento contro Feltri fu “la goccia che fa traboccare il vaso”. Da lì ad un anno il governo Berlusconi cadde, e anche questa proposta di abolizione si concluse con un nulla di fatto.

Gli anni 2010: Grillo, Renzi, Crimi. Ultimo in ordine di tempo, ma prima dei 5 stelle, è stato il segretario del Partito democratico, e allora presidente del Consiglio Matteo Renzi a dire apertamente di volere l’abolizione dell’Odg. Nel dicembre 2015, davanti all’allora presidente dell’Ordine Vincenzo Iacopino, esordì dicendo: “Come tutti voi sapete seguendomi da qualche anno la mia posizione sull’Ordine è una posizione per la quale, toccasse a me, lo abolirei domani mattina”. Quel toccasse a me probabilmente implicava la sua ammissione di difficoltà nell’abrogazione dell’ordine, da un giorno all’altro, quasi a paventare troppe resistenze in Parlamento. Nella rosa di contrari all’Ordine dei giornalisti sono presenti da sempre anche i 5 stelle. Beppe Grillo, fondatore e garante del Movimento è stato da sempre tra i più attivi fautori dell’abolizione dell’albo. Prima con la raccolta di firme e poi con l’ingresso in parlamento grazie ad una serie di proposte di legge: una al Senato “sottoscritta da 53 senatori penta stellati e con primo firmatario Vito Crimi” (Il Foglio), oggi sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’editoria, e alla Camera. Era l’aprile 2013.

Anno 2018: nuove gocce da nuovi vasi, stessa proposta. Oggi con i 5 stelle al governo, e la Lega, l’abolizione dell’Ordine sembra cosa assai fattibile. Anzi, già sul tavolo del governo, stando a quanto ha detto lo stesso Movimento sul blog del partito. Questa volta è la decisione dell’Ordine di valutare l’audio del portavoce del Premier Rocco Casalino ad aver fatto traboccare il vaso della politica. Il governo ha i numeri per farlo. E forse mettere fine ad un ordine professionale (e una polemica) che dura da quasi settant’anni.

Io, che ho raccontato la casta, vi spiego la differenza dalle élite, scrive il 19 settembre 2018 Sergio Rizzo su "La Repubblica". Serve una classe dirigente onesta, capace e consapevole del proprio ruolo di tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. Non serve l’ondata di epurazioni e nomine eseguite dal nuovo Governo seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Il manifesto della rivoluzione sovranista è la seguente frase attribuita a Matteo Salvini: “Non esistono destra e sinistra, esiste il popolo contro le élite”. Dice molto, al proposito, il curriculum del perito elettronico Simone Valente, sottosegretario grillino alla Presidenza incaricato di gestire il dossier Olimpiadi, che si definisce “dipendente pubblico” (in quanto parlamentare?). Eccolo: uno stage alla Virgin active, un secondo stage alla scuola calcio della Juve, tre mesi da venditore a Decathlon. Valente contro il sindaco milanese Giuseppe Sala, già dirigente della Pirelli, direttore generale di Telecom Italia, direttore generale del Comune di Milano, amministratore delegato dell’Expo 2015. L’immagine plastica del popolo (Valente) contro le élite (Sala). La tesi che i Paesi sviluppati non soltanto possano ormai fare a meno delle “élite intellettualoidi” (formula coniata da Luigi Di Maio), ma che le stesse élite vadano necessariamente spazzate via in quanto nemiche del popolo e amiche dello spread, ormai dilaga ovunque. Anche se qui la guerra si serve di un’arma ancor più micidiale. L’idea che si va affermando è che le élite si identifichino con ciò che viene ormai comunemente definita la casta. Ovvero, quella consorteria politica ingorda, autoreferenziale e incapace di risolvere i problemi della società, ripiegata sui propri interessi personali e di bottega e concentrata sulla difesa di inaccettabili privilegi. Che è cosa, però, ben diversa dalle vere élite, le quali dovrebbero coincidere con l’intera classe dirigente. Burocrati, imprenditori, professionisti, manager, medici, artisti, politici: indipendentemente dalle colorazioni, ciascun Paese democratico ha le proprie élite. E la storia dimostra che la crescita e lo sviluppo di ogni società civile è direttamente proporzionale alla loro qualità. Per questo ci sono nazioni, come la Francia, che hanno sempre dedicato risorse importantissime alla formazione delle classi dirigenti. Anche durante le rivoluzioni, quando una élite sostituiva quella precedente, rivelandosi spesso più efficiente. L’Europa ha dato il meglio di sé nei momenti in cui le oggi tanto vituperate élite erano formate da veri statisti, peggiorando poi in modo radicale quando il loro posto è stato occupato da personaggi via via sempre più modesti. Un processo lungo ma inesorabile, rivelato dai politologi Andrea Mattozzi e Antonio Merlo, che nel 2007 hanno sviluppato la teoria della mediocrazia: il meccanismo che ha determinato il degrado delle nostre classi dirigenti politiche, dove il processo di selezione meritocratica è stato sempre più rapidamente soppiantato dalla cooptazione. Al posto dei capaci, i fedeli. Nella politica, nella burocrazia, nelle aziende pubbliche e private, nelle banche, perfino nelle istituzioni in teoria più impermeabili, come le autorità indipendenti. Fermando l’ascensore del merito, si è fermato anche l’ascensore sociale e il ricambio di sangue. Il risultato è stato il calo verticale delle competenze in tutti i gangli cruciali, dall’amministrazione alle professioni. Gran parte dei problemi del nostro Paese sono strettamente legati al fallimento delle élite. Ma per tentare di risolverli in modo strutturale non c’è che una strada: ricostruire una classe dirigente, onesta, capace e consapevole del proprio ruolo nella tutela dell’interesse pubblico. Con meccanismi di selezione trasparenti e credibili. La missione spetta ora a chi occupa la stanza dei bottoni e fa parte, volente o nolente, proprio di una élite. Anche se questa è diversa da tutte le altre: una élite che ha l’obiettivo di distruggere il concetto stesso di élite. L’argomento dunque non è all’ordine del giorno della maggioranza gialloverde, né è previsto dal contratto di governo. Emerge invece una preoccupante avversione ideologica per la scienza, dimostrata in modo plateale dal caso vaccini. Con la verità della Rete che sovrasta quella della competenza, dello studio faticoso e della preparazione. Coerentemente, stiamo assistendo a un ulteriore impoverimento della qualità di chi è investito del compito di decidere. Abbiamo avuto un primo assaggio con la formazione del governo, dove accanto a residui della seconda Repubblica e figure improvvisate non manca un sottosegretario agli Esteri convinto che l’uomo non sia mai andato sulla Luna. Quindi un secondo assaggio con l’ondata di epurazioni e nomine eseguite seguendo il medesimo metodo della cooptazione acritica che ha innescato la mediocrazia. Esattamente come la politica italiana ha sempre fatto, con rare eccezioni. Senza verificare qualità e attitudini, ma solo appartenenza e fedeltà. E sorvoliamo, per carità di patria, sul curriculum.

Il super stipendio di Rocco Casalino: guadagna più di Conte. I costi dello staff di Palazzo Chigi. In ritardo rispetto a quanto prescritto dalla legge sulla trasparenza (e dopo varie richieste dell'Espresso), il governo pubblica finalmente i nomi e gli emolumenti dei collaboratori della Presidenza del Consiglio. I più fortunati? Il capo della comunicazione 5 Stelle e tutti i Casaleggio boys, scrive Mauro Munafò il 20 settembre 2018 su "L'Espresso". Meglio fare il portavoce che fare il premier. Si potrebbero riassumere così i dati sugli stipendi dello staff della presidenza del Consiglio del governo Conte che l'Espresso è ora in grado di rivelare. Sì, perché il portavoce e capo ufficio stampa del presidente del Consiglio Rocco Casalino, già numero uno della comunicazione dei 5 Stelle e partecipante alla prima edizione del reality show “Grande Fratello”, con i suoi 169mila euro lordi annui è di gran lunga il dipendente più pagato tra quelli che lavorano negli “uffici di diretta collaborazione” di Palazzo Chigi. Lo stipendio di Rocco Casalino si compone di tre voci: 91mila euro di trattamento economico fondamentale a cui si aggiungono 59mila euro di emolumenti accessori e 18mila di indennità. Per un totale, appunto, di poco inferiore ai 170mila euro annui. Una cifra assai più alta di quella che spetta allo stesso Presidente del Consiglio Giuseppe Conte il quale, non essendo deputato, deve accontentarsi di 114mila euro lordi all'anno. Una gigantesca macchina acchiappa consenso. Anzi, due: quella di Salvini e quella di Di Maio. Che lavorano divise per colpire unite. Vi raccontiamo chi c’è dietro e quali strategie mediatiche usa. «Oggi noi costruiamo la realtà più credibile». Questa curiosa disparità di trattamento non è però un inedito. Anche nel caso del governo Renzi infatti l'allora presidente del Consiglio, non ancora parlamentare, si ritrovò a guadagnare meno del suo portavoce, e oggi deputato del Pd, Filippo Sensi. Anche in quella circostanza le cifre erano le stesse previste dal governo Conte: 114mila euro per Renzi e 169mila per Sensi. Il "governo del Cambiamento" spende però di più per il totale degli addetti alla comunicazione, come spiegheremo più avanti.

I Casaleggio boys all'incasso. Secondo solo a Casalino, ma comunque meglio remunerato di Conte, è Pietro Dettori, altro big della comunicazione 5 Stelle e fedelissimo di Davide Casaleggio. Per lui, assunto nella segreteria del vicepremier Luigi Di Maio come “responsabile della comunicazione social ed eventi” ci sono 130 mila euro annui. Vicecapo di quella stessa segreteria è Massimo Bugani, 80 mila euro all'anno, altro nome di rilievo della galassia pentastellata. I due sono infatti tra i quattro soci dell'associazione Rousseau che gestisce le piattaforme del Movimento 5 Stelle ed è diretta emanazione della Casaleggio associati (il fondatore è Gianroberto Casaleggio e l'attuale presidente è il figlio Davide). Il primo giorno al Viminale il ministro dell'Interno ha assunto come collaboratori tutti i membri dello staff di comunicazione, incluso il figlio di Marcello Foa. Aumentando a tutti lo stipendio (tanto non sono soldi suoi). E sull'Espresso in edicola da domenica, l'inchiesta su come funziona la propaganda grilloleghista. Non mancano nell'elenco altri nomi di ex dipendenti della Casaleggio che da anni compongono gli staff dei deputati e senatori 5 stelle: uno tra tutti Dario Adamo, responsabile editoriale del sito e dei social di Conte, pagato 115mila euro l'anno. Quanto conta la comunicazione. La pubblicazione degli stipendi permette di fare anche un primo confronto tra le spese di questo governo e quelli precedenti quando si parla di staff. Un confronto che tuttavia, è importate specificare, può essere solo parziale per due ragioni: non sono ancora noti tutti gli stipendi dei collaboratori (alcuni sono ancora in fase di definizione, come quelli della segreteria di Salvini) e va inoltre precisato che ogni governo tende sempre con il passare dei mesi e degli anni ad aggiungere ulteriore personale e relativi costi. Detto questo, le cifre più interessanti e significative sono quelle alla voce comunicazione, su cui questo governo sta spendendo più di tutti gli altri esecutivi di cui sono reperibili i dati. L'ufficio stampa e del portavoce di Giuseppe Conte ha in organico 7 persone per un costo complessivo di 662 mila annui, di cui 169 mila vanno come già detto al portavoce Rocco Casalino. Secondo in classifica il governo Letta, che contava 7 persone nello staff comunicazione per un costo totale di 629mila euro annui e con il portavoce pagato 140mila euro. L'esecutivo di Paolo Gentiloni poteva invece contare su una struttura di sette persone per un costo di 525 mila euro. Più complesso il calcolo per il governo di Matteo Renzi: appena insidiato il team dell'ufficio stampa si basava su 4 persone tra cui il già citato Filippo Sensi come portavoce e un costo complessivo di 335mila euro. Ma alla fine del mandato i costi erano saliti fino ai 605mila euro per un organico di sette persone. Trasparenza a passo di lumaca. La pubblicazione dei dati sui collaboratori della presidenza del Consiglio si è fatta attendere ben oltre i limiti previsti dalla normativa. La legge sulla trasparenza 33/2013 prevede infatti che le pubbliche amministrazioni aggiornino le informazioni sui titolari di incarichi dirigenziali o di collaborazione entro 3 mesi dal loro insediamento, termine rispettato da quasi tutti i ministeri dell'attuale esecutivo. A dare il cattivo esempio è stata proprio la presidenza del Consiglio, che ha invece impiegato 110 giorni e nell'ultima settimana è stata "pungolata" da due richieste di accesso civico avanzate dall'Espresso affinché venissero pubblicati i dati in questione.

In difesa di Rocco Casalino (ma il M5S e lui stesso si facciano un esame di coscienza), scrive il 21 settembre 2018 Mauro Muunafò su "L’Espresso". Sono l'autore dello scoop pubblicato dall'Espresso sui costi dello staff di Palazzo Chigi, che includono anche la retribuzione del portavoce del premier Conte e capo ufficio stampa Rocco Casalino. E oggi, il giorno dopo, mi ritrovo incredibile ma vero a dover difendere lo stesso Casalino. L'articolo in questione ha avuto infatti un'enorme eco mediatica ed è finito anche su altri siti, giornali e nelle trasmissioni tv. L'indignazione di molti lettori per le cifre percepite da Casalino è stato il sentimento principale emerso dai commenti sui social e dalle chiacchierate in giro. Casalino oggi, in un'intervista sul Corriere della Sera, difende il suo stipendio: «Ho una paga alta ma è una questione di merito dice». Se la prende ovviamente con i giornali che hanno riportato la notizia («stanno giocando sporco») e prova ad abbozzare una debole linea di difesa: «Sono ingegnere elettronico e giornalista professionista, parlo 4 lingue. Ho diretto per 4 anni l'ufficio comunicazione M5S del Senato e sono stato il capo comunicazione di una campagna elettorale al termine della quale il Movimento ha preso quasi il 33%. Se parliamo di merito e lo confrontiamo con lo stipendio dei miei predecessori non ho nulla di cui vergognarmi...anzi». Tra gli altri spunti interessanti dichiara anche: «Dopo 20 anni - aggiunge - ancora si parla di me come di quello che ha partecipato a un reality (il Grande Fratello ndr), come se nella mia vita non avessi fatto altro. E invece per arrivare dove sono ho sempre studiato e lavorato tanto e onestamente». Lo dico senza tanti giri di parole: Rocco Casalino ha ragione su tutta la linea. E, visto che sono quello che gli è andato a fare i conti in tasca, lo posso dire senza che a nessuno venga il sospetto che lo faccio per ingraziarmi le simpatie del potente di turno (se cercate sul blog o sull'Espresso troverete tanti miei articoli molto critici nei confronti dei 5 Stelle). Casalino si porta dietro chiaramente il pregiudizio legato alla sua partecipazione al Grande Fratello e certe sue uscite folli dette in quel periodo della sua vita (tipo che i poveri hanno un odore da poveri). Tuttavia si tratta di un'esperienza del passato: nel frattempo ha contribuito non poco al successo di quello che oggi è, piaccia o non piaccia, il primo o secondo partito italiano. Lo stipendio che oggi percepisce per il suo lavoro alla presidenza del Consiglio secondo me è davvero meritato e non mi scandalizza affatto che si tratti dello stesso emolumento percepito in passato da chi lavorava per altri esecutivi (cosa che ho scritto io stesso nell'articolo diventato virale, riportando cifre e facendo confronti che a oggi nessuno ha ancora smentito). Trovo inoltre surreale che a cavalcare la protesta e l'indignazione per il suo stipendio ci siano esponenti di quegli stessi partiti che retribuivano allo stesso modo i loro collaboratori. Ma... E arriviamo al sodo della questione...Davvero Rocco Casalino e il partito per cui lavora credono di essere innocenti di fronte alla gazzarra che si è scatenata alla notizia del suo stipendio? Fanno finta o non si rendono davvero conto che le folle urlanti e indignate a comando che oggi si lanciano sul suo portafoglio sono le stesse che negli ultimi anni hanno cavalcato e fatto crescere con le loro campagne ad alzo zero contro chiunque non la pensasse come loro? Urlare continuamente contro la Casta fino a far credere che tutto è Casta, additare sempre gli oppositori come "servi di qualcuno" prezzolati per esprimere il loro dissenso, svilire qualsiasi tipo di professionalità buttando sempre tutto sul piano economico (certo con la complicità del mondo dell'informazione di cui io stesso faccio parte). Scegliere come unica stella polare il pauperismo, parlare solo di scontrini, biglietti in economy, autobus e pizze al posto dei ristoranti. Ecco, alla fine si arriva qua, alla totale e generica incapacità di capire che le competenze si devono pagare perché sono frutto di lavoro e fatica. Benvenuto nella Casta, Rocco. 

Rocco, dalla "puzza dei poveri" all'odore dei soldi. Quell'intervista choc alle «Iene» contro indigenti e immigrati: anche se si lavano sono diversi, scrive Patricia Tagliaferri, Domenica 23/09/2018, su "Il Giornale". Non è solo questione di soldi, ma anche di naso. Perché se sei povero, c'è poco da fare, hai un odore diverso da chi se la passa bene. Almeno così la pensa (o almeno la pensava) il grillino Rocco Casalino, portavoce del premier Conte, che prima ancora dell'audio choc con le minacce al ministro Tria e al suo staff, regalava ai suoi fan pillole di saggezza in un'intervista alle Iene che continua a rimbalzare sul web e adesso aiuta ad inquadrare il personaggio di uno che da allora ne ha fatta di strada, fino a diventare il boss della comunicazione di Palazzo Chigi con stipendio più alto del premier. Era uscito da poco dal Grande Fratello quando, in mutande e stravaccato su un divano con i piedi in mano, Casalino rispondeva alle domande della iena Marco Berry senza filtri, con toni più da militante di estrema destra che di uno in procinto di cominciare la sua ascesa nel Movimento Cinque Stelle. «Il povero ha un odore molto più forte del ricco, più vicino a quello del nero», diceva, chiedendo all'intervistatore se avesse mai provato a portarsi a letto un romeno o uno dell'Est: «Anche se si lava o si fa dieci docce continua ad avere un odore agrodolce, non so che cavolo di odore è, però lo senti». Toni decisamente lontani dal politicamente corretto. Parlando dei migranti, poi, il portavoce del premier diceva che il «loro vero problema è quello dei meno ambienti (testuale, ndr) che vivono in zone invase dagli extracomunitari». Per concludere con il Casalino-pensiero sull'immigrazione: «Investiamo tantissimi soldi per rendere gli italiani civili e invece poi abbiamo sta gente che non ha questo tipo di preparazione di base, sta gente è tutta gente senza istruzione. Noi li stiamo facendo entrare, è un pericolo». Dismessi gli abiti del concorrente di reality e cominciata la sua scalata al potere, Casalino ha sentito l'esigenza di spiegarlo il contenuto di quella vecchia intervista divenuto nel frattempo imbarazzante. E lo ha fatto pubblicando la sua versione dei fatti sul blog di Beppe Grillo. Una spiegazione decisamente creativa, la sua: in quell'intervista, in pratica, stava recitando. Interpretava un personaggio snob, classista, xenofobo e omofobo che gli era stato affidato dal corso di recitazione che stava frequentando. «Per sbeffeggiare l'ipocrisia di molti personaggi pubblici - spiegò - interpretai questo ruolo politicamente scorretto utilizzando lo studio fatto nel corso».

Era una finzione, dunque, o almeno così Casalino ha cercato di metterci una toppa adesso che certe affermazioni sarebbero decisamente inappropriate per il portavoce del presidente del Consiglio.

Mal di pancia grillino: "È un sopravvalutato e anche strapagato". I colleghi contro Casalino: non è il primo errore che commette. La paura di ritorsioni, scrive Domenico Di Sanzo, Domenica 23/09/2018 su "Il Giornale". Casalino contro tutti. Tutti contro Casalino. Nel giorno in cui salta fuori un audio del portavoce del Presidente del Consiglio che minaccia ritorsioni nei confronti dei tecnici del ministero dell'Economia, evocando scenari da notte dei lunghi coltelli, il M5s si riscopre meno monolitico del solito. In chiaro la posizione ufficiale dei pentastellati, espressa in un post sul Blog delle Stelle, è di rivendicazione della linea Rocco Casalino. «La linea del MoVimento non è mai cambiata - scrive lo Staff - siamo assolutamente convinti che nei ministeri c'è chi rema pesantemente contro: uomini del Pd e di Berlusconi messi nei vari ingranaggi per contrastare il cambiamento». Sottotraccia, l'ennesima «forzatura» dell'ex concorrente del Grande Fratello, ha scatenato mal di pancia sopiti da tempo. Soprattutto tra i colleghi di Casalino, dislocati nelle varie strutture che si occupano della comunicazione M5s. Sia nei gruppi parlamentari, sia nei ministeri. Il portavoce di Conte, nonostante l'incarico istituzionale, è ancora il dominus della comunicazione politica dei Cinque Stelle. E l'atteggiamento mostrato nella conversazione «rubata» e consegnata ai cronisti da una «manina» sconosciuta ne è la prova. Proprio quel «mettetela come fonte parlamentare» che si ascolta nell'audio, ha fatto saltare sulla sedia più di qualche collaboratore dei grillini. Il concetto espresso dagli spin doctor malpancisti suona più o meno così: «Casalino è un accentratore, guadagna una cifra spropositata, viene considerato più bravo di come è in realtà e non è la prima volta che commette degli errori gravissimi». Non tutti, nello stesso staff parlamentare grillino, condividono i metodi «muscolari» di Rocco. Chi, invece, sfugge alle domande, è imbarazzato e lascia trasparire la paura di ritorsioni da parte dei massimi vertici politici del Movimento, tutti compatti intorno a Casalino, a partire dal vicepremier Luigi Di Maio. Mentre nelle chat dei parlamentari, non mancano le voci critiche. L'unica a metterci la faccia è la senatrice Elena Fattori, con un articolo sul suo blog ospitato dall'Huffington Post. La Fattori parla di Casalino come di «un professionista della comunicazione eccezionalmente brillante», salvo poi dire che «personalmente da libera cittadina trovo orribili le sue parole». In conclusione una stilettata a Di Maio: «Il problema dello strapotere di chi si occupa di comunicazione nel M5s non è di Rocco Casalino o chi per lui, è di chi questo grande potere glielo lascia. E su questo occorrerebbe interrogarsi, come molti di noi stanno chiedendo da anni senza risultati apprezzabili». Ma, a quanto pare, tra i comunicatori non tutti hanno lo stesso strapotere di Casalino. Giudicato «sopravvalutato» e super pagato dai colleghi critici. Con le obiezioni che si concentrano su tre episodi specifici, avvenuti negli ultimi mesi. La pubblicazione del video in cui il portavoce di Conte invia un sms a Enrico Mentana, dandogli la notizia in diretta tv del raggiungimento dell'accordo di governo tra Lega e M5s. Con annesso sberleffo al direttore del Tg di La7, un po' lento nel leggere l'importante velina. A giugno, al G7 in Canada, c'è stato lo strattonamento del premier Conte, portato via quasi di forza da Casalino durante un punto stampa con i giornalisti. Un mese dopo, la frase al cronista del Foglio Salvatore Merlo: «Adesso che il tuo giornale chiude, che fai?». Così Rocco è finito in nomination.

Portaborse. Torino, sorpresa a 5 Stelle: lo staff della sindaca Appendino costa 1,5 milioni in più di quello di Fassino. Un esercito di quasi 300 persone per gli undici assessori e la prima cittadina che in campagna elettorale aveva promesso un fondo per i giovani disoccupati grazie al taglio dei portaborse, scrive Diego Longhin il 28 settembre 2018 su "La Repubblica".  Non è solo questione di promesse elettorali mancate, come l’istituzione di un fondo di 5 milioni di euro per i giovani disoccupati alimentato con i risparmi da un ipotetico taglio del 30 per cento degli staff rispetto alla giunta Fassino, cavallo di battaglia di Appendino nel 2016. Ma di piccoli eserciti di staff, tra segreterie e portaborse, che occupano le stanze accanto a quella della sindaca e degli undici assessori. Quasi 300 persone, secondo i calcoli fatti dal capogruppo della Lista Civica, Francesco Tresso, sulla base di un accesso agli atti e del paragone con gli anni di amministrazione di Piero Fassino. Nel primo anno di amministrazione Appendino il numero di occupati nelle segreterie della sindaca e degli assessori è stato di 286, di cui 21 staffisti esterni. Se si considerano gli anni di Fassino, la media del numero di collaboratori occupati nelle segreterie era di 210, di cui 30 esterni. La differenza è di una settantina di persone in più nell’era pentastellata. "Com’è possibile che dodici persone, tra cui la sindaca, ne debbano avere come contorno 300 per gestire l’attività amministrativa ed essere di raccordo tra la parte politica e quella amministrativa?" ripete Tresso. I Cinque Stelle hanno in effetti rispettato l’impegno di ridurre gli ingressi esterni di staffisti, preferendo l’utilizzo di personale interno. Questo però non ha ridotto i costi, anzi: i dipendenti ricevono un’indennità di ruolo e alla fine, facendo le somme, Appendino ha speso un milione e mezzo in più per le segreterie rispetto all’amministrazione di centrosinistra. La sindaca di Torino, insomma, non ha potuto rispettare la promessa di creare il fondo per i giovani disoccupati non perché i soldi siano finiti nel bilancio generale per coprire i buchi ereditati dal passato, ma perché i risparmi annunciati nella campagna elettorale non si sono realizzati. Anche prendendo l’anno in cui la precedente amministrazione ha assunto più collaboratori, il 2015, con un totale tra interni ed esterni di 214 persone, la spesa è sempre stata inferiore di oltre un milione rispetto all'era Appendino. Nonostante le polemiche per gli stipendi d’oro, in particolare del portavoce di Fassino, Gianni Giovannetti. Per Tresso, che ha presentato un’interpellanza firmata da tutta l’opposizione per chiedere conto della questione alla prima cittadina e dibattere della promessa mancata in Consiglio, non è solo una questione di soldi e di promesse mancate. "Stiamo parlando di circa 25 persone in media per ogni assessorato. Troppe. Un’organizzazione mastodontica e inconcepibile considerando che il numero dei dipendenti del Comune continua a diminuire e che alcuni servizi sono al collasso, come l’anagrafe". L'anagrafe, appunto. A Torino c’è una lista di attesa lunga mesi per riuscire a fare la carta di identità elettronica e c’è gente che aspetta da luglio per un cambio di residenza. Per ora tutti i correttivi messi in campo dall’amministrazione non hanno prodotto effetti. Il Comune non è riuscito nemmeno a garantire l'annunciato trasferimento di 22 persone agli sportelli: si è fermato a 7. L’assessora Paola Pisano è stata messa sotto accusa non solo dalle opposizioni, ma anche da un gruppo di consiglieri Cinque Stelle che hanno firmato, insieme con la minoranza, un’interpellanza generale proposta dal capogruppo Pd Stefano Lo Russo. Forse, sottolinea Tresso, "si potrebbe spostare qualcuno dalle segreterie degli assessori a Cinque Stelle e della sindaca per riuscire a fare qualche carta di identità e qualche cambio di residenza in più. Anche i servizi sociali e le Circoscrizioni sono in sofferenza. Invece il personale sta nelle segreterie degli assessori. È la vittoria della burocrazia: incredibile che questo accada con la sindaca Appendino, che si era presentata come l’alternativa, come il cambiamento".

Quanti furbetti sul portaborse. Lo Stato paga ai parlamentari oltre 3.500 euro al mese per l'assistente. Ma c'è chi se li intasca. Chi assume la moglie. E chi con quei soldi ingrassa le casse del suo partito. Mentre ai collaboratori vanno solo le briciole, scrive Primo Di Nicola su “L’Espresso” con la collaborazione di Giorgio Caroli, Cristina Cucciniello e Michela Giachetta. Ci sono quelli che non ce l'hanno, come il deputato del Pdl Simone Baldelli, e che i soldi del fondo per il portaborse se li mettono direttamente in tasca: "Sono vicecapogruppo alla Camera e non ho bisogno di assistenti personali", spiega: "Se mi serve qualcosa, mi affido ai collaboratori che lavorano per il gruppo". Ci sono gli altri che invece ce l'hanno, li contrattualizzano, ma con compensi da fame. È il caso di Soaud Sbai, parlamentare del centrodestra eletta in Puglia, che di collaboratori ne ha tre, uno dei quali, Nicola Nobile, pagato appena 500 euro al mese. E ci sono quelli, come il presidente della Camera Gianfranco Fini, già dotati di uno stuolo di segretari e collaboratori a carico del bilancio di Montecitorio, che non avendo bisogno di altri assistenti i soldi li destinano interamente al proprio partito: "Per un movimento politico nuovo come Futuro e Libertà", chiarisce, "è una risorsa importante visto che non percepisce neanche un centesimo di finanziamento pubblico". Ecco tre casi dalla giungla dei portaborse, assistenti, segretari, portavoce ed esperti dai titoli e incombenze tra le più strane e variegate, per i quali gli eletti ricevono ogni mese una ricca prebenda. Soldi in abbondanza, 3.690 euro per i deputati, 4.180 per i senatori (e vai a capire il perché di questa differenza) che dovrebbero consentire di stipulare contratti di lavoro regolari e soprattutto adeguatamente compensati. Invece, sia a Montecitorio che a Palazzo Madama le cose vanno in maniera del tutto diversa, con molti casi di lavoro in nero e compensi prossimi alla fame. Una vera macchia per il Parlamento che Fausto Bertinotti, ex presidente della Camera, nel 2007 provò a cancellare imponendo ai deputati il deposito di regolari contratti per concedere agli assistenti gli ambiti accrediti e i relativi badge per l'ingresso al palazzo di Montecitorio. Risultato? Un clamoroso fiasco, visto che ad avere depositato i contratti con i portaborse sono stati solo 236 su 630. Un andazzo che, sotto la spinta delle lamentele e delle denunce di alcuni assistenti ha spinto l'ufficio del lavoro di Roma ad aprire un'inchiesta, acquisire documenti e contratti da Camera e Senato e a convocare gli stessi portaborse. Le risultanze dell'ispezione dovrebbero arrivare entro tempi brevi, nel frattempo Fini e Renato Schifani, il presidente del Senato, hanno annunciato novità importanti sul trattamento degli assistenti che, sulla scorta di quanto succede al Parlamento europeo, a partire dalla prossima legislatura, grazie anche ad una apposita leggina, dovrebbero essere pagati direttamente dal Parlamento previo deposito dei regolari contratti. Ma sinora non si è visto niente. La legge per i portaborse è ancora allo studio mentre l'unica cosa certa è che i parlamentari dovranno rendicontare al massimo il 50 per cento del fondo erogato dalle Camere. Sul resto tutto rimarrà come prima. Già, ma come sono andate sinora le cose? Come si regolano gli onorevoli con questo fondo? Lo utilizzano davvero per assumere un assistente? Che tipo di contratto scelgono e quanto li pagano? "L'Espresso" ha interpellato un centinaio di parlamentari. Non tutti hanno risposto. Le spiegazioni fornite offrono comunque uno spaccato interessante sugli usi e gli abusi del fondo per i portaborse. Certo, sarebbe bello in epoca di invocata trasparenza, di tagli ai servizi e di grandi sacrifici richiesti ai cittadini, se i soldi stanziati per uno scopo preciso, come quello dell'assunzione di un assistente, venissero restituiti quando non sono utilizzati. Invece, ai vertici delle due Camere, tra coloro che si avvalgono di personale stipendiato direttamente dal Parlamento e che non hanno bisogno di altro personale (presidenti e vicepresidenti di Camera e Senato, segretari d'aula, questori, presidenti di commissioni, capigruppo), le cose vanno in maniera diversa. Come nel caso del presidente del Senato Schifani che a "l'Espresso" spiega di dedicare ("Nel pieno rispetto dell'attuale disciplina", puntualizza) una parte del fondo "a tutte le iniziative politiche e culturali che il parlamentare assume sul territorio quale rappresentante della nazione", mentre un'altra parte, "mediante ritenuta diretta sul proprio conto corrente", viene dal presidente del Senato versata al Pdl. Come se i partiti non ricevessero già dallo Stato, attraverso i cosiddetti rimborsi elettorali, cifre da capogiro ad ogni tornata elettorale. Sono infatti molti i parlamentari che destinano una parte del fondo alla forza politica di appartenenza. Gli eletti nel Pd e nell'Udc staccano ogni mese un assegno di 1.500 euro, 800 versano mediamente i parlamentari del Pdl, molto di più quelli della Lega. Spiega Massimiliano Fedriga, deputato del Carroccio: "Non ho un collaboratore a Roma, il servizio mi viene fornito dal gruppo parlamentare". E i soldi dei portaborse? Al partito, al quale versa circa 3 mila euro al mese, come tutti i colleghi lumbard. E non è finita. A Trieste, "dove sono coordinatore provinciale", aggiunge Fedriga, "usufruisco invece dei servizi di una società di comunicazione con una persona che mi segue e che rilascia regolare fattura". Al partito, ma non solo. Confessa Beatrice Lorenzin, deputata berlusconiana del Lazio: "Ho un assistente parlamentare che pago a fatica. E la ragione è presto detta: con i soldi del plafond della Camera finanzio la mia scuola di formazione politica e molte attività sul territorio, per le quali sono arrivata persino a dover andare a comprare i gazebo all'Ikea. Comunque", aggiunge la Lorenzin, "il mio collaboratore ha un contratto co.co.pro che mi è stato indicato dagli uffici della Camera, dove l'ho anche depositato". Il compenso? "Prende sui mille euro al mese, più bonus". Neanche Linda Lanzillotta, esponente dell'Api rutelliana spende tutto il fondo disponibile per pagarsi il portaborse. Attualmente, Lanzillotta dice di avere una giovane assistente, con contratto a tempo determinato e contributi previdenziali pagati. Sul trattamento economico non aggiunge di più anche se, afferma, "certamente non spendo tutto il contributo per l'assistente". Dove finiscono allora gli altri denari? Una parte, afferma, va all'attività di "documentazione ed elaborazione per il lavoro parlamentare"; il restante all'associazione Glocus di cui è presidente. Simone Baldelli non è il solo a mettersi in tasca tutti i soldi dei portaborse. A fare la cresta ci sono anche altri personaggi molto conosciuti. Come Andrea Ronchi, ex ministro per le Politiche comunitarie, da poco riapprodato nel Pdl: "Non ho collaboratori, faccio tutto da me", giura: "La mia attività è prevalentemente di livello europeo, investo in viaggi legati all'attività politica". O della levatura di Angelino Alfano. Il segretario del Pdl ha due collaboratori storici, un segretario particolare e una portavoce. Fino a qualche mese fa, cioè sino a quando è stato ministro della Giustizia, i due erano pagati direttamente dal ministero. Diventato segretario del Pdl, sono invece passati a carico del partito. Quando divenne Guardasigilli, inoltre, Alfano annunciò anche la chiusura del suo storico ufficio di Agrigento: "Per non rischiare contatti con ambienti strani", disse. Morale: senza spese sul territorio e con i collaboratori pagati prima da via Arenula e poi da via dell'Umiltà, Alfano ha potuto intascarsi comodamente l'intero ammontare del fondo. Anche quando va bene, cioè nei casi in cui contrattualizzano i portaborse, deputati e senatori non si rivelano però molto generosi. Rita Bernardini, deputata radicale che negli ultimi anni ha fatto le pulci al bilancio della Camera denunciandone sprechi e spese pazze, dice di avere due contratti depositati alla Camera. Uno di consulenza con l'avvocato Alessandro Gerardi, pagato 1.200 euro lordi, che per un legale non è certo un granché; l'altro, a progetto, con Valentina Ascione, compensata addirittura con meno: appena 900 euro lordi mensili. "Ma è tutto in regola", spiega l'onorevole, che rivela di aver superato brillantemente l'esame dell'Ispettorato del lavoro a cui ha inviato i contratti. Ciononostante, non prende bene l'intrusione de "l'Espresso": "Ma perché non chiamate anche chi fa battaglie sulla legalità e poi non ha nessun collaboratore?". Molto generoso con i portaborse è invece il senatore del Pdl Lucio Malan che alle due persone assunte nella propria segreteria in questa legislatura devolve in pratica l'intero importo del fondo per gli assistenti. Ma la ragione c'è: una, Maria Termini, è la moglie; l'altra, Ilenia, è la nipote dell'amata consorte. Ma per carità, nessuno scandalo a sentire Malan, che si giustifica dicendo di avere assunto la signora nel 2006 su richiesta del gruppo parlamentare di Forza Italia di cui era dipendente. Volendo il gruppo sfoltire i ranghi, aveva chiesto ai propri senatori di assorbire qualche segretaria. Malan ha preso la consorte ("Bravissima") e successivamente, la di lei nipote, di cui ha sempre rivendicato la grande professionalità. E poi dicono che i parlamentari non hanno fantasia. Per risparmiare, in molti si sono inventati il portaborse-sharing, l'assistente condiviso. A illustrare l'innovazione è il senatore democratico Roberto Della Seta che racconta di avere due contratti depositati. Uno con una collaboratrice in esclusiva, Sonia Pizzi; l'altro con Daniele Sivori, collaboratore a metà con il collega Francesco Ferrante, eletto in Umbria. Entrambi gli assistenti hanno un contratto a tempo determinato fino alla scadenza della legislatura, spiega Della Seta. Quanto al guadagno, portano a casa appena mille euro lordi al mese. Davvero poco, considerando che nel caso della Sivori lo stipendio è pagato a metà dai due senatori. Sono quelli che affermano di impiegare le risorse erogate dalle Camere interamente per il portaborse. Qualcuno, anzi, fa di più. Ermete Realacci, storico ambientalista democratico, ha due collaboratori contrattualizzati, Matteo Favaro e Francesca Biffi. La somma dei loro compensi, parola dell'onorevole, sarebbe addirittura superiore a 3.600 euro lordi. "Esattamente, spendo di più di quello che mi danno alla Camera". Realacci ha poi un altro giovane che lavora per lui a Pisa, suo collegio elettorale: a costui vanno invece solo 300 euro netti al mese. Anche Barbara Pollastrini ha due collaboratori con regolare contratto a progetto. Uno dei due, Ettore Siniscalchi, giornalista, spiega che l'onorevole versa 1.300 euro netti a ciascuno di loro. Calcolando tutti i costi, compresi quelli contributivi, i due assistenti finiscono per far spendere alla Pollastrini più dei 3 mila 600 euro erogati per i collaboratori dalla Camera: "Proprio così", dice Siniscalchi, "l'onorevole ci rimette". Veri maestri nell'arte di arrangiarsi con i portaborse sono gli avvocati-parlamentari, anche quelli di grido. Tra questi, il senatore Piero Longo, con Niccolò Ghedini storico difensore di Silvio Berlusconi. "Certo che ce l'ho", dice Longo: "Il mio collaboratore parlamentare è una collega di studio, l'avvocatessa Anna Desiderio". Una collega di studio? "Non c'è niente di strano, il rapporto è passato al vaglio della commissione del Senato ed è stato ritenuto congruo", spiega Longo senza fornire altre spiegazioni su questa fantomatica "commissione". Aggiunge il senatore: "A fine mese la collega rilascia regolare fattura anche per l'attività di mia assistente parlamentare. Lavora a Padova, non è necessario che venga a Roma, non mi serve ancora che mi si porti la borsa. Lei deve tenere i rapporti politici con la base e fungere da segreteria politica". Altro caso da manuale quello di Pierluigi Mantini, deputato eletto nel Pd ma passato all'Udc, professore universitario e avvocato residente a Milano. Mantini confessa con candore di avvalersi, per la sua attività parlamentare, dei ragazzi del suo studio legale. Li tiene a progetto o a partita Iva, dice. Sui dettagli, a cominciare dagli importi dei compensi, preferisce sorvolare, inutile insistere: "Scusatemi, non ho tempo, sono in palestra". Beato lui. Sono i parlamentari che, agganciati telefonicamente, accettano a malincuore di rispondere cercando comunque di tagliare la conversazione con vaghe promesse di continuare successivamente. Qualche caso: Ignazio Abbrignani, deputato del Pdl: "Ho un collaboratore con contratto depositato". Tipo di contratto? Retribuzione? "Non lo so, se ne occupa il mio commercialista. Glielo chiedo, la richiamo". Entro breve? "Sì sì, certamente...". Stiamo ancora aspettando. Peppino Calderisi, ex radicale, eletto nelle liste del Pdl: " Sono impegnato...", "richiami...". Lo abbiamo fatto, non ha più risposto. Colomba Mongiello, senatrice democratica: "Sono nel traffico, richiamatemi". Dopo più di un'ora il telefono squilla ma la senatrice nemmeno risponde. Michaela Biancofiore, altra berlusconiana. Dice di avere un collaboratore nel collegio di Bolzano, con un contratto a tempo indeterminato. Non dice il nome, né la retribuzione: "Non lo vengo certo a a dire a voi quanto pago i miei collaboratori". E a Roma, com'è organizzata? "Sto per fare un contratto ad un assistente". Di che tipo? "Non ho tempo, arrivederci...".

2015. I portaborse: "Siamo sfruttati e umiliati". Intanto l’onorevole fa la cresta sul rimborso. Collaboratori costretti a pagare le bollette. Altri inquadrati come colf per pagare meno contributi. Malgrado i parlamentari ricevano oltre 3500 euro al mese per regolarizzarli. E adesso gli assistenti chiedono di modificare la normativa. Per una maggiore trasparenza nell’uso dei soldi pubblici, scrive Paolo Fantauzzi su “L’Espresso”. Marta tutte le mattine varca l’ingresso della Camera dei deputati. Consegna la sua carta d’identità e riceve il badge di “ospite”. In realtà sarebbe una collaboratrice parlamentare a tutti gli effetti. Una portaborse, insomma. Per l’onorevole con cui lavora scrive discorsi, comunicati e prepara le interrogazioni. Ma lui non ne ha voluto sapere: troppi contributi da pagare. E così Marta si è dovuta piegare e ha firmato un contratto da colf, che prevede invece oneri fiscali e previdenziali bassissimi. Collaboratrice sì, ma familiare. E per andare al lavoro, nel tempio della democrazia, deve sottoporsi quotidianamente all’umiliazione della finta visitatrice accreditata come ospite. Nel luogo in cui si fanno le leggi Marta (il nome è di fantasia) è in buona compagnia: sia alla Camera che al Senato sono diverse le ragazze, tutte laureate come lei, formalmente assunte con un contratto da donna delle pulizie. Eppure i loro datori di lavoro ricevono in busta paga un apposito “rimborso delle spese per l’esercizio del mandato parlamentare” (quindi esentasse) con cui pagare i collaboratori, oltre che gestire l’ufficio e affidare consulenze e ricerche. Non si tratta di spiccioli: 3.690 euro al mese per i deputati e addirittura 4.190 per un senatore. Moltiplicando per il totale degli eletti, fanno 44 milioni l’anno. E il bello è che per avere diritto a queste somme basta rendicontare metà delle spese, il resto viene erogato forfettariamente. Insomma, come nel caso del finanziamento pubblico ai partiti   formalmente abolito ma di fatto reintrodotto con un altro nome - si tratta di rimborsi di nome ma non di fatto. Ma proprio per questo l’onorevole con cui lavora Marta si comporta così: perché tutto quello che risparmia, se lo può mettere in tasca. Ed è grazie a questo perverso meccanismo che, nel tempio dove si fanno le leggi, ancora accade che i portaborse siano lavoratori in nero, inquadrati con finti contratti a progetto o pagati con stipendi da fame. Nel 2012 un’inchiesta dell’Espresso fece luce sul modo in cui venivano spesi questi soldi extra e scoprì tanti “furbetti” che facevano la cresta su questi fondi. Oggi non molto sembra essere cambiato, come racconta Andrea (nome di fantasia), che alla soglia dei 40 anni lavora per un parlamentare dell’opposizione a 600 euro al mese: «Pago regolarmente le sue bollette ma mi è anche capitato di andare a ritirare pacchi natalizi che gli avevano spedito. E non è nemmeno il peggio che possa capitare. Un collega è costretto a fare la spesa per la deputata che lo ha assunto e un altro ha perfino presentato delle pratiche di invalidità, come se fosse un’agenzia di servizi». Adesso qualcosa forse si muove. Stanchi di questa situazione, i collaboratori parlamentari si sono riuniti in associazione (Aicp, un’ottantina gli aderenti) e hanno deciso di uscire allo scoperto, chiedendo espressamente una modifica della normativa. Così da tutelare il loro lavoro, spesso indispensabile all’attività legislativa degli onorevoli, e far gestire in maniera trasparente i soldi pubblici. «Non abbiamo modo neppure di sapere quanti siamo esattamente» spiega Francesca Petrini, portavoce dell’Aicp al Senato: «Per far rilasciare ai loro assistenti il badge per l’accesso a Montecitorio o Palazzo Madama, i parlamentari devono depositare i contratti. Ma gli uffici di Questura, formalmente per motivi di privacy, non ci hanno mai voluto dare il numero preciso». Il modello vagheggiato è quello del Parlamento europeo: un contratto con maternità, ferie, contributi previdenziali pagati e livelli retributivi rispettosi delle mansioni svolte. Senza più dover dipendere dalla magnanimità del politico di turno né doversi ridurre a fare i collaboratori familiari, più che parlamentari. La soluzione sarebbe semplice: l’onorevole indica il collaboratore da contrattualizzare ma a pagare sono direttamente Camera e Senato. Risultato: niente più cresta né abusi. Soprattutto, senza spendere un euro in più di quanto avviene nella giungla attuale perché basterebbe prevedere come soglia massima lorda quella già attualmente erogata sotto forma di rimborso. Ci vorrebbe anche poco, fra l’altro, in virtù dell’autonomia che i due rami del Parlamento rivendicano ogni vota che si tratta di toccare qualche privilegio: una delibera degli Uffici di presidenza, come accaduto con la revoca dei vitalizi ai condannati. Del resto l’Italia, al contrario di Francia e Regno Unito, è l’unico Paese dove vige ancora il far west: per gli assistenti non è previsto alcun nessun riconoscimento giuridico, nessuna voce di spesa specifica o vincolata, controlli solo formali e in particolar modo zero trasparenza. Facile immaginare, però, che le resistenze sono fortissime, perché quei soldi extra fanno comodo a tutti: a chi se li mette in tasca così come a chi li versa ai partiti di appartenenza, a corto di risorse col taglio dei contributi pubblici (che finiranno definitivamente nel 2017). Non a caso il Parlamento sta facendo di tutto per non muovere un dito. Nel 2012 a Montecitorio fu approvata una proposta di legge   che cercava di mettere ordine, ma a causa delle elezioni anticipate il provvedimento non è stato ratificato dal Senato. Nel 2013, con la nuova legislatura, si è deciso di seguire la strada degli ordini del giorno in occasione dell’approvazione dei bilanci. Ne sono stati approvati addirittura 4 per “disciplinare tempestivamente” la materia ma sono rimasti tutti lettera morta. Stessa scena l’estate scorsa al Senato, dove è stato approvato un generico odg della maggioranza per “valutare ulteriori misure idonee a disciplinare in modo trasparente il rapporto coi collaboratori”. Ma la valutazione evidentemente è ancora in corso…

L'AGIT-PROP, OSSIA, "L'AGITAZIONE E LA PROPAGANDA".

Per affermare la propria opinione, o essere strumento inconsapevole della volontà del leader, si arriva ad annientare il nemico, nel suo modo di pensare e di essere.

Quanti di noi hanno assistito agli atteggiamenti di prevaricazione di esagitati guastatori durante le fasi delle elezioni, sia durante la campagna elettorale Porta a Porta o nei comizi elettorali dei candidati avversi, sia nei seggi delle votazioni, invasi da rappresentanti di lista a fare propaganda ed a impedire la convalida delle schede opposte.

Quanti di noi hanno assistito alla demonizzazione mediatica degli avversari politici attraverso la stampa partigiana e quanti di noi hanno subito inconsciamente il lavaggio del cervello di un pseudo cultura fatta passare per arte nella saggistica, nel teatro, nel cinema e nei programmi e spettacoli di intrattenimento.

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

Le parole degli agit- prop, scrive Piero Sansonetti il 2 Marzo 2018 su "Il Dubbio". Molti di voi non sapranno neanche che vuol dire quella parolina che ho scritto nel titolo: «agitprop». Era il modo nel quale, nel partito comunista, si chiamavano gli attivisti che si occupavano delle campagne elettorali e in genere dell’attività di propaganda del partito. Agit- prop era l’abbreviazione di “agitazione e propaganda”, e “agitazione e propaganda” era la denominazione di un dipartimento, molto importante, che aveva una sua struttura nazionale e poi nelle singole regioni, nei Comuni, e in tutte le sezioni di partito. Il dirigente che aveva il compito di coordinare questo dipartimento era uno dei personaggi che più contavano nel partito. I capi nazionali degli agit- prop sono stati nomi molto famosi nel Pci, a partire da Amendola e Pajetta e in tempi più recenti il giovanissimo Veltroni. Mi è venuto in mente questo termine perché mi sembra che torni attuale. Questa campagna elettorale ricorda un po’ le origini, gli anni 40 e 50. Molta agitazione e molta propaganda. E non nel senso migliore di questi due termini. Tutta la campagna elettorale si è sviluppata su due direttrici: la prima è stata quella del fango sugli avversari, azione condotta con la partecipazione attiva, o addirittura sotto la guida di alcuni giornali. La seconda, quella della presentazione di programmi, o addirittura di risultati, del tutto improbabili o forse anche impossibili. Proviamo a dare un’occhiata alle parole chiave di questa campagna elettorale.

Cinque Stelle. Il partito nuovo, o se volete il movimento, non ha dato grande importanza al suo programma elettorale. Che in buona parte, peraltro, ha copiato un po’ dal Pd, un po’ da Wikipedia, un po’ dai giornali. L’unica proposta comprensibile è stata il reddito minimo garantito, ma i 5 Stelle non hanno spiegato come renderlo possibile, anche perché il reddito minimo è immaginabile solo aumentando la pressione fiscale, e questa è una cosa che – salvo la Bonino – nessuno osa prospettare. I Cinque Stelle hanno puntato tutto sulla squadra di governo. Che hanno presentato ieri, cioè quasi alla fine della battaglia, ed è composta interamente da nomi assolutamente sconosciuti all’elettorato (e non solo) tranne un nuotatore un po’ più famoso degli altri. Il problema però non è la qualità della squadra (che nessuno, nemmeno Di Maio, è in grado di valutare) ma la assoluta certezza che nessuno, o quasi nessuno, di quei nomi farà parte del futuro governo. Per la semplice ragione che il futuro governo sarà di coalizione e dunque andrà negoziato da vari partiti e i nomi dei ministri dovranno rappresentare diversi partiti. Compresi, eventualmente, i 5 Stelle. Diciamo pure che anche questa trovata della squadra di governo è un po’ una presa in giro. La squadra di governo la si può presentare in un sistema politico presidenziale, come quello americano. Non certo in un paese dove Costituzione e legge elettorale prevedono che sia il Presidente della Repubblica a scegliere il premier e a concordare con lui una coalizione in grado di sostenerlo.

Inciucio. La seconda grande bugia. Che accomuna tutti. Tutti dicono: l’inciucio mai. Inciucio – lo abbiamo scritto qualche settimana fa – è un modo dispregiativo per indicare un’intesa politica tra forze distinte. Cioè è la base della democrazia parlamentare italiana. L’inciucio fu inaugurato nel 1943, dopo l’armistizio, da democristiani, socialisti, comunisti e liberali, e poi è proseguito senza soluzione di continuità, escluso il breve periodo del bipolarismo, nel quale un sistema elettorale maggioritario, o a premio di maggioranza, permise il governo di uno solo dei due schieramenti. La fine del sistema a premio di maggioranza, la sconfitta di Renzi al referendum, e la nascita del tripolarismo, hanno reso di nuovo indispensabile una intesa tra forze diverse, cioè l’inciucio. Tutti i partiti ne sono consapevoli, e tutti fingono di essere fieramente contrari.

Immigrazione. È stato il tema chiave della battaglia politica. I partiti del fronte populista (in particolare la Lega e Fdi, un po’ meno i 5Stelle), ne hanno fatto il loro cavallo di battaglia. Il centrodestra moderato è stato costretto, almeno in parte, a inseguire o ad adattarsi. Il centrosinistra ha trattato il tema con più prudenza, ma comunque senza denunciare la falsità del problema. Tanto che, alla vigilia delle elezioni, si è rifiutato di approvare lo Ius Soli, e ancora in questi giorni (per le stesse ragioni, e cioè il timore della propaganda populista) ha rinviato la riforma dell’ordinamento carcerario. Il ritornello dei populisti è stato: «È in corso un’invasione, la quantità di immigrati sta aumentando in modo esponenziale, l’immigrazione porta delinquenza e questo è il motivo dell’aumento continuo della criminalità. Fermiamo l’immigrazione, cacciamo i clandestini, riprendiamoci l’Italia, impediamo la “sostituzione etnica”». Non è vero che è in corso un’invasione, visto che gli immigrati sono ancora largamente al di sotto del 10 per cento della popolazione. L’immigrazione è in aumento ma è assolutamente sotto controllo. Non è vero che la delinquenza è in aumento, anzi da quindici anni è in continua e progressiva diminuzione. Tanto che gli omicidi sono scesi, dalla fine degli anni novanta, dalla cifra di quasi 2000 a meno di 400 all’anno. E non è vero neanche che l’aumento dell’immigrazione aumenta la criminalità. I detenuti stranieri nel 2007 erano il 32 per cento della popolazione carceraria. Oggi sono ancora il 32 per cento, sebbene il numero degli immigrati sia quasi raddoppiato. L’uso della paura dell’immigrato come strumento di campagna elettorale ha prodotto una gigantesca disinformazione di massa. Giornali e Tv si sono sottomessi. Sarà difficilissimo correggere questa disinformazione.

Economia. Di economia si è parlato pochissimo. I partiti di opposizione non ne hanno voluto parlare soprattutto perché i dati ultimi sono positivi per l’economia italiana. Il partito di governo ne ha parlato di sfuggita, forse perché non ha molte proposte concrete per intervenire. Forza Italia è l’unica che si è occupata della questione, ma con la proposta della Flat Tax e cioè di una soluzione che nessun grande paese occidentale ha mai adottato, e che anzi, tutti, hanno considerato irrealizzabile.

La Giustizia. È stata la grande assente. Nessuno osa parlare di giustizia. Lega e 5Stelle hanno in serbo un programma di stretta e di riduzione drastica dello Stato di diritto. Non hanno mai nascosto di considerare lo Stato di diritto un orpello ottocentesco. Però in campagna elettorale hanno evitato di parlarne troppo. Persino Il Fatto ha messo la sordina. Forza Italia e Pd, partiti più garantisti, non hanno trovato il coraggio di porre seriamente la questione sul tappeto, perché temono di perdere voti. Mi fermo qui. Credo di avere spiegato perché questa campagna elettorale mi porta al tempo degli agit-prop. Con una differenza: allora i partiti avevano anche dei programmi politici, ed erano programmi politici alternativi e chiari. Oggi no.

La faida Renzi-D'Alema è l'omicidio-suicidio che ha ucciso gli ex Pci. La sinistra italiana è la più debole d'Europa dopo quella francese: è la vendetta di Baffino, scrive Roberto Scafuri, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Parlandone da vivi, i due s'assomigliavano come gocce d'acqua. Correva la primavera 2009 e in un'accaldata sala di militanti il presidente della Provincia fiorentina, Matteo Renzi, ancora si rivolgeva al «caro Massimo, punto di riferimento del passato, del presente e del futuro». Il caro Massimo, lì da presso, mani giunte a mo' di preghiera, era assorto come inseguendo sfuggenti presagi. Renzi è uno di quei giovani - ebbe a dire benedicendone l'approdo a Palazzo Vecchio - «dei quali ci si può chiedere solo se batterà il record della pista oppure no». Sorrisi, applausi. Ma anche cordialità pelosa: diffidenza a pelle, senza motivo, tra animali che fiutano il pericolo. Il partito (ancora) c'era, la sinistra italiana non era, come oggi, la seconda più debole d'Europa dopo quella francese (studio Cise-Luiss). Che cosa inquietava D'Alema? Gli avevano già parlato di Matteo, il fiorentino. In particolare Lapo Pistelli, che l'aveva portato a Roma come portaborse nel '99, fatto promuovere segretario provinciale e, tre anni dopo, accompagnato nella scalata alla presidenza della Provincia. Qui il capo della segreteria di Matteo sarà Marco Carrai; i suoi cugini Paolo e Leonardo pezzi grossi della ciellina Compagnia delle opere. Ce n'è quanto basta e avanza per alimentare la diffidenza di chiunque, figurarsi D'Alema. Alle primarie per sindaco, nel febbraio '09, il giovanotto ha surclassato Pistelli (40% contro 26), poi ha infierito con un foglio di sfottò lasciatogli sulla porta di casa. L'ambizione sbandierata di Matteo è ciò che stuzzica il vecchio, la mancanza di buon gusto ciò che lo repelle. L'omicidio perfetto di Renzi giungerà a maturazione qualche anno dopo; dopo gli anni buoni da sindaco, quando l'ambizione incontrollabile (più sponsor influenti) suggeriscono che il partito erede della tradizione catto-com può essere scalato. Occorre un «simbolo», il gesto eclatante e dimostrativo, il parricidio che renda dirompente il cambio di stagione. È la nascita della «rottamazione»: D'Alema si vede tirato in ballo a ogni pie' sospinto, sempre più attonito di fronte a quella rottura imprevista delle vigenti regole di bon ton. L'attacco alla classe dirigente berlingueriana è scientifico, ma si concentra molto sul togliattiano D'Alema per salvare il prodiano Veltroni («il più comunista di tutti noi», ha detto di recente Bettini). D'Alema reagisce come elefante ferito. Quando Renzi gli farà lo sgarbo definitivo, facendogli credere prima di poterlo sostenere come commissario alla politica estera Ue per poi umiliarlo nominando l'inesperta Mogherini, l'ex leader è pugnalato al cuore. La vendetta è pietanza fredda, però. Di fronte alle pulsioni suicide di Renzi, plateali durante la roulette russa del referendum, D'Alema torna ad annusare il buon sapore della vendetta. La minoranza bersaniana, dopo anni di derisioni e umiliazioni, è ormai cotta a puntino. Gianni Cuperlo, che ben conosce l'insidiosa persuasività di quel Grillo parlante che li convince uno a uno, non riesce a trattenere la diga. Ultimo dei sedotti Bersani, per il quale l'uscita dalla ditta di una vita è un evento tragico. La sgangherata parabola di Mdp e Leu è sotto i nostri occhi, quella del Pd storia che finalmente s'azzera. Ma Berlusconi dovrebbe ripartirne i meriti dando a Cesare ciò che è di Cesare. Se Renzi ha fatto fuori i comunisti, l'ultimo martire dell'orgoglio comunista non ha esitato a sacrificarsi nel vecchio bunker di Nardò pur di vedere l'usurpatore schiacciato dal macigno del 18% dei voti. Per poi cadere a sua volta trafitto da 10.552 schede pietose: il 3,9 per cento. Più che una percentuale, un epitaffio.

La sinistra cadavere, scrive il 5 marzo 2018 Augusto Bassi su "Il Giornale". Seguire la maratona Elezioni 2018 di Enrico Mentana a volume alzato è stato superfluo. Si sarebbe rivelato sufficiente osservare i volti del ricco parterre per comprendere con vividezza l’andamento degli exit poll. Già torvi e un po’ scrofolosi per natura, si facevano tesi, poi allarmati, quindi sconsolati, infine sepolcrali. Il pensiero levogiro, antiorario al senno, testimone in diretta della propria morte. Che macabra pagina di televisione verità! E via via che i dati si facevano indiscutibili, i malcapitati sono stati chiamati a riconoscerne il cadavere. Gente che ha sempre capito nulla, per lustri e fino a pochi minuti prima dei risultati elettorali, come Annunziata, Giannini, Sorgi, Cerasa, in diretta a commentare il trapasso delle proprie stesse sentenze. Ma se il piglio di Mentana – in grandissima forma per tutta la nottata, fino a dragare la venustà della Dragotto con aria da stracciamutande emerito – si è mantenuto friccicarello malgrado il cordoglio in studio, il volume è servito per intercettare i flebili aliti dei traumatizzati ospiti. La chiacchiera tremolante di Giannini, fino a ieri sprezzante verso i populismi, intraprende l’operazione di riabilitazione dell’insulto, affrancandolo in «popolarismi»; Marco Damilano, aggrappato a una conversione pro-sistema dei 5Stelle, si dichiara sorpreso dall’avanzare della Lega nelle periferie metropolitane; Sorgi scompare inghiottito dal suo tablet, per poi riemergere con il titolo «Vince Di Maio, Italia ingovernabile». Cazzullo, dall’inflessione sua, ci ricorda dell’esistenza dei mercati, della grande Europa, mentre gli elettori italiani hanno appena risposto con meno Europa e un eloquente sticazzi! dei mercati. Per il bene della stabilità, gli scambisti non vorrebbero si votasse; malauguratamente per loro, una volta ogni tanto anche da noi si va alle urne… e può succedere che un pernacchione elettorale li destabilizzi. Irriverente Benedetto Della Vedova, intervenuto a commentare la sciagura della Bonino, che si vende come coraggioso ambasciatore anti-mainstream. Irresistibile osservare l’Annunziata che prende appunti con il lapis sull’agendina di una disfatta scolpita nella pietra con una verga di boro, e imperterrita commenta con il tono di chi la spiega. Lucia bacchetta addirittura Marine Le Pen, festante su Twitter per una consultazione italiana aculeo nel culo flaccido di Bruxelles, suggerendole di star buona perché trombata a casa propria e aggiungendo: «Ci vorrebbe un po’ di sale in zucca sulle previsioni e chi le fa». Se l’inclemente conduttrice applicasse a se stessa i parametri che riserva agli altri, oggi venderebbe carciofi e zucchine a Osci e Sanniti. Per fortuna arriva Alessandra Sardoni, in diretta dalla sede del Partito Democratico, che sembra balbettare in un regime di quarantena, coraggiosa inviata sulla scena di una terrificante pandemia. «Siamo un grande partito», «A Renzi e alla classe dirigente del PD non c’è alternativa credibile per gli italiani», erano soliti tuonare da quelle stanze e dalle testate assoldatine. Mecojoni! Il Bomba, futuro senatore del Senato che voleva abolire, dopo aver accusato gli avversari di scappare dal confronto, assorbe con il medesimo ardimento il tracollo, arrivando per commentare a caldo la sconfitta con la baldanza di un coniglio palomino. L’indispensabile, la necessaria classe dirigente – dei Gentiloni, dei Minniti, dei Gori, dei Franceschini, dei Rosato, dei Martina, dei Poletti, delle Fedeli – è stata trattata dai votanti come pattume pronto per l’inceneritore. L’eredità culturale dell’assemblea costituente ha uno scatto d’orgoglio solo nel padre nobile del partito, nell’immarcescibile campione della sinistra di governo, Pier Ferdinando Casini, che trionfa disdegnoso nella sua Bologna. Nel frattempo, la marea nera che doveva investire l’Italia, gli inquietanti rigurgiti neofascisti pronti a deflagrare, i temibilissimi blitz di Forza Nuova e Casa Pound raccontati sulla stampa dai GEDI, via radio da Vittorio Zucconi e in tv da Corrado Formigli, stanno sotto l’1%: perché “la realtà è la loro passione”. Di Stefano si vede per la prima volta in un salotto di Mentana, benché in collegamento, e si lamenta di essere stato trascurato dai media durante tutta la campagna elettorale. Risposte piccate in studio, specie da una Lucia molto indispettita. I sobillatori di mestiere che hanno tirato la volata ai propri campioncini di triciclo fino a un traguardo di paracarri, oracoleggiano ora sui futuri scenari, sugli equilibri di domani, sulla temperie a venire, smarcandosi dalla putrefazione con guizzi alla Margheritoni. E sempre indietro come la coda del maiale. In chiusura, un minuto di silenzio per Morti e uguali, come anticipato l’11 febbraio in questi quaderni. Boldrini, Bersani, D’Alema, Grasso… dal regno della pace e della serenità veglieranno sui propri cari.

D’Alema è la causa della crisi Pd. Il Dio della politica lo ha punito, scrive Sergio Carli il 5 marzo 2018 su "Blitz Quotidiano”. D’Alema è la causa principale della crisi del Pd. Il Dio della Politica, o il Dio che atterra e suscita di Manzoni, insomma proprio quel Dio là, l’ha severamente e giustamente punito. La punizione divina si è manifestata con la clamorosa sconfitta nel suo collegio di casa, in Puglia, dove non ha raccolto nemmeno il 4 per cento dei voti e è arrivato ultimo in graduatoria. Così cade chi peccò di superbia. E dire che motivò la sua candidatura come la risposta a un imperativo categorico, una richiesta che saliva dalla piazza italiana che lo voleva ancora in politica, impegnato a salvare l’Italia. Quella bella Italia di pseudo sinistra che pensa ai poveri invece che alla crescita, a ridistribuire quello che non è stato accumulato, a proteggere i privilegi della casta, di cui lui e i suoi compagni di partito sono colonna. Come nella Unione Sovietica, che lui frequentò da ragazzo come pioniere. Giusto che questa sinistra, un po’ salottiera e un po’ saccente, sia finita come è finita, sotto il 4 per cento, altro che il 10. Come l’Unione Sovietica, appunto. Fu Massimo D’Alema a fermare Matteo Renzi sulla strada delle riforme. Fu lui il grande vecchio che orchestrò la campana contro il referendum costituzionale, scatenando i suoi agit prop. È stato lui la mente della scissione a sinistra del Pd che è finita come è finita ma che, nel processo, ha trascinato quasi nel baratro il Pd stesso. Il Pd è una forma di miracolo italiana. L’unico caso al mondo di un partito comunista che, attraverso successive mutazioni nonché lo sterminio di avversari a catena (Psi, Dc, Forza Italia e Craxi e Berlusconi), è riuscito a sopravvivere alla caduto del muro di Berlino e ottenere, quasi 30 anni dopo, un bel quasi 20 per cento dei voti. Ma quel vizietto tutto comunista che consentì la vittoria di Franco grazie alla strage operata nella sinistra non comunista, alla fine ha prevalso. Così D’Alema e il suo gregario Pierluigi Bersani non hanno resistito e hanno portato al disastro. C’è una forma di perversità crudele nel Destino dell’ex Pci, manifestazione tangibile della volontà divina. Nella sua prima mutazione, il Pds guidato prima da Achille Occhetto e poi soprattutto da Massimo D’Alema, guidò la lotta a Bettino Craxi e al Psi e alla Dc. Il risultato fu che all’Italia fu riservato il regalo di essere guidata da Silvio Berlusconi. Poi il Pd, nuova mutazione, guidò la guerra senza quartiere a Berlusconi. Il risultato fu Beppe Grillo. In questi 20 anni che tanti hanno definito età Berlusconiana, in realtà l’Italia è diventata sempre più un paese di Socialismo reale. Metà di noi non pagano tasse, non perché evasori ma perché esonerati dalla legge. La propaganda pauperistica del Pd, accompagnata dai disastrosi errori di Mario Monti e l’inefficacia delle sue poche iniziative positive (pensate al ritardo biblico dei pagamenti della PA) hanno fornito argomenti e brodo di cultura alla protesta grillina. Se non sarà ripescato per qualche miracolosa procedura. D’Alema finalmente uscirà di scena. Finalmente, ma forse troppo tardi.

Agit-Prop. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. Agitprop è l'acronimo di отдел агитации и пропаганды (otdel agitatsii i propagandy), ossia Dipartimento per l'agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale e regionale del Partito comunista dell'Unione sovietica il quale fu in seguito rinominato «Dipartimento ideologico». Nella lingua russa il termine «propaganda» non presentava nessuna connotazione negativa, come in francese o inglese, significava «diffusione, disseminazione, d'idee ». Attività e obbiettivi dell'Agitprop erano diffondere idee del marxismo-leninismo, e spiegazioni della politica attuata dal partito unico, oltre che in differenti contesti diffondere tutti i tipi di saperi utili, come per esempio le metodologie agronome. L'«agitazione» consisteva invece nello spingere le persone ad agire conformemente alle progettualità d'azione dei dirigenti sovietici.

Forme. Durante la Guerra civile russa l'Agitprop ha assunto diverse forme:

La censura della stampa: la strategia bolscevica fin dall'inizio è stata quella di introdurre la censura nel primo mezzo di comunicazione per importanza, ovvero il giornale. Il governo provvisorio, nato dalla rivoluzione di marzo contro il regime zarista, abolì la pratica secolare della censura della stampa. Questo creò dei giornali gratuiti, che sono sopravvissuti con il loro proprio reddito.

La rete di agitazione orale: la leadership bolscevica capì che per costruire un regime che sarebbe durato, avrebbero avuto bisogno di ottenere il sostegno della popolazione russa contadina. Per farlo, Lenin organizzò una festa comunista che attirò i soldati smobilitati (tra gli altri) ad assumere un'ideologia e un comportamento bolscevico. Questa forma si sviluppò soprattutto nelle zone rurali e isolate della Russia.

L'agitazione di treni e navi: per espandere la portata della rete di agitazione orale, i bolscevichi usarono i mezzi moderni per raggiungere più in profondità la Russia. I treni e le navi effettuarono agitazioni armate di volantini, manifesti e altre varie forme di agitprop. I treni ampliarono la portata di agitazione in Europa orientale, e permisero la creazione di stazioni di agitprop, composte da librerie di materiale di propaganda. I treni furono inoltre dotati di radio e di una propria macchina da stampa, in modo da poter riferire a Mosca il clima politico di una determinata regione, e di ricevere istruzioni su come sfruttare al meglio ogni giorno la propaganda.

Campagna di alfabetizzazione: Lenin capì che, al fine di aumentare l'efficacia della sua propaganda, avrebbe dovuto aumentare il livello culturale del popolo russo, facendo scendere il tasso di analfabetismo.

L'AGIT-PROP. Questa pagina è tratta da: La Turbopolitica, sessant'anni di comunicazione politica e di scena pubblica in Italia: 1945/2005 (riassunto) di Anna Carla Russo. L’agit-prop (Agitazione e Propaganda). I militanti costituiscono l’esercito dei partiti di massa e le caratteristiche del militante sono la spinta ideologica, dedizione alla causa, rispetto della disciplina interna, ampia disponibilità e proprio su questo si fonda l’organizzazione e la sua presenza sul territorio, vivacità e visibilità. L’attività del militante è molto preziosa, ma non ha un prezzo il militante infatti dedica la sua esistenza alla causa politica ed è sempre attivo in qualsiasi luogo, è l’anima dell’organizzazione e delle associazioni, circoli, polisportive, dopolavori, insomma tutto ciò che coinvolge la vita dell’iscritto. La campagna elettorale per le elezioni del 1948 trasforma i partiti in giganti macchine propagandistiche che coinvolgono migliaia di militanti; la Dc mobilita tutte le province giungendo a 90.  Attivisti; più estesa è la macchina propagandista dei Comitati civici che coinvolgono anche i fedeli arrivando a 300.000 volontari, anche Pci e Psi uniti nel Fronte democratico popolare nel 1948 hanno oltre due milioni di iscritti al partito di Togliatti organizzati in 10.000 sezioni che sovrintendono oltre 52.000 cellule; anche i numeri del Psi sono notevoli, il partito infatti si afferma nel 1946 con oltre quattro milioni e mezzo di voti come secondo partito italiano e primo nel Nord-Italia. Secondo il Pci la crescita politica deve procedere di pari passo con la crescita dell’individuo e con il raggiungimento di un suo maggior livello di istruzione e quindi lo sforzo educativo- organizzativo del partito richiede modalità diverse, tra il 1945 e il 1950 coinvolgono 52.713 partecipanti. Anche per i socialisti e le organizzazioni cattoliche i militanti devono crescere sia nel numero che nella preparazione; nel 1948 i Comitati civici improvvisano un corso per migliaia di volontari e dieci anni dopo nasce l’Unione Nazionale degli Attivisti Civici ossia una rete ben organizzata che nel 1958 raduna a Roma 1500 responsabili di una capillare attività di formazione svolta mediante corsi zonali e rurali. I corsi sono tenuti da Dirigenti della URA Campania che sviluppano argomenti quali: l’antimarxismo; al dottrina sociale della Chiesa: gli enti di Previdenza e Assistenza in Italia e la struttura e l’inserimento nella vita italiana del Comitato Civico. La stessa Azione cattolica intensifica l’opera di apostolato e formazione dando vita in tutta Italia a missioni religioso-sociali i cui responsabili vengono preparati in tre corsi nazionale di aggiornamento. Anche la Dc si occupa di formare i militanti organizzando 31 corsi provinciali; secondo Fanfani i contatti instaurati tramite le sezioni non erano efficaci quanto il colloquio personale, la riunione familiare o il dibattito amichevole al circolo e quindi il contatto personale e l’azione assidua dei militanti ricopriva un ruolo centrale. Alla metà degli anni ’60 i militanti dei due fronti sono coloro che dedicano tempo ed energie all’animazione del partito e aderiscono a un ideale politico applicandosi per la sua realizzazione. Le basi militanti cattolica e comunista differiscono per il significato che attribuiscono alla militanza e nel loro gradi di politicizzazione. Per gli attivisti del Pci la partecipazione militante coinvolge l’intera sfera degli interessi e delle attività individuali; per gli attivisti democristiani l’integrazione con il partito coinvolge solo in parte la vita privata del singolo; il militante comunista basa la sua azione sulla fedeltà al partito e non esistono al di fuori del partito altre autorità se non sovranazionali, mentre l’azione del militante democristiano è sostenuta dalla convinzione di essere l’unico depositario di una verità a cui gli altri si devono convertire e oltre al partito esistono altre sorgenti autoritarie a cui fare riferimento. Ci sono differenze profonde che vedono un Pci più attivo. Anna Carla Russo

Agit-Prop. Scrive Massimo Lizzi il 24 ottobre 2015. Agit-prop: Dipartimento per l’agitazione e la propaganda, organo del comitato centrale del partito comunista dell’Urss. In russo, dice Wikipedia, propaganda, significa diffusione di idee e di saperi utili, senza la connotazione negativa che ha in francese, inglese e in italiano; una connotazione che credo influenzi molto la percezione di sé dei nostri propagandisti. Agit-prop definisce bene un certo modo di fare opinione e informazione al servizio di un leader, un partito, uno stato, una chiesa, una causa. Fabrizio Rondolino, nel confronto con Marco Travaglio, da Lilli Gruber, ha definito agit-prop il Fatto Quotidiano, giornale allarmista per una democrazia sempre messa in pericolo e per una politica sempre corrotta e impunita. Ha ragione. I toni del Fatto erano, secondo me, adeguati contro Silvio Berlusconi, non solo capo, ma padrone del centrodestra, non solo leader e premier, ma padrone della TV commerciale, disposto a commettere reati, ad usare la politica per tutelarsi da inchieste e processi, a delegittimare la magistratura e la stampa. Oltre e dopo Berlusconi, il Fatto si è rivelato monocorde. Stessi toni nei confronti dei leader del centrosinistra e dei successori al governo del cavaliere. Toni che consistono nel rappresentare i politici avversari come dei disonesti o degli imbecilli, o entrambi. Più la simpatia per Beppe Grillo. Agit-prop definisce bene anche il giornalismo di Fabrizio Rondolino. Poco importa che abbia cambiato riferimenti nel corso della sua carriera professionale, da D’Alema, a Mediaset, al Giornale, ad Europa e ora all’Unità a sostegno di Renzi, perché si può cambiare idea o mantenere la stessa idea e vederla di volta in volta incarnata in soggetti diversi. Conta lo stile che si mantiene uguale: l’enfasi con cui sostiene il suo leader, la violenza con cui contrasta gli avversari del suo leader. Tweet oltre il limite della provocazione contro i meridionali, perché il rapporto Svimez mette in difficoltà il governo, o contro le insegnanti, per le proteste contro la riforma della scuola; un blogper bastonare la minoranza PD; una rubrica sull’Unità per dileggiare il Fatto tutti i giorni. Anche Rondolino in fondo dice dei suoi avversari che sono dei disonesti o degli imbecilli. A me piace il conflitto, lo scontro, la polemica, però resto perplesso di fronte ad un modo di confliggere che nega alla controparte rispetto, autorevolezza, valore, e conduce una dissacrazione totale e permanente nei confronti di chiunque sia fuori linea: politici, giornalisti, magistrati, costituzionalisti, intellettuali. Lilli Gruber ha chiesto conto a Marco Travaglio di una didascalia molto evidente a lato di una foto di Maria Elena Boschi, pubblicata sul Fatto. “La scollatura di Maria Elena Boschi è sempre tollerata. Magari non il giorno della legge che porta il suo nome e stravolge la Costituzione”. Travaglio non ha saputo darne una giustificazione sensata e ha riproposto il solito ritornello, per cui non si può criticare una donna senza essere accusati di misoginia, per poi aggiungere che se una donna si veste in un certo modo, non deve lamentarsi dei commenti che riceve. Come se la critica ad una scollatura sia pertinente con la critica all’attività di una donna in politica e come se l’abbigliamento di una donna sia di certo concepito per compiacere lo sguardo maschile, sempre autorizzato a commentare, anche a sproposito. Rondolino ha paragonato Travaglio ai personaggi di Lino Banfi, che guardano nelle scollature, come a dargli dello sfigato, ma quella didascalia per la quale Lillì Gruber ha manifestato il suo fastidio, non è solo sfigata, è anche molesta e viene pubblicata su un giornale che ha nel sessismo il suo più importante punto debole.

ItaliaOggi. Numero 231 pag. 6 del 29/09/2009. Diego Gabutti: Non è il pluralismo che riesce a garantire l'obiettività. L'opinione pubblica, cara a tutti, è stata liquidata col colpo alla nuca della propaganda. Non è libertà di stampa e d'opinione, e non è neppure disinformazione (ci mancherebbe) ma pura e semplice indifferenza per la realtà, quella che ha corso da noi, nell'Italia delle risse da pollaio tra direttori di giornale, del conflitto d'interesse e di Michele Santoro che, credendosi un santo, si porta in processione da solo (i ceri li paga Pantalone). È una libertà di stampa in stile agit-prop: votata, in via esclusiva, all'agitazione e alla propaganda. Apposta è stata coniata l'espressione «pluralismo»: voce da dizionario neolinguistico se ce n'è mai stata una. Con «pluralismo», parola rotonda, non s'intende l'obiettività famosa (sempre che esista e c'è da dubitarne). Il «pluralismo dell'informazione» non garantisce l'informazione ma soltanto il «pluralismo». Vale a dire unicamente il diritto, assicurato a tutte le parti politiche, d'esprimersi liberamente e senza rete attraverso stampa e tivù. Non è in questione, col «pluralismo», la qualità dell'informazione, se cioè l'informazione sia attendibile e non manipolata, ovvero falsa o vera, ma soltanto la sua spartizione, affinché a tutte i racket politici sia riconosciuto il privilegio di lanciare messaggi a proprio vantaggio. Come in una satira illuminista, la libertà di stampa s'identifica con la libertà di dedicarsi anima e corpo alla propaganda: una specie d'otto per mille da pagare a tutte le chiese, sia a Bruno Vespa che a Marco Travaglio. È un concetto stravagante, ma più ancora grottesco e deforme: il «pluralismo» complicato e trapezistico sta alla libertà di stampa propriamente detta come la donna barbuta e l'uomo con due teste del luna park stanno a Naomi Campbell e a Brad Pitt. Non allarga il raggio delle opinioni ma è un guinzaglio corto che lascia campo libero soltanto alle idee fisse. Attraverso il «pluralismo» si stabilisce inoltre il principio dadaista che la sola informazione che conta è quella politica. Tutto il resto è pattume e tempo sprecato: l'occhio del giornalista, sempre più addomesticato e deferente, s'illumina soltanto quando il discorso finalmente cade sulle dichiarazioni del capopartito o sulle paturnie dell'opinion maker, cioè sul niente. È in onore del niente che da noi si esaltano le virtù del «pluralismo». Se ne vantano i meriti, lo si loda, e presto forse lo si canterà negli stadi sulle note dell'Inno di Mameli, o di Va' pensiero, come se davvero l'opinione pubblica fosse la somma di due o più opinioni private, utili a questo o quel potentato economico, a questa o quella segreteria di partito. Ascoltate con pazienza tutte le campane, ci dicono i maestri di «pluralismo», quindi fatevi un'opinione vostra, scegliendo l'una o l'altra tra quelle che vi abbiamo suonato tra capo e collo, nella presunzione che non ci sia altra opinione oltre a quelle scampanate per lungo e per largo dai signori della politica e dell'economia. Suprema virtù dell'informazione è diventata così l'equidistanza: l'idea, cioè, che il buon giornalismo illustri senza prendere partito tutte le opinioni lecite, e che non ne abbia mai una propria, diversa da quelle angelicate. In ciò consisterebbe, secondo chi se ne vanta interprete e campione, l'opinione pubblica famosa, il cui fantasma viene evocato ogni giorno (esclusivamente per amore della frase a effetto) proprio da chi l'ha liquidata col colpo alla nuca della propaganda e dell'agitazione di parte e di partito: gl'intellettuali snob che celebrano messa nelle diverse parrocchie ideologiche, le star miliardarie dei talk show, i fogli di destra e di sinistra che hanno preso a modello la «Pravda» (e, per non farsi mancare niente, anche la stampa scandalistica inglese).

Il falso allarme antifascismo: l'onda nera è una pozzanghera, scrive Francesco Maria Del Vigo, Martedì 06/03/2018, su "Il Giornale". Più che un'onda alla fine si è capito che era una pozzanghera. Quella nera. Vi ricordate la campagna ossessiva che per quasi un anno ci ha tambureggiato nelle orecchie? «All'armi tornano i fascisti!». Giornali e media di sinistra avevano scoperto un filone sempreverde, garanzia di perenne polemica: cioè terrorizzare l'opinione pubblica convincendola del ritorno delle squadracce di Benito Mussolini. Ora, per smontare questa fake news, sarebbe bastato un po' di buon senso. Non sembra che negli ultimi anni si siano impennate le vendite di orbace, fez, manganelli e olio di ricino. Certo, come coraggiosamente svelato da Repubblica, in Veneto c'era un bagnino che aveva tappezzato il suo stabilimento di cimeli (di pessimo gusto) del Ventennio. Ma anche in questo caso il buonsenso non è stato reperito. Fino a quando un giudice ha derubricato l'episodio all'innocua categoria del folclore. E poi, decine e decine di accorati articoli sull'irresistibile ascesa delle tartarughe di Casapound e sui camerati di Forza Nuova. Sociologi e psicologi in campo per spiegare questo ritorno al passato: disagio sociale, periferie, mancata scolarizzazione, emarginazione. Persino la stampa estera - abbindolata da quella nostrana - si era interessata allo strano morbo passatista che sembrava aver infettato lo Stivale, nella memoria del celeberrimo portatore di stivali rigorosamente neri. Ecco, ora possiamo dire che dove non è arrivato il buonsenso sono arrivate le urne. Perché se ci fosse stata una proporzione tra lo spazio mediatico concesso al «pericolo fascista» e il successo elettorale dello stesso, Casapound sarebbe dovuta essere almeno il terzo partito in Parlamento e Simone Di Stefano avrebbe dovuto stappare bottiglie di autarchico prosecco. E invece, la maiuscola deriva mussoliniana si è scoperta soffrire di nanismo. Con il suo 0,9 per cento di preferenze raccolte, Casa Pound smonta la più grande balla della campagna elettorale. Una manciata di mani tese si sono abbassate per infilare la loro scheda nell'urna. Si sgonfia e precipita l'aerostato, pompato ad arte, della marea nera. Il ritorno del fascismo era solo un maldestro tentativo di tenere insieme una sinistra fratturata e scomposta. Il babau non esiste. O, quanto meno, esiste ma non è certo una marea. Si è trattato solo di un procurato allarme. Il paradosso è che a questo giro non solo non sono entrati in Parlamento i nipotini del Duce, ma non è entrato nemmeno un partito che porti la parola sinistra nel nome e nella ragione sociale. Uno scherzo della storia. Un bello scherzo.

GLI SPIN DOCTOR. PERSUASORI DEI GOVERNI.

Dr. Facebook e Mr. Hide, scrive il 24 marzo 2018 Roberto Sommella (Direttore Relazioni Esterne Autorità Antitrust, fondatore de La Nuova Europa) su "Il Corriere del Giorno". Le relazioni digitali sarebbero quindi “legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Quando su Facebook si ricordano i 50 milioni di morti della seconda guerra mondiale e qualcuno grida alla propaganda invece di ripassare la storia, emerge con nettezza qual è il vero problema dell’abuso dei social network: la perdita della memoria collettiva e l’avvento di un nuovo senso delle cose.  C’entra poco per chi si vota e come si può essere influenzati dall’uso distorto dei dati personali che si regalano ogni secondo alla rete. È stato ormai dimostrato come il web amplifichi i propri pregiudizi, piuttosto che sfatarli. Se uno nasce trumpiano difficilmente diventa democratico a colpi di “like”. Forse va più volentieri alle urne, ma non cambia idea. Piuttosto le ultimissime ricerche in questo campo del mondo di mezzo, tra il reale e il virtuale, si sono concentrate sulla modifica della percezione di se stessi, un aspetto molto più importante perché costituisce la base della società in tutte le manifestazioni della vita quotidiana. Per questo, fatte le dovute verifiche sul reale utilizzo dei 50 milioni di profili effettuato dalla Cambridge Analytica, che avrebbe influenzato le elezioni americane, la Brexit, forse anche le consultazioni italiane, e incassate le previste scuse del patron del gigante blu, Mark Zuckerberg, terrorizzato di veder sgonfiare il suo mondo dorato a colpi di ”delete”, occorre spostare il tema su almeno tre piani, relativi alla riservatezza dei propri profili, agli aspetti psicanalitici e a quelli economici.

Dal punto di vista della privacy, come ha sottolineato un esperto del settore quale Claudio Giua, per quanto riguarda l’Italia e l’Europa, il nodo da affrontare e sciogliere è la mancata applicazione da parte di Facebook di adeguate misure di sicurezza emersa dalla vicenda, “che nulla ha a che fare con la completezza finanche eccessiva dei dati personali raccolti”. C’è da chiedersi se a ribaltare la situazione basterà l’applicazione, prevista per il 25 maggio, della GDPR, la General Data Protection Regulation, il complesso di norme messe a punto dall’Unione Europea al fine di garantire un quadro entro il quale i dati degli utenti siano immagazzinati in modalità corrette e trattati nel rispetto della volontà delle parti coinvolte. Il regolamento comunitario rafforza le informative per la raccolta dei consensi, limita il trattamento automatizzato dei dati personali, stabilisce nuovi criteri sul loro trasferimento fuori dell’Unione e, soprattutto, colpisce le violazioni. In sostanza pone le basi per il riconoscimento di una sorta di diritto d’autore sui Big Data. Sarebbe un passo decisivo, perché risulta difficile accusare qualcuno di aver utilizzato la propria auto come un taxi, intascando i profitti, senza poter dimostrare la proprietà del mezzo. È proprio quello che sta accadendo con il “caso Datagate”, che potrebbe risolversi in un nulla di fatto e solo qualche scossone in borsa. Se davvero passerà una simile interpretazione, per la prima volta, queste norme sulla tutela dei dati personali nell’Unione Europea, che ha progettato anche una web tax sul fatturato, saranno pienamente valide anche per chi ha sede extracomunitaria, come Facebook, Google, Twitter, Amazon, Apple, cui risulterà più difficile eludere le responsabilità finora solo formalmente assunte nei confronti degli utenti.

Per quanto riguarda il secondo punto di vista che si deve affrontare, viene in aiuto una recentissima pubblicazione di una neuro scienziata, ricercatrice al Lincoln College dell’Università di Oxford, Susan Grenfield. In “Cambiamento mentale” appena tradotto in italiano, questa baronessa premiata con la bellezza di 31 lauree honoris causa in mezzo mondo, esamina come le tecnologie digitali stiano modificando il cervello. E a proposito dei social network, Grenfield scrive: ‘‘gli utilizzatori di Facebook sono più soddisfatti delle proprie vite quando pensano che i propri amici di Facebook siano un pubblico personale a cui trasmettere unilateralmente informazioni, rispetto a quando hanno scambi reciproci o più relazioni offline con contatti ottenuti online”.

Le relazioni digitali sarebbero quindi “legate a una minore depressione, a una ridotta ansia e a un maggior grado di soddisfazione alla propria vita”. Esattamente quello che intendeva Zuckerberg quando stilò il suo Manifesto, dove parlava della possibilità di governare gli effetti nefasti della globalizzazione attraverso la rete, esaltando le relazioni personalivirtuali: “Tutte le soluzioni non arriveranno solo da Facebook ma noi credo che potremo giocare un ruolo”. Un po’ quello che temeva George Orwell in 1984. Il problema è capire che ruolo ha la rete nei disturbi della personalità.

Nel campo della salute mentale, secondo lo psichiatra Massimo Ammaniti, si tende a valorizzare l’uso dei Big Data in quanto offrono nuove opportunità per la ricerca data, l’ampiezza sconfinata dei campioni, ma allo stesso tempo vengono sollevate perplessità sulla “veracity” e sulla “unreliability” delle informazioni provenienti da varie fonti. Riguardo alla “veracity”, la “veridicità”, ci si chiede se i dati raccolti senza una prospettiva di ricerca possano essere utilizzabili. Avere un valore in quanto fonte di informazioni rilevanti come pesa sull’immagine di sé e sulla propria autostima?

Non ci si valuta come persona, ma come “informant” che serve al mercato, non ci si valuta per quello che si è ma per quello che ognuno vale. Quando si entra in un data base fornendo le proprie informazioni personali – per esempio come quello di Cambridge Analytica – si accede a un universo di categorie che verranno definite. Forse ci si potrà chiedere che uso verrà fatto delle informazioni che ci riguardano e chi saranno coloro che utilizzeranno questi dati per pianificare le nostre vite. Può prendere corpo uno scenario appunto orwelliano, un mondo distopico, in cui si è costretti a vivere dove viene meno il senso agente di sé perché qualcun altro decide del nostro futuro senza che ne abbiamo consapevolezza. In campo psichiatrico per descrivere l’esperienza di spersonalizzazione vissuta dai malati mentali si è fatto riferimento al concetto di “pseudo comunità paranoide”, nella quale ci si sente preda di cospirazioni e raggiri senza sapere chi siano gli attori e i protagonisti, per cui è impossibile riuscire ad orientarsi e difendersi. Un articolo dell’American Journal of Epidemiology, citato in un’inchiesta della London Review of Books, ha sostenuto che a un aumento dell’1% dei like su Facebook, dei click e degli aggiornamenti corrisponde un peggioramento dal 5 all’8% della salute mentale. Difficile pensare che tutte queste informazioni possano servire a sovvertire i regimi democratici, magari si vende più pubblicità.

La domanda più pragmatica da porsi è perciò un’altra. Se cambia la personalità usando internet, cambiano anche le scelte commerciali?

Questa è la terza frontiera che si deve analizzare. Oggi si conosce cosa accade in sessanta secondi sul web. In un giro di lancette, si effettuano 900.000 login su Facebook, si inviano 452.000 “cinguettii” su Twitter, si vedono 4,1 milioni di video su YouTube, si effettuano 3,5 milioni di ricerche su Google, si postano 1,8 milioni di foto su Snapchat, si inviano 16 milioni di messaggi.

I calcoli del World Economic Forum fanno riflettere ma non dicono quanto di se stessi si lascia nel momento in cui si riversano nell’agorà digitale inclinazioni, paure, desideri. Una risposta l’ha fornita proprio l’ex socio di Mark Zuckerberg, Sean Parker, ben prima che scoppiasse il Datagate: Facebook sarebbe un loop di “validazione sociale basato su una vulnerabilità psicologica umana che cambia letteralmente la relazione di un individuo con la società e con gli altri’‘. Proprio quello che sostengono luminari come Grenfield e Ammaniti. È del tutto evidente che non esiste quindi soltanto il problema di come trattare e proteggere i dati personali ma anche di valutarne a questo punto l’affidabilità e la veridicità in tutti i gesti quotidiani. Quando si acquista un bene e si viene profilati, quando si esprime un parere e ci si sottopone al giudizio del pubblico virtuale, quando si esercita la massima espressione delle libertà personali in democrazia, il voto. Se dietro a tutte queste manifestazioni c’è ormai una sagoma sbiadita di un’identità, qualcosa la cui verosimiglianza è a rischio, il lavoro controverso e criticato di Cambridge Analytica e di chissà quante altre società, diventa solido come un castello di carte. La fake news saremo noi.

Ma Cambridge Analytica e Facebook non hanno eletto Trump. Le manipolazioni e l'uso dei dati del social non è detto siano così efficaci politicamente. E non dovrebbero diventare un alibi per le difficoltà elettorali del liberalismo e dei difensori delle società aperte, scrive Luigi Gavazzi il 21 marzo 2018 su "Panorama". È il caso di ribadirlo. Donald Trump e la Brexit non dovrebbero essere spiegati solo con la manipolazione dei dati sottratti a Facebookda Cambridge Analytica (CA). L'azione di quest'ultima, sicuramente preoccupante per la democrazia e le libertà individuali, compreso l'incubo per l'abuso dei dati conferiti a Facebook dagli utenti, difficilmente è stata davvero efficace come sostengono sia i dirigenti di CA, sia Christopher Wylie, il whistleblower che ha rivelato all'Observer e al New York Times il lavoro fatto per Steve Bannon - stratega della campagna elettorale 2016 di Donald Trump - e per il Leave in Gran Bretagna. Indagare e scoprire violazioni di legge e pericoli politici di questa attività è doveroso. Sarebbe meglio però non venisse usata da partiti, gruppi sociali e culturali sconfitti da Trump e dalla Brexit come alibi per ignorare le proprie debolezze e l'inefficacia degli argomentiusati a favore della società aperta e del liberalismo. Insomma, evitiamo di rispondere alle minacce e alle sfide del populismo parlando solo di social network.

Se Cambridge Analytica fosse inefficiente e avesse venduto fumo. I signori di CA da anni - come ricorda David Graham su The Atlantic - cercavano di piazzare i propri servizi, dicendo che avrebbero fatto cose miracolose. Nel 2015 Sasha Issenberg di Bloomberg scrisse di CA e delle promesse della loro profilazione “psicografica”, oggi alla ribalta, con una certo scetticismo, per esempio perché il profilo ricavato dal test sullo stesso Issenberg era risultato molto diverso da quello prodotto dal Psychometrics Centre dell’Università di Cambridge (il test originale sul quale si basava l'app di usata da Aleksandr Kogan per raccogliere i dati per Ca). Del resto, Cambridge Analytica, era stata ingaggiata nel 2015 sia da Ted Cruz che da Ben Carson, due candidati repubblicani alla nomination per le elezioni presidenziali. Ebbene, il contributo di CA è risultato nullo, e le campagne hanno avuto esiti disastrosi. Le persone che dirigevano quella di Cruz hanno ben presto deciso di lasciar perdere il contributo di CA, perché irrilevante. Nel comunicare la decisione si lamentarono del fatto che stessero pagando un servizio che non esisteva neppure. C’è poi il fatto che dietro CA ci fosse, come investitore, Robert Mercer e la sua famiglia, fra i principali sostenitori e finanziatori dei repubblicani. Per Cruz era importante avere i soldi di Mercer, a costo di ingaggiare la creatura CA che Mercer finanziava.  

Mercer, come noto, passò poi a Trump, convinto anche da Bannon e da Breitbart. La cosa interessante è che, d’altra parte, la stessa campagna di Trump, dopo aver abbracciato CA, l’ha successivamente abbandonata. A sostegno della tesi di Cambridge Analytica come un bluff che ha venduto più che altro fumo, ci sarebbe anche il video registrato dai reporter di Channel 4, presentati sotto la falsa identità di politici dello Sri Lanka interessati a comprare i servizi dell'azienda. Ebbene, se questi servizi fossero così efficaci come i manager di CA sostengono, che bisogno ci sarebbe stato, per venderli ai politici interessati, di proporre anche manovre per intrappolare gli avversari di questi ultimi, screditandoli con possibili scandali sessuali, sospetti di corruzione e cose del genere? Più in generale, gli osservatori citati da Graham sono da tempo assai dubbiosi dell’efficacia di queste tecniche “psicometriche”, fino a qualche anno fa chiamate di “microtargeting”.

La democrazia liberale deve comunicare meglio i pregi della società aperta. Detto questo, i democratici negli Stati Uniti, chi voleva che il Regno Unito restasse nell'Unione Europea, i partiti sconfitti dall'onda populista in Italia, chi teme l'autoritarismo sovranista e illiberale di Ungheria e Polonia, dunque, tutti coloro ai quali sta a cuore la democrazia liberale e la società aperta dovrebbero concentrarsi più sugli argomenti politici, i linguaggi, le proposte, la comunicazione per convincere gli elettori. In questo modo sarebbe più facile e probabile rendere innocuo chi cerca di manipolare le opinioni pubbliche in questi paesi, siano manovratori nell'ombra, gli hacker di Putin o di chi altro (che, vale la pena ricordarlo, sono comunque preoccupanti per la democrazia).

Facebook, ecco come Obama violò la privacy degli americani, scrive il 22 marzo 2018 Giampaolo Rossi su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". Carol Davidsen è stata il capo Dipartimento “Media Targeting” dello staff di Obama nelle elezioni del 2012 ed è considerata un’esperta di campagne elettorali online in America. In una conferenza pubblica, tre anni dopo l’elezione di Obama, rivelò qualcosa che allora passò sotto silenzio ma che oggi è dirompente alla luce dello scandalo Cambridge Analityca: “Noi siamo stati capaci di ingerire l’intero social network degli Stati Uniti su Facebook”. Nello stesso intervento affermò che i democratici acquisirono arbitrariamente i dati dei cittadini americani a cui i Repubblicani non avevano accesso; e questo avvenne con la complicità dell’azienda americana che lo consentì tanto che la Davidsen è costretta ad ammettere che “ci fu uno squilibrio di acquisizione informazioni ingiusto” (nel video dal minuto 19:48). Nei giorni scorsi su Twitter, la Davidsen è tornata sulla questione confermando che a Facebook furono sorpresi quando si accorsero che lo staff di Obama aveva “succhiato l’intero social graph” (vale a dire il sistema di connessioni tra gli utenti) “ma non ce lo impedirono una volta capito cosa stavamo facendo”. In altre parole Facebook consentì ad Obama di rubare i dati dei cittadini americani e di utilizzarli per la sua campagna presidenziale, in quanto azienda schierata dalla parte dei democratici. D’altro canto già nel 2012, sul Time, un lungo articolo di Michael Scherer spiegava come Obama si era impossessato dei dati degli americani su Facebook con lo scopo d’intercettare l’elettorato giovanile. Esattamente nello stesso modo in cui lo ha fatto Cambrdige Analytica per la campagna di Trump: attraverso un app che carpì i dati non solo di chi aveva autorizzato, ma anche della rete di amicizie su Facebook ignare di avere la propria privacy violata. Solo che allora la cosa fu salutata come uno dei nuovi orizzonti delle politica online e descritta da Teddy Goff, il capo digital della campagna di Obama, “il più innovativo strumento tecnologico” della nuove campagne elettorali.

Zuckerberg e democratici. La stretta connessione tra Facebook e il Partito Democratico Usa è continuata anche nelle ultime elezioni come rivelano in maniera implacabile le mail di John Podesta, il potente capo della campagna elettorale di Hillary Clinton, pubblicate da Wikileaks. È il 2 gennaio del 2016, quando Sheryl Sandberg, Direttore esecutivo di Facebook e di fatto numero due dell’Azienda, scrive a Podesta una mail di augurio di Buon Anno, affermando: “Sono elettrizzata dai progressi che sta facendo Hillary”. È il periodo in cui si stanno completando i preparativi per la designazione alla primarie del Partito democratico che partiranno a febbraio; e la risposta del Capo Staff di Hillary non lascia adito a dubbi: “Non vedo l’ora di lavorare con te per eleggere la prima donna presidente degli Stati Uniti”.

Sheryl Sandberg (oggi una delle dirigenti Facebook al centro dello scandalo) è la donna che Zuckerberg volle fortemente nella sua azienda strappandola nel 2008 al diretto concorrente Google. La manager, da sempre democratica, aveva lavorato nell’amministrazione di Bill Clinton come capo staff di Larry Summers il Segretario del Tesoro, voluto proprio dal marito di Hillary. Il rapporto tra Podesta e la Sandberg è di vecchia data. Nell’agosto del 2015 lei scrive a lui per chiedergli se fosse disposto ad incontrare direttamente Mark Zuckerberg. Il grande capo di Facebook è interessato ad incontrare persone che “lo aiutino a capire come fare la differenza sulle questioni di politica a cui lui tiene maggiormente” e “comprendere le operazioni politiche efficaci per far avanzare gli obiettivi” tematici a cui lui tiene, come “immigrazione, istruzione e ricerca scientifica”. E chi avrebbe potuto farlo meglio del guru della campagna elettorale di colei che erano tutti convinti, sarebbe diventata il successivo presidente degli Stati Uniti?

Conclusione. Lo scandalo Cambridge Analytica che doveva essere l’ennesimo attacco contro Trump e la sua elezione si sta trasformando in un boomerang per Democratici e sopratutto per Facebook; l’azienda è oggi al centro del mirino delle polemiche per un modello di business che si fonda proprio sull’accaparramento e la cessione dei nostri dati di privacy che possiede nel momento in cui noi inseriamo la nostra vita, le nostre immagini, le amicizie e la nostra identità all’interno del social media. Ma la questione è sopratutto politica: quello che oggi è scandalo perché fatto per la campagna elettorale di Trump, fu ritenuta una grande innovazione quando lo fece Obama. Con in più un particolare di non poco conto: che nel caso di Obama, Facebook ne era a conoscenza e consentì la depredazione dei dati degli americani. Forse, all’interno del suo “mea culpa”, è di questo che Zuckerberg e i vertici di Facebook dovrebbero rispondere all’opinione pubblica.

Cambridge Analytica gate: il dito e la luna, scrive Guido Scorza il 21 marzo 2018 su "L'Espresso". Se esisteva ancora qualcuno al mondo che non conosceva Facebook ora lo conosce certamente. Lo scandalo che ha travolto il più popolare social network della storia dell’umanità è, da giorni, sulle prime pagine dei media di tutto il mondo. Il “diavolo” è nudo. Se non è già avvenuto, presto qualcuno titolerà così uno dei tanti feroci j’accuse all’indirizzo di Zuckerberg. Ma si commetterebbe uno dei tanti errori dei quali la narrazione mediatica globale – in alcuni Paesi tra i quali il nostro più che in altri – è piena zeppa. Vale la pena, quindi, di mettere nero su bianco qualche punto fermo in questa vicenda e provare anche a trarne qualche insegnamento senza rischiare di perder tempo a fissare il dito, lasciando correre via la luna. La prima necessaria considerazione è che nessuno ha rubato né a Facebook, né a nessun altro i dati personali dei famosi 50 milioni di utenti. Non in questa vicenda. Quei dati – stando a quanto sin qui noto – sono stati acquisiti direttamente da 270 mila utenti che hanno deliberatamente – per quanto, naturalmente, si possa discutere del livello di reale consapevolezza – scelto di renderli disponibile al produttore di una delle centinaia di migliaia di app che ciclicamente ci offrono la possibilità di velocizzare il processo di attivazione e autenticazione a fronte del nostro “ok” a che utilizzino a tal fine i dati da noi caricati su Facebook e a che – già che ci sono – si “aspirino” una quantità più o meno importante di altri dati dalla nostra vita su Facebook. Basta andare su Facebook, cliccare su “impostazioni” – in alto a destra – e, quindi, su “app” per rendersi conto di quanto ampio, variegato e affollato sia il club dei gestori di app ai quali, dalle origini del nostro ingresso sul social network a oggi abbiamo dato un permesso, probabilmente, in tutto e per tutto analogo se non identico a quello che i 270 mila ignari protagonisti della vicenda hanno, a suo tempo, dato al gestore dell’app “This is Your Digital Life”. E basta cliccare sull’icona di una qualsiasi delle app in questione per avere un elenco, più o meno lungo, delle categorie di dati che, a suo tempo, abbiamo accettato di condividere con il suo fornitore. E’ tutto li, a portata di click, anche se per aver voglia di arrivare a sfogliare le pagine in questione, forse, è stato necessario che scoppiasse uno scandalo planetario perché, altrimenti, nel quotidiano la nostra navigazione su Facebook sarebbe proseguita si altri lidi, come accaduto sino a ieri e, probabilmente, come succederà nelle prossime settimane. La seconda considerazione – direttamente correlata alla prima – è che Facebook non è stata vittima di nessun breach, nessuna violazione dell’apparato di sicurezza che protegge i propri sistemi, nessun attacco informatico di nessun genere. Non in questa vicenda, almeno. Sin qui, quindi, tanto per correggere il tiro rispetto a quello che si legge sulle prime di centinaia di giornali, nessun furto, nessuno scasso, nessun furto con scasso.

E allora? Come ci è finito Facebook sul banco degli imputati del maxi processo più imponente e severo della sua storia?

La risposta è di disarmante semplicità anche se difficile da conciliare con quanto letto e sentito sin qui decine di volte. Facebook viene portato alla sbarra proprio perché non ha subito nessun furto scasso e questa vicenda ha semplicemente confermato – non certo per la prima volta – che la sua attività – che è la stessa di milioni di altre imprese di minor successo in tutto il mondo – è pericolosa ed espone ad un naturale e ineliminabile rischio alcuni tra i diritti più fondamentali degli uomini e dei cittadini. Attenzione, però: espone a un rischio tali diritti ma non li viola. Al massimo, come accaduto nel Cambridge Analytica gate, facilita l’azione di chi tali diritti voglia consapevolmente violare. Ed è esattamente questo che accaduto nella vicenda in questione: una banda di sicari delle libertà – perché ogni definizione diversa non renderebbe giustizia al profilo dei veri protagonisti negativi della vicenda – assoldati da mandanti nemici dell’A,B,C della democrazia ha furbescamente approfittato della debolezza del sistema Facebook a proprio profitto e in danno della privacy e, forse, della libertà di coscienza di milioni di persone.

E’ la debolezza del suo ecosistema la principale colpa di Facebook. L’aver reso possibile una tragedia democratica che – ammesso che le ipotesi possano trovare una conferma scientifica – ha condizionato l’esito delle elezioni negli Stati Uniti d’America e il referendum che ha portata l’Inghilterra fuori dall’Unione Europea. E guai a dimenticare che sono queste ipotetiche conseguenze ad aver reso una vicenda che in realtà non fa altro che confermare che un uovo sodo ammaccato a una delle due estremità può stare in piedi da solo. Il famoso uovo di Colombo. Perché se la stessa tecnica – egualmente fraudolenta ed egualmente figlia dell’intrinseca debolezza dell’ecosistema Facebook – fosse stata utilizzata, come sarà stata utilizzata milioni di volte, per vendere qualche milione di aspirapolveri, oggi, evidentemente, non saremmo qui a parlarne e non sarebbe accaduto che le Autorità di mezzo mondo si siano messe in fila davanti alla porta di Menlo Park, bussando per chiedere audizioni e ispezioni, rappresentando possibili sanzioni e conseguenze salate. Guai a dire tanto rumore per nulla. E guai anche a suggerire l’assoluzione di Facebook che, tra le sue colpe, ha – ed è forse la più grave – quella di esser stato a conoscenza da anni dei rischi che 50 milioni di propri utenti stavano correndo ma di aver scelto di non informarli. Ma, ad un tempo, se si vuole evitare di lasciarsi trascinare e travolgere dall’onda lunga della sassaiola mediatica val la pena di trovare il coraggio di fissare in mente questa manciata di considerazioni di buon senso prima che di diritto. Anche perché, a condizione di trovare la necessaria serenità di giudizio e una buona dose di obiettività, da questa vicenda c’è, comunque, molto da imparare. Bisogna, però, esser pronti a non far sconti a nessuno, a mettersi in discussione in prima persona e resistere alla tentazione di dare addosso a Facebook con l’approssimazione emotiva che connota la più parte degli attacchi che si leggono in queste ore. In questa prospettiva sul banco degli imputati, accanto a Facebook, dovrebbe salirci un sistema di regole che, evidentemente, ha fallito, ha mancato l’obiettivo e si è rivelato inefficace: è quello a tutela dei consumatori, degli interessati, degli utenti basato sugli obblighi di informazione e sulle dozzine di flag, checkbox e tasti negoziali. Le lenzuolate di informazioni che Facebook – e naturalmente non solo Facebook – da, per legge, ai suoi miliardi di utenti non servono a nulla o, almeno, non sono abbastanza perché questa vicenda dimostra plasticamente che gli utenti cliccano “ok” e tappano flag senza acquisire alcuna consapevolezza sulla portata e sulle conseguenze delle loro scelte. Anzi, a volercela dire tutta, questo arcaico e primitivo sistema regolamentare produce un risultato diametralmente opposto a quello che vorrebbe produrre: anziché tutelare la parte debole del rapporto finisce con il garantire alla parte forte una prova forte e inoppugnabile di aver agito dopo aver informato a norma di legge la parte debole ed aver raccolto il suo consenso.

Così non funziona. E’ urgente cambiare rotta. Basta obblighi di informativa chilometrici e doppi, tripli e quadrupli flag su improbabili check box apposti quasi alla cieca, su schermi sempre più piccoli e mossi, esclusivamente, dalla ferma di volontà di iniziare a usare il prima possibile il servizio di turno. Servono soluzioni più di sostanza. Servono meno parole e più disegni. Servono meno codici e più codice ovvero informazioni capaci di esser lette direttamente dai nostri smartphone e magari tradotte visivamente in indici di rischiosità, attenzione e cautela.

La vicenda in questione è una storia di hackeraggio negoziale. Se si vuole per davvero evitare il rischio che si ripeta è in questa prospettiva che occorre leggerla. E sul banco degli imputati assieme a Facebook dovrebbe, egualmente, salire chi, sin qui, ha sistematicamente e scientificamente ridimensionato il diritto alla privacy fino a bollarlo come un inutile adempimento formale, un ostacolo al business o un freno al progresso. Perché non ci si può ricordare che la privacy è pietra angolare delle nostre democrazie solo quando, violandola, qualcuno – a prescindere dal fatto che riesca o fallisca nell’impresa – si mette in testa di condizionare delle consultazioni elettorali o referendarie. In caso contrario le conseguenze sono quelle che oggi sono sotto gli occhi di tutti: utenti che considerano la loro privacy tanto poco da fare il permesso a chicchessia di fare carne da macello dei propri dati personali, disponendone con una leggerezza con la quale non disporrebbero delle chiavi del loro motorino, della loro auto o del loro portafogli e Autorità di protezione dei dati personali con le armi spuntate e costrette a registrare episodi di questo genere leggendo i giornali quando non i buoi ma i dati personali di decine di milioni di utenti sono ormai lontani dai recinti.

Anche qui bisogna cambiare strada e cambiarla in fretta. E’ urgente tracciare una linea di confine netta, profonda invalicabile tra una porzione del diritto alla protezione dei dati personali che è giusto e indispensabile che resti appannaggio del mercato e una porzione che, invece, meriterebbe di entrare a far parte dei diritti indisponibili dell’uomo come lo sono le parti del corpo umano, sottratta, per legge, al commercio, agli scambi e al mercato a prescindere dalla volontà dei singoli utenti. Ed è urgente investire sulle nostre Autorità di protezione dei dati personali perché non si può, al tempo stesso, scandalizzarsi di episodi come quello della Cambridge Analytica e pretendere che un’Autorità di poche decine di professionisti e finanziata con una percentuale infinitesimale del bilancio dei nostri Stati garantisca protezione, regolamentazione e vigilanza su quello che è ormai diventato il più grande, proficuo e per questo attaccabile mercato globale. Facciamo tesoro di quello che è accaduto. Leggiamo i fatti con obiettività e, soprattutto, facciamo quanto possibile per cambiare rotta perché il problema non è Facebook e, in assenza di correttivi importanti, se anche domani la borsa condannasse Facebook all’estinzione, non avremmo affatto risolto il problema.

Dal Lago: «La disinformazione è diventata un’arma per vincere in politica», scrive Giulia Merlo il 22 Marzo 2018 su "Il Dubbio". «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». «I social ci condizionano come facevano i manifesti della Dc nel 1948 e per questo sono diventati uno strumento decisivo sul piano della propaganda politica». Per Alessandro Dal Lago, sociologo e studioso dei fenomeni del web, lo scandalo che ha investito Facebook ha fatto venire alla luce lo sfruttamento illegale di informazioni che, però, già da tempo sono diventate uno strumento politico.

L’inchiesta contro Cambridge Analytica ha aperto il vaso di Pandora del lato oscuro dei social?

«Ha rivelato che i nostri dati, sia pubblici che privati come le reti di amicizia su Facebook, possono essere usate per campagne di profilazione e per la creazione di modelli di utenza. In seguito, questa mole di informazioni può essere usata per campagne di marketing e di propaganda politica. Così, il cittadino della lower class americana esasperato dalla mancanza di lavoro e che odia i vicini di casa neri diventa personaggio medio, utilizzabile come modello per studiare una propaganda mirata. Considerando che i dati analizzati hanno permesso alla Cambridge Analytica di profilare 50 milioni di utenti, si capisce la portata del fenomeno».

E questo quali problemi solleva?

«Da una parte c’è il tema della tutela della privacy e le ipotesi sono due: o Facebook sapeva dell’indebita profilazione e dunque è connivente, oppure non sapeva e questo significa che il sistema è penetrabile. Tutto sommato, questa seconda prospettiva mi sembra la più grave».

I dati sono stati usati per fare campagne politiche.

«Il rilievo politico della vicenda porta in primo piano l’esistenza di società di big data, che puntano a controllare l’opinione pubblica e che fanno parte di un mondo pressochè sconosciuto alla collettività. Basti pensare che, prima di qualche giorno fa, nessuno conosceva Cambridge Analytica, e come questa esistono altre centinaia di società analoghe. Senza complottismi, è evidente come esistano ambienti che, attraverso la consulenza strategica, sono interessati a orientale la politica globale. Altro dato, la presenza nell’inchiesta di Steve Bannon – noto suprematista bianco e stratega di Trump – mostra come la capacità di influenzare l’opinione pubblica attraverso la manipolazione dei dati sul web è più forte nella destra globale che non nella sinistra».

Davvero un post pubblicitario su Facebook è in grado di condizionare l’elettorato fino a questo punto?

«E’ più che normale che sia in grado di farlo. La comunicazione si è evoluta: partiamo dal manifesto elettorale, e penso alla geniale trovata di propaganda anticomunista della Dc del 1948, con il manifesto dei cosacchi che si abbeverano a una fontana davanti a una chiesa. Poi sono arrivati i media generalisti come la televisione e la stampa, in cui la propaganda si faceva attraverso i modelli culturali. Penso alla Rai, in cui si propagandava un modello familiare che indirettamente finiva per legittimare la Dc. Oggi la propaganda è molto cambiata: il web e i social creano un pubblico universale, che accede alla stessa sfera comunicativa. Questo permette ai manipolatori intelligenti di arrivare istantaneamente a un pubblico enorme, influenzandoli a un livello impensabile solo fino a qualche anno fa».

In Italia esistono fenomeni simili di sfruttamento del web?

«La Casaleggio Associati è un esempio di questo. La società gestisce un’enorme rete di pagine Facebook e siti collegati al blog delle Stelle e indirettamente a quello di Beppe Grillo».

E come funziona, praticamente, il meccanismo?

«Le faccio un esempio. Esiste una pagina appartenente a questa galassia che si chiama “Alessandro Di Battista presidente del consiglio”, che contiene messaggi di propaganda in stile mussoliniano del tenore di: «Ringraziamo il guerriero Di Battista, eroe nazionale». Ora, si puo dire che queste parole suonino ridicole, ma bisogna leggerle in chiave social e in base al target degli elettori che si vogliono calamitare: giovani elettori del sud Italia, con una scolarità medio bassa. A questi soggetti si propone una propaganda che da una parte martella sull’odio per la casta e dall’altra propone un eroe nazionale. Considerando che pagine come queste hanno centinaia di migliaia di follower, è facile immaginare gli effetti».

Nulla di tutto questo, però, è illegale.

«Certo che no, però esiste un problema di profonda manipolazione della realtà contro la quale non esistono strumenti di difesa adeguati. Le fake news, infatti, non sono solo le notizie inventate ma per la maggior parte si tratta di manipolazioni di notizie verosimili, che vengono caricate di retorica per diventare virali e, nello stesso tempo, nessuno verifica che si tratta di falsi».

Si può parlare di un modello politico?

«E’ certamente un modello. Politicamente, io credo sia inquietante che i parlamentari del Movimento 5 Stelle abbiano sottoscritto un contratto ridicolo nel quale tuttavia si impegnano a versare 300 euro al mese alla Casaleggio Associati, che non è un partito ma un’azienda privata di comunicazione».

Si può dire che, oggi, vince le elezioni chi sa usare meglio questi strumenti del web?

«Diciamo che i social non sono lo strumento esclusivo, ma sono diventati quello decisivo. Difficile dire quanti milioni di voti abbia spostato la campagna di Cambridge Analytica però, se si pensa alle elezioni americane, anche un milione di voti in più o in meno può garantire l’elezione alla Casa Bianca. Insomma, la propaganda sul web è in grado di spostare le decisioni».

Il web, quindi, condiziona la realtà?

«Il web ne condiziona la percezione, e questo è decisivo. La realtà e i conflitti continuano ad esistere, ma il modo in cui vengono percepiti e il luogo in cui si propongono le soluzioni è deciso dalla propaganda sul web. In questo modo la sfera di comunicazione virtuale decide l’orientamento dei settori critici dell’elettorato. Tornando ai 5 Stelle: il loro sistema di comunicazione prevede di generare un cortocircuito tra l’abile uso delle news sul web e la sistematica disinformazione».

L'errore di lasciare il web a Casaleggio, scrive Renato Mannheimer, Lunedì 26/03/2018, su "Il Giornale". L'articolo di Davide Casaleggio sul Washington Post (e poi su Il Dubbio) riporta con chiarezza il pensiero e, forse, la stessa ideologia dello stratega del Movimento Cinque Stelle. Ma contiene, al tempo stesso, tematiche di grande importanza. Occorre dire con franchezza che Casaleggio pone una questione sulla quale è cruciale riflettere con attenzione. È vero, infatti, come lui sostiene, che il Web ha cambiato radicalmente la nostra vita per moltissimi aspetti. È mutato il modo di interagire con gli altri, il modo di lavorare, si sono modificate perfino certe abitudini nei rapporti sentimentali. Tenuto conto di tutto ciò, non si capisce perché la rete non dovrebbe cambiare anche i connotati della politica e, in particolare, dei modi con cui ci relazioniamo con essa. Non solo per quanto riguarda le modalità di comunicazione o di propaganda, ma anche, specialmente, le logiche con cui il cittadino si raffronta con il potere costituito e con i suoi esponenti. Le modalità e i processi con cui si formano le credenze, i dubbi, le stesse opzioni elettorali. In altre parole, con l'avvento del Web muta non solo il modo di comunicare, ma anche quello di pensare e di rispondere agli stimoli che ci vengono dagli attori politici. Più in generale, come diversi analisti hanno osservato, siamo di fronte a un profondo cambiamento delle logiche della stessa democrazia. Questo vero e proprio sovvertimento portato dal Web mi era stato prospettato più di trent'anni fa da Casaleggio senior. Io ero a suo tempo incredulo, ma devo riconoscere che aveva in gran parte ragione nel preconizzarmi già allora gli effetti della rete sulle relazioni sociali e sugli atteggiamenti e sui comportamenti dei cittadini. Certo, Davide Casaleggio ha torto quando afferma che il Movimento Cinque Stelle è il vero alfiere di questo mutamento. Che attraverso di esso «i cittadini hanno avuto accesso al potere». In realtà il «pubblico» del M5s è limitato alla porzione di italiani peraltro fortemente caratterizzata nei suoi connotati demografici e sociali - che accede alla piattaforma Rousseau. Per di più con modalità non trasparenti e controllate dalla stessa Casaleggio e Associati. Anche le cosiddette «parlamentarie», che Casaleggio descrive come l'esercizio genuino della volontà popolare nello scegliere i candidati alle elezioni, sono state caratterizzate, come si sa, da scarsi livelli di partecipazione e da notevoli e sistematiche interferenze e condizionamenti da parte dei vertici della Casaleggio e Associati. Insomma, la pratica condotta sin qui dal M5s è assai lontana dall'avere realizzato quegli stessi ideali di partecipazione e di «vera» democrazia che Casaleggio evoca nel suo articolo. Ma questa considerazione non ci deve portare a sottovalutare il punto centrale delle sue argomentazioni. Vale a dire che, come si è detto, la Rete e in particolare i «social media» hanno radicalmente cambiato i modi di agire, di pensare e gli stessi meccanismi di formazione delle opinioni e delle scelte da parte dei cittadini. Con tutti i pericoli (il caso della Cambridge Analyitica lo dimostra) e i problemi che questi fenomeni comportano. Larga parte delle formazioni politiche operanti nel nostro paese ha affrontato solo in parte e talvolta solo in modo approssimativo questa tematica. È un limite che va superato: trascurare questa rivoluzione in atto costituisce un formidabile errore e dà spazio proprio al Movimento di Grillo.

Che ipocrisia indignarsi se le nostre vite sono in vendita, scrive Francesco Maria Del Vigo, Giovedì 22/03/2018, su "Il Giornale". Ma siamo sicuri che quello di Cambridge Analytica sia uno scandalo con la esse maiuscola? È davvero una notizia sconvolgente o è una notizia di dieci anni fa? Ricapitoliamo: molti di noi, dal 2007, quotidianamente passano ore a caricare foto, scrivere post, fare giochi, installare app e seminare like su Facebook. Cosa stiamo facendo in quel determinato momento? Stiamo perdendo tempo, dice qualcuno. Ci stiamo divertendo e stiamo socializzando, dice qualcun altro. Stiamo cedendo una mole incredibile di dati sulla nostra vita, dice Mark Zuckerberg. E lo dice chiaramente. Perché vendere, ovviamente in modo anonimo, le nostre informazioni - che poi sono i nostri gusti, i nostri hobby, i luoghi che amiamo o la marca del nostro dentifricio preferito - è la ragione sociale di Facebook. È il suo business, il suo mestiere. Cadere dalle nuvole è surreale, è come stupirsi che un calzolaio lustri le scarpe. Vi siete mai chiesti come ha fatto una matricola di Harvard a racimolare un patrimonio da 70 miliardi di euro? Coi vostri status, le foto dei vostri gatti e i vostri «mi piace». E noi tutti, iscrivendoci al social network, abbiamo accettato, più o meno consapevolmente, questo mercimonio. Ti diamo un po' di noi in cambio di quindici like di notorietà, abbiamo barattato la nostra privacy con una vetrina dalla quale poterci esporre al mondo virtuale. Dunque qual è il problema? Il problema è che in questo caso un'azienda terza ha utilizzato le «nostre» informazioni all'insaputa di Facebook. Grave, certo. Ma nulla di particolarmente sconvolgente. Un traffico che, abbiamo ragione di immaginare, accade molto spesso per scopi commerciali. Il problema è che l'opinione pubblica è disposta ad accettare di vedere comparire sulla propria bacheca la pubblicità della propria maionese preferita, ma se entra in ballo la politica la questione cambia. Se poi, come in questo caso, entrano in ballo la Brexit e gli impresentabili Trump e Bannon allora la faccenda precipita. Possibile che le anime belle della Silicon valley, quelli che per mesi ci hanno detto che Trump era un pazzo scatenato, lo abbiano lasciato giocherellare coi nostri dati? Sì, perché pecunia non olet. Nemmeno per i nerd di San Francisco. E, per loro, la nostra opinione politica è un dato come un altro, masticato e sputato dagli algoritmi per poi essere rivenduto. È l'era dei big data e della data economy. Che prima piacevano tanto agli intelligentoni à la page, ma che ora, sembra andargli di traverso. Ma è anche l'era della data politics. E, al netto delle ripercussioni giudiziarie che ci saranno su questo caso, le campagne elettorali si sposteranno sempre di più sulla profilazione degli utenti del web e sulla psicometria. Così sui nostri social, accanto alla pubblicità delle nostre cravatte preferite, compariranno anche informazioni e annunci politici. È manipolazione? No, è solo un'altra forma di marketing. Elettore avvisato...

Come si manipola l’informazione: il libro che ti farà capire tutto, scrive Marcello Foa il 17 marzo 2018 su "Il Giornale". Ci siamo: il mio saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”, pubblicato da Guerini e Associati, è in libreria da quattro giorni e i riscontri sono davvero incoraggianti, sia sui media (ne hanno parlato con ampio risalto il Corriere del Ticino, La Verità, il Giornale, Libero, Dagospia), sia da parte dei lettori. Alcuni mi hanno scritto: ma cosa c’è di nuovo rispetto alla prima edizione del 2006? C’è molto: le tecniche usate dai governi per orientare e manipolare i media, che descrissi 12 anni fa, sono valide ancora oggi e vengono applicate ancor più intensamente, per questo le ripropongo anche in questo secondo atto ma attualizzate, ampliate e, nella seconda parte del libro, arricchite da capitoli completamente nuovi, che permetteranno al lettore di entrare in una nuova dimensione: quella, sofisticatissima ma indispensabile per capire le dinamiche odierne, dell’informazione quale strumento essenziale delle cosiddette guerre asimmetriche, che vengono combattute senza il ricorso agli eserciti ma i cui effetti sono altrettanto poderosi e che raramente vengono spiegate dai media. Attenzione: non riguardano solo il Vicino Oriente o l’Ucraina, ma anche le nostre democrazie, molto più esposte di quanto si immagini. Non mi dilungo, ovviamente.   Sappiate che in questo saggio approfondisco l’uso (e l’abuso) del concetto di frame dimostrando come sia stato impiegato per “vendere” al popolo l’euro e impedire per anni un dibattito oggettivo sugli effetti della moneta unica o per costruire il mito del salvataggio della Grecia e quello dell’autorazzismo nei confronti della Germania. Ne “Gli stregoni della notizia. Atto secondo” riprendo alcuni documenti governativi, noti solo agli specialisti, sull’impressionante influenza del Pentagono su film e produzioni di  Hollywood, spiego il ruolo opaco degli spin doctor e delle società di PR negli allarmi sanitari (dalla Mucca Pazza all’influenza suina, da Ebola a Zika) e quale ruolo hanno avuto le Ong e le loro sorelle maggiori (le quango ovvero le Ong quasi autonome, sconosciute ai più) nelle rivoluzioni colorate e nelle operazioni di destabilizzazione di Paesi, che un tempo erano opera  esclusiva dei servizi segreti. Accendo un faro sugli aspetti poco noti dell’ascesa di Macron, sull’altro volto di Obama, dedico molte pagine all’Italia, in particolare spiegando le tecniche di spin che sono state decisive nell’ascesa e nella caduta di Matteo Renzi e denuncio le ipocrisie sulle fake news, dimostrando come servano a rendere l’informazione non più trasparente ma più docile e, possibilmente, sottoposte a censura. E’ un libro che ho scritto a cuore aperto, documentatissimo, rivolto a lettori che hanno voglia di capire e di scavare oltre le apparenze, come Giorgio Gandola, che lo ha recensito su La verità, ha capito perfettamente. Spero, di cuore, che vi piaccia. Ne parlo anche nella bella intervista che mi ha fatto Claudio Messora per Byoblu e che trovate qui sotto. Vi lascio ricordandovi la presentazione che si svolgerà lunedì 19 a Milano, alla libreria Hoepli, ore 17.30 con Nicola Porro e lo stesso Gandola. Altre seguiranno in diverse città italiane. Grazie a tutti voi e, naturalmente, buona lettura!

Ecco come lavorano i persuasori (non) occulti al servizio dei governi. Gli spin doctor sfruttano le convinzioni diffuse fra il pubblico. E agitano lo spettro complottista, scrive Marcello Foa, Giovedì 15/03/2018, su "Il Giornale". Le insidie che avevo individuato nel 2006, preconizzandone le derive si sono, purtroppo, puntualmente verificate. Allora scrivevo che il fatto che i giornalisti non conoscessero le tecniche per orientare e all'occorrenza manipolare i media, avrebbe non solo reso molto più fragili le nostre democrazie, generando un sentimento di crescente sfiducia verso la classe politica, ma anche danneggiato la credibilità dell'informazione. È il mondo in cui viviamo oggi. Quelle tecniche, come allora, restano ampiamente sconosciute ai media e, naturalmente, al grande pubblico. Eppure comprenderle è indispensabile se si vuole cercare di decodificare l'attualità senza limitarsi all'apparenza, come dovrebbe fare ogni giornalista e come dovrebbe esigere ogni lettore. Certo, il mondo mediatico nel frattempo è cambiato. Un tempo la cosiddetta grande stampa aveva il monopolio dell'informazione, oggi non più e subisce la concorrenza, a mio giudizio salutare, dei siti e dei blog di informazione alternativi. Oggi il mass media è sostituito dal personal media che ognuno si costruisce attraverso la propria rete sui social. Oggi si guarda meno la tv e si passa molto più tempo a «chattare» su Whatsapp, a pubblicare foto e a tessere relazioni su Instagram. Oggi, naturalmente, la diffusione di notizie false è ancora più facile benché, come vedremo, non sia affatto una prerogativa della nostra epoca. Ma gli spin doctor sono ancora tra noi, più influenti, più informati, più pervasivi che mai. E non hanno modificato il loro obiettivo, che resta quello di condizionare noi giornalisti e, in fondo, te, caro lettore; con la decisiva complicità del mondo politico. Lo spin doctor non ha bisogno di contare sul controllo dei media, perché sa che per orientare i giornalisti è sufficiente conoscere le loro logiche. E da buon persuasore è convinto che la propaganda sia davvero efficace solo quando non è facilmente riconoscibile. Infatti opera avvalendosi di:

- una comprensione perfetta dei meccanismi che regolano il ciclo delle informazioni;

- il ricorso a sofisticate tecniche psicologiche, che gli consentono di condizionare le masse.

Tra queste ultime il concetto più importante in assoluto è quello del frame, che è stato elaborato dal linguista americano George Lakoff, il quale sostiene che ognuno di noi ragiona per cornici di riferimento costituite da una serie di immagini o di giudizi o di conoscenze di altro tipo (culturali, identitarie). Ogni giorno noi elaboriamo continuamente, senza esserne consapevoli, dei frame valoriali, che possono essere effimeri o profondi se associati, su temi importanti, a una forte emozione e ai nostri valori più radicati. La nostra visione della realtà e il nostro modo di pensare ne risultano condizionati, perché una volta impressa una larga, solida cornice, il nostro cervello tenderà a giudicare la realtà attraverso questi parametri. Tutte le notizie coerenti con il frame saranno recepite ed enfatizzate facilmente dalla nostra mente, rinforzando la nostra convinzione. Al contrario, tutte quelle distoniche tenderanno a essere relativizzate o scartate come assurde e, nei casi più estremi, irrazionali, folli o stupide. Alla nostra mente non piacciono le contraddizioni e questo spiega perché per un militante di destra gli scandali che colpiscono politici di sinistra sono percepiti come gravissimi e veritieri, mentre quelli che colpiscono la propria parte derubricati come delegittimati, irrisori o faziosi. E naturalmente viceversa. Un abile spin doctor riesce, calibrando le parole, a indirizzare l'opinione pubblica nella direzione voluta. La tecnica del frame viene usata non solo per forgiare un giudizio su notizie contingenti, ma anche per stabilire nell'opinione pubblica dei valori di fondo e dunque il confine tra politicamente corretto e politicamente scorretto; tra ciò che è conveniente o non conveniente dire su un argomento; tra ciò che l'opinione pubblica «moderata» deve considerare ragionevole o deve respingere come scandaloso, ponendo di fatto le premesse per screditare le opinioni che travalicano quel confine invisibile e che possono pertanto, all'occorrenza, essere etichettate come estremiste, complottiste o fasciste.

A proposito di cospirazionismo, sapevate che il termine fu inventato dalla Cia ai tempi dell'omicidio Kennedy per screditare le tesi di coloro che contestavano la versione ufficiale stabilita dalla Commissione Warren? Lo spiega il professor Lance Dehaven-Smith, osservando come gli effetti di quell'operazione, circostanziati nel dispaccio 1035-960, sorpresero persino i vertici di Langley. Da allora è diventato un metodo: quando vuoi screditare qualcuno lo accusi di essere complottista. Facendo così ottieni due scopi: screditi le sue tesi agli occhi della massa e lo costringi ad assumere un atteggiamento difensivo, ovvero a dimostrare di non essere cospirazionista e dunque, sovente, a moderare i toni delle sue denunce, pena l'autoghettizzazione. Che poi le sue accuse siano plausibili o fondate diventa inevitabilmente secondario; anzi, colpendo l'autorevolezza di chi critica, delegittimi in toto le sue idee. E se costui persiste lo fai apparire sacrilego. Impedisci che anche sulle critiche fondate si apra una vera riflessione pubblica. Una volta stabilito, il frame resiste nel tempo e può essere scacciato solo da un altro equivalente che abbia pari o superiore legittimità. Un esempio? La fine politica di Antonio Di Pietro. Come ricorderete a screditarlo fu un'inchiesta di «Report» sul suo (presunto) impero immobiliare, accumulato approfittando anche dei fondi del partito. Quelle accuse non erano nuove, poiché erano già state formulate da alcuni giornali come il Giornale e Libero, ma non avevano scalfito l'immagine dell'ex pm rispetto al suo elettorato, perché ritenute faziose e dunque almeno parzialmente false. Quando però sono state avanzate da Milena Gabanelli, dunque da una fonte autorevole e super partes, il leader dell'Italia dei Valori è stato travolto. Ovvero il frame Gabanelli ha scacciato il frame Di Pietro sul terreno su cui entrambi si erano costruiti la reputazione, quello dell'onestà.

GLI INFLUENCER.

“Influencer”: chi sono e cosa fanno, scrive Stefano Gallon il 15 Settembre 2014 su social-media-expert.net. Figure talmente importanti da poter ormai parlare di “Influencer Marketing”, ma esattamente chi sono? E cosa fanno? Un influencer è un utente con migliaia (se non milioni) di seguaci sparsi sui vari social network; può essere uno YouTuber, un Instagramer, un blogger o avere semplicemente una pagina su Facebook dove condivide foto, video e contenuti vari. Fin qui è come un qualsiasi utente nella rete, ma a differenza degli altri, l’Influencer è in grado letteralmente di influenzare i suoi followers.

Il ritratto di un influencer. Su “chi è” l’influencer e “cosa fa” c’è al momento molta confusione, sia da parte delle azienda che li cercano, che da parte di chi vede tutto questo come un lavoro (è noto infatti che gli influencer guadagnano molto). Riassumendo:

L’influencer può essere YouTuber, un Instagramer, un blogger (o simili);

Deve avere moltissimi followers;

Crea contenuti in grado di generare moltissime interazioni;

Viene considerato “Credibile” e “Affidabile”;

L’elemento più importante e quasi consequenziale di tutto questo è che l’Influencer è letteralmente in grado di influenzare chi solo segue, grazie non solo alla sua notorietà, ma anche alla sua “Neutralità” e “affidabilità”. In poche parole, se un grande YouTuber che seguite vi consiglia di vedere un film e voi lo fate, vi ha influenzato, ma se lo stesso YouTuber lo ha fatto perché pagato dalla casa di produzione, allora non è più un influencer, diventando di fatto un Ambassador.

Esperti, giornalisti, VIP e non… Gli Influencer non sono solamente personaggi nati sul web, spesso possono essere anche giornalisti o esperti di settore che, con i loro post, sono in grado di offrire enorme visibilità a notizie, video, prodotti o servizi, determinandone anche il successo o un fallimento. Ma c’è un’altra categoria che pur non avendo alcuna competenza specifica, può rivelarsi incredibilmente utile per promuovere qualsiasi business: i VIP. Alcuni personaggi dello spettacolo infatti, come cantanti, attori, attrici, speaker e presentatori, hanno un enorme numero di persone che legge qualsiasi cosa scrivano sui social network, come per esempio accade per lo Zoo di 105 (che seguo da sempre). Se vai a visitare la loro pagina Facebook, Instagram o Twitter vedrai come ricevano commenti, like e condivisioni per qualsiasi cosa. Adesso prova a pensare se gli speaker dello Zoo di 105 parlassero di te sui loro social network, quanta pubblicità avresti? Naturalmente questo è solamente un esempio ma spero che il senso sia chiaro.

Perché investire nell’Influencer Marketing. Coinvolgere gli influencers significa avere una pubblicità enorme ad un costo bassissimo, soprattutto se restiamo in un target specifico. Gli influencers hanno un rapporto reale con i propri seguaci che seguono i consigli dei propri beniamini e sono molto interessati a quello che condividono sui proprio social.

Dal Passa-Parola al “Click to Click”. Il buon vecchio metodo del passa-parola non è mai finito, si è solo evoluto nel “Click to Click”. Adesso infatti quando un argomento va di moda, ne parlano su Facebook, Twitter, Instagram, realizzano parodie su YouTube, scrivono articoli su blog e creano ovviamente hashtag tematiche.

Un Influencer è come un amico. Facciamo un esempio. Quando devi fare un viaggio in un altro paese, chiami i tuoi amici per avere consigli sul posto che visiterai, li chiami perché ti fidi. L’influencer per l’utente medio diventa proprio questo, una persona di fiducia, perché col tempo ha saputo guadagnarsi il rispetto dei suoi followers. Adesso hai capito perché è importante il loro parere? Allora adesso quando progetterai la tua nuova campagna pubblicitaria, non tralasciare l’influencer marketing.

Come Star Nel Web. Lunedì 9 ottobre 2017 sono stato ospite in diretta della trasmissione FUORI Tg su Rai 3, per la puntata intitolata “Come star nel web”. Durante la trasmissione ho avuto modo di trattare il delicato argomento degli influencer, affrontato anche dal Sociologo dei Media – Università Carlo Bo di Urbino – Professor Boccia Artieri. Durante la trasmissione (che dura poco più di 20 minuti) troverete importanti spunti di riflessione sul tema.

Quando gli influencer danno i numeri: statistiche e guadagni, scrive Stefano Gallon l'11 Ottobre 2017 su social-media-expert.net. Sapere quanto guadagnano gli influencer e quanto sia veramente efficace la loro comunicazione non è semplice. Youtubers, Blogger e Instagramers infatti sono (giustamente) molto riservati sul proprio lavoro e sui loro guadagni, anche anche perché il loro mestiere è complesso e molto competitivo.

Il lavoro di influencer: facciamo chiarezza. Scrivo questo paragrafo perché mi hanno spesso richiesto consulenze per “Diventare influencer” o per “Guadagnare come influencer”. Quello che rispondo a tali richieste è che a mio parere, sono sbagliate in partenza. Gli influencer sono Youtubers, Bloggers e Instagramers con un enorme numero di followers, con i quali sono realmente in grado di interagire e di influenzarne le opinioni o gli acquisti. L’influenza di questi personaggi è dovuta a diversi fattori, tra cui c’è sicuramente la loro affidabilità e credibilità. Per fare un esempio pratico, se un famoso YouTuber consiglia di vedere un film, saranno in molti i suoi seguaci che lo andranno sicuramente a vedere. Se si venisse a sapere che lo YouTuber in questione è stato pagato dalla casa di produzione per consigliare il film, ecco che la sua “imparzialità” potrebbe venir meno.

Le aziende non devono pagare gli Influencer. Riassumendo in poche righe il paragrafo precedente si può semplicemente dire che un vero influencer non deve essere pagato dalle aziende, altrimenti perderebbe la sua ragion d’essere. Quando uno YouTuber o un blogger, in grado di “influenzare”, vengono pagati e coinvolti in una campagna web marketing, devono essere definiti “Ambassador” e non “influencer”.

Quanto guadagnano le “Web Star”. Abbiamo parlato di influencer, ambassador, youtuber e quant’altro, ma in generale, queste figure in grado di vantare un enorme numero di Followers (e non solo), vengono definite anche “Web Star”, e un loro post può valere diverse migliaia di euro. Non è facile avere dati precisi sui loro guadagni, ma personalmente ritengo questa ricerca dell’Economist abbastanza attendibile.

Questa è una stima di quanto prendono per singolo post i base alla loro popolarità:

Youtube: guadagno medio per video in base al numero dei followers

100k-500k: 12,500 dollari

500k-1m: 25.000 dollari

1m-3m: 125.000 dollari

3m-7m: 187.000 dollari

Oltre 7m: 300.000 dollari

Facebook: guadagno medio per post in base al numero dei followers

100k-500k: 6.250 dollari

500k-1m: 12.500 dollari

1m-3m: 62.500 dollari

3m-7m: 93.750 dollari

Oltre 7m: 187.500 dollari

Instagram: guadagno medio per post in base al numero dei followers

100k-500k: 5.000 dollari

500k-1m: 10.000 dollari

1m-3m: 50.000 dollari

3m-7m: 75.000 dollari

Oltre 7m: 150.000 dollari

Twitter: guadagno medio per singolo post in base al numero dei followers

100k-500k: 2000 dollari

500k-1m: 4000 dollari

1m-3m: 20.000 dollari

3m-7m: 30.000 dollari

Oltre 7m: 60.000 dollari

Gli Influencer più seguiti sui social media in Italia

fonte audisocial.it

Di seguito riporto le classifiche riguardanti gli influencer più seguiti in Italia.

Classifica generale: Gianluca Vacchi, Chiara Ferragni, Mariano di Vaio.

Youtube:Favij, Ipantellas, Ghali, St3pny.

Facebook: Mariano di Vaio, Frank Matano, Fatto in casa da Benedetta, ludovia Comello, Veronica Ferraro.

Twitter: Ludovica Comello, Selvaggia Lucarelli, Sofia Viscardi, Greta Menchi, Leonardo Decarli.

Instagram: Gianluca Vacchi, Chiara Ferragni, Mariano di Vaio, Giorgia Gabriele, Favij,

Fashion: Chiara Ferragni, Mariano di Vaio, Veronica Ferraro, Martina Corradetti, Valentina Vignali.

Come indicato sul sito di Audisocial, le classifiche generate dal loro sistema non tengono conto dei personaggi che, per così dire, non sono “nati” su internet (ma provengono da altri settori come il mondo dello spettacolo), o che non utilizzano la lingua italiana come principale.

Quanto guadagno i Top influencer italiani. Dopo aver raccolto diverse informazioni a riguardo ho deciso di non trascriverle, neanche citando le fonti, per i seguenti motivi:

Non esistono mezzi per sapere con precisione quanto guadagna un influencer;

Diffondere dati a riguardo potrebbe lasciare il tempo che trova;

Basta fare una ricerca su Google per trovare centinaia di pagine sull’argomento.

Le cifre che girano sull’argomento sono diverse, come i 10 milioni di utili dichiarati nel 2015 da Chiara Ferragni o come i classici “20mila” euro al mese usati come punto di riferimento per le web star “Più ricche”. Un top influencer può guadagnare molto, su questo non c’è dubbio e non lo negano neanche loro, ma è anche vero che tutta la loro fama, e le loro entrate possono svanire molto rapidamente. Bloggers, Youtubers (etc) più intelligenti e lungimiranti infatti, non appena raggiunta una certa stabilità, iniziano a diversificare la propria attività, proponendo contenuti diversi ma anche lavorando in ambienti diversi. Non per niente oggi si vedono personaggi nati sul web fare tv, radio, cinema o musical.

Come Guadagno i Top Influencer. Anche su questo punto, per ovvi motivi, non c’è molta trasparenza, ma sicuramente possiamo dire che i Top Influencer, quando non lavorano come Ambassador, guadagnano soprattutto da sistemi come Google Adsense. Alcuni di loro (anche se qui la situazione non è chiara) possono essere pagati anche per presenziare a determinati eventi a tema.

Diventare Influencer. Ovviamente leggendo cifre come 20mila euro al mese, sono sempre di più le aspiranti web star che sognano di diventare ricche e famose. La realtà dei fatti però è che lavorare su internet e guadagnare creando contenuti (foto, video, etc) è veramente complesso. Se il vostro obiettivo è questo, per prima cosa dovete aver ben chiaro che essere (per esempio) uno Youtuber è un vero e proprio lavoro, e che pertanto non bastano 2 ore al giorno. Una volta compreso l’impegno che necessita questo lavoro, dovete iniziare a studiare argomenti come la comunicazione digitale, il web design, SEO, programmazione, fotografia, montaggio video e qualsiasi altra materia che pensate possa esservi utile per iniziare questa nuova professione.

Un Consiglio… puntate una nicchia. Come scritto in precedenza, per diventare influencer bisogna impegnarsi e studiare molto, come se si volesse avere successo in qualsiasi altro settore. Un consiglio però che mi sento di dare a tutti (e che riguarda anche le aziende) è di non iniziare puntando troppo in alto. Portando un esempio pratico, se volete diventare un travel blogger di successo, di quelli che parlano di tutto il mondo, dovete faticare moltissimo e sarà molto difficile raggiungere il vostro obiettivo. Se invece abbassate il tiro, cercando di diventare (per esempio) un travel blogger specializzato sulla Tanzania, puntando ad una nicchia specifica, avrete più possibilità di successo.

Perché le aziende amano gli influencer. Le aziende sono sempre più alla ricerca di influencer in grado di aumentare la visibilità e le vendite. Gli influencer (o almeno alcuni di loro) hanno possono raggiungere anche milioni di persone sul web, proprio nel settore dove oggi si concentrano gli utenti. Inoltre…Secondo i dati Audiweb aggiornati a luglio 2017:

In Italia in 32 milioni (dai 2 anni in su) hanno navigato su internet (desktop + mobile) quasi 56 ore;

Più del 65% degli italiani ha navigato da mobile.

Inoltre Audiweb certifica che i contenuti web, in Italia, vengono sempre più visionati da smartphone o tablet. Ogni giorno le persone si collegano mediamente circa 2 ore e mezza. In un mese la digital audience conta circa 32 milioni di utenti. Con questi numeri è semplice capire perché le aziende sono sempre più alla ricerca di figure influenti.

Perché le aziende odiano gli influencer. “Odio” è sicuramente una parola forte, che uso per evidenziare una sorta di antipatia che spesso viene manifestata nei confronti di bloggers, youtubers, etc. Non si parla molto di questo argomento ma nel “Sottobosco” della rete, si sente spesso parlare di come le aziende non abbiano fatto i salti giogia quando hanno capito che il successo di un capo di abbigliamento o di un brand poteva essere deciso un un personaggio “Nato all’improvviso sul web”. Sinceramente credo che il problema sia che in molti si rifiutano di riconoscere la grande professionalità dell web star, e l’enorme fatica che ci vuole per essere seguiti da milioni di persone.

L’importanza di YouTube. YouTube è sicuramente la piattaforma social più efficace e potente per il web marketing, molto più di Instagram e anche più di Facebook. YouTube al momento conta 24 milioni di utenti attivi mensilmente contro I 30 milioni di Facebook, in Italia, mentre nel mondo ne conta un miliardo contro I 2 del social di Zuckerberg, ma sono altri I numeri di YouTube che fanno venire le vertigini. Nel 2016, la piattaforma di video più frequentata del mondo, ha potuto vantare circa un miliardo di ore al giorno di visualizzazioni video, ma sono oltre 400 le ore di video che vengono caricate ogni giorno, e gli YouTuber più seguiti hanno dai 20 ai 60 milioni di iscritti ai propri canali. Non a caso uno degli influencer più pagati al mondo, PewDiePie, ha fatto la sua fortuna proprio su YouTube.

Conclusioni. Dopo aver letto questo articolo ne saprete sicuramente di più sui numeri degli influencer, dei social network e di internet in generali. Un ultimo consiglio che vi voglio però dare riguarda proprio questo: i numeri, un aspetto al quale non dovete dare troppa importanza. Ricordate che su internet ci sono persone reali, e se volete diventare dei veri influencer, dovete instaurare delle vere interazioni con loro. Quindi non pensate solo ad aumentare il numero dei vostri followers, pensate anche ai like, ai commenti e alle interazioni in generale che ricevete.

Gli influencer? Studio rivela: sono «virali» come le epidemie. Una ricerca spiega come si propagano i messaggi diffusi da figure-chiave della rete e aiuta a prevedere chi potrebbe essere il prossimo «untore». Ma una volta avviata la comunicazione «virale», l’influencer non ha più il controllo della sua propagazione, scrive Antonella De Gregorio il 30 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Blogger, youtuber, instagrammer: sono loro gli idoli della rete. Incisivi, comprensibili dalle masse, capaci di veicolare messaggi che diventano universali attraverso una foto, un pensiero (spesso minimo), un brano musicale. In comune non hanno solo la capacità di entrare in contatto con milioni di utenti: sono anche una particolare, efficacissima categoria di «untori». Così (all’incirca) li classificano alcuni ricercatori dell’Università delle Isole Baleari, che sullo European Physical Journal hanno pubblicato uno studio che dimostra come i messaggi diffusi da alcuni influencer si propaghino esattamente come un’epidemia. Come nelle epidemie - sostengono i ricercatori del gruppo guidato da Byungjoon Min - anche le informazioni iniziano a diffondersi partendo da singoli individui. Ecco perché, per individuare una Chiara Ferragni, stella di Instagram, un Fvij, star di Youtube, un Mariano Vaio (modello e fashion blogger) - influencer di successo sulla rete e i social network - si possono usare i modelli matematici con cui si analizza la diffusione dei virus in un’epidemia.

Il modello. Gli studi fatti per classificare l’impatto di ogni «influencer», non hanno avuto sinora grande successo perché - spiegano i ricercatori - non hanno preso in considerazione le dinamiche di diffusione. Ora invece si è scoperto che è possibile trovare gli influencer o «diffusori» di virus più importanti in modo analogo a quanto si riscontra in una rete dalla struttura ramificata, in cui è possibile calcolare la dimensione probabile di un’epidemia partendo da un singolo diffusore. È bastato - spiegano gli studiosi - esaminare il problema dalla prospettiva della trasmissione del messaggio e affidarsi al modello «Sir» (che sta per Suscettibili, infetti e rimossi), usato per spiegare la crescita e decrescita del numero di persone colpite dal virus durante un’epidemia. Seguendo questa proceduta, i ricercatori hanno ottenuto una mappa precisa di come viene trasmesso il singolo messaggio tra i membri della rete, scoprendo che la probabilità che scoppi un’epidemia è strettamente legata al punto di partenza in cui si trova il «diffusore», o influencer. Una volta che la comunicazione «virale» è iniziata, l’influencer non invece ha più alcun impatto nel controllare le dimensioni che l’epidemia potrà assumere.

Gli influencer più efficaci. Le applicazioni di questa teoria, che può essere usata anche su reti più ramificate, vanno dal marketing virale a strategie efficienti di immunizzazione, oltre all’identificazione degli influencer più efficaci. Quelli più utili, per esempio, per instaurare un forte legame tra il personaggio e un brand che viene «raccontato» attraverso le immagini e i pensieri postati.

Signori (& signore) della critica in Rete. Ecco chi sono, come lavorano e quanto fanno vendere i nuovi recensori digitali, scrive Stefania Vitulli, Domenica 18/02/2018, su "Il Giornale".  «All'evento in diretta su Facebook per l'uscita di Bacio feroce di Saviano ci hanno chiamati in 25. Quattro o cinque che si occupano solo di libri, gli altri erano webstar, gente da uno o due milioni di follower, come Sofia Viscardi o Michele Bravi. Era pieno di questi sedicenni superattrezzati con le telecamerine: mi sono sentita vecchia». Giulia Ciarapica, book blogger, ma anche «giornalista analogica», ha 28 anni e di social se ne intende, ma la rete va così rapida che supera persino quelle come lei. Per fermare alcuni concetti chiave ha deciso allora di scrivere un saggio, manuale e mappa aggiornata per orientarsi nel mondo della critica letteraria 2.0: Book blogger. Scrivere di libri in Rete: come, dove, perché (Franco Cesati, pagg. 144, euro 12). Dentro ci sono prima di tutto i nomi. Dei pionieri del blog letterario, come Carmilla, Lipperatura, Vibrisse, Minima&Moralia. Delle nuove leve, come Doppiozero, Libreriamo, Piego di Libri, Flanerì. Dei grandi spazi social di promozione come Anobii, Bookcrossing o Goodreads, degli account twitter come Twletteratura, Lucia Libri, Modusvivendi, delle pagine Instagram come Petunia Ollister o Vicolostretto o dei profili Facebook come Letteratitudine, Pausa Caffè, Nuvole d'inchiostro. «In rete c'è concorrenza, anche se ci aiutiamo e ci promuoviamo tra noi. Però prima di tutto vorrei dire che cosa non siamo: non siamo influencer - spiega la Ciarapica - Non scriviamo Che bello questo libro per avere un milione di like. I like ci servono, ma per promuovere la lettura, non per fare tendenza. Scriviamo recensioni non prezzolate per promuovere titoli in modo indipendente». I recensori digitali sono cani sciolti che sanno fare tutto da soli: scrivere, tagliare, titolare, calibrarsi il tono di voce a seconda di tema e target, valutare editori e autori e saperci tenere rapporti equilibrati, fare video e foto professionali, condividere all'ora giusta della giornata (a pranzo e dopo le 18.30) e scegliere chi taggare, «per non sembrare un poveraccio che cerca la visibilità a tutti i costi». I più bravi sanno fare i numeri e i numeri sono una delle grandi novità: per la prima volta gli editori sanno chi e perché smuove copie in libreria o porta gente alle presentazioni. «Il mio blog, Chez Giulia, non è supportato da pubblicità e ha una media di 40mila lettori - commenta la Ciarapica - Ma ci sono blog quotati che fanno anche duemila visualizzazioni all'ora ogni giorno per articolo e scrivono quattro articoli a settimana, con una piccola redazione interna». Alcuni fanno vendere davvero: Modus Legendi, ad esempio, nato dall'unione di lettori forti, chiede ai follower di comprare entro un certo tempo il libro preferito in una cinquina proposta sul sito e due anni fa portò in classifica Neve, cane, piede (Exorma) di Claudio Morandini. Mentre i big come Rizzoli e Mondadori fanno ancora fatica a entrare nella logica, gli editori indipendenti e medi danno ai blogger la stessa credibilità dei media tradizionali. «Creano un contenuto che noi usiamo nei lanci, nelle presentazioni, sui nostri siti. Sembra paradossale, ma i contenuti digitali restano, non svaniscono come la carta stampata, e innescano un circolo virtuoso - ci conferma Alice di Stefano di Fazi - I lettori si affezionano alle blogger la maggior parte sono donne e si affidano ai loro giudizi: Anna Giurickovic Dato è stata adottata dalle blogger e ha fatto il botto. Ora vanno molto i blog tour: al lancio di un libro, i blog si mettono insieme e si dividono gli argomenti da trattare, uno parla solo dei personaggi, un altro della trama. Su Twitter si riportano frasi dai libri e si fanno andare in tendenza: La manutenzione dei sensi di Franco Faggiani è stato in lettura condivisa per una settimana. L'autore? Noi suggeriamo che interagisca, ma non possiamo forzarlo. L'età? Non conta: Faggiani ha 69 anni e in rete è bravissimo». Gli autori più bravi on line sono social perché a loro piace, non perché sono scrittori: «Uso la rete come gruppo di lettura condiviso: chi vive nei paesini reconditi d'Italia si collega, posta le frasi di un libro amato e si sente meno solo, meno fuori moda, meno marginale» chiarisce Nadia Terranova, autrice Einaudi e Mondadori, blogger, quasi 9mila follower su Twitter.

Attenti però: la nuova critica letteraria ci tiene alla propria indipendenza e non va costretta né condizionata. La relazione che le blogger o le youtuber creano coi propri seguaci si basa su libertà e spontaneità nella condivisione: «I miei video funzionano perché uso Youtube come motore conversazionale - ci spiega Ilenia Zodiaco, 25 anni, quasi 42mila iscritti al suo canale e oltre 5 milioni di visualizzazioni totalizzate dal 2011 - Le persone hanno l'impressione di parlare con un conoscente, instaurare un rapporto diretto e cancellare il mezzo grazie a un'informalità di fondo. La libreria è un luogo deputato che - specie a chi non legge e ha già un complesso di inferiorità - fa paura. Nei social invece è come se la lettura venisse normalizzata. Valuto il mio successo anche attraverso l'affiliazione con Ibs e Amazon, in base ai libri che vendo dal link diretto alle mie recensioni. Il massimo l'ho raggiunto con 4321 di Paul Auster: trecento copie. Ai critici tradizionali consiglio umilmente di provare a risultare più comprensibili e meno autoreferenziali». Ma chi sono i critici tradizionali? Massimo Onofri, saggista e professore ordinario di Letteratura italiana, collaboratore dell'Indice, Avvenire, La Stampa, consulente editoriale, sembra corrispondere al profilo. Eppure anche lui riserva sorprese digitali: «Ho scritto i miei ultimi due libri per La nave di Teseo Benedetti Toscani e Isolitudini, di prossima uscita interamente su Facebook. Mi affascina la conferma del lettore e il suo contributo alla documentazione, come in un seminario. Ferma restando la compiutezza formale: sul web scrivo al massimo delle mie possibilità stilistiche. In rete ho scoperto autori, come Carmen Pellegrino, che ho stanato quando scriveva di paesi abbandonati. La rete è implicitamente democratica: intavolare discussioni letterarie sul web è un atto inclusivo che potenzia l'intelligenza. Ciò non toglie che le gerarchie del mondo reale si ristabiliscono presto: se uno ha autorevolezza lo commentano, se un coglione fa la sua defecazione non se lo fila nessuno». Ma fare il critico on line è o non è un vero lavoro? «Eccome. Può portarti via anche otto ore al giorno, se lo fai seriamente - chiude la Ciarapica - Ai commenti devi rispondere subito, per cui spesso non puoi seguire altro. Devi essere competente sulle logiche del confronto, perché lo spessore di una persona si vede anche da un cinguettìo. E devi avere una formazione critica di base, se no alla lunga fatichi a distinguerti. Però ne vale la pena: sul Messaggero non posso mettermi a fare la critica all'Arbasino, invece sul mio blog certe libertà me le posso concedere».

Il Paese che non ama, scrive Mauro Munafò il 14 febbraio 2018 su "L'Espresso". Questo post di Di Maio dimostra il dominio del Movimento 5 Stelle su Facebook (gli altri partiti prendano nota). La foto che c'è all'inizio di questo post vi è familiare? Dovrebbe perché, da quanto mi risulta, è il contenuto politico più visto almeno dell'ultimo anno sul Facebook italiano. Un record i cui numeri ancora sono in crescita e che, al momento di scrittura di questo post, significa 115mila condivisioni e più di 137mila azioni tra like e faccine e circa 20mila commenti. Si tratta del post con cui Luigi Di Maio, capo politico e candidato premier del Movimento 5 Stelle, spiega a Filippo Roma come il movimento che guida intende affrontare il caso dei rimborsi che gli eletti pentastellati hanno bonificato e poi annullato. Un caso scoperchiato dal programma di Italia 1 Le Iene che sta occupando prime pagine e Tg e rappresenta un importante banco di prova per Di Maio stesso per dimostrare la sua capacità di direzione. Quante persone hanno visto questa foto? Non posso dirlo con certezza (solo l'amministratore della pagina di Luigi Di Maio lo sa). Ma incrociando i dati su post simili condivisi da altre pagine politiche, possiamo stimare una cifra di persone raggiunte non inferiore a 4-5 milioni. (Edit: l'ufficio stampa di Di Maio mi comunica che hanno superato le 10 milioni di persone raggiunte). Sì, circa 10 milioni di persone sono state raggiunte direttamente e senza intermediazione alcuna dal messaggio di Luigi Di Maio. Ora, non è questo il luogo per discutere sulla questione in sè: non importa cosa ne pensiate del caso rimborsi del M5S. Quello su cui voglio concentrarmi in questo articolo è la potenza mostrata dai 5 Stelle nell'uso dei social network: una potenza che nessun'altra forza politica italiana è in grado di schierare. La forza dei 5 Stelle infatti si fonda sulla presenza di decine di pagine legate ai diversi eletti con decine di migliaia di fan ciascuna, a cui si aggiunge un nutrito sottobosco di pagine e gruppi più o meno ufficiali. Dal mio personale monitoraggio che tengo per l'Espresso, risulta che sulle 20 pagine politiche con più fan, 8 risultano legate a esponenti del Movimento. Sulle prime 5, ben 4 sono dell'universo pentastellato. Perché questo è importante? Semplice. La pagina con più fan e maggiore portata politica in Italia è quella di Matteo Salvini, che ha da poco superato Beppe Grillo oltre la quota dei due milioni di like. Ma il vantaggio di Di Maio e soci è legato all'effetto rete: il post con la Iena di cui parliamo, infatti, mi risulta essere stato condiviso da almeno 40 importanti pagine della galassia 5 Stelle: da Grillo ad Alessandro Di Battista fino a quelle degli esponenti meno noti ma con un loro seguito comunque importante. L'algoritmo di Facebook che determina cosa vedete sulla vostra pagina tende a privilegiare i contenuti che sono stati condivisi da più pagine e contatti che seguite. Quindi se Di Maio scrive una cosa e Beppe Grillo la condivide, e se voi avete i like a entrambe le pagine (cosa piuttosto probabile se siete fan del Movimento), la probabilità che voi vediate quel contenuto si moltiplica. Quando Di Maio parla di "effetto boomerang" per i partiti che stanno cercando di cavalcare il caso dei rimborsi dei 5 Stelle per screditarli si riferisce quindi anche a questo: non conta quanti tg, siti o giornali tratteranno la notizia. Lui oggi è in grado di raggiungere direttamente milioni di potenziali elettori a cui fornirà la sua versione dei fatti senza filtri e senza dubbi. Un potere, legittimo sia chiaro, che in questa campagna elettorale è diventato quanto mai rilevante. E che forse anche dalle parti del Pd dovrebbero iniziare a prendere in seria considerazione.

LE SOLITE FAKE NEWS DEI MEDIA DI REGIME.

Si può fare giornalismo sbeffeggiando la verità? Sempre più spesso i giornali offrono ai lettori non delle notizie, ma dei commenti fondati sul ribaltamento delle notizie, scrive Piero Sansonetti il 31 Marzo 2018 su "Il Dubbio".  È giusto chiedere che tra il giornalismo e i fatti realmente accaduti ci sia un qualche collegamento? O è una fisima da vecchi, legata a un’idea novecentesca e sorpassata di informazione? Ieri ho dato un’occhiata ai giornali – diciamo così – populisti, quelli più vicini, cioè, alla probabile nuova maggioranza di governo, e ho avuto l’impressione di una scelta fredda e consapevole: separiamo i fatti dalle opinioni – come dicevano gli inglesi – ma separiamoli in modo definitivo: cancellando i fatti, e permettendo alle opinioni di vivere in una propria piena e assoluta autonomia dalla realtà.

Trascrivo alcuni di questi titoli, pubblicati in prima pagina a caratteri cubitali.

Libero: «Scoprono solo ora che siamo pieni di terroristi bastardi». (Sopratitolo, piccolino: “Retata di musulmani violenti”). La Verità, titolo simile: «Così importiamo terroristi». Sopratitolo: “Presi i complici di Anis Amri». Fermiamoci un momento qui. Qual è il fatto al quale ci si riferisce? La cattura, da parte delle autorità italiane, di una serie di persone di origine nordafricana sospettate di essere legate al terrorismo. Noi non sappiamo se effettivamente queste persone siano colpevoli. Ogni tanto – sapete bene vengono arrestati, o inquisiti, anche degli innocenti. E’ successo appena una settimana fa a un tunisino, che è stato linciato (dai mass media) lui e la famiglia prima che si scoprisse che non c’entrava niente. Ma ora non è questo il punto. Proviamo a capire quali sono le cose certe in questa vicenda. Che i servizi segreti italiani, o la polizia, hanno trovato dei sospetti terroristi. Che è in corso una operazione volta a sventare attentati. Che finora l’Italia è l’unico grande paese europeo che non è stato colpito da attentati. Che l’Italia è l’unico paese che ha catturato diversi sospetti terroristi. Che, tra l’altro, l’Italia è il paese che ha preso quel famoso Anis Amri (del quale parla La Verità) e cioè l’uomo accusato di una strage in Germania. E’ sfuggito alla polizia e agli 007 tedeschi ma non ai nostri. Punto.

Traduzione in lingua giornalistica dell’arresto di Amri e di alcuni suoi probabili complici? “Importiamo terroristi”. Voi penserete: li importiamo dal mondo arabo. No, dalla Germania. In Germania loro sono liberi, qui vengono fermati.

Traduzione Invece dell’azione del governo, degli 007 e della polizia per fermare il terrorismo arabo (che ci fa invidiare da tutti gli altri europei): «Scoprono solo ora che siamo pieni di bastardi islamici». C’è una barzelletta famosa, che qualche anno fa fu polemicamente raccontata ai giornalisti da Mitterrand, il presidente francese, e qualche anno dopo da Clinton (cambiando il protagonista). In mare c’è un ragazzo che sta affogando. Mitterrand lo vede e inizia a camminare sul pelo dell’acqua, arriva fino a lui ormai allo stremo, con un braccio lo tira su, se lo carica sulle spalle e lo riporta a riva. Salvandogli la vita. Tutto ciò, come avete capito, lo fa camminando sull’acqua, e non nuotando. Il giorno dopo i giornali francesi titolano: «Mitterrand non sa nuotare».

Mi pare che la barzelletta calzi bene e possa essere riferita ai titoli di Libero e della Verità Il Fatto invece non si occupa dei terroristi ma del Pd (il grado di ossessione di Libero e Verità per i terroristi, che, come è noto, negli ultimi vent’anni hanno messo a ferro e fuoco l’Italia, è simile al grado di ossessione del Fatto per il Pd). Titola: «Rivolta anti- Renzi: “Basta Aventino vogliamo giocare”». La parola giocare è usata in senso positivo: partecipare, essere attivi. La rivolta in corso sarebbe stata avviata da Franceschini e Orlando. In cosa consisterebbe? Nel chiedere un atteggiamento amichevole del Pd verso i 5 Stelle, in contrasto con Renzi che invece vuole che il Pd resti all’opposizione. Dopodiché uno legge l’articolo del direttore, cioè di Travaglio, e scopre che Orlando e Franceschini se ne stanno in realtà zitti zitti e rintanati. E per questo Travaglio li rimprovera. Cioè li rimprovera proprio per non aver dato il via ad alcuna rivolta, che invece servirebbe. E servirebbe allo scopo di bloccare l’Aventino e di spingere il Pd ad una scelta simile a quella dei socialdemocratici tedeschi, i quali hanno chiamato i loro elettori ad un referendum interno per avere il permesso di collaborare con la Merkel. Travaglio dice che il Pd deve fare la stessa cosa. Però ci sono due imprecisioni, nel ragionamento. La prima è che il Pd non ha scelto l’Aventino, ma l’opposizione. Sono due cose molto, molto diverse. L’Aventino (cioè il ritiro dei propri deputati dal Parlamento) fu scelto dai socialisti e dai liberali, dopo l’assassinio di Matteotti (segretario del Psi). Socialisti e liberali, guidati da Giovanni Amendola, decisero di disertare il parlamento per delegittimarlo e dunque delegittimare il fascismo. I comunisti (guidati da Gramsci) fecero una scelta diversa. Dissero: restiamo dentro a combattere. Cioè rifiutarono l’Aventino e scelsero l’opposizione. In realtà andò male a tutti e due: il fascismo non fu delegittimato da Amendola e Turati né fermato da Gramsci, e finì per fare arrestare sia i socialisti sia i comunisti. Ma che c’entra tutto questo con l’attuale situazione? Niente. Qualcuno forse pensa – o ha detto che il Parlamento non è legittimo, e che le elezioni non valgono, e che i vincitori non sono legittimati a governare? Hanno detto tutti l’esatto contrario.

Quanto all’alleanza tra Merkel e Spd è una alleanza che è impossibile paragonare a una possibile alleanza tra 5 Stelle e Pd. La Spd ha accettato di sostenere la Merkel esattamente con l’idea opposta a quella di Travaglio: e cioè per sbarrare la strada ai populisti. La Merkel e i socialdemocratici hanno già governato insieme e dunque non solo affatto incompatibili. Ma lasciamo stare la polemica politica, nella quale, effettivamente, è ovvio che le opinioni prevalgano su tutto. Restiamo nel campo del giornalismo. La domanda che mi tormenta è sempre la stessa: il giornalismo moderno ha bisogno dei fatti, delle notizie vere, delle verifiche, della somiglianza con la realtà, o invece si è trasformato in una specie di nuovo genere letterario, basato sulla fantasia, e volto esclusivamente a costruire polemiche politiche o culturali e ad influenzare, indirizzare, spostare l’opinione pubblica?

Naturalmente nel giornalismo c’è stata sempre questa componente e questa aspirazione: di influenzare lo spirito pubblico. In tutte le attività culturali c’è questa aspirazione. Anche nella pittura, anche nel cinema. Però, fino a qualche anno fa, il giornalismo aveva – come la fotografia – la caratteristica di essere una attività intellettuale legata strettamente alla realtà, e il cui grado di autorevolezza si misurava esclusivamente valutando la sua vicinanza alla verità. Sempre meno è così. I giornali populisti vengono confezionati con un metodo che si fonda sul disprezzo per la realtà. La loro forza è direttamente proporzionale alla lontananza dalla realtà. Gli altri giornali oscillano, tentati dai vecchi valori e dai vecchi schemi del giornalismo europeo e americano, ma alla fine rassegnati a inseguire Vittorio Feltri. In dieci anni – cifra approssimativa – il giornalismo italiano ha completamente cambiato faccia. E le possibilità per i cittadini di essere informati si è enormemente ridotta. Dobbiamo prenderne atto e basta? Cioè considerare il divorzio tra giornalismo e verità e la sua trasformazione in genere letterario fantasioso, come un’inevitabile conseguenza della modernità? Se è così però bisognerà trovare qualche altro modo per informare e informarsi. La ricerca di questo nuovo modo dovrebbe essere la preoccupazione principale dei politici e degli intellettuali. E anche dei tantissimi giornalisti che sono stati tagliati fuori da questa nuova tendenza. La preoccupazione principale: perché nessuna democrazia può sopravvivere, senza una informazione decente.

«Ha vinto il M5S, dateci il reddito di cittadinanza». L'assalto ai Caf del barese. Succede nel piccolo comune di Giovinazzo. Cittadini in fila per ottenere i moduli, centralini tempestati dalle telefonate al servizio di Comune e Regione, scrive l'8 marzo 2018 “L’Espresso. "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per Reddito di Cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone fra ieri e oggi si sono presentate ai Caf locali e, nel capoluogo, anche a Porta Futuro, il centro servizi per l'occupazione. Gli episodi, già resi noti dal sindaco di Giovinazzo (Bari), Tommaso Depalma, che ha parlato di file davanti ai Caf della città, si stanno verificando anche in queste ore. A Porta futuro a Bari, racconta il responsabile, Franco Lacarra, "sono una cinquantina le persone che tra ieri e oggi hanno chiesto i moduli per ottenere il reddito di cittadinanza, si tratta soprattutto di giovani". "A noi sindaci - afferma Depalma - piacerebbe poter comunicare ai cittadini che il problema della disoccupazione è risolto e che per tutti quelli che non hanno lavoro c'è un Reddito di Cittadinanza, ma credo che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali". «Ovviamente - aggiunge Franco Lacarra   - non si tratta di folle oceaniche, ma comunque è certo che molta gente è alla ricerca dei moduli per ottenere il reddito di cittadinanza e ci chiede informazioni». «Sono soprattutto i giovani - aggiunge - che ci chiedono informazioni, naturalmente anche i Caf potranno dare una descrizione su quello che sta accadendo».

"Ha vinto M5S, dateci i moduli per il reddito di cittadinanza". Numerose richieste ai Caf da Bari e Palermo. A Giovinazzo e nel capoluogo pugliese decine di richieste. A Palermo un Caf costretto a mettere un avviso all'esterno. Ma i Cinque Stelle della Puglia attaccano: "Una mistificazione", scrive l'8 marzo 2018 "La Repubblica". "Ha vinto il M5S, ora dateci i moduli per il reddito di cittadinanza": accade in alcuni Comuni della Puglia, anche a Bari, dove numerose persone dopo l'esito del voto si sono presentate ai Caf locali. A Bari e a Giovinazzo - ma anche a Palermo dove gira anche un falso formulario - decine di cittadini hanno chiesto informazioni sulla modulistica per accedere al reddito di cittadinanza promesso in campagna elettorale dal Movimento 5 Stelle. Nel job center di Porta Futuro a Bari, per esempio, in tre giorni sono pervenute da persone di età compresa tra i 30 e i 45 anni una cinquantina di richieste di accesso alla modulistica. "A chi si è affacciato chiedendo se fossero già disponibili i moduli per richiedere il reddito di cittadinanza, abbiamo dato una risposta tecnica, dicendo che non c'è al momento nessun provvedimento che codifica questo strumento", ha chiarito Giovanni Mezzina, responsabile dei servizi di orientamento di Porta Futuro Bari. Anche a Palermo le richieste iniziano ad arrivare. Una decina di persone si sono presentate al Caf Asia di Piazza Marina. E al patronato dell'Ente nazionale di assistenza sociale ai cittadini (Enasc), per frenare il via vai di chi chiedeva informazione hanno affisso un foglio con la scritta in italiano e in arabo: "In questo Caf non si fanno pratiche per il reddito di cittadinanza". In Puglia, dal Comune di Giovinazzo, l'assessore alle Politiche Sociali, Michele Sollecito, racconta che le domande su questo specifico provvedimento si aggiungono, ma in termini di curiosità, a quelle che da tempo i cittadini pongono per accedere al Reddito di dignità (Red) della Regione Puglia e al Reddito di Inclusione (Rei) del Governo. "Non c'è nessuna nuova frenesia per il reddito di cittadinanza proposto dai 5Stelle, ma curiosità sì. Ma nessun pugno sul tavolo o nessuna rivendicazione animata. Perché Giovinazzo non è una città di indolenti parassiti". Dal canto suo il sindaco di Giovinazzo, Tommaso Depalma (lista civica), ritiene "che i cittadini siano stati ammaliati da spot elettorali. La vittoria del M5S c'è stata, netta e inconfutabile, ma per il reddito di cittadinanza la vedo dura". Ma in Cinque Stella della Puglia parlano di mistificazione della realtà. E raccontano che anche il direttore di Porta Futuro, Franco Lacarra, "che per dovere di cronaca è il fratello del neoeletto deputato renziano Marco Lacarra del Pd ha confermato in maniera molto schietta che non vi era stato alcun assalto". Il comunicato di Porta Futuro, però, non smentisce: "Alcuni cittadini sono passati dal nostro sportello per chiederci informazioni e approfondimenti su questo tema. Vogliamo chiarire che tutto ciò è normale nel nostro Paese: succede ogni volta che vengono divulgate notizie rilevanti per le politiche del lavoro e per la vita dei cittadini, come è avvenuto per altre proposte legislative promosse negli ultimi mesi".

La Fake news contro il Movimento Cinque Stelle delle richieste di massa di reddito di cittadinanza, scrive il 9 marzo 2018 "Positano News". Da questa mattina in Puglia politici e giornali hanno lanciato una nuova bufala: FIUMI di persone avrebbero preso d’assalto alcuni CAF e centri per l’impiego per richiedere il reddito di cittadinanza. A lanciare l’allarme per primo il sindaco di Giovinazzo (BA) (che ha appoggiato il PD in campagna elettorale) che, commentando un articolo di una testata locale, ha parlato di “file davanti ai Caf della città”. La notizia è stata poi ripresa da “La Repubblica” che ha raccontato di “RAFFICHE DI RICHIESTE” anche per “Porta Futuro” il centro per l’impiego di Bari. UNA FOLLIA GENERALE CHE CI E’ APPARSA QUANTOMENO “SOSPETTA” ad appena 4 giorni dal voto, con un Governo nemmeno insediatosi in attesa che si sblocchi la situazione tra le varie forze politiche e dunque nessuna possibilità di legiferare. ABBIAMO DUNQUE DECISO DI ANDARE CONTROLLARE LA SITUAZIONE IN PRIMA PERSONA. Dopo aver girato alcuni CAF senza scorgere neanche lontani tentativi di “assalti”, abbiamo deciso di recarci direttamente a “Porta futuro”. Ingresso vuoto. Corridoi vuoti. (Dell’assalto e delle file interminabili mattutine, neanche un superstite). All’ingresso alcuni addetti ci hanno subito spiegato che “in realtà noi non abbiamo visto quasi nessuno, questa notizia ha lasciato di stucco anche noi”. Ci hanno dunque fatto parlare con il direttore Franco Lacarra (per dovere di cronaca sottolineiamo essere il fratello del neoeletto deputato renziano MARCO LACARRA (PD)) che in maniera molto schietta e onesta ci ha confermato che rispetto agli articoli letti non vi era stato alcun “assalto” ma che è solo capitato, come gli capita sempre per qualsiasi provvedimento compresi quelli regionali, che alcune persone NEGLI ULTIMI 3 GIORNI si siano recate a chiedere informazioni generiche sul reddito di cittadinanza. Abbiamo dunque chiesto al direttore di riportare la realtà dei fatti specificando di come si sia trattato di un fenomeno assolutamente normale e quotidiano per loro. Il direttore, d’accordo con noi, ha dunque richiesto al suo ufficio comunicazione di scrivere una smentita sul canale Facebook di Porta Futuro. Non sappiamo bene come sia potuto accadere ma solo pochi minuti dopo lo stesso direttore è stato contattato telefonicamente, davanti a noi, dallo staff del sindaco renziano ANTONIO DECARO (PD). Abbiamo ascoltato dunque il direttore costretto a “giustificarsi” spiegando che con questa smentita avrebbe voluto solo raccontare la verità dei fatti (a suo parere, testualmente, “una cazzata”). Nel frattempo, mentre eravamo ancora in loco, sono arrivati altri giornalisti del TG RAI, di Repubblica e pare che il direttore sia stato contattato anche dalla CNN. Tutto quanto vi abbiamo raccontato sopra è cronaca, ora traete voi le vostre conclusioni. Dal canto nostro, vorremmo solo dirvi una cosa: è evidente che la lezione di queste elezioni politiche a qualcuno non sia bastata. A questo punto vi preghiamo: se davvero avete così poca considerazione per l’intelligenza dei cittadini italiani continuate pure a diffondere falsi “scandali” e fake news, vorrà dire che alle prossime consultazioni elettorali il Movimento 5 Stelle volerà, da solo, oltre il 41%. A riveder le stelle…

Putin è davvero colpevole? Qualcosa proprio non torna nel caso Skripal, scrive il 27 marzo 2018 Marcello Foa su "Il Giornale". Siamo proprio sicuri che ad avvelenare l’ex spia Skripal e sua figlia siano stati i russi? Permettetemi di avanzare più di un dubbio esaminando con attenzione le notizie uscite finora. I punti che non tornano sono questi:

Primo. Qual è il movente? Quale l’interesse per Putin? Mi spiego: tutti riconoscono al presidente russo grande sagacia nel calibrare le sue mosse. Eccelle sia nella strategia che nella tattica. Da tempo sappiamo che gli Stati Uniti (i quali trainano l’Europa) sono impegnati in un’operazione di logoramento del Cremlino volto a ottenerne un rialliniamento su posizioni filoamericane, che potrà essere ottenuto con certezza solo attraverso un cambio di regime ovvero con l’uscita di scena di Putin. Siccome una rivolta colorata è inattuabile, lo scenario è quello di rendere insostenibile il peso delle sanzioni e dell’isolamento internazionale, inducendo le élite russe a ribellarsi al presidente appena rieletto. In questo contesto, ogni pretesto viene sfruttato per innervosire o indebolire Putin. Conoscendo l’obiettivo finale, bisogna chiedersi: ma che interesse aveva il presidente russo a tentare di eliminare un’ex spia, peraltro fuori dai giochi, ricorrendo al più spettacolare dei tentativi di omicidio, l’unico che – dopo la vicenda del pollonio – tutto il mondo avrebbe attribuito al Cremlino? Ne converrete: non ha senso. Diplomaticamente sarebbe stato un suicidio, perché avrebbe offerto all’Occidente lo spunto per un’ulteriore campagna antirussa, che infatti si è puntualmente verificata, fino all’ultimo atto, l’espulsione coordinata dei diplomatici, a cui l’Italia dell’uscente Gentiloni si è accodata, benchè avrebbe potuto – e proceduralmente dovuto – astenersi. No, Putin non è leader da commettere questi errori.

E veniamo al secondo punto, che riguarda il rumore mediatico e il furore delle accuse.  Non dimentichiamolo, la comunicazione è uno strumento fondamentale nell’ambito delle guerre asimmetriche (tra l’altro è il tema che tratto nel mio ultimo saggio “Gli stregoni della notizia. Atto secondo”). Quando il rumore mediatico è assordante, univoco, esasperato, le possibilità sono due: le prove sono incontrovertibili (ad esempio l’invasione irachena del Kuwait) o non lo sono ma chi accusa ha interesse a sfruttarle politicamente, il che può avvenire solo se le fonti supreme – ovvero i governi – affermano la stessa cosa e con toni talmente urlati e assoluti da inibire qualunque riflessione critica, pena il rischio di esporsi all’accusa di essere “amici del dittatore Putin”.

Se analizziamo attentamente le dichiarazioni del governo britannico, notiamo come la stessa premier May continui a dire che “è altamente probabile” che l’attentato sia stato sponsorizzato dal Cremlino. Altamente probabile non significa sicuro, perché per esserne certi bisognerebbe provare l’origine del gas, cosa che è impossibile in tempi brevi. E nel comunicato congiunto diffuso ieri da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania si ribadisce che si tratta di «agente nervino di tipo militare sviluppato dalla Russia», che farebbe parte di un gruppo di gas noto come Novichok concepito dai sovietici negli anni Settanta. Ma sviluppato non significa prodotto in Russia. Se non è stato usato questo verbo – o un sinonimo, come fabbricato – significa che gli stessi esperti britannici non hanno prove concrete a sostegno della tesi della responsabilità russa, che pertanto andrebbe considerata come un’ipotesi investigativa. Non come un verdetto. Anche la semantica, in frammenti ad alta emotività come questi, è indicatrice e dovrebbe allertare la stampa, che invece non mostra esitazioni. Eppure di ragioni per mostrarsi più cauti ce ne sono molte. Vogliamo ricordare le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein? Ma esempi in tempi recenti non mancano.  L’isteria accusatoria di queste ore ricorda quella delle “prove incontrovertibili” del 2013, secondo cui Assad aveva sterminato col gas 1300 civili, fa cui molti bambini. Scoprimmo in seguito che a usare il gas furono i ribelli per provocare un intervento nella Nato. O, sempre in Siria, nel 2107 quando Amnesty e il Dipartimento di Stato denunciarono l’esistenza di un formo crematorio in cui venivano bruciati i ribelli, rivelazione che indignò giustamente il mondo ma che venne smentita dopo un paio di settimane dallo stesso governo americano. Sia chiaro: nessuno sa chi abbia attentato alla vita di Skipal e di sua figlia e nessuna ipotesi può essere esclusa. Ma la propaganda è davvero assordante e i precedenti, nonché l’esperienza, suggeriscono maggior cautela. E un sano scetticismo: perché Putin sarà, per la grande stampa, “cattivo” ma di certo stupido non è.

Israele-Gaza: tutti i falsi miti da sfatare. Dall'onnipotenza del Mossad alla lobby ebraica e all'idea di "Due popoli due Stati". La complessità del conflitto israelo-palestinese negli anni ha generato una serie di convinzioni che non si basano sui fatti. Il dizionario del conflitto dalla A alla Z, scrivono Anna Mazzone e Paolo Papi su "Panorama". Israele ha avvertito i palestinesi della Striscia di Gaza di abbandonare le loro abitazioni. La pseudo-tregua è durata un batter di ciglia. I razzi di Hamas continuano a piovere in Israele e lo Stato ebraico ha ripreso i bombardamenti su Gaza e si prepara (forse) a un'operazione terrestre. Compresso tra i suoi falchi, Netanyahu sembra non avere chiara la rotta da seguire e intanto il numero dei morti aumenta di ora in ora. Si parla di più di 200 persone, tutti palestinesi e 1 israeliano. Il conflitto israelo-palestinese affonda la sua storia nella notte dei tempi. Difficile districarsi nelle fitte trame degli eventi, dei passi fatti in avanti e di quelli (tanti) fatti indietro. E, soprattutto, difficile non ascoltare le sirene dei "falsi miti". Idee preconcette, spesso frutto di propaganda da una parte e dall'altra, che a forza di essere ripetute sono diventate realtà. Abbiamo provato a smontarli uno per uno. 

Il mito dei Paesi arabi "fratelli". Non è vero, contrariamente a quanto sostiene la vulgata corrente, che i palestinesi siano vittime esclusivamente delle rappresaglie israeliane. I Paesi arabi che confinano con Israele, Gaza e Cisgiordania sono stati, nonostante la retorica antisionista dei governi arabi strumentalmente usata in chiave interna, tra i più feroci nemici degli oltre 5 milioni di profughi palestinesi della diaspora, considerati - ovunque siano stati ospitati - come dei paria senza diritti, degli inguaribili attaccabrighe da confinare in campi sovraffollati, senza servizi né diritti e controllati a vista dalle onnipotenti polizie locali. Dalla Giordania - dove durante il settembre nero del 1970 la polizia giordana lanciò una sanguinosa operazione contro i gruppi palestinesi nei campi - al Libano - dove i 500 mila profughi che vivono nei campi sono considerati tuttora senza diritti politici e sociali - fino al Kuwait - dove i lavoratori palestinesi furono espulsi durante la prima guerra del Golfo per il sostegno che l’Olp ricevette dal regime di Saddam - non c’è Paese arabo che - al di là delle magniloquenti dichiarazioni di solidarietà ai fratelli palestinesi  - abbia mai offerto un concreto aiuto ai palestinesi fuggiti dalle loro case. Sempre in Giordania (e anche in Libano) un palestinese non può studiare Legge o Medicina e non può essere proprietario di un immobile. Se questi sono "fratelli", allora forse è il caso di parlare di "parenti serpenti".

Il mito dei negoziati. Non è vero, o meglio: è estremamente improbabile, visto anche il disimpegno americano - che una soluzione al conflitto israelo-palestinese possa essere frutto di un negoziato tra i leader dei due campi, come dimostrano i fallimenti di tutti gli accordi di pace degli anni '90 e 2000. È assai più probabile che le tendenze demografiche di lungo periodo dei due gruppi etnici possano mutare, irrimediabilmente, nei prossimi decenni, la natura politica dello Stato di Israele. E questo per una ragione molto semplice: se guardiamo alle proiezioni statistiche scopriamo che al momento in Terra Santa vivono 6.1 milioni di ebrei e 5.8 milioni di arabi. La demografia dice che gli arabi fanno molti più figli degli ebrei. E' inevitabile pensare che nel giro dei prossimi dieci anni, qualora non si riuscisse a raggiungere una soluzione "Due popoli due Stati", Israele potrebbe perdere progressivamente il suo carattere di Stato ebraico. Insomma, quello che non si riesce a raggiungere da più di mezzo secolo al tavolo dei negoziati, potrebbe realizzarlo la Natura.

Il mito degli insediamenti congelati. Nonostante il governo israeliano abbia più volte dichiarato l'intenzione di congelare i nuovi piani di insediamento nella West Bank, questo non è accaduto. L'ultimo esempio è molto recente. Ai primi di giugno di quest'anno l'esecutivo israeliano ha annunciato uno stop nella costruzione di nuove abitazioni in Cisgiordania. In realtà, però, su un piano che prevedeva 1.800 nuovi insediamenti ne sono state costruite 381. Forte la pressione da parte di cinque Paesi dell'Unione europea affinché Israele congelasse i suoi piani sui nuovi insediamenti. Ma il governo Netanyahu ha fatto sapere che lo stop è arrivato per motivi "tecnici" e non in seguito alle pressioni europee. 

Il mito della lobby ebraica. E' sicuramente il mito più gettonato. Quello dell'esistenza di una lobby ebraica in grado di influenzare qualsiasi avvenimento socio-economico-politico nel mondo è il cavallo di battaglia dell'esercito dei complottisti. Il mito della lobby "giudaica" affonda le sue radici nell'antisemitismo e, come tutti i miti, si fonda su idee fantasiose ripetute a oltranza, nei secoli dei secoli, fino a diventare - almeno per alcuni - delle verità inviolabili. E' il mito che ha gettato le fondamenta dello sterminio nazista e che ha motivato nei secoli l'odio nei confronti degli ebrei, accusati - dopo la Seconda guerra mondiale - di fare "marketing dell'Olocausto" per poter mantenere una situazione di potere nel mondo. In realtà, basterebbe una sola domanda per smontare il mito della lobby ebraica: perché - se la lobby esiste sul serio - Israele non riesce a modificare l'immagine che passa sulla maggior parte dei media nel mondo e che assegna allo Stato ebraico la maglia nera del carnefice a fronte di una Palestina presentata largamente come vittima indiscussa?  Il vecchio adagio che la verità sta nel mezzo in realtà vale sia per Israele che per la Palestina, ed è troppo semplice e superficiale credere che esista una struttura monolitica e unica come la potente lobby ebraica, in grado di modificare i destini del mondo. 

Il mito di "Due popoli, due Stati". La soluzione "Due popoli due Stati" è l'idea di creare uno Stato palestinese indipendente, che possa esistere "assieme" a Israele. Negli anni è diventata una sorta di "mito", perché sarebbe sicuramente la soluzione migliore per risolvere un conflitto così complesso, ma è pur vero che al momento le parti in causa sono troppo distanti. La creazione di creare uno Stato binazionale non ottiene ugualmente supporto e i sondaggi dimostrano che sia gli israeliani che i palestinesi preferirebbero la "mitica" soluzione "Due popoli due Stati". E allora perché questa soluzione non viene raggiunta? La risposta affonda le sue radici in anni e anni di conflitto israelo-palestinese per la terra, la legittimazione, il potere. Un tema molto sentito dai palestinesi è il controllo delle frontiere e la libertà di movimento. Movimento che Israele restringe e controlla ai check-point e all'ingresso della città di Gerusalemme. E' molto difficile negoziare una soluzione "Due popoli due Stati" se non ci si riesce a mettere d'accordo sui confini come punto di partenza. Un ulteriore motivo di conflitto è la disputa sul controllo di Gerusalemme, casa di molti siti sacri per gli ebrei, ma anche per i palestinesi (e i cristiani). C'è poi la questione degli insediamenti israeliani nella West Bank, che fa parte dei territori palestinesi. L'espansione degli insediamenti israeliani nella West Bank è vista da molti come il principale ostacolo alla costruzione di una pace stabile e duratura. Infine c'è Hamas, l'organizzazione terroristica che controlla Gaza, che non vuole l'esistenza di Israele e si batte per cancellare lo Stato ebraico dalla mappa mediorientale. Di fronte a queste considerazioni, è evidente come la soluzione "Due popoli due Stati", pur essendo la migliore da praticare, è anche un falso mito da sfatare. Almeno finché le parti non muoveranno passi in una direzione diversa da quella presa finora.

Il mito dell'estremismo "solo" arabo. Per chi crede che nel conflitto israelo-palestinese il "terrorismo" si esprima solo sul fronte islamico, questo è un altro mito da sfatare. In Terra Santa gli estremisti sono anche ebrei e rappresentano un serio problema per il governo israeliano. Ultra ortodossi, gli estremisti ebraici si sono spesso distinti per attacchi di gruppo a donne. Come nel caso della ragazza presa a sassate a Beit Shemesh (nei pressi di Gerusalemme) perché stava attaccando dei poster della lotteria nazionale per le strade del villaggio. In occasione della recente visita di Papa Francesco in Terra Santa, le autorità israeliane hanno vietato a cinque noti estremisti di mettere piede nella città di Gerusalemme. Considerano lo Stato israeliano "un nemico" e attaccano con bombe e attentati, esattamente come gli omologhi della controparte palestinese. Un nome su tutti è quello di Yigal Amir, il terrorista ultranazionalista che nel 1995 ha ucciso Yitzhak Rabin, perché non accettava l'iniziativa di pace sposata dal premier israeliano e la sua firma sugli accordi di Oslo.

Il mito dell'onnipotenza del Mossad. I servizi segreti israeliani vengono spesso portati a esempio di infallibilità, ma non è così. Anche perché è umanamente impossibile. Tuttavia, il mito dell'onnipotenza del Mossad è uno delle fondamenta su cui si articola il mito della lobby ebraica, e pertanto resiste tenacemente nel tempo. Eppure, i flop del Mossad (e dello Shin Bet, l'intelligence israeliana per gli affari interni) sono sotto gli occhi di tutti. Cominciano nell'ottobre del 1973, quando Aman, i servizi militari israeliani, giudica "Poco probabile" lo scoppio di una guerra con i Paesi arabi, Qualche giorno dopo l'esercito sirio-egiziano attacca Israele, cogliendo il Paese del tutto impreparato. Il capo di Aman fu costretto a dimettersi. Poco prima, a luglio dello stesso anno, gli agenti del Mossad danno la caccia ai leader di Settembre Nero, l'organizzazione terroristica islamica responsabile dell'uccisione di 11 atleti israeliani ai Giochi olimpici di Monaco del '72. Gli 007 israeliani credono di avere individuato Hassan Salamé (uno dei leader) in Norvegia. Lo colpiscono, ma poi scoprono di avere ucciso per sbaglio un cameriere di origine marocchina. In tempi più recenti, a gennaio del 2010 in un hotel di Dubai viene ucciso Mahmoud al Mabhouh, uno dei comandanti di Hamas. Le foto dei killer (agenti del Mossad) fanno il giro del mondo con i loro passaporti, su operazione della polizia locale. Infine, a giugno 2011 i siti dell'IDF, di Shin Bet e del Mossad vengono violati da un gruppo di hackers di Anonymous, che minaccia un attacco cibernetico contro Israele. Per due ore i siti non sono accessibili.

Violenti scontri a Gaza: 16 palestinesi uccisi dall'esercito israeliano. Oltre mille feriti. L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale dopo la violentissima battaglia al confine con la Striscia dove ha preso il via la 'Grande marcia del ritorno' che commemora gli scontri del marzo 1976. La mobilitazione durerà fino al 15 maggio, giorno della Nakba. Fonti diplomatiche: all'Onu riunione d'urgenza a porte chiuse del Consiglio di Sicurezza, scrive il 30 marzo 2018 "La Repubblica". Sedici morti e più di mille feriti nella Striscia, secondo il ministero della Sanità. Tra le vittime, la più giovane ha 16 anni. È il bilancio, ancora provvisorio secondo fonti mediche di Gaza, degli scontri tra palestinesi e forze della sicurezza israeliane scoppiati al confine tra il sud della Striscia e Israele, dove ha preso il via la “Grande marcia del ritorno” convocata da Hamas nell'anniversario dell'esproprio delle terre arabe per creare lo Stato di Israele nel 1948. Da fonti diplomatiche si apprende che il Consiglio di Sicurezza dell'Onu, su richiesta del Kuwait, terrà una riunione d'urgenza sui tragici eventi di Gaza. La stessa fonte, coperta da anonimato, ha precisato che la riunione avverrà a porte chiuse a partire dalle 18.30 ora locale (le 00.30 in Italia). La Grande Marcia si è aperta nella Giornata della Terra che ricorda l'esproprio da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba in Galilea, il 30 marzo 1976. Le proteste dureranno fino al 15 maggio, anniversario della fondazione di Israele, per i palestinesi "Nakba", la "catastrofe", come la chiamano, perché molti furono costretti ad abbandonare per sempre case e villaggi. 

L'esercito ha aperto il fuoco in più occasioni con colpi di artiglieria, munizioni vere e proiettili di gomma vicino alla barriera di sicurezza davanti a cui hanno manifestato 17 mila palestinesi. Dalla folla sono stati lanciati sassi e bottiglie molotov verso i militari. Di primo mattino il colpo di artiglieria di un carro armato aveva ucciso Omar Samour, un agricoltore palestinese di 27 anni che era entrato nella fascia di sicurezza istituita dalle forze armate israeliane. Testimoni hanno raccontato che si trovava su terreni vicini alla frontiera e un portavoce dell'esercito ha spiegato l'episodio parlando di "due sospetti che si sono avvicinati alla barriera di sicurezza nel sud della Striscia di Gaza e hanno cominciato a comportarsi in maniera strana", e i carri armati hanno sparato contro di loro". Successivamente è stato ucciso con un colpo allo stomaco un 25enne a est di Jabaliya, nel nord del territorio costiero e altri due (fra cui un 38enne) in punti diversi della frontiera. La maggior parte dei feriti sono stati colpiti da proiettili di gomma e gas lacrimogeni.

L'Autorità nazionale palestinese (Anp) ha chiesto l'intervento della comunità internazionale. Yusef al Mahmoud, portavoce dell'Anp a Ramallah, ha chiesto "un intervento internazionale immediato e urgente per fermare lo spargimento del sangue del nostro popolo palestinese da parte delle forze di occupazione israeliane". L'esercito israeliano ha precisato di aver preso di mira "i principali istigatori" delle proteste violente e ha ribadito che non verrà permesso a nessuno di violare la sovranità di Israele superando la barriera di sicurezza e per questo ha anche schierato un centinaio di tiratori scelti. Secondo il generale israeliano Eyal Zamir, l'esercito è intervenuto perché ha "identificato alcuni terroristi che cercano di condurre attacchi, camuffandosi da manifestanti". Zamir ha chiesto ai residenti palestinesi di stare lontano dal confine e ha accusato Hamas di essere responsabile degli scontri in corso. Le manifestazioni sono partite da sei punti dell'arido confine tra Gaza e Israele, lungo una cinquantina di chilometri: in particolare Rafah e Khan Younis nel sud, el-Bureij e Gaza City al centro, Jabalya nel nord. Il leader di Hamas,Ismail Haniyeh, ha arringato la folla assicurando che "è l'inizio del ritorno di tutti i palestinesi". Fonti dell'esercito di Tel Aviv hanno descritto gli scontri: "Fanno rotolare pneumatici incendiati e lanciano pietre verso la barriera di sicurezza, i soldati israeliani ricorrono a mezzi antisommossa e sparano in direzione dei principali responsabili e hanno imposto una zona militare chiusa attorno alla Striscia di Gaza, una zona dove ogni attività necessita di autorizzazione".

L'esercito israeliano ha detto che una ragazzina palestinese di 7 anni è stata "mandata verso Israele per superare la barriera difensiva". "Quando i soldati hanno realizzato che era una ragazzina - ha continuato l'esercito - l'hanno presa e si sono assicurati che tornasse in sicurezza dai genitori". Secondo l'esercito - citato dai media - la ragazzina è stata inviata da Hamas che "cinicamente usa le donne e i bambini, li manda verso la frontiera e mette in pericolo le loro vite". La protesta, che secondo gli organizzatori sarebbe dovuta essere pacifica, ha l'obiettivo di realizzare il "diritto al ritorno", la richiesta palestinese che i discendenti dei rifugiati privati delle case nel 1948 possano ritornare alle proprietà della loro famiglia nei territori che attualmente appartengono a Israele. Sono giorni che Israele fa intendere che avrebbe usato le maniere forti. Il ministro della Difesa, Avigdor Liberman, aveva avvertito che qualsiasi palestinese si fosse avvicinato a una barriera di sicurezza avrebbe messo a repentaglio la propria vita. Secondo i media israeliani, Liberman da stamane si trova presso il quartier generale dell'esercito per monitorare la situazione. L'esercito ha dichiarato la zona "area militare interdetta". Scontri sono in corso anche in Cisgiordania, nelle zone di Ramallah e di Hebron. Secondo il quotidiano israeliano Haaretz la mobilitazione chiamata da Hamas è anche un modo per sviare l'attenzione dal pantano politico all'interno della Striscia: dove dopo la guerra del 2014 le infrastrutture sono in rovina e la gestione delle necessità quotidiane è sempre più complicato. "Condanniamo in modo forte l'uso sproporzionato della forza da parte di Israele contro i palestinesi durante le proteste pacifiche di oggi a Gaza", ha detto il ministro degli Esteri della Turchia. "È necessario che Israele ponga fine rapidamente all'uso della forza, che innalzerebbe ulteriormente le tensioni nella regione", afferma Ankara, lanciando un invito "alla comunità internazionale a rispettare la sua responsabilità di convincere Israele ad abbandonare il suo atteggiamento ostile".

Israele spara sulla marcia palestinese: 15 morti a Gaza. Striscia di Gaza. Uomini, donne e bambini per il ritorno e il Giorno della terra: i cecchini israeliani aprono il fuoco su 20mila persone al confine. Oltre mille i feriti, scrive Michele Giorgio il 30.3.2018 su "Il Manifesto". Manifesto Il video che gira su twitter mostra un ragazzo mentre corre ad aiutare un amico con ‎in mano un vecchio pneumatico da dare alle fiamme. Ad certo punto il ragazzo, ‎avrà forse 14 anni, cade, colpito da un tiro di precisione partito dalle postazioni ‎israeliane. Poi ci diranno che è stato “solo” ferito. Una sorte ben peggiore è toccata ‎ad altri 15 palestinesi di Gaza rimasti uccisi ieri in quello che non si può che ‎definire il tiro al piccione praticato per ore dai cecchini dell’esercito israeliano. ‎Una strage. I feriti sono stati un migliaio (1.500 anche 1.800 secondo altre fonti): ‎centinaia intossicati dai gas lacrimogeni, gli altri sono stati colpiti da proiettili veri ‎o ricoperti di gomma. È stato il bilancio di vittime a Gaza più alto in una sola ‎giornata dall’offensiva israeliana “Margine Protettivo” del 2014. ‎Gli ospedali già ‎in ginocchio da mesi hanno dovuto affrontare questa nuova emergenza con pochi ‎mezzi a disposizione. Hanno dovuto lanciare un appello a donare il sangue perché ‎quello disponibile non bastava ad aiutare i tanti colpiti alle gambe, all’addome, al ‎torace. ‎«I nostri ospedali da mesi non hanno più alcuni farmaci importanti, ‎lavorano in condizioni molto precarie e oggi (ieri) stanno lavorando in una doppia ‎emergenza, quella ordinaria e quella causata dal fuoco israeliano sul confine», ci ‎diceva Aziz Kahlout, un giornalista.

Gli ordini dei comandi militari israeliani e del ministro della difesa Avigdor ‎Lieberman erano tassativi: aprire il fuoco con munizioni vere su chiunque si fosse ‎spinto fino a pochi metri dalle barriere di confine. E così è andata. Per giorni le ‎autorità di governo e i vertici delle forze armate hanno descritto la Grande Marcia ‎del Ritorno come un piano del movimento islamico Hamas per invadere le ‎comunità ebraiche e i kibbutz a ridosso della Striscia di Gaza e per occupare ‎porzioni del sud di Israele. Per questo erano stati fatti affluire intorno a Gaza ‎rinforzi di truppe, carri armati, blindati, pezzi di artiglieria e un centinaio di ‎tiratori scelti. ‎

Pur considerando il ruolo da protagonista svolto da Hamas, che sicuramente ‎ieri ha dimostrato la sua capacità di mobilitare la popolazione, la Grande Marcia ‎del Ritorno non è stata solo una idea del movimento islamista. Tutte le formazioni ‎politiche palestinesi vi hanno preso parte, laiche, di sinistra e religiose. Anche ‎Fatah, il partito del presidente dell’Anp Abu Mazen che ieri ha proclamato il lutto ‎nazionale. E in ogni caso lungo il confine sono andati 20mila di civili disarmati, ‎famiglie intere, giovani, anziani, bambini e non dei guerriglieri ben addestrati. ‎Senza dubbio alcune centinaia si sono spinti fin sotto i reticolati, vicino alle ‎torrette militari, ma erano dei civili, spesso solo dei ragazzi. Israele ha denunciato ‎lanci di pietre e di molotov, ha parlato di ‎«manifestazioni di massa volte a coprire ‎attacchi terroristici» ma l’unico attacco armato vero e proprio è stato quello – ‎ripreso anche in un video diffuso dall’esercito – di due militanti del Jihad giunti ‎sulle barriere di confine dove hanno sparato contro le postazioni israeliane prima ‎di essere uccisi da una cannonata.‎

La Grande Marcia del Ritorno sulla fascia orientale di Gaza e in Cisgiordania è ‎coincisa con il “Yom al-Ard”, il “Giorno della Terra”. Ogni 30 marzo i palestinesi ‎ricordano le sei vittime del fuoco della polizia contro i manifestanti che in Galilea ‎si opponevano all’esproprio di altre terre arabe per costruire comunità ebraiche nel ‎nord di Israele. I suoi promotori, che hanno preparato cinque campi di tende lungo ‎il confine tra Gaza e Israele – simili a quelle in cui vivono i profughi di guerra -, ‎intendono portarla avanti nelle prossime settimane, fino al 15 maggio quando ‎Israele celebrerà i suoi 70 anni e i palestinesi commemoreranno la Nakba, la ‎catastrofe della perdita della terra e dell’esilio per centinaia di migliaia di profughi. ‎Naturalmente l’obiettivo è anche quello di dire con forza che la gente di Gaza non ‎sopporta più il blocco attuato da Israele ed Egitto e vuole vivere libera. Asmaa al ‎Katari, una studentessa universitaria, ha spiegato ieri di aver partecipato alla ‎marcia e che si unirà alle prossime proteste ‎«perché la vita è difficile a Gaza e non ‎abbiamo nulla da perdere‎». Ghanem Abdelal, 50 anni, spera che la protesta ‎‎«porterà a una svolta, a un miglioramento della nostra vita a Gaza‎».‎

Per Israele invece la Marcia è solo un piano di Hamas per compiere atti di ‎terrorismo. La risposta perciò è stata durissima. Il primo a morire è stato, ieri ‎all’alba, un contadino che, andando nel suo campo, si era avvicinato troppo al ‎confine. Poi la mattanza: due-tre, poi sei-sette, 10-12 morti. A fine giornata 15. E ‎il bilancio purtroppo potrebbe salire. Alcuni dei feriti sono gravissimi.‎

Si rischia la Pasqua di rappresaglia. In Israele si rischia una Pasqua di rappresaglia, scrive Fiamma Nirenstein, Sabato 31/03/2018 su "Il Giornale". C'è confusione sui numeri ma non sul significato della «Marcia del ritorno», come l'ha chiamata Hamas. 15 morti, 1.400 feriti e 20mila dimostranti sul confine di Israele con Gaza, in una manifestazione organizzata per essere solo la prima in direzione di una mobilitazione di massa che dovrebbe avere il suo apice il 15 di maggio, giorno della Nakba palestinese, il «disastro», festa dell'indipendenza di Israele, che coinciderà anche con il passaggio dell'ambasciata americana a Gerusalemme. Un'escalation continua di eccitazione mentre cresceva l'incitamento ha visto per ben quattro volte unità di giovani armati di molotov, bombe a mano e coltelli, infiltrati dentro il confine. Un esempio limitato di quello che Hamas vorrebbe riprodurre su scala di massa, ovvero l'invasione di Israele, come nei loro discorsi ieri hanno ripetuto i leader massimi Ismail Hanyie e Yehyia Sinwar. Non a caso nei giorni della preparazione si sono svolte esercitazioni militari con lanci di razzi e incendi di finti carri armati, pretesi rapimenti e uccisioni che hanno persino fatto scattare i sistemi antimissile spedendo gli israeliani nei rifugi. Il messaggio di Hamas era chiaro: marciate, noi vi copriamo con le armi. Ma le intenzioni terroriste sono state incartate dentro lo scudo delle manifestazioni di massa e l'uso della popolazione civile, inclusi donne e bambini, è stato esaltato al massimo. Molti commentatori sottolineano che se Hamas decide di marciare, non ci sia molta scelta. E una marcia di civili risulta indiscutibile presso l'opinione pubblica occidentale, ma il messaggio sottinteso è stato spezzare il confine sovrano di Israele con la pressione della folla civile, utilizzare le strette regole di combattimento dell'esercito israeliano che mentre lo stato maggiore si arrovellava, si è trovato nel consueto dilemma delle guerre asimmetriche: tu usi soldati in divisa e il nemico soldati in abiti civili, donne, bambini, talora palesemente utilizzati come provocazione. L'esercito ha confermato che una piccola di sette anni per fortuna è stata individuata in tempo prima di venire travolta negli scontri. E in serata Israele ha bombardato con cannonate e raid aerei tre siti di Hamas a Gaza in risposta a un tentativo di attacco armato contro soldati. La protesta di Hamas - che arriva alla vigilia della festa di Pesach, la Pasqua ebraica - ha vari scopi: il primo è legato alla situazione interna di Gaza. L'uso militarista dei fondi internazionali e il blocco conseguente del progresso produttivo ha reso la vita della gente miserabile e i confini restano chiusi. È colpa della minaccia che l'ingresso da Gaza di uomini comandati da un'entità terrorista, comporta per chiunque, israeliani o egiziani. Hamas con la marcia incrementa la sua concorrenza mortale con l'Anp di Abu Mazen, cui ha cercato di uccidere pochi giorni fa il primo ministro Rami Hamdallah; minacciata di taglio di fondi urla più forte che può contro Israele, cosa su cui la folla araba, anche quella dei Paesi oggi vicini a Israele come l'Arabia Saudita e l'Egitto, la sostiene. Il titolo «Marcia del ritorno» significa che non può esserci nessun accordo sul fondamento di qualsiasi accordo di pace, ovvero sulla rinuncia all'ingresso distruttivo nello Stato ebraico dei milioni di nipoti dei profughi del '48, quando una parte dei palestinesi fu cacciata e una parte se ne andò volontariamente certa di tornare sulla punta della baionetta araba. Israele ha cercato invano di evitare che alle manifestazioni si facessero dei morti. Ma nessuno Stato sovrano accetterebbe da parte di migliaia di dimostranti guidati da un'organizzazione che si dedica solo alla sua morte una effrazione di confini. Hamas userà i nuovi shahid (povera gente) per propagandare la sua sete di morte in nome di Allah e contro Israele. Certo questo non crea in Israele maggiore fiducia verso una pace futura.

Il silenzio assordante sul massacro dei curdi, scrive Marco Rovelli il 29 marzo 2018 su Left. Fin dove arriva l’estensione dell’impunità? Fin dove ci si può spingere nel massacro e nel disprezzo del diritto? Fin dove si può farlo nella più totale indifferenza della comunità internazionale e dei media? Erdogan ci sta mostrando sul campo che questi confini sono assai estensibili. Quella porzione di Medio Oriente che dopo la dissoluzione dell’Impero ottomano prese il nome di Siria, e che adesso si è dissolta a sua volta, è il luogo ideale per riplasmare i confini di ciò che è lecito. Ed è lecito tutto ciò che si può fare, come nello stato di natura di Hobbes e Spinoza. In quello stato di natura non esiste alcuno Stato civile: l’assoluta libertà di massacro di Erdogan, allora, ci mostra che non è collassata solo la sovranità statale siriana, ma pure qualsiasi simulacro di comunità internazionale. Erdogan ha di fatto invaso la Siria, e tutto accade come nulla fosse: perché, dal punto di vista di una comunità internazionale, che non esiste in quanto comunità normata da un diritto, nulla è, in effetti. Erdogan massacra i curdi, tanto combattenti quanto civili, e, ancora, nulla è. I curdi del resto sono da cent’anni l’assoluto rimosso del Medio Oriente, vittima silenziosa delle strategie delle sovranità statali. Negli ultimi quindici anni i curdi hanno provato a mettere in discussione il principio della sovranità dello Stato-nazione, attraverso la teoria del confederalismo democratico: e così adesso, quel Leviatano si abbatte su di loro, in forma di vendetta, lacerando ancora le carni di quel popolo ribelle. Mentre il sacrificio si compie, il mondo resta ammutolito. Ma non perché sgomento dalla terribile entità di quel massacro. Piuttosto, perché nulla sa, e, se sa qualcosa, preferisce non farne parola. Così appaiono del tutto naturali le immagini di Erdogan in visita in Italia senza che nessuno dei nostri governanti abbia osato far cenno dei suoi crimini. Un’infamia inemendabile. E allora, sia gratitudine a chi è penetrato nei cancelli della fabbrica Agusta, il luogo primo della nostra complicità nel massacro in corso. È con i nostri elicotteri Agusta Westland che il massacro viene compiuto. Le pale degli elicotteri fanno un rumore tale, e le bombe sganciate, che il silenzio dei media e dei governanti si fa sempre più assordante. Fanno bene al cuore le immagini della partecipazione alle manifestazioni per Afrin, certo: ma è sempre troppo poco quel che possiamo fare, perché il silenzio del discorso pubblico ci sopravanza. Ciò, ovviamente, non ci esime dal continuare a fare. Bisogna ricordare, senza posa, a fronte dell’obsolescenza programmata del discorso pubblico, dove i morti scompaiono dalla scena più velocemente di una qualsiasi canzone pop, di qualsiasi tormentone estivo, come si getta un bene di consumo qualsiasi nell’immondizia. Ricordiamo, invece. Ricordiamoci di Alan Kurdi, quel bambino curdo finito morto riverso sulla spiaggia, che il mondo ha guardato in faccia per un istante, commuovendosi come sempre per interposta persona, per poi assistere il giorno dopo a un nuovo spettacolo che cancella quello del giorno precedente. Ricordiamolo, che migliaia di piccoli Alan Kurdi sono uccisi, o costretti a un esodo immane, dalle nostre bombe. E ricordiamo che Erdogan sta provando a uccidere la speranza più luminosa di un Medio Oriente da troppo tempo disperato, la speranza costruita giorno dopo giorno da un movimento curdo che tenta di ridare forma e contenuti e pratiche nuovi a una parola da noi usurata e consunta e abusata: democrazia. Ricordiamolo, che è perché i curdi del Rojava sperimentano una democrazia radicale, che sono massacrati.

Siria: l’attacco chimico, tragico pretesto, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Un altro attacco chimico in Siria scatena la reazione internazionale. “Ora l’America di Trump dovrà colpire. Dovrà rispondere alle immagini spaventose che giungono dalla Siria”, scrive Franco Venturini sul Corriere della Sera di oggi. Si potrebbe concordare. Ma difficilmente Washington bombarderà Ryad, che sostiene i jihadisti di Jaysh al-Islam, l’organizzazione jihadista che ha lanciato l’attacco. Perché, con ritornello ripetitivo quanto stantio, i politici e i media dell’Occidente accusano Damasco e Putin. E si preparano a colpire la Siria.

Un attacco chimico annunciato. Solo che stavolta Mosca non starà a guardare. Ha allertato le difese schierate in Siria, e sono tante. Sarà la terza guerra mondiale? Washington dovrebbe riflettere prima di compiere passi fatali. L’escalation è una possibilità, anche se ad oggi remota. Sull’attacco chimico è inutile spiegare che Assad non ha alcun interesse a usare i gas contro i suoi nemici, anzi, sui quali sta avendo la meglio usando armi convenzionali. Per un beffardo incrocio di destini, proprio oggi sembra si sia chiuso l’accordo con gli assassini di Jaish al islam che controllano Douma, il quartiere nel quale sono stati sganciati i gas. Dovrebbero andarsene altrove, liberando l’area dalla loro nefasta occupazione. Ma al di là, degli sviluppi, resta che non interessa a nessuno accertare i fatti. La responsabilità di Assad è dogma inderogabile. Come furono le armi di distruzione di massa di Saddam. E anche se gli interventisti palesano qualche dubbio, restano fermi nell’asserire che Assad va colpito. Come fa Venturini con quel cenno col quale abbiamo iniziato questa nota. Nel proseguo dell’articolo, infatti, ammette che la responsabilità del governo siriano è dubbia…A fine marzo avevamo riportato che “i ribelli siriani che combattono nel Ghouta avrebbero simulato un attacco chimico contro i civili come pretesto per un attacco americano”. Una constatazione non nostra, ma del sito Debkafile, collegato ai più che informati servizi segreti israeliani, che pure non hanno in grande simpatia Assad, anzi. E da giorni media russi e iraniani avevano allertato su un attacco chimico imminente ad opera dei cosiddetti ribelli per incolpare i siriani. Sempre Debkafile, oggi riporta: “Alcune fonti a Washington sospettano che alcuni gruppi dell’opposizione siriana stiano innescando l’escalation nella speranza di provocare un’azione militare USA in Siria, ribaltando l’intenzione annunciata dal presidente Trump di riportare a casa le truppe statunitensi”.

Trump e il ritiro dalla Siria. Trump, obnubilato dai fumi dell’incendio che ieri è divampato alla Trump Tower, (funesto presagio), si è scagliato lancia in resta per un’azione militare. La sua idea di ritirare le truppe dalla Siria sembra dunque appartenere al passato. Oggi le difese siriane danno notizia di aver abbattuto alcuni missili Tomahawk lanciati contro una loro base aerea, un attacco che Mosca attribuisce a Israele. Gli autori della strage di Douma sembrano dunque aver conseguito i risultati sperati. Resta la perplessità per un complesso mediatico unidirezionale, come riscontrato durante la guerra in Iraq e quella in Libia. L’Unione sovietica aveva la Pravda, parola russa che significa verità. Ai media occidentali è consentita certa libertà su temi secondari, ma, quando il sistema si compatta su una decisione che riguarda il suo stesso destino, hanno anche loro una Pravda alla quale attenersi, pena l’esclusione dal sistema stesso. Una Pravda più sofisticata, certo, ma non meno perniciosa. Pericolosa deriva. Totalitaria.

Attacco chimico a Douma: se gli jihadisti scagionano Assad, scrive il 9 aprile 2018 Piccole note su “Il Giornale". Strano strano: l’Osservatorio siriano per i diritti umani, totalmente consegnato alla causa del regime-change in Siria, quindi non certo uno strumento in mano ad Assad, non dà alcuna notizie dell’asserito attacco chimico che sarebbe avvenuto a Douma, presso Ghouta orientale. Attacco che l’Occidente attribuisce ad Assad. L’Osservatorio è dedito alla propaganda contro il governo siriano. I suoi oppositori lo accusano di Inventarsi o distorcere notizie alla bisogna; un po’ come quando si narrava che i comunisti mangiavano i bambini. Allo scopo si avvale di fonti sul campo, fonti jihadiste, ovvio, e terroriste. Ha quindi un rapporto diretto con gli attori presenti nel teatro di guerra. Nel caso specifico, la banda Jaysh al-Islam, finanziata e armata dall’Arabia Saudita, che controllava Douma.

Il resoconto dell’Osservatorio siriano dei diritti umani. Bene, l’Osservatorio dedica alle interna corporis di Douma tantissimi articoli, di cui cinque solo oggi (almeno fino al momento in cui abbiamo realizzato questa piccola nota), dettagliando cosa è successo nel quartiere assediato di Damasco. Note in cui si narra che ci sono stati pesanti bombardamenti da parte delle forze russo-siriane, e che in seguito a queste la popolazione civile si è ribellata agli jihadisti e gli ha chiesto di accettare l’accordo proposto dai loro nemici e di abbandonare il quartiere. Hanno persino manifestato sotto la casa del capo della milizia, per fargli capire che doveva sloggiare. Magnanimamente, i jihadisti alla fine hanno accettato, spiegando in un comunicato che lo facevano per il bene della popolazione civile. E ora pare che stiano andando via, sotto la “pressione popolare”, imbarcati su 26 autobus messi a disposizione da Damasco. Saranno destinati ad un’altra zona della Siria controllata da altri jihadisti. Bene, in nessuno di questi articoli si parla di gas tossico, attacco chimico o quanto altro. Solo in un articolo del 7 aprile si accenna a “11 persone, tra cui almeno 5 bambini, soffocate, dopo il bombardamento di un aereo da guerra”. Al di là della veridicità o meno della notizia (l’Osservatorio non è molto attendibile, per usare un eufemismo), resta che non parla di gas, ma di generici sintomi di soffocamento di 11 persone. Va da sé che se si lancia un attacco chimico i sintomi sono ben più gravi e le persone colpite risulterebbero in numero ben maggiore. Inoltre, di solito, le notizie riguardanti gli asseriti attacchi chimici del passato erano corredate con foto raccapriccianti. In questo caso di foto ne sono circolate pochine e tutte molto più che generiche: potrebbero essere state scattate ovunque. Quella che circola di più l’abbiamo messa in esergo al nostro articolo e inquadra un bambino con un respiratore, mentre la sua compagnetta non ha nulla, se non legittima paura. Foto che non provano nulla insomma, se non l’innocenza violata dei bambini in questa sporca guerra. Una sporca guerra che si alimenta di menzogne. I siti russi rilanciano le dichiarazioni della Croce rossa siriana, che dice di non aver trovato tracce di gas a Douma. E in realtà, non si capisce perché i jihadisti incistati nel quartiere non hanno denunciato quell’attacco nel comunicato rivolto ai cittadini di Douma che l’Osservatorio siriano per i diritti umani riporta tutto nel dettaglio: non una riga sull’asserito attacco chimico. Perché tacere? Si poteva ben denunciare che a seguito dell’attacco chimico avevano deciso di andar via… Si noti che questo articolo, e soprattutto il comunicato degli jihadisti, è successivo all’attacco in cui L’Osservatorio denuncia i presunti sintomi di soffocamento. Non una riga su gas e attacchi chimici. Nemmeno una… Vuoi vedere che si sono inventati tutto?

Ps. Ovvio che da oggi tutto può cambiare e magari anche sul sito dell’Osservatorio scorreranno fiumi di inchiostro su gas e quanto altro. Ma il dato rilevato resta. E conferma quanto scritto stamane: la storia dell’attacco chimico è una messinscena costruita ad arte per attaccare Assad.

Armi chimiche ad orologeria, scrive Sebastiano Caputo il 9 aprile 2018 su “Il Giornale”. Presunte armi chimiche, ancora. Il governo siriano è sotto inchiesta dal potere mediatico internazionale per aver colpito la città di Duma, dove è in corso una battaglia contro Jaish al Islam, con gas tossici. In poche ore i video dal campo diffusi sono diventati virali e senza alcuna verifica tutti i mezzi d’informazione occidentale gli hanno rilanciati sui loro siti web e ritrattati in forma cartacea sulle prime pagine. E’ evidente però che siamo di fronte ad un’evidente operazione di “spin” giornalistico, vale a dire di una notizia che è stata fabbricata, confezionata o per lo meno riadattata, per poi essere gettata in mondovisione in un contesto geopolitico, militare e diplomatico molto preciso. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni e quando vengono organizzate queste campagne mediatiche così corali non è mai per caso per cui occorre inserirle in un quadro molto più ampio altrimenti diventa solo becera e lacrimevole propaganda. Per capire quanto siano davvero autorevoli tali accuse è necessario analizzare le fonti della notizia, poi la campagna mediatica che ne è seguita, e infine tracciare le conseguenze dirette. Il presunto uso di armi chimiche è stato diffuso da due organi. Prima dai canali informativi legati a Jaish al Islam, poi dai White Helmets, un’organizzazione che è stata più volte denunciata per connivenza con i gruppi terroristici in Siria e di fornire un racconto parziale e mai obiettivo del conflitto. Eppure nonostante questa mancanza di obiettività i media occidentali hanno riportato ciecamente la notizia facendosi portavoce di una fazione creata coi soldi sauditi nel settembre 2013 per intercessione della famiglia Allouche – che oggi vive comodamente a Londra facendo fare il lavoro sporco allo sceicco Isaam Buwaydani, detto “Abu Hamam”, succeduto a Zahrane Allouche ucciso da un raid siriano – e che per anni ha comandato Duma con metodi mafiosi, imponendo la propria legge ai commercianti della Ghouta e giustiziando pubblicamente, senza esitare, chi ne ha contestato il potere (per credere è sufficiente ascoltare le testimonianze dei civili fuggiti dai corridoi umanitari aperti dalla Mezzaluna Rossa in collaborazione con l’Esercito Arabo Siriano). La campagna mediatica che ha seguito questi fatti è stata perfettamente sincronizzata in un lasso di tempo cortissimo. Tutti i giornali e i telegiornali hanno aperto con le stesse fotografie, gli stessi titoli, gli stessi slogan, e così anche gli intellettuali, uno fra tutti Roberto Saviano, che sulla scia di quel monologo fazioso di qualche settimana fa su Rai 1 che avevo commentato con un video, si è accodato a questa narrativa a senso unico inventandosi persino un gesto virale – la mano che tappa bocca e naso – per denunciare, senza prove, il governo siriano. Questa traiettoria informativa con l’intento di trascinare emotivamente l’opinione pubblica, si iscrive come detto sopra in un contesto geopolitico molto preciso. Siamo di fronte ad una vittoria militare di Bashar Al Assad e dei suoi alleati russi, iraniani, e libanesi, allora a rigor di logica è quanto mai legittimo domandarsi che interessi avrebbe il presidente siriano, sapendo di avere gli occhi puntati della comunità internazionale e dei media, per lo più in una posizione di forza, di utilizzare le armi chimiche nella battaglia di Duma? Sarebbe un errore da principiante e Assad un principiante non lo è affatto per come ha condotto la guerra mediatica e militare. La verità è che questa campagna arriva una settimana dopo le dichiarazioni di Donald Trump sul ritiro delle truppe dal nord della Siria (circa 2mila soldati), mentre all’interno della sua amministrazione c’è una componente legata al complesso militare-industriale che vuole continuare a seguire un’agenda alternativa a quella della Casa Bianca, con degli obiettivi molto chiari: difendere i pozzi petroliferi, coordinare i curdi sempre più propensi ad un riavvicinamento con il governo di Damasco e controllare zone altamente strategiche nella parte settentrionale del Paese. Per ultimo e non meno importante, è da ricordare che pochi giorni fa Erdogan, Rohani e Putin si sono riuniti per dare seguito ai colloqui di pace, perseguendo il processo di Astana, dove gli americani non sono invitati a prendere parte, ed è evidente che tutto questo servirà a spostare l’attenzione diplomatica sulle Nazioni Unite dove gli Stati Uniti, insieme a Francia e Inghilterra, la fanno da padroni.

ALL’1% GLI UTILI IDIOTI DELL’UCCIDENTE. La Siria di Ghouta e la Ghouta di Amnesty, Palmira e Babilonia, i nazifascisti in agguato, il gender e i migranti: quando i “sinistri” condividono distruzioni e distrazioni di massa, scrive Fulvio Grimaldi sul suo blogspot, riportato da Davide il 10 marzo 2018 su ComeDonChisciotte.  

Quelli “del popolo”. Quelli che risultano più nauseabondi sono sempre gli ipocriti. A partire dal “manifesto” e da tutta la combriccola pseudosinistra dell’imperialismo di complemento, che volteggia nel vuoto dell’interesse e del consenso di un elettorato italiano che, per quanto disinformato o male informato sulle cose del mondo, ha dimostrato di badare più alla sostanza che alle formulette di palingenesi sociale incise sulle lapidi della sinistra che fu. E la sostanza ci dice che mettere tutti sullo stesso piano, 5Stelle e ologrammi nazifascisti, Putin e Trump, opposti imperialismi, migranti in fuga da bombe Nato e migranti attivati dalle Ong di Soros, jihadisti a Ghouta Est e truppe governative, a dispetto dell’immane e unanimistica potenza di fuoco mediatica, poi produce al massimo l’1 virgola qualcosina per cento. Brave persone, certo (esclusi i paraculi fessi dei GuE), ma fuori dal mondo, da chi è il nemico e da come si muove l’1% finanzcapitalista e tecno-bio-fascista nell’era del mondialismo e dell’high-tech. E, permettetemi una risatina, neanche bravi, ma di un narcisismo solipsista che rivela tratti patologici per quanto è dissociato dal reale, quelli della Lista del Popolo (Chiesa, Ingroia, bislacchi e farlocconi vari), trionfalmente giunti allo 0,02%. Ma si può!

Di Maio tra omaggi a San Gennaro e Mattarella e rifiuto degli F35. Sebbene questo unanimismo di fondo in fatto di geopolitica tra gli ambiguoni o catafratti della sinistra ausiliaria del sistema e del sistema i militanti in divisa, possa aver confuso le idee a molti sulla partita che si gioca in Medioriente, o nei trasferimenti via Ong di popolazioni, o a proposito dello “Zar Putin” e dei suoi maneggi per non far vincere Hillary, basta a volte una piccola crepa e la luce passa e illumina quanto si voleva restasse al buio. Possiamo dire tutto e il contrario di tutto su Di Maio, ma credo che siano davvero pochini gli italiani che condividono l’idea che spendere 80 milioni al giorno per muovere guerre a chi non si sogna di disturbarci e che quindi non abbiano apprezzato il voto 5 Stelle contro ogni missione militare e contro l’acquisto degli F35. Questo al netto delle promesse di “normalizzazione” profferite ora a tutto spiano dal leader 5Stelle e che lo fanno apparire come il pifferaio di Hamelin le cui liete marcette si trascinano dietro tutti i ratti della prima e seconda repubblica. Pensano di salire sul carro del vincitore, ma nella storia il pifferaio i ratti li porta a precipitare nell’abisso. Di Maio se lo ricorda?   Non vorremmo che si finisse come la fiaba: che poi quelli trascinati via sono i bambini.

La Siria si riprende anche Ghouta: pacifisti e diritto umanisti a stracciarsi le vesti. Prendiamo la Siria, insieme a tutte le altre guerre, una dopo l’altra, che con ripetitività parossistica ci vendono come difesa dei diritti umani di un popolo massacrato dal proprio governante. Ci hanno seppellito in un bunker di menzogne: i tondini li forniscono le Ong tipo Amnesty International, HRW, MSF, la malta che li tiene insieme sono i media. Date un’occhiata a questo osceno appello di Amnesty perché si costringa Damasco a levare l’assedio alla Ghouta. Ancora una volta questo sempre più lurido arnese del bellicismo imperiale si fa riconoscere. Non una parola sul golem terrorista che da 7 anni sbrana la Siria e tiene ostaggi, ogni tanto massacrandoli, gli abitanti delle zone occupate. Mille parole perfide e lacrimose su Aleppo in corso di liberazione, non una parola su Raqqa polverizzata dai bombardamenti Usa, con tutti i suoi abitanti, mentre elicotteri prelevavano quelli dell’Isis per reimpiegarli, insieme agli ascari curdi, in altri crimini contro il popolo siriano.

Bimbi a Damasco. Ma poi nel calcestruzzo si apre una crepa. Ed è la pigrizia degli stereotipi. C’è sempre un dittatore che bombarda il proprio popolo, una massa sterminata di bambini uccisi, come se, per esempio, Ghouta, fosse tutta una scuola materna, ci sono sempre gli Elmetti Bianchi e i Medici senza Frontiere, grazie ai soldi di Soros, che stanno inevitabilmente dalla parte dei “ribelli” e che poi vengono esaltati e premiati dagli strumenti di comunicazione di coloro che le guerre le promuovono. Non mancano mai le “armi chimiche di Assad”, linea rossa che poi regolarmente sfuma, cancellata da prove e testimonianze (grazie russi!), come sono insostituibili i sanguinari jihadisti di Al Qaida e Isis contro cui gli imperiali dicono di combattere, ma dopo averli addestrati, armati e poi salvati dalle offensive dell’esercito siriano e suoi alleati. Qualcuno rovistando nel web si accorge, a dispetto della furia anti-fake news della Boldrini, che l’attacco siriano alla provincia di Ghouta avviene dopo sei anni che da lì i terroristi hanno ininterrottamente bombardato con razzi e mortai i 7 milioni di civili della capitale Damasco; che le centinaia di vittime dell’offensiva governativa su Ghouta, “soprattutto bambini”, sono il dato inventato dall’Osservatorio che i servizi britannici e i jihadisti gestiscono a Londra; che, se il governo spedisce colonne di autobus a evacuare la gente di Ghouta, o la Croce Rossa siriana prova a creare corridoi umanitari per rifornire di cibo e medicinali, a bombardare queste colonne e questi corridoi, voluti dal governo, saranno difficilmente gli stessi governativi. Nel documentario “Armageddon sulla via di Damasco” ho illustrato alcuni effetti del martellamento su Damasco, fino a 90 missili in una settimana. Dal mercato Al Hamidiyya, il più antico e bello del Medioriente, colpito nel momento di maggiore affollamento, alla stazione di autobus disintegrata nell’ora di punta, con schizzi di sangue e parti di corpo spiaccicati fin sul cavalcavia alto 20 metri. Immagini mie e di canali siriani che nessuno in Occidente ha mai ripreso. E’ successo mille volte, come centinaia sono state le incursioni aeree dei pirati israeliani. Avete sentito qualche sussurro di disapprovazione da Amnesty e compari?

Il “manifesto”: tutti uguali ma uno più uguale. Così, un po’ per volta, si aprono crepe, delle quali la più grossa è il dubbio che il “manifesto” e affini, quelli che si precipitano a fornire palchi e ghirlande ad Amnesty, non te la raccontino giusta quando mettono sullo stesso piano chi spara da Ghouta e chi avanza da Damasco e, anzi, trovano che i più cattivi siano coloro che “assediano” il sobborgo della capitale per eliminare uno degli ultimi bubboni tumorali incistati nel proprio territorio dai gangster imperialsionisti e mica quelli, sicari e mandanti, che vogliono mantenere, ai costi più inenarrabili, un presidio che tenga sotto tiro Damasco e impedisca la pacificazione e la vittoria dei giusti. Che sono poi anche le forze popolari siriane precipitatesi in soccorso ai curdi sotto attacco turco ad Afrin, a dispetto delle pugnalate alle spalle che questo mercenariato di Usa, Israele e sauditi, ha inflitto a chi ne aveva accolto, con tanto di cittadinanza, le centinaia di migliaia di fuggitivi dalle persecuzioni di Ankara.

Quando parla il popolo, non gli gnomi da giardino, il re buonista resta nudo. Le ambiguità e distorsioni dei media, a qualsiasi obbedienza politica pretendano di rifarsi, hanno iniziato a frantumarsi contro il muro della realtà. Elezioni politiche che mozzano gli arti alla principale forza di dominio e relegano nell’irrilevanza chi gli opponeva formule di rito anni ‘50, del tutto avulse da quanto una chiara percezione dello stato di cose reale richiederebbe, dimostrano che il re è nudo e nudi sono anche principi, duchi, baroni, paggi, nani e ballerine. La menzogna ha esaurito la sua capacità mistificatrice. Da fuffa e nebbia, demagogia presidenziale e pontificale, sono scaturiti irresistibili gli abusi inflitti dai dominanti ai dominati sul piano sociale, economico, ambientale, di lavoro, scuola, salute. Ma forse anche i crimini dei quali ci hanno voluto partecipi, anche a spese nostre, compiuti contro altri popoli. Non sarà un caso che gli unici vincitori di questa contesa elettorale siano coloro che a spese e avventure guerresche, come alle sanzioni che a queste si accompagnano, si sono sempre opposti. E se questa barra la manterranno dritta, sarà già molto.

Al potere via decostruzione e migrazione. Che sono poi anche quelli che, in un modo o nell’altro, quale corretto ed equo, quale rozzo e falsamente motivato, hanno messo in dubbio la sacralità dei facilitatori delle migrazioni “per fame, guerra, persecuzioni”. Il che ci porta a un’altra considerazione. Invasori e terrorismo jihadista ha posto particolare accanimento nella distruzione delle vestigia storiche delle nazioni che sono stati mandati ad assaltare. Ong, umanitaristi, sinistre, Don Ciotti e missionari nelle colonie, Soros, briciole sinistre, sostengono l’accoglienza dei rifugiati senza se e senza ma. Ci sono punti di contatto, affinità di obiettivi, tra queste forze e le campagne che condividono? Non penso al semplicistico discorso che individua causa ed effetto nelle bombe e nelle conseguenti fughe. Lo stereotipo del “fuggono da guerre, fame e persecuzioni”. Penso a una manovra a tenaglia che cancella corpi e spirito di comunità formatesi nel sangue, nei progetti, nelle sconfitte e nelle rinascite, nella lingua e nei costumi, su una comune terra, in rapporto con lo stesso ambiente ed è così che ha acquisito conoscenza e coscienza di sé, identità, autostima, volontà di perpetuarsi e crescere. Un fiore nell’infinita ricchezza della varietà dei fiori. Prima di manipolazioni e ibridazioni. Se, io élite di infima minoranza, perseguo un progetto di dominio mondiale assoluto che solo a me e ai miei subalterni obbedienti convenga, delle forze così formatesi e così composte, altrettante negazioni al mio disegno, devo liberarmi. E’ conditio sine qua non per l’affermazione del progetto mondialista. La mia operazione a tenaglia consiste, primo, nel cancellarne i segni della storia, delle opere compiute, le fondamenta dell’edificio che una comunità, un popolo, una nazione, devono avere sempre in corso d’opera se intendono avere un futuro. Del resto, senza queste tessere del mosaico, l’umanità si estingue. L’élite regnerà sul deserto o su un altro pianeta. E, secondo, nello sradicarli, spostare quelli che non ho decimato con guerre militari o economiche, tagliare radici, staccare il fogliame dal tronco, disperderlo, alienarlo da se stesso, confondendolo in quello che chiamano “meticciato”. Erano le mie ultime ore nella Baghdad che ho illustrato in “IRAQ: un deserto chiamato pace”, aprile 2003. I carri Usa, penetrati in città avevano sparato i primi colpi contro l’Hotel Palestine, dove stavamo noi giornalisti che non avevamo seguito l’ordine di Bush di far parlare solo gli embedded al seguito degli invasori. Morirono un mio amico di Al Jazeera e un reporter spagnolo. Uscendo dalla città in taxi passai accanto al Museo Nazionale: Protetta da reparti angloamericani, manovalanza importata dal Kuweit stava già saccheggiando la più ricca testimonianza della storia araba e irachena, dai sumeri agli Abbassidi, anche a beneficio dei predatori dei caveau occidentali. Subito dopo avrebbero disperso e bruciato i testi, resi sacri dal tempo e dall’amore dei loro lettori, della Biblioteca Nazionale, dalle tavolette cuneiformi della prima scrittura, alla magnificenza letteraria delle Mille e una notte e ai traduttori arabi di Aristotele. Intanto i carri americani si preparavano a travolgere sotto i propri cingoli Babilonia, Ur, Niniveh, Samarra, Nimrud, Ctesifonte, Hatra. Quattromila anni di creatività umana, di civiltà, di culla della civiltà. Meticolosamente, sistematicamente polverizzati o predati. E poi stessa procedura in Siria, Aleppo, Palmira, Libia, Gaza, ovunque la pianta umana fosse più antica, robusta, rigogliosa, degli stenti arbusti, delle misere gramigne di chi a una cultura annegata nel sangue ha sostituito centri commerciali, tecnologie decerebranti e arsenali atomici.

Mosul. In parallelo i migranti, pezzi interi di popoli, 6 milioni di siriani spodestati, un milione a disposizione dei minijob di Angela Merkel. E, logicamente, afghani, iracheni, libici, pachistani e, soprattutto africani: basta seccare con una megadiga Impregilo un fiume come l’Omo in Etiopia e 60mila perdono l’acqua, i coltivi, la sussistenza, diventano foglie secche al vento che qualche Ong seduce a farsi schiavi “meticciati” in un bengodi di sfruttati europei. Come si vede in ogni sequenza che ci induce a impietosirci e a condividere “l’accoglienza”, sono in stragrande maggioranza giovani con i tempi e le forze capaci di futuro. Un futuro abbandonato alle multinazionali a casa propria, ma per il quale fornire braccia e saperi In Occidente. Sono giovani, in grado di affrontare i pericoli della filiera del traffico di carne umana, ma non procreeranno più per la continuità di una comunità arrivata fin ad oggi a dispetto di prove di ogni genere, procreeranno per il “meticciato”. A compensare ciò che da noi, nell’esaltazione dei generi e transgeneri della sterilità, non nasce più. E se crediamo che da tutto ciò noi siamo esenti, proviamo a gettare uno sguardo fuori dalla finestra, tra un asilo nido che non c’è e una famiglia che il precariato di sistema rinserra in sogni frustrati. Diamo un’occhiata ai territori terremotati, banco di prova e cartina di tornasole di un altro fronte della stessa guerra. Credete che, a quasi due anni dal sisma con migliaia ancora nei campeggi al mare, in alloggi di fortuna lontani, con attività produttive sparite per sempre, con la ricostruzione neanche di una stalla, si tratti solo di inefficienza, ritardi, risse per appalti? Ho girato per quelle terre palmo a palmo (“O la Troika o la vita – Non si uccidono così anche le nazioni”). Paesi con le radici nell’impero romano e le chiese del Medioevo, dove hanno lasciato segni Arnolfo da Cambio, Mantegna, Leopardi, Piero della Francesca: tesori inenarrabili. I terremotati li vogliono scoraggiati, esportati, migranti anche loro, i territori privati di una economia nativa, sorta dal genius loci, anacronisticamente non sovranazionale, ma legata ai bisogni locali, ai biotopi naturali e umani. Spopolare per nuove destinazioni d’uso. Sovranazionali. Come quando sradicano con gli ulivi l’anima della Puglia, per far posto a gasdotti e resort di Briatore. Rifugiati nostrani di cui nessuno tiene conto e né Soros, né alcuna Ong dei diritti umani reclamano un’accoglienza senza se e senza ma. Tutto questo Pippo non lo sa. Tutto questo quelli dell’1% “rosso”, PaP (Potere al Popolo), i PC (le scissioni dell’atomo), o LuE (i neoliberisti, NATOisti, Bruxellisti, insofferenti di Renzi), non lo sanno. Sepolti nell’altroieri, del progetto capitalista e della relativa strategia non studiano e non vedono neanche la più abbagliante evidenza. Nanetti da giardino occupati a strappare erbacce, mentre fuori cresce una giungla di piante carnivore. E non si accorgono che, ignorando quella strategia, ogni lotta contro il precariato di vite e lavoro è già persa, mentre sono del tutto compatibili quelle contro le molestie, per i matrimoni e le adozioni gay, per ogni più fantasiosa invenzione di genere come fieramente esibite in quelle manifestazioni d buongusto e di cultura popolare che sono i Gay Pride, contro la minaccia dell’Onda Nera nazifascista. Minaccia eroicamente combattuta, da Macerata a Milano a Roma a Palermo, con l’illusione di ricavarne dividendi boldriniani e poi spassosamente risultata pulviscolo littorio allo 0,9%, Casa Pound, e allo 0,37% Forza Nuova. Tocca scioglierli per salvarci dall’orrore di nuovi Farinacci e Himmler, era l’invocazione tonitruante della Boldrini, grande specialista di armi di distrazione di massa. Intanto, però, il mondo reale scioglieva lei e i suoi scioglitori. E senza neanche un sorso di olio di ricino. Ma più compatibile, anzi, più gradita di tutte, è la campagna per l’accoglienza dei migranti. Roba di sinistra, ca va sans dire.

I non detti di Ghouta, scrive Sebastiano Caputo il 22 febbraio 2018 su "Il Giornale". Tutto ciò che accade in queste ore nella periferia di Damasco, di preciso a Ghouta, è filtrato da una sconcertante quanto irresponsabile narrativa. In Siria c’è la guerra da oltre sette anni eppure i grandi e autorevoli mezzi d’informazione sembrano accorgersene solo ora perché gli ingredienti per la mistificazione della realtà non mancano affatto. La meccanica comunicativa è più o meno sempre la stessa: una produzione di notizie scollegate fra loro e confezionate dentro un frame, cioè la cornice giornalistica da cui è impossibile sfuggire, in questo caso “la mattanza di Ghouta perpetuata dall’aviazione del governo siriano”. Seguono immagini scioccanti – in larga parte riportate dai “White Helmets”, il braccio umanitario e mediatico dei gruppi terroristici- che mostrano le tragiche conseguenze “dell’offensiva”, intere abitazioni rase al suolo, cadaveri sulla strada, donne in lacrime, ambulanze, soccorritori in cerca di cadaveri tra le macerie. Le riprese sono di qualità, il logo con l’elmetto bianco appare di continuo, le fotografie vengono scattate con cura. Nell’album emerge un’istantanea che diventa il simbolo di un assedio: una bambina col pigiama rosa – la scelta del pigiama non è casuale e richiama di riflesso i campi di concentramento nazista – che viene tratta in salva da casa sua. Esattamente come ad Aleppo, quando il piccolo Omran Daqneesh fu immortalato coperto di sangue e polvere nell’ambulanza, peccato che poco tempo dopo il padre svelò la tecnica dei White Helmets i quali presero il bambino ancora sporco e scosso dai bombardamenti e lo gettarono in mondovisione sul loro profilo Twitter certi che le agenzie occidentali lo avrebbero alzato come trofeo. Alla sequenza di immagini trasmesse a ripetizione – peraltro sempre le stesse – seguono i dati. A contare i morti ci pensa il generatore di notizie diretto da un solo uomo che vive in Inghilterra: l’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani. Ad accodarsi a questo macabro spettacolo del dolore sono le organizzazioni non governative occidentali – Unicef, Save The Children, Médecins Sans Frontières – che mentre mettono in primo piano i cadaveri putrefatti di donne e bambini raccolgono donazioni – tramite squallidi banner pubblicitari – dai lettori distratti e travolti da un flusso ininterrotto di lacrime.  Nessuno vuole negare le conseguenze immonde della guerra, il problema, ancora una volta, sono i non detti dell’offensiva di Ghouta.  Chi vive nel sobborgo di Damasco? Chi sono questi ribelli (che se ci fate caso non vengono più nemmeno definiti “moderati”)? Come agiscono? E come fa un’enclave, senza sbocchi autostradali, a fornirsi di armi e munizioni? Questo spazio geografico si è ritagliato nella contorta mappa militare nel lontano 2012 e si colloca sul lato nord-orientale, alle porte della capitale. Quasi 400mila civili sono tenuti praticamente in ostaggio da tre fazioni jihadiste legate a doppio filo con Al Qaeda - Faylaq al Rahman, Tahrir al Sham e Jaysh al Islam – che da anni attaccano i quartieri centrali di Damasco – non lontani dal Suk – a colpi di mortai. L’offensiva dell’esercito siriano è stata rafforzata per rispondere agli attacchi contro i damasceni che si sono intensificati proprio in questi giorni. Molti di loro hanno perso la vita ma se ne parla poco perché la narrativa occidentale è monodirezionale e classifica i civili siriani in due categorie: alcuni sono più vittime di altri. Ghouta è anche quel luogo in cui vengono fabbricate e utilizzate armi chimiche come dimostrò l’attacco del 21 giugno del 2013 in cui inizialmente furono lanciate accuse contro il governo di Bashar al Assad, poi smentite dal premio Pulitzer Seymour Hersh e rispedite al mittente fornendo le prove che invece incolparono proprio quei ribelli “angelizzati” dalla stampa occidentale, i quali le utilizzarono per trascinare l’amministrazione Obama in guerra. Ecco, fin quando i grandi esperti con i loro look confortevoli o i commentatori isterici non vi risponderanno a queste domande precise vorrà dire che sono alimentatori inconsapevoli di questa grande macchina della disinformazione, o furbetti che coprono per chissà quali interessi veri e propri gruppi terroristici complici dei peggior crimini che loro stessi denunciano. 

Erdogan tuona sui civili di Ghouta, ma quelli di Afrin sono “terroristi”, scrive il 27 febbraio 2018 Lorenzo Vita su "Gli Occhi della Guerra" su "Il Giornale". In questa guerra di Siria tutto assume connotati incredibili, anche Erdogan che si erge a paladino del diritto internazionale e umanitario. Parlando della tragedia umanitaria della Ghouta orientale, il portavoce del presidente turco ha scritto che “il regime sta commettendo massacri” e che “il mondo dovrebbe dire stop a questo massacro insieme”. Il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, venerdì scorso ha invitato la Russia e l’Iran, alleati della Siria di Assad, a “fermare” le bombe su Ghouta Est, parlando del bombardamento del sobborgo damasceno come qualcosa che passerà alla storia come la “Srebrenica siriana”. Il presidente turco ha deciso di sposare, in questi giorni, una linea fortemente negativa nei confronti dell’avanzata di Damasco nel sobborgo della Ghouta orientale. Rompendo quasi definitivamente il patto di Astana con Putin e Rohani, Erdogan ha deciso di intraprendere una campagna assolutamente contraria al governo facendo tornare indietro le lancette dell’orologio ai tempi delle prime rivolte contro Assad, quando Ankara sosteneva il rovesciamento del leader siriano e le milizie che si ergevano in tutta la Siria. E ovviamente sfrutta la questione della Ghouta orientale per colpire il governo siriano e imporre la propria linea nello scacchiere settentrionale siriano. Erdogan è così: chi lo tutela ha la sua collaborazione e chi non lo tutela diventa nemico. E sono sempre i curdi dell’Ypg l’ago della bilancia. Quando gli Stati Uniti hanno deciso di sostenere le milizie del Rojava e del nord dell Siria, il presidente turco ha abbandonato nella sostanza l’alleanza con Washington schierandosi con Mosca e sostenendo il piano delle de-escalation zones con l’Iran e la Russia. Adesso che ha intrapreso l’operazione “Ramoscello d’ulivo” e ha scatenato le forze armate contro i curdi di Siria, ottenendo il confronto diretto con la Siria, eccolo di nuovo andare contro il governo di Damasco e provare a riallacciare i rapporti con gli Usa. Nel frattempo, ha intrapreso contro i curdi una campagna militare cruenta, che sta tenendo sotto scacco intere città e dove ci sono già le prime accuse di uso di gas contro i villaggi. Soltanto che, secondo Ankara, c’è una differenza. Mentre per Erdogan la risoluzione Onu sulla tregua è giusta per fermare il massacro della Ghouta orientale, la stessa cosa non vale per Afrin, Manbij. La Turchia ha accolto positivamente l’approvazione della tregua umanitaria in Siria, ma ha subito messo le mani avanti, dicendo che questo non avrà alcuna conseguenza su Afrin e l’offensiva di terra nel nord della Siria perché “resterà risoluta nella battaglia contro le organizzazioni terroristiche che minacciano l’integrità territoriale e l’unità politica della Siria”. Non c’è discussione sul fatto che questa decisione” del Consiglio di Sicurezza dell’Onu “non abbia alcun effetto sulla operazione che la Turchia sta portando avanti”, ha confermato il vice premier turco, Bekir Bozdag, mentre Erdogan ha sottolineato che l’offensiva “continuerà fino a che l’ultimo terrorista sarà distrutto”. “Sembra che sarà una estate dura e calda per i terroristi e per i loro sostenitori. Prima ripuliremo Manbij, poi tutta l’area a ovest dell’Eufrate”, così si è espresso Erdogan. Parole non troppo dissimili da quelle rivolte dal blocco a sostegno di Assad nei riguardi dell’offensiva contro Ghouta Est e altre sacche. Eppure, se per Erdogan questi sono massacri sui civili, quella che ha intrapreso la Turchia è solo un’offensiva contro il terrorismo. Un interessante punto di vista che fa riflettere su quanto sia importante l’uso del linguaggio in un conflitto che si svolge anche con le definizioni.

Ghouta Est: quando i ribelli mettevano i civili in gabbie, scrive "Piccole note" il 27 febbraio 2018 su "Il Giornale". La Russia ha stabilito che da oggi, ogni giorno, ci sarà una tregua umanitaria per Ghouta Est, dalle 9 alle 14 e chiesto l’apertura di vie di fuga per i civili che vi abitano. La pressione internazionale per fermare l’attacco dell’esercito siriano diretto all’enclave di Damasco controllata dai cosiddetti ribelli ha sortito un primo effetto. Vedremo gli sviluppi: anche la campagna per la riconquista di Aleppo Est fu uno stillicidio di stop and go, a causa da una pressione internazionale diretta a contrastare le operazioni dell’esercito siriano.

La Caritas siriana denuncia lo squilibrio dell’informazione. Esattamente quanto accade adesso, grazie una fortissima campagna mediatica che dipinge l’operazione contro Ghouta Est come brutale e i ribelli come eroi in lotta contro il sanguinario regime di Assad. La guerra è brutta, anche quelle giuste (quella di liberazione dal nazifascismo, ad esempio, conobbe ombre terribili: Dresda, Cassino, Hiroshima e Nagasaki…). Ma questa sembra più brutta di altre. E i ribelli che la combattono più umanitari di altri: ecco che foto e video li immortalano mentre, premurosi, soccorrono i feriti e altro e più stucchevole. Nessuna notizia di quanto da essi perpetrato a Damasco in questi giorni. Tanto che anche la Charitas siriana, in un raro comunicato, ha sbottato: «La maggior parte dei reportage giornalistici si concentra sui bombardamenti effettuati dalla Siria e dalla Russia su Ghouta Est». Nulla si dice invece di quanto avviene a Damasco, martellata ogni giorno «dall’inizio del 2018» da «colpi di mortaio» sparati da quel quartiere (vedi anche Piccolenote). Come anche nessuna notizia sul raid degli Stati Uniti a Deir Ezzor compiuto in questi stessi giorni: 25 i civili uccisi (Xinhua). D’altronde tale silenzio è in linea con quanto accaduto a Raqqa, città coventrizzata dagli Stati Uniti per scacciarne l’Isis (questa la narrazione ufficiale).

Le gabbie umanitarie degli eroi di Ghouta Est. Resta che se il quartiere di Ghouta Est non viene liberato, gli altri quartieri di Damasco resteranno preda dei bombardamenti dei ribelli cari ai circoli che stanno perpetrando il regime-change siriano. A meno che i loro sponsor internazionali non li fermino, cosa che non hanno alcuna intenzione di fare. Gli servono perché sono fonte di destabilizzazione permanente della capitale siriana. Così anche le campagne umanitarie servono a uno scopo prettamente bellico: a evitare che Ghouta Est cada ed essi perdano un tassello prezioso nella prospettiva di portare al collasso il governo di Damasco, logorandone la resistenza.

Ma chi sono gli eroi di Ghouta Est? Si tratta di alcune milizie jihadiste, subordinate ad al Nusra (al Qaeda), la più forte e organizzata. Istruttivo un report di Human Rights Watch, organizzazione non certo filo-Assad, del 2015: «I gruppi armati siriani mettono in pericolo i civili, incluse le donne» che espongono «in gabbie di metallo in tutta Ghouta orientale». Un crimine di guerra, spiega HRW, che i miliziani hanno usato per evitare gli attacchi del governo siriano. Importante quel cenno a «tutta Ghouta orientale» contenuto nel testo: indica che le gabbie dell’orrore sono state usate da tutte le milizie presenti a Ghouta, non dalla sola al Nusra. Nel report di HRW un cenno a un altro video che immortala «camion che trasportano gabbie, ciascuna contenente da quattro a otto uomini o donne». I «ribelli di Ghouta hanno distribuito 100 gabbie, ogni gabbia contiene circa sette persone e il piano è quello di produrre 1.000 gabbie da distribuire nella Ghouta orientale». Il bello è che lo sanno anche loro: anche la Cnn, infatti, aveva ripreso quel video (cliccare qui). Allora, quelle terribili immagini servivano per denunciare la brutalità dell’estremismo islamico. E così giustificare un intervento americano in loco. Oggi non servono più, anzi. Così sono semplicemente obliate. La guerra siriana, come anche altre (Yemen ad esempio), è «disumana», come ha detto papa Francesco all’Angelus di domenica. Quelle immagini lo documentano nella maniera più agghiacciante. Come disumana è la cortina fumogena che intossica le informazioni su quanto realmente sta avvenendo in quel martoriato Paese.

LE FAKE NEWS DEL CONTRO-REGIME.

Fake news, il veleno che piegò Mia Martini, scrive Domenica 14 maggio 2017 Aldo Grasso su "Il Corriere della Sera". Ventidue anni fa, di questi giorni, moriva la cantante Mia Martini. Una morte misteriosa, al culmine di una vita privata e di un percorso artistico segnati dalla maldicenza: dicevano portasse iella, non volevano mai pronunciare il suo nome. Proviamo a leggere questa vergognosa storia con gli occhi di adesso. Mia Martini è stata prima vittima di due fake news (dicevano portasse male per un tragico incidente in cui persero la vita due musicisti della sua band e per il crollo di un telone che copriva il palco su cui doveva esibirsi) e poi di bullismo. Un bullismo feroce, consapevole e adulto: quello di certi suoi colleghi, di certi impresari, di certi giornalisti. Mia è vissuta per anni nella post verità, nel regno delle bufale e delle cattiverie. E non c’erano nemmeno gli algoritmi dei social media a rilanciarle. Di fake news e bullismo si può morire, è bene saperlo. Ieri come oggi. Sono veleni iniettati per privare la vittima di ogni difesa. In ebraico c’è un’espressione forte per indicare la maldicenza, lashon hara (malalingua). È considerata una colpa gravissima, che Dio non tollera: «Non andrai in giro a spargere calunnie fra il tuo popolo né coopererai alla morte del tuo prossimo» (Levitico 19:16). Nelle nostre società laiche e illuminate, il reato ha sostituito il peccato. Ma il rito tribale e persecutorio della maldicenza è sempre lo stesso, amplificato oggi dal «popolo del web».

Fake news, bufale e dintorni, scrive Paolo Campanelli il 17 maggio 2017. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. L’amore per le bufale è un curioso concetto. Certo, c’è chi spaccia notizie con titoli dubbi o incompleti per far andare persone sui propri siti e guadagnare soldi, c’è lo Schierato Politico Estremo che s’inventa storielle inverosimili per favorire la propria posizione, ma molte, troppe false notizie vengono semplicemente buttate nella rete e lasciate a loro stesse. Prima di andare oltre, c’è da fare una chiara differenza: la bufala è differente dal giornale di satira; dove la prima è disinformazione, i secondi fanno ironia con situazioni chiaramente grottesche e impossibili, il Vernacoliere è lo storico giornale cartaceo, mentre Lercio è uno dei più famosi siti internet al riguardo. Il problema sorge quando le fonti delle bufale si fingono giornali di satira. Ma una cosa è dire che il politico “presunto corrotto” di turno ha un indice di gradimento del 215% nelle carceri, cosa impossibile già matematicamente oltre che improbabile dal punto di vista della necessità di fare rilevazioni, o prendere qualche istantanea da una fiction o un cartone animato e aggiungerci sotto una didascalia che la faccia sembrare presa da un momento critico nei libri di storia e aggiunto il colore, un’altra è incolpare il gruppo di immigrati di turno di aver fatto danni ad un palazzo storico aggiungendo la foto di qualche resto archeologico cittadino o dei veri e propri ruderi tanto comuni nel territorio italiano. Quella delle bufale recentemente soprannominate Fake News (seguendo la denominazione americana diventata famosa per via del costante usa da parte del loro Presidente, è una situazione che si autoalimenta, una persona che crede a varie bufale diventa più suscettibile ad altre, creando un loop di cecità dalla quale il credulone non si riesce a liberare, al grido di “metti tutto in discussione”. Tralasciando però la seconda parte “e analizza i risultati metodicamente per non farti ingannare nuovamente”. Il caso più eclatante degli ultimi tempi è stata quello di “Luciana” Boldrini: sorella di Laura, presidente della Camera dei Deputati, accusata di aver speso, solo nell’ultimo anno, ingenti somme pubbliche nell’accoglienza di immigrati oltre a ciò già fatto dal governo. In realtà Lucia Boldrini, pittrice, è morta da più di trent’anni. E il punto di origine della bufala non lascia alcun dubbio, si trattava di un attacco a base di “fango politico” in piena regola. Ricostruendo il percorso di alcune delle bufale dalla diffusione più rapida infatti, si giunge ad una cerchia di persone che le creano “professionalmente”, fin troppo spesso collegati con medie e piccole industrie e con gruppi politici; dove l’obbiettivo dei secondi è chiaramente quello di ottenere il voto di persone facilmente influenzabili anche al di fuori dei sostenitori del proprio partito, per le aziende si tratta di manovre più subdole: incrementare la vendita di prodotti “alternativi” mettendo in circolo l’informazione di come i prodotti più diffusi creino problemi all’organismo o all’ambiente, talvolta persino con informazioni parzialmente corrette. La storia degli acidi a base di limone che circolava a inizio 2013 è emblematica, in quanto prendeva in considerazione che il succo di limone è effettivamente una sostanza acida utilizzata come sgrassatore e come anticoagulante in ambito medico (acido citrico), ma nelle percentuali di purezza e quantità in cui si trova negli alimenti è comunque inferiore all’acidità dei succhi gastrici. Gli effetti più estremi di una bufala possono essere sottovalutati, vedendo come molte possano essere risolte con una semplice e rapida ricerca su un qualsiasi browser internet, ma tre sono i giganteschi esempi di una bufala fuori controllo: l’omeopatia, i vaccini e l’olio di palma. Omeopatia e vaccini richiedono conoscenze chimiche di un livello al di sopra di quello del cittadino medio, e comunque prenderebbero troppo tempo, l’olio di palma, invece, pur se segue gli stessi schemi, è un “concetto” estremamente più comprensibile. Fino a un paio di anni fa, nessuno si interessava all’olio di palma, eccetto le industrie alimentari; l’olio di frutti e semi di palma è sempre stato utilizzato in Africa e medio oriente per una moltitudine di usi, fra cui la preparazione di cibo, anche sostituendo oli e altri tipi di grassi, come ad esempio il burro, sapone, ed infine, nel caso del Napalm e del biodiesel, come componente di armi e di carburanti rispettivamente; una delle peculiarità dell’olio di palma è che ha una grande percentuale di grassi saturi, e quindi può essere confezionato in un panetto simile al burro a temperatura ambiente, che ne semplifica la lavorazione quando si ha a che fare con gli enormi quantitativi industriali. Tuttavia, con l’aumento della richiesta nel XX secolo, la coltivazione della palma ha portato a un incremento delle colture a discapito di altre produzioni, e di deforestazione. A questo si aggiunge che il consumo smodato di quest’olio ha effetti deleteri sull’organismo, identici all’eccesso di burro e di grassi. A partire dalla metà del 2014, però, cominciò a girare la notizia che “l’olio di palma fa male”; In breve tempo, espandendosi a macchia…d’olio, la notizia lasciò tutta l’Europa terrorizzata. I reparti di marketing delle grandi aziende, però, presero la palla al balzo, e scrissero chiaramente sui loro prodotti che non contenevano olio di palma, anche su quelli che non lo avevano mai utilizzato. Eccetto la Ferrero, che forte della sua posizione, e della sua cremosità, affermò fermamente che la Nutella, e tutti i suoi fratelli dolciari, avrebbero continuato a usare l’olio di palma nelle loro ricette, poiché parte essenziale nella creazione del gusto e non come araldo dei mali dovuti all’eccesivo consumo di dolci (arrivando persino a fare test di laboratorio). Questo ha indubbiamente posto il potenziale bersaglio della “bufala” di fronte ad un inatteso dilemma tra l’ansia indotta dalla pressione mediatica ed il consolidato piacere della adoratissima crema di nocciole. Con la scusa dell’“informazione libera e super partes perché fatta dall’uomo qualunque” che molti hanno visto in internet, la bufala ha invece raggiunto il livello opposto, diventando propaganda, il metodo più diretto di attacco costituzionale. La costituzione, infatti, delinea la libertà di informazione, che è legata a doppio filo con la libertà di opinione degli utenti, e con l’obbligo per chi fornisce le informazioni di, attendibilità, cioè di dimostrare che si tratta di fatti avvenuti. Due concetti che non possono e non devono sovrapporsi l’uno all’altro, ma che non hanno alcuna limitazione se semplicemente messi in rete e spacciati per “Fatto”. Dei passi contro la disinformazione e le bufale sono stati fatti sia dai governi di vari paesi, fra cui dei timidi passi anche in Italia, che dai privati, prevalentemente dai social network, ma a questo deve corrispondere un minimo di attività da parte dell’utente, il cosiddetto “Fact Checking” (o in italiano, controllo delle fonti), particolarmente da parte di chi si è “laureato all’università della vita” e da chi si è ritirato dagli studi, conscio di una minore abilità in ambito di studio e comprensione.

Rai, Alfano denuncia autori e conduttori Gazebo: "Mi diffamano da tre anni". Lo annuncia una nota di Alternativa Popolare: "Non si è trattato di un singolo atto ma di una intera campagna durata anni a spese del contribuente", scrive il 20 maggio 2017 "La Repubblica". Angelino Alfano denuncia autori e conduttori del programma Rai Gazebo (condotto da Diego 'Zoro' Bianchi su Rai3) per diffamazione, in sede civile e penale: lo annuncia una nota di Alternativa Popolare, il partito del ministro degli Esteri. "Ieri, con i soldi degli italiani, due milioni e mezzo di euro per il 2017!!!, si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico". La nota spiega che: "Ieri, con i soldi degli italiani - due milioni e mezzo di euro per il 2017 - si è consumata la consueta diffamazione. Quel che è più grave è che essa è stata perpetrata da parte del servizio pubblico. Il presidente di Alternativa Popolare, Angelino Alfano, annuncia, dunque, di avere dato mandato ai propri legali per denunciare autori e conduttori di Gazebo in sede civile e in sede penale". È quanto si legge in una nota. "Alla denuncia, Alfano allegherà i riferimenti diffamatori a lui rivolti durante gli ultimi tre anni di puntate televisive di Gazebo, per dimostrare ciò che sarà facile dimostrare: non si è trattato di un singolo atto diffamatorio - che sarebbe stato comunque grave - ma di una intera campagna diffamatoria durata anni a spese del contribuente e con una pervicacia diffamatoria che rende plateale il dolo, l’intenzionalità, la tenace volontà di creare un danno alla persona e all’area politica che rappresenta. Il punto è reso ancor più grave dall’enorme sproporzione che vi è, all’interno del servizio pubblico, tra lo spazio dedicato alla diffamazione da questa trasmissione e lo spazio dedicato alla informazione, in altre trasmissioni Rai, sulla medesima area politica e sulla stessa persona che la rappresenta. Infine, è stata la stessa Rai 3, pochi giorni fa, a sottolineare che tale trasmissione è un mix tra informazione e satira, con questa frase contenuta nella nota che era stata diffusa e che riportiamo qui fedelmente: ’... programma caratterizzato dal mix di satira e informazione che ne definiscono l’identità...’. Quindi, se è già stato ampiamente superato il confine della satira traducendosi in diffamazione, a maggior ragione tutto ciò nulla ha avuto a che fare con l’informazione. Ultima considerazione amara: questa diffamazione non può che essersi svolta con la azione o la dolosa e persistente omissione di una intera catena di comando che, dalla rete sino ai vertici massimi, ha consentito questi abusi. Anche costoro, nei limiti del legalmente consentito, saranno, da Alfano, chiamati a rispondere sia nel giudizio civile che nel giudizio penale. Alfano fa presente, infine, di essere giunto a questa amara determinazione dopo tre anni di paziente sopportazione di questo scempio che ha fatto il servizio pubblico, nella speranza che vi fosse un operoso ravvedimento nella diffamazione". L'annuncio della denuncia arriva a pochi giorni dall'ultima polemica: Alternativa Popolare aveva negato l'accredito a Gazebo per partecipare alla conferenza stampa sulla legge elettorale convocata nella sede del partito di Alfano.

 “Casa Renzi”, la soap opera infinita del Fatto Quotidiano, scrive Lanfranco Caminiti il 17 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Consip e la miseria del giornalismo: quando l’informazione diventa pettegolezzo e spettacolo di bassa lega. Quel che conta è la cornice narrativa e non più i fatti.

‘Ofiglie: Tu ha da riciri ‘ a verità, ggiura. Ggiura ca nun ricuordi.

‘ O pate: T’o ggiuro, nun m’arricuord nniente.

‘ O figlie: Ggiurale ‘ ncoppa a Maronna ‘ e Pumpei.

‘ O pate: ‘ O ggiuro, ncoppa a Marunnina nuost’. Nun m’arricuordo nniente.

‘ O figlie: E nun mmiettiri ‘ a mmiezzu ‘ a mamma. ‘ Nce fa’ passa’ nu guaie.

‘ O pate: No, t’o ggiuro, ‘ a mamma, no.

‘ O figlie: Statte bbuono. E accuorto.

Non è un dialogo spoilerato dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione della saga dei Savastano, insomma della fiction Gomorra. Piuttosto una verace traslazione, dal toscano del “giglio magico” al napoletano più proprio della notitia criminis (tutto ruota intorno il napoletano imprenditore Alfredo Romeo), dell’ennesima puntata dell’ennesima stagione di intercettazioni intorno “casa Renzi” – secondo la sceneggiatura di Marco Lillo, casa di produzione Il Fatto Quotidiano. La quale casa di produzione pubblica (cioè spoilera, fregando il segreto delle procure) un fitto e drammatico dialogo tra figlio e padre Renzi riguardo l’incontro con uno degli imputati del caso Consip. Come se fosse, appunto, la conferma di quanto ha sempre sostenuto – un appalto “mafiosizzato”, in cui imprenditori, facilitatori, politici e commissari si tengono insieme da un patto scellerato di corruzione – e non, piuttosto, quanto è lampante, evidente. Che cioè, l’allora presidente del Consiglio e segretario del Partito democratico non ne sapesse proprio una beneamata mazza, e che, pure, tutto quest’ambaradam è stato costruito “ad arte” per colpirlo. Come è possibile questo, cioè che l’una cosa venga spacciata per l’altra? È possibile per lo stesso meccanismo per il quale se un personaggio muore in una stagione di una fiction può capitare che risorga due stagioni dopo: quello che conta cioè è la “cornice narrativa”, per un verso, e la disponibilità dello spettatore, per l’altro. E anche la cosa più inverosimile, cioè che un morto resusciti, viene passata per buona. Vedete, è la stessa risposta di Marco Travaglio quando gli si fa notare che tutto è un po’ illegittimo. E lui che dice? Non è questo che conta, è la “sostanza” che conta. La “sostanza” è solo il racconto. La tensione drammatica del dialogo tra figlio e padre Renzi c’è tutta. Un figlio deve chiedere conto al padre di un certo comportamento. Di un episodio, di una cosa. È un uomo fatto, ormai, e l’altro è sulla strada del declino. È un destino, questo, che prima o poi tocca tutti. Ma non a tutti tocca prendere di petto il proprio padre, incalzarlo di domande, metterlo all’angolo perché sia limpido, almeno per una volta, per questa volta. Accenna a qualcosa d’altro – e toccando proprio un tasto che sa l’altro ha proprio a cuore, la fede – per fargli capire che non è proprio aria, che non sorvolerà come magari altre volte è accaduto. Sa che il padre indulge alla bugia, magari piccola piccola, di quelle che si dicono per il bene – è un insegnamento che i cattolici conoscono a perfezione. O forse solo all’omissione. Lo ha fatto con lui, chissà quante volte quand’era piccino, e adesso ancora, adesso che è l’uomo più potente d’Italia, lo ha fatto con un suo braccio destro, Luca Lotti. «E non farmi dire altro», questo dice Matteo Renzi a suo padre. L’altro sa di cosa stia parlando il figlio, capisce, tace. Non farmi dire altro: è una frase forte, potente. Terribile. Matteo Renzi è un maschio alfa, un capo branco. Ha fatto presto, forse anche troppo presto, a misurare la sua forza, i suoi denti, la sua zampata con i vecchi capi del suo branco – non erano di già sdentati. Li ha rottamati a cornate, a unghiate, a morsi. Per quello che era la storia del suo partito era poco più di un cucciolo – la gerontocrazia vigeva sovrana nei partiti comunisti d’occidente. Eppure, quel cucciolo – all’inizio guardato con sufficienza nella sicurezza di domarlo al primo impatto – ha mostrato che era impastato di smisurata ambizione e forza. S’era addestrato in casa, prima. Forse presto, troppo presto, aveva già preso a cornate il proprio padre. Il primo, probabilmente, a essere rottamato. Vedete, in letteratura, c’è il complesso di Edipo, l’amore del figlio verso la madre e l’ostilità verso il padre, e il complesso di Elettra, per spiegarlo dalla parte delle bambine, e il complesso di Giocasta, l’amore morboso di una madre per il figlio. Ma non c’è letteratura, e nominazione, per un complesso del padre verso il figlio. Quell’uomo è tornato adesso come un incubo. E anche gli altri – quelli che ha rottamato politicamente – sono tornati come un incubo. Tutto troppo presto: nei racconti tutto questo accade quando il personaggio è ormai in agonia, negli ultimi giorni di vita, in cui rivede a ritroso la propria storia e tutti quelli che ha “fatto fuori” per il potere, quel dannato potere, tornano come fantasmi malmostosi. Chi sta accelerando il corso degli eventi narrativi? Qual è la manina che scrive? Che di soap opera si tratti è ormai evidente. Gli ingredienti ci sono tutti. Il malloppo, anzitutto, ovvero: l’avidità. E poi, il militare infedele, le carte false, il giudice che non decide su fatti e reati ma se gli atteggiamenti di uomini e donne siano o meno integerrimi, le gazzette ciarliere, gli azzeccagarbugli, la famiglia, quella naturale e quella allargata della Massoneria, e soprattutto: isso, issa e ‘ o malamente. Dove isso e issa è abbastanza facile identificarli, in Renzi e in Maria Teresa Boschi. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, certo, a parte l’appartenere entrambi i personaggi principali, le dramatis personae, allo stesso “pacchetto di mischia”. Non c’è niente che unisca il caso Consip e il caso Banca Etruria, tranne il fatto che siano due giornalisti – de Bortoli e Lillo – le “gole profonde”. Scrivono e trascrivono, orecchiano e intercettano, alludono e illudono. A un certo punto, combaciano pure. Nella tempistica, intendo. Escono allo scoperto.

Sono loro, i due scrivani, ‘ o malamente? Due persone, in carne, ossa e testata, per un solo personaggio? Qualcosa si va sfaldando nella storia. Il militare infedele – che avrebbe dovuto “sacrificarsi” – va in giro a raccontare come sono andate davvero le cose. A chi rispondeva. Gli era stato ordinato di fare così, non è farina del suo sacco. Quasi, dice, ho solo obbedito agli ordini. E addita il responsabile. È stato il magistrato che indagava a voler lasciare intendere che i servizi segreti si stessero interessando della cosa – non c’è proprio traccia di questa storia, ma un faldone che racconta di come probabilmente i servizi segreti si sarebbero potuti interessare di questa storia. E le trascrizioni un po’ abborracciate, in cui l’uno veniva scambiato con l’altro, e quello che aveva detto l’uno veniva messo in bocca all’altro, beh, sì, quelle forse sono state un mio errore – dice l’infedele – però, dovete capirmi, ero sotto stress, quello – il giudice – voleva dei risultati e io non avevo in mano niente. Lo chiamava di notte, mentre compulsava ancora le sudate carte, il giudice Woodcock al capitano Scarfato per chiedergli conto di cosa fosse riuscito a concludere quel giorno? O lo chiamava all’alba, mentre iniziava a compulsare le sudate carte, per incitarlo a concludere finalmente qualcosa quel giorno? Che qua, di risultati, se ne vedevano pochini. Ah, che stress per il povero capitano. A un certo punto deve aver capito che sarà solo lui a pagare, a finire a dirigere il traffico a Forlimpopoli, e non ci sta. Tutto l’impianto narrativo rischia di impazzire come la maionese. E qua ‘ o malamente iesce ‘ a fora.

Banca Etruria, Renzi contro De Bortoli: "È ossessionato da me". Renzi in campo per blindare la Boschi: "Che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". E attacca De Bortoli: "Ha un'ossessione per me", scrive Sergio Rame, Sabato 13/05/2017, su "Il Giornale". "Ferruccio de Bortoli ha fatto il direttore dei principali quotidiani italiani per quasi vent'anni e ora spiega che i poteri forti in Italia risiedono a Laterina? Chi ci crede è bravo". In una intervista a tutto campo al Foglio, Matteo Renzi va all'attacco dopo le indiscrezioni sul salvataggio di Banca Etruria pubblicate dall'ex direttore del Corriere della Sera sul nuovo libro Poteri forti (o quasi). "De Bortoli ha una ossessione personale per me che stupisce anche i suoi amici". "Quando vado a Milano, mi chiedono: ma che gli hai fatto a Ferruccio? Boh. Non lo so". Nell'intervista al Foglio l'ex premier non fa sconti a De Bortoli: "Forse perché non mi conosce. Forse perché dà a me la colpa perché non ha avuto i voti per entrare nel Cda della Rai e lo capisco: essere bocciato da una commissione parlamentare non è piacevole. Ma può succedere, non mi pare la fine del mondo". Per Renzi "che Unicredit studiasse il dossier Etruria è il segreto di Pulcinella". "Praticamente tutte le banche d'Italia hanno visto il dossier Etruria in quella fase. Come pure il dossier Ferrara, il dossier Chieti, il dossier Banca Marche. Lo hanno visto tutti e nessuno ha fatto niente", continua Renzi. Che, poi, aggiunge: "Ferruccio de Bortoli ha detto falsità su Marco Carrai. Ha detto falsità sulla vicenda dell'albergo in cui ero con la mia famiglia. Ha detto falsità sui miei rapporti con la massoneria. Non so chi sia la sua fonte e non mi interessa. So che è ossessionato da me. Ma io non lo sono da lui. È stato un giornalista di lungo corso, gli faccio i miei auguri per il futuro e spero che il suo libro venda tanto". Renzi è convinto che, quanto prima, "si chiariranno le responsabilità a vari livelli". "E - avverte - se c'è un motivo per cui sono contento che la legislatura vada avanti fino ad aprile 2018 è che avremo molto tempo per studiare i comportamenti di tutte le istituzioni competenti. Cioè, competenti per modo di dire. Non vedo l'ora che la commissione d'Inchiesta inizi a lavorare. Come spiega sempre il professor Fortis, vostro collaboratore, Banca Etruria rappresenta meno del 2 per cento delle perdite delle banche nel periodo 2011-2016. Boschi senior è stato vicepresidente non esecutivo per otto mesi e poi noi lo abbiamo commissariato: mi pare che non sia stato neanche rinviato a giudizio. Se vogliamo parlare delle banche, parliamone. Ma sul serio".

Sulla propria pagina Facebook, De Bortoli replica ricordando all'ex premier che "avendo detto due volte no alla proposta di fare il presidente, non era tra le mie ambizioni essere eletto nel cda della Rai". E incalza: "Visto quello che sta accadendo, ringrazio di cuore per non avermi votato. Non avrei potuto comunque accettare avendo firmato un patto di non concorrenza". Poi continua: "Io non ho mai scritto che è un massone, mi sono solo limitato a porre l'interrogativo sul ruolo della massoneria in alcune vicende politiche e bancarie. Ruolo emerso, per esempio, nel caso di Banca Etruria. Ho commesso degli errori, certo". Nel libro ne ammette diversi in oltre quarant'anni. Come quello, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera sul caso JpMorgan-Mps, della data di un sms solidale inviato da Marco Carrai a Fabrizio Viola, "licenziato" poi dal governo. "Non so quali falsità siano state scritte sul soggiorno a Forte dei Marmi nell'estate del 2014 - continua - mi aspetterei invece da Renzi che chieda scusa al collega del Corriere che, in quella occasione, stava facendo il suo lavoro e alloggiava nell'hotel. L'inviato venne minacciato dalla scorta che gli intimò di andarsene. E gli faccio i miei migliori auguri per il suo libro che uscirà a breve".

Giornalismo del controregime, scrive Piero Sansonetti il 13 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Le fake news sono diffuse dai social network o comunque dalla rete? No. Le fake news sono diffuse principalmente dai giornali e dalle televisioni. I social vengono a rimorchio, le rilanciano. Ma non sono loro a costruirle. Almeno, non sono loro a costruire le fake importanti. La responsabilità della creazione delle bugie e del loro uso come arma politica e di disinformazione ricade soprattutto sui grandi quotidiani e sui grandi giornalisti. Giornalismo di contro- regime Cioè, giornalismo di regime. Proviamo un inventario di avvenimenti recenti. Caso Guidi, con annesse dimissioni della ministra. Caso Consip, con annessa richiesta di dimissioni del ministro Luca Lotti. Caso Ong, con annessa richiesta di limitazione dell’azione dei soccorsi ai migranti sul Mediterraneo. Caso De Bortoli, con annessa – ed ennesima – richiesta di dimissioni della ministra Maria Elena Boschi. Su questi quattro casi i giornali italiani e i principali talk show televisivi hanno vissuto per mesi e mesi. Con titoli grandi in prima pagina e – alcuni – con vere e proprie campagne di stampa, molto moraleggianti e molto benpensanti. Certo, soprattutto del “Fatto Quotidiano” – che quando offre ai suoi lettori una notizia vera succede come successe a Nils Liedholm quando per la prima volta in vita sua sbagliò un passaggio: lo Stadio di San Siro lo salutò con una ovazione… – ma anche di parecchi altri giornali che godono di alta fama. Ora vediamo un po’ come sono finiti questi quattro casi.

Guidi: mai incriminata. L’inchiesta giudiziaria che la sfiorò, Tempa Rossa, conclusa con il proscioglimento di tutti. Era una Fake. Federica Guidi è scomparsa dai radar della politica.

Consip, l’inchiesta è stata trasferita a Roma, le accuse al padre di Renzi erano fondate su una intercettazione manipolata da un carabiniere, anche le notizie sull’ingerenza dei servizi segreti (evidentemente mandati da Renzi per ostacolare le indagini) erano inventate da un carabiniere e l’informativa al Pm che riguardava queste ingerenze era stata scritta su suggerimento dello stesso Pm che avrebbe dovuto esserne informato. Fake e doppia fake.

Ong, l’ipotesi del Procuratore di Catania che fossero finanziate dagli scafisti è stata esclusa dalla Procura di Trapani da quella di Palermo e da svariati altri magistrati. Fake. Intanto l’azione di soccorso ha rallentato.

De Bortoli. Sono passati ormai quattro giorni da quando, per lanciare il suo libro sui poteri forti, l’ex direttore del Corriere della Sera e del Sole 24 Ore ha diffuso la notizia della richiesta di Maria Elena Boschi all’amministratore delegato di Unicredit di comprare la banca nella quale lavorava il padre. Boschi ha smentito nettamente. Anche la banca ha dichiarato che non risulta niente. De Bortoli ha fatto mezza marcia indietro, poi ha accusato Boschi e Renzi, o almeno i loro ambienti, di essere massoni, ed è andato in Tv, senza portare neppure uno straccio di prova delle sue accuse ed evitando il confronto diretto con gli avvocati della Boschi. Tranne improvvisi colpi di scena, appare evidente un po’ a tutti che l’accusa di De Bortoli è infondata, altrimenti, ormai, avrebbe fornito degli elementi a sostegno della sua tesi. Anche qui possiamo dire: fake.

La questione invece del complotto massonico a favore di Renzi, denunciato da de Bortoli, non è definibile esattamente una fake, è solo qualcosa di già visto tante volte nella politica italiana. In frangenti non bellissimi. Il più famoso complotto massonico – per la precisione giudaico-massonico, anzi: demo-pluto-giudaicomassonico – fu denunciato da Mussolini, nel 1935, per favorire la persecuzione dei massoni e poi lo sterminio degli ebrei. Non ci fa una gran figura De Bortoli a tornare sul quel concetto, peraltro senza avere proprio nessun indizio sulla appartenenza di Boschi o di Renzi alla massoneria. E in ogni caso andrà segnalato il fatto che la massoneria non è una associazione a delinquere. Furono massoni, in passato, un gran numero di Presidenti americani, tra i quali Washington e Lincoln, furono massoni poeti come Quasimodo e Carducci, furono massoni Cesare Beccaria, Mozart, Brahms, e svariate altre centinaia di geni, tra i quali moltissimi giornalisti di alto livello, parecchi dei quali del Corriere della Serra. Possibile che un giornalista colto e autorevole come De Bortoli scambi la massoneria per Avanguardia Nazionale? Eppure De Bortoli ha trovato grande sostegno nella stampa italiana. In diversi giornali e in diverse trasmissioni Tv la sua “ipotesi di accusa” alla Boschi è stata ed ancora in queste ore è presentata come dato di fatto: «Lei che ha svelato la richiesta della ministra…». Una volta esisteva la stampa di regime. Ossequiosa verso i politici, soprattutto, e in genere verso l’autorità costituita. Ora esiste la stampa di anti- regime. O di contro- regime, che però funziona esattamente come la stampa di regime. Anche perché ha dietro di se poteri molto forti. Non solo un pezzo importante di magistratura ma uno schieramento vasto di editori, cioè di imprenditoria, diciamo pure un pezzo robustissimo della borghesia italiana. De Bortoli oggi è sostenuto da quasi tutti i mezzi di informazione, e si può pensare tutto il bene possibile di lui, tranne una cosa: che sia un nemico dei poteri forti. De Bortoli, per definizione, è i poteri forti. Lo è sempre stato, non lo ha mai negato, nessuno mai ne ha dubitato.

La stampa di contro-regime funziona esattamente così. Non è una stampa di denuncia ma una stampa che costruisce notizie e le difende contro ogni evidenza e logica anche queste crollano. Nei regimi totalitari questa si chiamava “disinformazia” ed aveva un compito decisivo nel mantenimento al potere delle classi dirigenti. Ora si chiama fake press e ha un ruolo decisivo nella lotta senza quartiere che è aperta nell’establishment italiano per la conquista del potere, di fronte alla possibilità di un rovesciamento dei rapporti di forza nel ceto politico. L’avanzata dei 5 Stelle ha provocato un terremoto. Pezzi molto grandi, autorevoli e potenti proprio dei poteri forti si predispongono a dialogare coi 5 Stelle, prevedendone, o temendone, l’ascesa al governo. Questo movimento tellurico squassa la democrazia e devasta i meccanismi dell’informazione. Esistono le possibilità di resistere, di fermare il terremoto, di reintrodurre il principio di realtà – se non addirittura di verità – nella macchina dei mass media che lo ha perso? Non è una impresa facile. Molto dipende dai giornalisti. Che però, nella loro grande maggioranza, oggi come oggi non sembrano dei cuor di leone…

Ferruccio, per favore, se hai le prove mostrale, scrive Piero Sansonetti il 12 Maggio 2017 su "Il Dubbio". Il caso Boschi-Banca Etruria si sta sgonfiando. Finirà nel dimenticatoio come il caso-Guidi, il caso-Lupi, il caso Madia? Il caso-Boschi si ridimensiona. Molti giornali di destra hanno mollato la presa dopo la parziale marcia indietro di Ferruccio De Bortoli, che ha spiegato di non aver mai sostenuto che la Boschi fece pressioni indebite su Unicredit per salvare Banca Etruria. Eppure nel suo libro c’è scritto che «Boschi chiese a Ghizzoni (amministratore delegato di Unicredit) di valutare l’acquisto di Banca Etruria». Resta in campo, al momento, solo Il Fatto Quotidiano che ieri si è lanciato in soccorso di De Bortoli sostenendo di avere le prove della colpevolezza della Boschi. Lo ha scritto enorme, in prima pagina, con l’inchiostro rosso: «Boschi mente: ecco le prove». E ha pubblicato un servizio d Giorgio Meletti nel quale si parla di una riunione a casa del papà della Boschi, dirigente di Banca Etruria, con gli amministratori della stessa Banca Etruria e di alcune banche del Nord. A questa riunione – dice Meletti – che si tenne nel marzo del 2014, partecipò anche la Boschi. Il servizio di Meletti è fatto molto bene e sembra assai informato, anche se naturalmente occorreranno dei riscontri. E tuttavia resta una domanda: ma Meletti non accenna nemmeno all’ipotesi che a questa riunione, o ad altre riunioni, partecipò Ghizzoni. E allora perché mai questo fatto dovrebbe provare che De Bortoli ha ragione? Ieri de Bortoli ha partecipato alla trasmissione televisiva “Otto e Mezzo” di Lilli Gruber. Ha detto che la vicenda di Banca Etruria è tutta una vicenda di massoneria. Un paio d’anni fa aveva detto la stessa cosa del governo Renzi. Né allora né adesso, però, ha citato elementi di prova, o almeno di indizio. Più che altro è sembrata una sua sensazione. Se anche le accuse alla Boschi di aver tentato di spingere Ghizzoni a comprare la Banca dove lavorava il papà dovessero basarsi solo su una sua impressione, non sarebbe una buona cosa. Questa vicenda può concludersi in tre modi. O De Bortoli si decide a portare le prove della sua affermazione, e allora il governo Gentiloni va a gambe all’aria. O De Bortoli queste prove non le ha, e davvero ha scritto il libro solo basandosi su voci raccolte in ambienti vicini a Unicredit, e allora ci troveremmo di fronte a un capitolo nerissimo per il giornalismo italiano. Oppure può succedere che i due contendenti capiscono che è meglio non esagerare nel duello, anche perché l’uno e l’altra hanno dietro le spalle forze abbastanza potenti e capaci di far male, e in questo caso anche “Il Fatto” abbasserà i toni e tutta la storia passerà in cavalleria. Come è successo col caso-Guidi, col caso-Lupi, col caso Madia. E’ sicuramente la terza l’ipotesi più probabile. E non è una bella cosa, né per il giornalismo né per la politica.

Quelle cene con Ligresti per tornare in via Solferino. La vacanza dell'ex direttore nel resort in Sardegna, scrive Domenica 14/05/2017, "Il Giornale". Le cronache raccontano di aragoste a quintali per gli ospiti illustri di Salvatore Ligresti al Tanka Village di Villasimius, in Sardegna. Vecchie storie, un'altra epoca, uno splendore e una leggerezza che ormai non ci sono più. Alla corte dell'ingegnere, quando i tempi del crack Fonsai erano ancora molto lontani, accorrevano in tanti, per lo più personalità del mondo politico e istituzionale, ministri, generali, prefetti, sottosegretari, direttori. Andare al Tanka era un po' lavorare, perché lì si tessevano le relazioni pubbliche che contavano e che portavano spesso alle poltrone importanti. Relazioni rigorosamente trasversali, bipartisan si direbbe oggi. Il Tanka, insomma, veniva considerato un po' una prosecuzione dell'ufficio. Anche se molti scroccavano pure la vacanza, visto che pochi alla fine pagavano il conto. Qualcuno, quando poi se n'è parlato sui giornali, ha persino negato di esserci stato. Non si sa mai. Tra i tanti che negli anni sono passati per il bellissimo villaggio sardo un tempo regno della famiglia Ligresti c'era anche l'ex direttore del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli. Correva l'estate del 2008. All'epoca non guidava più il quotidiano di via Solferino, che aveva già diretto per sei anni, dal 1997 al 2003, ma era già in trattativa per tornarci e si muoveva in quella direzione. C'è chi lo ricorda, infatti, ospite di Ligresti, proprio lì, nel resort di Villasimius, dove l'ingegnere amava organizzare cene speciali per i suoi ospiti di riguardo. Quell'estate il giornalista trascorse qualche giorno al Tanka e tutte le sere sedeva al tavolo di Ligresti, in quel periodo ancora saldamente al vertice di Fonsai, azionista di peso del patto di sindacato dell'editore del Corriere della Sera. Per poter tornare al timone di via Solferino, insomma, era quello il posto giusto dove mangiare aragoste in compagnia e dove valeva la pena trascorrere qualche giorno di vacanza. Di lì a qualche mese, infatti, de Bortoli tornò al comando del giornale milanese, dove è poi rimasto fino al 2015. E pensare che in quei giorni d'estate furono in molti a stupirsi di vederlo al Tanka, tra i clientes di Ligresti. C'è anche chi lo ricorda bersaglio di amichevoli sfottò sull'argomento da parte di chi sedeva con lui al tavolo dell'ingegnere e che sapeva bene perché fosse lì. Pare che lui non gradisse le prese in giro sull'evidente motivo della sua presenza in quel luogo. Era tanti anni fa. Un'altra epoca, appunto.

Il libro di de Bortoli e la memoria corta sul "Corriere" indipendente, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 12/05/2017, su "Il Giornale". Ho letto Poteri forti (o quasi), il libro di Ferruccio de Bortoli già direttore del Corriere della Sera e del Sole24Ore - edito da «La nave di Teseo», di cui si parla in questi giorni per il clamore suscitato dal capitolo che svela l'interessamento della ministra Boschi presso Unicredit per agevolare il salvataggio della banca di papà, la Etruria. «Memorie di oltre quarant'anni di giornalismo», recita il sottotitolo di copertina. E questo basta per mettere l'autore al riparo da critiche su eventuali errori ed omissioni nel racconto che corre fluido come si addice alla penna di un grande giornalista e direttore. Perché di «memoria» ognuno ha la sua e ha il diritto di centellinarla a suo piacimento, che sia per amnesia o per calcolo. Non so perché Ferruccio de Bortoli abbia deciso di raccontarsi a soli 64 anni. Di solito l'autobiografia salvo casi di conclamato narcisismo o ragioni economiche arriva a chiudere una carriera, non a rilanciarla. Svelare retroscena, dare giudizi su uomini viventi e potenti si presta a ritorsioni pericolose. Conoscendo la cautela dell'uomo, grande e cauto navigatore, mi vien quindi da pensare che de Bortoli consideri conclusa la sua brillante carriera, almeno nel giornalismo attivo e di vertice. Fatti suoi, ovviamente. Ma torniamo al libro. De Bortoli vuole farci credere di essere stato per dodici anni (in due tranche, 1997-2003, 2009-2015) a capo di un giornale tempio della libertà e sentinella di democrazia, arbitro imparziale delle partite alcune violente e drammatiche - che si giocavano nel Paese. È la vecchia tesi, retorica e falsa, della sacralità del Corriere della Sera, giornale in cui ho lavorato per diversi anni e che quindi ho ben conosciuto dall'interno. Il Corriere è stato il primo, e per lungo tempo unico, grande e ricco giornale nazionale e per questo ha allevato e ospitato le migliori firme del giornalismo e della cultura per oltre un secolo. Fin dalla nascita, il vestito è stato a libera scelta da qui la sua apparente indipendenza - del direttore e dei giornalisti, ma il cappello è sempre stato attaccato dove padrone voleva: monarchico durante la monarchia, fascista sotto il fascismo, antifascista alla caduta del regime, piduista all'epoca della P2, filo-Fiat sotto il regime di Agnelli, benevolo, negli anni più recenti governati da Bazoli, con il sistema finanziario e bancario vincente. Quest'ultimo è un club di miliardari i cui membri, come tutti i padroni, sono conservatori, ma hanno la necessità di apparire progressisti per non avere rogne nel loro espandersi nell'ombra (in Francia la chiamano «sinistra al caviale»). Tutto ciò non significa che de Bortoli non sia stato un direttore libero. Lui, nato in altro mondo (la sua era una solida e umile famiglia), sognava e studiava fin da giovane racconta chi l'ha frequentato in quegli anni di entrare in quell'ambiente dorato ed esclusivo. Sulla plancia del giornale degli Agnelli prima e dei banchieri poi è stato quindi perfettamente a suo agio. Più che di indipendenza parlerei quindi di coerenza.

Non è poca cosa, la coerenza, cioè la fedeltà alle proprie idee. Ma perché non dirlo? Perché evitare, in una biografia di oltre duecento pagine, di scrivere due righe sul suo essere stato un giovane e convinto comunista, sia pur di quelli che, essendo intelligenti, avevano capito che più che le piazze era meglio frequentare i salotti, che le parole potevano essere più utili e potenti delle spranghe alle quali, infatti, l'uomo, a differenza di tanti compagni, non si è mai neppure avvicinato. Nel libro la fede politica di de Bortoli la si deduce solo dal fatto che le offerte di lavoro che narra di aver ricevuto (presidente Rai, sindaco di Milano, direttore del Corriere) gli arrivavano sempre da politici o banchieri di sinistra (una, in verità, da Letizia Moratti, ma era appunto per dirigere il Tg3). Essere di sinistra è infatti la non misteriosa precondizione per dirigere il Corriere della Sera, altrimenti non si spiega come a giornalisti altrettanto bravi (penso a Montanelli prima di lui e a Vittorio Feltri suo quasi coetaneo) sia stata negata tale possibilità. Anche l'attuale direttore, Luciano Fontana, non a caso professionalmente e culturalmente nasce e cresce all'Unità. De Bortoli (con Paolo Mieli, con il quale si è avvicendato più volte al comando) è stato la faccia presentabile dell'antiberlusconismo militante, la lunga mano della sinistra politica e affaristica (che nel libro, giustamente, si vanta di aver frequentato con reciproca stima e soddisfazione) per manipolare l'opinione pubblica in punta di regole («la notizia è notizia», ama ripetere il direttore, quasi a scusarsi). Noi tutti sappiamo che cosa de Bortoli che oggi ci rinfresca la memoria anche con aneddoti curiosi - è stato libero di scrivere e far scrivere, non cosa non ha pubblicato (potere questo più importante del primo). E, forse, non lo sa neppure lui, perché in un giornale l'acqua inevitabilmente scorre dove il direttore (e il padrone) traccia il solco. Escludo in modo categorico che de Bortoli sia mai stato servo di qualcuno, ma socio ho il sospetto di sì. Forse pure dei magistrati che davano la caccia a Silvio Berlusconi. Nel libro c'è un lungo paragrafo di elogi a Ilda Boccassini («ne ammiro il coraggio, per fortuna il Paese ha toghe come lei, coraggiosa e preparata»). Dice di averla incontrata tante volte, la chiama per nome, «Ilda», incurante di poter così suscitare anche solo un sospetto sull'origine di tanta abbondanza di informazione che il Corriere ha sfornato durante il caso Ruby («una inchiesta per la quale è stata ingiustamente attaccata», scrive senza aggiungere che l'imputato, Berlusconi, è stato assolto per non aver commesso il fatto e che, quindi, non fu una grande inchiesta). Di Berlusconi scrive con distacco: «Il Cavaliere non si arrese mai all'idea che un giornale liberale non stesse per definizione dalla sua parte». Per la verità il Corriere della Sera è stato «per definizione» contro Berlusconi, il cui dubbio è lo stesso che negli ultimi cinquant'anni hanno avuto in tanti: come ha fatto un giornale che si dice liberale a farsi soggiogare dal Pci, dal sindacato interno (un vero Soviet con diritto di censura), fino a strizzare l'occhio alla non pacifica rivoluzione sessantottina? Cosa c'era, nel 1994, di liberale nello sperare che Occhetto prendesse il potere a scapito di un partito davvero liberale come Forza Italia (io c'ero, dietro le quinte, e l'apparente equidistanza era tifo vero)? Cosa c'è stato di liberale nel fare un endorsement, alla vigilia del voto del 2006, a firma del direttore (Paolo Mieli, prima volta nella storia di quel giornale) a favore di un governo Prodi-Bertinotti? Cosa c'è stato di liberale nell'avere un pregiudizio profondo nei confronti non solo di un liberale come Silvio Berlusconi, ma di chiunque emergesse in qualsiasi campo (arte, letteratura, musica, perfino lo sport) e non fosse dichiaratamente di sinistra? La risposta è semplice: Il Corriere, da un secolo a questa parte, non è un foglio liberale. È un camaleonte che ha ingannato, e inganna tuttora, i suoi non pochi lettori liberali (e tutti i politici liberali che bramano di apparire sulle sue colonne). Il Corriere di de Bortoli è stato, lo ripeto, «per definizione» e con un abile gioco di doppi pesi e doppie misure, contro tutto ciò che non era omologato al clan. Tra i suoi editori nel consiglio di amministrazione Rcs - De Bortoli ne ha avuto uno mal visto dai salotti della sinistra e simpatico alla destra: Salvatore Ligresti. E, guarda caso, è l'unico che nelle sue memorie stronca anche con un certo cattivo gusto: «Mi sono trovato a disagio a sedermi a tavola con la sua famiglia». Ora, è vero che Ligresti era un personaggio atipico, che è fallito malamente. Ma sono certo che la sua coscienza non è meno linda di quella di diversi suoi soci apparentemente «per bene» tanto cari al direttore. Certo, è facile vantarsi, con un eccesso di civetteria, dell'amicizia di Mario Draghi: «Una sera camminavo per Parigi, mi suona il telefonino: ciao Ferruccio, sono Mario...». Facile liquidare l'appoggio entusiasta dato dal Corriere al disastroso governo Monti dando un paio di buffetti al Professore oggi in disuso. Facile svelare solo oggi l'aggressione subita da un cronista del Corriere da parte di Matteo Renzi, taciuta quando l'aggressore era potente primo ministro. Insomma, è facile continuare la narrazione della favola di un Corriere della Sera vergine e nelle mani di coraggiosi paladini senza macchia con fonti disinteressate. Facile e pure legittimo. Ma, almeno io, non ci casco. 

MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!

Le Brigate nere del voyeurismo giudiziario. La Corte d’appello di Milano ha smontato il processo Ruby-Berlusconi, una fiction contrabbandata per processo penale, mentre un manipolo di giornalisti guardoni insiste nel tentativo di lapidazione pubblicando intercettazioni irrilevanti, scrive Giorgio Mulè su “Panorama”.  Lo dico con assoluta certezza: sono stati anni di piombo. Anni putridi, in cui nel nome della superiore necessità di distruggere quel nemico personale e politico chiamato Silvio Berlusconi, s’è sparato ad alzo zero come negli anni più bui della Repubblica. Non abbiamo sentito il rimbombo dei colpi di P38 ma abbiamo sulla nostra pelle le cicatrici di micidiali pallottole di carta mentre le molotov sono state sostituite da vergognose serpentine televisive. E d’altronde l’humus quello era. Quello, cioè, di un gruppo di reduci del ’68 che occhieggiavano alla lotta armata senza impugnare una pistola perché tanto a fare il lavoro sporco ci pensavano i poveracci della classe proletaria. È il loro «stile», che inizia col lurido manifesto contro il commissario Calabresi dopo la morte di Giuseppe Pinelli. Venne pubblicato per tre settimane di fila dal settimanale L’Espresso nel giugno del 1971, meno di un anno dopo Luigi Calabresi veniva ucciso dalla manovalanza di Lotta continua su incarico dell’ideologo del gruppo Adriano Sofri. Quel manifesto agghiacciante che «ricusava» la legge e bollava come «torturatore» il commissario lo firmarono in 757 (andatevi a leggere chi lo sottoscrisse e vi sembrerà di partecipare a una riunione di redazione del gruppo L’Espresso). Non è stato perciò sorprendente, per me, leggere la scorsa settimana su L’Espresso un articolo che dava conto di una intercettazione telefonica del luglio 2013 tra me e Marina Berlusconi della quale ignoravo l’esistenza non essendomi mai stata consegnata dai signori magistrati. Ma all’Espresso, ribadisco, lo stile impunito della casa è questo. Che permette, nonostante una diffida legale, la pubblicazione di un atto penalmente irrilevante qual è questa conversazione tra il direttore e il suo editore, non indagato, in un procedimento comunque archiviato ben quattro mesi fa. Una barbarie assoluta. La cui presunta rilevanza pubblica viene giustificata meschinamente ai propri lettori con il bla bla politico che vuole Marina Berlusconi prossimo leader del centrodestra. Quell’intercettazione, tra l’altro, rappresenta uno dei punti più bassi nella storia giudiziaria italiana. Per settimane, infatti, sull’onda di un’ipotesi di reato offensiva e palesemente farlocca (si presumeva che io avessi corrotto qualcuno per avere uno scoop) vennero ascoltate migliaia di telefonate su 24 utenze in uso al sottoscritto, al vicedirettore esecutivo, al capo della redazione romana, a un giornalista e a un collaboratore. Una gigantesca operazione degna della peggiore Stasi. Un anno fa, appena seppi di questa enorme infamia mascherata da investigazione, misi in guardia dal fatto che «conversazioni personalissime» sarebbero potute finire «nelle mani di giornalisti guardoni» e invocai l’intervento del presidente della Repubblica in qualità di presidente del Consiglio superiore della magistratura, di garante della Costituzione laddove è contemplata la libertà di stampa. Il presidente Napolitano, che ha dimostrato anche recentemente di saper far sentire (eccome!) la sua voce al Csm, non ha mosso un dito. Non l’hanno fatto, se è per questo, neppure i miei colleghi conigli che rappresentano la categoria. Il risultato è che, certamente dall’interno di un ufficio giudiziario, è stata consegnata all’Espresso la telefonata numero 831 (vi rendete conto quante migliaia ne hanno ascoltate!) tra me e Marina Berlusconi. Invocare non un intervento, ma anche una sola parola di condanna da parte di Matteo Renzi sarebbe inutile: il ragazzino deve essere così atterrito dai signori in toga che – pensate in che mani siamo – ha smesso di mandare sms o rispondere ai miei da quando il 30 maggio scorso ho scritto che i nostri scambi sarebbero stati letti anche da «qualche pubblico ministero che controlla le mie comunicazioni».  Il silente ministro della Giustizia, che un giorno sì e l’altro pure corre a confessarsi con Repubblica, potrebbe trovare la favella visto che è alle prese con la riforma anche delle intercettazioni telefoniche. Faccia il seguente esercizio per sentire scorrere un brivido: provi a pensare se una sua conversazione intercettata in cui magari si sfoga e, che so io, dà dello stronzo a Renzi potrebbe finire sui giornali. Brutta roba, eh? Però, vedete, questa è ahimè l’Italia che negli anni di piombo ha lapidato Berlusconi e chiunque gli stesse vicino. È l’Italia che ha additato come «guardie armate» di Berlusconi facenti parte di un’orrida Struttura Delta alcuni direttori del gruppo Mondadori, Mediaset e del Giornale colpevoli, Repubblica dixit, di «propiziare “atti sediziosi” e inquinare fatti incontrovertibili» come l’indagine su Ruby. È l’Italia che ha calpestato la dignità di ragazze che frequentavano Arcore dandogli lo stigma di puttane a vita. È l’Italia dei maître-à-penser che nel 2011 sputavano sul proprio Paese scrivendo sul New York Times articolesse per spiegare «Why have italians, especially the women, tolerated Mr. Berlusconi for so long?». È l’Italia che ha criminalizzato chi si riconosceva in una parte politica e che si è bevuta, nel 2011, un colpo di Stato morbidissimo consumato sull’onda del voyeurismo giudiziario e sull’imbroglio dello spread. Adesso che la Corte d’appello di Milano ha smontato questa fiction agghiacciante contrabbandata per processo penale è il caso di ricordare ciò che Marina Berlusconi disse a Panorama, non intercettata ma in un’intervista, nel maggio del 2013 a proposito della vicenda Ruby: «Finirà tutto in una bolla di sapone, ma all’associazione della gogna non importa nulla di come andrà a finire, interessa solo la condanna mediatica. E, quando il teorema dell’accusa crollerà, quale interdizione dovrebbe essere chiesta per coloro che hanno costruito questa montatura infernale?». Vedremo adesso che cosa succederà nell’Italia del 2014 che si dice coraggiosa e che, finora a parole, vuol cambiare verso.

Filippo Facci su “Libero Quotidiano”: Ruby e Puttanopoli sono la più grande sconfitta di Ilda Boccassini. E di qualche giornalista. Forse sì, forse è la più grande sconfitta patita della procura di Milano in vent’anni di processi ad personam contro Silvio Berlusconi. Questa non è l’America, dove un procuratore sconfitto ha delle immediate ripercussioni sulla carriera: qui un procuratore sconfitto fa subito ricorso contro il malcapitato, s’infila in cento altri processi contro di lui, se necessario prosegue la sua campagna per quindici o vent’anni, certo, sì. Ma stavolta la sconfitta non ha rimedio perché è inequivoca, netta, il reato non esiste e stop, non ci sono margini (manca soltanto il sigillo della Cassazione) e stiamo parlando del processo più rumoroso, mondialmente sputtanante e al tempo stesso più semplice da capire, l’unico che era stato ampiamente pre-giudicato dall’opinione pubblica e l’unico, soprattutto, che a suo modo pareva perduto dalla procura anche dopo la vittoria in primo grado. Ora gli esterofili si divertirebbero nel chiedersi «in quale Paese al mondo» una procura possa processare un capo del governo per concussione e prostituzione minorile e poi, dopo la sconfitta, uscirsene come se nulla fosse, come se la sua azione in nome del popolo italiano non si fosse tradotta in un sostanziale danno al popolo italiano. In quale altro Paese - Di che parliamo? Di una campagna mediatica spaventosa, senza paragoni con qualsiasi altra, migliaia di intercettazioni che hanno sputtanato uomini e donne costrette in qualche caso a rifugiarsi all’estero, una task-force di magistrati che ha strapazzato le regole pur di aggiudicarsi un processo che spettava ad altri e che ha contribuito a sfaldare la procura davanti al Csm, e tutto per una domanda che da ieri è alla portata di tutti, cittadini e giornalisti e politici e giudici di ogni orientamento, ossia questa: ci voleva tanto? Ci voleva tanto a capire che era tutta un’immensa e pruriginosa cazzata? Era così difficile - anche senza scomodare procedure e giurisprudenze - capire che quella telefonata non era una concussione? Che una concussione senza concussi resta improbabile? Che la signorina Ruby si era facilmente spacciata per maggiorenne senza esserlo? Che una furbastra e una mitomane è da considerare sempre furbastra e sempre mitomane? Che un rapporto sessuale negato, in un’aula di giustizia, non si può dimostrare per teorema? Che per anni e anni e anni ci siamo occupati solo degli stracazzi personali di Silvio Berlusconi? C’erano quelli, nelle 500 pagine di allegati che giunsero alla Camera il 17 gennaio 2011 assieme alla richiesta di perquisizione per l’ufficio di Giuseppe Spinelli, ragioniere dal quale partivano bonifici per alcune «olgettine» già ospiti delle serate a villa San Martino: c’era il «sistema Arcore», quello in cui giovani donne facevano semplicemente quello che volevano e non facevano quello che non volevano. Un giorno s’infilò una minorenne che Ilda Boccassini definì di «furbizia orientale» (anche se era marocchina e il Marocco è a Occidente) ed ecco che la mitica procura di Milano si scaraventò a perseguire il reato notoriamente più grave e urgente: un caso di sospetta prostituzione minorile. E quattro anni dopo non è una sconfitta, è un’ecatombe. Egregio vicepresidente del Csm Michele Vietti, sono queste le mazzate che distruggono la credibilità di una procura davanti all’opinione pubblica: mica gli esposti di Alfredo Robledo contro il procuratore capo Edmondo Bruti Liberati. Ecco, Bruti Liberati: mesi o anni passati a dividere l’ufficio, a favorire i suoi pubblici ministeri preferiti a scapito di altri, acrobazie procedurali per spiegare che Berlusconi era un concussore ma che i presunti concussi, i funzionari della Questura, avevano commesso solo delle scorrettezze amministrative. Paf, tutto disciolto in una sbrigativa camera di consiglio. Con la complicazione che alcuni funzionari poco collaborativi sono stati addirittura indagati per depistaggio, senza contare la complicazione ancora più complicata di un Ruby bis - il processo parallelo per corruzione di testimoni - che ora resta appeso al nulla. Il fatto non sussiste. Il fatto non costituisce reato. Senza contare che questa sentenza d’appello potrebbe ripercuotersi sulle residue puttanopoli sparse per il Paese. E poi c’è lei, Ilda Boccassini, una delle più grandi investigatrici del Paese - nessuna ironia - ma che ora rischia di gettare una luminosa carriera nell’ombra di questo processo ridicolo. Quando Berlusconi fu inquisito per la prima volta, nel 1994, lui aveva 58 anni ed era presidente del Consiglio; la Boccassini quell’anno ne aveva 45 ed era reduce da esperienze importanti in Sicilia sulle orme degli assassini di Falcone e Borsellino, e stava appunto per coinvolgere Berlusconi in inchieste pesantissime su corruzioni giudiziarie, roba tosta ma che l’hanno lasciato illeso. Poi c’è un terzo soggetto, Karima el Mahroug, detta Ruby, che in quel 1994 si limitava a ciucciare il biberon perché aveva un anno. Ora, cioè una ventina d’anni dopo, rieccoci con un Berlusconi che ha 78 anni, è ancora politicamente in sella e però è stato appena assolto da un processo imbastito ancora da lei, Ilda Boccassini, che ora ha 63 anni e l’anno scorso aveva finalmente ottenuto una pesante condanna: e per che cosa? Per una concussione e una prostituzione minorile alle quali non ha mai creduto nessuno. Imbarazzi - Non pochi, nel giorno della condanna di Berlusconi in primo grado, lessero nell’assenza di Ilda Boccassini un doppio imbarazzo: la possibile amarezza per una sconfitta o la possibile amarezza per una vittoria. Finì con la più improbabile delle vittorie, 7 anni e interdizione a vita, un collegio giudicante simbolicamente retto da tre donne. Bella figura anche la loro. Poi ci sarebbe tutto un discorso sui giornalisti, ma tanto è inutile. Ieri Marco Travaglio ha già tirato in ballo un possibile «errore giudiziario» e ha chiarito che «secondo me, a naso, hanno sbagliato i giudici d’appello». A naso: chissà con che cosa ha scritto il suo articolo, poi. «Sono curioso di vedere», ha aggiunto, «come il giudice motiva questa cosa e se è tutto regolare». All’erta, signor giudice. Infine è andato a rincarare la dose a Bersaglio Mobile, da Enrico Mentana, su La7: la parola all’esperto. «Il nostro giornale», ha concluso, «non ha una linea preconcetta per la quale Berlusconi è sempre colpevole». È simpatico, dài.

Ruby, rissa in procura a Milano: Armando Spataro contro Ilda Boccassini, scrive “Libero Quotidiano”. L'assoluzione di Silvio Berlusconi nel secondo grado del processo Ruby ha gettato nello sconforto la procura di Milano. O almeno parte della procura, che sulla vittoria del Cav ufficialmente non commenta, anche se tra i corridoi di palazzo di Giustizia si parla soltanto di quello. E se ne parla anche nella mailing list di categoria, con toni molto, molto accesi. Infatti il fronte uscito con le ossa rotte dalla sentenza, ossia quello che fa riferimento alla grande accusatrice Ilda Boccassini e al suo "capo", Edmondo Bruti Liberati, è partito un missile diretto contro il Consiglio superiore della magistratura. L'accusa rivolta all'organo di autocontrollo delle toghe è quella di aver indebolito il pool di Milano alla vigilia della sentenza, avviando il procedimento disciplinare contro Boccassini e Bruti in seguito agli esposti presentati da Alfredo Robledo. Botta e risposta - Un'accusa che viene accolta con sdegno dal fronte opposto. Portavoce dei malumori è Armando Spataro, nuovo procuratore di Torino, da sempre in aspra antitesi con Ilda la rossa. Ad innescare la sua rabbia non solo la mailing list, ma anche un articolo comparso su Repubblica in cui, citando fonti anonime, si scriveva della tesi complottista: "Chi sta con Bruti e Boccassini - scriveva il quotidiano diretto da Ezio Mauro - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata (la sanzione disciplinare, ndr) se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby". Durissimo il commento di Spataro: "Penso che quell'affermazione sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm sia ai componenti della Corte di Milano che hanno emesso la sentenza". Orecchie che soffiano - Una dura replica, quella di Spataro, palesemente rivolta all'entourage-Boccassini, se non a Ilda la rossa stessa. La giornalista di Repubblica - che, come detto, citava fonti anonime - chiamata in causa da Spataro non ha però voluto rivelare da chi arrivasse la soffiata complottista. Una circostanza che ha fatto ulteriormente inalberare Spataro, che ha messo nuovamente nel mirino la parte della Procura che getta fango sul Csm: "Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi, diversi da loro, possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!", chiosa Spataro. E alla Boccassini, che vive probabilmente il momento più difficile della sua carriera, soffiano le orecchie...

Effetto Ruby: in Procura volano gli stracci tra pm. Violento scambio di mail al vetriolo, Spataro contro la Boccassini e Repubblica, scrive Luca Fazzo su “Il Giornale”. Inevitabilmente, la «botta» della sentenza Ruby fa sentire i suoi effetti anche all'interno della magistratura. Nessuna dichiarazione ufficiale: ma nei corridoi degli uffici giudiziari (a Milano, e non solo) le toghe non parlano che della clamorosa assoluzione in appello di Berlusconi. E se ne parla con franchezza quasi brutale anche all'interno delle mailing list interne alla categoria. Dal fronte uscito sconfitto dal processo (l'asse tra Ilda Boccassini e il capo della Procura, Edmondo Bruti Liberati) parte un siluro contro il Consiglio superiore della magistratura, che viene accusato di avere indebolito - avviando il procedimento disciplinare contro la Boccassini e Bruti poco prima della sentenza Ruby -la procura milanese, per rendere possibile l'assoluzione del Cavaliere. Accusa pesante. Dal fronte opposto si risponde con altrettanta asprezza. Insomma: volano gli stracci. A lanciare l'attacco è il nuovo procuratore di Torino, Armando Spataro, che da sempre mal sopporta la Boccassini. Il giorno dopo della sentenza, legge su Repubblica un articolo che citando fonti anonime ma immaginabili della Procura di Milano lancia la tesi del complotto: «Chi sta con Bruti e Boccassini - scrive il quotidiano - è convinto che a Roma non sarebbe andata come è andata - gli atti per entrambi ai titolari dell'azione disciplinare - se non ci fosse stata la voglia di colpire Milano proprio alla vigilia della sentenza Ruby». Spataro si infuria, scrive all'autrice che «già la tecnica dell'anonimo è fortemente criticabile specie in relazione a fatti così importanti», e poi attacca: «Autorizzo a girare questo mio commento all'anonimo o agli anonimi: penso che quell'affermazione (che tra l'altro allude alla permeabilità dei componenti il collegio che ha assolto B.) sia semplicemente ridicola, forse più della teoria che vuole le Twin Towers abbattute dalla Cia. La mia solidarietà dunque per queste anonime offese sia a tutti i componenti del Csm (comunque abbiano votato) sia ai componenti della Corte d'appello di Milano che ha emesso la sentenza».Chiamata in causa da Spataro, la giornalista di Repubblica rifiuta di indicare le sue fonti: «Rivendico il diritto, soprattutto in tempi di azioni disciplinari facili, di riprodurre un virgolettato anonimo in un articolo». Spataro si arrabbia ancora di più: ed è chiaro che nel mirino più di Repubblica sono i suoi contatti all'interno della Procura di Milano. «Quando certi politici parlavano di giustizia a orologeria noi potevamo denunciarne la strumentale aggressione. Ma sempre noi - diversi da loro - possiamo definire ad orologeria le decisioni del Csm. Da non crederci!». Accanto a Spataro scende in campo uno dei membri del Csm che ha deciso l'esito del «caso Milano», Paolo Carfì: che pure fu giudice del processo intentato dalla Boccassini a Cesare Previti, e accolse in pieno le sue tesi. Ma stavolta prende di petto la faccenda: spiega di sperare che la ricostruzione di Repubblica sia frutto di «una qualche incomprensione tra l'articolista e gli anonimi magistrati della Procura di Milano», ma poi aggiunge che in caso contrario «bisognerebbe concludere che c'è negli uffici giudiziari di Milano chi ritiene che la sentenza di assoluzione di Berlusconi non sia stata assunta in piena libertà dal collegio giudicante e che tra il Csm e la Corte d'appello di Milano sarebbe intercorso un filo rosso avente per fine ultimo la normalizzazione degli uffici giudiziari milanesi, in primis la Procura della Repubblica. Il che prima che offensivo è incredibilmente ridicolo». Dopodiché Carfì si spinge ancora più in là, e se la prende anche con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, che nel pieno della discussione al Csm del «caso Milano» era intervenuto con una lettera in aperta difesa di Bruti Liberati: «Certo non ha aiutato il tutto sommato inutile (rispetto alla materia del contendere) messaggio del presidente della Repubblica e la gestione che del medesimo se n'è fatta». A togliersi un sassolino contro la Boccassini è anche Ferdinando Pomarici, grande vecchio della procura milanese: che affronta direttamente il tema per cui la Boccassini è finita sotto procedimento disciplinare, ovvero il pervicace rifiuto di fare circolare le notizie all'interno del pool antimafia e di comunicare le indagini alla Dna, la Procura nazionale antimafia. Il magistrato della Dna che aveva accusato la Boccassini, Filippo Spiezia, ha dovuto lasciare il posto dopo la furibonda reazione della dottoressa. E al suo posto a tenere i rapporti con Milano è arrivata Anna Canepa, leader di Magistratura Democratica e buona amica di Ilda. Al Csm, la Canepa, la Boccassini e Bruti Liberati hanno cercato di spiegare che a Milano va tutto bene, e che comunque una certa riservatezza fa parte delle tradizioni del pool antimafia meneghino. Ma Pomarici, che era capo dell'antimafia appena prima della Boccassini, insorge con una mail: «Per debito di verità, essendomi già doluto con Anna Canepa della rappresentazione non corretta della situazione, contesto assolutamente che sotto la mia gestione ci fossero delle criticità nell'inserimento dei dati per quanto concerne la Dda di Milano. Ignoro, e non mi interessa sapere, quale sia la situazione attuale, ma le mie disposizioni puntualmente attuate erano univoche: tutte le informative della polizia giudiziaria con i relativi seguiti, tutte le richieste di misure cautelari, tutte le relative ordinanze, tutte le sentenze di primo grado sono state inserite in banca dati e in tempo reale e trasmesse alla Dna. Chi riferisce di cose diverse afferma il falso, e viene da chiedersi il motivo. Ed eguale circolazione di informazioni è stata ovviamente assicurata all'interno della dea i cui magistrati ricevevano semestralmente relazione completa su tutte le indagini assegnate agli altri colleghi sul loro sviluppo e su tutti i nomi delle persone sottoposte a indagini». Esattamente ciò che la Boccassini è accusata ora di non avere fatto, e perciò rischia il procedimento disciplinare.

Il Cav? Critico condanna e assoluzione”, scrive Antonio Di Pietro (Già magistrato ed ora contadino) su “Il Garantista”. Le sentenze si rispettano sempre, sia quando piacciono che quando non piacciono, e a me francamente non piace né la sentenza di Appello che ha assolto Berlusconi per la vicenda Ruby, né la sentenza di primo grado che invece per gli stessi fatti lo aveva condannato a 7 anni di carcere. Ripeto, le sentenze vanno sempre rispettate e anche io stavolta mi atterrò a questo sacro principio. Le sentenze però possono essere serenamente commentate (pur rispettando i giudici, gli accusati e gli accusatori). Ciò premesso, a me pare che ci siano state due forzature di troppo: in primo grado aver condannato Berlusconi anche per “concussione per costrizione” ed in Appello averlo assolto anche per il reato di “prostituzione minorile”. Ma andiamo con ordine ed innanzitutto riassumiamo la vicenda. La procura della Repubblica di Milano, in relazione alla vicenda Ruby, aveva accusato Berlusconi di due specifici reati: quello di aver avuto rapporti sessuali con la minorenne Karima-Ruby El Marhouh (Ruby Rubacuori, appunto) punito dall’art. 600 bis del codice penale con la pena da uno a sei anni di reclusione e quello di concussione per costrizione punito dall’art. 317 del codice penale con la pena da sei a dodici anni di reclusione, per avere egli – nella sua qualità, all’epoca dei fatti, di presidente del Consiglio in carica – abusato di tale sua qualità per “costringere” il capo di Gabinetto della Questura di Milano, Pietro Ostuni, a far rilasciare la predetta Ruby (che, nel frattempo, era stata portata in questura dagli agenti di polizia ed ivi trattenuta per accertamenti) sostenendo che, altrimenti, sarebbe successa una diatriba internazionale in quanto la predetta era imparentata con l’allora presidente egiziano Hosni Mubarak (mentre invece, nella realtà era ed è una cittadina marocchina che nulla aveva a che vedere con l’Egitto). Ebbene, i giudici di primo grado hanno riconosciuto Berlusconi colpevole di entrambi i reati, ritenendo provato sia che Berlusconi fosse perfettamente al corrente che la signorina Ruby fosse minorenne (e quindi aveva il dovere di non avere rapporti sessuali con lei perché appunto la legge vieta ai maggiorenni di avere rapporti sessuali con minorenni) sia che il funzionario della questura, Ostuni, fosse stato costretto ad assecondare le richieste del presidente del Consiglio di far uscire dalla questura la signorina Ruby. I giudici di Appello, invece, hanno assolto Berlusconi da entrambi i reati, sebbene con motivazioni diverse. Egli infatti è stato assolto dall’accusa di concussione “perché il fatto non sussiste” e dall’accusa di prostituzione minorile “perché il fatto non costituisce reato”. Assoluzione che ho così tradotto “in dipietrese” a mia sorella Concetta che – qui a Montenero dove mi trovo – me ne ha appena chiesto spiegazione: i giudici di Appello hanno assolto Berlusconi dall’accusa di concussione perché Ostuni non era e non può essere considerato alla stregua di un “povero Cristo” che – siccome gli telefona il presidente del Consiglio – si impaurisce a tal punto da non potergli “resistere” e quindi da non potergli dire che Ruby non era e non poteva essere affatto parente di Mubarak e soprattutto che non poteva essere rilasciata nell’immediatezza in quanto anche nei suoi confronti dovevano essere effettuati gli accertamenti di rito che ogni ufficio stranieri di ogni questura d’Italia ha l’obbligo di svolgere in casi del genere. Insomma, ai giudici di Appello potrebbe essere sembrato più plausibile che il dottor Ostuni si sia volontariamente adeguato alle richieste di Berlusconi, pur essendo le stesse improprie e fuori luogo. Attenzione però: per capire meglio le ragioni per cui i giudici di Appello si sono determinati ad assolvere Berlusconi dobbiamo attendere la pubblicazione delle motivazioni perché non dobbiamo dimenticarci che nel frattempo è intervenuta le legge n. 190 del 6 novembre 2012 con cui è stato di fatto abolito il reato di “concussione per induzione”, reato tipico di chi vuole convincere spintaneamente – si ho scritto “spintaneamente” e non spontaneamente – un pubblico ufficiale a favorirlo, abolizione che è comunque intervenuta a fagiolo per risolvere anche questo caso (come anche il “caso Penati”, in verità). Quindi, e in conclusione, per la Corte di Appello di Milano – mancando un elemento essenziale per la commissione del reato (ovvero la “costrizione”) – il fatto-reato “non sussiste”, vale a dire che è come se non si fosse mai verificato. Berlusconi, però, è stato assolto dall’accusa di prostituzione minorile ma in questo caso non perché “il fatto non sussiste” bensì perché “il fatto non costituisce reato”, vale a dire che – sempre secondo i giudici di Appello – il “fatto” c’è o ci potrebbe essere stato ma non è reato in quanto Berlusconi non aveva avuto la percezione di avere a che fare con una minorenne (anche in questo caso, comunque è bene attendere la pubblicazione della sentenza per capire meglio su quali elementi di fatto i giudici sono arrivati a tale conclusione). Così stando le cose, e tornando all’inizio del mio discorso, ribadisco che a me – pur dovendo rispettare, come rispetto, entrambe le sentenze – nessuna delle due mi convince. Già non mi aveva convinto la sentenza di primo grado e cioè quella che aveva condannato Berlusconi per “concussione per costrizione” ai danni di Ostuni e ciò in quanto a me è sembrato sin dal primo momento più plausibile che tale funzionario della questura di Milano possa aver deciso di sua sponte di assecondare Berlusconi o quanto meno possa esservi stato “indotto” dal fatto che stava parlando con il presidente del Consiglio in persona ma in tal caso – come abbiamo sopra precisato – tale tipo di reato era stato nel frattempo abolito dalle legge n. 190 del 2012 (che fortunata coincidenza, eh!!!). Comunque per me – per come sono fatto io e per come mi sono sempre comportato – avrei preferito che il funzionario della questura avesse reagito come dovrebbe reagire sempre un pubblico ufficiale “con le palle” (scusate il termine), resistendo a qualsiasi pressione esterna, fosse pure del presidente del Consiglio!!! Bene quindi hanno fatto i giudici di Appello a rivedere questo passaggio della sentenza di primo grado, anche se, forse poteva essere meglio esplorata la figura processuale del nuovo reato pure introdotto dalla legge n. 190/12 (istigazione alla corruzione) e comunque attendiamo di leggere come si esprimeranno in relazione all’abolito reato di “concussione per induzione”. Parimenti non mi convince neanche l’assoluzione che in Appello i giudici hanno riconosciuto a Berlusconi per il reato di prostituzione minorile e ciò perché non vedo la ragione per cui costui si sia dato tanto da fare quella notte per far uscire dalla Questura la ragazzina Ruby Rubacuori e farla affidare addirittura alle cure della nota Nicole Minetti se non perché poteva sapere che la ragazza era minorenne e quindi poteva metterlo nei guai. Ma comunque, ripeto, le sentenze si rispettano ed io ho voluto esprimere le mie riserve, solo per far sapere come la penso e non già per pretendere di giudicare gli altri. Per il resto chi vivrà vedrà!!!

L’arresto di Galan è la fulminea rivincita del partito dei magistrati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista” E così ne hanno spedito in prigione un altro. Bravi. Violando la legge, lo spirito della Costituzione, il codice di procedura penale. Prima i magistrati e poi la Camera dei deputati hanno commesso un atto illegale violando i principi della democrazia politica, le leggi della Repubblica e lo Stato di diritto. Non esiste nessuna autorità democratica in grado di mettere un argine a questo sopruso. Ed è esattamente questo che fa impazzire di rabbia. Anche un po’ di paura. La consapevolezza che le istituzioni non si possono opporre a una violenza illegale, perché le istituzione, tutte o in parte, sono le autrici di questa violenza. La magistratura ha deciso consapevolmente di chiedere l’arresto di una persona, in spregio dell’articolo 275 del codice di procedura. I magistrati sono pienamente consci dell’illegalità che compiono, ma sanno che nessuna autorità potrà contestargliela, o perché non ha le competenze o semplicemente per viltà. La Camera dei deputati ha mostrato senza neppure cercare di mascherarsi la sua viltà. Il Csm non interverrà. Né interverrà il ministro della Giustizia, che anzi ha votato a favore del sopruso. Diceva Manzoni che se uno il coraggio non ce l’ha non può darselo. Galan, seppure in gravi condizioni di salute, andrà in carcere, in barella, e questo atto sarà simbolicamente il grido d’accusa contro la vigliaccheria e l’ignoranza del nostro sistema politico. E il nostro sistema politico resterà schiacciato dall’atto di sottomissione, dall’umiliazione accettata con spirito lieve, ieri, nei confronti e da parte della magistratura, anzi – per essere più precisi – della corporazione dei Pm. E adesso? Ricomincia la partita che ha per posta la riforma della giustizia. Ma ricomincia in condizioni del tutto rovesciate rispetto a due giorni fa. L’assoluzione piena di Silvio Berlusconi, nel processo Ruby, e la conseguente delegittimazione del partito dei Pm appoggiato dalla grande stampa legalitaria (Repubblica, Il Fatto e tanti altri) poteva aprire uno spiraglio e rendere più sereno il clima nel quale ci si apprestava ad affrontare lo scoglio della riforma della giustizia. Ma il partito dei Pm, bisogna riconoscerlo, ha dimostrato di avere forza morale, coraggio e intelligenza infinitamente superiori rispetto al mondo politico. In due giorni è riuscito ad annullare gli effetti politici della sentenza Ruby e a ristabilire una posizione nettissimamente di forza. Prima con l’attacco feroce alla politica e alla democrazia del Pm di Palermo Di Matteo, che ha chiamato i giudici ad una azione compatta e sovversiva – la famosa sovversione delle classi dirigenti: vi ricordate Gramsci? Però ora non sono più classi, come immaginava lui, sono corporazioni, o caste, o gruppi di potere – una azione di sbarramento che impedisca la riforma e che avvii anzi una controriforma, per permettere una ulteriore riduzione dello Stato di diritto. Il partito dei Pm questo vuole, e lo dichiara: niente separazione delle carriere, niente responsabilità e punibilità dei giudici, niente revisione dell’obbligatorietà dell’azione penale, niente riduzione del carcere preventivo e delle intercettazioni, ma invece due drastiche misure: abolizione dell’appello e allungamento sine die della prescrizione. Di conseguenza aumento smisurato del potere dei magistrati, e soprattutto dell’accusa, riduzione degli spazi della difesa e quasi annullamento dei diritti del sospettato e poi dell’imputato. Ci spiace dirlo, senza lasciare neppure una lucetta accesa: i giudici ieri hanno vinto la partita.

Divisioni e sconfitte. L'anno terribile della Procura di Milano. La guerra intestina tra Robledo e Bruti, i difficili rapporti tra Ilda Boccassini e la Dna.  Così si è rotto un equilibrio che sembrava perfetto, scrive Giuseppe Vespo su “L’Unità”. Un anno fa oggi la procura di Milano incassava la seconda sentenza di condanna sul caso Ruby, quella a carico del trio Fede, Mora, Minetti. Un anno fa oggi nessuno avrebbe immaginato che il 2014 sarebbe stato così travagliato per i pm guidati da Edmondo Bruti Liberati. Invece l’equilibrio si è rotto, e alcuni dei commenti all’assoluzione Berlusconi lo ricordano senza appello. «La disfatta della procura», come si è affrettato a titolare l’ex fedelissimo Fabrizio Cicchitto, è solo l’ultimo di una serie di risultati negativi per i pm milanesi. Non certo dal punto di vista della produttività investigativa - basti ricordare i colpi inflitti alla corruzione, alla criminalità organizzata e le inchieste su Expo - quanto da quello dell’immagine. E non è poco in un Paese che da oltre venti anni si trova spesso diviso in due fazioni, pro e contro i magistrati. In questi mesi agli attacchi esterni si sono aggiunti i veleni interni all’ufficio. Alle notizie sulle indagini si sono affiancate quelle su chi le indagini le conduceva: esposti, lettere, audizioni al Csm e comportamenti affidati al vaglio dei cosiddetti titolari delle azioni disciplinari nei confronti dei togati. La «guerra» intestina è scoppiata a marzo con il primo esposto del procuratore aggiunto Alfredo Robledo nei confronti del procuratore Capo Bruti Liberati. Il titolare del pool che indaga sui reati contro la pubblica amministrazione attacca il suo capo per i metodi usati nell’assegnazione dei fascicoli d’indagine. Bruti Liberati, in sostanza, avrebbe preferito affidare ad altri pm inchieste che per competenza spetterebbero a Robledo. La notizia svela le frizioni interne all’ufficio e scatena una serie di reazioni a catena che hanno quasi messo a rischio alcune inchieste. L’ultima è arrivata con la bocciatura da parte del Consiglio Giudiziario milanese della «area omogenea Expo», l’unità organizzativa con la quale il procuratore capo si assegna l’esclusivo e diretto coordinamento di tutte le indagini che riguardano l’evento. Mentre gli atti sulla «scarsa collaborazione» tra Ilda Boccasini, capo della Dda, e la Direzione nazionale antimafia, finiscono al pg di Cassazione e al ministro della Giustizia, titolari dell’azione disciplinare. La sentenza di assoluzione di Berlusconi dal caso Ruby arriva dunque in un momento poco felice per la procura, che aspetta di sapere se sarà ancora guidata dallo stesso capo o se ne arriverà uno nuovo. Il procuratore è in scadenza e si è candidato per un nuovo mandato. A questo proposito, dieci giorni fa Bruti Liberati ha scritto una lettera ai suoi pm: «A dispetto di qualche piccola, circoscritta polemica degli ultimissimi mesi - si legge - l’apprezzamento per l’opera della procura di Milano nel quadriennio corso è stato ampio e condiviso e il prestigio indiscusso». «Ma ciò che rileva - continua - sono i riscontri ottenuti a livello di giudizio, in termini di accoglimento delle richieste e dei tempi di definizione». Spetterà al Csm decidere sulla riconferma. una vittoria ai mondiali Ma intanto chi paga i danni subiti da Berlusconi per quella che adesso viene definita «un’autentica operazione non solo giudiziaria ma anche politica e mediatica»? Dietro questa domanda si ricompatta non solo Forza Italia, ma tutto il centro destra. L’attacco ai magistrati ritorna con «la disfatta della Procura di Milano e in primo luogo - aggiunge Cicchitto - sia di Bruti Liberati che della Boccassini, che hanno gestito questo processo in una chiave addirittura unilaterale ed esclusiva». Brunetta, capo gruppo di Fi alla Camera, vuole una commissione parlamentare d’inchiesta sulla caduta dell’ultimo governo Berlusconi, causata «anche grazie a questo fango». Mentre Micaela Biancofiore chiede che «i pm e i giudici di primo grado che hanno diffamato Berlusconi, a quel tempo presidente del Consiglio e dunque gettato fango internazionalmente sull’Italia intera, dovrebbero dimettersi spontaneamente lasciando spazio alla maggioranza della magistratura italiana, quella maggioritaria, indipendente, autonoma e terza». E così via, nelle parole degli altri parlamentari di centro destra è tutto un susseguirsi di bordate contro il quarto piano del palazzo di Giustizia di Milano: «Verità e giustizia», fine di «un accanimento senza precedenti», «milioni di euro spesi per il processo». Sollecitato sulla «sconfitta della procura di Milano», uno dei legali di Silvio Berlusconi, il professor Franco Coppi - che insieme all’avvocato Filippo Dinacci ha difeso l’ex premier nel processo d’Appello - dice: «Non ho mai considerato il processo penale come una specie di gara sportiva tra chi vince e chi perde». In molti invece lo considerano proprio così. C’è addirittura chi esulta, come il senatore siciliano e forzista Vincenzo Gibiino, «come se l’Italia avesse vinto i mondiali».

La toga rossa ammette: i giudici fanno quello che vogliono, scrive di Cristiana Lodi su “Libero Quotidiano”. La sintesi è che i giudici fanno quello che vogliono. Perché hanno margini di discrezionalità sconfinati nella ricostruzione e nella valutazione dei fatti. Perché anche le possibilità d’interpretazione delle norme non conoscono limiti. Perché in Tribunale il clima è cambiato (o forse è tornato ancora più uguale a quello di un tempo), nel senso che il principio dell’uguaglianza di tutti (deboli e forti) davanti alla legge, di fatto, non esiste. O, di fatto, non è proprio mai esistito. La sintesi che noi riportiamo, non l’ha esposta un individuo qualunque, ma una toga. Un magistrato che di nome fa Livio Pepino, membro del Consiglio superiore della magistratura (l’organo di autogoverno dei giudici) dal 2006 al 2010, ex sostituto procuratore generale a Torino. E presidente di Magistratura democratica. Dunque una toga rossa, anche. In un articolo pubblicato ieri sul giornale comunista il Manifesto, Livio Pepino spiega come la sentenza Ruby che assolve Silvio Berlusconi dai reati di concussione per costrizione e prostituzione minorile, sia la prova provata che i giudici - anche i più irreprensibili e convinti di agire in piena indipendenza - alla fine fanno quello che vogliono. Questo con buona pace dei giornalisti vari o dei sostenitori della giurisdizione, i quali si sono sprecati nel giudicare, considerare e spiegare l’assoluzione dell’ex capo del governo come «una conseguenza (quasi) obbligata della modifica del delitto di concussione operata con la cosiddetta legge Severino (in realtà, precedente alla sentenza di primo grado)». Ma vi pare? Tempo buttato cimentarsi in simili esercizi interpretativi. Perché, scrive il magistrato, «come sempre le ragioni di una decisione sono molte, ma certo le principali stanno non nelle modifiche legislative bensì nelle scelte dei giudici». Che fanno quel che gli gira in quel momento. «E l’esercizio di tale discrezionalità risente del clima in cui essi stessi operano». Con una disinvoltura che ricorda, dice ancora il giudice Pepino, il caso dell’ex ministro Scajola: «Accusato di avere ottenuto un illecito finanziamento mediante il pagamento di parte cospicua del prezzo di acquisto di un prestigioso alloggio romano e assolto in primo grado per essere tale pagamento avvenuto “a sua insaputa”». Come contraddirlo? Difficile. Così com’è complicato sostenere che il magistrato ha torto quando afferma che «mai» si è visto un pubblico ufficiale macchiarsi del reato di concussione per costrizione perché ha usato la minaccia di una pistola puntata alla tempia del concusso. Anche se, aggiungiamo noi, non lo ha certo inventato il prete che l’elemento costitutivo del delitto di concussione, dal quale Berlusconi viene assolto dalla Corte d’Appello, è proprio la minaccia grave ed esplicita (come ad esempio quella con armi). Le interpretazioni giuridiche, in tal caso possono sì essere infinite e lasciare gran margine di decisione ai giudici, ma se la minaccia grave non esiste, diventa improbabile inventarla. Perfino quando l’imputato si chiama Berlusconi Silvio, giudicato a Milano. Il quadro nei tribunali «è mutato», insiste Livio Pepino, «una fase si sta chiudendo. Accade quotidianamente. In forza del nuovo/antico ruolo attribuito alla giurisdizione si divaricano le regole di giudizio adottate nei processi contro i “briganti” (poveri o ribelli che siano) e in quelli contro i “galantuomini”: qui il canone probatorio del “non poteva non sapere” di Scajola è sacrilegio; là è regola». Dunque nessuno è uguale davanti alla legge. E i giudici decidono quel che loro garba. Ergo: fanno quello che vogliono. E se a dirlo è una toga. Per di più rossa...

GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.

Non solo Milano. Tribunale di Taranto. Guerra di toghe.

Cosa è che l’Italia dovrebbe sapere e che la stampa tarantina tace?

«Se corrispondesse al vero la metà di quanto si dice, qui parliamo di fatti gravissimi impunemente taciuti», commenta Antonio Giangrande, autore del libro “Tutto su Taranto, quello che non si osa dire”, pubblicato su Amazon.

Mio malgrado ho trattato il caso dell’ex Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, Matteo Di Giorgio, così come altri casi della città di Taranto. Questioni che la stampa locale ha badato bene di non affrontare. Prima che iniziassero le sue traversie giudiziarie consideravo il dr. Matteo Di Giorgio uno dei tanti magistrati a me ostile. Ne è prova alcune richieste di archiviazione su mie denunce penali. Dopo il suo arresto ho voluto approfondire la questione ed ho seguito in video la sua conferenza stampa, in cui esplicava la sua posizione nella vicenda giudiziaria, che fino a quel momento non aveva avuto considerazione sui media. Il contenuto del video è stato da me tradotto fedelmente in testo. Sia il video, sia il testo, sono stati pubblicati sui miei canali informativi. Il seguito è fatto noto: per Matteo Di Giorgio quindici anni di reclusione per concussione e corruzione semplice. Tre in più rispetto ai dodici chiesti dal pubblico ministero. Il Tribunale di Potenza  (presidente Gubitosi), competente a trattare procedimenti in cui sono coinvolti magistrati in servizio presso la Corte d’appello di Lecce, ha inoltre inflitto la pena di tre anni di reclusione all’ex sindaco di Castellaneta (Taranto) Italo D’Alessandro e all’ex collaboratore di quest’ultimo, Agostino Pepe; 3 anni e 6 mesi a Giovanni Coccioli, 2 anni a Francesco Perrone, comandante dei vigili urbani a Castellaneta, 2 anni ad Antonio Vitale e 8 mesi ad un imputato accusato di diffamazione.

L'ex pm Di Giorgio, sospeso cautelativamente dal Csm, fu arrestato e posto ai domiciliari nel novembre del 2010. Le contestazioni riguardano presunte minacce in ambito politico e ai danni di un imprenditore, altre per proteggere un parente, e azioni dirette a garantire l’attività di un bar ritenuto dall’accusa completamente abusivo. Il Tribunale di Potenza ha inoltre disposto la trasmissione degli atti alla procura per valutare la posizione di diversi testimoni in ordine al reato di falsa testimonianza. Tra questi vi sono l’ex procuratore di Taranto Aldo Petrucci e l’attuale procuratore aggiunto di Taranto Pietro Argentino. Complessivamente il Tribunale di Potenza ha trasmesso alla procura gli atti relativi alle testimonianze di 21 persone, quasi tutti carabinieri e poliziotti. Tra questi l’ex vicequestore della polizia di Stato Michelangelo Giusti.

Eppure Pietro Argentino è il numero due della procura di Taranto. È il procuratore aggiunto che ha firmato, insieme ad altri colleghi, la richiesta di rinvio a giudizio per i vertici dell’Ilva ed altri 50 imputati.

Pietro Argentino è il pubblico Ministero che con Mariano Buccoliero ha tenuto il collegio accusatorio nei confronti degli imputati del delitto di Sarah Scazzi ad Avetrana.

Possibile che sia un bugiardo?  I dubbi mi han portato a fare delle ricerche e scoprire cosa ci fosse sotto. Ed è sconcertante quello che ho trovato. La questione è delicata. Per dovere-diritto di cronaca, però, non posso esimermi  dal riportare un fatto pubblico, di interesse pubblico, vero (salvo smentite) e continente. Un fatto pubblicato da altre fonti e non posto sotto sequestro giudiziario preventivo, in seguito a querela. Un fatto a cui è doveroso, contro censura ed omertà, dare rilevanza nazionale, tramite i miei 1500 contati redazionali.

«Come volevasi dimostrare nessuno dei giornali italiani nazionali o locali ha più parlato dopo il primo maggio 2014 dei quindici anni di galera inflitti al Magistrato di Taranto Matteo Di Giorgio e dell’incriminazione per falsa testimonianza inflitta al Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino - scrive Michele Imperio -. Ma “La Notte” no. “La Notte” non ci sta a questa non informazione o a questa disinformazione. Quando assunsi la direzione di questo glorioso giornale, che ora sta per riuscire nella sua versione cartacea, dissi che avremmo sempre raccontato ai nostri lettori tutta la verità, solo la verità, null’altro che la verità e avremmo quindi sfidato tutte le distorsioni giornalistiche altrui, tutti i silenzi stampa, tutti i veti incrociati dei segmenti peggiori del potere politico. Strano cambiamento. Sarà stata l’aspirazione di candidarsi Presidente della Provincia di Taranto per il centro-destra, maturata nel 2008. Ancora alcuni anni fa infatti il giudice Matteo Di Giorgio era ritenuto il più affidabile sostituto procuratore della Repubblica della Procura della Repubblica di Taranto, tanto da essere insignito della prestigiosa carica di delegato su Taranto della Procura Distrettuale Antimafia di Lecce. Subì perfino un attentato alla persona per il suo alacre impegno contro il crimine organizzato. Sette capi di imputazione! Però sin poco dopo il mandato di cattura tutti hanno capito subito che qualcosa non andava in quel processo, perché in sede di giudizio sul riesame di quei capi di imputazione la Corte di Cassazione ne aveva annullati ben tre (censure che la Cassazione, in sede di riesame, non muove praticamente mai!) e il resto della motivazione della Cassazione sembrava un’invocazione rivolta ai giudici di marito: Non posso entrare nel merito – diceva la Cassazione – ma siete sicuri che state facendo bene? Tutti i commenti della Rete su questo caso sono stati estremamente critici, quanto meno allarmati. Invece i vari giornali locali, dopo aver dato la notizia il giorno dopo, non ne hanno parlato più. Scrive invece sulla Rete – per esempio – il prof. Mario Guadagnolo, già sindaco di Taranto dal 1985 al 1990: “Premetto che io – scrive (Guadagnolo) – non conosco il dott. Di Giorgio nè ho alcuna simpatia per certi magistrati che anzichè amministrare la giustizia la usano per obbiettivi politici. Ma 15 anni sono troppi se paragonati ai 15 anni di Erika e Omar che hanno massacrato con sessanta pugnalate la madre e il fratellino di sette anni o con i 15 anni comminati alla Franzoni che ha massacrato il figlioletto Samuele. Qui c’è qualcosa che non funziona. Non so cosa ma è certo che c’è qualcosa che non funziona”. Trovo molto singolare che il Procuratore Aggiunto di Taranto Pietro Argentino sarà incriminato di falsa testimonianza a seguito del processo intentato contro il dott. Matteo Di Giorgio - scrive ancora l’avv. Michele Imperio su “Tarastv” e su “La Notte on line” -  A parte la stima che tutti riservano per la persona, il dott. Pietro Argentino aveva presentato al CSM domanda per essere nominato Procuratore Capo proprio della Procura di Potenza e il CSM tiene congelata questa delicata nomina da diversi anni. L'attuale Procuratore Capo di Potenza Laura Triassi è solo un facente funzioni e sicuramente anche lei aspirerà alla carica. Certamente questa denuncia terrà bloccata per molti anni una eventuale nomina del dott. Pietro Argentino a Procuratore Capo di una qualsiasi Procura. La sua carriera è stata quindi stroncata. Laura Triassi è inoltre sorella di Maria Triassi, professoressa dell'università di Napoli la quale fu incaricata della perizia epidemiologica nel processo Ilva dal noto Magistrato Patrizia Todisco, la quale è lo stesso Magistrato che già aveva denunciato alla Procura della Repubblica di Potenza il collega Giuseppe Tommasino, poi assolto e che aveva invece lei stessa assolto dal reato di concorso esterno in associazione a delinquere il noto pregiudicato A. F., mandante - fra l'altro - di un grave attentato dinamitardo a sfondo politico, che poteva provocare una strage. Il conflitto Di Giorgio-Loreto lo conosciamo già. Ma di un altro conflitto che sta dietro questo processo non ha parlato mai nessuno. Alludiamo al conflitto Di Giorgio-Fitto. Se infatti il dott. Matteo Di Giorgio fosse stato nominato presidente della provincia di Taranto sarebbero saltati per aria tanti strani equilibri che stanno molto cari all'on.le Fitto e non solo a lui. Inoltre trovo molto strano che l'on.le Raffaele Fitto, il quale fa parte di un partito molto critico nei confronti di certe iniziative giudiziarie, quanto meno esagerate, non abbia mai detto una sola parola su questa vicenda, che vedeva peraltro coinvolto un Magistrato dell'area di centro-destra. Come pure non una sola parola, a parte quelle dopo l'arresto, è stata mai detta sulla vicenda dall'attuale Procuratore Capo della Repubblica di Taranto dott. Franco Sebastio. E nel processo sulla malasanità di Bari compaiono intercettazioni telefoniche fra il dott. Sebastio e il consigliere regionale dell'area del P.D. ostile al sindaco di Bari Michele Emiliano, Michele Mazzarano, nel corso delle quali il dott. Sebastio esprimeva sfavore per la nomina a Procuratore Aggiunto del dott. Pietro Argentino. Nel corso di una dichiarazione pubblica il dott. Sebastio espresse invece, in modo del tutto sorprendente, soddisfazione per l'arresto del dott. Matteo Di Giorgio e disse che auspicava che anche un secondo Magistrato fosse stato allontanato dalla Procura della Repubblica di Taranto (Argentino?). Ora, guarda un pò, anche il dott. Argentino potrebbe essere sospeso dalle funzioni o trasferito di sede....Ciò che è accaduto al Tribunale di Potenza è, quindi, come ben comprenderete, un fatto di una gravità inaudita e sottintende un conflitto fra Magistrati per gestioni politiche di casi giudiziari, promozioni e incarichi apicali, mai arrivato a questi livelli. Voglio fare alcune premesse utili perchè il lettore capisca che cosa c’è sotto. Sia a Taranto che a Potenza, patria di Angelo Sanza, sottosegretario ai servizi segreti quando un parte del Sisde voleva assassinare Giovanni Falcone e un’altra parte del Sisde non era d’accordo (e lui da che parte stava?), come forse anche in altre città d’Italia, opera da decenni una centrale dei servizi segreti cosiddetti deviati in realtà atlantisti, che condiziona anche gli apparati giudiziari e finanche quelli politici della città. Di sinistra. Così pure altra sede dei servizi segreti atlantisti questa volta di destra, opera a Brindisi. La sezione di Taranto in particolare appartiene sicuramente a quell’area politica che Nino Galloni avrebbe chiamato della Sinistra politica democristiana cioè una delle tre correnti democristiane, in cui si ripartiva la vecchia Sinistra Democristiana che erano – lo ricordo a me stesso – la Sinistra sociale capeggiata dall’on.le Carlo Donat Cattin, il cui figlio è stato suicidato-assassinato; la Sinistra morotea capeggiata dall’on.le Aldo Moro, assassinato, e poi inutilmente e per brevissimo tempo riesumata dal Presidente della Regione Sicilia Piersanti Mattarella, anche lui assassinato; la Sinistra politica capeggiata dai vari De Mita, Mancino, Rognoni, Scalfaro e Prodi, i quali non sono stati mai nemmeno scalfiti da un petardo. Ma torniamo a noi e ai giudici tarantini Pietro Argentino e Matteo Di Giorgio. La cui delegittimazione – per completezza di informazione – è stata preceduta da un’altra clamorosa delegittimazione di un altro Giudice dell’area di centro destra, il capo dei g.i.p. del Tribunale di Taranto Giuseppe Tommasino, fortunatamente conclusasi con un’assoluzione e quindi con un nulla di fatto. Quindi Tommasino, Di Giorgio, Argentino, a Taranto dovremmo cominciare a parlare di un vero e proprio stillicidio di incriminazioni e di delegittimazioni a carico di Magistrati della Procura o del Tribunale non appartenenti all’area della Sinistra Politica Democristiana o altra area alleata, ovvero all’area della Destra neofascista finiana. L’indagine a carico del Dott. Matteo Di Giorgio è durata circa due anni ed è stata condotta da un Maresciallo dei Carabinieri espulso dall’arma e caratterizzata dall’uso di cimici disseminate in tutti gli uffici del Tribunale di Taranto e della Procura. E’ capitato personalmente a me di essere invitato dal giudice Giuseppe Di Sabato, (g.i.p.), un Magistrato che non c’entrava niente con l’inchiesta, di essere invitato a interloquire con lui al bar del Tribunale anziché nel suo ufficio, perchè anche nel suo ufficio c’erano le cimici di Potenza. Ma c’è di più! La Sinistra Politica democristiana vuole diventare a Taranto assolutamente dominante sia in Tribunale che in tutta la città, perché corre voce che due Magistrati, uno della Procura l’altro del G.I.P., resi politicamente forti dalla grande pubblicità e visibilità del processo Ilva, starebbero per passare alla politica, uno come candidato sindaco l’altro come parlamentare, quando sarà.»

Sembra che il cerchio si chiuda con la scelta del Partito democratico caduta su Franco Sebastio, procuratore capo al centro dell’attenzione politica e mediatica per la vicenda Ilva, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”.

Procuratore Sebastio, si può giocare a carte scoperte: il senatore Alberto Maritati alla Gazzetta ha ammesso di averle manifestato l’idea del Partito democratico di averla in lista per il Senato...

«Io conosco il senatore Maritati da tempo, da quando era pretore a Otranto. Siamo amici e c’è un rapporto di affettuosa stima reciproca. Ci siamo trovati a parlare del più e del meno... É stato un discorso scherzoso, non ricordo nemmeno bene i termini della questione».

Quello che può ricordare, però, è che lei ha detto no perché aveva altro da fare...

«Mi sarà capitato di dire, sempre scherzosamente, all’amico e all’ ex collega che forse ora, dopo tanti anni, sto cominciando a fare decentemente il mio lavoro. Come faccio a mettermi a fare un’attività le cui caratteristiche non conosco e che per essere svolta richiede qualità elevate ed altrettanto elevate capacità? É stato solo un discorso molto cordiale, erano quasi battute. Sa una cosa? La vita è così triste che se non cerchiamo, per quanto possibile, di sdrammatizzare un poco le questioni, diventa davvero difficile».

«Candidare il procuratore Franco Sebastio? Sì, è stata un'idea del Partito democratico. Ne ho parlato con lui, ma ha detto che non è il tempo della politica». Il senatore leccese Alberto Maritati, intervistato da Francesco Casula su “La Gazzetta del Mezzogiorno”, conferma così la notizia anticipata dalla Gazzetta qualche settimana fa sull’offerta al magistrato tarantino di un posto in lista per il Senato.

Senatore Maritati, perchè il Pd avrebbe dovuto puntare su Sebastio?

«Beh, guardi, il procuratore è un uomo dello Stato che ha dimostrato sul campo la fedeltà alle istituzioni e non solo ora con l'Ilva. Possiede quei valori che il Pd vuole portare alla massima istituzione che è il Parlamento. Anche il suo no alla nostra idea è un esempio di professionalità e attaccamento al lavoro che non sfocia mai in esibizionismo».

ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.

Riina: "Borsellino era intercettato". Il Capo dei capi parla in carcere: "Sapevamo doveva andare perché le ha detto 'domani mamma vengo'", scrive “La Repubblica”. Riina e il boss Lorusso ripresi in carcere Cosa nostra teneva sotto controllo il telefono del giudice Paolo Borsellino o dei suoi familiari. E' lo stesso Totò Riina, in una conversazione intercettata, a rivelarlo a un compagno di carcere. "Sapevamo che doveva andare là perché lui gli ha detto: 'domani mamma vengo'", racconta il boss, riferendo le parole dette dal magistrato alla madre. "Questa del campanello però è un fenomeno...Questa una volta il Signore l'ha fatta e poi basta. Arriva, suona e scoppia tutto". E' un pezzo della conversazione intercettata in cui il boss Totò Riina, racconta all'uomo con cui trascorre l'ora d'aria in carcere, Alberto Lorusso, che a innescare l'esplosione che uccise Paolo Borsellino fu lo stesso magistrato, suonando al citofono in cui era stato piazzato un telecomando. La conversazione - il cui contenuto era noto, ma non il testo - è stata depositata al processo sulla "trattativa". "Il fatto che è collegato là è un colpo geniale proprio. Perché siccome là era difficile stare sul posto per attivarla... Ma lui l'attiva lo stesso", commenta Lorusso il 29 agosto del 2013. Il boss detenuto racconta di avere cercato di uccidere Borsellino per anni. "Una vita ci ho combattuto - dice - una vita... Là a Marsala (il magistrato lavorava a Marsala ndr)".  "Ma chi glielo dice a lui di andare a suonare?" si chiede Riina. "Ma lui perché non si fa dare le chiavi da sua madre e apre", aggiunge confermando che a innescare l'esplosione sarebbe stato il telecomando piazzato nel citofono dello stabile della madre del magistrato in via D'Amelio. "Minchia - racconta - lui va a suonare a sua madre dove gli abbiamo messo la bomba. Lui va a suonare e si spara la bomba lui stesso. E' troppo forte questa". Secondo gli inquirenti Cosa nostra avrebbe predisposto una sorta di triangolazione: un primo telecomando avrebbe attivato la trasmittente, poi suonando al citofono il magistrato stesso avrebbe inviato alla ricevente, piazzata nell'autobomba, l'impulso che avrebbe innescato l'esplosione. La tecnica, per i magistrati, sarebbe analoga a quella usata per l'attentato al rapido 904 per cui Riina è stato recentemente rinviato a giudizio come mandante. Questo genere di innesco si renderebbe necessario quando è pericoloso o impossibile per chi deve agire restare nei pressi del luogo dell'esplosione.

TANGENTI: CORRUZIONE E COLLUSIONI. LA STORIA SCRITTA DAI VINCITORI.

Saccenti e cattivi. Ecco a voi i sinistroidi.

Virus su Rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se lo dice Peter Gomez, direttore de "Il Fatto Quotidiano", notoriamente giustizialista e manettaro oltre che asservito alla magistratura, è tutto dire.

Con lo Stato dilaga il moralismo. La corruzione è figlia di statalismo e burocrazia, scrive Piero Ostellino su “Il Giornale”. Alcuni lettori si sono indignati perché nell'ultimo Dubbio ho scritto che - vivendo in mezzo agli altri, in una società di relazioni - la segnalazione e la raccomandazione non sono immorali in sé perché rientrano nell'ordine delle cose, nella zona grigia delle relazioni interpersonali. Sono un fatto logicamente connaturato al nostro modo di vivere. Prendersela con i fatti non produce conoscenza e, tanto meno, moralità, ma solo confusione. È una forma di arretratezza culturale che non approda a nulla. Pensavo che inclini al moralismo fossero soprattutto certi lettori del Corriere, fra i quali quelli orientati a sinistra sono probabilmente la maggioranza, che se la prendevano volentieri per quello che scrivevo. Invece, constato che ancora prevalgono forme di moralismo che rifiuta il realismo e c'è chi se la prende con la realtà, rifiutandola e rifugiandosi nelle buone intenzioni, convinto che la realtà dovrebbe essere morale. L'Uomo, ha scritto Kant, «è il legno storto» dal quale non si può pretendere esca qualcosa di dritto. La cultura liberale, a differenza di quella socialista, non pretende di cambiare l'Uomo, di renderlo migliore, ma si limita a governarlo come è. Prendersela con la realtà - che non è immorale in sé - è sciocco, equivale a prendersela con i temporali, perché ci si bagna. Non è un segno di intelligenza - da intelligere: capire - e fa dell'Italia un Paese incapace di agire politicamente, cioè un Paese intimamente arretrato! Se piove, piuttosto che imprecare contro la pioggia, è meglio fornirsi di un ombrello...Invece di indignarsi, i lettori del Giornale e noi stessi, dovremmo chiederci, ad esempio, perché, da noi, come accadeva nei Paesi di socialismo reale, corruzione e clientelismo - che sono (anche) una forma di rimedio contro le rigidità del sistema - siano tanto diffusi. La risposta è semplice. Perché siamo un Paese dove prevalgono statalismo e burocratismo, non prevale il merito, ma prosperano permessi e divieti di ogni genere. Corruzione e clientelismo sono un modo di ovviare agli eccessi burocratici. In una economia libera, di mercato, corruzione e clientelismo hanno poca presa perché non sono convenienti; chi si scontra con l'eccesso di legislazione, di permessi e divieti, si comporta guardando, nel proprio interesse, al merito e difficilmente inclinerebbe verso la corruzione e il clientelismo e/o assumerebbe qualcuno che non abbia la qualifica richiesta dalla domanda del mercato. Ho visto, giorno dopo giorno, crollare l'Unione Sovietica per questa ragione e constato con raccapriccio che l'Italia è avviata sulla stessa strada. Se anche lettori aperti al mercato, come si presume dovrebbero essere quelli del Giornale , invece di pensare realisticamente e politicamente, reagiscono moralisticamente di fronte alla realtà, stiamo freschi! Ho la tendenza, da liberale, ad attribuire allo statalismo e al burocratismo, l'arretratezza di cui soffrono i Paesi socialisti. Mi rendo, però, anche conto che, da noi, non sono solo i socialisti a ragionare in tal modo, ma, in generale, tutti gli italiani in quanto culturalmente eredi del fascismo, che era una forma di dirigismo di destra, e influenzati dal collettivismo, indipendentemente dalla loro collocazione politica. Lo dico, allora, con franchezza. Diamoci tutti una regolata, se non vogliamo fare una brutta fine...

Roma, due milioni l’anno per portare i rom a scuola. Stanziamenti d’oro per gli appetiti delle coop. Ma poi frequenta solo un minore su 20, scrive Mario Valenza su “Il Giornale”. Due milioni di euro per mandare i Roma a scuola. Riparte il business delle cooperative nei campi rom per mandare i bambini a scuola. Con una spesa complessiva di quasi 1 milione di euro, infatti, il Comune di Roma ha affidato a 4 cooperative il compito di attivare nei 6 mesi che verranno (dal 1 marzo al 31 agosto) un percorso di scolarizzazione per 1827 minori residenti in 10 strutture fra campi attrezzati, tollerati e residence. Parliamo, tuttavia, di un progetto che riguarda soltanto l’assistenza all’insegnamento, e non tiene conto dei costi collaterali, come quelli ad esempio legati al trasporto, che fanno parte di un capitolo a parte. Basti pensare che nel 2013 sono stati spesi ben 3.115.509 euro di fondi soltanto per tutto quello che riguarda la scuola. L’appalto per quasi 200mila euro al campo di Castel Romano (364 bambini) è stato preso in carico dalla Arci Solidarietà. Nella struttura divenuta famosa negli ultimi mesi per essere stata creata e gestita per anni dalle cooperative di Salvatore Buzzi, arrestato nell’ambito di Mafia Capitale, nel 2013 la cooperativa. come racconta ilTempo, Arci Solidarietà nel 2013 ha speso ben 654.962 euro per i progetti di scolarizzazione, che rappresentano il 12,2% dei fondi assegnati al campo. La scolarizzazione dovrebbe essere il viatico, in prospettiva, per l’inclusione sociale di queste persone. Ma i progetti finora sono stati fallimentari. Sempre secondo 21 Luglio, il tasso di inclusione è dello 0% in 10 delle 11 strutture esistenti: solo il campo di Candoni, nell’ex XV Municipio, può "vantare" un risultato lievemente superiore, lo 0,8%. Un fallimento inevitabile, guardando il tasso delle frequenze: ad oggi sono iscritti alla scuola dell’obbligo quasi 2.000 minori, ma solo il 5% va alle superiori.

Giuseppe Pagliani: "Ho fatto un convegno contro le coop rosse e mi hanno arrestato", scrive Francesco Specchia su “Libero Quotidiano”. Sembra Detenuto in attesa di giudizio, quel film di Nanni Loy, con Alberto Sordi immerso in un’allucinazione giudiziaria. Ma Giuseppe Pagliani, anni 41, consigliere comunale Pdl di Reggio Emilia, avvocato con quattro studi avviati, politicamente e penalmente intonso da un quarto di secolo, non è Sordi. Quei ventidue -giorni- ventidue di ingiusta detenzione non li ha vissuti sul set. Pagliani è stato strappato, lo scorso fine gennaio, dalla famiglia all’alba, nell’ora degli assassini; l’hanno rinchiuso come un topo nelle galere della civilissima Emilia senza essere mai ascoltato dai magistrati che in quell’inferno l’avevano precipitato; e «senza aver mai capito -lo giuro- il motivo per cui ero stato arrestato». Pagliani, oggi, è stato scarcerato per un errore giudiziario ciclopico, ma senza troppe scuse dalla Procura. Anzi, a dire la verità è stato scarcerato il 19 febbraio scorso; ma oggi sono arrivate le sferzanti motivazioni della sentenza del Tribunale della Libertà di Bologna che doveva giudicare la sua accusa di concorso esterno in associazione mafiosa «semplicemente perchè tre anni fa, in un incontro pubblico, a un ristorante, con i fornitori-creditori delle Coop rosse, tra 60 imprenditori c’erano mescolati degli esponenti della N’drangheta del clan Aracri di cui nulla sapevo e mai più avrei rivisto...» ci racconta Pagliani con la voce mozzata. Da lì, il solito copione. Qualcuno sussurra che quella «consorteria» era il legame con le ’ndrine; e il politico-avvocato entra nel mirino dei piemme, e ci esce in gabbia, con la chiave buttata chissà dove. «Un incubo, sono figlio unico: genitori e fidanzata sono rimasti choccati. Le famiglie dei miei 14 dipendenti erano in stato di trance. In galera senza un perchè, ho cominciato perfino a fare consulenza agli altri detenuti». Per capirci: nella retata a strascico del suo arresto -117 persone, per l’inchiesta Aemilia- finiscono anche incensurati assoluti, con violazione palese del principio della misura della pena. Ci finisce addirittura un signore, tal Oppido, che passava di lì per caso, in cella per una settimana prima di sapere di esser vittima d’una devastante omonimia. «Se non ci fosse stato il riesame, se non facessi l’avvocato, se non avessi vergato sette pagine di memorie per spiegare l’assurdo; be’, ora sarei ancora lì a marcire. Per fortuna c’era il riesame, la cui sentenza pare scritta da me». E la sentenza spiega che, in effetti: «Non possono giudicarsi acquisiti gravi indizi di colpevolezza», stilando con aguzza precisione un documento che è una demolizione completa e definitiva dell’accusa. Sostiene Pagliani: «Nel mio ruolo politico mi sono sempre occupato degli strani affari delle cooperative. Ho attaccato per anni i conflitti d’interesse dell’ex presidente della Provincia Sonia Marini e gli interessi locali della sinistra. Forse ho alzato troppo la cresta...». Forse. Di certo le 1286 lettere e email di solidarità («risponderò a tutte») ricevute, compresa quella ufficiale Pdl a firma Maurizio Gasparri, attestano una patologia. Scene d’ordinaria ingiustizia, giusto alla vigilia di una vaporosa riforma giudiziaria. Secondo l’aggiornatissimo sito Errorigiudiziari.com nel solo 2014 sono state accolte 995 domande di risarcimento per 35,2 milioni di euro, incremento del 41,3 per cento rispetto al 2013. Dal 1991 al 2012 lo Stato per questo motivo ha speso 580 milioni di euro per 23.226 cittadini ingiustamente dietro le sbarre negli ultimi 15 anni. Non è finita qui, per Pagliani. Qualche piemme orgoglioso potrebbe riprende il filo dell’assurdo: «Mi auguro che ci provino. Così saranno sberle anche dalla Cassazione». Dov’eravamo rimasti su quella cosa della responsabilità civile dei magistrati macbethiani, ministro Orlando...?

Tangentopoli: la storia scritta dai vincitori, scrive Tiziana Maiolo su “Il Garantista”. Il 1992 mi evoca subito il numero 41, i quarantuno morti suicidi di Tangentopoli, che non hanno potuto scrivere la Storia per ovvie ragioni, ma anche perché la Storia la scrivono i vincitori, e loro erano i vinti. La storia dei Vinti è rimossa con fastidio, dopo che uno dei Pubblici Ministeri di Milano, Gerardo D’Ambrosio, aveva sentenziato, non senza un certo cinismo: «Evidentemente c’è ancora qualcuno che ha il senso dell’onore». Non un dubbio sul fatto che il circo mediatico-giudiziario del disonore che era stato cucito addosso a colpevoli e innocenti sia stato il vero assassino, che ha colpito con violenza la reputazione e la vita di persone che non avevano nessuna possibilità di difendersi, incarcerati, disorientati e sbeffeggiati. Ma dalla parte dei trionfatori, che in occasione della fiction di Sky invadono ogni angolo del pianeta della comunicazione, la storia è stata raccontata come il puro trionfo del Bene sul Male, un gruppo di magistrati-guerrieri senza macchia in lotta contro una classe politica corrotta che ammorbava l’intera società. Sulla scialuppa degli onesti erano saliti ben presto imprenditori in lacrime, giornalisti-coccodè, uomini politici con le tasche traboccanti di rubli, avvocati-accompagnatori alleati del Pubblici Ministeri. Ma la storia di Tangentopoli potrebbe anche essere raccontata come vera Storia Politica, come vicenda che segnò il trionfo massimo di una giustizia di parte, che ebbe come protagonisti magistrati politicizzati e un eroe tutt’altro che “senza macchia”. Che vide complici con le toghe innanzi tutto quegli imprenditori che avevano ben lucrato sul finanziamento illegale ai partiti, a tutti i partiti, e che mai se ne erano lamentati, finché l’arresto di otto di loro fece rendere conveniente agli altri immaginare di esser stati sfruttati. Sono gli stessi che, proprietari di giornali, decisero la campagna del Grande Sputtanamento degli uomini politici, quelli sconvenienti, i non allineati. Quelli che si salvarono dal carcere ripudiando se stessi e la propria storia e accoltellando quelli che erano stati i loro benefattori. La vacca non dava più latte. Non c’era più pane e loro scelsero le brioches. Il girotondo intorno ai protagonisti principali, magistrati e imprenditori, era fatto di avvocati di grandi e piccoli studi, che salivano festosi, ma in ginocchio, le scale fino al quarto piano del Palazzo di giustizia tenendo per mano i proprio assistiti pronti all’autodafè, mentre il Di Pietro di turno li riceveva in ciabatte, rideva e agitava manette. Quelli bravi, quelli amici, riuscivano a salvare l’assistito dal carcere e ne venivano ricompensati. In vario modo e da diverse parti. Avevano dimenticato il codice a casa, molti di questi avvocati, badavano al sodo e basta. C’erano poi i giornalisti-coccodè, i cronisti giudiziari che ogni mattina fiutavano la preda, giovani entusiasti che indossavano con orgoglio la maglietta che inneggiava all’eroe di Mani Pulite, lavoravano in pool e non tornavano mai in redazione a mani vuote, con il carniere pieno di verbali d’interrogatorio ( non erano ancora di moda le intercettazioni ), sicuri che avrebbe apprezzato il direttore, ma soprattutto l’editore, lo stesso che tremava se il campanello di casa suonava troppo presto il mattino. I fiaccolanti forse erano i più innocenti, cittadini che facevano il girotondo intorno al Palazzo, nella speranza-illusione che qualcosa cambiasse. Ma non c’erano solo loro, c’era un po’ di tutto, in quelle manifestazioni, compresi i cinici di nuovi movimenti politici che volevano solo sostituirsi agli altri, e anche quelli che erano sulla scialuppa di salvataggio, comunisti e democristiani di sinistra che si erano finanziati come gli altri, ma che si erano opportunamente alleati ai magistrati. Una folla di indifferenti, mentre ogni giorno saltavano le regole dello Stato di diritto, mentre veniva calpestata la Costituzione, mentre si violavano le competenze territoriali, la libertà personale e i diritti della difesa. Mentre si usava il carcere come tortura per far parlare la gente. Mentre si uccideva. Tanto la Storia la scrivono i vincitori, anche alle spalle dei quarantuno che non ci sono più.

Virus su rai 2 condotto da Nicola Porro. 22:33 va in onda un servizio dedicato al caso del magistrato Antonio Lollo di Latina. Gomez: "C'è un problema in Italia riguardo i tribunali fallimentari. Non è la prima volta che un magistrato divide i soldi con il consulente. Nelle fallimentari, è noto che c'è la cosiddetta mano nera. Sulle aste, succedono cose strane. E se lo dice Peter Gomez, direttore de "Il Fatto Quotidiano", notoriamente giustizialista e manettaro oltre che asservito alla magistratura, è tutto dire.

"Tangenti e cricche si possono sconfiggere ma ci sono anche giudici riluttanti". "La magistratura in qualche caso ha dato l’impressione d’essere dura e pura davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. E qualche collega non ha voglia di impegnarsi in inchieste difficili". Intervista a Raffaele Cantone, presidente dell'Anticorruzione, tratta dal nuovo libro scritto con Gianluca Di Feo.

«Non voglio creare illusioni, ma neppure lasciare alibi. La guerra alla corruzione si può fare. L’Autorità che guido non può arrestare né intercettare: non può bloccare le tangenti. Ma ha altri poteri, che cominciano a dare qualche risultato».

Raffaele Cantone è il presidente della prima struttura creata in Italia per cercare di prevenire la corruzione. Un modo nuovo di affrontare il problema, insistendo sulla trasparenza, sul merito, sulla fiducia nella capacità di riscatto del Paese. In un solo anno ha dovuto misurarsi con gli scandali dell’Expo, del Mose e di Mafia Capitale. E adesso affida a un libro intervista scritto con Gianluca Di Feo de “l’Espresso” l’analisi de “Il male italiano” più grave: un morbo più profondo delle tangenti, che ha contaminato l’intera società. Cantone discute delle colpe della politica, degli imprenditori e della burocrazia. Senza risparmiare critiche alla magistratura, a cui è orgoglioso di appartenere. Come in queste pagine che anticipiamo.

Raffaele Cantone, lei sostiene che per domare la corruzione è necessario puntare su tre pilastri: repressione, prevenzione e una battaglia culturale per cambiare l’atteggiamento degli italiani. Partiamo dalla repressione: cosa bisogna fare?

«Prima di tutto, bisogna porre l’attenzione su una questione organizzativa, ossia la capacità della magistratura di mettere in campo il meglio. Ancora oggi esistono realtà in cui non si aprono indagini per tangenti, nonostante nel Paese non esistano zone franche. Questo male si manifesta ovunque, seppure con diversi livelli di intensità. Se la corruzione non viene scoperta, significa che c’è un problema, nelle procure o negli inquirenti, e questo è anche specchio dell’inefficienza della magistratura nell’affrontare questioni complesse. Credo che sia necessaria un’autocritica sull’organizzazione giudiziaria e sull’importanza che viene riconosciuta alla lotta alla corruzione. Per esempio, non tutti gli uffici investigativi hanno pool specializzati per i reati di questo tipo. Che richiedono grande impegno e professionalità: quando le inchieste vengono fatte bene, i risultati arrivano sempre».

Ma se la giustizia non funziona, come si può fermare la corruzione? Oggi l’impunità per i colletti bianchi è praticamente certa: la maggioranza dei procedimenti per corruzione si chiude con la prescrizione o con pene irrisorie. Quasi sempre i protagonisti degli scandali riescono a tornare al loro posto.

«La repressione giudiziaria è il momento chiave della lotta, senza il quale la prevenzione non ha alcun senso. Inutile mettere in campo strumenti per impedire la corruzione, se i reati non vengono puniti. Anche negli anni di Mani Pulite le inchieste sono state a macchia di leopardo. In quel periodo c’è stato il più alto livello di incriminazioni, ma studiando le statistiche giudiziarie ci si rende conto che esistono vuoti assoluti in alcune zone d’Italia: perché quelle procure non hanno indagato? Di sicuro non perché in quei territori non ci fossero tangenti o finanziamenti illeciti. La legge Cirielli del 2005 è stata devastante, perché ha reso la prescrizione di questi reati più rapida, ma anche prima di allora tanti processi venivano buttati via perché si perdeva troppo tempo. Ricordo la prima indagine sulle ecomafie in Italia, che ha fatto finire alla sbarra l’alleanza tra boss casalesi, politici e funzionari campani: una vicenda fondamentale, l’origine dell’avvelenamento di un’intera regione. L’assessore della Provincia – che aveva intascato tangenti per autorizzare il trasporto di rifiuti illeciti – venne condannato, in primo grado, poi in appello ci sono stati talmente tanti rinvii che si è arrivati alla prescrizione. E di casi come questi ce ne sono moltissimi. Oggi ci sono istruttorie che vengono cancellate dal tempo prima ancora che sia pronunciato qualunque giudizio: l’inchiesta finisce nel cestino senza neppure l’incriminazione. Questo ha un effetto disastroso: oltre a non dare un colpo al malaffare, trasmetti la certezza dell’impunità. Una parte della magistratura compie il proprio dovere e difende i processi. Ma bisogna riconoscere che un’altra parte, sicuramente minoritaria, non sempre ha fatto tutto quello che poteva».

Nel 1992 i risultati delle indagini milanesi e il sacrificio di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino hanno cementato il consenso degli italiani verso i giudici. Piercamillo Davigo ha detto che la magistratura non ha fatto una rivoluzione, ma ha salvato la credibilità delle istituzioni, impedendo che la crisi economica e politica di quegli anni degenerasse nel caos. Adesso la fiducia nella categoria è ai minimi e la paralisi della giustizia insostenibile. Ma non sembra che la magistratura tenti di trovare soluzioni.

«Nella magistratura convivono varie anime. Lei ha citato il 1992, ma anche allora era divisa. Mentre Falcone, Borsellino, Livatino venivano uccisi, c’era un pezzo di magistratura che faceva in modo molto più burocratico la sua parte. Nel 1980, l’assassinio del procuratore di Palermo Gaetano Costa, una figura la cui probità dovrebbe essere d’esempio a tanti, venne collegato al fatto che alcuni colleghi avevano preso le distanze dalle sue decisioni, rifiutandosi di firmare l’ordine d’arresto per i capi di Cosa nostra. Oggi come allora, tra le toghe c’è chi fa il suo dovere con abnegazione, correndo rischi altissimi, e chi non lo fa: numericamente questi ultimi sono molti di meno, una percentuale inferiore alla media riscontrata negli altri settori della pubblica amministrazione. E non è un caso che nel 1988 si sia preferito insediare Antonino Meli e non Falcone alla guida degli inquirenti di Palermo. Perché? Falcone era antipatico a molti, veniva considerato un «supergiudice» e tra i colleghi c’era invidia nei suoi confronti. Ma anche perché con il suo lavoro metteva in discussione la figura del magistrato che si limita a fare il minimo indispensabile. Negli ultimi anni questa fascia della magistratura si è ridotta, ma esiste ancora».

Ci sono importanti magistrati che hanno fatto l’apologia del «giudice senza qualità», che si limita ad applicare la legge senza protagonismi. Ma così si rischia di avallare la débâcle della giustizia. Perché le regole processuali favoriscono chi ha le risorse economiche per sfruttare in pieno la prassi dei ricorsi fino al traguardo della prescrizione.

«La magistratura è per certi versi schizofrenica. In qualche caso abbiamo dato l’impressione d’essere duri e puri davanti a questioni banali e di non saper affrontare con fermezza i problemi più gravi. Somigliamo per certi versi alla tela del ragno: più grossa è la vittima che cade nella nostra rete, più è facile che le sue maglie cedano e la lascino scappare indenne. Per il ragno, è una dimostrazione di intelligenza: a che serve affannarsi a imprigionare un animale troppo grande per le sue forze? Meglio concentrarsi sugli insettini inermi che si impigliano nella sua trappola. Per la magistratura, invece, questa diventa una dichiarazione di impotenza».

I pezzi grossi, infatti, beneficiano della situazione. E non solo grazie al colpo di spugna della prescrizione. Ci sono tribunali di provincia dove raramente si dà fastidio ai potenti, senza contare che la procura di Roma, per decenni, è stata «il porto delle nebbie» in cui tutte le indagini scomparivano nel nulla. Se si tratta di punire emarginati e piccoli delinquenti, però, gli stessi giudici sanno essere inflessibili.

«L’impressione è che spesso sia così. E questo consolida il potere dei forti. Basta vedere quanto spesso i processi ai colletti bianchi finiscono nel nulla rispetto ai giudizi contro cittadini comuni. Certo, sono processi più complessi, ma questo giustifica solo in parte le disparità negli esiti. La verità è che molti non hanno voglia di impegnarsi in inchieste difficili, e il fatto che i meccanismi di valutazione della produttività siano spesso oggetto di valutazioni meramente burocratiche peggiora le cose: se tu condanni uno scippatore che ha rubato venti euro, o un concussore che ha intascato milioni con metodi sofisticati, non fa differenza. Nelle statistiche possono valere entrambi uno, anche se l’impegno richiesto per assicurarli alla giustizia è molto diverso».

CORRUZIONE A NORMA DI LEGGE.

"Corruzione a norma di legge", piaga italiana. Nel libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi la ricostruzione dell'intreccio che tra controllati e controllori, il quadro di un fenomeno che è oggi più grave di quanto non fosse all'epoca di Tangentopoli: allora le norme venivano violate, oggi sono state "aggiustate" per permettere gli abusi, scrive “La Repubblica”. La lobby delle Grandi opere affonda l'Italia, recita il sottotitolo del libro di Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, Corruzione a norma di legge (Rizzoli) dedicato alla palude e al malaffare che per due decenni, con gli scandali del MoSE di Venezia, dell'Expo di Milano o dell'Alta velocità hanno inquinato il Paese durante la Prima e la Seconda Repubblica, allungando i tempi e gonfiando a dismisura i costi di realizzazione. Ed è assai chiaro il messaggio che fa da filo conduttore alla ricostruzione del fitto intreccio che ha legato controllori e controllati lungo il percorso delle Grandi opere. Oggi la corruzione è perfino più grave che in passato e questo avviene perché, se con Tangentopoli gli imprenditori che avevano violato le leggi potevano essere perseguiti, ai nostri giorni punire i responsabili è diventato assai più arduo. Poiché sono le stesse leggi a essere state "aggiustate" a monte per permettere il vantaggio dei privati a discapito dello Stato, chi corrompe non viola norme, ma le usa e sfrutta per il proprio tornaconto. Una desolante realtà di fronte alla quale la giustizia ha le armi spuntate e che potrebbe essere combattuta soltanto dai cittadini e dalla politica. Ma come fare per promuovere e dar corso alle Grandi Opere necessarie al Paese, evitando il sistema corruttivo che ha imperversato negli ultimi vent'anni e cambiato la percezione che i cittadini hanno della politica, mai stata come ora al minimo del gradimento? Innanzi tutto, rispondono Giorgio Barbieri, giornalista, e Francesco Giavazzi, economista, la politica dovrebbe radicalmente cambiare il modo d'intendere il suo ruolo e dunque  impedire (e non  promuovere) quelle leggi ad hoc che finora hanno permesso i tornaconti privati, a tutto svantaggio dell'interesse pubblico. E qui entrano in gioco i cittadini che, con il loro voto, possono pretendere di sostenere solo chi s'impegna contro la "corruzione delle leggi". Inoltre, suggeriscono gli autori, le imprese dovrebbero potersi assicurare presso una compagnia privata così come le "gole profonde", che denunciano la corruzione, dovrebbero poter contare su una rete di protezione efficiente e reale. Infine, è dovere di chi controlla qualità e costi delle Grandi opere essere finalmente del tutto indipendente dalla politica.

Perché la vicenda del MoSe è emblematica della corruzione diffusa?

«Perché meglio di ogni altra dimostra che la corruzione più grave, cioè quella che più costa ai cittadini, non è quella che avviene tramite violazione delle leggi, di cui per lo più si occupa la stampa, bensì quella che avviene per "corruzione delle leggi". Leggi ad hoc, come la legge del 1984 che creò il concessionario unico, ovvero assegnò buona parte dei lavori di salvaguardia della laguna di Venezia (18 miliardi di euro di oggi) ad un monopolista. Costui, il Consorzio Venezia Nuova, in questi 30 anni ha realizzato lavori per il MoSE per oltre 6 miliardi (in euro di oggi), con un sovrapprezzo per lo Stato, e quindi per i cittadini, che supera i 2,4 miliardi di euro. La "corruzione" della legge è più ambigua della "violazione", perché nel primo caso nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state "corrotte", cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l'interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non ha armi e che può essere combattuta solo dalla politica e dai cittadini».

Tutti gli scandali da Tangentopoli in poi...

«Gli imprenditori sono usciti dall'esperienza di Tangentopoli con danni giudiziari limitati e una lezione: per non cedere tutta la rendita della corruzione ai politici occorre trattare da una posizione di forza, costruendo un'unica impresa monopolista per eliminare la possibilità che il politico tratti con altri. Di qui nasce l'idea del consorzio di imprese che tratta con politici e amministrazioni come fosse un'unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l'imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori. Non a caso nel Consorzio Venezia Nuova si ritrovano gli stessi imprenditori attivi al tempo di Tangentopoli. Trattando da una posizione di forza si può anche fare in modo che i benefici ottenuti non siano sanzionati dalla legge, e così evitare il rischio della prigione. I politici sono quindi pagati per ottenere non solo una parte della rendita, ma anche leggi che la rendano "legale". Durante Tangentopoli politici e imprenditori violavano le leggi, e infatti in molti sono finiti in prigione. Con il MoSE tutto diventa legittimo perché le leggi sono scritte in modo tale che appropriarsi di una parte della rendita destinata alla realizzazione della grande opera diventi legale».

Come uscire dall'ennesima palude che ha coinvolto la Prima e la Seconda repubblica?

«Il libro si chiude con tre proposte concrete. 1: richiedere che, per partecipare a un appalto, le imprese si assicurino con una compagnia privata, come avviene negli Stati Uniti. In Italia una legge in questo senso esiste, ma i decreti attuativi non sono mai stati scritti. 2: la creazione di un'efficiente rete di protezione per le "gole profonde", ossia chi denuncia sospetti episodi di corruzione, ma anche di ogni altra forma di comportamento illegale. 3:. l'indipendenza dalla politica di chi deve controllare qualità e costi. Ma queste misure non risolvono il problema più grave, che è la corruzione delle leggi. Questo è compito esclusivamente della politica. L'amara vicenda che ha travolto il Mose di Venezia può però trasformarsi in un'occasione affinché politica e cittadini, con il proprio voto, trovino l'antidoto affinché simili casi di corruzione delle leggi non si ripetano».

Leggi sbagliate, non solo gli uomini. Nel libro di Barbieri e Giavazzi, l’analisi di due tipi di corruzione: le tangenti e quelle norme scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, scrive Gian Antonio Stella su “Il Corriere della Sera”. I veneziani dei tempi d’oro non ci avrebbero pensato due volte: ogni colpevole sarebbe stato portato dopo la condanna a San Marco, legato mani e piedi a quattro cavalli che con un colpo di frusta sarebbero schizzati via in direzioni opposte. Era implacabile, la Serenissima, sul furto e lo spreco di soldi pubblici. Più ancora era rigida nella difesa del delicato equilibrio della laguna. Figuratevi dunque la collera che sarebbe esplosa alla scoperta che il Mose, senza avere ancora dato prova se funzionerà o meno, è già costato, a prezzi aggiornati grazie a preziose ricostruzioni storiche, trenta volte più della grandiosa e costosissima deviazione del Piave compiuta mezzo millennio fa dai nostri bisnonni con mezzi tecnici immensamente inferiori a quelli di oggi. Per l’esattezza sono stati sottratti alle tasche dei cittadini 6,2 miliardi di euro: più del triplo di quanto dichiarato inizialmente. Quasi il doppio di quanto costò, in moneta attuale, l’Autostrada del Sole. È un cazzotto allo stomaco, il saggio Corruzione a norma di legge. La lobby delle grandi opere che affonda l’Italia, scritto da Giorgio Barbieri e Francesco Giavazzi, in libreria da domani per Rizzoli. Ma se volete capire «come mai» annaspiamo nella corruzione, nell’inefficienza e nella paralisi delle opere pubbliche (e come sia obbligatorio cambiare tutto), dovete assolutamente leggerlo. Perché la storia scellerata del Mose, intorno alla quale ruota il libro, è un impasto di tutto ciò che ci affligge: la cattiva politica, la cattiva imprenditoria, le cattive regole. Ci sono infatti, per gli autori, due tipi di corruzione. Il primo, che vede scattare piuttosto spesso le manette, è quello classico: la tangente. Ma è il secondo tipo a essere più pericoloso e ambiguo «perché nessuna legge viene violata: sono le leggi stesse a essere state corrotte, cioè scritte e approvate per il tornaconto dei privati contro l’interesse dello Stato, o per alcuni privati a svantaggio di altri. Di fronte a questo tipo di corruzione la giustizia non possiede armi. Nel momento in cui la regola corrotta viene applicata nessuno commette alcun reato; i reati semmai sono stati compiuti quando il Parlamento ha approvato le leggi, ma sono più difficili da dimostrare e sanzionare». «Chi ha pagato chi ed esattamente per cosa?» Mica facile rispondere. Certo è che tutta la vicenda delle paratie mobili trabocca di deroghe decise per scassinare le regole. La scelta iniziale di un concessionario unico per prendere in contropiede Bruxelles, che avrebbe imposto gare d’appalto europee. La nascita di un cartello che si accaparra il monopolio dei lavori e dà soldi a tutti e «tratta con politici e amministrazioni come fosse un’unica impresa, rappresentando tutti i soci, e quindi evitando anche l’imbarazzo di incontri diretti fra politica e imprenditori». Le disinvolte scorciatoie per scansare ogni intralcio normativo in nome dell’urgenza («Le opere per salvare Venezia verranno ultimate entro il 1995», giurava Craxi nel 1986), col risultato che chi oggi chiede se «una scelta tecnologica fatta quarant’anni fa sia tuttora idonea, soprattutto alla luce dell’analisi costi-benefici», si sente rispondere che «è troppo tardi, ma è una domanda che, in quarant’anni, mai è stato consentito porre, sempre con la scusa che “ormai i lavori sono quasi finiti”».  Erano anni e anni, accusano Barbieri e Giavazzi, che l’andazzo era sotto gli occhi di tutti. Lo dicono le parole dei magistrati Felice Casson e Ivano Nelson Salvarani, che nella stagione di Mani pulite fecero arrestare l’allora presidente del Veneto Gianfranco Cremonese e la spalla di Gianni De Michelis, Giorgio Casadei, scrivendo nella richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell’ex ministro Carlo Bernini di «un accordo spartitorio tra i partiti che investe il Consorzio Venezia Nuova». Lo ripete un micidiale rapporto degli ispettori ministeriali contro l’allora Magistrato alle acque Patrizio Cuccioletta, rimosso nel 2001 per «un uso improprio dei poteri d’urgenza» e un mucchio di irregolarità, comprese «234 giornate lavorative di assenza su 381», e ciò nonostante rimesso al suo posto anni dopo dal berlusconiano Altero Matteoli. Lo conferma un dossier giudiziario secondo cui «l’80% dell’attività del Magistrato era in realtà istruito, redatto e preparato da personale del Consorzio Venezia Nuova». Lo ribadisce una relazione della Corte dei conti sui collaudi delle opere: «Gli emolumenti ai collaudatori sono integralmente posti a carico del concessionario». Una schifezza, denunciano Barbieri e Giavazzi: il collaudatore opera per conto e nell’interesse dello Stato e «dovrebbe essere la naturale controparte del concessionario, cioè del Consorzio, ed è un evidente conflitto d’interessi se le parcelle sono saldate da chi deve essere controllato». Parcelle enormi, tra l’altro: 23.868.640 euro nel solo quinquennio 2004-2008. Con tariffe, come rivelò Sergio Rizzo, «maggiorate del 60% per rimborso forfettario delle spese». E distribuite persino a potenti dirigenti ministeriali, che poi avevano voce in capitolo sui finanziamenti al Consorzio. L’impasto di interessi appiccicosi era tale, ricorda il libro, che a un certo punto Carlo Azeglio Ciampi decise con un decreto di dire basta al concessionario unico. Ma ancora quell’impasto di interessi fece sì che l’anno dopo il decreto fosse svuotato da Lamberto Dini, con due righe che blindavano gli affari del Consorzio: «Restano validi gli atti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodottisi e i rapporti giuridici sorti». Per non dire come fu presa per i fondelli Bruxelles, che, furente per le violazioni alla concorrenza sulle gare d’appalto comunitarie, abboccò all’impegno del governo di destra di un cambio di rotta e dell’assegnazione con gare europee del 53% dei lavori «per circa 3.160 milioni di euro». Una bufala: «Il Consorzio ha infatti messo a gara forniture per una cifra inferiore ai 200 milioni di euro, il 5% circa». Ma quanto è costata agli italiani questa miliardaria poltiglia di interessi, dove le mazzette sono solo la parte più visibile? Il libro risponde che, sommando i ribassi mancati (1,6 miliardi circa) all’aggio di 744 milioni trattenuto da Venezia Nuova, si arriva a quasi 2,4 miliardi di euro. «E questa cifra non include il maggiore costo dei lavori eseguiti dal Consorzio per altre opere di salvaguardia, che ammonta a 3 miliardi di euro circa». Un bottino spropositato. Che ci ricorda l’urgenza di cambiare finalmente, prima ancora che gli uomini, le regole. Ne va del destino di Venezia. Dell’Expo. Delle grandi opere. Del Paese stesso: «Il rischio è che l’opinione pubblica, sconcertata dai casi di eclatanti violazioni della legge, scordi che il problema principale è la corruzione delle leggi».

In tutta questa ipocrisia stona la retorica del sud assistito.

IL SUD TARTASSATO.  

Sud tartassato: il Meridione paga più di tutti, scrive Lanfranco Caminiti su “Il Garantista”.  Dice la Svimez che se muori e vuoi un funerale come i cristiani, è meglio che schiatti a Milano, che a Napoli ti trattano maluccio. E non ti dico a Bari o a Palermo, una schifezza. A Milano si spende 1.444,23 euro per defunto, a Napoli 988 euro, a Bari 892 euro e 19 centesimi, a Palermo 334 euro. A Palermo, cinque volte meno che a Milano. Il principe Antonio De Curtis, in arte Totò, si rivolterà nella tomba, che a quanto pare non c’è nessuna livella, dopo morti. E checcazzo, e neppure lì terroni e polentoni siamo uguali. E basterebbe solo questo – il culto dei morti dovrebbe antropologicamente “appartenere” alle società meridionali, era il Sud la terra delle prefiche, era il Sud la terra delle donne in nero, era il Sud la terra dei medaglioni con la fotina dell’estinto che pendono sul petto delle vedove – per dire come questa Italia sia cambiata e rovesciata sottosopra. Si paga al Sud di più per tutto, per l’acqua, la monnezza, l’asilo, gli anziani, la luce nelle strade, i trasporti, insomma per i Lep, come dicono quelli che studiano queste cose: livelli essenziali delle prestazioni. Essenziali lo sono, al Sud, ma quanto a prestazioni, zero carbonella. Eppure, Pantalone paga. Paga soprattutto la classe media meridionale che si era convinta che la civilizzazione passasse per gli standard nazionali. Paghiamo il mito della modernizzazione. Paghiamo l’epica della statalizzazione. Paghiamo la retorica della “cosa pubblica”. Paghiamo l’idea che dobbiamo fare bella figura, ora che i parenti ricchi, quelli del Nord, vengono in visita e ci dobbiamo comportare come loro: non facciamoci sempre riconoscere. Paghiamo le tasse, che per questo loro sono avanti e noi restiamo indietro. Lo Stato siamo noi. Parla per te, dico io. Dove vivo io, un piccolo paese del Sud, pago più tasse d’acqua di quante ne pagassi prima in una grande città, e più tasse di spazzatura, e non vi dico com’è ridotto il cimitero che mi viene pena solo a pensarci. Sono stati i commissari prefettizi – che avevano sciolto il Comune – a “perequare” i prelievi fiscali. Poi sono andati via, ma le tasse sono rimaste. Altissime, cose mai viste. In compenso però, la spazzatura si accumula in piccole montagne. A volte le smantellano, poi si ricomincia. Non sai mai quando, magari qualcuno dei laureati che stanno a girarsi i pollici al baretto della piazza potrebbe studiarla, la sinusoide della raccolta rifiuti. Invece, i bollettini arrivano in linea retta. Con la scadenza scritta bella grossa. L’unica cosa che è diminuita in questi anni al Sud è il senso di appartenenza a una qualche comunità più grande del nostro orto privato. La pervasività dello Stato – e quale maggiore pervasività della sua capacità di prelievo fiscale – è cresciuta esponenzialmente quanto l’assoluta privatizzazione di ogni spirito meridionale. Tanto più Stato ha prodotto solo tanta più cosa privata. E non dico solo verso la comunità nazionale, la Patria o come diavolo vogliate chiamarla. No, proprio verso la comunità territoriale. Chi può manda i figli lontano, perché restino lontano. Chi può compra una casa lontano sperando di andarci il prima possibile a passare gli anni della vecchiaia. Chi può fa le vacanze lontano, a Pasqua e a Natale, il più esotiche possibile. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre. Il Sud è diventato terra di transito per i suoi stessi abitanti. Come migranti clandestini, non vediamo l’ora di andarcene. il Sud dismette se stesso, avendo perso ogni identità storica non si riconosce in quello che ha adesso intorno, che pure ha accettato, voluto, votato.

C’era una volta l’assistenzialismo. Rovesciati come un calzino ci siamo ritrovati contro un federalismo secessionista della Lega Nord che per più di vent’anni ci ha sbomballato le palle rubandoci l’unica cosa in cui eravamo maestri, il vittimismo. Siamo stati vittimisti per più di un secolo, dall’unità d’Italia in poi, e a un certo punto ci siamo fatti rubare la scena da quelli del Nord – e i trasferimenti di risorse, e le pensioni, e l’assistenzialismo e la pressione fiscale e le camorre degli appalti pubblici – e l’unica difesa che abbiamo frapposto è stata lo Stato. Siamo paradossalmente diventati i grandi difensori dell’unità nazionale contro il leghismo. Noi, i meridionali, quelli che il federalismo e il secessionismo l’avevano inventato e provato. Noi, che dello Stato ce ne siamo sempre bellamente strafottuti. Li abbiamo votati. Partiti nazionali, destra e sinistra, sindaci cacicchi e governatori, li abbiamo votati. Ci garantivano le “risorse pubbliche”. Dicevano. Ci promettevano il rinascimento, il risorgimento, la resistenza. Intanto però pagate. Come quelli del Nord. Facciamogli vedere. Anzi, di più. La crisi economica del 2007 ha solo aggravato una situazione già deteriorata. E ormai alla deriva. È stata la classe media meridionale “democratica” l’artefice di questo disastro, con la sua ideologia statalista. Spesso, loro che possono, ora che le tasse sono diventate insopportabili, ora che il Sud è sfregiato, senza più coscienza di sé, ora se ne vanno. O mandano i loro figli lontano. Chi non può, emigra. Di nuovo, come sempre.

Non solo i cittadini italiano sono tartassati, ma sono anche soggetti a dei disservizi estenuanti.

DISSERVIZI A PAGAMENTO.

COSE STRANE AGLI SPORTELLI ASL DI TARANTO? O COSI’ FAN TUTTI?

Ritardi, disservizi e cose varie…….negli uffici pubblici.

Esercizio di un privilegio o abuso del diritto a danno dei più deboli?

Per esempio, 10 minuti di pausa  ogni ora per l’unico terminalista e, al fine dell’esenzione per reddito, essere considerati disoccupati solo se si è cessato un lavoro dipendente. Per chi non ha mai trovato lavoro e per chi da anni ha chiuso bottega: niente!!!

Mi capita spesso di vedere cose strane in giro per l’Italia, che regolarmente riporto nei miei libri, giacchè il mio lavoro di sociologo storico lo impone.

Mi viene il dubbio, però, che io sia più un alienato che un alieno, tenuto conto che quello che vedo io, gli altri non lo vedono.

Per esempio parliamo dell’ufficio anagrafe dell’ASL TA presso l’ospedale di Manduria. In quell’ufficio le esenzioni per reddito vengono rilasciate dopo circa un mese dalla loro richiesta. Non so quanti addetti ci lavorino dentro, ma, spesso, c’è un solo sportello front office operativo. Ergo, vi è sempre una fila bestiale e non raramente cessano la distribuzione dei numerini del turno giornaliero di fila. Nell’attesa del proprio turno, però, non si può fare a meno di leggere tutti gli avvisi appesi al muro. Nell’imbarazzo non ti rapporti con il vicino per evitare di tediarlo ed  allora gli occhi cadono su quei pezzi di carta indistinti affissi alle pareti ed inizi a leggere, giusto per darti l’aria di essere affaccendato in altro ed evitare, quindi, di attaccar bottone.

L’occhio, anzi, tutt’e due, questa volta mi son caduti su un avviso che diceva: “AVVISO. Il termine disoccupato è riferito esclusivamente al cittadino che abbia cessato per qualunque motivo (licenziamento, dimissioni, cessazione di un rapporto a tempo determinato) un’attività di lavoro dipendente e che sia iscritto al centro per l’impiego in attesa di nuova occupazione. Non è considerato disoccupato né chi ha mai lavorato, né chi ha cessato un lavoro autonomo”. La sottolineatura era apposta per evidenziare il concetto.

Descrizione: titolo di disoccupato.jpg

 

 Da lasciare sgomenti, specie nella terra del governatore Niki Vendola, leader di SEL, il porta bandiera della sinistra. Sono rimasto indignato dal fatto su come si possa pensare che uno che sta a casa senza lavoro da sempre, sia diverso da un altro che sta a casa dopo essere stato licenziato. Va be’! I meandri della burocrazia sono infiniti, dirà qualcuno … che sicuramente non conosce l’art. 3 della Costituzione. Ma come disse Dante, ….non ragioniam di loro, ma guarda e passa.

Ed io nella lunga attesa di ore son passato oltre….ad un altro cartello, in cui era scritto in maiuscolo: “L’ADDETTO AL VIDEOTERMINALE E’ AUTORIZZATO AD UNA PAUSA DI 10 MINUTI OGNI ORA DAL MEDICO COMPETENTE”. Il termine “pausa di 10” ed “ogni ora” è evidenziato oltre che essere sottolineato. Tutto in rosso, come per far capire chi è che comanda negli uffici pubblici.

 

Descrizione: pausa lavoro.jpg

 

Quando qualcosa non mi torna, cerco di approfondire la tematica. E così ho fatto.

Le Pause sul lavoro: Noemi Ricci su PMI scrive che il loro effetto benefico sulla salute è comprovato, visto che servirebbe fisiologicamente una pausa ogni 90 minuti o massimo 120, pena la decadenza della soglia di attenzione e quindi anche della produttività lavorativa. Ma la gestione delle pause (sigaretta, caffè, aria fresca,..) non è cosa facile per il datore di lavoro, che tende a prendere provvedimenti anche se in realtà esiste una norma in materia, seppur lacunosa. Se da un lato si arriva a obbligare i dipendenti a timbrare il cartellino quando vanno a fumare ecc. (vedi il caso del Comune di Firenze), dall’altro ci si appella al Decreto n. 66 del 2003 secondo cui, a meno di diversi accordi contrattuali, ogni lavoratore ha diritto ad almeno dieci minuti di pausa per ogni turno di lavoro che superi le sei ore giornaliere (e undici ore di riposo consecutive tra un turno e l’altro). Le modalità e la durata della pausa dovrebbero essere stabilite dai contratti collettivi di lavoro, in difetto della quale «al lavoratore deve essere concessa una pausa, anche sul posto di lavoro, tra l’inizio e la fine di ogni periodo giornaliero di lavoro, di durata non inferiore a dieci minuti e la cui collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo».

Certo, è difficile quantificare il tempo perso sul lavoro per “staccare un pò la spina”: chiacchiere tra colleghi, telefonate e email personali, sigarette, caffè, persino l’uso del bagno!

L’argomento rimane controverso e di difficile regolamentazione, come in molte cose quello che dovrebbe prevalere, sia da parte dei datori di lavoro che dei dipendenti, è la misura e il buon senso.

Cosa a parte è il lavoro al Pc. Datori di lavoro obbligati a concedere pause ai dipendenti in caso di lavoro continuato al videoterminale: ecco cosa prevede la legge, scrive invece Alessandro Vinciarelli  sempre su PMI. Il computer è diventato parte integrante della vita professionale e la presenza dei computer sul posto di lavoro è diventata la normalità. Una pervasività alla quale non fa seguito un’adeguata attenzione agli obblighi stabiliti per legge dalla contrattazione collettiva - anche aziendale - volta a garantire la salute sul lavoro nel caso in cui i dipendenti aziendali utilizzino il Pc (videoterminale) per il proprio lavoro. Inizialmente a regolamentare questo tipo di attività era l’art. 54 del d.lgs. 626/94  della contrattazione collettiva (con obbligo di concedere al lavoratore una interruzione nel caso di lavoro continuato davanti al Pc e in assenza di una disposizione contrattuale). Dal 15 maggio 2008 è poi in vigore il decreto legislativo n.81 (del 9 aprile 2008) in attuazione all’articolo 1 della legge 3 agosto 2007 n. 123:  anche in questo caso l’obiettivo è scongiurare i rischi per la salute (vista, postura e affaticamento) connessi all’attività lavorativa tramite videoterminali, confermando l’obbligo per il datore di lavoro di tutelare i dipendenti con misure ad hoc e con interruzioni di un quarto d’ora ogni due ore (sempre mediante pause o cambiamento di attività di lavoro). In generale, qualora i propri impiegati svolgono la propria attività per almeno quattro ore consecutive, a questi spetta di diritto ad una interruzione che può essere esplicata tramite pause o mediante cambiamento di attività. Per ogni centoventi minuti (2 ore) passati in maniera continuativa davanti al computer il lavoratore debba avere quindici minuti interruzione, se si raggiunge un accordo aziendale, magari per una pausa caffè – o comunque un intervallo di tempo per “staccare” e rilassare la vista. In caso di diverse necessità personali, il lavoratore può, presentando apposito certificato medico, richiedere al proprio datore di lavoro di stabilire temporaneamente a livello individuale diverse modalità e durata delle interruzioni.

Da precisare che tale obbligo deve essere osservato dal datore di lavoro per preservare la salute sul lavoro dei propri dipendenti, i quali possono quindi usufruire di tale diritto solo a questo scopo. La legge non consente pertanto di cumulare le pause per entrare dopo o uscire prima dal lavoro. Allo stesso modo la pausa deve essere considerata parte integrante dell’orario di lavoro e quindi non può essere riassorbita all’interno di accordi che prevedono la riduzione dell’orario complessivo di lavoro. Infine il datore di lavoro non deve considerare pause i tempi di attesa davanti al Pc: aspettare una risposta dal sistema elettronico è considerato a tutti gli effetti tempo di lavoro, non potendo il lavoratore abbandonare il posto di lavoro.

A Taranto, dove da una parte muore per inquinamento e dall’altra i reparti ospedalieri chiudono, alla ASL di Taranto preme proprio tutelare la salute dei suoi dipendenti. Non so se la ASL tuteli la salute di tutti i suoi dipendenti od il benessere di quelli più furbi, con l’aiutino del medico compiacente. Certo è che agli utenti proprio non ci pensa. Per limitare l’isteria dei cittadini, però, potrebbe applicare agli sportelli front office gli addetti meno cagionevoli di salute. Od aprire più di uno sportello, affinchè di due o più addetti con salute malferma se ne sostanzi uno per evitare inutili esasperazioni degli utenti in fila da ore. E’ superfluo, altresì, consigliare che, al di là degli impiegati allo sportello, di impegnarsi a smaltire in fretta l’arretrato, affinchè qualche indigente, nell’attesa di veder concessa l’esenzione per effettuare gli esami necessari, nel mese canonico di attesa non tiri le cuoia.

Da rimarcare il fatto che i privilegi della funzione pubblica, con il sostegno dei sindacati, si scontra da sempre con i diritti dei cittadini. C’è l’uniformità nazionale del fenomeno. E’ da mentecatti, quindi, pensare che questo succeda solo a Taranto. Spesso gli avvisi analoghi non sono affissi, ma di fatto sono operativi negli uffici pubblici di tutta Italia . E come se lo sono!!! 

IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.

Economia Sommersa: Il Nord onesto e diligente evade più del Sud, scrive Emanuela Mastrocinque su “Vesuviolive”. Sono queste le notizie che non dovrebbero mai sfuggire all’attenzione di un buon cittadino del Sud. Per anni ci hanno raccontato una storia che, a furia di leggerla e studiarla, è finita con il diventare la nostra storia, l’unica che abbiamo conosciuto. Storia di miseria e povertà superata dai meridionali grazie all’illegalità o all’emigrazione, le due uniche alternative rimaste a “quel popolo di straccioni” (come ci definì quella “simpatica” giornalista in un articolo pubblicato su “Il Tempo” qualche anno fa) . Eppure negli ultimi anni il revisionismo del risorgimento ci sta aiutando a comprendere quanto lo stereotipo e il pregiudizio sia stato utile e funzionale ai vincitori di quella sanguinosa guerra da cui è nata l‘Italia. Serviva (e serve tutt‘ora) spaccare l’Italia. Da che mondo e mondo le società hanno avuto bisogno di creare l’antagonista da assurgere a cattivo esempio, così noi siamo diventati fratellastri, figli di un sentimento settentrionale razzista e intollerante. Basta però avere l’occhio un po’ più attento per scoprire che spesso la verità, non è come ce la raccontano. Se vi chiedessimo adesso, ad esempio, in quale zona d’Italia si concentra il tasso più alto di evasione fiscale, voi che rispondereste? Il Sud ovviamente. E invece non è così. Dopo aver letto un post pubblicato sulla pagina Briganti in cui veniva riassunta perfettamente l’entità del “sommerso economico in Italia derivante sia da attività legali che presentano profili di irregolarità, come ad esempio l’evasione fiscale, che dal riciclaggio di denaro sporco proveniente da attività illecite e mafiose” abbiamo scoperto che in Italia la maggior parte degli evasori non è al Sud. Secondo i numeri pubblicati (visibili nell‘immagine sotto), al Nord il grado di evasione si attesta al 14, 5%, al centro al 17,4% mentre al Sud solo al 7,9%. I dati emersi dal Rapporto Finale del Gruppo sulla Riforma Fiscale, sono stati diffusi anche dalla Banca d’Italia. Nel lavoro di Ardizzi, Petraglia, Piacenza e Turati “L’economia sommersa fra evasione e crimine: una rivisitazione del Currency Demand Approach con una applicazione al contesto italiano” si legge “dalle stime a livello territoriale si nota una netta differenza tra il centro-nord e il sud, sia per quanto attiene al sommerso di natura fiscale che quello di natura criminale. Per quanto riguarda infine l’evidenza disaggregata per aree territoriali, è emerso che le province del Centro-Nord, in media, esibiscono un’incidenza maggiore sia del sommerso da evasione sia di quello associato ad attività illegali rispetto alle province del Sud, un risultato che pare contraddire l’opinione diffusa secondo cui il Mezzogiorno sarebbe il principale responsabile della formazione della nostra shadow economy. Viene meno, di conseguenza, la rappresentazione del Sud Italia come territorio dove si concentrerebbe il maggiore tasso di economia sommersa". E ora, come la mettiamo?

Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.

Ma quale Sud, è il Nord che ha la palma dell’evasione, scrive Vittorio Daniele su “Il Garantista”. Al Sud si evade di più che al Nord. Questo è quanto comunemente si pensa. Non è così, invece, secondo i dati della Guardia di Finanza, analizzati da Paolo di Caro e Giuseppe Nicotra, dell’Università di Catania, in uno studio di cui si è occupata anche la stampa (Corriere Economia, del 13 ottobre). I risultati degli accertamenti effettuati dalla Guardia di Finanza mostrano come, nelle regioni meridionali, la quota di reddito evaso, rispetto a quello dichiarato, sia inferiore che al Nord. E ciò nonostante il numero di contribuenti meridionali controllati sia stato, in proporzione, maggiore. Alcuni esempi. In Lombardia, su oltre 7 milioni di contribuenti sono state effettuate 14.313 verifiche che hanno consentito di accertare un reddito evaso pari al 10% di quello dichiarato. In Calabria, 4.480 controlli, su circa 1.245.000 contribuenti, hanno consentito di scoprire un reddito evaso pari al 3,5% di quello dichiarato. Si badi bene, in percentuale, le verifiche in Calabria sono state quasi il doppio di quelle della Lombardia. E ancora, in Veneto il reddito evaso è stato del 5,3%, in Campania del 4,4% in Puglia, del 3,7% in Sicilia del 2,9%. Tassi di evasione più alti di quelle delle regioni meridionali si riscontrano anche in Emilia e Toscana. Alcune considerazioni. La prima riguarda il fatto che nelle regioni del Nord, dove più alta è la quota di evasione, e dove maggiore è il numero di contribuenti e imprese, si siano fatti, in proporzione, assai meno accertamenti che nel meridione. Poiché, in Italia, le tasse le paga chi è controllato, mentre chi non lo è, se può, tende a schivarle, sarebbe necessario intensificare i controlli là dove la probabilità di evadere è maggiore. E questa probabilità, secondo i dati della Guardia di Finanza, è maggiore nelle regioni più ricche. La seconda considerazione è che il luogo comune di un’Italia divisa in due, con un Nord virtuoso e un Sud di evasori, non corrisponde al vero. L’Italia è un paese unito dall’evasione fiscale. Il fatto che in alcune regioni del Nord si sia evaso di più che al Sud non ha nulla a che vedere né con l’etica, né con l’antropologia. Dipende, più realisticamente, da ragioni economiche. L’evasione difficilmente può riguardare i salari, più facilmente i profitti e i redditi d’impresa. E dove è più sviluppata l’attività d’impresa? Come scrivevano gli economisti Franca Moro e Federico Pica, in un saggio pubblicato qualche anno fa della Svimez: «Al Sud ci sono tanti evasori per piccoli importi. Al Nord c’è un’evasione più organizzata e per somme gigantesche». Quando si parla del Sud, pregiudizi e stereotipi abbondano. Si pensa, così, che la propensione a evadere, a violare le norme, se non a delinquere, sia, per così dire, un tratto antropologico caratteristico dei meridionali. Ma quando si guardano i dati, e si osserva la realtà senza la lente deformante del pregiudizio, luoghi comuni e stereotipi quasi mai reggono. Di fronte agli stereotipi e alle accuse – e quella di essere evasori non è certo la più infamante – che da decenni, ogni giorno e da più parti, si rovesciano contro i meridionali, non sarebbe certo troppo se si cominciasse a pretendere una rappresentazione veritiera della realtà. Insieme a pretendere, naturalmente, e in maniera assai più forte di quanto non si sia fatto finora, che chi, al Sud, ha responsabilità e compiti di governo, faccia davvero, e fino in fondo, il proprio dovere. 

Quante bugie ci hanno raccontato sul Mezzogiorno! Scrive Pino Aprile su “Il Garantista”. L’Italia è il paese più ingiusto e disuguale dell’Occidente, insieme a Stati Uniti e Gran Bretagna: ha una delle maggiori e più durature differenze del pianeta (per strade, treni, scuole, investimenti, reddito…) fra due aree dello stesso paese: il Nord e il Sud; tutela chi ha già un lavoro o una pensione, non i disoccupati e i giovani; offre un reddito a chi ha già un lavoro e lo perde, non anche a chi non riesce a trovarlo; è fra i primi al mondo, per la maggiore distanza fra lo stipendio più alto e il più basso (alla Fiat si arriva a più di 400 volte); ha i manager di stato più pagati della Terra, i vecchi più garantiti e i giovani più precari; e se giovani e donne, pagate ancora meno. È in corso un colossale rastrellamento di risorse da parte di chi ha più, ai danni di chi ha meno: «una redistribuzione dal basso verso l’alto». È uscito in questi giorni nelle librerie il nuovo libro di Pino Aprile («Terroni ’ndernescional», edizioni PIEMME, pagine 251, euro 16,50). Pubblichiamo un brano, per gentile concessione dell’autore. Quante volte avete letto che la prova dell’ estremo ritardo dell’Italia meridionale rispetto al Nord era l’alta percentuale di analfabeti? L’idea che questo possa dare ad altri un diritto di conquista e annessione può suonare irritante. Ma una qualche giustificazione, nella storia, si può trovare, perché i popoli con l’alfabeto hanno sottomesso quelli senza; e í popoli che oltre all’alfabeto avevano anche ”il libro” (la Bibbia, il Vangelo, il Corano, Il Capitale, il Ko Gi Ki…) hanno quasi sempre dominato quelli con alfabeto ma senza libro. Se questo va preso alla… lettera, la regione italiana che chiunque avrebbe potuto legittimamente invadere era la Sardegna, dove l’analfabetismo era il più alto nell’Italia di allora: 89,7 per cento (91,2 secondo altre fonti); quasi inalterato dal giorno della Grande Fusione con gli stati sabaudi: 93,7. Ma la Sardegna era governata da Torino, non da Napoli. Le cose migliorarono un po’, 40 anni dopo l’Unità, a prezzi pesanti, perché si voleva alfabetizzare, ma a spese dei Comuni. Come dire: noi vi diamo l’istruzione obbligatoria, però ve la pagate da soli (più o meno come adesso…). Ci furono Comuni che dovettero rinunciare a tutto, strade, assistenza, per investire solo nella nascita della scuola elementare: sino all’87 per cento del bilancio, come a Ossi (un secolo dopo l’Unità, il Diario di una maestrina, citato in Sardegna , dell’Einaudi, riferisce di «un evento inimmaginabile »: la prima doccia delle scolare, grazie al dono di dieci saponette da parte della Croce Rossa svizzera). Mentre dal Mezzogiorno non emigrava nessuno, prima dell’Unità; ed era tanto primitivo il Sud, che partoriva ed esportava in tutto il mondo facoltà universitarie tuttora studiatissime: dalla moderna storiografia all’economia politica, e vulcanologia, sismologia, archeologia… Produzione sorprendente per una popolazione quasi totalmente analfabeta, no? Che strano. Solo alcune osservazioni su quel discutibile censimento del 1861 che avrebbe certificato al Sud indici così alti di analfabetismo: «Nessuno ha mai analizzato la parzialità (i dati sono quelli relativi solo ad alcune regioni) e la reale attendibilità di quel censimento realizzato in pieno caos amministrativo, nel passaggio da un regno all’altro e in piena guerra civile appena scoppiata in tutto il Sud: poco credibile, nel complesso, l’idea che qualche impiegato potesse andare in  giro per tutto il Sud bussando alle porte per chiedere se gli abitanti sapevano leggere e scrivere» rileva il professor Gennaro De Crescenzo in Il Sud: dalla Borbonia Felix al carcere di Penestrelle. Come facevano a spuntare oltre 10.000 studenti universitari contro i poco più di 5.000 del resto d’Italia, da un tale oceano di ignoranza? Né si può dire che fossero tutti benestanti, dal momento che nel Regno delle Due Sicílie i meritevoli non abbienti potevano studiare grazie a sussidi che furono immediatamente aboliti dai piemontesi, al loro arrivo. Sull’argomento potrebbero gettare più veritiera luce nuove ricerche: «Documenti al centro di studi ancora in corso presso gli archivi locali del Sud dimostrano che nelle Due Sicilie c’erano almeno una scuola pubblica maschile e una scuola pubblica femminile per ogni Comune oltre a una quantità enorme di scuole private» si legge ancora nel libro di De Crescenzo, che ha studiato storia risorgimentale con Alfonso Scirocco ed è specializzato in archivistica. «Oltre 5.000, infatti, le ”scuole” su un totale di 1.845 Comuni e con picchi spesso elevati e significativi: 51 i Comuni in Terra di Bari, 351 le scuole nel complesso; 174 i Comuni di Terra di lavoro, 664 le scuole; 113 i Comuni di Principato Ultra, 325 le scuole; 102 i Comuni di Calabria Citra, 250 le scuole…». Si vuol discutere della qualità di queste scuole? Certo, di queste e di quella di tutte le altre; ma «come si conciliano questi dati con quei dati così alti dell’analfabetismo? ». E mentiva il conte e ufficiale piemontese Alessandro Bianco di Saint-Jorioz, che scese a Sud pieno di pregiudizi, e non li nascondeva, e poi scrisse quel che vi aveva trovato davvero e lo scempio che ne fu fatto (guadagnandosi l’ostracismo sabaudo): per esempio, che «la pubblica istruzione era sino al 1859 gratuita; cattedre letterarie e scientifiche in tutte le città principali di ogni provincia»? Di sicuro, appena giunti a Napoli, i Savoia chiusero decine di istituti superiori, riferisce Carlo Alianello in La conquista del Sud. E le leggi del nuovo stato unitario, dal 1876, per combattere l’analfabetismo e finanziare scuole, furono concepite in modo da favorire il Nord ed escludere o quasi il Sud. I soliti trucchetti: per esempio, si privilegiavano i Comuni con meno di mille abitanti. Un aiuto ai più poveri, no? No. A quest’imbroglio si è ricorsi anche ai nostri tempi, per le norme sul federalismo fiscale regionale. Basti un dato: i Comuni con meno di 500 abitanti sono 600 in Piemonte e 6 in Puglia. Capito mi hai? «Mi ero sempre chiesto come mai il mio trisavolo fosse laureato,» racconta Raffaele Vescera, fertile scrittore di Foggia «il mio bisnonno diplomato e mio nonno, nato dopo l’Unità, analfabeta». Nessun Sud, invece, nel 1860, era più Sud dell’isola governata da Torino; e rimase tale molto a lungo. Nel Regno delle Due Sicilie la ”liberazione” (così la racconta, da un secolo e mezzo, una storia ufficiale sempre più in difficoltà) portò all’impoverimento dello stato preunitario che, secondo studi recenti dell’Università di Bruxelles (in linea con quelli di Banca d’Italia, Consiglio nazionale delle ricerche e Banca mondiale), era ”la Germania” del tempo, dal punto di vista economico. La conquista del Sud salvò il Piemonte dalla bancarotta: lo scrisse il braccio destro di Cavour. Ma la cosa è stata ed è presentata (con crescente imbarazzo, ormai) come una modernizzazione necessaria, fraterna, pur se a mano armata. Insomma, ho dovuto farti un po’ di male, ma per il tuo bene, non sei contento? Per questo serve un continuo confronto fra i dati ”belli” del Nord e quelli ”brutti” del Sud. Senza farsi scrupolo di ricorrere a dei mezzucci per abbellire gli uni e imbruttire gli altri. E la Sardegna, a questo punto, diventa un problema: rovina la media. Così, quando si fa il paragone fra le percentuali di analfabeti del Regno di Sardegna e quelle del Regno delle Due Sicilie, si prende solo il dato del Piemonte e lo si oppone a quello del Sud: 54,2 a 87,1. In tabella, poi, leggi, ma a parte: Sardegna, 89,7 per cento. E perché quell’89,7 non viene sommato al 54,2 del Piemonte, il che porterebbe la percentuale del Regno sardo al 59,3? (Dati dell’Istituto di Statistica, Istat, citati in 150 anni di statistiche italiane: Nord e Sud 1861-2011, della SVIMEZ, Associazione per lo sviluppo del Mezzogiorno). E si badi che mentre il dato sulla Sardegna è sicuramente vero (non avendo interesse il Piemonte a peggiorarlo), non altrettanto si può dire di quello dell’ex Regno delle Due Sicilie, non solo per le difficoltà che una guerra in corso poneva, ma perché tutto quel che ci è stato detto di quell’invasione è falsificato: i Mille? Sì, con l’aggiunta di decine di migliaia di soldati piemontesi ufficialmente ”disertori”, rientrati nei propri schieramenti a missione compiuta. I plebisciti per l’annessione? Una pagliacciata che già gli osservatori stranieri del tempo denunciarono come tale. La partecipazione armata dell’entusiasta popolo meridionale? E allora che ci faceva con garibaldini e piemontesi la legione straniera 11 domenica 4 gennaio 2015 ungherese? E chi la pagava? Devo a un valente archivista, Lorenzo Terzi, la cortesia di poter anticipare una sua recentissima scoperta sul censimento del 1861, circa gli analfabeti: i documenti originali sono spariti. Ne ha avuto conferma ufficiale. Che fine hanno fatto? E quindi, di cosa parliamo? Di citazioni parziali, replicate. Se è stato fatto con la stessa onestà dei plebisciti e della storia risorgimentale così come ce l’hanno spacciata, be’…Nei dibattiti sul tema, chi usa tali dati come prova dell’arretratezza del Sud, dinanzi alla contestazione sull’attendibilità di quelle percentuali, cita gli altri, meno discutibili, del censimento del 1871, quando non c’era più la guerra, eccetera. Già e manco gli originali del censimento del ’71 ci sono più. Spariti pure quelli! Incredibile come riesca a essere selettiva la distrazione! E a questo punto è legittimo chiedersi: perché il meglio e il peggio del Regno dí Sardegna vengono separati e non si offre una media unica, come per gli altri stati preunitari? Con i numeri, tutto sembra così obiettivo: sono numeri, non opinioni. Eppure, a guardarli meglio, svelano non solo opinioni, ma pregiudizi e persino razzismo. Di fatto, accadono due cose, nel modo di presentarli: 1) i dati ”belli” del Nord restano del Nord; quelli ”brutti”, se del Nord, diventano del Sud. Il Regno sardo era Piemonte, Liguria, Val d’Aosta e Sardegna. Ma la Sardegna nelle statistiche viene staccata, messa a parte. Giorgio Bocca, «razzista e antimeridionale », parole sue, a riprova dell’arretratezza del Sud, citava il 90 per cento di analfabeti dell’isola, paragonandolo al 54 del Piemonte. Ma nemmeno essere di Cuneo e antimerìdionale autorizza a spostare pezzi di storia e di geografia: la Sardegna era Regno sabaudo, i responsabili del suo disastro culturale stavano a Torino, non a Napoli;

2) l’esclusione mostra, ce ne fosse ancora bisogno, che i Savoia non considerarono mai l’isola alla pari con il resto del loro paese, ma una colonia da cui attingere e a cui non dare; una terra altra («Gli stati» riassume il professor Pasquale Amato, in Il Risorgimento oltre i miti e i revisionismi «erano proprietà delle famiglie regnanti e potevano essere venduti, scambiati, regalati secondo valutazioni autonome di proprietari». Come fecero i Savoia con la Sicilia, la stessa Savoia, Nizza… Il principio fu riconfermato con la Restaurazione dell’Ancièn Regime, nel 1815, in Europa, per volontà del cancelliere austriaco Klemens von Metternich). E appena fu possibile, con l’Unità, la Sardegna venne allontanata quale corpo estraneo, come non avesse mai fatto parte del Regno sabaudo. Lo dico in altro modo: quando un’azienda è da chiudere, ma si vuol cercare di salvare il salvabile (con Alitalia, per dire, l’han fatto due volte), la si divide in due società; in una, la ”Bad Company”, si mettono tutti i debiti, il personale in esubero, le macchine rotte… Nell’altra, tutto il buono, che può ancora fruttare o rendere appetibile l’impresa a nuovi investitori: la si chiama ”New Company”.

L’Italia è stata fatta così: al Sud invaso e saccheggiato hanno sottratto fabbriche, oro, banche, poi gli hanno aggiunto la Sardegna, già ”meridionalizzata”. Nelle statistiche ufficiali, sin dal 1861, i dati della Sardegna li trovate disgiunti da quelli del Piemonte e accorpati a quelli della Sicilia, alla voce ”isole”, o sommati a quelli delle regioni del Sud, alla voce ”Mezzogiorno” (la Bad Company; mentre la New Company la trovate alla voce ”Centro-Nord”). Poi si chiama qualcuno a spiegare che la Bad Company è ”rimasta indietro”, per colpa sua (e di chi se no?). Ripeto: la psicologia spiega che la colpa non può essere distrutta, solo spostata. Quindi, il percorso segue leggi di potenza: dal più forte al più debole; dall’oppressore alla vittima. Chi ha generato il male lo allontana da sé e lo identifica con chi lo ha subito; rimproverandogli di esistere. È quel che si è fatto pure con la Germania Est e si vuol fare con il Mediterraneo.

LA PATRIA DELLA CORRUZIONE.

E' possibile avere un po' meno corruzione? Si Chiede Bruno Manfellotto su "L'Espresso". Non bastano leggi più severe o l’Autorità di Cantone. Questo rimane il paese dell’impunità. Tocca alla politica fare pulizia al suo interno. È luogo comune o verità che l'Italia sia il paese più corrotto d'Europa? Insomma, ciò che continuiamo a vedere, da Roma mafiosa a Ischia mazzettara, passando per il Mose, l'Expo, e un Pd percorso da bande, è ordinario tasso di corruttela - che ci vuoi fa', è la politica - o straordinaria quotidianità criminale? E qualora record fosse, perché? Prima di tutto, però, un paio di osservazioni. A dispetto delle statistiche, in Italia c'è ancora tanta stampa libera che pubblica ogni notizia che trova senza guardare in faccia a nessuno. Voi che leggete "l'Espresso" lo sapete bene. E così, se si smazzetta a Procida o a Venezia, si scrive, magari talvolta rinunciando a quella prudenza necessaria quando si fa informazione: ma davanti a certe notizie forse è meglio rischiare che tacere, no? Anche i magistrati fanno il loro mestiere e dispongono di uno strumento formidabile, le intercettazioni, capaci di svelare mondi inimmaginabili. Pure qui ci sono abusi, si sa, e grande è la responsabilità di pm e giornalisti nel distinguere il grano dal loglio senza calpestare i diritti di nessuno. E certo si può sbagliare, ma non è un caso che a ogni governo - e quello di Matteo Renzi non fa eccezione - corrisponda una riforma della giustizia che, immancabilmente, mette in discussione poteri dei magistrati e intercettazioni. Il procuratore aggiunto di Venezia, Carlo Nordio, le vorrebbe addirittura abolire. Come se nascondere i reati significasse cancellarli, un po' come fanno i bambini quando si tappano gli occhi convinti che così nessuno li veda. Già, ma perché la corruzione è così diffusa? Perché la politica ha perso le motivazioni che la muovono, ha risposto Marcello Veneziani in una lettera al "Corriere della Sera", quelle motivazioni politiche, civili e religiose che formano il sostrato di ogni civiltà. E con queste, ha aggiunto, si sono esaurite anche le spinte più personali, cioè l’ambizione di distinguersi e la voglia di veder riconosciuti i propri meriti. Infatti la corruzione dilaga lì dove non c'è meritocrazia. Osservazione condivisibile, ma allora bisogna chiedersi come si è arrivati a questa generale demotivazione politica e personale. Intendiamoci, che la corruzione possa essere sconfitta è impensabile, essa è insita nella natura umana e da che mondo è mondo appartiene alla politica, perfino come strumento necessario a conseguire i propri obiettivi. Ma da noi non è più questo. Già trent'anni fa Rino Formica, socialista, lamentava che «il convento è povero, ma i frati sono ricchi»; oggi, addirittura, si comincia a fare politica solo per affermare il proprio personale potere e, appunto, arricchirsi. Tra le tante cause del decadimento c'è, prima fra tutte, la mancata selezione della classe politica, viziata da liste elettorali bloccate - che riservano il potere di scelta a pochi ras - e da partiti squagliati, più che liquidi. E l'idea che la politica appartenga dunque a ristrette oligarchie autoreferenziali demotiva e allontana gli uomini di buona volontà. Devastante è stato poi il cattivo esempio di leader e dirigenti, anche di antica militanza, soliti camminare sul filo del rasoio, bravi a muoversi con arroganza in un'area grigia dove favoritismi e trattamenti di riguardo si mescolano a finanziamenti occulti, appalti pilotati, tangenti in natura. L'idea generalizzata che così fan tutti e che non ci sia altro modo per emergere, trovare un lavoro, avere successo ha prodotto incredibili fenomeni imitativi a tutti i livelli e cancellato quelle forme di controllo sociale con le quali ogni comunità pone un argine al degrado morale e civile. E non basta. Se qualche passo avanti è stato fatto con l'approvazione della legge Severino, con l'istituzione di un'autorità anticorruzione (Raffaele Cantone) e il ripristino del falso in bilancio, questo ahimè è ancora il paese non della certezza della pena, ma dell'impunità: come riassume Piercamillo Davigo, una volta si minacciava «ti faccio causa», oggi la sfida è «fammi causa». Non c'è un giudice a Berlino. Facile che, con tali premesse, prevalgano cinismo e rassegnazione. E però non c'è altro modo per ridare credibilità alla politica e alle istituzioni che impegnarsi a fondo per arginare il fenomeno. Prima che siano i corrotti a rottamare gli innovatori.

Ecco la mappa della corruzione disegnata dagli studenti. Il progetto coinvolge mille ragazzi: per mesi hanno raccolto dati e testimonianze sulla corruzione in Lazio, Campania e Lombardia. Produrranno un "Atlante" che la fotografa nei loro quartieri, scrive Manuel Massimo su “La Repubblica”. Da discenti a docenti: gli studenti del progetto per la legalità "Piccolo Atlante della corruzione", dopo aver indagato il fenomeno sul campo e raccolto in forma anonima le testimonianze dei soggetti a rischio, si stanno preparando alla lezione conclusiva di fine maggio che li vedrà protagonisti. Saranno proprio loro a salire in cattedra per "insegnare" quello che hanno imparato dai tutor e agli esperti che li hanno seguiti nel corso del laboratorio - ideato e promosso da Beatrice Ravaglioli del circolo "Libertà e Giustizia" di Roma, finanziato dal Miur, sostenuto attivamente dall'Autorità nazionale anticorruzione, dall'Associazione nazionale magistrati e in collaborazione con l'Università di Pisa e con Repubblica.it. I materiali prodotti dalle 15 scuole aderenti al progetto confluiranno nel "Piccolo Atlante della corruzione": una pubblicazione scaricabile gratuitamente online che potrà essere utilizzata anche dagli addetti ai lavori che ogni giorno combattono per la legalità. Questa seconda edizione del progetto (2015) - partito lo scorso anno in via sperimentale solo a Roma e nel Lazio e allargato quest'anno anche alla Campania e alla Lombardia - ha visto la partecipazione di oltre mille ragazzi, studenti delle scuole superiori, che hanno mappato la percezione del fenomeno "corruzione" nei territori accanto ai loro istituti grazie a questionari (somministrati anonimamente a una varietà di soggetti potenzialmente interessati dal problema, ndr) messi a punto seguendo le indicazioni del professor Alberto Vannucci, politologo e direttore del Master anticorruzione presso l'Università di Pisa. Non si è trattato di un modello di didattica calata dall'alto, ma piuttosto di un processo attivo di raccolta ed elaborazione dei dati, come spiega Vannucci: "Nelle fasi iniziali noi docenti ed esperti abbiamo fornito ai ragazzi gli strumenti d'indagine: poi sono stati loro a elaborare da soli il questionario mappando i settori più a rischio e diventando protagonisti". Dopo aver ascoltato dal vivo le testimonianze di giornalisti sotto scorta come Federica Angeli, cronista di nera e giudiziaria per Repubblica, gli studenti hanno intrapreso un percorso di studio sul campo, indagando nei meandri del sommerso e diventando giovani "sentinelle della legalità" anche in contesti difficili dove la presenza della criminalità organizzata è forte e si fa sentire. Ogni scuola ha elaborato autonomamente un questionario specifico, partendo da una base comune ma modellandolo sulle peculiarità del proprio territorio. Un'operazione che fornirà una mappa diversificata e territoriale della corruzione, partendo anche da casi concreti. L'elemento della comparazione è fondamentale in questo tipo di studi, ne è convinto il professor Vannucci che auspica un ulteriore allargamento del progetto: "Dopo l'esperienza-pilota dello scorso anno e questa seconda edizione che ha coinvolto anche altre due Regioni, da studioso del fenomeno spero che il progetto possa crescere ancora. I ragazzi coinvolti hanno sviluppato gli anticorpi per la legalità e maturato una fiducia critica nelle Istituzioni, perché troppo spesso la sfiducia radicale nasce dall'ignoranza ed è lì che bisogna andare a stimolare la presa di coscienza su determinati temi". Il "Piccolo Atlante della corruzione" sarà composto da 15 parti - una per ciascuna delle scuole coinvolte nel progetto itinerante per la legalità - e scatterà un'istantanea del fenomeno che potrà essere utilizzata come base di ulteriori indagini e approfondimenti della magistratura. Uno strumento utile, soprattutto oggi che la corruzione si è "smolecolarizzata" e troppo spesso riesce a passare inosservata, come sottolinea Vannucci con tre aggettivi: "Sotterranea, invisibile, impercettibile". Portare a galla il sommerso rappresenta dunque il primo passo per guardare dritto negli occhi il problema, prenderne coscienza e impegnarsi in prima persona per cercare di risolverlo. I tre incontri finali - uno in Lombardia, uno nel Lazio e uno in Campania - si stanno avvicinando e gli studenti sono pronti a salire in cattedra: l'appuntamento di Napoli è fissato per mercoledì 20 maggio a partire dalle ore 10 presso l'Istituto di Istruzione Superiore "Sannino-Petriccione"; già calendarizzato anche l'incontro di Roma, che si terrà la mattina di venerdì 29 maggio nell'aula magna dell'Università Sapienza, alla presenza tra gli altri del presidente dell'Autorità Nazionale Anticorruzione Raffaele Cantone e con la partecipazione dell'attore Elio Germano. I ragazzi, sentinelle di legalità, hanno studiato la corruzione nelle strade che percorrono tutti i giorni per andare a scuola e ora sono pronti a salire in cattedra per parlarne in pubblico: un piccolo passo individuale per ciascuno, ma un grande esempio collettivo per tutti nella lotta alla corruzione.

Corruzione? Tutto il mondo è paese, scrive Alessandro Bertirotti su “Il Giornale”. È tutta questione di… disonestà. Abbiamo letto in molte classifiche che la nostra meravigliosa nazione è fra gli ultimi posti rispetto alla capacità di combattere la corruzione, e dunque ai primi per il numero di casi in cui tale reato è presente. E questo, ovviamente, assieme a molte altre cose non positive rappresenta per noi tutti un disonore, specialmente quando i rappresentanti di questo reato sono persone che vengono definite “onorevoli”. Scritto questo, è interessante sapere che anche nel mondo islamico esiste un divieto a procurare corruzione, come ad accettare di essere corrotti, e lo si legge nella seconda Sura. I corrotti sono coloro che non rispettano le leggi che Allah ha fornito agli uomini per vivere in pace fra loro; sono coloro che al posto di conciliare spargono divisioni e male per il prossimo; coloro che rubano, non sono leali e sfruttano la fiducia degli altri per il proprio personale tornaconto. Insomma, anche per il Corano questo comportamento viene profondamente sanzionato ed è considerato un vero e proprio oltraggio ad Allah, il quale giungerà a vendicarsi con questi suoi figli fedifraghi. Ebbene, qualche giorno fa, ho incontrato una persona che mi raccontava di essersi recato a Roma in una ambasciata di un Paese arabo, imbattendosi in un funzionario che per un documento ha rilasciato una ricevuta di Euro 25,00, chiedendone però 50,00. La motivazione è stata che, avendo la richiesta le caratteristiche dell’urgenza, vi era il costo aggiuntivo di 25,00 euro, fuori ricevuta, ovviamente. Bere oppure affogare, proprio come accade da noi quando andiamo da un professionista che non ci rilascia la ricevuta con il giusto prezzo pagato. Ho l’impressione che le classifiche che vengono stilate su questo tipo di comportamento umano, non tengano conto di quanto il concetto di corruzione sia diventato pervasivo, anche all’interno di quei paesi che ci sembrano tanto diversi da noi. E sono anche convinto che tale situazione sia rinvenibile in altri paesi, ad esempio in quelli del Nord Europa, perché la questione non è legata solo alla morale religiosa, ma anche a quello che ogni individuo pensa di se stesso. In sostanza, non lamentiamoci dei nostri ladri perché i ladri abitano l’intero mondo e non dipende dalla religione professata se una persona si comporta male con il mondo intero, quanto dall’asservimento che la mente umana, di qualsiasi cultura essa appartenga, accorda al dio denaro. È il dio denaro che governa come un Principe questo mondo, e servirlo significa dedicare molti atti della propria vita a comportamenti come questi, dimenticando che il libero arbitrio lo possiamo esercitare in tutte le cose della vita quotidiana, anche nelle più piccole.

LE BUGIE DEI POLITICANTI CHE SCHIAVIZZANO I NOSTRI GIOVANI.

Ecco come i politici manipolano i numeri. Da Berlusconi a Renzi, 20 anni di bugie. Dal milione di posti di lavoro al bonus di 80 euro, passando per tesoretti che appaiono e scompaiono e stime (come quelle Istat) su contratti e disoccupazione: sondaggi, tabelle e statistiche hanno invaso media e tv, e sono usate dai politici come strumento di propaganda. Così anche la matematica è diventata un'opinione, scrive Emiliano Fittipaldi su “L’Espresso”. Quando dà i numeri, Matteo Renzi sembra ispirarsi alla leggendaria lezione di economia di “The Wolf of Wall Street”. «Regola numero uno: nessuno (ok, se sei Warren Buffett allora forse sì), nessuno sa se la Borsa va su, va giù, di lato o in circolo», ragiona il broker Matthew McConaughey mentre spiega strafatto di coca a Leonardo DiCaprio come fare soldi e fregare i clienti. I dati e le cifre? «Sono tutto un “fughesi”, un “fugasi”, cioè falso, volante... polvere di stelle, non esiste, non tocca terra, non ha importanza, non è sulla tavola degli elementi, non è reale cazzo!». Ecco. A vedere le statistiche snocciolate dal premier e dai suoi ministri nelle ultime settimane, sembra che in Italia, come nel film di Martin Scorsese, la matematica sia diventata un’opinione, un luogo dove 2 più 2 può fare anche 5, 7 o 39, a secondo delle esigenze e degli esegeti del numero. Così, se un tesoretto da «1,6 miliardi» può apparire improvvisamente in un bel giorno di primavera e scomparire 48 ore dopo, per rinascere ancora (accresciuto o sgonfiato, a seconda dell’economista che ne scrive) in qualche dichiarazione al tg, e se le previsioni di crescita del Pil piazzate nel Documento di programmazione economica sembrano scientifiche quanto una partita a dadi, i dati sugli effetti del nuovo Jobs Act sono metafora perfetta dell’affidabilità delle tabelle che dominano il dibattito pubblico. Già: sia a fine marzo che a fine aprile il ministro Giuliano Poletti ha annunciato il miracolo, spiegando che la nuova legge aveva creato 79 e 92 mila contratti in più. Dopo una settimana l’Istat ha però certificato che il tasso di disoccupazione, proprio a marzo, ha raggiunto il suo massimo storico, toccando il 13 per cento. «I numeri non sono confrontabili», hanno spiegato fuori di sé da Palazzo Chigi. Oggi l'Istituto ha rilasciato un'altra sfilza di dati, stavolta trimestrali, che evidenzierebbero un boom (grazie al taglio delle tasse per chi assume) di contratti a tempo indeterminato. Insomma, ce più o meno lavoro di prima? Nemmeno i chiromanti e gli economisti più quotati finora ci hanno ancora capito nulla. Dal milione di posti di lavoro promessi da Silvio Berlusconi nel 1994 fino agli 80 euro del bonus Renzi, passando per l’ossessione europea del 3 per cento nel rapporto tra deficit e Pil, sono più di vent’anni che la dittatura dei numeri condiziona le elezioni, il confronto politico e, conseguentemente, l’evoluzione della società. La passione per le tabelle è diventata una moda e poi una malattia, un diluvio di cifre ci piove in testa tutti i santi giorni. «È vero. Il boom delle cifre è un fenomeno evidente, tangibile, ed è contestuale alla fine delle ideologie», spiega Ilvo Diamanti, ordinario all’università di Urbino che con dati e sondaggi ci lavora da sempre. «Durante la Prima Repubblica politica e partiti erano fondati su certezze granitiche, ma la fine della contrapposizione tra democristiani e comunisti, sommata al declino della fede religiosa, ha cambiato tutto. Le statistiche rappresentano una risposta alla crisi dei valori tradizionali, hanno riempito un vuoto, e sono diventate un totem». Scomparsi i fondamenti culturali e le visioni etico-morali su cui si disegnavano gran parte delle misure politiche e delle strategie sociali, dunque, la matematica e la statistica sono diventate il filtro più usato per rappresentare e analizzare la realtà. I politici, ovviamente, ci sguazzano dappertutto, ma sotto le Alpi lo fanno con accanimento e modalità che altrove non hanno attecchito: non è un caso che nel “Grande dizionario della lingua italiana” la locuzione «dare i numeri» vuol dire anche «apparire insincero, suscitare il sospetto di tramare un inganno, di agire con doppiezza, con fini reconditi». Di sicuro i numeri sono diventati un corredo indispensabile a ogni strategia comunicativa. Ma, oltre a dare sostegno alle chiacchiere e una parvenza di concretezza alle parole, in Italia vengono usati soprattutto per impressionare, suggestionare, muovere passioni, speranze e paure. Se nel contratto con gli italiani Berlusconi prometteva «l’innalzamento delle pensioni minime ad almeno un milione di lire al mese» e «la riduzione delle imposte al 23 per cento per i redditi fino a 200 milioni di lire annui», nel 2013 Bersani spiegò di voler restituire alle imprese «50 miliardi in 5 anni» in modo da diminuire i debiti della pubblica amministrazione. Il cavallo di battaglia di Beppe Grillo è, da sempre, il reddito minimo di cittadinanza «da mille euro al mese», mentre Matteo Salvini afferma, da giorni, che «un milione di immigrati è pronto a salpare dalla Libia per le nostre coste». Secondo il linguista Michele Porcaro, dell’università di Zurigo, c’è anche una strategia precisa nel dare i numeri, a seconda di cosa si vuole comunicare: la cifra tonda (un milione, un miliardo) «è in funzione di aggressione verbale», scrive l’esperto, «serve non a essere credibili, ma a suggestionare. Se si vuole suonare affidabili, invece, si usa la cifra esatta». In quest’ultimo caso, però, l’eccesso di pignoleria può causare effetti comici, come quando Berlusconi annunciò che durante il suo mandato a Palazzo Chigi «gli sbarchi di clandestini si sono ridotti del 247 per cento». Fosse stato vero, sarebbe addirittura un saldo negativo, sotto zero. Già nel 1954 Darrell Huff nel best seller “Mentire con le statistiche” spiegava che i politici hanno una tendenza innata alla manipolazione della matematica. Che in sé è oggettiva e non opinabile, ma la sua interpretazione è assai discutibile. Prendiamo il tasso di disoccupazione: un dato che dovrebbe essere obiettivo e invece dipende da decine di parametri: hai risultati diversi se consideri o meno gli scolarizzati, l’ampiezza della popolazione che misuri, puoi decidere se dare il tasso annuale, mensile, tendenziale. «Alla fine il politico sceglie quello che gli conviene maggiormente. L’ambizione primaria dei partiti non è quella di riformare il Paese, ma costruire consenso», spiega ancora Diamanti. «E i numeri sono invece facili da strumentalizzare. Io per primo, quando faccio sondaggi elettorali, so che il mio lavoro può essere usato come mezzo di condizionamento delle masse. Bisogna, proprio per questo, che gli studi siano autorevoli, e che i media sappiano discernere tra fatti e fattoidi». La propaganda non è l’unico modo in cui i politici e gli opinionisti stuprano le cifre. Altra caratteristica nazionale è quella di commentare fenomeni che non si conoscono a fondo, e imbastire analisi con numeri orecchiati al volo. «Nessuno studia, nessuno sa nulla, e così gli errori non si contano più. Anche perché ministri e deputati hanno mutuato dalla Borsa, sempre affamata di previsioni, una tendenza a pubblicare dati provvisori, che dopo poco tempo possono subire enormi revisioni», ragiona Giacomo Vaciago, economista all’Università Cattolica di Milano. «Questo avviene soprattutto in Italia, dove i politici hanno ormai una veduta non corta, come diceva Tommaso Padoa-Schioppa, ma cortissima: se esce un dato sull’occupazione o sul Pil, un sondaggio o uno studio dell’ultima associazione dei consumatori, il politico vuole subito commentarlo, in modo da comparire sui telegiornali delle 20, sui siti, sulla stampa e nei talk show. Pazienza se il dato è solo una stima che può cambiare dopo qualche giorno: mal che vada si fa sempre in tempo a tornare in tv e ricommentarlo, dicendo il contrario di quanto affermato prima. È tutta fuffa, una bolla, numerologia irrazionale. La cosa incredibile è che tutti noi ci viviamo in mezzo, a questa panna montata, come fossero sabbie mobili». Così non deve stupire che esperti vari, economisti, e persino i cervelloni di Bankitalia abbiano prodotto decine di interventi per spiegare come spendere al meglio il tesoretto da 1,6 miliardi di euro che dopo un po’ si è ridotto della metà, e che oggi rischia di scomparire mangiato da un nuovo buco miliardario causato dalla sentenza della Consulta che ha bocciato come incostituzionale quella parte della riforma Fornero sul blocco delle pensioni (anche qui si è passati da 5 a 13 miliardi di euro in due giorni appena). Un provvedimento che angosciò anche i cosiddetti esodati, lavoratori finiti in un limbo tra lavoro e pensione. Per mesi non si capì quanti fossero davvero: se il governo Monti li quantificò in 65 mila persone, l’Inps parlò inizialmente di 130 mila casi, lievitati in una seconda relazione tecnica a 390 mila, mentre il sindacato ne contò 300 mila. Nemmeno fossimo alla tombola di Natale. Se fin dalle scuole elementari i numeri danno ai futuri contribuenti un’illusoria garanzia di precisione, oggi gli italiani non riescono a sapere con certezza nemmeno quante tasse pagano: se il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha annunciato che il 2014 s’è chiuso con una riduzione della pressione fiscale, l’Istat - classificando il bonus da 80 euro come spesa sociale e non come riduzione del peso fiscale - ha fotografato invece un nuovo picco, arrivato al 43,5 per cento del Pil. Anche i numeri ballerini sulla spending review hanno intasato per mesi tv e giornali: se l’ex commissario Carlo Cottarelli parlò di tagli «per 8-14 miliardi», il governo Renzi ha recentemente ipotizzato «tagli per 10 miliardi». Alla fine, visto che gran parte degli impegni è rimasta solo su carta, la spesa pubblica ha continuato a crescere. Almeno così sostiene la Ragioneria dello Stato. Se le cifre hanno sostituito le ideologie, coloro che le maneggiano sono diventati i nuovi guru, i sacerdoti della modernità. «E i numeri», aggiunge Diamanti, «sono il nuovo dio: peccato che, per definizione, siano molto meno obiettivi e infallibili di quanto si creda». La voglia incontenibile di tabelle e grafici ha fatto esplodere la domanda di cifre e sondaggi già da qualche lustro, ma oggi, nell’era dei Big Data, la tendenza è ancora più evidente. La società chiede ai numeri le risposte alle domande che pone: decisioni aziendali, personali, politiche vengono prese innanzitutto su dati statistici. I numeri fanno ascolto, piacciono alla gente, e non è un caso che economisti ed esperti, veri o presunti, siano diventati star assolute della tv e del web: sondaggisti come Renato Mannheimer, Nicola Piepoli e Nando Pagnoncelli sono ospiti fissi nei talk, ascoltati e riveriti da politici e giornalisti come fossero la Sibilla Cumana (e pazienza se a ogni elezione le loro previsioni si dimostrano distanti dalla realtà); economisti come Tito Boeri hanno fondato siti di successo come lavoce.info e hanno fatto carriere importanti (Renzi l’ha nominato presidente dell’Inps, mentre cinque suoi redattori sono in aspettativa dopo aver ottenuto incarichi politici); piccole associazioni di artigiani, come la Cgia di Mestre, hanno pure creato un inedito business delle tabelle, grazie a un ufficio studi che macina centinaia di analisi e classifiche l’anno, riprese quotidianamente da agenzie di stampa e giornali. «Per fortuna non ho beccato neppure una smentita», disse il segretario Giuseppe Bortolussi in un’intervista a “Panorama”, dimenticando però le critiche arrivate da Asl, assessori comunali, Regioni ed economisti assortiti. «Questa associazione ha una buona notorietà, ma a volte dà i numeri», notò pure Marco Ponti, ordinario di Economia a Milano. «Non che i numeri che dà siano tecnicamente sbagliati, ma confonde tra di loro dati che non c’entrano affatto». Bortolussi, per la cronaca, ha ottenuto un ritorno d’immagine straordinario, e nel 2010 è stato anche candidato del Pd in Veneto alle regionali contro Luca Zaia. Il doping informativo ha travolto tutto, e non c’è fenomeno che non venga misurato e quantificato. Dal presunto boom dei suicidi degli imprenditori (bufala di cui i media si sono occupati per mesi) all’«inflazione percepita» in voga dopo il passaggio dalla lira all’euro, non c’è organismo o consorteria che non abbia un suo centro studi che macina dati e fornisce tabelle facendo concorrenza a Istat, Ocse e Eurostat: dai sindacati alla Confcommercio, da Confindustria al Codacons di Carlo Rienzi, dalle banche al Censis, il delirio di cifre su Pil, fatturati industriali, tasse, stime per la ripresa e crisi dei consumi non lascia tregua a nessuno, ventiquattro ore su ventiquattro. Vittima predestinata dell’overdose è ovviamente l’opinione pubblica, intontita da dati che alla lunga perdono di senso e di valore, in uno tsunami di matematica che, se da un lato allontana dalla verità, dall’altro distanzia le masse dalla politica, dalla televisione e dai giornali. Perché in tanti, ormai, cominciano a comprendere l’aforisma dell’ex primo ministro inglese Benjamin Disraeli: «Esistono tre tipi di bugie: le bugie, le bugie sfacciate e le statistiche».

Così sono aumentate le tasse sul lavoro. Ecco chi paga di più. E dove conviene emigrare. La pressione fiscale nel nostro Paese non vuole saperne di ridursi e ha raggiunto ormai una cifra record. Ma non tutte le categorie dei lavoratori sono vessate allo stesso modo. E il confronto con alcuni paesi europei è impietoso, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. La teoria è semplice - quasi banale: lo stato esiste per servire i propri cittadini. A volte invece succede il contrario, soprattutto nei momenti di difficoltà. Dall'inizio della crisi economica il conto è diventato sempre più salato, e a pagarlo sono state le tasse dei cittadini: anche quelle sul lavoro. I dati Ocse mostrano che rispetto al 2007, ultimo anno prima della crisi economica, tasse sul lavoro e contributi sono aumentate per quasi tutti i tipi di famiglie - per alcune molto più di altre. Prendiamo una famiglia con un solo coniuge che lavora e guadagna uno stipendio nella media - intorno ai 30mila euro lordi l'anno. Per loro, due figli e spina dorsale della classe media italiana, in sette anni il cuneo fiscale è passato dal 35,7 percento al 39 percento. Non ci vuole molto neppure per essere considerati ricchi: il secondo incremento più consistente è per i single senza figli con un reddito lordo sui 50mila euro - per un guadagno di circa 2.500 euro netti al mese -, che fra tasse e contributi passano al 53,8 percento contro il 51,4 percento del 2007. Aumentano le pretese dello stato anche verso i lavoratori single senza figli, nonché per le coppie in cui un coniuge ha reddito medio e l'altro invece molto basso, sui 10mila euro. Unica eccezione, i single con un reddito medio-basso, per i quali invece il cuneo fiscale è diminuito - anche se di poco. Eppure tassare il lavoro ha due effetti collaterali. Il primo - più evidente - è che sottrae reddito alle persone, così che ogni mese hanno meno da spendere o risparmiare. Il secondo è più sottile ma non meno importante: tanto più un datore di lavoro si trova costretto a pagare contributi elevati, tanto più sarà difficile mantenere i dipendenti che ci sono già - per non parlare di assumerne nuovi. È una cosa che può succedere a chiunque. Poniamo di aver bisogno di una persona che si occupi delle pulizie, qualcuno che badi a un anziano in famiglia. Se aumentano le tasse sul lavoro non ci sono molte alternative: o troviamo qualcuno che si accontenta di guadagnare poco - magari meno bravo -, oppure è necessario dargli uno stipendio più alto per compensare. E se salgono i contributi il risultato non cambia. Ma noi non siamo ricchi, né possiamo spendere troppo, soprattutto in tempi incerti come questi. Forse abbiamo soltanto qualcuno che dia una mano ogni tanto, senza troppe pretese. Così, invece di prendere qualcuno, lasciamo perdere e facciamo noi uno sforzo in più. Risultato: meno lavoro. L'esatto contrario di quanto sarebbe necessario mentre la disoccupazione cresce. Se invece confrontiamo l'Italia con altre nazioni europee la troviamo nel gruppo di quelle che il lavoro lo tassano di più. Allora forse non è un caso che tanti italiani decidano di trasferirsi a Londra, visto proprio in Gran Bretagna per un single senza figli e con un reddito medio-basso - una situazione comune per tanti giovani espatriati - tasse e contributi incidono per il 26 percento. Nella stessa identica situazione, per una persona nel nostro paese ammontano invece al 42 percento: un differenza che vale diverse migliaia di euro - ogni anno. Non sono l'unico gruppo: in generale nel Regno Unito il cuneo fiscale è più ridotto per tutti i tipi di famiglie e risulta generoso soprattutto verso i single con due figli a basso reddito, per i quali non arriva neppure al 6 percento. Anche in Spagna le famiglie sono meno pressate dalle tasse. Qui però la differenza maggiore con il nostro paese riguarda le coppie con figli e reddito medio basso, che sono più tutelate. Ma poiché in Europa il paese iberico è il più simile all'Italia - sotto tutti i punti di vista - sorprende trovare un sistema fiscale tanto diverso dal nostro. Francia e Germania, d'altra parte, hanno livelli di tassazione sul lavoro pressappoco equivalenti all'Italia. Non identici, però: se Londra sembra essere un rifugio per i giovani lavoratori, Parigi va in senso opposto - lì il cuneo fiscale per quel tipo di persone è persino più elevato che in Italia. La Germania è un caso a parte, e riesce ad avere allo stesso tempo tasse elevate e un livello di disoccupazione molto basso, anche per i giovani. Certo tasse e contributi sul lavoro sono una parte importante dei balzelli che cittadini e datori di lavoro devono versare allo stato, ma certo non gli unici. In realtà il loro aumento, negli ultimi anni, è andato di pari passo con una crescita generalizzata della pressione fiscale. Mentre la crisi imperversava già da tempo, Berlusconi rassicurava il paese. “I ristoranti sono pieni”, diceva ancora nel 2011, evitando di prendere misure - anche minime - per attenuare la gravità degli eventi. Così la situazione è diventata ancora più grave. Dopo di lui il governo tecnico di Monti, la cui manovra economica ha pesato di più proprio dal lato delle imposte: in questo modo l'Italia arriva ad avere una pressione fiscale pari al 43,5 percento del prodotto interno lordo. Ogni dieci euro prodotti dai 60 milioni di abitanti della penisola, quattro e 35 centesimi si trasformano in tasse dovute allo stato. È un livello mai raggiunto prima durante la Seconda Repubblica. Il governo guidato da Enrico Letta, più avanti, non modifica questo rapporto in maniera sostanziale. Né le cose cambiano con Renzi e il suo bonus di 80 euro, che secondo le convenzioni statistiche internazionali vale come ulteriore spesa pubblica - anch'essa a livelli record. Così si torna al punto di partenza mentre l'economia resta ferma, e con lei il reddito degli italiani - soprattutto di chi ha meno.

Cervelli in fuga, un problema non solo italiano. Ecco chi sono e dove vanno i nostri emigranti. Il nostro paese continua a "esportare" laureati, ma ha difficoltà ad attrarne. Scopri con le nostre infografiche interattive quali sono le mete principali e dove preferiscono andare quelli con la tua età e titolo di studio, scrive Davide Mancino su “L’Espresso”. Di italiani in giro per il mondo ce ne sono sempre di più, e su questo non c'è dubbio. Ma chi sono, e dove vanno esattamente? Secondo le stime prodotte dall'Ocse e aggiornate al 2010, con 450mila migranti gli Stati Uniti sono risultati come prima meta degli espatriati italiani. Seguono Francia (350mila), Germania (340mila), Canada (260mila), Svizzera e Australia (entrambe 185mila). Il flusso verso il Regno Unito si ferma a 140mila persone, mentre quello diretto in Spagna a 80mila. Altri gruppi più piccoli sono andati a cercare fortuna in Polonia, Irlanda o persino in Grecia, meno ancora nell'esotico Giappone. Anche i dati Istat, aggiornati fino al 2013, mostrano che negli ultimi anni i flussi di italiani che vanno via sono in aumento. Dal 2010 le cose non sembrano essere cambiate troppo e le destinazioni preferite restano, nell'ordine, Regno Unito, Germania, Svizzera e Francia e Stati Uniti. Se però andiamo a guardare più in dettaglio, emergono preferenze molto specifiche a seconda dell'età, del sesso e del proprio titolo di studio. Per esempio paesi come Stati Uniti o Gran Bretagna sono le mete preferiti dei giovani laureati, soprattutto maschi. Chi ha un'istruzione inferiore tende invece a dirigersi spesso verso Germania, Spagna e Svizzera. Discorso diverso per la Francia, più in alto fra le destinazioni delle giovani donne laureate. Anche Australia e (soprattutto) Canada risaltano per ospitare un nutrito gruppo di italiani. Di questi buona parte è composta da anziani a bassa scolarizzazione: due mete molto diffuse per le migrazioni del dopoguerra, e che però ora sembrano attrarre meno chi decide di andare via. Quando si parla di emigrazione proprio i laureati sono una delle categorie cui prestare più attenzione. Una maggiore cultura è in sé un valore aggiunto, impossibile negarlo, e poi c'è un elemento in più. Tracciarne le migrazioni è un utile indizio per capire quali sono i paesi più dinamici, aperti al cambiamento e alle nuove idee: da dovunque esse vengano. Il discorso vale anche al contrario, per stabilire i luoghi più ambiti da parte di chi lascia il proprio paese natale. Qual è allora la situazione in Italia? Sono pochi, pochissimi gli arrivi di laureati. E in effetti proprio l'Ocse, in uno studio preliminare , conferma che in quanto a capacità di attirare talenti l'Italia fa peggio di tutti gli altri paesi con cui, in teoria, vorrebbe confrontarsi. Senza neppure voler citare Regno Unito e Stati Uniti, dove rispettivamente il 46 e il 30 per cento dei migranti sono laureati, anche il 24 per cento della Spagna sembra un miraggio e all'Italia tocca invece fermarsi appena sopra il 10 per cento. Da notare anche Francia (24 per cento) e Germania (20 per cento), che in questo gioco riescono meno bene di quanto ci si potrebbe aspettare. Un altro modo di guardarla è contare quanti sono i laureati che arrivano rispetto a quelli che vanno via – il loro “ricambio”, se così lo vogliamo chiamare. Qui gli Stati Uniti restano la calamita globale: nessuno vuole andare via, mentre molti altri arrivano. Anche l'Australia, seconda in classifica e che pure non se la cava male, resta comunque molto più indietro, mentre altre mete attraenti per i laureati sono Israele, il Canada e la Spagna. E l'Italia? Il bilancio è appena positivo, e comunque molto inferiore a Francia, Germania e Regno Unito. Altrove però va peggio e si verifica una perdita complessiva di laureati: in Irlanda e Giappone, per esempio, oppure in Finlandia o Islanda dove per ogni due titolati che hanno lasciato il paese ne è arrivato solo uno a sostituirli. Attirare cervelli è come cercare di riempire una piscina: conta l'acqua nuova che arriva dall'esterno, attraverso i rubinetti, ma anche quella che scappa via dalle crepe. Per l'Italia il problema non sembra essere tanto il liquido che sfugge: le analisi Ocse mostrano che il tasso di emigrazione dei laureati nel 2010 era dell'8,4 per cento, più elevato di quello spagnolo (2,5 per cento) o francese (5,7 per cento), ma molto inferiore a quello inglese (10,5 per cento) e in linea con la Germania (8,8 per cento). Pare piuttosto che qualcuno ci abbia tagliato le forniture perché venire a nuotare, alla fine, non interessava a nessuno.

Nota: i dati sono stime che fanno riferimento all'immigrazione nei paesi Ocse fino al 2010. In alcuni casi le statistiche escludono coloro di cui non è stato possibile rilevare età, paese di provenienza o titolo di studio. È del tutto probabile, dunque, che i valori reali siano leggermente più elevati.

"Schiavi" italiani in Australia? Sì, ma legali. E invece di indignarci dovremmo imitarli. Un'inchiesta tv ha denunciato casi di schiavismo nelle campagne dell'isola oceanica. Gli sfruttati sono però solo una piccola parte del totale e il sistema di Canberra offre ai migranti molte più garanzie del nostro, scrive Stefano Vergine su “L’Espresso”. «L'odissea dei giovani schiavi italiani. Undici ore a notte, a raccogliere cipolle». L'articolo pubblicato dal “Corriere della Sera”  racconta il risultato di un'inchiesta giornalistica condotta dalla popolare trasmissione televisiva australiana “Four Corners”. Un programma che ha squarciato il velo, nella terra dei canguri, sulle migliaia di giovani europei che finiscono a lavorare gratis nelle fattorie. Tutto vero. Per gli australiani meno informati è stato sicuramente uno shock scoprire che nel loro Paese ci sono persone praticamente schiavizzate, raccoglitori di quei prodotti che finiscono poi nei supermercati di Sydney, Melbourne, Brisbane, Darwin e delle altre cittadine sparse per l'immensa isola dell'Oceania. Ma le cose sono un po' più complicate di come appaiono. Ovvero: per tanti che hanno denunciato condizioni di sfruttamento, ce ne sono almeno altrettanti contenti dei loro tre mesi di vita agreste. Perché, a differenza di quanto succede in Italia con gli extracomunitari, di fatto costretti all'illegalità oltre che talvolta schiavizzati, in Australia i tre mesi di lavoro in campagna danno diritto a un regolare permesso di soggiorno. L'inchiesta in questione si è concentrata sul visto vacanza-lavoro, il “working holiday visa” . Rilasciato solo a cittadini di alcune nazioni industrializzate, con età compresa tra i 18 e i 31 anni, costa poche centinaia di euro e permette di stare in Australia per un anno lavorando a tempo pieno, estendendo la permanenza di un altro anno se il migrante è disposto a svolgere per tre mesi alcune mansioni come l'agricoltore o l'allevatore. Si può decidere di farlo percependo uno stipendio (le paghe variano dai 10 ai 25 dollari australiani all'ora), oppure prestare la propria opera gratuitamente, in cambio di vitto e alloggio. Nel 2014, scrive il “Corriere” della Sera citando i dati del dipartimento per l'Immigrazione australiana, nel Paese c'erano più di 145 mila giovani con questo tipo di visto, oltre 11 mila dei quali italiani. I casi di sfruttamento sono stati ben documentati dalla tv australiana. E pure il "Corriere" ha dato conto di alcuni esempi, come quello di due ragazze che, impiegate in un'azienda agricola, raccoglievano cipolle rosse «dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo». Il fatto è che quelli evidenziati da “Four Corners” sono solo i casi sfortunati. Chi scrive ha potuto sperimentare in prima persona il working holiday visa australiano. E può assicurare che molti europei, fra cui parecchi italiani, non hanno subìto alcun tipo di sfruttamento. Certo, con questo sistema le aziende locali beneficiano della manodopera straniera a basso costo, ma c'è un altro lato della medaglia da considerare. Grazie a questa politica migratoria, gli italiani e i tanti altri cittadini stranieri che vogliono emigrare in Australia possono farlo legalmente. Fanno la richiesta di visto online, vanno a lavorare per tre mesi in campagna, pagati oppure solo compensati con il vitto e l'alloggio, e in questo modo si guadagnano la possibilità di restare nel Paese per un secondo anno (in realtà, come ricorda il “Corriere”, il governo di Canberra ha recentemente deciso di concedere l'estensione del visto solo a chi viene pagato per lavorare). La sostanza però non cambia. Invece di costringerli ad entrare illegalmente, come avviene oggi per i tanti extracomunitari che continuano ad arrivare sulle nostre coste, adottando una politica migratoria simile a quella del "working holiday visa" si permetterebbe ai migranti di avere due anni di visto per stare nel Paese, tempo utile per imparare la lingua e trovarsi un lavoro. Al contempo, le aziende italiane beneficerebbero di manodopera a basso costo, come peraltro già avviene. Ma tutto questo avverrebbe in modo legale, mentre oggi da noi le campagne sono ancora teatro di uno sfruttamento ben più pesante rispetto a quello visto nei casi raccontati dalla tv australiana.

Australia, ecco i giovani «schiavi» italiani: undici ore a notte, a raccogliere cipolle nei campi. 15 mila giovani italiani si trovano nel Paese con un visto di «Vacanza Lavoro» rinnovabile dopo un anno. Molti subiscono ricatti, abusi e perfino violenze sessuali, scrive di Roberta Giaconi su “Il Corriere della Sera”. Oltre 15.000 giovani italiani si trovano attualmente in Australia con un visto temporaneo di «Vacanza Lavoro». Hanno meno di 31 anni e, spesso, una laurea in tasca. Alla partenza, molti di loro neppure immaginano di rischiare condizioni di aperto sfruttamento, con orari di lavoro estenuanti, paghe misere, ricatti, vere e proprie truffe. Perlopiù finiscono nelle «farm», le aziende agricole dell’entroterra, a raccogliere per tre lunghi mesi patate, manghi, pomodori, uva. L’ultima denuncia arriva da un programma televisivo australiano, «Four Corners», durante il quale diversi ragazzi inglesi e asiatici hanno raccontato storie degradanti di molestie, abusi verbali e persino violenze sessuali. Gli italiani non sono esclusi da questa moderna «tratta». Ne sa qualcosa Mariangela Stagnitti, presidente del Comitato italiani all’estero di Brisbane. «In un solo anno ho raccolto 250 segnalazioni fatte da giovani italiani sulle condizioni che avevano trovato nelle “farm” australiane. Alcune erano terribili», spiega. Due ragazze le hanno raccontato la loro odissea in un’azienda agricola che produceva cipolle rosse. Lavoravano dalle sette di sera alle sei di mattina, anche quando pioveva o faceva freddo. «Non potevano neanche andare in bagno, dovevano arrangiarsi sul posto», dice Stagnitti. Un ragazzo, invece, era stato mandato sul tetto a pulire una grondaia piena di foglie. «È scivolato ed è caduto giù, ferendosi gravemente. L’ospedale mi ha chiamata perché il datore di lavoro sosteneva che aveva fatto tutto di sua iniziativa». Secondo i dati del dipartimento per l’Immigrazione, nel giugno dell’anno scorso in Australia c’erano più di 145.000 ragazzi con il visto «Vacanza Lavoro», oltre 11.000 dei quali italiani. E il nostro è uno dei Paesi da cui arriva anche il maggior numero di richieste per il rinnovo del visto per un secondo anno. Per ottenerlo, questi «immigrati temporanei» hanno bisogno di un documento che attesti che hanno lavorato per tre mesi nelle zone rurali dell’Australia. E questo li rende vulnerabili ai ricatti. «Ho sentito di tutto», dice Stagnitti. «Alcuni datori di lavoro pagano meno di quanto era stato pattuito e, se qualcuno protesta, minacciano di non firmare il documento per il rinnovo del visto. Altri invece fanno bonifici regolari per sembrare in regola, ma poi obbligano i ragazzi a restituire i soldi in contanti. E poi ci sono i giovani che accettano, semplicemente, di pagare in cambio di una firma sul documento». Non sono in molti a denunciare la situazione. «Quando mi chiedono cosa fare, io consiglio loro di non accettare quelle condizioni e di chiamare subito il dipartimento per l’Immigrazione, ma i ragazzi non lo fanno perché hanno paura di rimetterci. Tanti mi dicono che ormai sono abituati: anche in Italia, quando riuscivano a lavorare, lo facevano spesso in nero e sottopagati». Stagnitti alza le spalle. «La verità è che spesso questi giovani in Italia sono disoccupati, senza molte opzioni, per questo vengono a fare lavori che gli australiani non vogliono più fare». Sulla scia della denuncia di «Four Corners», il governo dello stato di Victoria ha annunciato che darà il via a un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle «farm», con l’obiettivo di stroncare gli abusi e trovare nuove forme di regolamentazione che mettano fine allo sfruttamento. Intanto, proprio nei giorni scorsi, il Dipartimento per l’Immigrazione ha deciso che il cosiddetto «WWOOFing», una forma di volontariato nelle azienda agricole in cambio di vitto e alloggio, non darà più la possibilità di fare domanda per il secondo anno di visto «Vacanza Lavoro». «Nonostante la maggior parte degli operatori si sia comportata correttamente - si legge in un comunicato stampa - è inaccettabile che alcuni abbiano sfruttato lavoratori stranieri giovani e vulnerabili».

MINISTRI. UNA IMPUNITA' TUTTA PER LORO.

Indagare i ministri è diventato impossibile. Così una legge vergogna difende la Casta. Tremonti e Matteoli sono sotto accusa per corruzione, ma una norma soccorre i politici di governo. E le uniche condanne risalgono a Tangentopoli, scrive Paolo Biondani su "L'Espresso". Altero Matteoli e Giulio Tremonti Vietato indagare sulla casta di governo. Nell’Italia saccheggiata da una corruzione enorme, c'è uno scudo legale che protegge proprio i politici con più poteri: i ministri che controllano le casse centrali della spesa pubblica. In questi mesi di crisi e lotta agli sprechi, i magistrati di Venezia e di Milano hanno rimesso in moto la speciale procedura per i reati commessi dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni. Giulio Tremonti e Altero Matteoli, esponenti di spicco dei governi di Silvio Berlusconi, sono accusati di corruzione. Come tutti gli indagati, fino a prova contraria vanno considerati innocenti. Anche perché la legge in vigore non impone più rigore e più controlli per chi conta di più, ma il contrario: come parlamentari, non possono essere intercettati, perquisiti e tantomeno arrestati; e come ministri, godono di privilegi speciali, tutti per loro. Che nella storia italiana hanno quasi sempre salvato i governanti. I condannati per reati ministeriali sono pochissimi. E gli ultimi casi risalgono ai tempi di Mani Pulite. Prima e dopo quel periodo eccezionale, decine di accuse sono state azzerate da un veto politico: stop alle indagini, con tanti saluti alla giustizia. Le inchieste sui ministri sono regolate da una disciplina che alcuni giuristi paragonano a un «fossile legale» dei tempi del vecchio codice: la legge costituzionale numero 1 del 16 gennaio 1989. «È una normativa tecnicamente incredibile: sembra fatta apposta per garantire l'impunità», sintetizza uno dei magistrati che hanno condotto le nuove inchieste. Il privilegio più vistoso è l'autorizzazione a procedere: il ministro può essere processato solo con il permesso della Camera, se è un onorevole, o del Senato. Dietro questo muro legale, trovano riparo anche i coimputati di ogni sorta: imprenditori, burocrati, faccendieri, eventuali complici mafiosi. Se il Parlamento nega l'autorizzazione, si salvano tutti. «Una vera assurdità tecnica», secondo diversi magistrati, è il comma di legge che regola l'avvio dell'inchiesta. Quando una Procura scopre un ipotetico reato ministeriale, non può fare niente: «omessa ogni indagine», come prescrive l'articolo 6, i pm devono liberarsi del fascicolo «dandone immediata comunicazione» a tutti i sospettati. Per i normali cittadini le Procure possono, anzi devono tenere segreta l'inchiesta almeno nei primi sei mesi, per evitare che l'indagato possa far sparire i soldi o inquinare le prove. Per i ministri e i loro complici, la regola è rovesciata: preavviso immediato a tutti gli indagabili, fosse anche un caso di omicidio, mafia o droga. Messi così in allarme i sospettati, l'inchiesta va affidata a tre giudici estratti a sorte tra tutti i magistrati del distretto, anche se non hanno mai fatto indagini, riuniti nel cosiddetto tribunale dei ministri: un collegio che ricorda i vecchi giudici istruttori, aboliti da un quarto di secolo. Il collegio ha solo 90 giorni per concludere tutta l'inchiesta, prorogabili di altri 60 al massimo. In tempi così brevi è praticamente impossibile fare rogatorie, ad esempio, per trovare l'eventuale bottino nascosto all'estero. Alla fine, se il tribunale archivia, il verdetto è «inoppugnabile». Se invece chiede l'autorizzazione al processo, il Parlamento può negarla anche se il reato è provato, «qualora reputi che l'inquisito abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato»: un alibi politico «insindacabile», per cui regge anche se è falso. Con regole del genere, non meraviglia che i ministri condannati si riducano a pochi sfortunati. Il primo e per anni unico fu Mario Tanassi, socialdemocratico, condannato a due anni e quattro mesi, il primo marzo 1979, dalla Corte Costituzionale con il vecchio rito: una sola sentenza autorevolissima e inappellabile. Era il fronte italiano dello scandalo Lockheed, innescato da un'inchiesta degli Stati Uniti che il nostro Paese non poteva ignorare: come ministro della Difesa, Tanassi fu corrotto con 560 milioni di lire per sbloccare l'acquisto di 14 aerei militari costosissimi. La legge del 1989 è nata proprio per garantire a ministri come lui i soliti tre gradi di giudizio. E così è toccato al tribunale dei ministri, appena creato, indagare sulle "carceri d'oro": le tangenti confessate a Milano, dopo l'arresto, dall'imprenditore Bruno De Mico. Il suo processo si è chiuso nel 1994 con la condanna definitiva a cinque anni, per concussione, dell'ex ministro Franco Nicolazzi, anche lui del Psdi, che aveva intascato 2,5 miliardi di lire. In quel periodo era diventato normale concedere l'autorizzazione a procedere, che nel 1993, al culmine di Tangentopoli, è stata abolita per i semplici parlamentari. Tra i ministri, il condannato più illustre è Francesco De Lorenzo, liberale, titolare della sanità dal 1989 al 1992, condannato a cinque anni e quattro mesi per decine di tangenti, per un totale accertato di 4,5 milioni di euro, sborsate dalle industrie farmaceutiche da lui favorite. Dopo Mani Pulite, invece, le indagini sui governi sembrano fermarsi. Per tutto il ventennio dominato da Berlusconi, la procedura per i reati ministeriali diventa un muro di gomma. Alcune procure archiviano sul nascere decine di fascicoli. E quando il tribunale dei ministri conferma qualche accusa, interviene il Parlamento. Tra i casi più clamorosi spicca il salvataggio politico di Pietro Lunardi, l'ex ministro delle grandi opere, accusato di corruzione con il cardinale Crescenzio Sepe. Nel 2010 il tribunale dei ministri conclude che Lunardi ha acquistato a prezzo bassissimo un palazzo di lusso dall’ente religioso Propaganda Fide, che intanto otteneva cinque milioni di euro dal governo«in assoluta carenza dei presupposti». I magistrati invocano per quattro volte l'autorizzazione a procedere, ma il parlamento le blocca una dopo l'altra chiedendo sempre «approfondimenti». Nello stesso periodo beneficia dello stop politico al processo anche il ministro Matteoli, accusato di favoreggiamento per aver rivelato a un amico prefetto che era sotto intercettazione per tangenti su speculazioni edilizie all'Isola d'Elba. Dopo la bocciatura del lodo Alfano, (che avrebbe sospeso i processi al premier) l'immunità ministeriale è stata invocata pure nel caso Ruby: Berlusconi, secondo la sua maggioranza, telefonò in questura per far rilasciare la minorenne marocchina agendo da premier, perché credeva veramente che fosse la nipote di Mubarak. Quindi la Camera ha votato un conflitto di attribuzioni, ma la Corte Costituzionale, il 12 aprile 2012, ha dato ragione alla Procura di Milano, scrivendo che «era obbligata a indagare». Pochi ricordano che anche Giulio Andreotti, dopo una carriera costellata di mancate autorizzazioni a procedere, tentò di sottrarsi allo storico processo di Palermo per complicità con la mafia (poi chiuso con la prescrizione fino al 1980 e l'assoluzione per gli anni successivi) accampando la competenza del tribunale dei ministri di Roma. Ma i giudici hanno replicato che Andreotti era sotto accusa solo come capo-corrente della Dc. Ora si ricomincia da due. La nuova Camera ha già autorizzato il processo a Matteoli: i padroni del Mose di Venezia hanno confessato di avergli versato 550 mila euro, oltre a dover inserire una sua società, intestata secondo l'accusa a un prestanome, nei maxi-finanziamenti per disinquinare Porto Marghera. E al Senato pende la richiesta di procedere contro Tremonti per una presunta corruzione targata Finmeccanica: 2,6 milioni di euro mascherati da parcella per il suo studio professionale. Il tribunale dei ministri ha firmato un atto d’accusa che sembra quasi una sentenza di condanna. Ma l’affare è del 2008/2009, per cui Tremonti potrà comunque approfittare della vecchia, cara legge sulla prescrizione.

PER GLI ONOREVOLI...NON C'E' FRETTA.

Onorevole inquisito? Non c'è fretta. La melina delle Camere che rallenta i giudici. Due anni di attesa per le intercettazioni di Verdini. Quasi uno per quelle dell'Ncd Azzollini. Sei mesi (finora) per l'autorizzazione nei confronti dell'ex ministro Matteoli e tempi ancora vaghi per le offese di Calderoli alla Kyenge. Quando è indagato un suo componente, il Parlamento se la prende comoda, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Paragonare un ministro di origini congolesi a un orango è un'opinione insindacabile espressa nell'esercizio delle funzioni parlamentari? Comunque la pensiate, sappiate ci vuole molto tempo prima di stabilirlo. Pure se, dopo un'istruttoria durata settimane e settimane, per decidere ci vorrebbe assai poco. E per autorizzare la magistratura a procedere nei confronti di un ex ministro accusato di aver intascato mezzo milione di euro? Possono volerci anche sei mesi. Troppo? Sciocchezze, perché come niente si può arrivare anche a un anno o due di attesa. Parafrasando Bogart, sono i tempi dell'immunità parlamentare, bellezza. Un istituto pensato per proteggere deputati e senatori dal rischio di intenti persecutori della magistratura, trasformatosi col tempo in un tribunale preventivo preoccupato più che altro di salvarli dai processi. Ma a regalare anzitempo generose assoluzioni non c'è solo questo scudo giudiziario, che ha trasformato l'immunità in impunità e portato a respingere nella Seconda repubblica il 90 per cento delle richieste di arresto avanzate dai giudici . Prima ancora di arrivare a un verdetto, qualunque sia, si assiste infatti puntualmente a una sorta di "melina" calcistica che dilata a dismisura i tempi. Il caso di Denis Verdini è emblematico: il Parlamento ci ha messo due anni prima di concedere l'uso delle sue intercettazioni nell'inchiesta sulla P4, in cui è accusato di corruzione. Era maggio 2012 quando il gup Cinzia Parasporo ha trasmesso alla Camera la richiesta di usare una trentina di telefonate captate indirettamente tra l'allora deputato, che in quanto tale non poteva essere intercettato, e la "cricca" delle Grandi opere (Angelo Balducci, Fabio De Santis e Riccardo Fusi). La Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio aveva anche espresso parere positivo e nel giro di un mese era tutto pronto. Bastava solo trovare uno spazio nel calendario dei lavori d'Aula. Invece, nonostante ci fossero mesi e mesi a disposizione, niente da fare. Risultato: la legislatura è finita, Verdini è stato eletto senatore e ad aprile 2013 il gup ha dovuto di nuovo trasmettere gli atti, stavolta a Palazzo Madama. Dove, come al gioco dell'oca, si è ripartiti da zero. E prima del via libera è trascorso un altro anno. Grosso modo lo stesso lasso di tempo necessario a rispondere "no" al gip di Trani che chiedeva di usare una decina di intercettazioni indirette del senatore Ncd Antonio Azzollini, inquisito per la presunta truffa dell'ampliamento del porto di Molfetta . Una vicenda che mostra la mera ragion politica che si cela a volte dietro alcune scelte: per salvare il potente parlamentare alfaniano e in questo modo la stabilità del governo, con una decisione senza precedenti il Pd - come ha rivelato l'Espresso - ha addirittura convocato una riunione d'emergenza. E dire che in Giunta si era già visto di tutto: 11 sedute in 7 mesi, due richieste di integrazioni istruttorie chieste al giudice e altrettante audizioni del senatore, perfino una disputa sulle date in cui erano iniziati gli ascolti. Alla fine, dopo dieci mesi di passione, il Senato ha negato l’autorizzazione: era chiaro che mettendo sotto controllo i telefoni degli altri indagati i pm avrebbero intercettato anche il parlamentare, ha motivato nella sua relazione il senatore Pd Claudio Moscardelli. Ma se quelli di Verdini e Azzollini sono i più eclatanti, i casi sono numerosissimi. Sono passati sei mesi, ad esempio, da quando è arrivata in Senato la richiesta di autorizzazione a procedere nei confronti dell'ex ministro dell'Ambiente Altero Matteoli, che secondo i pm dell’inchiesta sul Mose avrebbe ricevuto tangenti per 550 mila euro fra il 2001 e il 2012. Sarebbe bastata qualche ora per votare, visto che la relazione istruttoria sulla vicenda è pronta dal 10 febbraio. Solo che per settimane nessuno si è preoccupato di farla mettere all'ordine del giorno dell’Aula. Che si è occupata di tutt’altro, fra decreti in scadenza da convertire, emergenze, mozioni varie e perfino la richiesta di dimissioni di fuoriusciti del Movimento cinque stelle. Adesso, dopo qualche pressing informale, il presidente Piero Grasso ha finalmente fissato la data: il 2 aprile. Intanto, nel corso di un'audizione sugli appalti, si è assistito al paradosso di un presidente di commissione accusato di corruzione (Matteoli) seduto accanto al presidente dell'Anticorruzione Raffaele Cantone. Ancora tempi lunghi si prevedono invece per gli epiteti di Roberto Calderoli rivolti nel luglio 2013 all’allora ministro dell’Integrazione: «Ogni tanto, smanettando con internet, apro il sito del governo e quando vedo venire fuori la Kyenge io resto secco. Io sono anche un amante degli animali per l’amore del cielo. Ho avuto le tigri, gli orsi, le scimmie e tutto il resto. Però quando vedo uscire delle sembianze di un orango, io resto ancora sconvolto». Diffamazione aggravata da finalità di discriminazione razziale, secondo i pm bergamaschi Maria Cristina Rota e Gianluigi Dettori. Ma non per la Giunta di Palazzo Madama, che col voto determinante di alcuni senatori Pd si è espressa per lo stop al processo. Adesso resta da vedere se, dopo le polemiche, l'Aula ( e soprattutto il Pd ) confermerà o ribalterà il parere espresso. Intanto le cose vanno per le lunghe: la relazione, affidata al forzista Lucio Malan, è pronta dal 25 febbraio ma la questione non ha ancora trovato posto nel calendario dei lavori.. «Calderoli - vi si legge - ha utilizzato, all'interno di un articolato intervento sull'immigrazione fortemente critico, un'espressione forte, ma fatta esclusivamente come battuta ad effetto, visto che il contesto, oltre che politico, era anche ludico e cioè quello di una festa estiva organizzata». Insomma, uno scherzo. Quindi niente processo. Non sono state poste all'ordine del giorno nemmeno le 13 telefonate e 68 sms dell’ex senatore Pd Antonio Papania che secondo la Procura di Trapani proverebbero la corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: tra il 2010 e il 2012 l’allora parlamentare avrebbe ricevuto “in più occasioni utilità consistite nell’assunzione di numerose persone a lui gradite e da lui segnalate”. Ma la vicenda è oggetto di un ping pong che si trascina da mesi. Le carte sono arrivate a Palazzo Madama a giugno ma se ne è iniziato a discutere solo a ottobre. A dicembre il caso è approdato in Aula ma per una questione formale il fascicolo è stato rimandato in Giunta. Sono trascorsi altri tre mesi e da qualche settimana è tutto pronto per il voto dell’Assemblea. Ma tutto è ancora fermo. Va riconosciuto che quando si tratta di arrestare un parlamentare le Camere riescono a essere più celeri: per acconsentire a mandare dietro le sbarre i deputati Giancarlo Galan (Forza Italia) e Francantonio Genovese (Pd), come chiesto dai giudici, ci sono voluti “solo” due mesi. In ogni caso moltissimo se si considerano le motivazioni che richiedono la carcerazione: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Insomma, se i rischi sono tali, a ben vedere neppure otto settimane sono così poche. Tanto più che, a giudicare dalle date, nemmeno in queste circostanza di estrema urgenza il Parlamento pare essere stato particolarmente solerte nella rispondere alla magistratura. La relazione che concedeva l'arresto di Galan per corruzione, ad esempio, è rimasta ferma una dozzina di giorni prima di arrivare in Aula: dal 10 al 22 luglio 2014. Nel caso di Genovese - accusato di peculato, truffa aggravata, riciclaggio, emissione di fatture false e associazione a delinquere - le carte sono arrivate da Messina il 18 marzo 2014 ma la Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio ha iniziato l’esame solo il 26 e la seconda seduta si è tenuta il 10 aprile, dopo altre due settimane. Poi, siccome c'è stata Pasqua di mezzo, altre due settimane di stop. Casi eccezionali? Non proprio. Nella scorsa legislatura, quando fu raggiunto il record di 11 richieste di arresto nei confronti di parlamentari, i tempi sono stati grosso modo gli stessi. Nel 2008 ci vollero tre mesi e mezzo prima di votare (contro) la richiesta di domiciliari per il pidiellino Nicola Di Girolamo. E oltre due mesi prima di respingere l'arresto dell'imprenditore Antonio Angelucci, di Vincenzo Nespoli, del consigliere del ministro Tremonti, Marco Milanese, e consentire quello di Alfonso Papa (tutti del Pdl). Due mesi per arrestare Alberto Tedesco (Pd) e un mese e mezzo per mandare ai domiciliari Sergio De Gregorio (Pdl) e in carcere Luigi Lusi (Pd). Unica eccezione, quella del deputato Pd Salvatore Margiotta: nel 2008 la Camera impiegò appena due giorni per respingere la richiesta di arresti domiciliari, avanzata dal pm Henry John Woodcock nell'ambito dell'inchiesta per la realizzazione del Centro oli della Total in Basilicata. Per quelle accuse (turbativa d’asta e corruzione) lo scorso dicembre il parlamentare dem, adesso senatore, è stato condannato in Appello a un anno e sei mesi.

Casta, così l'immunità parlamentare è diventata lo scudo contro arresti e processi. Dal 1994 Montecitorio e Palazzo Madama hanno respinto il 90 per cento delle richieste di carcerazione o di domiciliari avanzate dai giudici. E negato spesso l’uso di intercettazioni e tabulati, sempre per un presunto fumus persecutionis nelle indagini. Una “protezione” che con il nuovo Senato sarà estesa a sindaci e consiglieri regionali, scrive Paolo Fantauzzi su "L'Espresso". Immunità anche per i “nuovi” senatori. Dopo critiche, proteste, smentite e pressioni varie, alla fine lo scudo giudiziario sarà esteso anche ai sindaci e ai consiglieri regionali che approderanno a Palazzo Madama. E come avviene per i deputati, servirà un’autorizzazione per arrestarli, intercettarli ed effettuare perquisizioni nei loro riguardi. Eppure, se vorrà evitare che finisca col lancio di monetine come durante Tangentopoli, il governo farebbe bene ad approfittare della riforma costituzionale per congegnare un sistema che eviti gli abusi degli ultimi due decenni. Senza contare il caso Galan , in merito al quale Montecitorio non si è ancora espresso, su 31 richieste di arresto avanzate dai giudici nell’arco di questo ventennio - ha ricostruito l’Espresso - 28 sono state respinte. Nove volte su dieci, in pratica, Camera e Senato hanno ritenuto viziate da fumus persecutionis le istanze della magistratura di mandare in carcere o ai domiciliari un parlamentare. Un dato che mostra come la riforma dell’articolo 68 della Costituzione varata nel 1993 sull’onda di Mani pulite non sia servita a granché. Così se nella Prima Repubblica, senza il via libera della Camera di appartenenza, un onorevole non poteva essere inquisito e nemmeno arrestato dopo una condanna definitiva, dal ’94 in poi l’immunità ha continuato a rappresentare un formidabile scudo dalle vicende giudiziarie. Peraltro con una significativa recrudescenza negli ultimi anni, visto che oltre un terzo delle richieste di arresto sono state inoltrate nella scorsa legislatura (2008-2013). Il berlusconiano Alfonso Papa e i democratici Luigi Lusi e Francantonio Genovese , arrestati negli ultimi tre anni, sono gli unici a essere finiti dietro le sbarre. Ma fino al 2011 ogni richiesta è stata puntualmente respinta. Spesso grazie anche al voto segreto. Come nel caso del deputato Pdl Nicola Cosentino, accusato di concorso esterno in associazione camorristica: secondo l’istruttoria svolta dai deputati della Giunta delle autorizzazioni di Montecitorio, l’onorevole andava spedito in carcere come chiedeva il gip di Napoli. Ma nel segreto dell’urna, nel 2009 l’Aula lo ha graziato , impedendo anche l’utilizzo di alcune sue intercettazioni telefoniche. Idem nel 2011 per Alberto Tedesco (Pd) e nel 2012 per il senatore Sergio De Gregorio (Pdl), accusato di truffa e false fatturazioni nell’inchiesta sui fondi pubblici all’editoria e per il quale erano stati chiesti i domiciliari. In altri casi, invece, il Parlamento si è trasformato in una sorta di Corte di Cassazione. E anziché limitarsi ad appurare un eventuale intento persecutorio dei pm (come previsto dalla legge), si è spinto a dare giudizi di merito sulle inchieste. Nel 1997, ad esempio, il deputato Carmelo Carrara (Ccd-Cdu), relatore della richiesta d’arresto di Cesare Previti - salvato dal carcere nell’inchiesta Imi-Sir, in cui l’avvocato fu poi condannato per corruzione in atti giudiziari - ravvisava «un’esasperazione accusatoria del gip di Milano». Due anni dopo anche il relatore Filippo Berselli (An) motivò il suo “no” alla richiesta di carcerazione nei confronti di Marcello Dell’Utri per la «evidente sproporzione tra la misura cautelare adottata e i reati contestati», ovvero tentata estorsione e calunnia. Quando il gip di Bari nel 2006 chiese i domiciliari per Raffaele Fitto nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità, la Giunta della Camera stabilì all’unanimità che il pericolo di reiterazione del reato “non appare motivato”. E quindi l’ex governatore pugliese - poi condannato a 4 anni in primo grado -  doveva restare libero. La richiesta di carcerazione nei confronti del deputato Udc Remo Di Giandomenico, anche lui accusato di corruzione nel 2006, era invece “connotata da fumus persecutionis, specie in rapporto all’attualità delle esigenze cautelari”. E siccome l’onorevole in una sua memoria difensiva alla Giunta aveva “offerto concreti elementi di contestazione nei confronti delle accuse”, “si affievolisce la esigenza custodiale”. Tradotto: niente arresto. Il fumo della persecuzione Montecitorio l’aveva ravvisato anche nel 1998, nelle due diverse richieste di carcerazione dell’ex sindaco di Taranto Giancarlo Cito (poi condannato sia per l’una che l’ altra vicenda): entrambe furono infatti respinte. Si dirà: se l’inchiesta è debole, è comprensibile una levata di scudi. Eppure nemmeno un’indagine riconosciuta come fondata dagli stessi onorevoli ha portato a un esito diverso. Quando nel 2006 il gip di Roma chiese il carcere per il deputato Giorgio Simeoni (Forza Italia) per il pericolo d'inquinamento delle prove in un’inchiesta sulla sanità, la maggioranza dei suoi colleghi in Giunta osservarono che “il pericolo mancherebbe perché il quadro indiziario è tutto sommato abbastanza solido”. Risultato: l’autorizzazione a procedere non fu concessa nemmeno in questo caso. Il diniego agli arresti non è l’unico aspetto significativo. Grosso modo una volta su due (in totale 26 su 58), il Parlamento ha negato anche l’uso di uno strumento fondamentale d’indagine come le intercettazioni. Ma le Camere non hanno solo impedito l’utilizzo delle conversazioni captate indirettamente. In qualche caso hanno negato perfino la semplice acquisizione dei tabulati, che consentono di ricostruire le chiamate ricevute ed effettuate, per “tutelare la sfera di riservatezza del parlamentare”. Pure l’insindacabilità, vero cuore dell’immunità, si è prestata a qualche interpretazione di manica assai larga. Si tratta dello “scudo” nei confronti delle opinioni espresse dagli eletti, una prerogativa fondamentale per assicurare la loro indipendenza e autonomia senza il timore di essere trascinati in tribunale. Su oltre 700 casi, il 92 per cento delle volte Montecitorio e Palazzo Madama hanno ritenuto che i giudizi di deputati e senatori sfociati in una causa per diffamazione erano stati espressi nell’esercizio delle funzioni parlamentari, come prevede la legge. Pertanto gli onorevoli non erano processabili. Un “ombrello” sotto il quale - solo per citare alcuni degli episodi più celebri - sono finite le critiche di Francesco Storace a Giorgio Napolitano (dalla «disdicevole storia personale», la «evidente faziosità istituzionale» e «indegno di una carica usurpata a maggioranza»), le accuse di Maurizio Gasparri a John Woodcock («un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole») oppure le intemerate di Vittorio Sgarbi contro i pm del pool di Milano («vanno processati ed arrestati: sono un’associazione a delinquere con libertà di uccidere che mira al sovvertimento dell'ordine democratico»). Proprio Sgarbi, peraltro, in questi anni si è dimostrato una sorta di record-man: oltre 150 delibere di insindacabilità (un quinto del totale) hanno riguardato proprio lui. Un dilagare generalizzato contestato dalla Corte costituzionale, che in questi 20 anni - a seguito di conflitti di attribuzione sollevati dai giudici - ha annullato 84 concessioni di immunità: per la Consulta si trattava di affermazioni che nulla avevano a vedere con l’attività parlamentare. E quindi deputati e senatori andavano processati come normali cittadini.

LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA.

Mafia: pm Teresi, nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli. L'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere ricevere vantaggi che sono tipici di persona senza scrupoli". Lo denuncia il 30/04/2015 all'Adnkronos il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Probabilmente esiste davvero la mafia dell'antimafia - dice il magistrato a margine della commemorazione di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo - Ormai esistono non solo rischi ma anche concreti esempi di infiltrazioni nella cultura e nella pratica giornaliera dell'antimafia che è fatto da persone che vogliono sfruttare questo palcoscenico per potere emergere e potere ricevere dei vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli". "Non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste certa", aggiunge. Poi, parlando dell'ex segretario del Pci La Torre ucciso il 30 aprile di 33 anni fa, l'aggiunto dice: "Pio La Torre è stato un pioniere non solo della lotta alla mafia, ma anche della lotta alla miseria e alla vera lotta di classe in Sicilia - dice - La questione meridionale scissa dalla questione mafiosa era un esercizio culturale inutile. Lui ha intuito che erano la stessa cosa e l'ha pagata con la vita, perché ha individuato la mafia come la vera responsabile del distacco della Sicilia dal resto della crescita della nazione. Quindi, un esempio di capacità di vedere avanti veramente straordinario". "Ora si parla più di lotta alla mafia come esercizio di abitudine che andrebbe rivisto e si parla meno di questione meridionale, cioè abbiamo di nuovo scisso le due cose - aggiunge Teresi - Continuiamo a fare finta che la storia non esista e che le due vicende siano separate. Dobbiamo capire che la questione economica siciliana è questione di mafia".

Giustizia: il pm di Palermo Vittorio Teresi "nell'antimafia ci sono persone senza scrupoli", scrive Vincenzo Vitale su "Il Garantista". In occasione della commemorazione di Pio La Torre, l'affondo di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo. Dopo tanti anni, si da ragione a Sciascia. Nella mitologia greca, Cronos - il Tempo - divora i figli che esso stesso ha fatto nascere: e ne rimane un celebre e perfino impressionante olio di Goya, dove appunto si mostra un essere mostruoso che letteralmente prende a morsi poveri omiciattoli in sua totale balia. Ne facciamo esperienza ogni giorno: tutto ciò che ci affatichiamo a fare e a disfare, non appena entra nell'ambito della vita, delle cose, è già candidato a scomparire, a dissolversi. Appena nato, il piccolo già principia ad invecchiare. Tuttavia, in un'altra prospettiva - che è quella che qui davvero interessa - il Tempo si fa cogliere come un potente coefficiente di chiarificazione delle realtà più complesse: esso serve a far capire ciò che prima non si capiva, a semplificare ciò che sembrava complicato, perfino a dissolvere la nebbia dell'ideologia. Si pensi per esempio a come Emile Zola abbia affidato al tempo la marcia inesorabile di quella verità che condusse poi, dopo anni, alla definitiva riabilitazione del capitano Dreyfus, ingiustamente accusato di spionaggio a favore dei tedeschi. È questo il caso che oggi si registra in virtù delle dichiarazioni di Vittorio Teresi, Procuratore Aggiunto di Palermo, il quale ha affermato all'Adnkronos che l'antimafia è rappresentata anche "da persone senza scrupoli che vogliono sfruttare questo palcoscenico per poter ricevere vantaggi che sono tipici di persone senza scrupoli", e che aggiunto: "...non parlerei di mafia dell'antimafia, ma di mancanza di scrupoli di una certa antimafia che esiste". Ebbene, ricordate un celebre articolo pubblicato a firma di Leonardo Sciascia, nel gennaio del 1987, sul Corriere della Sera, dal titolo (che, peraltro, non era a lui dovuto) "I professionisti dell'antimafia", e che tante polemiche suscitò? Ricordate che il coordinamento antimafia di Palermo, in quel tempo, inveì contro lo scrittore siciliano, affermando che egli si era posto "ai margini della società civile"? Ricordate che gli intellettuali di casa nostra s'indignarono profondamente alla pubblicazione di quel pezzo e che nel nome della lotta alla mafia criticarono aspramente Sciascia, ergendosi a difesa di Orlando e Borsellino? Basti pensare a Eugenio Scalari. Ne nacquero poi polemiche annose ed astiose che travagliarono dalle pagine dei giornali e di riviste di politica e di costume l'intera società italiana, insomma una vera tempesta mediatica e ideale. E perché? Semplicemente perché lo scrittore siciliano aveva individuato come esistesse il concreto pericolo che, per come veniva organizzata l'antimafia, per le strategie che usava, per il tipo di consenso a volte cieco e privo di capacità critica che essa riusciva a capitalizzare, dietro di essa si muovesse un interesse di altro tipo, assai meno nobile e socialmente utile, un interesse inconfessabile destinato a costruire un vantaggio proprio o dei propri sodali, fosse esso politico, sociale, morale, perfino economico e che perciò si trattava di demistificarlo, portandolo a conoscenza di tutti. E ciò non certo per indebolire la lotta alla mafia, effetto che, tradotto quale accusa mossa allo scrittore, suonava già semplicemente insulso, ma, al contrario, per depurarla da indebite contaminazioni che sarebbero state in grado di degradarla, di renderla dominio di pochi invece che patrimonio di tutti. Già. Ma ciò Sciascia scriveva e denunciava - "spirito critico mancando e retorica aiutando" - ventotto anni e quattro mesi or sono. Ci son voluti tutti, per capire che le cose stavano proprio così, che davvero nell'antimafia son presenti anche persone che, prive di scrupoli, ne sfruttano il palcoscenico per lucrare vantaggi personali, come ha efficacemente dichiarato il dott. Teresi. E, a pensarci bene, perché dovrebbe o come potrebbe essere diversamente? Perché mai l'antimafia dovrebbe far eccezione a tutte le altre organizzazioni umane - dal circolo degli Ufficiali alla bocciofila - nessuna delle quali è -né pretende di esserlo - perfetta, senza macchia, tutta ed interamente composta da persone probe, incontaminate, incorruttibili. Del resto, come è noto, "l'incorruttibile" finì col perdere la testa sotto la medesima lama alla quale egli stesso aveva destinato migliaia di teste. L'antimafia, perciò, non fa al riguardo eccezione. Solo che - ed è qui la vera differenza che, come un crinale, distingue il profetismo letterario dello scrittore dalla pigrizia coscienziale - Sciascia ebbe la preveggenza di vederlo ed il coraggio civile di denunciarlo quasi trent'anni or sono: e ne ebbe rampogne e contumelie. Oggi, anche altri non solo lo comprendono, ma lo dichiarano pubblicamente e si spera si tratti ormai di un dato definitivamente acquisito dalla coscienza sociale. E dunque, meglio tardi che mai: il Tempo in questo caso è stato galantuomo.

Pietrangelo Buttafuoco su “QTSicilia Magazine”: "Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia". Ma Buona Pasqua a Tutti. Come solitamente facciamo nelle prossimità delle festività, cogliamo l'occasione nell'augurare Buona Pasqua ai lettori, per sottolineare e risaltare un tema attuale che assedia la Sicilia.Stavolta non scriviamo noi ma vogliamo riportare un interessante pezzo scritto, con maestria solita, da Pietrangelo Buttafuoco su "Il Foglio" di stamane. Il tema è a noi caro visto che lo abbiamo più volte affrontato con determinazione, affermando il nostro pensiero che non è soltanto intellettuale e lontano dalla realtà, bensì è la testimonianza di chi vive, osserva, analizza la società siciliana che deve necessariamente scrollarsi di dosso la teoria bizzarra delle patenti dell'antimafia, metodo usato per la lotta politica e non per la lotta alla mafia. Detto ciò leggiamo l'imperdibile Pietrangelo Buttafuoco. "Due sono i tipi di mafia: la mafia e la mafia dell’antimafia. Non avendo obblighi di diplomazia, ecco, la dico chiara. L’esito della lotta alla mafia, al netto del teatrino cui s’è ridotta, è quello di una tenaglia stretta intorno alla Sicilia.Due sono i tipi di mafia e l’unica fabbrica operosa di Sicilia è quella dell’antimafia fatta mafia. E’ la madre di tutte le imposture. E’, appunto, un teatrino la cui regia è la malafede e il cui pezzo forte – orgoglio del cartellone – è la pantomima degli inganni. Uno spettacolo grottesco, questo della tenaglia che avvita e svita, consumato in queste giornate di convulsione del potere regionale e, in rimbalzo romano, nella preparazione delle liste per le Europee dove sia gli assessori chiamati nella giunta di governo, sia i candidati del Pd, tutti duri e tutti puri, hanno contrabbandato ideali e calunnie, ricatti e anatemi, lasciando inerme e sconfitta la verità. E’ stata tutta una gara di tutti contro tutti, quella di questi giorni. Tutti a sfregiarsi reciprocamente secondo il tasso di antimafietà riducendo la rivoluzione del governatore Rosario Crocetta – una rivoluzione di fatui annunci – a una macchietta. Una favola, dunque. La cui morale, purtroppo, è lercia. Il pegno di sangue di tanti innocenti è diventato pretesto di un mercato per le carriere dei vivi e il destino tutto ribaltato di una bugia apparecchiata nelle buone intenzioni – quella di essersi assicurato il credito dovuto ai rivoluzionari, ai giusti, ai difensori della legalità perpetuando la fogna del potere – s’è svelata in un contrappasso: Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che sfasciò l’antimafia. L'ex Pm Nicolò Marino, assessore dell’attuale governatore fino a qualche settimana fa, è stato tolto di mezzo, causa incomprensioni in tema di energia. Incomprensioni senza riparo, vista la delicatezza della questione, quella della gestione dei rifiuti. E tanto delicata deve essere stata la questione da far dimenticare a Crocetta quando Marino indagò a suo proposito. Indagò e archiviò. Per comprovata innocenza, manco a dirlo.L’ex Pm, pluristellato in materia di antimafia, intervistato da Livesicilia ha letteralmente scorticato il governatore. Lo ha spogliato di tutti i paramenti, quelli del rito trito e accettato dell’antimafia naturalmente. Un’intemerata che lasciato attoniti quanti, ancora qualche settimana prima, vedevano nell’uno e nell’altro, la sacra unione dei rivoluzionari, dei giusti e dei difensori della legalità. Tra le tante parole dette da Marino ad Accursio Sabella che lo intervistava, una frase, una, ha turbato più di tutte: “Dopo la vergognosa vicenda Humanitas ho dovuto formalizzare la richiesta del rispetto delle regole”. Laddove per vicenda vergognosa s’intenda il caso di una delibera per l’ampliamento dei posti letto di una clinica privata, l’Humanitas. Una delibera fatta firmare nottetempo, nelle ferie d’estate, a Lucia Borsellino, assessore nel delicato assessorato della Sanità e che di cognome, appunto, fa “Borsellino”. Una delibera che solo grazie alle rivelazioni della stampa venne ridimensionata ad errore, forse un lapsus, certamente gettata nella fogna di quel potere di Sicilia, tanto micragnoso quanto inesorabile.Oltre il sipario, la tenaglia. Questo è il fatto. A disposizione di furbissimi prestidigitatori della legalità per cui se oggi va bene Caterina Chinnici candidata alle europee per il Pd – la stessa, figlia di Rocco, il magistrato trucidato dalla mafia – appena ieri stava andando a male. Stava nella giunta di governo di Raffaele Lombardo, condannato in concorso esterno. Per mafia ovviamente. E Lombardo però – oltre alla Chinnici – è anche quello che ha trasmesso a Crocetta, il suo successore, massimo campione di antimafietà per come è notorio, il regista politico che ha assicurato la continuità: Beppe Lumia, un altro campione di antimafietà. Anzi, di più. Il già presidente della Commisione parlamentare antimafia è il maestro concertatore, compositore, arrangiatore e direttore di orchestra di ben due governi siciliani. Quello del condannato, innanzitutto. Di Lombardo, infatti, Lumia si fece garante. E gli affidò – a mo’ di coroncina d’aglio sul vampiro – tutta un agghirlandar di magistrati in giunta. Garante e ancora qualcosa di più, Lumia, lo è dell’attuale governatore. Con perizia riuscì a mettere al posto di Massimo Russo, un altro magistrato, assessore della delicatissima Sanità con Lombardo, la suddetta Lucia Borsellino, con pazienza ha poi seguito – passo dopo passo – il periglioso percorso del governo di Crocetta, prima e dopo il rimpasto, non riuscendo però a farsi candidare alle Europee avendo avuto contro “non un colluso e contiguo comunista da mascariare”, per dirla con Francesco Foresta, ma appunto la Chinnici, degno deus ex machina del più inatteso colpo di scena in cotanto teatro. Nella tenaglia, lo spettacolo. Anzi, il baraccone. E siccome la rivoluzione è pur sempre redditizia, siccome val bene un tradimento, un disconoscimento o un ripudio, tutto quel mettersi in casa un Antonio Fiumefreddo oggi, per poi scaricarlo domani (uno su cui Il Fatto prima e poi Repubblica hanno però svelato essere l'avvocato difensore della “famiglia Ercolano”), non è tanto una prova di pragmatismo di Crocetta, piuttosto un reiterare il pasticcio. Fiumefreddo, infatti, ha perfino la patente d’antimafia, da soprintendente del Massimo Bellini, a Catania, issò sulla facciata del teatro i ritratti di Matteo Messina Denaro per additarlo a eterno monito di wanted e Crocetta che adora le eccentricità, improvvisa, impapocchia, fa giochi di prestigio, allude e illude perché – appunto, appunto – la fase estrema dell’antimafia non è più il professionismo, bensì l’illusionismo. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Vista la malaparata, nel fare il suo rimpasto, il governatore ha ripiegato su altre personalità. Perfino d’importazione, come il dr. Salvatore Calleri, da Firenze. “Un allievo”, si legge nel curriculum, “di Antonino Caponnetto”. Dopo di che, certo, il cambiamento, evocato da Totò Cardinale, “è stato bloccato...” L’ex ministro nisseno è il leader del Drs, una sigla non ben definita, è una sorta di pustola del Pd, una delle tante casette a uso dei transfughi. E’ il partito del Fiumefreddo di cui sopra, costretto alle dimissioni, frastornato al punto di scrivere sul proprio sito web una lettera intrisa di allusioni al Golgota, ai ferri della Passione, al Crucifige di un agnello – qual è lui – il cui martirio comprova il cambiamento di Sicilia definitivamente bloccato. E così sia. Improvvisa, impapocchia e illude, l’illusionista. Nel frattempo s’è tentato di mettere Antonio Ingroia al posto del reprobo Marino. L’uomo simbolo di tutti i simboli è, si sa, momentaneamente sott’utilizzato. Al momento, infatti, è commissario della disciolta provincia di Trapani. Non è propriamente commissario di Pubblica Sicurezza ma ha comunque il preciso compito di catturare Matteo Messina Denaro, il latitante dei latitanti e Crocetta che lo vorrebbe con sé, in qualunque ruolo, pure in quello di un Mastro Lindo risanatore delle partecipate regionali, compatisce quell’amico così sfortunato che retrocede sempre di più nella parodia e magari teme di vederlo finire a cantare tra i tavoli di “Pizza & pizzini”, il nuovo ristorante di Massimuccio Ciancimino, figlio di don Vito, star di Servizio pubblico, la trasmissione di Michele Santoro dove a suo tempo, l’ex Pm, portandoselo a braccetto per farlo applaudire dal pubblico politicamente sensibile, lo battezzò “icona dell’antimafia”. Ecco, certo. Sono cose al cui confronto, lo slogan di Totò Cuffaro, “La mafia fa schifo”, per ingenuità e pacchianeria, fa ormai sorridere. Ma c’è solo da piangere. Crocetta che se ne partì per combattere la mafia risultò che la sfasciò tutta l’antimafia. E non solo perché due persone serie come Claudio Fava e Leoluca Orlando se ne guardano bene dall’assecondarlo ma perché la terapia, infine, col pullulare di pittoreschi personaggi dalla carriera proprio sgargiante – su tutti, Pietro Grasso, quasi un vescovo del rito trito e politicamente accettato – ha fatto propri i sintomi della malattia. Come la mafia, in letteratura, al cinema, nelle fiction, ha trovato la propria caricatura, così l’antimafia, nella sua variante di mafia, è diventata prateria di carriere, territorio senza Re e senza Regno a uso di spregiudicati elargitori di credibilità e autorità, di fatto sostituitisi allo Stato e alle Istituzioni se della giustizia, e dei valori sacrissimi della vita, ne fanno solo un uso politico. Peggio che una caricatura, un’impostura, di cui non si può neppure fare show business. Viene difficile immaginare un copione speculare ai perfetti modelli della commedia, non un Johnny Stecchino di Roberto Benigni, non il Mafioso di Alberto Sordi, non La Matassa dei sublimi Ficarra e Picone ma solo e soltanto la parodia di Ingroia fatta da Crozza. Poca cosa. E potremo sperare un giorno di liberarci dall'uggia del rito, trito e ritrito, quando come con la mafia anche la mafia dell'antimafia potrà essere raccontata e denudata dalla satira. Prima di allora, ci resta addosso solo l'impostura. E sono cose di Sicilia, tutte dentro il sipario, strette nella tenaglia della legittimazione reciproca o, al contrario, del disconoscimento di ritorno. Ponendo il caso, tra i casi, che un Salvatore Borsellino (che di cognome, appunto, fa “Borsellino”), non convochi un’assemblea di Agende rosse e non stili un nuovo elenco di buoni e di cattivi (sì, la famosa agenda da cui Paolo Borsellino non si staccava mai, quella andata sicuramente distrutta dalla carica di tritolo, ritenuta trafugata sulla scena dell’orrenda strage, quella considerata alla stregua del Graal per smascherare la trattativa Stato-Mafia e poi rivelatasi “un parasole”). Buoni e cattivi che pencolano, trasversalmente, tra mafia, antimafia e mafia dell’antimafia per relegare i mafiosi, già servi di scena, in cotanto teatro, alla consolle degli effetti speciali – quasi a far da tecnici e attrezzisti, dietro le quinte – giusto per luci & ombre. E proiettili, ovviamente, da imbustare. Proiettili che intelligentissimi mafiosi fanno recapitare nei momenti di massima difficoltà agli illusionisti e per restituirli così alla scena, anzi, al baraccone. La tenaglia, dunque. Una morsa fatta di ferri opposti ma ugualissimi pronta a svitare o avvitare, a proprio piacimento, la testa vuota, vuotissima di un pupo senza più speranze se in via Libertà, a Palermo, i negozi chiudono e muoiono come i fiori di agave nelle sciare di pietra: di colpo, prosciugandosi di vita. Tutti – in quella strada, un tempo ricca di commerci – aspettano l’apertura di un lussuoso locale e già aleggia la nera leggenda (“ci sono i soldi di Matteo Messina Denaro...”). Non c'è più niente di niente nell’Isola: non un’industria, non più la Fiat a Termini Imerese, né Pasquale Pistorio e la sua Stm a Catania, un tempo fiore all’occhiello dell’elettronica. Perfino i turisti scarseggiano se a distanza di un anno, a Lipari, si sente l’eco di un colpo di pistola. E’ quello con cui spense la propria vita ­– flagellata dai debiti, dalla crisi, dalla mancanza di lavoro – Edoardo Bongiorno, titolare dell’Hotel Oriente, un albergo tra i più antichi, un luogo della bellezza destinato all’altra tenaglia, quella dove una ganascia è il niente e l’altra è il nulla. Nessuno più vuole investire in Sicilia. Antonello Montante, presidente di Confindustria, che si schiera contro le banche impegnate a strozzare quel poco che resta delle aziende, denuncia con durezza il maledetto clima che abbuia ogni speranza: “Tutti hanno paura di tutti, della mafia, della burocrazia e anche dei giornalisti”. Tutti hanno paura di tutti. E tutti – in questa terra, ormai alla prova generale del default che toccherà in sorte a tutta l’Italia – aspettano di partirsene via. Ed è una fortuna che Campari abbia acquistato Averna. L’amaro di Caltanissetta è stato preso in custodia dal bitter di Milano. Per qualche anno ancora, Deo gratias, si potrà fare il brindisi. E il Deo gratias definitivo, quello necessario, potrà aversi se qualcuno, qui, a Roma, capisca che cosa sta succedendo davvero. Se proprio non un Cesare Mori, un prefetto che arrivi e metta fine ai mercanti asserragliati nel tempio della lotta alla mafia, almeno un commissario, in Sicilia, ci vuole e serve. Se non subito, subitissimo. E come quello, come Mori, si faccia forte di un principio: far tornare lo Stato in Sicilia. Avere carta bianca e – come quello, che ebbe mandato pieno dal presidente del consiglio dei ministri – avere il potere di cambiare le leggi se queste, sporche per come è infettata di mafia la legislazione derivata dallo Statuto autonomo, non permettano il raggiungimento dell’unico necessario proposito: fare tornare lo Stato in Sicilia. PS. Ho preso a prestito la categoria del dopoguerra, quella sulla distinzione di Leo Longanesi dei due fascismi ( "il fascismo e il fascismo dell'antifascismo", elevato a pretesto di una guerra civile ancora viva) perché è il binario obbligato dell’identità di una nazione, il cui tracciato, forgiato dalla natura arcitaliana, è quello inesorabile del conformismo. Dopo di che, la Sicilia. Certo, tutti hanno paura di tutti. Una cosa è la mafia, un'altra la mafia dell'antimafia e un'altra cosa ancora è la lotta alla mafia. E io, qui, lo so che mi ritrovo a prendere a mani nude le braci degli altri. Ma – come si dice? – così come finisce, un giorno si racconterà".

Indagato il pm antimafia Mollace. “Favoreggiamento alla ‘ndrangheta”, scrive Guido Ruotolo su “La Stampa”. Lo storico magistrato di Reggio Calabria sotto inchiesta per corruzione. Un colpo di scena, un altro. Per Reggio Calabria e l’antimafia è una mazzata. E anche un nuovo capitolo dei veleni che hanno intossicato il Palazzo di Giustizia. È indagato dalla procura antimafia di Catanzaro Francesco Mollace, uno dei pilastri storici della procura antimafia, sostituto procuratore generale di Reggio Calabria da meno di due mesi è in servizio alla procura generale presso la Corte d’appello di Roma (e qualcuno ipotizza la precipitosa decisione di trasferirsi dettata per evitare il carcere). L’ipotesi di reato che viene ipotizzata nei confronti dell’alto magistrato è corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di aver favorito la ’ndrangheta. L’inchiesta dei pm Giuseppe Borrelli, Gerardo Dominjanni e Domenico Guarascio è una costola di quella sugli autori della strategia stragista contro lo Stato del 2010, la cosca Lo Giudice, che fece esplodere ordigni sotto il portone della procura generale (3 gennaio) e nell’atrio del palazzo del procuratore generale Salvatore Di Landro (25 agosto). Infine, il 5 ottobre, fu ritrovato un bazooka sotto la procura di Giuseppe Pignatone. Per questi attentati si sta celebrando il processo a Catanzaro, avendo individuati gli autori. Sono diverse le letture sul possibile movente. Quella più accreditata: il procuratore generale Di Landro si era da poco insediato, facendo saltare immediatamente quegli accordi non scritti tra avvocati e sostituti procuratori generali, che praticavano il patteggiamento occulto in Appello. E, dunque, le bombe come richiesta a Di Landro di ripristinare quegli accordi. Francesco Mollace è stato lo storico titolare delle inchieste che hanno riguardato i fratelli Lo Giudice, e nessuna di queste indagini è mai arrivata a processo. Ma c’é, ci sarebbe anche dell’altro. Viene ipotizzato dagli inquirenti uno scambio corruttivo tra il magistrato e la cosca di Nino Lo Giudice. Sì, il «nano», il mandante delle bombe del 2010. Il dottor Mollace - che non ha voluto commentare le indiscrezioni sulle indagini che lo riguardano - avrebbe tenuto la sua barca nel cantiere navale di Nino Spanò, il prestanome della cosca Lo Giudice. A processo Spanò ha dichiarato che la rata mensile per la barca del magistrato Mollace veniva pagata in contanti e che lui non la contabilizzava. «Don Ciccio, cercate don Ciccio che mi deve difendere». Quello che è importante è ricordare che questa intercettazione è agli atti della inchiesta, genuina. Il boss comunica al suo avvocato di contattare Mollace, e sembra dire che è il suo garante. Per l’accusa, questa intercettazione è una prova decisiva, che mette in secondo piano la interpretazione e l’attendibilità del pentito Nino Lo Giudice che prima chiama in causa il procuratore aggiunto nazionale antimafia, Alberto Cisterna, poi evade dal rifugio protetto lasciando un memoriale nel quale ritratta tutto (infine è stato catturato). 

E il giudice finì nei guai per colpa dei Lo Giudice, scrive Felice Manti su “Il Giornale”. Ma la cosca dei Logiudice esiste ancora? A questa domanda sembra dare una risposta la decisione della Procura della Repubblica di Catanzaro, che ha chiesto il rinvio a giudizio dell’ex sostituto pg di Reggio Calabria Francesco Mollace, adesso in servizio alla Procura generale presso la Corte d’appello di Roma. Mollace è indagato dalla Procura della Repubblica di Catanzaro per corruzione in atti giudiziari. Alla sbarra con lui finiranno Luciano Lo Giudice, fratello del boss Nino – pentito a fasi alterne – e Antonino Spanò, titolare di un cantiere nautico a Reggio Calabria, in cui Mollace avrebbe avuto la sua imbarcazione a rimessaggio. La richiesta di Gerardo Dominijanni e Domenico Guarascio, a capo dell’inchiesta coordinata dal procuratore della Repubblica Vincenzo Antonio Lombardo, nasce dal memoriale del boss reggino Nino Lo Giudice, a capo di una cosca che Mollace avrebbe favorito. La vicenda è intricata e complessa: l’ex pentito Nino, come ho già scritto qualche tempo fa, ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso memoriali messi più volte in discussione. Il dubbio che dietro il suo pentimento «ballerino» ci sia una macchinazione per colpire alcuni magistrati. Non ha convinto molti l’essersi autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro e dell’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda. Nino ha anche chiamato in causa il fratello Luciano, considerata la mente della cosca, salvo rimangiarsi tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Nel fango era finito anche l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non ha mai negato la frequentazione con il presunto boss. Ma la cosca Lo Giudice, ripete sempre Cisterna, è stata lui a smantellarla nel 1993 arrestando il capofamiglia. E Cisterna è uscito pulito dai guai. Ma la cosca Lo Giudice esiste, almeno così pensano i pm di Catanzaro. E qual è la colpa di Mollace? Aver sottovalutato le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Maurizio Lo Giudice (fratello di Nino e Luciano) e Paolo Iannò (ex braccio destro e armato del superboss Pasquale Condello detto «il Supremo» arrestato dal Ros il 18 febbraio 2008 dopo una latitanza infinita) senza svolgere – secondo i pm di Catanzaro – le necessarie indagini per capire se i Lo Giudice a Reggio avessero ancora un peso oppure no. Per i due pentiti il peso lo avevano eccome. I magistrati catanzaresi scrivono che Mollace, per chiudere un occhio, avrebbe ricevuto in cambio «la dazione gratuita dei servizi di manutenzione e rimessaggio dei natanti ormeggiati nel cantiere di Calamizzi, gestito e diretto da Spanò e Luciano Lo Giudice, il primo quale prestanome del secondo». A pesare su Mollace c’è soprattutto il giallo dell’omicidio di Angela Costantino, moglie del boss Pietro Lo Giudice, che secondo gli inquirenti sarebbe stata uccisa per salvare l’onore del capoclan. Il presunto mandante sarebbe Bruno Stilo, l’esecutore materiale Fortunato Pennestrì (considerato il reggente della cosca dopo l’arresto del boss) entrambi condannati a fine 2013 a 30 anni con una sentenza che ha rispecchiato in pieno l’impianto accusatorio portato avanti dal pm Sara Ombra. I due sospettavano che mentre il marito era detenuto la donna fosse incinta di un altro uomo di cui si era innamorata- o Pietro Calabrese, poi trasferitosi a Roma o Domenico Megalizzi, scomparso nello stesso periodo, che riceveva telefonate a casa da parte di una ragazza di nome Angela –  l’avrebbero strangolata il 16 marzo 1994 nell’appartamento che abitava da circa un mese a Reggio Calabria in via XXV luglio, in un immobile al piano terra che, per decenni, è stato il feudo storico della cosca Lo Giudice e poi ne avrebbero occultato il cadavere pur di salvare l’onore del capoclan. Per il Gup Indellicati che ha deciso la condanna dei due ’ndranghetisti, come emerso dai documenti di natura medica agli atti dell’indagine, la situazione della donna «poteva essere compatibile sia con una disfunzione ginecologica, sia con un aborto precoce, a seguito di una gravidanza molto recente». Durante il processo sull’omicidio Mollace aveva difeso le sue scelte investigative con qualche «non so, non ricordo» di troppo, tanto che in una lettera al Collegio presieduto da Silvia Capone lo stesso magistrato ammise di non aver ricordato bene, tanto che il pm Beatrice Ronchi spingerà, con le sue indagini, a indurre il presidente del Collegio a verbalizzare «la falsità delle affermazioni di Mollace». Ad aprire squarci di luce sulla vicenda, finita anche su Chi l’ha visto, fu soprattutto Maurizio Lo Giudice, che nel ’99 indicò in Pennestrì l’esponente più di spicco della cosca Lo Giudice, insieme a Bruno Stilo («Era lui che prendeva in mano tutta la famiglia… dopo che sono stati arrestati… andava pure a chiedergli i soldi), e nell’ipotizzare che la donna, madre di quattro figli, fosse invaghita di un altro («Aviva perdutu a testa, dottori!») . La conferma a Maurizio Lo Giudice l’avrebbe data lo stesso Pennestrì, che poi avrebbe contribuito a depistare le indagini. Le dichiarazioni di Maurizio Lo Giudice di fine anni Novanta («In quei giorni Natino Pennestrì prese la palla al balzo, disse che Angela si lamentava con tutti noi che si buttava dal porto, dai ponti, così creò un po’ di pubblicità che era pazza, dei falsi ricercamenti, che portarono per… la credibilità che Angela era veramente malata») non furono considerate credibili fin quando il pm Beatrice Ronchi deciderà di riaprire le indagini e incrociarle con le affermazioni di almeno altri due collaboratori di giustizia considerati attendibilissimi, appunto Paolo Iannò e Domenico Cera. Insomma, la cosca decapitata da Cisterna all’inizio degli anni Novanta era ancora pienamente operativa, tanto da orchestrare un omicidio. Nino, Maurizio e Luciano avevano rapporti privilegiati con magistrati e forze dell’ordine, come raccontano le ultime vicende giudiziarie. Adesso per Mollace si apre un processo difficile. Le cui conseguenze, anche sui delicatissimi equilibri tra la Procura reggina e quella catanzarese, potrebbero essere inimmaginabili…

Il giudice e Lo giudice, continua Felice Manti. Chi difende lo Stato in Calabria? Le forze dell’ordine, quando non si dimostrano a busta paga dei boss. I politici, quando non vanno in udienza a casa dei capifamiglia a elemosinare voti. E poi ci sono i magistrati… E qui il discorso – per chi ha voglia di farsi qualche domanda – si complicano. Cominciamo da Giancarlo Giusti, l’ex gip di Palmi arrestato dalla Procura di Catanzaro per un presunto«patto scellerato» con la cosca Bellocco di Gioia Tauro. Su Giusti i primi sospetto erano sorti quando nel 2009 furono scarcerati tre esponenti della potente famiglia della Piana: Rocco Bellocco, Rocco Gaetano Gallo e Domenico Bellocco detto «Micu ’u Lungo», gettando alle ortiche mesi di lavoro investigativo. Scattarono le intercettazioni e «venne scoperta – così dice il procuratore della Repubblica di Catanzaro Vincenzo Antonio Lombardo – una corruzione accertata dopo una prima richiesta di archiviazione, in una  vicenda che evidenzia un tradimento degli obblighi professionali, fermo restando il principio di presunta innocenza». Secondo un magistrato, un suo collega si sarebbe venduto (per circa 120mila euro) facendo scarcerare personaggi di spessore della ndrangheta calabrese. Se è vero saranno i processi a dirlo. Ma le accuse sono pesantissime: corruzione in atti giudiziari, con l’aggravante di avere favorito un’associazione mafiosa, ed il famigerato concorso esterno.  Che cosa possa essere successo quando Giusti ha lavorato al Riesame a Reggio Calabria è ancora tutto da scoprire. Giusti era (ed è ancora) agli arresti domiciliari per un’altra faccenda poco chiara. Il 27 settembre del 2012 l’ex gip era stato infatti condannato a quattro anni per i suoi rapporti con la cosca Lampada, aveva tentato il suicidio il giorno successivo al carcere di Opera. Circa un mese dopo, il 29 ottobre, un perito del tribunale di Milano aveva stabilito che nel carcere di Opera non poteva ricevere le cure psichiatriche di cui aveva bisogno dopo il tentato suicidio. Qual era la natura dei suoi rapporti con la presunta cosca dei Lampada? Favori in cambio di sesso, a causa di una personalità fragile: «La sua è una vera e propria ossessione per il sesso, per lo più a pagamento; ha esigenze economiche legate a un tenore di vita sicuramente elevato; ricerca spasmodicamente occasioni di guadagno parallele in operazioni immobiliari e di varia natura», scrivono i giudici milanesi che lo hanno incastrato qualche anno prima, quando in una telefonata intercettata, Giusti non si faceva scrupolo a dire: «Non hai capito chi sono io.. sono una tomba .. ma io dovevo fare il mafioso, non il giudice». Un finto bullo, sembrerebbe, che alla sorella (la telefonata è agli atti) , dopo avere avuto la notifica dell’avvio di un procedimento disciplinare del Csm sulla base anche dell’inchiesta della Dda di Catanzaro, dice: «È finita per me, guarda che vengono di notte e mi prendono… è finita».

La domanda è: com’è possibile – se è vero – che nessuno si sia accorto che un importante magistrato fosse alla fine un uomo fragile, assetato di soldi e di sesso e ben disposto a fare affari con le cosche in cambio di soldi? A quanto pare non sarebbe il solo. C’è un altro nome che merita qualche riga. Si chiama Vincenzo Giglio, è un giudice ed è finito nello stesso vortice di Giusti: gli affari con il clan Lampada-Valle, su cui la letteratura giudiziaria (soprattutto sul fronte della famiglia Lampada) è abbastanza scarna. Ma tant’è. Giglio e l’ex finanziere Luigi Mongelli (condannato a 5 anni e tre mesi, contro i 4 anni e 7 mesi di Giglio) , furono arrestati nel novembre 2011 nell’ambito dell’inchiesta milanese sul clan Valle-Lampada e oggi sono agli arresti domiciliari, in attesa della sentenza d’appello, anche grazie a una sentenza che stabilì l’incostituzionalità di quella parte dell’articolo 275 del codice di procedura penale che prevede l’obbligo della custodia in carcere per chi è accusato di reati aggravati dal cosiddetto articolo 7, ovvero reati commessi con l’aggravante del metodo mafioso. (Piccola parentesi. Quando uscì in agenzia la notizia del tentato suicidio di Giusti le agenzie scrissero che la vittima era Giglio, e che era morto. Amen). Cosa avrebbe combinato Giglio? Corruzione, rivelazione di segreto d’ufficio e favoreggiamento aggravato dall’aver agevolato la cosca mafiosa. La sorte di Giglio era legata a doppio filo con quella dell’ex consigliere regionale Pdl Franco Morelli, condannato in primo grado a 8 anni e 4 mesi e interdizione perpetua dai pubblici uffici per concorso esterno in associazione mafiosa, corruzione e rivelazione di segreto d’ufficio e il presunto boss Giulio Lampada(«Non è mai esistito quel clan, non ce n’è traccia negli atti», dissero allora i suoi legali Ivano Chiesa e Manlio Morcella), re dei videopoker a Milano condannato a 16 anni.  Il giochino, secondo i pm, era facile. L’ex maresciallo Gdf Mongelli intascava mazzette assieme ad altri colleghi per non fare i controlli sulle macchinette mangiasoldi. Il giudice Giglio, amico di Morelli, avrebbe fatto pressioni per piazzare la moglie a commissario della Asl di Vibo Valentia e in cambio avrebbe offerto al politico qualche «dritta» sulle indagini che lo riguardavano. Entrambi erano in rapporti con Lampada, cui avrebbe fatto comodo una copertura politica dopo il «mascariamento» del suo precedente cavallo politico di battaglia, quell’Alberto Sarra di cui si parla nel libro Madun’drina, che nel 2007 al telefono (intercettato) con Lampada parla, anzi straparla: «Quando mi muovo a Milano ho una chiavetta nera. Ho praticamente un centinaio di sportelli Bancomat perché quella è la chiave del cambiamoneta (cioè dei videopoker, ndr). Ti faccio un esempio: stasera sono con te e mi serve da prendere mille euro, vado in uno dei bar, apro e me li prendo». Al telefono Lampada e Giglio progettano anche la costituzione di una finanziaria. Dice in un’intercettazione l’ex macellaio di Reggio: Dobbiamo trovare, Alberto, una bella banca, qua su Milano, che ci faccia fare quello che vogliamo… Quello che vogliamo… io intendo dire… attenzione! Non che ci fottiamo i soldi alla banca, mi sa che non rientra nelle nostre…. E la cosa si complica… Sarra viene coinvolto in un’altra inchiesta su mafia e politica, quella che ipotizza un ruolo dell’ex senatore Idv Sergio De Gregorio beccato dai Ros a una cena con Sarra assieme ad alcuni esponenti della cosca Ficara. De Gregorio fu archiviato perché riuscì a dimostrare di non sapere chi fossero, a differenza di Sarra, i suoi interlocutori.  Scrivevo a fine 2010: «Quell’avviso di garanzia a Sarra, dicono i Ros, aveva fatto crollare il sogno dei Lampada e avrebbe portato Sarra a “interrompere ogni collegamento con esponenti vicini alla criminalità organizzata” per non aggravare la sua posizione giudiziaria». Morto un papa se ne fa un altro. al posto di Sarra arriva appunto Morelli, consigliere regionale calabrese. Il 13 febbraio 2008 viene intercettata una telefonata fra Giulio Lampada, nato a Reggio Calabria il 16 ottobre 1971, e Morelli. Dice il primo: «La chiamavo per salutarla siccome sapevo che doveva salire a Milano in questa settimana, non l’ho sentita per nulla, ho detto io lo chiamo vediamo se verifi… se sale per caso a Milano… così». Ma bisogna anche rileggersi un informativa del Ros dei carabinieri in cui si parla di rapporti “oscuri” tra i Lampada e i fratelli Vincenzo e Mario Giglio, cugini del giudice.  Scrivevo ormai quattro anni fa: «Vincenzo, medico di professione, secondo i carabinieri “voleva scalare i vertici della politica locale di Reggio Calabria”. Alle politiche del 2008 tentò invano di farsi eleggere nel movimento La Rosa bianca. Con Giulio Lampada avrebbe creato un intenso rapporto cominciato con un affare: l’acquisizione di un immobile nel pieno centro di Milano. Il problema è che, secondo i pubblici ministeri, i Lampada rappresentano “quelle tipiche figure criminali che si innestano pienamente nel substrato mafioso” con “compiti e ruoli connessi alla gestione del patrimonio economico del cartello mafioso” legato alla cosca Condello, guidata da Pasquale Il Supremo, arrestato nel febbraio 2008 dopo diciotto anni di latitanza. E qui il malaffare s’intreccia con un omicidio che ha riscritto la storia politica recente. Il fratello di Vincenzo Giglio, Mario, ha lavorato nelle segreterie politiche di due consiglieri regionali coinvolti in vicende inquietanti. Era il capo della segreteria di Franco Fortugno, il vicepresidente del Consiglio regionale della Calabria eletto nelle fila della Margherita e assassinato a Locri il 16 ottobre del 2005. Poi diventerà capo della segreteria di Crea, che all’inizio del 2008 finisce in carcere nell’inchiesta Onorata sanità su un giro di corruzione e pressioni mafiose. Basta così? Non proprio. C’è ancora l’affaire Lo Giudice, l’ex pentito Antonino che ha detto tutto e il contrario di tutto ai magistrati reggini, anche attraverso discutibili memoriali. Macchinazioni per colpire altri magistrati, ovviamente. Prima si è autoaccusato di essere l’ideatore delle bombe fatte esplodere nel 2010 contro la Procura generale di Reggio Calabria e contro l’abitazione del procuratore generale Salvatore Di Landro oltre all’intimidazione all’allora procuratore della Repubblica Giuseppe Pignatone, con il ritrovamento di un bazooka ad alcune centinaia di metri dal palazzo della Dda, chiamando in causa anche il fratello Luciano ed altre due persone. Poi si è rimangiato tutto, con un video fatto immediatamente prima di abbandonare il rifugio protetto dove era stato nascosto: «Ho confessato perché ero manipolato dalla Dda di Reggio Calabria», cioè a suo dire dall’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, adesso a Roma, dell’aggiunto Michele Prestipino, del pm Beatrice Ronchi e dell’ex capo della mobile Renato Cortese, che oggi dirige la squadra mobile di Roma. Ma c’è un giudice a cui Lo Giudice chiede scusa: è l’ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna, che non nega la frequentazione con il presunto boss ma sostiene che la cosca Lo Giudice l’avrebbe smantellata nel 1993 arrestando il padre. C’è un rapporto stilato dall’attuale capo della Mobile di Torino Luigi Silipo che confermerebbe la pericolosità della loro frequentazione, ma Cisterna si è imbufalito e ha querelato il funzionario, incassando una denuncia di calunnia da parte di Silipo e una conseguente assoluzione, anche se il pm della procura di Reggio Matteo Centini aveva chiesto per Cisterna una condanna a due anni. Il problema è che c’è di mezzo anche un pm che indaga(va) sulla presunta trattativa Stato-mafia, legato a doppio filo con Cisterna e Lo Giudice: si chiama Gianfranco Donadio e secondo Lo Giudice  gli avrebbe chiesto di accusare falsamente Berlusconi e Dell’Utri, oltre ad altre persone a lui sconosciute. Ma cosa c’entra Cisterna con la mafia? Bisogna ricordarsi che l’ex braccio destro di Pietro Grasso era stato sentito dai magistrati della Procura di Palermo, come persona informata sui fatti perché, come viceprocuratore della Dna, sarebbe venuto a conoscenza di episodi inediti che avrebbero preceduto la cattura di Bernardo Provenzano. Grasso aveva delegato proprio Cisterna ai rapporti con la Procura di Palermo, compito poi interrotto a seguito del procedimento disciplinare scaturito dall’inchiesta per corruzione in atti giudiziari istruita dalla Procura di Reggio, all’epoca guidata da Pignatone. Cisterna è innocente, l’inchiesta è stata archiviata e molti punti restano tutti da chiarire, anche perché sull’inchiesta Stato-mafia (e sul ruolo della ‘ndrangheta in quegli anni, soprattutto) è tutto in divenire. Ma se ci fossero altri magistrati in riva allo Stretto collusi con le cosche?

Accusato di corruzione, Mollace: “Solo spazzatura e servile disprezzo mediatico”. Su "Strill". Riceviamo e pubblichiamo dal magistrato Francesco Mollace – «Apprendo dai soliti ben accreditati nelle stanze giudiziarie che la Procura di Catanzaro avrebbe depositato una richiesta di rinvio a giudizio nei miei confronti. Resto in attesa di riceverne conferma ufficiale e nei modi previsti dalla legge, ammesso che il rispetto dei diritti dei cittadini abbia ancora un qualche valore in certi palazzi. Con la serenità di chi non ha niente da farsi perdonare e niente da nascondere, sono certo che un giudice terzo e imparziale saprà fare giustizia della spazzatura raccolta in alcuni anni di indagini e di servile dileggio mediatico. Per mio conto sono sicuro di aver dimostrato con documenti inoppugnabili di avere circa venti anni fa arrestato, fatto condannare e determinato alla collaborazione componenti dell’allora cosca Lo Giudice. Mai ricevuto niente da chicchessia. L accusa è fondata su illazioni e le regole del processo mi rendono sereno. Francesco Mollace».

Il fratello del pm antimafia al ricevimento del boss. A essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, è Vincenzo Mollace, scrive Luca Rocca su “Il Tempo”. Nozze, clan e parenti stretti dei pm antimafia. Ad essere immortalato mentre partecipa al ricevimento della nipote paterna del boss Antonio Pelle, alias Gambazza, e del nipote del boss Antonio Nirta, detto «il terribile», è Vincenzo Mollace, fratello «scomodo» del magistrato antimafia Francesco Mollace, di recente trasferito dalla procura di Reggio Calabria a Roma. Lo scenario è un ristorante di Gerace, nella locride. Il dvd che ritrae il fratello del pm mentre s’intrattiene, fra un pasto e l’altro, coi più potenti boss calabresi, è contenuto in un’informativa dei carabinieri di Locri, nelle cui mani è finito praticamente per caso. Siamo nel gennaio 2010 e il reparto speciale «Cacciatori» dell’Arma è sulle tracce di un pericoloso latitante: Stefano Mammoliti. Irrompono nella casa di un secondo latitante di San Luca convinti di scovare la loro preda, ma non trovano nessuno. Si imbattono, però, nel dvd e nel visionarlo restano basiti: a tavola coi mammasantissima c’è infatti Vincenzo Mollace, docente universitario, fratello del pm antimafia e all’epoca dei fatti direttore generale dell’Arpacal, l’Agenzia regionale per la protezione dell’ambiente in Calabria. Nell’informativa gli uomini dell’Arma scrivono: «Si nota di spalle con cappotto e cappello di colore scuro Mollace Vincenzo nella zona antistante il buffet, vicino a un soggetto anziano con la coppola, successivamente di fianco vicino a due soggetti di spalle e a Nirta Antonio, alias “terribile”, padre dello sposo, mentre parlano». Intorno a loro, che bevono vino, chiacchierano e mangiano, anche Rocco Morabito, «successore» del boss Giuseppe Morabito «u tiradrittu», e Bruno Gioffrè, che nella «cupola calabrese» occupa il secondo posto più importante. Fra i commensali, come riportato nell’informativa, anche due politici locali: Tommaso Mittiga, sindaco di Bovalino di area Pd, e Domenico Savica, suo «oppositore» in consiglio comunale. Il filmato rinvenuto dai carabinieri fa da riscontro a molti elementi contenuti nelle carte dell’operazione «Inganno» che un mese fa ha portato agli arresti dell’ex sindaco di San Luca, Sebastiano Giorgi, e della «paladina antimafia» Rosy Canale, coordinatrice del «Movimento delle donne di San Luca». Ed è nel corso di questa operazione che gli investigatori hanno intercettato l’ex sindaco Giorgi mentre affermava che gli incontri tra Vincenzo Mollace e i boss si sarebbero intensificati a ridosso delle ultime elezioni regionali. Gli inquirenti si soffermano anche sui rapporti tra Savica e Vincenzo Mollace e dello stesso Savica con Antonio Stefano Caridi, oggi senatore del Nuovo Centrodestra.

CITTADINI. MANIFESTARE E DEVASTARE. IMPUNITA’ CERTA.

Manifestare e Devastare in città? Un Reato ampiamente impunito!

Negozi, banche, auto in fiamme, vetrine infrante, gente e turisti in fuga terrorizzati, scontri con la polizia, alcuni agenti feriti. E' sfociata in terrore e devastazione nel cuore della città la giornata inaugurale di Expo, l'evento universale inaugurato l'1 maggio 2015, a Milano. Al corteo del No Expo Mayday Parade organizzato nel pomeriggio. Come temuto ed ampiamente previsto, hanno preso il sopravvento i pochi black bloc e le fasce più violente e la manifestazione è presto degenerata.

La polizia nei giorni precedenti ha sfoggiato mediaticamente il suo impegno, mostrando alle telecamere qualche arnese atto ad offendere rinvenuto in una casa occupata dai "No Tav", tacitando così le preoccupazioni dei milanesi. Una delle tante case di proprietà occupate abusivamente da tante sigle vicine alla sinistra.

Circa la violenza unilaterale dei manifestanti scoppiata a Milano ognuno dice la sua. A destra sono pronti a solidarizzare con le forze dell'ordine, a prescindere dal loro operato; a sinistra sono dediti a rimarcare e difendere il diritto a poter manifestare il proprio punto di vista, scambiando la locuzione con “ogni mezzo”, appunto, anche con l’uso della violenza, usata spesso contro i beni di quei lavoratori, che a parole dicono di rappresentare. Quella sinistra che si riempie la bocca del termine “Legalità”, fino ad ingozzarsi, fino a soffocarsi.

Chiediamo cosa ne pensa lo scrittore Antonio Giangrande, che, autore della collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", con decine di saggi pubblicati su Amazon, Google libri, Lulu e Create Space, dice la sua, invece, rispetto al diritto ed agli interessi dei cittadini danneggiati e trascurati.

«La libertà di manifestazione del pensiero è un diritto riconosciuto negli ordinamenti democratici. Questa libertà è riconosciuta da tutte le moderne costituzioni.

Ad essa sono inoltre dedicati due articoli della Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948: Art. 19: “Ogni individuo ha il diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza riguardo a frontiere”.

La libertà di espressione è sancita anche dall'art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali ratificata dall'Italia con l. 4 agosto 1955, n. 848: “1. Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera. 2. La libertà dei media e il loro pluralismo sono rispettati.”

La Costituzione italiana del 1948 supera l'esigua visione fornita un secolo prima dallo Statuto Albertino, che all'art. 28 prevedeva che La Stampa sarà libera, ma una legge ne reprime gli abusi. Durante il periodo fascista queste leggi dello Stato diventeranno delle censure, tipiche dei regimi totalitari. L'art. 21 della Costituzione stabilisce che:

Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.

La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure.

Si può procedere a sequestro soltanto per atto motivato dell'autorità giudiziaria nel caso di delitti, per i quali la legge sulla stampa espressamente lo autorizzi, o nel caso di violazione delle norme che la legge stessa prescriva per l'indicazione dei responsabili.

In tali casi, quando vi sia assoluta urgenza e non sia possibile il tempestivo intervento dell'autorità giudiziaria, il sequestro della stampa periodica può essere eseguito da ufficiali di polizia giudiziaria, che devono immediatamente, e non mai oltre ventiquattro ore, fare denunzia all'autorità giudiziaria. Se questa non lo convalida nelle ventiquattro ore successive, il sequestro s'intende revocato e privo di ogni effetto.

La legge può stabilire, con norme di carattere generale, che siano resi noti i mezzi di finanziamento della stampa periodica.

Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume. La legge stabilisce provvedimenti adeguati a prevenire e a reprimere le violazioni.”

Ebbene, in Italia, se scrivi in stato di disomologazione al sistema mediatico o in dissenso al sistema di potere, a cui la stampa è genuflessa, i giudici te la fanno pagare.

Ma con il paraculo del diritto di manifestare in piazza si genera la più grande sorta di illegalità impunita che il paese ricordi. E dire che queste manifestazioni si palesano proprio come protesta contro le illegalità. Ognuno di noi che volesse commettere reati a iosa, sicuri di farla franca, basterebbe partecipare ad una manifestazione organizzata, spesso, dalla sinistra e l’impunità è compiuta.

"Abbiamo spaccato un po' di roba", è giusto così. A parlare è un ragazzo intervistato dalla troupe di TgCom24. Nessuna paura di ammetterlo e nessuna giustificazione, anzi, per lui è solo “bordello”. "Siamo arrivati, c'era un bordello, abbiamo spaccato un po' di roba", ha ammesso. Il giornalista chiede il perché e la sua risposta è secca: "Perché è la protesta, e alle proteste si fa bordello. È giusto così, noi dobbiamo far sentire la nostra voce. Se non lo capiscono con le buone, lo capiranno in altro modo. È stata una bella esperienza. Ero solo in mezzo a una guerriglia e mi sono preso bene, ma non ho distrutto un cazzo di nulla".

Eppure nelle manifestazioni di piazza ci sono talmente tante violazioni del codice penale che ne basterebbe una a far scattare l’arresto.

Dispositivo dell'art. 419 Codice Penale: "Chiunque, fuori dei casi preveduti dall'articolo 285, commette fatti di devastazione o di saccheggio è punito con la reclusione da otto a quindici anni. La pena è aumentata se il fatto è commesso su armi, munizioni o viveri esistenti in luogo di vendita o di deposito". E poi quante violazioni penali cerchi, tante ne trovi. E comunque basta il sol travisamento a far scattare le manette.

Genova, sette studenti condannati per travisamento ad una manifestazione contro la Gelmini, scrive Genova Today. Una sciarpa che copre il volto per sfuggire all'occhio "invadente" delle telecamere Digos. Una mano sulla bocca per non respirare l'odore acre dei lacrimogeni. O un cappello "tenuto basso" per non essere del tutto riconoscibili: scene classiche da manifestazioni. Scene che da oggi potrebbero essere punite con il carcere. E' questo, in soldoni, quello che prevede una condanna del tribunale della Procura di Genova che ha disposto pene variabili fra i nove e i quattordici mesi per sette persone accusate di resistenza e "travisamento". Gli accusati, sette studenti liguri che parteciparono ad una manifestazione del 30 novembre 2010 contro l'allora ministro dell'Istruzione Mariastella Gelmini, sono stati condannati per avere nascosto il proprio volto nelle fasi calde del corteo. Tradotto: la Procura non ha accertato che i sette ragazzi in questione abbiano partecipato a scontri o disordini, dato che nella sentenza non vi si fa riferimento, ma li ha condannati "semplicemente" perché si sono resi non riconoscibili. Nello specifico, le condanne fanno riferimento ai momenti successivi ad una carica della polizia. Azione che gli agenti non annunciarono, contrariamente a quanto previsto dagli articoli 22 e 23 del Tulps, Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, che prevede la "intimazione formale al discioglimento di un corteo". Agli avvocati dei giovani, che avevano puntato su questa "mancanza" da parte delle forze dell'ordine, il pubblico ministero Biagio Mazzeo ha spiegato che "si tratta di un provvedimento desueto e comunque, con tutti i tagli che devono subire le forze dell'ordine probabilmente non avevano neppure la possibilità di portarsi dietro un megafono". Insomma, condanna sia. Condanna, giunta pochi giorni fa, che rischia di inaugurare una giurisprudenza alquanto pericolosa. Appare troppo sottile, infatti, il confine fra la giusta necessità di punire i manifestanti facinorosi e l'eccesso di condannare chiunque si renda irriconoscibile durante una manifestazione. Ma non è tutto. Sotto la Lanterna, infatti, sono in corso almeno un'altra decina di indagini su cortei e proteste simili, riguardanti in particolare lo sciopero del 6 maggio 2011 e il corteo del 28 gennaio che vide in piazza studenti e operai al grido di "noi la crisi non la paghiamo". Le indagini, a questo punto sembra scontato, si chiuderanno con un processo e con altre condanne. Ma anche qui, la procura ligure potrebbe stupire. Oltre alle "storiche" pene per travisamento, infatti, molti dei ragazzi indagati, fra "anarchici noti" e semplici studenti, rischiano una somma di condanne e quindi il carcere per la "reiterata partecipazione a cortei". Insomma, i giovani che abbiano partecipato a più di una delle proteste finite nel mirino della procura rischiano le manette, perché colpevoli in più di un'occasione di "travisamento", anche se i cortei nella realtà non si siano trasformati in guerriglia. Le condanne di questi giorni, comunque, non stanno stupendo più di tanto Genova, una città che, da due anni a questa parte, ha subito una "gestione giudiziaria della piazza". Per l'esattezza da quando, un paio di anni fa, il procuratore aggiunto Vincenzo Scolastico elaborò una "griglia" nella quale incrociare date dei cortei, nomi dei partecipanti, denunce e qualsiasi manifestazione dove la Digos avesse ripreso delle immagini. A quanto pare, la "griglia" sta cominciando a dare i suoi effetti. 

Invece a Milano la polizia che fa: niente!!!

E non è certo l’alibi della nuova legge sulla tortura che li sprona a rimanere inermi di fronte alla commissione di reati, né può essere colpa degli agenti che, oltretutto, sono i primi a prender botte da manifestanti, spesso, figli di papà o figli proprio di quelle istituzioni che dovrebbero reprimere e condannare i reati.

E non sono certo gli agenti a mancare. Questo passerà alla storia come il primo maggio più lungo di sempre. Complice l'inaugurazione di Expo 2015, 6.000 uomini delle forze dell'ordine italiane sono stati mobilitati per evitare che chi vuole rovinare la festa dei lavoratori sia fermato senza conseguenze. Avendo gli occhi del mondo puntati sull'area in cui si svolgerà l'esposizione universale, una falla nella sicurezza dell'evento non può essere permessa. Per questo il Viminale ha inviato 3796 uomini di rinforzo ai reparti già mobilitati su Milano, per l'intera durata della manifestazione. Queste forze aggiuntive andranno a sommarsi ai 2.000 addetti già disposti in città per i prossimi giorni, che si preannunciano da bollino rosso.  

Eppure qualche centinaio di black bloc ha sopraffatto la forza dello Stato. Alla fine il bilancio dei numeri è di 11 feriti tra le forze dell'ordine e zero tra i violenti criminali manifestanti, oltre che 10 antagonisti accompagnati in questura. Cinque gli arresti in flagranza eseguiti dalle forze dell'ordine. Durante i disordini avvenuti a Milano al corteo No Expo sono stati lanciati 400 lacrimogeni. Il dato è stato fornito dalla Questura. Un risultato risicato a favore della polizia. Un po’ troppo poco per il costo subito dei danni subiti e il costo per mantenere tutta la struttura per proteggere la città.

E non credo che la colpa sia degli agenti, ma, forse, visti i risultati  è colpa di chi li comanda? Non mancano le voci critiche, come quella di Matteo Salvini che si chiede "Renzi e Alfano, i danni ai cittadini li pagate voi?". E così pensa la gente.

C'è la rabbia della gente, tra le reazioni allo scempio che i No Expo hanno fatto questo pomeriggio a Milano scrive Libero Quotidiano il primo maggio 2015. Auto incendiate, cassonetti rovesciati, negozi dati alle fiamme, vetrine sfondate. Danni per milioni di euro. E la polizia che resta a guardare gli antagonisti che sfasciano tutto, limitandosi a contenere l'avanzata dei vandali e impedendogli di accedere alla zona rossa del centro. Una strategia assai diversa da quella adottata quattordici anni fa a Genova in occasione del G8. E la rabbia della gente esplode, pensando alle tante sentenze dei giudici contro la polizia (l'ultima quella sulla scuola Diaz) e l'introduzione del reato di tortura. "Attendere! Potrebbe scattare il reato di tortura!!!" scrive Vittorio. "Sono manifestanti pacifici. Perché fermarli? Sarebbe tortura" aggiunge Vittorio. Karl: "Fa bene a non intervenire...dopo certe sentenze!!!". La polizia ormai è stata disarmata da certe sentenze, dai buonisti, dagli ipergarantisti sinistronzi, da certa stampa e non sentendosi tutelata, resta a guardare in attesa di ordini da parte di organismi superiori anch'essi congelati da certe sentenze". Angelo: "Perché tanta meraviglia? dopo la condanna come torturatori e un capo che invece di difenderli li sospende...dopo giudici che mandano sempre liberi i delinquenti che vengono catturati perché mai i poliziotti dovrebbero rischiare di essere condannati.. un piffero disse "non siamo a Beirut" beh siamo peggio....". Maurizio: Quanti dei danneggiati di oggi hanno urlato contro la polizia cilena di Genova? Quanti hanno trattato il povero carabiniere Placanica come uno sfigato (loro, i ricconi radical-chic)? Quanti hanno votato per Heidi Giuliani, madre dell'eroe dei tempi moderni (emblema perfetto del gramo destino d'Italia)? Bene, spero che i danni riguardino solo loro. La polizia non faccia nulla, non meritano nulla". Giovanni: "non possono intervenire se no i giudici li condannano". Rul5646: Naturalmente grande scandalo se la polizia si permettesse di intervenire. Allora certa magistratura, certe esponentesse ed i buonisti in coro si indignerebbero infinitamente". E ancora: "E cosa potrebbero fare di più quei poveracci? Quei bastardi delinquenti sono sacri ed intoccabili per taluni magistrati e per tanti esponenti della politica italiana. Questa è l'Italia comunista!". Cheope: "La polizia aspetta......tanto sa che se anche li prendono , domani per ordine di qualche magistrato li mettono fuori. E intanto ci sono persone che hanno le auto incendiate, negozi sfasciati e tanta paura. E tutto questo con l'Expo non c'entra, è solo terrorismo". Poi c'è chi se la prende con Alfano: A O Anna 17 scrive: "Ma quel cretino di Alfano dove sta? Ah si è dimesso? Che fortuna. No no non si è dimesso, ma che schifo e non si vergogna?".

Appunto i No Expo sfasciano e incendiano, la polizia sta a guardare. Scene già viste tante volte, purtroppo: auto e negozi in fiamme, vetrine spaccate a martellate. Qualche anno fa era toccato a Buenos Aires, questa volta a via Carducci, una delle strade più eleganti e centrali di Milano. Dove i manifestanti No Global hanno bruciato due auto, sfasciato tutto lo sfasciabile e bruciato un paio di negozi con colonne di fumo nero alte decine di metri. Per mezz'ora la strada, lunga circa 500 metri tra corso Magenta e piazzale Cadorna, è rimasta in preda totale ai No Global. le forze dell'ordine sono state a guardare senza fare nulla, senza intervenire, senza impedire la devastazione. Solo dopo mezz'ora un mezzo antincendio è arrivato a spegnere le fiamme delle due auto. E solo a quel punto polizia e carabinieri hanno iniziato a intervenire con cariche e manganelli.

Una gestione "tattica" dell'ordine pubblico, non con l'obiettivo di impedire una quantità inevitabile di devastazione, ma di bloccare l'accesso al centro di Milano al blocco dei violenti senza coinvolgere negli scontri le migliaia di partecipanti pacifici alla May Day Parade contro l'Expo. Questa è stata la strategia messa in campo dalla questura di Milano - in accordo con le disposizioni del ministero degli Interni - per affrontare una giornata che fin dalla vigilia si annunciava assai critica. E che critica alla fine è stata, come vede ripercorrendo le strade del centro di Milano devastate dal passaggio dei Black bloc. Ma che ha portato al risultato che fin dall'inizio i vertici della polizia si erano dati: evitare che il giorno dell'inaugurazione di Expo si trasformasse in una specie di G8, con feriti da una parte e dall'altra. Lo scontro fisico è stato evitato. e poi...dalle 18 del primo maggio piazza della Scala è completamente blindata dalle forze dell’ordine da ogni accesso. Dopo la manifestazione con oltre 20 mila No Expo e trecento black bloc che hanno devastato Milano, la tensione è alta per l’inizio della Turandot, l’opera scelta dal teatro milanese per festeggiare l’inizio di Expo 2015.

Vuoi metter gli "Scalisti" con i cittadini danneggiati dai black bloc? Tutta un'altra musica!

E poi ci siamo noi cittadini, perché lì, a manifestare in piazza, ci vanno anche i nostri figli. Ma le mamme italiane dove sono? Perché non scendono pure loro in strada a prendere a sberle i figli che spaccano le vetrine e devastano le città? Questo si chiede Mario Giordano su “Libero Quotidiano”. Nei giorni scorsi siamo rimasti tutti colpiti da quella signora di Baltimora, di giallo vestita e di sganassoni munita: appena si è accorta che il suo adorato pargolo si era vestito da black bloc per fare a botte con la polizia, non ci ha pensato neppure un attimo. È scesa in strada, l’ha preso per la collottola, l’ha riempito di sberle e l’ha ricondotto sulla via della ragione. Un mito, certo. Ma che cosa impedisce alle mamme italiane di fare altrettanto? Si badi bene: quel che vale per la politica, vale anche per le violenze nello sport e nel calcio in particolare.»

LA SCUOLA DELL'INDOTTRINAMENTO IDEOLOGICO.

La sinistra si batte per eliminare ogni simbolo che inneggia all'italica tradizione ed appartenenza in nome di una sudditanza ideologica e strumentale.

Storia del crocifisso nelle scuole pubbliche italiane di Rosci Valentina su “Diritto”. L’esposizione dei crocifissi nelle scuole pubbliche viene disposta mediante circolare con riferimento alla Legge Lanza del 1857 per la quale l’insegnamento della religione cattolica era fondamento e coronamento dell’istruzione cattolica, posto che quella era la religione di Stato. L’esposizione del crocifisso negli uffici pubblici in genere, è data con ordinanza ministeriale 11 novembre 1923 n. 250, nelle aule giudiziarie con Circolare del Ministro Rocco, Ministro Grazia e Giustizia, Div. III, del 29 maggio 1926, n. 2134/1867 recante “Collocazione del crocifisso nelle aule di udienza”, che recita: “Prescrivo che nelle aule d’udienza, sopra il banco dei giudici e accanto all’effige di Sua Maestà il Re sia restituito il Crocifisso, secondo la nostra tradizione. Il simbolo venerato sia solenne ammonimento di verità e giustizia. I capi degli uffici giudiziari vorranno prendere accordi con le Amministrazioni Comunali affinché quanto esposto sia eseguito con sollecitudine e con decoro di arte quale si conviene all’altissima funzione della giustizia”. In materia scolastica si ricordano, le norme regolamentari art. 118 Regio Decreto n. 965 del 1924 (relativamente agli istituti di istruzione media) e allegato C del Regio Decreto n. 1297 del 1928 (relativamente agli istituti di istruzione elementare), che dispongono che ogni aula abbia il crocifisso. Con circolare n. 367 del 1967, il Ministero dell’Istruzione ha inserito nell’elenco dell’arredamento della scuola dell’obbligo anche i crocifissi. Nei Patti Lateranensi e successivamente nelle modifiche apportate al Concordato con l’Accordo ratificato e reso esecutivo con la L. 25 marzo 1985 n.121, nulla viene stabilito relativamente all’esposizione del crocifisso nelle scuole o, più in generale negli uffici pubblici, nelle aule del tribunale e negli altri luoghi nei quali il crocefisso trova ad essere esposto. Con parere n. 63 del 1988, infatti, il Consiglio di Stato ha stabilito che le norme dell’art 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. del 26 aprile 1928 n. 1297, che prevedono l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche non possono essere considerate implicitamente abrogate dalla nuova regolamentazione concordataria sull’insegnamento della religione cattolica. Ha argomentato il Consiglio di Stato: premesso che “il Crocifisso, o più esattamente la Croce, a parte il significato per i credenti, rappresenta il simbolo della civiltà e della Cultura cristiana, nella sua radice storica, come valore universale, indipendentemente da specifica confessione religiosa, le norme citate, di natura regolamentare, sono preesistenti ai Patti Lateranensi e non si sono mai poste in contrasto con questi ultimi. Occorre, poi, anche considerare – continua il Consiglio di Stato – che la Costituzione Repubblicana, pur assicurando pari libertà a tutte le confessioni religiose, non prescrive alcun divieto alla esposizione nei pubblici uffici di un simbolo che, come il Crocifisso, per i principi che evoca e dei quali si è già detto, fa parte del patrimonio storico”. Le norme citate dovrebbero, però, ritenersi implicitamente abrogate dal d.lgs. 297/94 in cui all’art. 107, nell’elencazione puntuale delle suppellettili che compongono l’arredo si fa riferimento esplicito solamente all’attrezzatura, l’arredamento e il materiale da gioco per la materna. In modo più chiaro ed esplicito l’art. 159 stabilisce “Spetta ai comuni prevedere al riscaldamento, all’illuminazione, ai servizi, alla custodia delle scuole e alle spese necessarie per l’acquisto, la manutenzione, il rinnovamento del materiale didattico, degli arredi scolastici, ivi compresi gli armadi o scaffali per le biblioteche scolastiche, degli attrezzi ginnici e per le forniture dei registri e degli stampati occorrenti per tutte le scuole elementari…”. L’art. 190 stabilisce che “i Comuni sono tenuti a fornire (…) l’arredamento” dei locali delle scuole medie. Nessun riferimento al crocifisso. Sicchè si potrebbe sostenere che le norme dell’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e l’allegato C del R.D. n. 1297 del 1928, dovrebbero ritenersi implicitamente abrogate ex art. 15 preleggi, perché il d.lgs. 297/ 94 regola l’intera materia scolastica. Tuttavia restano in vigore in forza dell’art. 676 dello stesso decreto intitolato “norme di abrogazione” il quale dispone che “le disposizioni inserite nel presente testo unico  vigono nella formulazione da esso risultante; quelle non inserite restano ferme ad eccezione delle disposizioni contrarie od incompatibili con il testo unico stesso, che sono abrogate”. Orbene, alla specificazione del contenuto minimo necessario delle locuzioni generali “arredi” ovvero “arredamenti” contenute negli artt. 107, 159 e 190 concorrono le due disposizioni regolamentari citate, comprendendovi anche il “crocifisso”. Così si può affermare che le disposizioni del d.lgs. 297/94, come specificate dalle norme regolamentari citate, includono il crocifisso tra gli arredi scolastici. Conclusivamente, poiché non appare ravvisabile un rapporto di incompatibilità con norme sopravvenute, né può configurarsi una nuova disciplina dell’intera materia, già regolata da norme anteriori, né, come ha ritenuto il Consiglio di Stato, attengono all’insegnamento della religione cattolica, né costituiscono attuazione degli impegni assunti dallo Stato in sede concordataria, le disposizioni di cui all’art. 118 R.D. 30 aprile 1924 n. 965 e quelle allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297, devono ritenersi legittimamente operanti. La Corte di Cassazione (Sez. III, 13-10-1998) ha affermato in particolare, che non contrasta con il principio di libertà religiosa, formativa della Costituzione, la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche: “Il principio della libertà religiosa, infatti, collegato a quello di uguaglianza, importa soltanto che a nessuno può essere imposta per legge una prestazione di contenuto religioso ovvero contrastante con i suoi convincimenti in materia di culto, fermo restando che deve prevalere la tutela della libertà di coscienza soltanto quando la prestazione, richiesta o imposta da una specifica disposizione, abbia un contenuto contrastante, con l’espressione di detta libertà: condizione questa, non ravvisabile nella fattispecie”, nella quale si discuteva della lesività del principio di libertà religiosa proprio ad opera dell’esposizione del crocifisso nell’aula scolastica adibita a seggio elettorale. In una recente decisione, invece, la Cassazione ha ritenuto contraria al principio di laicità l’esposizione dei crocifissi nei seggi elettorali, prendendo ad esempio una decisione del Tribunale Costituzionale tedesco del 1995. Escluso che l’articolo 9 del nuovo Concordato con la Chiesa cattolica – in cui la Repubblica italiana prende atto che “i principi del cattolicesimo fanno parte del patrimonio storico del popolo italiano” – possa costruire idoneo fondamento normativo alla prassi amministrativa in materia, la Suprema Corte rigetta anche la “giustificazione culturale”, contraddicendo espressamente l’avviso del Consiglio di Stato. Non è sostenibile, infatti, “la giustificazione collegata al valore simbolico di un’intera civiltà o della coscienza etica collettiva”, per il contrasto in essa implicito con il divieto delle differenziazioni per motivi religiosi. È lecito esporre un crocifisso in un’aula scolastica, in un tribunale o in un ufficio pubblico, questa scelta può offendere la coscienza del non credente o dell’appartenente ad una confessione religiosa contraria a tale simbologia? L’esposizione contraddice la “laicità dello Stato”? E a che tipo di simbologia deve essere ascritto il crocifisso: identità religiosa o culturale? Nel corso dell’anno scolastico 2002-2003, Adel Smith, cittadino italiano di religione musulmana, domanda all’insegnante della scuola di Ofena (in provincia di L’Aquila), frequentata dai suoi figli, di rimuovere il crocifisso appeso alla parete o, in subordine, di appendervi un quadretto con la sura del Corano. L’insegnante accondiscende a questa seconda richiesta, ma viene smentita dal dirigente scolastico il quale impone di rimuovere il quadretto. Assistito da un avvocato, Adel Smith ricorre al Tribunale di L’Aquila per ottenere un pronunciamento d’urgenza. Investito della questione, il Tribunale ribadisce il carattere laico della Repubblica italiana e delle sue istituzioni e il 23 ottobre decreta la rimozione del crocifisso. Un’ordinanza successiva ha invece revocato tale rimozione poiché ha ritenuto che l’istanza presentata non integrasse una domanda “meramente risarcitoria”, ma si concretizzasse nella richiesta di una misura di carattere inibitorio idonea ad interferire nella gestione del servizio scolastico, dal che la sussistenza della giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. La rimozione del crocifisso scatena un’aggressiva polemica pubblica e una vera e propria campagna per il rilancio del crocifisso così che la maggior parte degli italiani hanno fatto questo tipo di ragionamento: “L’offesa è grande. Insopportabile. Una prevaricazione. Un esproprio. Un Tizio entra nel tuo alloggio, si accomoda in poltrona, ha libero accesso al frigorifero, usa il tuo bagno e invece di ringraziare per l’ospitalità, ti ingiunge di togliere dalla parete quel “coso” lì. Sarà anche un coso ma permetti decido io se deve restare lì o sparire”. Un ragionamento un po’ rozzo ma tale vicenda ci fa comprendere che oggi la questione dei simboli religiosi, a partire dal sostrato argomentativo connesso alla rivendicazione della libertà di coscienza e della neutralità dello Stato, può trasformarsi in un momento di “scontro tra religioni e civiltà”. Una questione di legittimità costituzionale è stata sollevata dal TAR del Veneto, avente ad oggetto gli artt. 159 e 190 del d. lgls. n. 297 del 1994, come specificati dall’art. 119 allegato C del R.D. 26 aprile 1928 n. 1297 e dall’art. 118 del R.D. 30 aprile 1924 n. 965, nella parte in cui includono il crocefisso tra gli arredi scolastici, nonché l’art. 676 d.lgs. 297/94, nella parte in cui conferma la vigenza degli artt. 119 allegato C del R.D. 1297/28 e 118 del R.D. 965/24. Il Tribunale remittente sostiene che il crocifisso è essenzialmente un simbolo religioso cristiano, di univoco significato confessionale, che l’imposizione della sua affissione nelle aule scolastiche non sarebbe compatibile con il principio supremo di laicità, desunto dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19, 20 della Costituzione, e con la conseguente posizione di equidistanza e di imparzialità fra le diverse confessioni che lo Stato deve mantenere; che la presenza del crocifisso, che verrebbe obbligatoriamente imposta ad alunni, genitori e insegnanti, delineerebbe una disciplina di favore per la religione cristiana rispetto alle altre confessioni, attribuendo ad essa una ingiustificata posizione di privilegio. La Corte Costituzionale con ordinanza 389/2004 ha ritenuto di non doversi pronunziare in quanto le norme in esame hanno natura regolamentare, norme prive di forza di legge, sulle quali non può essere invocato un sindacato di legittimità costituzionale, né conseguentemente, un intervento interpretativo. In questa prospettiva, l’ordinanza della Corte, con le sue argomentazioni tecniche, pare suggerire un inasprimento di toni senza rinunciare a continuare ad interrogarsi. Tuttavia il dibattito in corso sull’esposizione del crocifisso pare sempre meno legato alla religione, alla religiosità e alla fede e invece strumentalizzato dai politici di destra e di sinistra. 

Crocifisso a scuola, assolta l'Italia. Ribaltata la condanna del 2009. Chi ha ragione? si chiede G. Galeazzi su su “La Stampa”. Il crocefisso può restare appeso nelle aule delle scuole pubbliche italiane. Questo è quanto ha stabilito la Corte europea dei diritti dell’uomo, che con una sentenza definitiva della Grande Camera, votata da 15 giudici su 17, ha dichiarato che la presenza in classe di questo simbolo non lede nè il diritto dei genitori a educare i figli secondo le proprie convinzioni, nè il diritto degli alunni alla libertà di pensiero, di coscienza o di religione. Per il governo italiano e il fronte pro-crocefisso è una vittoria a tutto campo. Nel motivare la sua decisione la Corte afferma come il margine di manovra dello Stato in questioni che attengono alla religione e al mantenimento delle tradizioni sia molto ampio. Ma i quindici giudici che hanno votato a favore della piena assoluzione delle autorità italiane sono andati oltre. Nella sentenza si legge infatti come la Corte non abbia trovato prove che la presenza di un simbolo religioso in una classe scolastica possa influenzare gli alunni. E come nonostante la presenza del crocefisso (definito simbolo passivo) conferisca alla religione maggioritaria una visibilità preponderante nell’ambiente scolastico, questo non sia sufficiente a indicare che sia in atto un processo di indottrinamento. Si sottolinea infatti che nel giudicare gli effetti della maggiore visibilità data al cristianesimo nelle scuole si deve tener conto che nel curriculum didattico non esiste un corso obbligatorio di religione cristiana e che l’ambiente scolastico italiano è aperto ad altre religioni. Nessun commento dall’avvocato Nicolò Paoletti, difensore di Soile Lautsi, la cittadina italiana di origini finlandesi che aveva presentato ricorso alla Corte. Dichiarazioni euforiche, invece, di coloro che hanno strenuamente difeso l’importanza della presenza del crocifisso nelle scuole italiane. «È una pagina di speranza per tutta l’Europa», ha commentato monsignor Aldo Giordano appena il presidente della Corte di Strasburgo, Jean Paul Costa, è uscito dall’aula dopo la lettura della sentenza. Il rappresentante della Santa Sede presso il Consiglio d’Europa ha quindi sottolineato come la Corte abbia preso una posizione coraggiosa e abbia tenuto conto delle preoccupazioni che in questo momento gli europei esprimono nei riguardi delle loro tradizioni, dei loro valori e della loro identità. Gli ha fatto eco il vice ministro della giustizia russo, Georgy Matyushkin, che è intervenuto davanti alla Grande Camera in favore dell’Italia ed è volato appositamente da Mosca per assistere alla lettura della sentenza. Il minisro russo si è detto «molto soddisfatto per l’approccio della Corte». Ma anche il direttore dello European Centre for Law and Justice, Gregor Puppinck, ha definito la sentenza «un colpo che mette un freno alle tendenze laiciste della Corte di Strasburgo e che costituisce un cambiamento di paradigma». Lo European Centre for Law and Justice era una delle organizzazioni no profit che si erano costituite parte terza a favore dell’Italia nel procedimento. Alla lettura della sentenza, che è avvenuta in un’aula piena di studenti e funzionari del Consiglio d’Europa, erano presenti anche l’ambasciatore italiano Sergio Busetto, oltre agli ambasciatori cipriota e greco e ai rappresentanti della diplomazia armena, lituana, e di San Marino. Tutti Paesi che assieme a Bulgaria, Romania, Malta e Principato di Monaco erano intervenuti a favore dell’Italia. La sentenza emessa oggi mette la parola fine al ricorso «Lautsi contro Italia». Un fascicolo che fu aperto dalla Corte nel 2006 e che nel 2009, con una sentenza in primo grado a favore delle tesi della ricorrente, suscitò una vera alzata di scudi contro la Corte. L’indignazione fu tale che il governo italiano ricorse immediatamente, chiedendo e ottenendo la revisione del caso da parte della Grande Camera. In questo suo appello, andato a buon fine, l’Italia ha potuto contare non solo sui dieci Paesi che «ufficialmente» si sono presentati come parti terze davanti alla Corte, ma anche sul contributo di diverse ong, di parlamentari italiani ed europei e del lavoro diplomatico condotto dal rappresentante della Santa Sede. «Esprimo profonda soddisfazione per la sentenza della Corte di Strasburgo, un pronunciamento nel quale si riconosce la gran parte del popolo italiano. Si tratta di una grande vittoria per la difesa di un simbolo irrinunciabile della storia e dell’identità culturale del nostro Paese», ha dichiara il ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini. «Il Crocifisso sintetizza i valori del Cristianesimo, i principi sui cui poggia la cultura europea e la stessa civiltà occidentale: il rispetto della dignità della persona umana e della sua libertà. È un simbolo dunque che non divide ma unisce e la sua presenza, anche nelle aule scolastiche, non rappresenta una minaccia nè alla laicità dello Stato, nè alla libertà religiosa. Oggi è un giorno importante per l’Europa e le sue istituzioni che finalmente, grazie a questa sentenza, si riavvicinano alle idee e alla sensibilità più profonda dei cittadini», ha concluso il ministro.

Toglie il crocifisso dall’aula. «Non me ne faccio nulla». Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà», scrive Francesco Alberti su “Il Corriere sella Sera”. Il caso di un’insegnante in una prima elementare. Il simbolo religioso scompare pochi giorni dopo l’inizio della scuola. Gragagnani (Pdl): «Va rimesso, è una questione di libertà». Via un altro. L’ennesimo. Tolto dalla parete a cui era appeso da anni. E scoppia la polemica. C’è chi parla di «strage dei crocifissi». E chi, più laicamente, si rifugia nel concetto di tolleranza e invita al reciproco rispetto. Siamo a Bologna, nella scuola elementare «Bombicci», classe prima B. Il simbolo religioso scompare pochi giorni prima dell’inizio delle lezioni. Qualcuno, probabilmente dall’interno della scuola, avverte l’ex parlamentare pdl Fabio Garagnani, personaggio piuttosto combattivo in materia, che parte in quarta, informando della rimozione il ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, e il vicedirettore regionale dell’ufficio scolastico, Stefano Versari. Per nulla scandalizzato invece il preside del comprensivo di cui fa parte la scuola, Stefano Mari: «Non esiste alcuna legge dello Stato che impone l’obbligo di ostensione del crocifisso, ma solo un regolamento del 1928 sugli arredi scolastici, poi superato nel 1999 da norme che conferiscono autonomia ai singoli istituti: dipende dalla sensibilità dei docenti». A riprova di ciò, prosegue il dirigente, «negli istituti che fanno parte del mio comprensivo, che riunisce 1.400 studenti tra elementari e medie, in moltissime aule il crocifisso non c’è mai stato o è stato tolto, mentre in altre è presente». Un processo graduale, aggiunge, «avvenuto negli ultimi anni e quasi passato inosservato in un clima di reciproca tolleranza tra chi lo avrebbe voluto e chi no». Fino ad oggi. Ora la polemica rischia di montare. Il giornale dei vescovi, Avvenire , censura l’episodio, ricorda l’ordinanza del 2011 della Corte di Strasburgo che impose a una scuola media di Abano Terme (Padova) di riappendere il crocifisso, ma soprattutto riporta le parole di un calibro da novanta come il presidente emerito della Corte costituzionale Cesare Mirabelli, il cui parere giuridico è agli antipodi di quello del preside Mari: «Non è rimesso alla scelta di qualcuno se togliere o meno il crocifisso - afferma il giurista -, non ci possono essere interpretazioni da scuola a scuola. Se è vero che la regolamentazione vigente sui simboli religiosi, che li vuole affissi nelle aule, può sembrare datata, è altrettanto vero che, chiamato a esprimersi, il Consiglio di Stato ne ha riaffermato la validità». Ma il preside insiste: «Credo che la questione vada risolta a livello amministrativo, è finito il tempo in cui tutto veniva deciso centralmente dal ministero». L’insegnante che ha tolto il crocifisso preferisce non esporsi. Raccontano che a chi le chiedeva spiegazioni sulla rimozione del simbolo avrebbe sbrigativamente risposto «di non farsene nulla». Il preside fa da scudo: «È inevitabile che sia turbata dalle polemiche, ma continua il suo lavoro e per ora non si registrano proteste dalle famiglie degli alunni». Ma Garagnani incalza: «È un problema di libertà, i genitori non si facciano intimidire».

Ma non solo oil crocifisso si vuol togliere. Anche il Presepe.

Il sottosegretario all'Istruzione: "Sì al presepe a scuola; vietarlo non aiuta l'integrazione". Gabriele Toccafondi, coordinatore regionale Ncd Toscana, sottosegretario di Stato all’Istruzione, e l'intervento su La Nazione: "Non interrompiamo le nostre tradizioni".  Caro direttore, ho seguito con attenzione le inchieste dedicate da La Nazione ai “presepi vietati” nella nostra città. Questo tema ci permette di affrontare un dibattito sul rapporto tra identità e cultura nei Paesi occidentali secolarizzati e multiculturali, sui concetti di accoglienza e di dialogo. L’idea che per rispettare le altre culture e religioni sia necessario rinunciare alle proprie tradizioni, o rinnegarle, è un’idea decisamente bizzarra, che mai ha fatto parte della storia delle civiltà, e che si è affacciata nel mondo occidentale solo da pochissimi anni. Vietare il presepe non aiuta né il dialogo né l’integrazione, ma anzi sottolinea le differenze, allontana mondi che invece dovrebbero conoscersi e avvicinarsi. Come facciamo a dialogare con gli immigrati di altre culture e tradizioni, che vengono a vivere da noi, se non siamo in grado di trasmettere loro la nostra civiltà, le nostre usanze e le nostre credenze, ciò che abbiamo di bello? Il Natale è la memoria di un fatto storico e non solo un avvenimento di fede per molti credenti. E’ talmente un fatto riconosciuto e universale che ai bambini non puoi nascondere che si festeggia qualcosa durante Dicembre e così pur di nascondere la nascita di Gesù dentro una grotta in alcune scuole ci si inventa qualcosa da festeggiare: dall’albero di natale, alla neve fino a bizzarre creazioni come il topolino che porta i doni ai poveri o al pesciolino rosso dentro l’acquario. Non sarebbe più semplice dire le cose come stanno? E poi, sono davvero così sicuri, questi presidi e insegnanti che vietano il presepe, che gli alunni stranieri e le loro famiglie siano contrarie alla realizzazione della capannuccia negli istituti educativi? Io ricordo che proprio qui, a Firenze, esponenti di rilievo della comunità islamica locale dissero, qualche anno fa, che era opportuno e formativo che i loro figli potessero conoscere usanze e tradizioni del Paese in cui erano venuti a vivere. Impedire la realizzazione di un presepe in una scuola è un atto che reputo privo di ragioni, di un malinteso senso di laicità, che si nasconde dietro la presenza di alunni stranieri o di altre religioni, ma che nulla ha a che vedere con una sana laicità positiva, in grado di accogliere e valorizzare, non di censurare. Come stabilito anche dalla sentenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo del 2011, neppure il crocifisso esposto nelle aule scolastiche viola il principio della laicità degli istituti educativi. Che male può fare un simbolo come il presepe? Mi auguro che i docenti e dirigenti scolastici che hanno impedito a tanti bambini di avere una capannuccia nelle loro scuole, riconsiderino la loro decisione, in questi ultimi giorni prima del Natale: perché un vero dialogo con chi appartiene a tradizioni culturali diverse si può impostare solo valorizzando e facendo conoscere le radici più profonde della nostra identità.

Il presepe, bersaglio sbagliato, scrive Edoardo Crisafulli su “Avanti On line”. Un Preside ha vietato il Presepe, “un focus cerimoniale e rituale che può risultare soverchiante”: gli alunni di origine straniera, cospicua minoranza nella sua scuola, subirebbero l’imposizione di “ciò che non appartiene” loro. Concordo sul fatto che “la scuola pubblica è di tutti e non va creata alcuna occasione di discriminazione.” Ma questa decisione mi pare assurda. Il Presepe fa parte della cultura italiana come l’arte sacra, la musica barocca e la Divina Commedia. Non è un mero simbolo di fede. Sarebbe folle pretendere che l’alunno islamico (o buddista o quel che è) si converta al cristianesimo. Ma chi vuole integrarsi in Italia deve assimilare la nostra cultura. Altrimenti sarà un cittadino privo di un’identità. Non c’è bisogno di credere nella resurrezione di Cristo per ammirare la pittura di Giotto e la poesia di Dante, così come non occorre compiere sacrifici a Giove per apprezzare la mitologia classica. Il cristianesimo, inteso come fenomeno culturale, non deve apparire estraneo, o alienante, a chi ha scelto di vivere a casa nostra. I cristiani d’Oriente non studiano forse il Corano, un vero e proprio capolavoro linguistico, nonché testo di base della civiltà arabo-islamica, cui anche loro appartengono? Nessun cristiano colto nega che l’arabo classico — la koiné di tutti gli arabi – è, essenzialmente, una lingua coranica. Se c’è un simbolo più religioso che culturale, quello è il crocefisso. Ma il Preside, che ha “cose più importanti” di cui occuparsi, ha deciso di lasciarlo “appeso ai muri”. Se lo togliesse, i credenti ne farebbero “una questione di Stato”. Più facile bandire l’innocuo Presepe, che spunta a ridosso del Natale, per poi svanire subito dopo l’Epifania. Una volta affermato il principio demenziale che il Presepe offende la sensibilità islamica, dove arriveremo? Proibiremo la lettura a scuola del Canto XXVIII dell’Inferno dantesco, perché il Profeta Maometto vi compare nella veste sommamente offensiva di un dannato squarciato dal mento fin dove si “trulla”; punizione vergognosa, riservata agli scismatici, ai seminatori di discordia, come erano reputati i musulmani nel Medioevo? E metteremo alla berlina il Manzoni cristiano in quanto credente in una divinità falsa e bugiarda? No, non è questo il compito di una scuola laica, che forma i cittadini della polis secolare. Il vero laico è un liberale, un libertario. La laicità è una neutralità attiva: lo Stato laico non propaganda né una singola religione né l’ateismo; crea semplicemente le condizioni politiche che garantiscono la libertà di culto. La censura del Presepe non è un’affermazione di laicità, e non è neppure frutto della degenerazione di uno spirito laico intollerante. È piuttosto figlia del politically correct saccente e confusionario che imperversa da anni negli Stati Uniti, e che ora è approdato sulle nostre coste. Un multiculturalismo di bassa lega, con una spruzzata di giacobinismo a senso unico (l’unica tradizione da azzerare è la nostra), viene spacciato come una riedizione dell’Illuminismo progressista. I sacerdoti del politically correct, in nome della tolleranza verso lo straniero e il diverso, impongono forme subdole di censura o di auto-censura: chi non si adegua ai loro dettami subisce una gogna mediatica. Il multiculturalista serio è fatto di tutt’altra pasta: ama la diversità, perché è consapevole che il pluralismo religioso/culturale arricchisce la società civile. A una condizione, però: che venga rispettata la libertà e la dignità di tutti. Solo così il principio liberale è adattabile al mondo cosmopolita d’oggi. La cifra del laico autentico, peraltro, è la coerenza: anche quando degenera nella polemica anti-religiosa, ha il coraggio di prendersela ex aequo con preti, rabbini, imam e monaci: per lui, tutte le religioni positive sono ricettacoli di superstizione e di fanatismo. Mica rinnega la sua tradizione culturale per esaltarne una straniera, esotica, perché così va di moda nei circoli radical-chic! In certi ambienti di sinistra invece si usano due pesi e due misure: si insorge (giustamente) quando viene offeso l’islam, ma si tace o si gongola se qualcuno dissacra il cristianesimo o inveisce contro il Papa (da questo punto di vista, Oriana Fallaci non aveva tutti i torti). Agli apostoli del multiculturalismo suggerisco la lettura di Innamorato dell’Islam, credente in Cristo, di Paolo Dall’Oglio, il gesuita rapito dai jihadisti in Siria, il quale ha dedicato la sua vita al dialogo interreligioso basato sulla reciprocità. Se noi dobbiamo rispettare l’islam, i musulmani devono fare altrettanto con noi. Il dialogo interreligioso è una faccenda maledettamente seria: Dall’Oglio, forse, ci ha rimesso la pelle. Ho avuto l’onore di conoscerlo a Damasco, nel 2011. È stato lui a insegnarmi una grande verità, valida anche per chi non è credente: per confrontarmi con chi crede in un Dio diverso dal mio, non devo rinnegare la mia religione. Tutt’altro: la devo professare (o difendere) con orgoglio. Cosa fare, allora? Abolire l’insegnamento del cattolicesimo nella scuola pubblica (unico vero vulnus alla laicità), oppure garantire, per equità, la medesima importanza a tutte le religioni professate dai cittadini italiani? A mio avviso, l’educazione religiosa, fatto di coscienza individuale, spetta alle famiglie, non allo Stato. Sarebbe sbagliato inaugurare una sorta di carnevale variopinto di tutte le fedi. Lo Stato, però, ha il dovere di insegnare la storia del cristianesimo, quale disciplina curricolare. Che sia un docente di lettere o di storia a insegnarla, laicamente. La nostra civiltà ha radici cristiane, oltreché pagane (greco-romane) – e qui consiglio, a chi pencola verso le tesi dei teocon, il saggio di Luciano Pellicani, Le radici pagane d’Europa. Il vero scandalo, oggi, non è il Presepe: è l’ignoranza: i nostri figli non conoscono le parabole evangeliche e le narrazioni bibliche. Senza quei codici culturali, tanta parte della nostra letteratura e della nostra tradizione artistica risulta incomprensibile. Anche la polemica sui crocefissi la risolverei in chiave culturale: sostituiamo quelli bruttissimi di plastica con riproduzioni di Giotto o di Cimabue. Che ogni classe adotti una croce dipinta della tradizione pittorica italiana. Trasformare un fenomeno artistico, qual è il Presepe, in un simbolo religioso, è anche un grave errore politico. I fascio-leghisti non si sono fatti sfuggire l’occasione per specularci sopra: “Ecco la sinistra che plaude all’Eurabia islamizzata!’ Non lasciamo la difesa delle nostre tradizioni alla Lega e a Casa Pound: la rappresentazione della natività – l’espressione più poetica della religiosità popolare italiana – fu inventata da San Francesco d’Assisi. Per testimoniare, ogni anno, la nascita in assoluta povertà e umiltà di Cristo. Un messaggio formidabile per i creso-cristiani d’ogni tempo, che difendono a parole la cristianità mentre la tradiscono trescando con i potenti di turno. Riappropriamoci, noi socialisti, del Presepe e denunciamo l’uso politico distorto che ne fanno coloro che annacquano lo spirito rivoluzionario, sovversivo del cristianesimo. Ecco perché io, agnostico e laico-socialista, amo il Presepe e lo voglio esposto nei luoghi pubblici, così com’è: un bambino adagiato in una mangiatoia, in una grotta. E a chi sparge a piene mani il seme dell’odio e dell’intolleranza ricordo i bei versi di Trilussa “Ve ringrazio de core, brava gente/ pe’ ‘sti presepi che me preparate,/ ma che li fate a fa? Se poi v’odiate,/ si de st’amore non capite gnente…”.

La sinistra a favore dei mussulmani contro i cristiani. L'Islam astio al principio di reciprocità.

La persecuzione dei cristiani in Medio Oriente, scrive Salvatore Lazzara. Gesù nel Vangelo, ricorda ai discepoli: “Beati voi quando, vi insulteranno, vi perseguiteranno e mentendo diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”. La promessa di Gesù non prevede per i suoi seguaci vita facile. E’ il mistero della sequela, un cammino che costa a quanti aderiscono, un prezzo altissimo. In alcuni casi è richiesto il dono della vita, per testimoniare la fede nel Signore morto e Risorto. Già nel nuovo testamento sono registrati i primi attacchi contro i cristiani: dopo la morte in croce del maestro, i discepoli ebbero paura ad annunciare ciò che avevano visto e udito, per paura di essere uccisi. E’ necessario che il Risorto stesso indichi ai discepoli con le apparizioni nel giorno dopo il sabato, la via da seguire. Durante una riunione a porte chiuse, presente la Madre di Gesù Maria, ricevono il dono dello Spirito Santo, il quale li abilita a proclamare che Gesù è il Signore, e quanti ascoltano la loro parola, gli abitanti di Tiro, di Sidone, della Cappadocia, intendono nella loro lingua il messaggio del Dio fatto carne e crocifisso per la salvezza degli uomini. Da questo punto in poi, i discepoli vivranno incomprensioni, delusioni, tradimenti, fino a versare il sangue per la fede. Il primo martire di cui abbiamo notizia è Stefano, il quale viene ucciso brutalmente perché si rifiutava di rinnegare Gesù. Sono esemplari le ultime parole pronunciate da questo discepolo del Signore, che ricalcano quelle dette da Gesù sulla croce prima di morire. La tradizione dei primi secoli ha tramandato alcuni atti dei primi martiri della fede, molto suggestivi e pieni di spunti di riflessione. Le persecuzioni si scatenano contro i cristiani quando non vogliono cedere ai compromessi o alle false divinità. Tutto ciò produce odio, perché la parola di Dio condanna il male e ciò che di brutto il mondo possiede. Cito per tutti san’Ignazio di Antiochia, il quale catturato non volle essere liberato per diventare nelle mandibole dei leoni frumento di Cristo macinato per la salvezza del mondo. Certamente non possiamo analizzare i motivi e le lunghe persecuzioni cruente dei cristiani nell’arco dei 2000 anni, ma possiamo sintetizzare i vari periodi per comprendere il faticoso annuncio della Parola di Dio all’umanità. Fino al quarto secolo, i vari imperatori romani nel vasto territorio sotto la loro giurisdizione, tentarono in tutti i modi di eliminare il Cristianesimo che si diffondeva sempre più attraverso le vie commerciali, con la complicità di alcuni ufficiali militari, che avendo sentito ciò che Gesù aveva fatto ad alcuni colleghi, come ad esempio la guarigione del figlio del centurione, -il quale prima dell’ingresso del Signore nella sua casa esclamò-: “Guarda io non sono degno che tu entri nella mia casa, ma dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito…”-, suscitava in quanti ascoltavano sentimenti profondi di commozione e di partecipazione. La “nuova fede”, fece breccia sugli schiavi, i quali vedevano nel Cristianesimo, la liberazione dalla condizione di oppressi. Sappiamo dai racconti, che molti di essi erano a servizio dei potenti del tempo. Venendo a contatto con loro, cominciarono a convertirsi per la fedeltà che i servi mostravano verso la nuova religione. Tutto ciò turbava gli equilibri politici, sociali e religiosi del tempo. Sentendo odore di minaccia al potere costituito il cristianesimo, cominciò ad essere perseguitato in tutto l’impero con le grandi campagne messe in atto da Diocleziano, Tito, Nerone, il quale accusò i cristiani di essere responsabili del famoso rogo-incendio di Roma, che lui stesso aveva fatto appiccare. Per giustificare le efferate esecuzioni e sbarazzarsi di questa nuova forma di religiosità, Nerone non ebbe scrupoli ad addebitare ai cristiani un atto che non avevano commesso, soltanto per placare la sua coscienza ed affermare il personale potere nei confronti dei sudditi. Con la conversione di Costantino al cristianesimo, cominciò un era di pace e di libertà. Cominciarono le costruzioni delle Basiliche, e il culto era permesso alla luce del sole. Il cristianesimo a poco a poco cominciò a diventare parte strutturale della società, arrivando a permeare la vita dei fedeli in modo totalizzante. Certamente non siamo qui ad esaminare tutti gli aspetti positivi e negativi del processo storico descritto, ciò che conta e comprendere la difficoltà in cui ad esempio si trova oggi l’espansione dell’Islam, alla luce di quanto ho affermato. Ai tempi di Costantino, il potere sociale e religioso erano uniti indissolubilmente. L’imperatore era il depositario, il custode del creato, perché da Dio riceveva la potestà di governare. Dunque dalla religione partiva ogni input per regolare la vita della società. Ogni cosa era subordinata alla Bibbia, e dalla Scrittura si prendeva ispirazione per stabilire le leggi etiche e morali. Questo sistema naturalmente ha subito parecchie modifiche nel tempo, fino ad arrivare ai tempi odierni, portando dietro di se integralismi, fondamentalismi, e tante volte scelte sbagliate che hanno causato la morte di tanta gente innocente. Dobbiamo purtroppo dire che lo schema citato, ha portato a persecuzioni accanite contro i cristiani e viceversa.   Questa struttura ancora oggi è usata dall’Islam nei paesi a maggioranza musulmana. E’ il Corano con le sue leggi a determinare il corretto svolgimento della vita dei cittadini. Ogni cosa prende spunto e trae ispirazione dalla parola di Allah. Tutto ciò che non coincide con il predicato religioso islamico, deve essere abbattuto con ogni mezzo. Ogni musulmano è chiamato ad osservare il Corano, e da esso prendere spunto per la vita familiare e relazionale. Le società islamiche oggi vengono classificate in moderate e radicali. E’ una divisione che a me personalmente crea diverse perplessità e problemi. Cosa significa essere moderati? Forse non usare la violenza per convertire? Oppure cosa significa radicali? Usare la violenza come via per raggiungere la conversione degli infedeli a scapito del dialogo e della civile e pacifica convivenza con chi non accetta l’Islam? Sono domande complicate, da cui nasce la confusione e la persecuzione di cui noi oggi siamo testimoni contro i cristiani in generale e le minoranze religiose. Nei paesi musulmani, generalmente ai cristiani è riconosciuta la libertà di professare la loro fede, ma con limitazioni in alcuni paesi. In Arabia Saudita è formalmente vietata ogni religione che non sia quella musulmana; la presenza di stranieri cristiani è tacitamente tollerata, ma essi non possono in alcun modo manifestare la propria fede. Persino il possesso della Bibbia è considerato un crimine. In generale nei paesi arabi i cristiani sono oggetto, da parte della popolazione musulmana, di forme di discriminazione più o meno gravi, che negli ultimi decenni hanno portato molti di loro a emigrare o a convertirsi all’Islam. La popolazione cristiana è in calo pronunciato in tutti i paesi del Medio Oriente. La conversione di musulmani al cristianesimo è poi vista come un crimine (apostasia) e, anche nei paesi in cui la legge la consente, i convertiti sono spesso oggetto di minacce e vendette da parte della popolazione. Mentre in Occidente si combatte ogni forma di religiosità di carattere cristiano in nome di una falsa laicità aggressiva, in alcuni paesi a maggioranza islamica il percorso è inverso. I musulmani al potere cercano in tutti i modi di “islamizzare” gli stati in cui sono a maggioranza con leggi che favoriscono lo sviluppo dell’Islam, ma che penalizzano di molto le altre religioni, le quali strette nella morsa della persecuzione diventano sempre più minoritarie. In Europa la confusione ideologica porta allo smantellamento culturale, causando effetti devastanti: la costruzione di moschee, il Real Madrid ha dovuto togliere la croce della scudetto perché il maggiore azionista della squadra è diventato un famoso emiro musulmano, le continue polemiche contro l’allestimento dei presepi, l’insegnamento della religione nelle scuole, il crocifisso nelle aule pubbliche, le difficoltà relazionali in alcune città europee importanti a maggioranza musulmana che avanza silenziosa, la natalità, gli investimenti economici, fanno parte di una persecuzione precisa e metodica contro i cristiani portata avanti dai cosiddetti moderati, che pur non prevedendo il sacrificio cruento con lo spargimento del sangue, condiziona la libertà del cristianesimo in nome della tolleranza e dell’accoglienza. A questo punto possiamo fare un accenno all’epoca delle Crociate, considerate a torto come persecuzioni contro i non cristiani, ma il tempo a disposizione è poco. Contrariamente a quanto è stato affermato dai libri di storia foraggiati dai nemici del cristianesimo, -come possiamo vedere dall’immagine- (foto 1), avevano uno scopo chiaro e limpido: difendere i luoghi santi dalle invasioni islamiche. Mentre le conquiste musulmane avevano ed hanno come obiettivo la conquista dei territori, per convertire all’Islam gli infedeli, contrariamente i crociati difendevano e riconquistavano con la forza i luoghi santi. Certamente non tutto è stato rose e fiori…. Ma permettetemi di dire che bisognerebbe rivedere con onestà queste pagine di storia senza i pregiudizi di quanti avversano in tutti i modi la presenza cristiana nel mondo. I cristiani a Gerusalemme e a Nazareth sono ormai il 2 per cento, mentre la nazione con il maggior numero di cristiani resta il Libano. Se ne contano approssimativamente il 35 per cento, ma in diminuzione rispetto a qualche anno fa. “Più i cristiani lasciano il Paese, più i cristiani diventano un’esigua minoranza, più alcuni principi della modernità, come ad esempio i diritti umani, vengono a cadere”, avverte il gesuita egiziano padre Samir, esperto di questioni mediorientali. “Con la diminuzione degli elementi cristiani si fa un passo indietro nell’economia ma, ancor di più nella politica, e soprattutto in tutto ciò che è legato ai diritti umani: la situazione della donna, la libertà religiosa, la libertà tout court, il progresso sociale, i diritti sociali per i più poveri e i deboli”. Anche per questo motivo sentiamo tra i musulmani – intellettuali e non solo, politici e anche gente di media cultura – dire: “Per favore, non andatevene! Rimanete! Abbiamo vissuto insieme per secoli!”. Dal 2000 ad oggi i cristiani vittime di persecuzioni sono stati 160.000 ogni anno. Ogni 5 minuti un cristiano viene ucciso a causa della propria fede.

Don Salvatore Lazzara - Sacerdote da 17 anni, è cappellano militare all’Accademia Aeronautica di Pozzuoli. Da Cappellano Militare ha svolto i seguenti incarichi: Maricentro (MM) La Spezia, Nave San Giusto con la campagna addestrativa nel Sud Est Asiatico, X° Gruppo Navale in Sinai per la missione di Pace MFO. Successivamente trasferito alla Scuola Allievi Carabinieri di Roma. Ha partecipato alla missione in Bosnia con i Carabinieri dell’MSU. Di ritorno dalla missione è stato trasferito alla Scuola Ufficiali Carabinieri di Roma. Dopo l’esperienza nei Carabinieri è tornato a Palermo presso i Lanceri d’Aosta (Esercito).  Per Da Porta Sant’Anna curava inizialmente la rubrica “Al Pozzo di Sicar”; da Luglio 2014 ha assunto il ruolo di Direttore del Portale.

E poi c'è lei. Peppa Pig. Oggetto di strali dei benpensanti.

E' attualmente il cartone animato più famoso e visto al mondo, ma anche dai genitori che, in caso di stanchezza giornaliera, piazzano i figli davanti alla  tv, incantati dal maialinio super star. Ma ora Peppa Pig finisce nell'occhio del ciclone. Tutto per una presunta parolaccia pronunciata dal maialino in un nuovo episodio. E ora le mamme protestano: "Siamo scioccate". A denunciare l'episodio è Natalie, una mamma inglese di 30 anni che si è resa conto del turpiloquio di Peppa Pig dopo che la sua bambina aveva ripetuto una strana parola. L'episodio incriminato è in un DVD in cui si fa un riferimento a una band. Da "Rocking Gazzelle" diventano "Fucking Gazelle", almeno secondo quanto ha capito la mamma. "Sono scioccata", ha detto la donna al Daily Mail. "Quando ho sentito mia figlia dire certe parole l'ho rimproverata ma poi mi sono resa conto che era tutta colpa del cartone". La donna si sente responsabile e colpevole e conclude dicendo che non permetterà mai più ai suoi bambini di vedere il cartone. Anche Peppa Pig potrebbe rimanere vittima dell’elevato livello di attenzione per la prevenzione degli attentati. La simpatica maialina rosa potrebbe essere messa al bando. Le nuove linee guida della Oxford University Press, la casa editrice dell'ateneo inglese che pubblica testi scolastici e prodotti editoriali educativi. Secondo queste indicazioni c’è il divieto di pubblicazione di riferimento al maiale e alla sua carne per non offendere i musulmani e gli ebrei. L’Università è un’autorità negli ambienti culturali inglesi e, se dovessero essere accolti i suggerimenti, il cartone animato che fa impazzire i bambini di tutto il mondo potrebbe essere messo al bando. La censura dell’Università arriva subito dopo gli attentati di Parigi. Sulla questione sono intervenute perfino le comunità ebraiche e musulmane che hanno definito la vicenda un tentativo “politically correct senza senso”.

Liberateci da Peppa Pig: sta rovinando i nostri bambini, scrive di Lucia Esposito su “Libero Quotidiano”. C'era una volta Heidi che faceva "ciao" alle caprette e aiutava l'amica Clara in carrozzina, c'erano i Barbapapà animalisti ed ecologisti che ci lasciavano di stucco coi loro "barbatrucchi" e le trasformazioni più improbabili. C'era Winnie the Pooh, l'orsetto grasso che lievitava all'ombra del bosco dei cento acri bevendo ettolitri di miele ma capace di grandissimi gesti di amicizia. C'era la cagnetta Pimpa che perdeva per strada le sue macchie rosse ma che faceva la felicità del suo padrone Armando… Mai si erano visti in televisione dei maiali che ruttano senza ritegno, grugniscono in continuazione, si rotolano nel fango allegramente e che, quando ridono, si ribaltano sul pavimento sbellicandosi come idioti. Liberatemi, vi prego, dalla famiglia Pig. Qualcuno mi spieghi cosa c'è di educativo in questo cartone che sta lentamente trasformando mio figlio di tre anni in un suino. «Tu sei mamma Pig», mi dice quando si sveglia. «No, Francesco io non sono un maiale», gli rispondo piccata. Lui arriccia il naso, dice «oink» e scappa via. Quando al mattino va a scuola, si guarda attorno con la stessa attenzione con cui un bracco ungherese cerca i tartufi nel bosco e, appena intercetta una pozza d'acqua, si fionda per saltarci dentro. «Come Peppa Pig» salta e ride mentre i suoi occhi roteano come biglie per individuare un altro specchio d'acqua fangoso in cui rotolarsi come un porcellino. Inutile provare a spiegargli che i maialini sono sporchi e puzzano e che la loro casa, il porcile, è un posto lurido e nauseabondo. Lui dice che «Patata City» (la città in cui vive la maledetta famiglia Pig) è bella e pulita. Per non parlare del rutto tra una portata e l'altra, diventato la colonna sonora dei miei pasti. Davvero non so come sia capitato ma lo spirito della famiglia Pig si è impossessato di lui e viene fuori senza alcun ritegno proprio quando tutti tacciono e non si può far finta di non aver sentito. «Non si fa, i maiali lo fanno» e lui: «Ma io sono Peppa Pig». Allontanarlo dal tavolo non fa che scatenare il processo di identificazione con la famiglia di suini perché invece di piangere, invece di starsene umiliato in camera, va in bagno, prende il braccio della doccia fa cadere acqua sul pavimento e si mette a saltare nella pozza. Per chi è fuori da questo incubo perché non ha figli tra i due e gli otto anni, Peppa Pig è un cartone animato che ogni sera ipnotizza mezzo milione di bimbi. È la storia di una famiglia di maiali (mamma Pig, papà Pig, il fratellino George di due anni e la protagonista Peppa di quattro anni). I suini non vivono in un porcile ma, pur mantenendo comportamenti propri della specie, sono umanizzati. Il povero signor Pig, il padre, è un pasticcione inetto, incapace di fare qualsiasi cosa (in un episodio per piantare un chiodo, fa crollare una parete) che si fa prendere in giro dai figli senza dire un «oink» sia perché è più grasso del normale sia perché è un fallimento che cammina. Lui e sua moglie non sono in grado di dare una sola regola comportamentale ai figli e, quando ci provano, non sono credibili. Non si fanno rispettare. Peppa e George fanno quello che vogliono, inzozzano di fango la casa, rompono il pc con cui la mamma lavora. Viziati e ribelli, trasmettono ai bambini l'idea che tutti sono uguali, che la loro parola-grugnito vale quanto quella dei genitori. Vogliamo poi parlare di George? A due anni dice solo e sempre «dinosauo», attaccato come una cozza al suo peluche verde ripete ossessivamente le stesse cose da centinaia di puntate senza che nessuno (tranne Peppa Pig che lo chiama «tontolone») si faccia delle domande sull'evoluzione del linguaggio del piccolo, senza che nessuno gli spieghi che si dice «dinosauro» e gli dia qualche informazione in più sull'animale preistorico. I dialoghi sono semplici, il vocabolario basico, i personaggi ripetono sempre le stesse parole, il disegno dei cartoni è elementare, eppure i bambini sono pazzi di questi porcellini. Molti esperti dicono che Peppa Pig piace tanto perché riproduce un modello di “famiglia normale”: i genitori che vanno al lavoro, i figli affidati ai nonni, le gite della domenica, i capricci a cui non seguono punizioni... Adesso, gli psicologi avranno anche le loro ragioni ma io da un po' ho vietato al mio bimbo di vedere «Peppa Pig»: perché per me non è normale che a cena rutti con lo stesso orgoglio di chi prende dieci in pagella. Ridatemi i barbatrucchi di Barbapapà!

E poi Peppa Pig è un maiale e non è corretto parlarne in un'Italia Islamica voluta dalla sinistra contro gli italiani cattolici.

Follia islam, fatwa per fatwa. Vietati rock, calcio, cani e bici. Le scomuniche religiose possono costare la vita. Ma osservarle tutte vuol dire non vivere più, scrive Massimo M. Veronese su “Il Giornale”. Ha una fama sinistra ma la fatwa, o fatawi al plurale, in fondo, è solo un codice di comportamento quotidiano e non è obbligatorio rispettarlo. Per avere valore deve uscire dalla bocca di un'autorità religiosa, ma in troppi, hanno denunciato alcuni analisti algerini, si attribuiscono un ruolo nell'Islam e si sentono autorizzati a dettare legge a caso. Le fatawi vietano gadget, oroscopi, la riproduzione di cd e dvd. Per non dire del nuovo profumo «Victoria's Secret: Strawberries and Champagne» ritirato dal governo dagli scaffali di Doha senza bisogno di una fatwa perchè «va contro le abitudini, le tradizioni e i valori religiosi del Qatar». Ma in questi anni abbiamo visto anche di peggio.

Le palle di neve. É l'ultima in ordine di apparizione: vietato costruire pupazzi di neve in Arabia Saudita, fatwa dell'imam Mohammad Saleh Al Minjed. Dice che realizzare uomini o animali di neve è contrario all'Islam. Unica eccezione, riporta Gulf News , i pupazzi di neve raffiguranti soggetti inanimati cioè navi, frutta o case. La reazione però è stata piuttosto gelida.

I pokemon. Pikachu, Meowih, Bulbasaur, sono stati accusati di complotto giudaico-massonico, e messi al bando dallo sceicco saudita Yusuf al-Qaradawi, ideologo dei Fratelli musulmani. Vietata la loro vendita in tutta l'Arabia Saudita. I Pokemon, sentenzia la fatwa, si sono coalizzati per far diventare ebrei i musulmani. Bastasse un cartoon.

I tatuaggi. Fresca anche questa. La Direzione Affari Religiosi di Turchia guidata dal Gran Mufti Mehmet Gormez, principale autorità religiosa islamica del paese, ha emesso una fatwa contro i tatuaggi: «Allah ha maledetto coloro che cambiano il loro aspetto creato da Dio». Spacciati Materazzi e Belen.

Il calcio. La fatwa dello sceicco Abdallah Al Najdi si basa sul principio che vieta ai musulmani di imitare cristiani ed ebrei. Si può giocare ma con regole diverse: niente linee bianche in campo, niente squadre di 11 giocatori, porte senza traverse, chi grida gol va espulso e niente arbitro perchè superfluo. Come del resto nel nostro campionato...

I croissant. Ad Aleppo una commissione sulla sharia ha emanato un editto religioso contro il consumo di croissant, considerati il simbolo della colonizzazione dell'Occidente. Il babà invece va bene ma solo se si chiama alì...

La chat. Chi chatta online attraverso i social network con persone dell'altro sesso commette peccato. Lo stabilisce la fatwa dello sceicco Abdullah al-Mutlaq, membro della Commissione saudita degli studiosi islamici. Poi hanno fatto retromarcia: si riferiva a un caso isolato da non generalizzare. Non mi piace.

Il rock. L'ha decisa in Malaysia la Commissione del consiglio per gli affari islamici secondo la quale la musica rock va spenta perché fa male allo spirito. E c'è una variante, il black metal, che essendo dominata dall'immaginario occulto, ha il potere di traviare e stravolgere le anime dei giovani musulmani. Il liscio non si sa.

Il sesso. Fare l'amore si può. Ma non nudi. «Esserlo durante l'atto sessuale invalida il matrimonio» la fatwa imposta dallo sceicco Rashar Hassan Khalil. Non tutti sono d'accordo. Il presidente del comitato delle fatwa di alAzhar, Abdullah Megawer, ha corretto, come si suol dire, il tiro: nudità ammesse, ma a patto che i partner non si guardino.

La bicicletta. A lanciarla è stata la guida suprema della Repubblica islamica, l'ayatollah Ali Khamenei in persona: proibisce nel modo più assoluto la bici alle donne iraniane.

Il cane. Nonostante sia per l'Islam un animale impuro, il cane è molto diffuso come animale domestico in Iran. Così il grande ayatollah Nasser Makarem-Shirazi ha emesso la sua fatwa: «Non c'è dubbio che il cane sia un animale immondo». Pur ammettendo che il Corano non dice nulla in proposito. E allora?

Lo yoga. Oltre 10 milioni di persone hanno partecipano in India a una lezione di massa di yoga per il Guinness dei Primati. La cosa però non è piaciuta ai vertici religiosi musulmani di Bhopal che hanno lanciato una fatwa per condannare l'esercizio come «antislamico» e «pagano» per il riferimento al dio Surya.

La festa di compleanno. Celebrare compleanni e anniversari di nozze non può avere spazio nell'Islam. Lo dice il Gran Muftì dell'Arabia Saudita, Sheikh Abdul Aziz Al-Alsheikh. «Un musulmano dovrebbe solo ringraziare Allah se i suoi figli stanno bene e se la sua vita matrimoniale è buona». Le classiche nozze con i fichi secchi.

L'eclisse. Una fatwa lanciata dal gran mufti d'Egitto proibisce ai musulmani di osservare l'eclissi. «Mette in pericolo la vista dell'essere umano e poiché l'islam proibisce all'uomo di mettere in pericolo la sua vita è peccato guardare l'eclisse». E con questa siamo al buio pesto.

La sinistra tace sulla mercificazione dei bambini.

Nuovo video shock Isis, bambino spara ai prigionieri. Ragazzino di 10 anni giustizia due uomini, scrive Benedetta Guerrera su “L’Ansa”. Non c'è limite all'orrore jihadista: dopo le bambine kamikaze in Nigeria, costrette dai terroristi di Boko Haram a farsi saltare in aria imbottite di esplosivo, un nuovo terribile video dell'Isis mostra un ragazzino che impugna una pistola e fredda due ostaggi come un boia consumato. Immagini scioccanti, che dimostrano come la follia del terrore non si fermi più davanti a nulla. Nei nuovi otto minuti di orrore, pubblicati sui siti jihadisti e rilanciati dal Site (il sito Usa di monitoraggio dell'estremismo islamico sul web), la scena è simile a tante altre diffuse in questi mesi di atroce propaganda da parte degli assassini dell'Isis. Solo che in questo caso, il boia ha il volto pulito di un bambino che non avrà neanche 10 anni. "L'Isis ha raggiunto un nuovo livello di depravazione morale: usano un bambino per giustiziare i loro prigionieri", ha commentato postando un fermo immagine del video sul suo account Twitter Rita Katz, la direttrice del Site. Le vittime vengono presentate come due kazaki, di 38 e 30 anni, accusati di essere "spie russe". Prima della loro esecuzione i due confessano di essere "agenti del Fsb", i servizi russi, inviati in Siria per raccogliere informazioni sui jihadisti e soprattutto sui 'foreign fighter' russi. Dalle parole delle due spie si evince che sono stati in Turchia sulle tracce di qualche 'pezzo grosso' dell'Isis, il cui nome è però omesso. Il più giovane dei due 'rivela' anche di essere stato reclutato per uccidere "un leader dello Stato islamico". Il filmato, intitolato "Uncovering the enemy within" (Scoprire il nemico interno) e targato al Hayat media center - la 'casa di produzione' dello Stato Islamico - è di ottima qualità e ha un montaggio quasi cinematografico. Al momento dell'esecuzione ad opera del bambino, i due uomini appaiono inginocchiati a terra e hanno le mani legate dietro la schiena. Non indossano la tradizionale tuta arancione dei prigionieri di Guantanamo, che di solito i jihadisti fanno mettere agli ostaggi occidentali, ma una divisa azzurra. Alle spalle dei due condannati ci sono il ragazzino armato di pistola e un terrorista con la barba lunga e il kalashnikov che parla in russo. E' lui che spinge il bambino verso le sue vittime. Proprio a questo punto, quasi a voler enfatizzare il momento, le immagini vengono trasmesse al rallentatore e con un gioco di dissolvenze, mentre il terrorista ripete le ennesime minacce ai "nemici di Allah": il ragazzino, che ha un vistoso orologio al polso e indossa una felpa nera e pantaloni mimetici come il suo 'superiore', solleva la pistola e spara un colpo alla testa di ciascuno dei due prigionieri. Un colpo secco, sulla nuca, con incredibile freddezza. I due cadono a terra, il ragazzino si avvicina e ne finisce uno con altri due spari. Poi solleva il braccio con la pistola in segno di vittoria e sorride. Un video agghiacciante, che potrebbe essere una squallida messa in scena, costruita ad arte dai jihadisti dell'Isis, abili comunicatori del terrore. Nonostante le due vittime vengano colpite alla testa infatti, non si vede il proiettile uscire, né il sangue sgorgare dalla nuca o dal collo. Ma sono immagini che comunque lasciano sgomenti. Anche perché subito dopo la sequenza dell'uccisione parte il frammento di un altro video che era già stato pubblicato dall'Isis a novembre in cui lo stesso ragazzino appare in un gruppo di bambini kazaki che si addestrano a usare i kalashnikov. "Sarò uno di quelli che vi sgozzerà, kafiri", diceva il ragazzino. Anche in quel caso il filmato era scioccante, quasi irreale. Una ventina di bambini che smontavano e riassemblavano kalashnikov e poi miravano inginocchiati ai loro bersagli. "Sono la nuova generazione, saranno loro che scuoteranno la Terra", recitava una voce fuori campo.

Quanti sono i bambini soldato nel mondo. Il report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di minori arruolati sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013, scrive Cristina Da Rold su “L’Espresso” Il fenomeno dei bambini soldato pesa sempre di più, ma non si può contare. Le stime riportate da Amnesty International parlano di 300 mila bambini coinvolti in conflitti armati nel mondo, il 40% dei quali sarebbero bambine. L'Onu ne stima 250 mila. Se si cerca di definire con maggior dettaglio i contorni del fenomeno, il profilo diventa infatti subito sfumato. UNICEF, Human Right Watch, Child Soldier International, Amnesty International, le Nazioni Unite e molte altre realtà che si occupano di salvaguardare le condizioni dei minori nelle aree colpite dalla guerra, riportano la presenza ancora oggi come cinquant'anni fa, di bambini soldato, maschi e femmine, in molti paesi del mondo, dall'Africa al Sud America, al Medio Oriente. Secondo le stime UNICEF per esempio sarebbero 9000 i bambini soldato coinvolti in Sud Sudan, 2500 in India e addirittura 10000 quelli che avrebbero abbracciato le armi nella Repubblica Centrafricana. Tuttavia non ci sono dati certi e le stime spesso divergono di molto fra di loro, soprattutto in ragione della fluidità del fenomeno. Ogni anno infatti vengono effettuati numerosi raid fra la popolazione civile, più o meno noti alle milizie internazionali, dove vengono reclutati nuovi bambini da inserire nelle file degli eserciti, governativi e non. Al tempo stesso però altri vengono sottratti alle forze armate grazie all'azione di realtà come le Nazioni Unite. Il bilancio è dunque difficile. Il punto di riferimento più recente e più dettagliato in questo senso è un Report redatto dall'Ufficio del Segretario Generale delle Nazioni Unite Children and armed conflict, che prende in esame i paesi dove è stata confermato l'utilizzo di bambini soldato sia dalle forze governative che da altri gruppi armati, e riporta i dati, ove ci sono, dei nuovi reclutamenti confermati nel 2013. Come emerge dalla mappa però, solo per una parte di questi paesi, quelli evidenziati in rosso, le Nazioni Unite sono in grado di fornire dei numeri. Per gli altri, quelli colorati in nero, la presenza di bambini soldato per quanto accertata, non è quantificata con esattezza.

Armi giocattolo e fiabe sui martiri, niente tv. Ecco come si educa un bambino al jihad. Nel manuale per la donna jihadista, i consigli pratici per diventare la mamma perfetta. E insegnare ai figli ad essere «combattenti e ad avere paura solo di Allah: la chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli», scrive Daniele Castellani Perelli “L’Espresso”. Niente tv. Sì a pistole giocattolo e freccette. E prima di andare a nanna una bella favola sul jihad. Queste sono solo alcune delle regole che deve seguire una mamma perfetta per educare un piccolo jihadista. Il testo è uno di quelli per cui un mese fa Runa Khan, una donna di Luton, mamma di 6 bambini, è stata condannata in Inghilterra a cinque anni per aver incitato su Facebook al terrorismo. Fa parte di un vero manuale per la donna jihadista, chiamato “Il ruolo della Sorella nel Jihad”. Ma la sezione più interessante è sicuramente quella dedicata all'educazione dei bambini, una specie di “Emilio” rousseauiano pensato per il jihad. Lo è alla luce del ruolo centrale che i bambini sembrano avere nella strategia e nella propaganda dei terroristi islamici, quasi fossero impegnati nella costruzione di un uomo nuovo, fin dai primi anni. Lo confermano ora due notizie macabre degli ultimi giorni: il video del bambino kazako che, puntando una pistola, ucciderebbe per lo Stato Islamico due presunte spie russe e poi festeggia il suo gesto (in realtà dal video non è dmostrato che sia stato lui a ucciderli), e l'uso di almeno una bambina ricoperta di esplosivo per degli attentati compiuti da parte dell'organizzazione nigeriana Boko Haram. Ma già in precedenza erano note le tante foto di bambini vestiti con i simboli dell'Isis che circolano da tempo su Twitter e gli altri social media, tra cui quelle del britannico Siddhartha Dhar in posa con neonato e fucile, ma anche quella di Ismail, di Longarone, in Veneto, che il padre Ismar Mesinovic ha portato con sé in guerra strappandolo alla madre cubana. Alla stessa Runa Khan, 35 anni, sono state trovate foto dei figli con pistole e spade, ma aveva anche indicato dettagli del modo in cui raggiungere la guerra in Siria dall'Inghilterra e su un sito per estremisti si era augurata che un giorno suo figlio diventasse un jihadista. Il manuale era già noto da qualche anno agli specialisti, ma secondo l'istituto americano Memri (Middle East Media Research Institute) ora è tornato particolarmente in auge proprio per l'Isis. Lo dimostra lo stesso caso di Runa Khan, che quel testo l'ha pubblicato su Facebook nel settembre del 2013. Ma cosa dice esattamente il manuale? Nel capitolo “Come educare bambini mujahid (combattente nel jihad, ndr)” si descrive questo compito come «forse il più importante per le donne». Si deve insegnare ai bambini, che siano maschi o femmine, «ad avere paura solo di Allah»: «La chiave è iniziare a istillare questi valori quando sono ancora piccoli. Non aspettate che raggiungano i sette anni, potrebbe essere troppo tardi!». Poi ecco i consigli: «Racconta loro storie della buonanotte che parlino dei martiri e dei mujahideen. Sottolinea che non devono colpire i musulmani, anzi perdonarli, e che devono esprimere la loro rabbia sui nemici di Allah che combattono contro i musulmani. Magari crea un surrogato di nemico, ad esempio un sacco da colpire, e incoraggia i bambini, specialmente i maschi, a usarlo, a costruire la propria forza così come a imparare a controllarsi e a saper dirigere la propria rabbia». E per quanto riguarda lo svago? «Elimina se puoi completamente la tv, che perlopiù insegna cose senza vergogna, anarchia e violenza casuale. Inoltre la tv instilla pigrizia e passività, e contribuisce a un abbandono mentale e fisico. Se non puoi proprio eliminarla, usala per video che trasmettano l'amore per Allah e per il jihad. Ce ne sono alcuni anche sull'addestramento militare». Per i videogiochi il discorso è simile. Meglio di no, ma se proprio non può farne a meno allora sì a quelli militari. Il manuale invita poi a comparare «queste caratteristiche con gli aspetti salutari del gioco e dello sport, da cui può trarre beneficio in termini di disciplina e forza fisica». Qualche esempio? Il tiro al bersaglio con armi giocattolo, il tiro con l'arco e le freccette, «che permettono di sviluppare un buon coordinamento mano-occhio», e giochi militari che siano divertenti. Quanto agli sport, sì a arti marziali, nuoto, equitazione, ginnastica, sci, e poi altre attività come la guida di veicoli, l'orientamento nei boschi, il campeggio e l'addestramento per la sopravvivenza. Ci sono anche consigli di lettura, ovvero libri militari («meglio se con le figure») e siti web, il tutto già a partire da quando il bambino ha «due anni o anche meno»: «Non sottovalutate l'effetto duraturo di ciò che quelle piccole orecchie e quei piccoli occhi possono assimilare nei primi anni di vita!». Il manuale ricorda che «i bambini imitano quello che fanno gli adulti», e invita a iniziare sin dai primi anni perché così «non affronteranno poi battaglie interne quando diventeranno più grandi e saranno più coinvolti nel mondo». Ma a giudicare dalle notizie degli ultimi giorni bisogna dire che questo è un testo a suo modo moderato, laddove ad esempio raccomanda di non tenere le armi vere alla portata dei bambini, e di non usarle davanti a loro, oppure di non uccidere altri musulmani. Vuol dire che Isis e Boko Haram hanno alzato ancora più in là l'asticella. È la conferma che il jihadista di oggi è ancora più spietato di quello di ieri. È una nuova generazione.

Non solo apologia dell'Islam, ma anche tentativo di resuscitare una ideologia morta in nome di una falsa tolleranza.

I partigiani e la lezione di comunismo alle elementari. In Romagna l'Anpi celebra il Pci in un libro per le elementari. E le famiglie romene insorgono, scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. «Papà cosa vuol dire "utero in affitto"?». Domande che ti vengono, all'età di dieci anni, solo se ti capita di leggere di femminismo, comunismo, guerra partigiana e D'Alema, in un libretto gentilmente donato dall'Anpi locale alle scuole elementari di Cervia, nella rossa Romagna, nel corso di una serie di lezioni. L'autore del librettino è Giampietro Lippi, presidente dell'Associazione nazionale partigiani a Cervia, «esponente del Pd» secondo un genitore di una delle scuole coinvolte, Raffaele Molinari, che sul suo blog denuncia l'«indottrinamento di partito» a spese dei bambini. Nel libretto distribuito nelle classi di quinta elementare, nel corso di vari incontri a scuola, non si rievocherebbe solo la storia dei partigiani e delle staffette, perché «tutte le storie sono raccontate per rendere idilliaco il ricordo del Pci, con innumerevoli note dove si citano personaggi del grande Partito comunista, le immagini col pugno alzato... Insomma comunismo ovunque», lamenta Molinari. Il quale riporta alcuni passi del libretto per rendere meglio l'idea: «Ho incontrato allora tanta brava gente. Tra i tanti, uno che ricordo con stima e simpatia, era il padre del nostro D'Alema, che aveva come nome di battaglia "Braccio"». O anche quest'altro: «Le portava l'Unità , perché la leggesse e incominciasse ad interessarsi alle cose vere della vita, ed Anna poco alla volta capì che era importante scegliere il fronte politico con il quale accasarsi e scelse il Pci». I genitori hanno chiesto spiegazioni alla scuola: «Dalle informazioni raccolte in un colloquio con la maestra - spiega Molinari - è risultato che Lippi è stato autorizzato ufficiosamente dalla direzione didattica di Cervia. Non una visita occasionale, ma un vero e proprio programma di lezioni, per tre settimane. Una sorta di arruolamento in vista del settantesimo anno della liberazione di Cervia». Il presidente dell'Anpi di Cervia, invece, è sconcertato dalle accuse: «Assurde, fuori luogo, senza senso - ci spiega al telefono - Io non faccio politica, racconto la storia, se le staffette partigiane erano comuniste o socialiste cosa devo farci, nasconderlo? Io sono un ex democristiano, si figuri, anche se adesso sì, sono iscritto al Pd. Questa iniziativa nelle scuole è nata insieme all'amministrazione comunale (guidata dal Pd, ndr ) e alla direzione didattica, per coinvolgere le scuole nel settantesimo anniversario della Liberazione a Cervia. C'è una bella differenza tra fare propaganda di partito e parlare delle staffette partigiane! Sono sconcertato dal livello culturale di certa gente, non meravigliamoci se l'Italia va male». I più arrabbiati per la sua iniziativa sono i genitori immigrati dall'Europa dell'Est, che del comunismo hanno un ricordo più vivo. Sui cancelli della scuola hanno appeso dei cartelli: «No al comunismo nelle scuole», «Il comunismo rovina i nostri figli», in romeno e altre lingue slave. E, mentre si parla di denunce partite all'indirizzo del presidente Anpi, oggi i genitori inscenano un corteo silenzioso nel centro della città: «In piedi, senza schiamazzi, senza rumore, reggendo in mano un libro di storia come segno della nostra protesta».

"Sì agli immigrati, convinci un leghista". Così la scuola indottrina i nostri figli. Bufera per il tema assegnato da un insegnante agli allievi di una scuola vicentina. Il Carroccio: "È inaccettabile", scrive Giovanni Masini su “Il Giornale”. Un clamoroso caso di indottrinamento politico: è questa l'accusa con cui la Lega Nord del Veneto si scaglia contro un insegnante dell'istituto "Ceccato" di Thiene, in provincia di Vicenza, reo di aver assegnato agli studenti un tema dal titolo "Persuadi un tuo compagno leghista che l'immigrazione non è un problema bensì una risorsa". In difesa del Carroccio si è levata l'europarlamentare Mara Bizzotto, che della Lega è anche vicepresidente regionale: "Quanto successo all'istituto Ceccato è molto grave e conferma come esistano purtroppo insegnanti che mischiano, in modo scorretto e inaccettabile, i propri convincimenti politici con l'insegnamento - continua l'onorevole Bizzotto - La scuola dovrebbe essere un luogo di libertà e una palestra di educazione e di vita, non un luogo di indottrinamento politico secondo i convincimenti politici del professore di turno". "Bene hanno fatto i genitori e gli studenti che hanno segnalato questo grave comportamento da parte dell'insegnante che, mi auguro, sarà severamente ripreso dagli organi competenti - conclude la Bizzotto - I nostri ragazzi hanno bisogno di una scuola che insegni, che funzioni e che svolga il proprio ruolo: i professori che vogliono far comizi o proselitismi politici li devono fare rigorosamente fuori dalle classi e fuori dalle scuole!". L'episodio risale a qualche giorno prima delle ferie natalizie. "Un professore si permette - ha rincarato la dose il consigliere regionale leghista Nicola Finco - di dare giudizi politici in classe su un partito come se il problema in questi giorni non fosse l'islam; nel frattempo i benpensanti radical chic di sinistra si scandalizzano perchè l'assessore regionale all'Istruzione scrive alle scuole affinchè in classe si tratti del problema del terrorismo islamico che è solo e unicamente cronaca".

Tema: «Immigrati sono una risorsa convinci un tuo compagno leghista». La bufera sulla traccia assegnata agli studenti dell'istituto Ceccato di Thiene. Salvini: «Pazzesco». L’europarlamentare Fontana: Pd regali tessera al prof, scrive Elfrida Ragazzo su “Il Corriere della Sera”. La parola «leghista» nel testo di un’esercitazione di italiano scatena la polemica. A sollevarla è il Carroccio attraverso Michele Pesavento, della segreteria politica del partito di Vicenza. Sotto accusa è una traccia per un esercizio di argomentazione proposto da un’insegnante di lettere agli alunni di una classe terza dell’istituto tecnico Ceccato di Thiene. «Dopo aver preso in considerazione i dati sull’immigrazione in Italia e dopo aver letto l’articolo – si legge nel documento diffuso - scrivi un testo argomentativo in cui persuadi un tuo compagno leghista che il fenomeno migratorio non è un problema, bensì una risorsa». Venuto a conoscenza dell’accaduto da alcuni genitori, Pesavento attacca: «Quella traccia è offensiva e razzista, l’insegnante di lettere ha trasformato quell’aula in un “pensatoio politico”». Ed invita il preside a «vigilare su chi ha confuso l’istituto Ceccato con una tribuna elettorale» e la docente in questione «a lasciare a casa tessera e ideologie politiche». Interviene anche il segretario federale della Lega Matteo Salvini: «Pazzesco!», Scrive in un tweet. Il consigliere regionale della Lega Nord Nicola Finco ricorda il caso sollevato da lui stesso sulla presenza dell’eurodeputata Alessandra Moretti, candidata alle elezioni regionali venete per il Pd, ad una festa di un istituto comprensivo di Arzignano prima di Natale. «Basta con la politica in classe. Le aule scolastiche non sono circoli del Partito democratico o della sinistra, serve rispetto – dice – Altrimenti i veri fondamentalisti non sono i leghisti, bensì certi professori di cui si può fare volentieri a meno. Invece di preoccuparsi di leghisti da persuadere, il docente potrebbe spiegare ai ragazzi cosa accade nel mondo in queste ore». L’europarlamentare della Lega Nord Lorenzo Fontana commenta sarcastico il caso di Thiene, Fontana chiosa serio: «La scuola è luogo di istruzione e formazione, non di propaganda politica, anche se è noto come sia un vizio storico della sinistra metterci becco. E poi quel professore dà per scontato l’assunto che l’immigrazione è una risorsa. E se un alunno non la pensasse così che succede? Mi piacerebbe conoscere i metodi di questo prof». E conclude: «Quel professore se proprio ha la fregola della politica può sempre iscriversi al Pd, sempre che non lo sia già. Ma fossi del Partito democratico gli regalerei la tessera. Motivazione: alti servigi al partito e alla causa della sinistra».

«Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza» (Dante Alighieri).

"La scuola italiana in tutti i suoi gradi e i suoi insegnamenti si ispiri alle idealità del Fascismo, educhi la gioventù italiana a comprendere il Fascismo, a nobilitarsi nel e a vivere nel clima storico creato dalla Rivoluzione fascista". Benito Mussolini. Il fascismo, fin dai primi anni in cui prese il potere si preoccupò di rafforzare le proprie basi ideologiche e il consenso sociale. Uno dei mezzi utilizzati era l'indottrinamento ideologico a partire dalla scuola. Dal neo-governo fascista venne, infatti, approvata la Riforma Gentile che proponeva una nuova forma di organizzazione scolastica, con l'introduzione dell'Esame di Maturità e la Religione come materia obbligatoria. Il partito si preoccupò anche di garantire un'impostazione dei vari programmi secondo un criterio nettamente di parte, introducendo testi scolastici come il noto libro di testo unico per le Elementari. All'organizzazione scolastica si aggiungevano varie forme di indottrinamento legate soprattutto all'attività fisica e alle parate.

Poi le cose son cambiate. E’ nato l’indottrinamento comunista e di sinistra in generale.

Scrive Giorgio Israel. Un ragazzino di 13 anni mi dice di detestare la letteratura. Il suo sguardo scettico, mentre gli vanto la bellezza dei classici e gli parlo della Divina Commedia, mi spinge a una sfida temeraria: «Te ne leggo un canto». Procedo temerariamente, aspettandomi sbadigli e il rigetto finale condito del tipico insofferente sarcasmo adolescenziale. E invece funziona. Tanto funziona che il ragazzino mi chiede se non potremmo fare altri incontri e continuare, e poi chiede: «Ma perché a scuola non ci fanno leggere testi così? Guarda invece cosa mi è toccato in questi giorni». È un brano di Gino Strada sugli “effetti collaterali delle guerre”. Lo leggo tutto e non ha niente di letterariamente valido: è una predica ideologica noiosa scritta in modesto italiano. Colgo l’occasione per sfogliare l’antologia del ragazzino: c’è da restare a bocca aperta. Al brano di Strada seguono due pagine di “competenze di lettura” dove l’alunno deve mostrare di aver capito il testo apponendo crocette nelle caselle giuste. Seguono pagine di indottrinamento sotto il titolo “che cosa succede nei paesi dove c’è la guerra”; poi ancora competenze di lettura e scrittura “contro la guerra”, per finire con una pagina incredibile. Contiene una serie di immagini, per lo più banali o stucchevoli, come quella di un gruppo di bambini a cavalcioni su un cannone, e prescrive il seguente compito: «osserva i cartelli contro la guerra, poi scrivi per ognuno una frase-slogan»…

Come la dobbiamo chiamare? Competenza di manifestazione di piazza? È finita qui?

Niente affatto. Seguono le “competenze grammaticali”, in cui l’alunno è invitato a mostrare di saper far uso della locuzione “sarebbe meglio”: riempi lo spazio con i puntini nella frase «Invece di fare la guerra, sarebbe meglio…», e così via. Seguono le “competenze di cittadinanza attiva”, in cui l’alunno deve dar prova di aver assimilato i concetti di conflitto, guerra e pace, costruendo una “mappa concettuale” sul tema. E, come se non bastasse, l’acme di un tormentone di decine di pagine è una “verifica di fine unità” e… una prova Invalsi. Non capisco in base a quale diritto la scuola pretenda di indottrinare i ragazzi all’idea che tutte le guerre siano egualmente sporche. Dovrei forse accettare che i miei figli considerino la guerra di liberazione dal nazifascismo – grazie alla quale sono potuti venire al mondo – alla stregua della guerra scatenata dalle armate hitleriane? Non saprei immaginare una prepotenza più oscena. Ma andiamo avanti. Ometto di fare un elenco completo degli autori che popolano l’antologia, per non offendere nessuno, anche se credo che né Jovanotti né Luciano Violante abbiano mai compreso nelle loro aspirazioni quella di competere con Tolstoj e Pirandello. Consiglio di sfogliare alcune delle antologie che circolano nelle nostre scuole per constatare che ormai questa è la concezione della letteratura che le ispira. E pongo alcune semplici domande.

Qualcuno può davvero seriamente pensare che questo sia un modo valido per instillare l’interesse per la letteratura, per la lettura, per la scrittura? Non è giunto il momento di interrogarsi seriamente sulla deriva che sta prendendo la funzione istituzionale dell’istruzione?

L’attuale dibattito sulla vicenda della lettura del romanzo di Melania Mazzucco in un liceo romano è tutto centrato attorno al dilemma se sia giusto o no scegliere dei testi adatti a combattere le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere o se tale scelta sia mera pornografia. Pare che per molti, inclusi alcuni dirigenti scolastici e insegnanti, la funzione della scuola sia ormai meramente ideologica. Si dirà che Melania Mazzucco è una vera scrittrice a differenza di Strada ma, la vera questione è se, a fronte del panorama sterminato di letteratura di livello indiscutibilmente alto, e con cui si potrebbero riempire decine di antologie, si preferisce cancellare Leopardi a vantaggio di testi il cui unico indiscutibile merito è di avere una funzione ideologica. Le denunce legali, che finiranno puntualmente nel nulla, sono un’azione senza senso. È più appropriato denunciare (in termini non legali) la deriva di una scuola che sta rinunciando all’educazione al bello, e la guarda con sarcasmo come se fosse orpello di altri tempi; che rinuncia ad appassionare i ragazzi al piacere di leggere prose e poesie di valore universale, a discuterli in classe senza questionari di competenze e senza pagine pieni di imbecilli quesiti a crocette; lasciando che la determinazione di posizioni su temi come il sesso, la famiglia, la guerra o l’ambiente, sia conseguenza della formazione libera di una personalità strutturata sull’amore per la conoscenza, la cultura, la bellezza artistica in tutte le sue forme. La scuola non dovrebbe impicciarsi di imbastire “lotte” contro questo o quello, di educare a pensare in questo o quel modo, di insegnare a compilare cartelli da portare in piazza, selezionando la letteratura su questi criteri. Perché, così facendo, la sua funzione educativa si trasforma in ciò che vi è di più brutto: l’indottrinamento ideologico. Brutto e diseducativo, perché è caratteristico delle società totalitarie e come tale stimola le peggiori forme di intolleranza.

Non potrò mai dimenticare che, all’indomani della caduta del Muro di Berlino, Alberto Lecco, un grande romanziere dimenticato – dal cui capolavoro “Anteguerra” si potrebbero trarre brani antologici ben più validi di quelli che vengono propinati – fece questo commento: «Il comunismo finito? Comincia solo adesso…». Aveva ragione. Il comunismo dei soviet, dei comitati centrali e delle commissioni centrali di controllo è finito da un pezzo. Ma il comunismo come costruttivismo sociale, come aspirazione a una società basata sull’indottrinamento ideologico, è più vivo che mai, metastatizzato nella forma del “politicamente corretto” che, sotto la veste di una bontà ipocrita e falsa, propina incessantemente le prescrizioni soffocanti di un conformismo sociale costruito a tavolino, in cui non c’è più spazio per il libero sviluppo della personalità.

L’intellighenzia sinistra non finisce mai di stupire, scrive “Il Fazioso”. Certi professoroni dei nostri licei, dopo l’abituale giro in sezione, si impegnano al massimo per trovare occasioni per fare della sana propaganda nelle scuole. E sono veramente fantasiosi se per il loro scopo piazzano a tradimento persino delle versioni di latino contro Berlusconi. Ora la prof mattacchiona tenta di difendersi in ogni modo, spiegando l’alta importanza didattica della versione. Il preside difende la docente parlando di tentativo di incuriosire gli studenti con l’attualità, ovviamente nessuno ha pensato all’opportunità di una versione palesemente contro il premier. Ma che sarà mai? Ci spiegheranno che non c’è dietrologia politica ma piuttosto educazione d’avanguardia. Il prossimo passo è portare Berlusconi nella matematica con qualche problema sul suo patrimonio finanziario (ovviamente condito da qualche passaggio denigratorio). Quanto sono furbi questi sinistri.

Istruzione o Indottrinamento? Si chiede David Icke su “Crepa nel Muro”. La "istruzione" esiste allo scopo di programmare, indottrinare e inculcare un convincimento collettivo in una realtà che ben si addica alla struttura del potere. Si tratta di subordinazione, di mentalità del non posso, e del non puoi, perché è questo ciò che il sistema vuole che ciascuno esprima nel corso nel proprio viaggio verso la tomba o il crematorio. Ciò che noi chiamiamo istruzione non apre la mente: la soffoca. Così come disse Albert Einstein, “l’unica cosa che interferisce con il mio apprendimento, è la mia istruzione.” Egli disse anche che "la istruzione è ciò che rimane dopo che si è dimenticato tutto quanto si è imparato a scuola." Perché i genitori sono orgogliosi nel vedere che i loro figli ricevono degli attestati di profitto per aver detto al sistema esattamente quanto esso vuole sentirsi dire? Non sto dicendo che le persone non debbano perseguire la conoscenza ma – se qui stiamo parlando di libertà – noi dovremmo poterlo fare alle nostre condizioni, non a quelle del sistema. C’è anche da riflettere sul fatto che i politici, i funzionari del governo e ancora giornalisti, scienziati, dottori, avvocati, giudici, capitani di industria e altri che amministrano o servono il sistema, invariabilmente sono passati attraverso la stessa macchina creatrice di menti (per l’indottrinamento), cioè la università. Triste a dirsi. Molto spesso si crede che la intelligenza e il passare degli esami siano la stessa cosa ... Una sera mi trovavo in discoteca, e la pista da ballo era vuota perché il DJ aveva messo su della musica che le persone non volevano ascoltare. Questo insopportabile egocentrico si rifiutò di cambiarla, e io chiesi se fosse una scelta così intelligente, date le circostanze. Quello si indignò. Aveva la prova di essere intelligente, avendo un diploma! Che ridere. La intelligenza fondamentalmente consiste nel rendersi conto che le persone non ballano perché la musica fa schifo, e nel mettere al suo posto qualcosa che piaccia; un diploma consiste nel dire al sistema ciò che esso ti ha detto di dire. Cosa c’è di intelligente in questo? Il sistema relativo alla istruzione, o Programma di Distribuzione Automatico di Salsicce è parte essenziale dello ipnotismo sistemico. Il programma della istruzione è organizzato in modo sistematico con tre principali obiettivi:

1 – Impiantare nella realtà un convincimento in linea con la illusione della Matrice. Questo è abbastanza semplice. Non devi fare altro che offrire agli studenti la versione ufficiale della scienza, della storia, della religione e del mondo in generale. Questo viene fatto programmando gli insegnanti attraverso la scuola, la università e la facoltà di magistero; poi li si manda fuori a programmare la generazione successiva con le stesse fesserie che è stato detto loro di insegnare e di credere. Come disse Oscar Wilde: “Quasi tutte le persone sono altre persone. I loro pensieri sono le opinioni di qualcun altro, le loro esistenze una parodia, le loro passioni una citazione.” La maggior parte degli insegnanti, come anche dei medici, degli scienziati, della gente del mondo della informazione, e così via,è ciò che il mio amico Mark Lambert definisce ‘i ripetitori’. Essi non fanno che ripetere ciò che qualcun altro ha detto loro, invece di accedere attraverso la coscienza alla propria verità. Si tratta di una realtà di seconda mano. Il procedimento è simile a quello dello scaricamento di informazioni su disco (insegnante) seguito dalla sua riproduzione in un gran numero di copie (ragazzi e studenti). Nell’ambito di scuole e istituti superiori si ha il permesso di discutere poco o nulla che esuli da questa versione convenzionale della vita, e i punti di riferimento alternativi dai quali osservare questa realtà indottrinata da una altra prospettiva sono scarsi, sempre ammesso che ve ne siano. I ragazzi passano attraverso questo distributore automatico mentale e nel frattempo vivono con adulti (altri ripetitori) che hanno già assorbito la stessa programmazione, e in più guardano mezzi di informazione (altri ripetitori) che ripete a pappagallo la stessa storia ‘ufficiale.’ Non c’è da meravigliarsi se i ragazzi credono che la illusione sia reale quando ogni fonte di ‘informazione’ dice loro che è così.

2 – Trasformare i ragazzi in robot che seguano gli ordini dell'insegnante (sistema). Ciò richiede il Programma del Bastone e della Carota. Si rende molto più facile ai ragazzi la accettazione del volere degli insegnanti (personificazione del sistema), piuttosto che il mettere in discussione la autorità ed i concetti in cui essi dicono di credere. Ricompensa uno e punisci l’altro. "Fa come ti dico e credi a ciò che ti racconto" viene instillato fin dalla più tenera età in quello indottrinamento che chiamiamo scuola, istituto superiore e università. Gli esami rappresentano il sistema che richiede di sentirsi dire ciò che ti hanno detto che devi pensare. Sono la prova che conferma se un download sia andato o meno a buon fine. Quando fate il download di qualcosa su un computer, appare un piccolo box con la scritta: "Vuoi aprire questo file adesso?" Voi lo aprite per assicurarvi che i dati siano stati scaricati correttamente. E’ questo che sono gli esami. I bambini indipendenti, che rifiutano il download, vengono considerati una influenza distruttiva. Avete notato che – mentre possono esserci disaccordi su come si insegna ai ragazzi – raramente vi sono discussioni su cosa viene loro insegnato? Questo perché la Matrice ha una tale presa sulla realtà umana che il cosa venga insegnato è accettato pressoché universalmente. In verità, se le scuole introducessero corsi sulla spiritualità in relazione alla Unità di tutto e alla illusione della forma, i genitori controllati dal Programma Divino protesterebbero furiosamente contro questa offesa alla loro fede cristiana, islamica, ebraica, ecc. ai bambini non solo viene somministrato del veleno per bocca, ma anche attraverso la mente.

3 – Soffocare nella popolazione/bersaglio (ragazzi) qualsiasi idea di unicità e spontaneità. Le scuole sono per lo più zone proibite alla spontaneità e al libero pensiero perché sono consumate dalle regole. Questa è una perfetta preparazione al mondo degli adulti, il quale è strutturato nello stesso modo. La unica differenza è che gli insegnanti per adulti si chiamano agenti di polizia, funzionari statali, ispettori del fisco, più tutti gli altri cloni - per la maggior parte ignari – al servizio della Matrice. Stavo leggendo che in Inghilterra, in una scuola secondaria, è stato proibito agli alunni di tenere per mano o abbracciare il proprio fidanzatino / fidanzatina allo interno dello edificio. Il preside si è giustificato dicendo che un tale comportamento non sarebbe stato consentito ad adulti sul luogo di lavoro. I ragazzi vengono plasmati per diventare una mente collettiva ad alveare, piuttosto che espressioni di unicità. Comportatevi allo stesso modo, e credete allo stesso modo. Un’ultima cosa: perché agli adulti non dovrebbe essere permesso di baciarsi e abbracciarsi sul luogo di lavoro? Accidenti, solo nella matrice lo affetto poteva essere sottoposto ad un regolamento.

Come ottenere l’obbedienza. L'indottrinamento scolastico, scrive Corrado su “Scienza Marcia”. Immaginiamo una ristretta cerchia di persone, un’oligarchia, che voglia mantenere il proprio potere politico/economico sopra una nazione sfruttandone il popolo: quali sono i metodi migliori per consolidare tale potere e renderlo inattaccabile? I metodi sono diversi, anche perché ci sono due strategie di fondo per mantenersi al potere:

1) Quella di esercitare il potere in maniera ferrea e dittatoriale, mostrando palesemente che chi si oppone rischia di venire incarcerato, torturato, ucciso;

2) Quella di fingere di fare tutto il possibile per il popolo, peccato che ci siano i nemici esterni, i nemici interni, le calamità naturali, le crisi ricorrenti del sistema economico, le recessioni, fattori difficilmente controllabili che vanificano gli sforzi che il potere fa “per il bene del popolo”.

Ovviamente questi sono due schemi di massima, che in realtà non si realizzano mai in maniera “pura”. Anche le dittature esplicite nel corso della storia hanno cercato di presentarsi di volta in volta come “necessarie per il bene del popolo, della repubblica, del regno, della nazione” ed hanno cercato di fingere di fare del bene per i propri sudditi. Anche le dittature implicite (come le odierne “democrazie”) pur fingendo di agire per il bene dei sudditi utilizzando il pungo duro con gli avversari più irriducibili, quelli che hanno capito l’ipocrisia del sistema politico e la denunciano, la combattono. Anche nelle nostre finte democrazie che si oppone radicalmente al sistema di potere smascherandone le menzogne rischia di essere incarcerato, torturato, ucciso. In tutti i casi però ci sono degli strumenti che vengono utilizzati da quasi tutte le oligarchie/dittature (esplicita o implicita) per mantenersi saldamente al potere:

- la creazione di finti nemici;

- la divisione del popolo in due o più fazioni che si contrappongono su tematiche di poca importanza (come dicevano i romani “divide et impera” ossia “dividi e governa”);

- il grande risalto dato a manifestazioni di nessun valore, giochi, sport, intrattenimenti futili (ai tempi dei romani c’erano i “circenses”, ossia i giochi del circo);

- la garanzia della sopravvivenza alimentare, senza la quale si rischia una seria rivolta (per governare i romani distribuivano “panem et circenses”, “pane e giochi circensi);

- l’infiltrazione nei movimenti di opposizione di massa per manovrarli a loro insaputa;

- l’utilizzo di tecniche di controllo di massa (tramite l’applicazione delle più raffinate tecniche derivate dallo studio della psicologia di massa, della sociologia);

- il controllo dell’emissione della moneta;

- il controllo sulla formazione della cultura;

- il controllo della scuola;

- il controllo dell’informazione (il cui utilizzo distorto serve anche a nascondere agli occhi della gente la maniera in cui si utilizzano tutti gli altri strumenti di controllo).

Quando avrò più temo forse mi metterò a dimostrare che le nostre “democrazie” sono oligarchie mascherate, che i veri poteri forti che stanno dietro ai burattini che siedono in parlamento non hanno scrupolo ad usare le peggiori forme di violenza e di coercizione contro chi si oppone ad essi. Basterebbe ricordare il clima di violenza e di repressione totalitaria che si è respirato a Genova nel 2001 (governo di destra), e a Napoli pochi anni prima (governo di sinistra) in occasione di due manifestazioni dei no-global per rendersi conto che il potere che comanda le nostre “democrazie” è violento per natura (detto questo non mi confondete con un aderente ai movimenti no-global per carità, non rientro né in quella né in altre etichette). Quando avrò più tempo mi impegnerò a dimostrare come i governi utilizzino tutte le strategie sopra elencate. Per adesso mi limito ad una sola affermazione: sarebbero stupidi se non le utilizzassero. Volete che governi che utilizzano le migliori e più raffinate tecnologie scientifiche (ad esempio per spiare e controllare tutto e tutti) e non usino le più sottili e raffinate strategie di controllo sociale, pensate davvero che si astengano dall’infiltrarsi nei gruppi di opposizione per pilotarli nascostamente ed utilizzarli per i propri fini? Non vi rendete conto che il leader della cosiddetta “opposizione no-global” è un medico che porta acqua al mulino del Nuovo Ordine Mondiale diffondendo il pregiudizio che l’AIDS sia causato dall’HIV? Non vi ricordate di quando il TG della RAI disse che “i servizi segreti italiani erano a conoscenza del piano per il rapimento di Aldo Moro due settimane prima che avvenisse la strage di Via Fani?”. Non vi ricordate di come in quei giorni arrivò una soffiata sul posto in cui era nascosto Moro e di come la polizia evitò di controllare l’informazione? Lo so, l’informazione dei mass-media non aiuta certo a ricordare certi “dettagli” di fondamentale importanza. Se riuscirò un giorno parlerò di come vengono utilizzate tutte queste tecniche di manipolazione/controllo/dominio, ma oggi voglio parlarvi di una di esse in particolare, perché ci lavoro: la scuola. Cosa c’è di meglio della scuola per indottrinare le persone? Se n’era accorta subito la chiesa quando lo Stato Italiano ha deciso di istituire una scuola elementare pubblica. “Orrore! Orrore! - hanno gridato il papa e tutti i preti in coro - sacrilegio! L’istruzione l’abbiamo sempre gestita noi fino ad ora, guai a chi la sottrae al nostro controllo”. Con questo non voglio certo affermare che lo stato abbia inaugurato una scuola pubblica incentrata sulla libertà, perché se l’educazione gestita dai preti era sicuramente di parte, anche la scuola pubblica serviva ad inculcare nei futuri cittadini tutta una serie di idee preconcette: “lo stato è buono”, “il potere è buono”, “il re è buono”, “il re è bello”, “il papa è santo”, “è giusto morire per la patria”, “non ribellarti al potere”. Un tipico esempio è quello della Germania/Prussia ai tempi di Bismarck , il quale affermò senza giri di parola che voleva utilizzare la scuola per infondere uno spirito militaresco nei allievi. A giudicare dai risultati che si sono ottenuti nel giro di 50 anni (Hitler, il nazismo, la seconda guerra mondiale) bisogna dire che quell’indottrinamento militare è stato decisamente “proficuo”. Cosa pensate che sia cambiato da quei lontani termini? La forma sì, certamente la forma è cambiata, ma la sostanza? Nel 2001 ad esempio è stato decretato dal ministro dell’istruzione Moratti l’osservanza di tre minuti di silenzio per commemorare i morti delle torri gemelle a New York, squallida manovra per indurre un’approvazione della guerra USA contro l’Afghanistan e della partecipazione Italiana al conflitto (sebbene in una maniera minore e molto subdola, inviando un contingente al comando degli USA solo dopo l’occupazione militare di quella Nazione e la caduta del vecchio governo). Forse qualcuno pensa che la scuola, almeno quella pubblica, garantisca un confronto fra diversi modi di pensare, diverse opinioni politiche, idee contrapposte. In realtà questo succede limitatamente al fatto che i professori e i maestri hanno diversi orientamenti politici, votano per partiti differenti, e quindi si lasciano sfuggire discorsi e battute contro questo o quell'uomo politico. Per il resto l'omologazione all'interno della classe docente é fortissima, soprattutto quando entrano in gioco la storiografia e la scienza ufficiale, oppure il "sentimento religioso" ed il cosiddetto "amor patrio" (che raramente coincide con il vero amore per la propria terra e per i propri connazionali, mentre troppo spesso é bieco nazionalismo). In tutti questi casi non solo vi é un quasi totale allineamento dei docenti sulle stesse posizioni, ma chi tenta di esprimere il suo dissenso viene spesso trattato come un folle o come un fastidioso rompiscatole. Nei primi anni del 2000 nella scuola italiana (a partire dal già menzionato episodio relativo ai morti dell’11 settembre 2001) si é preso il brutto vizio di indire dei minuti di silenzio per commemorare la morte di alcune persone, facendo così una ben curiosa distinzione fra morti da commemorare e su cui riflettere, e morti su cui é meglio non soffermarsi col pensiero. A quanto pare qualcuno vuole inculcare nelle menti delle persone, e dei alunni in particolare, l'idea che le vite degli esseri umani non abbiano tutte uguale dignità e valore. Per due volte l'iniziativa é stata imposta direttamente dal governo, ma le altre volte sono stati i singoli dirigenti scolastici a decidere "autonomamente" (le virgolette sono dovute al fatto che lo hanno fatto praticamente tutti adeguandosi ad un andazzo nazionale). Di conseguenza l'istituzione scolastica ha cercato di imporre una particolare visione politica della realtà secondo la quale, ad esempio, i 3000 morti delle torri gemelle sono da ricordare e commemorare e sono più importanti sia del milione di iracheni uccisi dalla guerra e dall'embargo negli anni '90, sia dei 3000 bambini che muoiono di fame ogni giorno. Alla stessa maniera i militari italiani (superpagati e volontari) morti a Nassirya sono da ricordare e commemorare per il loro "sacrificio per la pace" a differenza degli operai (sottopagati e sfruttati) che muoiono quotidianamente negli incidenti sul lavoro. In quell'occasione una mia timida espressione di dissenso é stata stigmatizzata dal preside (che era persino contrario alla guerra in Iraq). Non credo che abbia capito che, per quanto mi dispiacesse per la morte di quelle persone, non ritenevo opportuno che la scuola venisse utilizzata per imporre simili commemorazioni dal fine prettamente politico. Avete mai visto una simile commemorazione quando sono morti 10 operai di una fabbrica? A quanto pare per i mass media e per le istituzioni, scuola compresa, la vita di un operaio é meno importante di quella di un militare. Per altro molti militari inviati in Iraq facevano sfoggio nei loro alloggi di simboli fascisti, ed é quindi più che legittimo dubitare del fatto che fossero lì a rischiare la vita per la pace; forse molti di loro si sono ritrovati in Iraq perché attratti dall'alta paga e dalla voglia di un'avventura esotica. Ma la scuola con le sue commemorazioni calate dall'alto impone implicitamente un punto di vista, ed invece che organizzare una riflessione sul conflitto iracheno, una discussione sull'opportunità di quella missione militare all'estero, fa semplicemente da grancassa al trambusto mediatico, e contribuisce al risorgere di quel discutibile "sentimento della patria" che nasconde il rilancio della funzione offensiva dell'esercito; un esercito che, in barba alla costituzione, è stato impiegato in 15 anni per ben 4 volte in operazioni militari al seguito delle guerre statunitensi. Anche quando c'è stata la strage dei bambini in una scuola della Cecenia si è ripetuta a scuola la commemorazione silenziosa; curiosamente questa volta non é stata imposta direttamente dal governo, ma organizzata dal solito trambusto dei mass-media. Ma il copione non è per questo cambiato di molto: siccome i terroristi Ceceni venivano presentati come islamici e siccome gli USA ed i loro alleati erano impegnati in una serie di guerre contro il “terrorismo islamico” qualcuno deve avere deciso di utilizzare anche questo triste avvenimento per orientare la coscienza delle masse, e degli alunni in particolare. E che dire del Papa commemorato col solito minuto di silenzio e ricordato come "uomo di pace"? Proprio lui che col riconoscimento precipitoso delle repubbliche secessioniste della ex-Jugoslavia aveva accelerato un processo che avrebbe portato alla guerra fratricida? Proprio lui che dei preti uccisi nella guerra civile spagnola, aveva beatificato solo quelli fedeli al fascista Franco? E non parliamo delle sue discutibili scelte in ambito religioso per evitare di scrivere un trattato sull'argomento. Intendiamoci, non mi interessa in questa sede discutere sulla bontà o sulla presunta santità del defunto Papa Giovanni Paolo II, quello che intendo rilevare é che la scuola rendendo omaggio alla memoria di alcune persone e dimenticandosi invece di altre, fa una scelta che ha dei significati politici ben precisi, e che puzza tanto di indottrinamento. "La scuola dell'indottrinamento scientifico". Quanto al resto, o meglio, per quanto riguarda tutti gli aspetti controversi della cultura ufficiale che vengono esaminati in questo sito, di confronto e di contrapposizione ce n'é ben poca, ma quello che é peggio è che il confronto o viene vietato o viene ostracizzato in ogni maniera. Se é comprensibile il fatto che i docenti siano stati ingannati da un certo sistema di gestione del potere e della cultura e che quindi non discutano quasi mai argomenti che mettano in dubbio certe presunte verità (in particolare sull'affidabilità della medicina ufficiale, sugli espianti, sull'aids, sulla psichiatria, sulla preistoria), ben diverso é il fatto che quando ci si prova a prospettare un confronto su questi tempi si scatenino i peggiori isterismi che portano perfino a vietare l'approfondimento di certe tematiche controverse. La mia pluriennale esperienza di docente nella scuola superiore mi ha permesso purtroppo di verificare che su certe questioni l'atteggiamento di rifiuto del dissenso e di condanna di chi esprime opinioni difformi é del tutto generalizzato. Ecco un primo esempio.

Espianti e trapianti. Liceo scientifico di Caravaggio, agli inizi del 2000, su proposta di una professoressa la scuola approva una visita ad un ospedale per andare ad assistere in diretta ad un'operazione di trapianto. Al di là del fatto che una simile iniziativa si potrebbe subito giudicare di cattivo gusto, la cosa peggiore è stata la maniera in cui la scuola ha reagito alle proteste contro tale iniziativa. In seguito ad un volantinaggio di protesta della "Lega nazionale contro la predazione degli organi" che cosa ha pensare di fare l'istituzione scolastica per garantire una serena discussione di approfondimento su questo tema controverso? Semplice, ha chiamato un medico favorevole ai trapianti per tenere una conferenza rivolta soprattutto agli alunni delle ultime classi, senza pensare minimamente a prevedere alcun contraddittorio. Come lo volete chiamare questo? … "orientamento guidato"? ...Il caso ha voluto che il giorno stesso in cui era prevista quelle conferenza a favore dei trapianti io fossi stato invitato nella stessa scuola a tenere una relazione sull'embargo in Iraq. Si trattava di iniziative all'interno di quella che viene (spesso impropriamente) chiamata "autogestione", uno spazio di alcuni giorni dedicato a dibattiti, discussioni, approfondimenti su tematiche sociali e politiche di attualità. Finita la mia relazione sull'Iraq sono venuto a sapere che subito dopo iniziava la conferenza sui trapianti. Allora ho chiesto ad alcuni alunni responsabili dello svolgimento di quella "autogestione" se potevo partecipare alla conferenza per esprimere pareri opposti a quelli del conferenziere e permettere un contraddittorio. Per essere corretto non sono entrato nella sala in cui si svolgeva la conferenza prima di chiedere ed ottenere un permesso. Risultato: dopo 10 minuti in cui ho contestato alcune affermazioni del relatore ufficiale arriva il vicepreside ha "espellermi". Ma come, non era un'autogestione? No, risponde il vicepreside, in realtà si trattava di una "co-gestione", ossia un'iniziativa gestita dalla direzione scolastica in collaborazione con gli studenti, ed il mio intervento non era previsto. L'idea di approfittare della presenza di un esperto che potesse ravvivare il dibattito e creare un contraddittorio é ovviamente fuori dalla portata di certe persone. Dopo qualche anno è successo il bis in una scuola in cui insegnavo, quando con una collega di Italiano abbiamo affrontato il tema dei trapianti, facendo leggere articoli pro e contro la donazione degli organi (da notare che la mia collega è moglie di un medico che ha lavorato in rianimazione e certificato alcune “morti cerebrali”), ed a fine anno abbiamo pure organizzato una presentazione ai genitori ed alla scuola il lavoro da noi svolto. In questo “happening di fine anno” sono stati anche presentati i dati:

fra gli alunni di quella classe (primo liceo) che hanno approfondito l’argomento, nonché fra i genitori che erano stati coinvolti nella discussione, l’80% era contrario alla “donazione degli organi”;

fra gli alunni di un’altra classe (sempre una prima liceo), che non aveva mai approfondito la tematica, nonché fra i loro genitori, l’80% era favorevole alla “donazione degli organi”.

In quell’occasione io ho anche espresso (cercando persino di moderarmi a causa della mia “veste istituzionale”) alcune mie perplessità sulla donazione degli organi, mentre un dottore (il marito della mia collega) ha espresso la sua convinzione sulla correttezza della dichiarazione di “morte cerebrale” pur facendo alcuni distinguo sulle modalità con cui avveniva la “donazione”. Risultato: il preside mi ha additato al pubblico disprezzo come indottrinatore durante una riunione collegiale dei docenti della scuola (lo ringrazio per avermi considerato così bravo da indottrinare e convincere non solo i miei alunni ma persino i loro genitori che hanno solo ricevuto dei materiali di opposte tendenze sul trapianto e la donazione degli organi). Come se non bastasse durante un colloquio personale mi ha precisato che i docenti che avevano fatto propaganda esplicita alla donazione degli organi hanno agito bene, mentre io che ho provato (con tutti i miei limiti) ad informare sul pro e sul contro della questione ho agito male ed ho indottrinato gli studenti !!! Ah dimenticavo, il mio preside si vantava di “essere di sinistra” (e che vuol dire)? Ah dimenticavo, due anni dopo hanno fatto in un’altra classe un lavoro di ricerca sui trapianti, avendolo saputo mi sono offerto come collaboratore per contribuire ad una informazione non settaria. Non solo mi hanno escluso, ma nei lavori dei ragazzi non ho visto traccia del dubbio, nemmeno del dubbio, che trapianti/espianti potessero essere poco utili e poco etici. Avete capito come funziona la scuola?

E poi c'è ancora un'altra storia.

"Raccogliamo soldi contro il cancro". Sempre nella stessa scuola mi sono opposto alla raccolta di fondi per un’associazione che “lotta contro la leucemia”, che sostiene i trapiantati di midollo (e che quindi propaganda, sebbene indirettamente, il trapianto di midollo). Ho provato per 4 anni a chiedere su quali basi scientifiche si potesse affermare che il trapianto di midollo fosse utile nella cura della leucemia, e devo dire che a volte ho litigato ferocemente con alcuni docenti (povero me, com’ero ingenuo a quei tempi!). Per 4 anni mi hanno detto che “le prove ci sono”, “te le porteremo prima o poi”. Poi ho chiesto per telefono all’associazione “contro la leucemia” e avessero tali dati. “Non ne abbiamo - è stata la risposta - si rivolga ai medici dell’Ospedale”. Poi finalmente mi sono rivolto a Internet (perché non ci ho pensato prima?) e ho scoperto che la mortalità per leucemia è del 67%, quella per trapianto di midollo … indovinate! Intorno al 66% (con la maggior parte dei decessi nei primi due anni dal trapianto). Un’ottima cura quella del trapianto non c’è che dire, tanto è vero che in quella scuola si usava raccogliere fondi per “la lotta alla leucemia” in memoria di una ragazza leucemica che era stata trapiantata ben due volte ed era morta. Due insuccessi non sono bastati per aprire gli occhi. E adesso cosa credete che sia successo quando ho stampato quei dati (presi dal sito del ministero della sanità e dal sito dell’Istituto nazionale dei tumori) e li ho mostrati ai miei colleghi? Niente, niente di niente, tutto come prima. E si continuano a raccogliere fondi. Avete capito come funziona la scuola?

No, no, non è finita, perchè è la volta del'AIDS!

AIDS: Vietato dissentire. Sempre la solita scuola, propongo di realizzare in alcune classi un lavoro di confronto pro e contro l'ipotesi che l'HIV causi l'AIDS, mi riesco persino a procurare due medici relatori di opposte tendenze. Inizio ad approntare il materiale di studio, pro e contro, presento il progetto in presidenza (anche per i finanziamenti, per quanto piccoli, del caso), e per correttezza lascio (con grande anticipo) una copia del progetto ai colleghi di scienze per stimolare il dibattito e per verificare se da parte loro ci fossero eventuali perplessità. Risultato: i colleghi di scienze non dicono niente fino alla riunione del collegio docenti in cui si discutono i vari progetti ... poi d'improvviso in quell'occasione esplodono tuonando contro di me e dicendo che il mio progetto è pericoloso. E d'altronde come dargli torto? Sì, è pericoloso, i ragazzi potrebbe iniziare a pensare con la loro testa. Ma di cosa avevano paura? Se l'AIDS fosse sicuramente una malattia virale ci vorrebbe poco a smontare le tesi di chi pensa che siano altri i fattori che scatenano tale mortale sindrome. Se fosse tutto così vero, così sicuro, un approfondimento tematico da parte degli studenti, persino un confronto coi fautori di teorie differenti li rassicurerebbe sul fatto che l'AIDS è una malattia infettiva e che bisogna difendersi con ogni mezzo dal contagio dell'HIV. Eppure ... vietato, sissignori, vietato! I dogmi sull'AIDS non si possono discutere. Ovviamente tutti i colleghi intimoriti dalla levata di scudi del team di scienze cosa pensate che abbiano votato? Vietato, vietato, proposta da bocciare! Però questa volta c'è il lieto fine. Uno dei colleghi di scienze ha avuto il coraggio di approfondire la questione, leggere i libri dei "dissidenti" e degli "eretici", confrontare le loro tesi con quelle ufficiali, e poi alla fine dell'anno dichiarare di fronte ai docenti tutti che si era convinto che l'AIDS non fosse una malattia infettiva. Un'altra collega a fine anno mi ha confessato che aveva più dubbi che certezze sull'argomento. Due docenti di scienze su 5 non è poco, specie se sono gli unici che si mettono in discussione, perchè in tal caso la percentuale sale al 100%. Poi ho scopeto che una docente di scienze era particolarmente contraria al mio progetto: aveva lavorato come volontaria in Africa per "curare i malati di AIDS"! Penso proprio che non avrebbe mai accettato di mettere discussione il proprio operato.

Ooops, non è finita! Che ne dite di Telethon?

Soldi per la ricerca genetica. A me non piace per niente (a dire poco) perchè finanzia la vivisezione, perchè la ricerca genetica credo abbia finalità ben diverse da quelle dichiarate, perchè i geni sono solo una parte del problema ma è fondamentale l'interazione con l'ambiente: ci sono diversi casi di malattie "genetiche" che non si manifestano se si segue una certa alimentazione. Ma la lista sarebbe è lunga. Per farla breve, in un'altra scuola (tanto il problema è sempre lo stesso) l'anno scorso si sono raccolti fondi per Telethon, io ero contrario, ho comunicato la mia contrarietà ai docenti che hanno sostenuto l'iniziativa (tali iniziative ovviamente non vengono discusse in nessuna sede, vengono approvate tout court!) e al preside. Dietro mia richiesta e insistenza l'unica motivazione che sono riusciti a produrre per una tale raccolta di fondi è che "si spera che queste ricerche alla fine producano qualche risultato positivo". Qualcuno mi ha detto che però "i ragazzi sono stati informati", non hanno donato soldi a scatola chiusa. "Informati come?" chiedo io. "Con gli opuscoli Telethon!" è l'ingenua risposta. A quanto pare quando si parla di medicina la par condicio non esiste, la scienza ufficiale non si tocca. Avete capito come funziona la scuola?

“Si cambia partendo dai bambini”: prove tecniche di indottrinamento? Scrive il Comitato Articolo 26. Prima di questo, si consiglia di leggere l’articolo precedente (200 milioni per l'educazione di genere) per comprendere i presupposti a partire dai quali vengono sviluppati i ragionamenti qui riportati.

Istruzione: 200 milioni per l’educazione di genere! Introduzione dell’educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università  è il nome di una nuova proposta di legge che si pone, tra gli altri, l’obiettivo di prevenire  il femminicidio e di combattere le discriminazioni. Cosa ci potrai mai essere di male in una iniziativa simile e chi potrebbe non condividere finalità così nobili? Per esempio chi, informandosi e approfondendo, ha visto cadere il velo dell’apparenza e ha ormai chiaro che per “genere” non si intende (solo) il sesso femminile contrapposto al maschile, ma tutta una concezione della sessualità e della persona.  Al contrario, chi si limiterà a restare in superficie accontentandosi di qualche slogan senza volersi affacciare ai contenuti più profondi della “rivoluzione gender”, forse continuerà a ritenere le voci critiche come posizioni incomprensibili e reazionarie, ma con il rischio concreto di venire manipolato da un’ideologia che cerca di far credere che neppure esista. L’attuale classe politica avrà una responsabilità enorme nel caso in cui voglia volgere lo sguardo altrove per non vedere che dietro ai concetti di “educazione alla parità” o di “decostruzione degli stereotipi sessisti”, in realtà si cela una visione radicale ed inaccettabile della persona, dell’identità sessuale e della famiglia. Lo ripetiamo: se l’unica finalità di questi programmi fosse educare al rispetto tra maschi e femmine, valorizzare il ruolo delle donne nella storia o criticare l’oggettivazione dei corpi femminili nelle pubblicità, ne saremmo tutti ben lieti. Ma come è ormai manifesto nelle gender theories, come viene recepito da svariati documenti internazionali e poi messo in pratica anche in molte scuole di casa nostra, educare “alle differenze di genere” troppo spesso sottintende condurre i giovani all’indifferentismo sessuale e al non concepirsi come donne o uomini, ma come individui per i quali la caratterizzazione sessuale, l’identità di genere e l’orientamento sessuale sono fluidi, continuamente modificabili e in fin dei conti irrilevanti. E’ emblematico il fatto che quando si parla di  stereotipi di genere, si finisca sempre a parlare di stereotipi in base all’orientamento sessuale (come del resto fa anche la risoluzione n.2011/2116 per l’eliminazione degli stereotipi di genere in Europa, che la suddetta proposta di legge richiama). Il percorso classico è partire sottolineando le differenze individuali (una donna camionista o un ragazzo amante del  cucito) per arrivare ad affermare che le differenze non esistono affatto, vale a dire che non esiste un quid che sostanzia naturalmente l’umanità come divisa in maschi e femmine. Cosa ne deriva? Che non solo sarebbe indifferente come nasciamo, ma anche il nostro orientamento sessuale, pena il diventare discriminanti. E a partire da questo presupposto, la mamma che fa la torta o la bambina che culla la bambola diventano immagini che indurrebbero ad una disparità tra maschi e femmine e alimenterebbero una cultura misogina: ecco quindi che vanno eliminate dalle teste (e dai testi) degli studenti. Un esempio di educare alle differenze sarebbe il libro “Mi piace Spider Man”, che viene consigliato alla scuola materna dai 4 anni (?!?). La piccola protagonista deve combattere non pochi “stereotipi” per conquistare la sua cartella “da maschio” che le piace tanto. E va bene; ma perché qualche pagina dopo, le fanno dire – a lei che di anni ne avrebbe sei – che ha capito che “da grande potrà avere un fidanzato o una fidanzata”? A sei anni? Come ha scritto pochi giorni fa Karen Rubin su “Il Giornale” a tal proposito,  non si considera che “di un universo femminile che contempla più volti, i bambini piccoli conoscono solo la parte che li riguarda… Poco importa che faccia l’astronauta o la dottoressa: la mamma il piccolo la vorrebbe sempre con sé. E’ degradante tutto ciò?… Si sogna una società dove padri e madri siano interscambiabili e le torte non siano più menzionate, neanche fossero droghe pesanti… C’è un errore in tutto questo. La mamma che cucina e la bambina che culla la bambola non sono stereotipi, sono ruoli di genere che si legano strettamente all’identità di ogni essere umano. Se la mamma prepara il cibo per il suo piccolo non trasmette debolezza ma amore. Se il padre è virile perché protegge i figli e la moglie manda un messaggio di forza e coraggio. Se invece picchia la sua compagna non è una questione da ridurre a stereotipi”. E come conclude la Rubin “duecento milioni di euro – questo l’esborso per questa riforma scolastica a carico nostro, che siamo abituati ad autotassarci per dotare di carta igienica le scuole  dei nostri figli - sono davvero sprecati per censurare le immagini. Usiamoli per educare gli uomini e lasciamo in pace i bambini“.

In un paese democratico sui banchi di scuola ci si dovrebbe sedere per imparare l’arte lunga e difficile della vera libertà, e non per subire un indottrinamento, che appoggia per altro su discutibili basi filosofico-teoretiche spacciate per scientifiche. Da quanto si evince da una recente intervista apparsa su La Repubblica, non la pensa così Valeria Fedeli, PD, vicepresidente del Senato, che parla proprio di un insegnamento che si vuole rendere normativo e vincolante e il cui contenuto ormai dichiarato è l’ideologia gender. In questa intervista con poche parole viene liquidata un’intera civiltà, basata sulla legge di natura e sulla forma corrispondente di razionalità: “i luoghi comuni che inchiodano maschi e femmine a stereotipi, che ignorano quanto l’altra metà del cielo ha fatto in tutti campi”. Come se la porzione più consistente di questi importanti conseguimenti femminili non fosse stata realizzata all’interno della suddetta civiltà. Ci viene da chiederci se la Fedeli si renda conto che la società che programma di decostruire partendo dalla scuola è proprio quella che l’ha condotta a ricoprire il ruolo di vicepresidente del Senato (mentre una donna presiede la Camera e si riscontra una parità tra ministri di sesso maschile e femminile); citando delle frasi della sua intervista ci viene da tranquillizzarla, perché i fatti già dicono altro: oggi parlare come fa lei di passività delle donne può giusto essere un vecchio ricordo stereotipato, mentre il tempo di crisi che le famiglie concrete stanno affrontando ha già messo in fuga tutti i principi azzurri su piazza, per cui i sogni delle femminucce si sono adeguati diventando molto più a buon mercato. L’educazione di genere – che dando credito a qualcuno neppure esisterebbe, quasi fosse una teoria del complotto di pochi reazionari – verrebbe così introdotta tramite un apposito disegno di legge nelle scuole e nelle università nell’intento di spazzare via, in nome di una libertà banalizzata,  l’inaccettabile adeguarsi alla verità dei programmi educativi tradizionali, elaborati dalla razionalità del buon senso naturale e presupponenti la differenza sessuale come dato di fatto autoevidente ed  inamovibile. E’ incredibile il prezzo che si è disposti a pagare pur di distorcere la realtà. E’ impressionante il modo semplicistico con il quale il sistema scolastico venga etichettato come anticaglia da cestinare: le elementari vengono banalizzate come fucina di storielle discriminatorie e non come primo stadio della scolarizzazione, più che mai rispettoso della differenza sessuale, non in nome di un’ideologia conservatrice, ma perché indirizzato ad esseri umani, molto vulnerabili e manipolabili, che trovano in tale differenza il loro primo solido orientamento identitario. Nell’intervista della Fedeli si parla di parità, di uguaglianza, di rispetto, di libertà. Parole altisonanti, politicamente corrette, che incantano lettori ed ascoltatori, che mettono d’accordo tutti, ma lasciate come sono del tutto prive di contenuto, diventano oggetto di una manipolazione semantica gravissima, venendo in modo subdolo riempite di contenuti razionalmente inaccettabili. Ma la cosa più paradossale è che questo peana per la libertà si conclude, nel massimo dispregio del principio di non contraddizione, con un’affermazione programmatica dal sinistro tenore totalitario e liberticida: “si cambia partendo dai bambini, gli uomini di domani“. L’avrebbe condivisa Pol Pot. Si parte dai bambini, arrivando a sottrarne l’educazione sessuale ai violenti e retrogradi genitori, perché solo in esseri indifesi e non ancora formati dal punto di vista razionale può sperare di attecchire in profondità una visione dell’uomo tanto priva di base scientifica e per questo lontana dalla realtà come quella propugnata dall’ideologia ipersessualizzata del gender. E vorremmo chiudere permettendoci una riflessione, un appello che speriamo che la prima firmataria della legge voglia ascoltare: è stato preso in considerazione il fatto che il fenomeno della violenza contro le donne è fortemente connesso al fenomeno dell’ipersessualizzazione della società e del mondo maschile? Domanda: siamo certi che l’investimento dei 200 milioni di euro per tirare la volata al gender e agli standard OMS con la loro sovra-esposizione al sesso fin dalla più tenera età non si riveli un doloroso boomerang proprio per il mondo femminile che si vorrebbe proteggere?

L’ideologia oggi è la mancanza di serietà. Una prof racconta, scrive Marina Valensise su “Il Foglio”. Anna Maria Ansaloni è una prof un po’ speciale, è vero. Insegna al Leonardo da Vinci-Duca degli Abruzzi, il liceo tecnico di via Palestro, quartiere centrale. E’ convinta che la scuola non debba fare quello che “vogliono le famiglie”, ma “formare il cittadino”, e pensa anzi che le famiglie oggi siano spesso ignare dei veri problemi della scuola. Ma su un punto conviene con l’allarme lanciato dal presidente del Consiglio, quando difende l’insegnamento libero contro l’indottrinamento ideologico. “I genitori sanno che i loro figli escono dalla scuola sprovvisti delle competenze che invece loro avevano alla stessa età. Per questo, insistono perché la scuola sia più seria, più attenta alle conoscenze di base, più centrata sulla disciplina e sul rigore”. Anna Maria Ansaloni è un’entusiasta, è un’insegnante che adora insegnare. E’ convinta che l’egemonia di sinistra non sia altro che un ricordo sbiadito: “E’ semplicemente morta. La sinistra non esiste più, nel mondo della scuola è irrilevante, mi pare. Tieni conto che la maggioranza degli insegnanti oggi quarantenni ha vissuto gli ultimi vent’anni con Berlusconi. L’ideologia semmai sopravvive come abitudine di costume, nell’occupazione, che non è un fatto politico, ma un rituale di passaggio”. La prof Ansaloni insegna Italiano e storia in una seconda e terza classe, ha le idee chiare e i mezzi per realizzarle: “Il vero dramma è la scuola media, dove i ragazzi disimparano ciò che apprendono alle elementari. Vedo ragazzi che scrivono a matita perché poi così possono cancellare, ma scrivono compiti di otto pensierini che non sono da scuola superiore. Io perciò lavoro molto sul costruire le regole. I ragazzi purtroppo sono molto lenti e disordinati. Vanno educati a un certo ordine nell’esporre gli argomenti, a una notevole quantità di compiti sistematicamente valutati e compresi, alla chiarezza dal punto di vista linguistico. Fraintendimento e intendimento per loro sono la stessa cosa. Per lavorare sul senso delle parole e sulla forma scritta, devi tornare ai testi appresi a memoria, perché senza chiarezza non c’è conoscenza. Devi fargli capire che la fatica è inevitabile, mettere sanzioni chiare e rispettarle”. La professoressa Ansaloni, dunque, ha rafforzato i programmi di lettura. Una volta al mese riunisce gli studenti di 14 e 15 anni nella biblioteca della scuola per discutere con signore di 60 o 70 anni dello stesso libro, e a volte incontrare l’autore. “Mi piace tantissimo parlare con queste signore, mi ha detto un ragazzino, non sono mica come mia madre. Non è l’alunno a parlare, ma il lettore e il lettore è trasversale”. In questo modo si accrescono le competenze linguistiche, si supera un problema didattico. “Noi adottiamo libri di testo inadeguati ai ragazzi” dice infatti la prof Ansaloni. “Per capirli devi decodificarli, e per questo cerco di costruire una sintesi, di fare scrivere i miei allievi su quel testo, di fargli poi valutare cosa realmente ne hanno capito. Dobbiamo ampliare il lessico. Una volta i nostri figli parlavano con 300 parole, ora ne usano 50. Perciò io punto a rafforzare il programma scolastico col lavoro di lettura e di scrittura e la verifica attraverso i questionari. E’ vero che molti miei colleghi non mi seguono, "lasciami stare, mi dicono, con 1.600 euro al mese, per mantenere moglie e due figli devo fare tre lavori". Ma risultati ci sono. Se dico ai miei ragazzi, guarda, quel tizio non ha né artigli né zanne, loro continuano, sì però non voleva essere sbranato. Vuol dire che qualcosa dei ‘Promessi Sposi’ è rimasto: il lessico e la lettura gli si è sedimentata dentro e in modo naturale”. C’è anche un altro handicap dei giovani d’oggi: nessuno scrive più in corsivo. “Il corsivo è scomparso. Abituati col computer e l’sms scrivono tutti in stampatello, alcuni non sanno più come si scrivono certe maiuscole in corsivo. Non è solo una questione di grafia o calligrafia. In stampatello, usano frasi sintetiche di comunicazione, non di espressione: vado, vengo, anziché – penso di venire, avrei intenzione di andare, con una struttura della frase paratattica, senza principali e secondarie, ma con una sfilza di principali spesso con la stessa forma verbale. Il corsivo invece prevede un certo tempo in cui pensi, elabori, unisci le lettere, ti dà una capacità riflessiva, permette un’elaborazione concettuale che implica l’uso di articoli, aggettivi, la punteggiatura, la varietà di forme verbali e l’espressione di sé. Oggi i ragazzi è proprio questo che vogliono evitare:  non sanno né vogliono scrivere di sé, esprimere emozioni, anche se ce le hanno dentro. Allora devi aiutarli. Io per esempio quando leggiamo un sonetto di Dante, ‘Tanto gentile e tanto onesta pare’, chiedo ai ragazzi di cercare dei raffronti con l’immensità, con Dio, con la spiritualità. Loro li trovano nelle canzoni di Vasco Rossi o Jovanotti, e per me è un successo”. La maggiore soddisfazione, però, Ansaloni dice di averla “tutti i giorni quando entro in classe, perché insegnare mi diverte da morire, quando i ragazzi trascorrono un’ora senza rendersene conto, quando vedo all’intervallo quello con la cresta che ti cita una frase di Manzoni. Adesso sta leggendo il ‘Postino di Neruda’ di Skármeta, e una sua allieva rumena, brava e determinata, che dopo la scuola lavora come babysitter, quasi non ci crede: ‘Professoressa, le metafore le possiamo fare anche noi…’”.

Scuola: arriva il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica. Chi sgarra sarà sospeso. Un deputato del Pdl ha proposto un'aggiunta al testo unico sulla scuola per impedire agli insegnanti di fare propaganda politica. Secondo lui questo avverrebbe soprattutto in Emilia Romagna. A vigilare dovranno essere i dirigenti scolastici, scrive Marta Ferrucci su “Studenti”. Fabio Garagnani, deputato del Pdl, ha proposto una aggiunta al testo unico sulla scuola: il divieto per gli insegnanti di fare propaganda politica e ideologica.  Dovranno essere i dirigenti scolastici a vigilare e per chi sgarra è prevista la sospensione da 1 a 3 mesi. "L'importante era inserire nel Testo unico sulla scuola il divieto di fare propaganda politica o ideologica per i professori". Per quanto riguarda le sanzioni queste dovranno essere contenute poi in dettaglio in un provvedimento attuativo della legge. La propaganda politica" -secondo garagnani- "non può trovare tutela nel principio della libertà dell'insegnamento enunciato dall'Articolo 33 della Costituzione. Un conto infatti è tutelare la libertà di espressione del docente, un'altra è quella di consentire che nella scuola si continui a fare impunemente propaganda politica". E sarebbero molti i casi in cui i professori oltrepassano questo limite; per Garagnani accade soprattutto in Emilia Romagna, tra i professori iscritti alla Cgil". Per Mimmo Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil si tratta di una proposta "delirante" ed ha aggiunto che "gli insegnanti educano, non inculcano". Ha ragione Garagnani o si tratta di una proposta "delirante"?

"Troppi libri comunisti a scuola", Pdl: Ci vuole una commissione d'inchiesta, scrive Agenzia Dire su “Orizzonti Scuola” - Iniziativa di 19 deputati guidati da Gabriella Carlucci, all'indice i testi di storia: "Gettano fango su Berlusconi". Dopo i giudici, anche i libri di testo contro Silvio Berlusconi. Secondo 19 deputati del Pdl, capitanati da Gabriella Carlucci, i testi scolastici di storia, su cui studiano migliaia di ragazzi, nasconderebbero "tentativi subdoli di indottrinamento" per "plagiare" le giovani generazioni "a fini elettorali" dando "una visione ufficiale della storia e dell'attualità asservita a una parte politica", il centrosinistra, "contro la parte politica che ne è antagonista", ossia il centrodestra. Di fronte a questa situazione definita "vergognosa", secondo i parlamentari del Pdl, il parlamento "non può far finta di non vedere" e per questo chiedono, attraverso una proposta di legge, l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta "sull'imparzialità dei libri di testo scolastici". Il progetto di legge è stato depositato alla Camera da Carlucci il 18 febbraio 2011  e assegnato alla commissione Cultura il 14 marzo. In attesa dell'avvio dell'esame, in questi giorni la proposta è stata sottoscritta da altri colleghi di partito (ieri si sono aggiunte nuove firme e altre ancora ne stanno arrivando), tra cui il capogruppo Pdl in commissione Cultura, Emerenzio Barbieri. Nella premessa, gli esponenti di maggioranza si chiedono: "Può la scuola di Stato, quella che paghiamo con i nostri soldi, trasformarsi in una fabbrica di pensiero partigiano?" E la "battaglia partigiana", secondo il firmatari, viene messa in atto "osannando l'attuale schieramento di sinistra" e "gettando fango sui loro avversari". Per "capire la gravità del problema", sostengono i 19 deputati, "basta sfogliare la maggior parte dei libri che oggi troviamo nelle scuole, sui banchi dei nostri figli". Scopo della Commissione d'inchiesta? "Verificare quali sono i libri faziosi - spiega Barbieri interpellato dalla Dire - e dargli il tempo di adeguarsi prima di farli ritirare dal mercato, mica mandarli al macero...". Gli altri firmatari della proposta di legge Carlucci, che mette all'indice i libri di testo definiti "partigiani", sono: Barani, Botta, Lisi, Scandroglio, Bergamini, Biasotti, Castiello, Di Cagno Abbrescia, Di Virgilio, Dima, Girlanda, Holzmann, Giulio Marini, Nastri, Sbai, Simeoni e Zacchera. Nella premessa, si fanno alcuni esempi dei testi incriminati, specificando che "in Italia, negli ultimi cinquant'anni, lo studio della storia è stato spesso sostituito da un puro e semplice tentativo di indottrinamento ideologico" retaggio "dell'idea gramsciana della conquista delle casematte del potere" che "si è propagato attraverso l'insegnamento della storia e della filosofia nelle scuole". Si cita La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, che descrive "tre personaggi storici: Palmiro Togliatti, un uomo politico intelligente, duttile e capace di ampie visioni generali; Enrico Berlinguer, un uomo di profonda onestà morale e intellettuale, misurato e alieno alla retorica; Alcide De Gasperi, uno statista formatosi nel clima della tradizione politica cattolica". Ma anche Elementi di storia di Camera-Fabietti, edito da Zanichelli, reo, ad avviso del Pdl, di sostenere che "l'ignominia dei gulag sovietici non è dipesa da questo sacrosanto ideale (il comunismo), ma dal tentativo utopico di tradurlo immediatamente in atto o peggio dalla conversione di Stalin al tradizionale imperialismo". E ancora, la Storia, volume III, di De Bernardi-Guarracino, edito da Bruno Mondadori, per il quale dal 1948 "l'attuazione della Costituzione sarebbe diventato uno degli obiettivi dell'azione politica delle forze di sinistra e democratiche". E si arriva ai tempi più recenti. "Con la caduta del Muro di Berlino e con la fine dell'ideologia comunista in Italia - si precisa nella premessa alla proposta - i tentativi subdoli di indottrinamento restano tali" e anzi "si rafforzano e si scagliano" contro "la parte politica che oggi è antagonista della sinistra", quella guidata da Berlusconi. Nella proposta di legge Carlucci, sottoscritta alla Camera da altri 18 deputati Pdl per istituire una Commissione d'inchiesta per verificare "l'imparzialità dei libri di testo scolastici", la messa all'indice viene supportata infine dai passaggi che descrivono gli ultimi 15/20 anni di storia politica italiana, ossia l'era berlusconiana. Uno degli esempi che, secondo i firmatari, "osanna" agli occhi degli studenti i partiti di centrosinistra lo si ritrova ne La storia di Della Peruta-Chittolini-Capra, edito da Le Monnier, a proposito del Partito democratico della sinistra: "Il Pds - è scritto - intende proporsi come il polo di aggregazione delle forze democratiche e progressiste italiane" con "un programma di riforme politico sociali miranti a rendere più governabile il Paese". Si tira poi in ballo la descrizione che L'età  contemporanea di Ortoleva-Revelli, edito da Bruno Mondadori, fa di Oscar Luigi Scalfaro: "Dopo aver abbandonato l'esercizio della magistratura per passare all'attività politica nel partito democristiano" si è segnalato "per il rigore morale e la valorizzazione delle istituzioni parlamentari". Ma il testo che più si distingue "per la quantità di notizie partigiane e propagandistiche" è, secondo i 19 deputati Pdl, quello di Camera e Fabietti. In Elementi di storia, citano, viene descritta l'attuale presidente del Pd, Rosy Bindi, come la "combattiva europarlamentare" che, ai tempi della militanza nella Democrazia cristiana, sollecitava ad "allontanare dalle cariche di partito" tutti "i propri esponenti inquisiti". E come viene descritto l'antagonista Berlusconi? Nel 1994, citano ancora i parlamentari dalle pagine del libro di testo, "con Berlusconi presidente del Consiglio, la democrazia italiana arriva a un passo dal disastro". Secondo gli autori, "l'uso sistematicamente aggressivo dei media, i ripetuti attacchi alla magistratura, alla Direzione generale antimafia, alla Banca d'Italia, alla Corte costituzionale e soprattutto al presidente della Repubblica condotti da Berlusconi e dai suoi portavoce esasperarono le tensioni politiche nel Paese". L'elenco dei libri "naturalmente potrebbe continuare ancora per molto - conclude il Pdl - ma bastano questi esempi per capire la gravità della questione".

Bagnasco contro i "campi d'indottrinamento" gender. Scrive Massimo Introvigne su “La Nuova BQ”. Lunedì 24 marzo 2014, aprendo il Consiglio Permanente della Conferenza Episcopale Italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, che la presiede ha affrontato con grande determinazione la problematica della famiglia e dell’ideologia di genere. «La preparazione alla grande assise del sinodo sulla famiglia, che si celebrerà in due fasi nel 2014 e nel 2015, nonché il recente concistoro sul medesimo tema – ha detto Bagnasco – hanno provvidenzialmente riposto l’attenzione su questa realtà tanto “disprezzata e maltrattata”, come ha detto il Papa: commenterei, “disprezzata” sul piano culturale e “maltratta” sul piano politico». Il cardinale ha inquadrato la natura ideologica del problema: la famiglia è diventata il nemico da abbattere. «Colpisce che la famiglia sia non di rado rappresentata come un capro espiatorio, quasi l’origine dei mali del nostro tempo, anziché il presidio universale di un’umanità migliore e la garanzia di continuità sociale. Non sono le buone leggi che garantiscono la buona convivenza – esse sono necessarie – ma è la famiglia, vivaio naturale di buona umanità e di società giusta». Il cardinale è andato oltre: non è rimasto sul generico, ma ha citato come esempio dei maltrattamenti che la famiglia subisce un episodio specifico, su cui – lo ricordiamo per la cronaca, senza rivendicare primogeniture – per prima «La nuova Bussola quotidiana», nel silenzio generale, aveva attirato l’attenzione. «In questa logica distorta e ideologica – ha detto Bagnasco –, si innesta la recente iniziativa – variamente attribuita – di tre volumetti dal titolo “Educare alla diversità a scuola”, che sono approdati nelle scuole italiane, destinati alle scuole primarie e alle secondarie di primo e secondo grado. In teoria le tre guide hanno lo scopo di sconfiggere bullismo e discriminazione – cosa giusta –, in realtà mirano a “istillare” (è questo il termine usato) nei bambini preconcetti contro la famiglia, la genitorialità, la fede religiosa, la differenza tra padre e madre… parole dolcissime che sembrano oggi non solo fuori corso, ma persino imbarazzanti, tanto che si tende a eliminarle anche dalle carte». Durissimo il commento del presidente dei vescovi italiani «È la lettura ideologica del “genere” – una vera dittatura – che vuole appiattire le diversità, omologare tutto fino a trattare l’identità di uomo e donna come pure astrazioni. Viene da chiederci con amarezza se si vuol fare della scuola dei “campi di rieducazione”, di “indottrinamento”. Ma i genitori hanno ancora il diritto di educare i propri figli oppure sono stati esautorati? Si è chiesto a loro non solo il parere ma anche l’esplicita autorizzazione? I figli non sono materiale da esperimento in mano di nessuno, neppure di tecnici o di cosiddetti esperti. I genitori non si facciano intimidire, hanno il diritto di reagire con determinazione e chiarezza: non c’è autorità che tenga». Parole chiarissime: altri vescovi prendano esempio. La strategia enunciata esplicitamente da Papa Francesco nell’esortazione apostolica «Evangelii gaudium» – il Papa di certe questioni, comprese quelle (citate in nota nel documento come esempio delle «questioni» cui si allude) della famiglia e del gender, non parla, chiede che siano gli episcopati nazionali a intervenire – non piace a tanti nostri lettori, e dalle strategie, che non sono Magistero neppure ordinario, si può certo legittimamente dissentire. Però qualche volta le strategie funzionano: dove tace il Papa, i vescovi parlano. È successo negli Stati Uniti, in Polonia, in Croazia, in Portogallo, in Slovacchia. Ora succede anche in Italia, e non si può non ricordare che – come sempre avviene nel nostro Paese – prima di aprire con questa relazione il Consiglio Permanente della CEI venerdì scorso Bagnasco è andato in udienza dal Papa, cui questi testi sono di regola previamente sottoposti. Vediamo se questa rondine farà, come ci auguriamo, primavera.

Genitori, reagite all'imposizione dell'ideologia gender!. L'edizione di domenica di RomaSette, il settimanale della diocesi di Roma, evidenzia e valorizza l'azione del Comitato Articolo 26 contro i molteplici tentativi di introdurre nelle scuole l'ideologia gender, scrive Giuseppe Rusconi su Zenit.org. Per questa domenica iniziale d’Avvento RomaSette - l'inserto settimanale di Avvenire - ha scelto come articolo di apertura un testo sull’ormai allarmante dilagare anche nelle scuole romane – dagli asili nido in poi - dell’imposizione dell’ideologia del gender, secondo la quale la differenza tra maschile e femminile è solo una costruzione culturale e dunque va “decostruita” nel senso che ognuno non è quel che è e si vede, ma ciò che si sente e pensa di essere. Il titolo è “Gender a scuola. La protesta dei genitori”. In un box si danno indicazioni su un modulo, da inviare al dirigente scolastico dell’istituto dei propri figli, per la richiesta di consenso informato sulle iniziative ‘educative’ improntate all’ideologia del gender. Nella stessa pagina, appare su quattro colonne anche un articolo molto chiaro dal titolo: “Strategia Lgbt, i consulenti sono a senso unico”, accompagnato dall’occhiello: “Ventinove associazioni del mondo gay a fianco dell’Unar (Ndr: il noto Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali) per la formazione, otto nei progetti finanziati dalla Regione Lazio. Proposta politica con una bozza di ordine del giorno per il Consiglio comunale: indottrinamento tra i banchi”. Si noterà qui subito che proprio la Regione Lazio – retta da Nicola Zingaretti - ha sborsato 120mila euro per i progetti pro-gender, mentre non si risparmia neppure la giunta Marino di Roma Capitale, grazie anche al sostegno entusiasta dell’assessore alla Scuola Alessandra Cattoi, che ha affidato all’associazione lgbt “Scosse” la formazione delle educatrici degli asili nido e delle scuole materne comunali della città. Nell’articolo di Roma Sette si ricorda il caso scoppiato presso l’asilo nido comunale “Castello Incantato”, in zona Bufalotta, laddove ai pargoli si legge ad esempio la “Piccola storia di una famiglia” (casa editrice Stampatello): tale cosiddetta “famiglia” comprende due donne che si fanno donare il “semino” necessario alla procreazione da una clinica olandese, tanto che alla fine la nascitura avrà “due mamme: solo una l’ha portata nella pancia, ma entrambe, insieme, l’hanno messa al mondo. Sono i suoi genitori”. E’ proprio dal tristo episodio del “Castello Incantato” che ha preso spunto l’idea di alcuni genitori di costituire il “Comitato Articolo 26”. Perché 26? Ci si riferisce all’articolo 26 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo: I genitori hanno il diritto di priorità nella scelta del genere di istruzione da impartire ai loro figli. Il Comitato è aperto a genitori, docenti, professionisti dell’educazione, di diverso credo religioso e filosofico, che “rifiutano con decisione l’indottrinamento gender nelle scuole italiane di ogni ordine e grado e che rivendicano, in maniera costruttiva, la priorità delle famiglie in tema di affettività e sessualità”. Tra gli obiettivi “diffondere un’informazione oggettiva e scientifica in merito alla cosiddetta ideologia gender”, “vigilare e segnalare gli aspetti ideologici pedagogicamente infondati e pericolosi, di progetti educativi e scolastici relativi a educazione sessuale e/o affettività, educazione alle differenze, lotta alla discriminazione tra bambini e bambine, lotta all’omofobia e/o al bullismo omofobico”, “sostenere e accompagnare il diritto dei genitori ad affermare e perseguire la priorità della propria missione educativa nei confronti dei figli”. Nell’articolo di Roma Sette sulla strategia Lgbt si ricorda inoltre che “a livello nazionale è in piena attuazione” tale strategia triennale, partorita due anni fa dall’Unar “istituito in seno al Dipartimento per le pari opportunità della Presidenza del Consiglio”. Era il tempo di Monti, poi venne Letta e la strategia andò avanti, così come con Renzi. Del resto è dei giorni 26 e 27 novembre 2014 il corso per dirigenti scolastici organizzato a Roma dal ministero dell’Istruzione e dall’Unar con la collaborazione del Servizio lgbt di Rete nazionale delle Pubbliche amministrazioni antidiscriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere. Il Gruppo nazionale di lavoro è composto da 29 associazioni di settore, tutte rigorosamente lgbt. Il 23 febbraio scorso, il settimanale della diocesi di Roma aveva già dedicato quasi tutta la prima pagina all’ “operazione ideologica” del “gender in classe”, con un editoriale chiaro, pacato e fermo di don Filippo Morlacchi, in cui il direttore dell’Ufficio pastorale scolastica del Vicariato scriveva: “Anche in altri Paesi europei la potente minoranza favorevole al gender ha dettato l’agenda degli impegni scolastici; ma le associazioni di genitori hanno alzato la voce e prodotto agili pubblicazioni per avvertire le famiglie del fenomeno. Forse è tempo che anche in Italia non solo i cattolici, ma tutti gli uomini convinti della bontà della famiglia naturale si esprimano pubblicamente”. Un auspicio che è stato concretizzato in questi mesi da diverse associazioni e comitati a livello cittadino, regionale, nazionale (in primis la Manif pour tous Italia e le Sentinelle in piedi), in buona parte nell’area cattolica ma aperte a tutti. A livello di diocesi, ricordiamo poi l’esemplare "Nota su alcune urgenti questioni di carattere antropologico ed educativo" dei vescovi del Triveneto per la Giornata della vita 2014, la grave preoccupazione della Conferenza Episcopale toscana e di alcuni altri vescovi. Nelle ultime settimane sono successi altri fatti gravi, oltre alle intimidazioni fisiche e verbali con cui sono state bersagliate in diverse città le Sentinelle. Ad esempio una docente di religione cattolica dell’Istituto Pininfarina di Moncalieri è stata fatto oggetto ingiustamente di una pesantissima campagna di stampa originata dalle affermazioni (pare del tutto inventate) di uno studente attivista lgbt. Esposta al pubblico ludibrio dai mass-media, nelle prime reazioni a caldo non è stata certo difesa neppure dall’estemporaneamente remissivo arcivescovo di Torino. Grazie ad Avvenire è stata poi ristabilita la verità almeno per i lettori del quotidiano della Cei, oltre che per l’ambiente locale. La diocesi di Milano dal canto suo è incappata in un paio di decisioni che hanno destato molta perplessità tra non pochi cattolici: le scuse ufficiali per un’indagine statistica non certo segreta (rivolta a oltre seimila docenti di religione cattolica) e la negata solidarietà per un docente di religione (sospeso dalla scuola, con l’Ufficio scuola della Curia che ha aperto un procedimento di verifica) colpevole di aver mostrato a nove alunni di una terza liceo un documentario molto realistico, “L’urlo silenzioso”, su quel che succede durante un aborto. E’ stata la fiera dell’ipocrisia interessata, se si pensa alle tante immagini crude sfornate da tg e trasmissioni varie per ragione di audience. Intanto, in pieno sviluppo dell’applicazione della strategia totalitaria lgbt, l’Unione degli atei e agnostici razionali (Uaar), l’Arcigay, la Rete degli studenti medi ha trovato modo il 18 novembre di inviare una lettera allarmata al Ministro dell’Istruzione, all’Unar e alla Presidenza del Consiglio per denunciare che “stiamo assistendo ad un vero e proprio attacco nei confronti degli studenti e del sistema scolastico tutto, da parte di una frangia conservatrice e omofoba del nostro Paese”. Proclamano e minacciano i firmatari: “Il Ministero, e il Governo tutto, devono avere il coraggio di superare i tabù e di non fare della battaglia alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale un mero spot propagandistico. Riteniamo che il Ministero debba adoperarsi affinché tutte le scuole prevedano programmi didattici strutturati, destinati agli studenti, sull’educazione alle differenze, in cui si parli di identità di genere, orientamento sessuale e sesso biologico, e che investa nella formazione degli insegnanti, fornendo loro gli strumenti necessari così da evitare che casi come quelli sopracitati si ripetano”. Non è finita. Tuonano infatti atei, “studenti medi” e Arcigay: “Chiediamo, infine, di coinvolgere nei tavoli ministeriali le realtà sociali, le associazioni e le organizzazioni studentesche che da anni combattono le discriminazioni e l’omofobia e di far sì che questi percorsi producano finalmente soluzioni concrete”. La lettera contiene poi già una velata minaccia per gli istituti cattolici paritari, che certamente la lobby sogna costretti ad accettare l’auspicato indottrinamento oppure a chiudere. Nel resto d’Europa tentativi di tal genere sono già in corso, come in Gran Bretagna o sono minacciati, come in Francia. Insomma: la legge “antiomofobia” a firma Scalfarotto ancora non è stata approvata e già produce i suoi effetti liberticidi, dato che – oltre alle intimidazioni continue – i propugnatori dell’ideologia del gender si fanno sempre più sfrontati. Il rischio è che, considerato quanto è successo fin qui, molti scelgano il silenzio per evitare di essere lapidati dai media della nota lobby. Quel che è capitato del resto a Guido Barilla è estremamente significativo. Sbilanciatosi l’anno scorso in favore della famiglia del ‘Mulino Bianco’, è stato coperto di insulti e minacce; ha così ritenuto molto opportuno profondersi in mille scuse e agire in modo tale che oggi la Barilla è pienamente riabilitata. Come scrive il Washington Post  ha ottenuto 100/100 nella classifica delle imprese gay-friendly, avendo in un anno fatto “una marcia indietro radicale, aumentando i benefit sanitari per i dipendenti transgender e le loro famiglie, donando soldi per le cause dei diritti gay", oltre che ingaggiare consulenti come il “gay più potente d’America”, David Mixner, fiero dei risultati ottenuti. Ora per la Barilla del Guido rieducato mancano solo gli spot con protagoniste coppie omosessuali. Non temete, verranno presto. Si dovrà poi vedere se qualcuno non preferirà a quel punto assaporare un altro tipo di pasta.

L’ISLAM, LA SINISTRA E LA SOTTOMISSIONE.

L’assessore scambia l’Islam per terrorismo. Gli studenti: "Si deve dimettere". All’indomani della strage di Parigi Elena Donezzan, responsabile per l’Istruzione della giunta veneta, scrive un appello ai presidi per parlare di terrorismo, accostandolo alla religione islamica. Scoppia il caso e la rete degli studenti chiede che lasci il suo posto con pubbliche scuse e il ritiro delle frasi incriminate, scrive Michele Sasso “L’Espresso”. Una frase ha scatenato un putiferio: «Se non si può dire che tutti gli islamici sono terroristi, è evidente che tutti i terroristi sono islamici e che molta violenza viene giustificata in nome di una appartenenza religiosa e culturale ben precisa». È giovedì 8 gennaio 2015 e a vergare l’appassionata lettera è l’assessore all’Istruzione della Regione Veneto, Elena Donezzan, che pochi giorni prima aveva promosso un family day a scuola per difendere la famiglia naturale. Scossa per il massacro nella redazione di Charlie Hebdo a Parigi, torna alla carica non pensandoci troppo sopra. Una circolare indirizzata a tutti i presidi della sua regione intitolata “Terrorismo islamico: parliamone soprattutto a scuola” con passaggi forzati carichi di livore: «Alla luce della presenza dei tanti alunni stranieri nelle nostre scuole e dei loro genitori nelle nostre comunità, soprattutto a loro dobbiamo rivolgere il messaggio di richiesta di una condanna di questi atti, perché se hanno deciso di venire in Europa devono sapere che sono accolti in una civiltà con principi e valori, regole e consuetudini a cui devono adeguarsi e che la civiltà che li sta accogliendo con il massimo della pienezza dei diritti ha anche dei doveri da rispettare». Se il fine è la conoscenza e il dibattito dell’attualità tra i banchi il risultato di questa mossa è disastroso. Via change.org è partita una petizione dell’associazione studenti universitari e della rete degli studenti per chiedere le sue dimissioni con pubbliche scuse allegate e il ritiro delle frasi incriminate. In più di quattromila hanno sottoscritto le motivazioni: «Nella circolare si chiede a tutti i dirigenti di far discutere di quanto accaduto, condannando non solo i fatti e chiedendo a genitori e studenti stranieri di dissociarsi, ma anche la cultura islamica, che alimenta, secondo l’assessore, la genesi di tali attacchi terroristici». A scaldare gli animi l’accostamento della Donezzan tra il massacro di Parigi (e tutto quello che è seguito per 55 ore di paura) con l’aggressione alle porte di Venezia di un quattordicenne tunisino che ha accoltellato il padre di uno studente vittima di bullismo. «Fare un paragone tra un gesto di bullismo e un massacro con armi da fuoco è simbolo di un becero razzismo che non possiamo accettare, specialmente se proveniente da una figura con una certa carica istituzionale», continua la petizione: «Viene da domandarsi se questo parallelo sia frutto di una strumentalizzazione cosciente dei fatti oppure da semplice ignoranza: i casi di bullismo sono diffusi in tutto il Paese, non importa l’origine culturale del ragazzo». Dietro gli studenti anche la Cgil regionale ha preso posizione: «La lettera lascia stupefatti per il forte fondamentalismo ideologico sotteso nelle indicazioni impartite. La scuola deve formare le intelligenze e lo spirito critico di quelli che saranno i cittadini di domani, è un luogo di discussione e riflessione anche per capire quanto accaduto in Francia».

Basta coi finti Charlie. La sinistra si appropria dei simboli di ciò che ha sempre combattuto, scrive Alessandro Sallusti su “Il Giornale”. La mia libertà vale più o meno di quella dei colleghi di Charlie? La nostra libertà, quella di ognuno di noi, compresi la Le Pen e Salvini, quanto vale? E ancora: chi decide la classifica delle libertà? Mi chiedo questo perché stiamo assistendo al più ipocrita degli spettacoli e al più surreale dei dibattiti. Giornalisti, intellettuali e politici di sinistra si sono stretti - dico io giustamente - attorno ai colleghi sterminati dalla furia islamica. Ma, contemporaneamente, dagli stessi è partita una campagna contro chi, come noi, sostiene che il pericolo viene proprio dal Corano, dall'islam e dai suoi imam. In queste ore, in tv e sui giornali, ci stanno facendo passare per dei provocatori, dei seminatori di odio, degli incendiari. Ma dico: se c'è qualcuno che, in decimo, ha sostenuto e scritto negli anni ciò che Charlie ha divulgato con la sua tecnica, siamo proprio noi. Noi siamo Charlie, la Fallaci è Charlie, Magdi Allam è Charlie, Piero Ostellino è Charlie. I liberali tutti sono Charlie. Voi di sinistra siete solo degli approfittatori, vi siete impossessati del corpo di un nemico ucciso per quella libertà di opinione che voi di sinistra negavate prima della strage (satira religiosa sì, ma solo contro il Papa e Gesù) e che ancora ora vorreste negare a noi. Se questo Giornale avesse pubblicato una sola di quelle vignette blasfeme saremmo stati linciati come razzisti, fascisti, pazzi irresponsabili e messi al gabbio dalla solerte magistratura italiana per islamofobia (ci siamo andati comunque vicini, nonostante il reato non esista nei nostri codici). E invece, da domani, sarà gara anche a sinistra per pubblicare le nuove frecciate del primo numero di Charlie Hebdo post attentato. Perché Charlie domani potrà dire sull'islam ciò che pensa e noi dovremmo invece allinearci al politicamente corretto? Non condivido molte cose che sostengono la Le Pen e Salvini, ma se uno «è Charlie» deve essere anche Le Pen e Salvini. Cioè deve essere uomo libero e garantire la libertà di chiunque. Cara sinistra, è facile sostenere i diritti dei morti. Anche perché, se fossero vivi, quelli di Charlie vi farebbero un mazzo tanto, quantomeno una pernacchia lunga da Parigi a Roma.

Se la sinistra odia il popolo, scrive Alessandro Catto su “Il Giornale”. La marcia di Parigi, come da programma, ha scatenato apprezzamento e condanna, sentimenti di simpatia e lontananza. Un’ondata di contraddizioni provenente in primis da quelli che, da questa marcia, avrebbero dovuto sentirsi rappresentati, ovvero i cittadini europei. Un evento che più che storico per meriti fisiologici, si è voluto rendere storico nella sua formulazione, nella sua presentazione ai media, nel dipingerlo come unica risposta possibile ad un attacco verso l’Occidente e i suoi valori. Premetto che per me non è stata una marcia trionfale, tantomeno un successo, soprattutto per quanto riguarda la testa di quel corteo. Coi suoi leaders in giacca e cravatta, i capi di stato, sembrava una pratica di circostanza tremendamente ipocrita e fasulla, qualcosa di fatto perché così c’è scritto che bisogna fare. Un qualcosa incapace di rappresentarmi e di rappresentare moltissime persone come me che dovrebbero, in teoria, essere e sentirsi cittadini europei. Alla testa di quel corteo è andata in scena l’ipocrisia di numerosissimi politici europei che hanno grosse responsabilità riguardo la situazione mediterranea e mediorientale. Vi erano personaggi che fino a ieri ci mostravano i benefici della primavera araba di turno, il suo carattere evangelico ed evangelizzante. Vi erano gli alfieri della democrazia per esportazione, gli alfieri di una Europa che non unisce. C’era un trionfo di bandiere in Piazza della Repubblica, ma bandiere europee ce n’erano pochissime. Quella manifestazione ha avuto più il carattere di un secondo funerale ai morti di Charlie Hebdo che non quello di una rivendicazione di orgoglio, di identità e di appartenenza. Ce l’ha avuto a partire dalla sua formulazione, dall’aver fatto fin dal principio figli e figliastri. Quella manifestazione stessa è figlia pure di una porzione politica che, fin da quando il terribile agguato alla sede parigina di Charlie è avvenuto, si è preoccupata più di fare tribuna politica contro il Salvini o la Le Pen di turno che di offrire tutto il proprio supporto alle vittime. Pare esserci stata più veemenza nell’attaccare i capipartito di destra che sensibilità nel puntare il dito contro i responsabili del fatto di sangue. Ieri non è andata in scena la marcia di una Europa unita ma semmai quella di molte nazioni divise, divise pure al loro interno. Nel sud della Francia, mentre le anime belle europee marciavano a colpi di foto e riprese, è andata in scena la marcia sponsorizzata da Marine Le Pen e dal Front National. La marcia dei dannati, degli ultimi, degli esclusi da tutto. Di quelli che non vanno di moda, che fa sempre prurito ospitare in qualche salotto, di quelli che non parlano di Europa, di Diritti e Democrazia, di concetti maiuscolati. Un partito ed una leader scomodi, che è meglio cancellare ed evitare se si vuole andare in piazza imbellettati e col sorriso. Strano però, perché a suon di parlare di democrazia ci siamo forse dimenticati di farla a casa nostra, e ci siamo dimenticati che quel partito così odiato, temuto, becero per bocca dei professori dei nostri tempi, è il primo partito di Francia per consenso elettorale. Marciamo per la libertà dei popoli dimenticandoci di cos’è il popolo, del suo diritto ad essere rappresentato. Si è preferito usare un fatto tragico per trasformare il tutto nella solita, trita e oramai inascoltabile retorica sul rifiuto dei fascismi, dei razzismi, sull’accoglienza, sulla condanna di una ipotetica strumentalizzazione. Qui l’unica strumentalizzazione che ho visto, personalmente, è stata quella di chi, a cadaveri ancora caldi, ha subito messo in piedi un gioco orribile per colpire l’avversario politico, di chi ha approfittato dell’occasione per provare, tristemente, a ritornare rappresentante del popolo dopo l’usurpazione. La sinistra non dimentica, è vendicativa, non tollera usurpazioni. E quella del Front in Francia e pure della Lega in Italia è una usurpazione in piena regola. In termini elettorali, politici e in termini di consenso. La rabbia monta in partiti di sinistra che non riescono più a farsi intercettori delle istanze popolari più umili, che non sanno dar loro rappresentazione, che si ritrovano smarriti. In questi casi allora si tenta sempre di barrare la strada a chi può divenire l’intercettore della protesta al proprio posto. Può esservi la risposta più scaltra, quella di un centrosinistra in salsa renziana che tenta di attirare gli apparati più moderati della nazione. Ma c’è anche la risposta più rabbiosa, più puerile, e sta alla sua sinistra: quella di chi ha perso tutto, ha perso la propria dimensione elettorale, ha perso il passo nei confronti delle istanze del popolo, di chi come unica arma conserva una sola cosa: l’assalto indiscriminato all’avversario e al suo successo, con tutti i mezzi possibili. La sinistra di oggi pare odiare ferocemente il popolo perché l’ha smarrito, perché sa benissimo che moltissimi operai, cassaintegrati, esodati, sia in Francia che in Italia non vogliono salotti, sofismi, filosofie, teosofie, psicodrammi e buonismi. Vogliono soluzioni immediate, presenze tangibili, capacità di dialogo e rappresentazione, vogliono poter confessare le proprie paure e le proprie necessità, anche quelle politicamente scorrette. E questo ormai, in Europa, non lo si fa nella piazza di Parigi, lo si fa nella piazza di Beaucaire con la Le Pen, lo si fa a Musile di Piave con Salvini. Il popolo è lì, consegnato in toto al nemico a son di cianciare di populismo e demagogia. Parlando proprio di rapporto tra Islam e Occidente sentivo ieri, in una nota trasmissione serale di La7, un giovane dire che “non si può far parlare chi non arriva agli ottocento euro al mese”. Un giovane in giacca, occhiali da hipster, erre arrotata, espressione massima del ben pensare de sinistra in salsa europea. Non me la sento di attaccarlo perché esprime chiaramente quello che è la sinistra oggi. Rifiuto del più povero e del più debole, al quale si può pure tappare la bocca. Negazione del disagio, elogio del buonismo. Rifiuto per le classi più povere e disprezzo delle stesse. Non c’è cosa più trendy, al giorno d’oggi, di usare il termine populismo come offesa. E’ un qualcosa che potrebbe tranquillamente essere adottato come criterio di iniziazione per un percorso che parte dalle giovanili del PD, dalle università, dagli apericena meticci, dai lupanari dell’accoglienza. La sinistra oggi è questa, e sfila in giacca e cravatta dopo aver tentato di esportare la sua democrazia in giro per il mondo. Permetteteci di dissentire, e di preferire la piazza di Beaucaire. Che forse ha ancora il diritto di venir chiamata piazza, e non palcoscenico.

Alessandro Catto, laureato in Storia, collabora anche con l’Intellettuale Dissidente. Si occupa di politica e società. Nemico del pensiero unico, tradizionalista per reazione, popolare per collocazione, identitario per protesta, controcorrente per natura, nemico dichiarato della dittatura culturale da sinistra salottiera. Nato a Camposampiero (Padova) il 22/11/1991.

Maometto. Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) è stato il fondatore e, per i musulmani, l'ultimo profeta dell'Islam. Considerato dai musulmani di ogni declinazione - ad eccezione degli Ahmadi - l'ultimo esponente di una lunga tradizione profetica all'interno della quale occupa una posizione di assoluto rilievo, Messaggero di Dio (Allah) e Sigillo dei profeti, per citare solo due degli epiteti onorifici che gli sono tradizionalmente riferiti, sarebbe stato incaricato da Dio stesso - attraverso l'arcangelo Gabriele - di divulgare il suo verbo tra gli Arabi.

Prima della Rivelazione. Maometto (che nella sua forma originale araba significa "il grandemente lodato") nacque in un giorno imprecisato (che secondo alcune fonti tradizionali sarebbe il 20 o il 26 aprile di un anno parimenti imprecisabile, convenzionalmente fissato però al 570) a Mecca, nella regione peninsulare araba del Hijaz, e morì il lunedì 13 rabīʿ I dell'anno 11 dell'Egira (equivalente all'8 giugno del 632) a Medina e ivi fu sepolto, all'interno della casa in cui viveva. Sia per la data di nascita, sia per quella di morte, non c'è tuttavia alcuna certezza e quanto riportato costituisce semplicemente il parere di una maggioranza relativa, anche se sostanziosa, di tradizionisti. La sua nascita sarebbe stata segnata, secondo alcune tradizioni, da eventi straordinari e miracolosi. Appartenente a un importante clan di mercanti, quello dei Banu Hashim, componente della più vasta tribù dei Banu Quraysh di Mecca, Maometto era l'unico figlio di ʿAbd Allāh b. ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim e di Āmina bint Wahb, figlia del sayyid del clan dei Banu Zuhra, anch'esso appartenente ai B. Quraysh. Orfano fin dalla nascita del padre (morto a Yathrib al termine d'un viaggio di commercio che l'aveva portato nella palestinese Gaza), Maometto rimase precocemente orfano anche di sua madre che, nei suoi primissimi anni, l'aveva dato a balia a alīma bt. Abī Dhuʿayb, della tribù dei Banū Saʿd b. Bakr, che effettuava piccolo nomadismo intorno a Yathrib. Nell'Arabia preislamica già esistevano comunità monoteistiche, comprese alcune di cristiani ed ebrei. A Mecca - dove, alla morte della madre, fu portato dal suo primo tutore, il nonno paterno ʿAbd al-Muttalib ibn Hāshim, e dove poi rimase anche col secondo suo tutore, lo zio paterno Abu Tàlib - Maometto potrebbe forse aver avuto l'occasione di entrare in contatto presto con quei hanīf, che il Corano vuole fossero monoteisti che non si riferivano ad alcuna religione rivelata, come si può leggere nelle sure III:67 e II:135. Secondo una tradizione islamica, egli stesso era un hanīf e un discendente di Ismaele, figlio di Abramo. La storicità di questo gruppo è comunque discussa fra gli studiosi. Nei suoi viaggi fatti in Siria e Yemen con suo zio, Maometto potrebbe aver preso conoscenza dell'esistenza di comunità ebraiche e cristiane e dell'incontro, che sarebbe avvenuto quando Maometto aveva 9 o 12 anni, col monaco cristiano siriano Bahīra - che avrebbe riconosciuto in un neo fra le sue scapole il segno del futuro carisma profetico - si parla già nella prima biografia (Sīra) di Maometto, che fu curata, vario tempo dopo la morte, da Ibn Isāq per essere poi ripresa in forma più "pia" da Ibn Hishām. Oltre alla madre e alla nutrice, due altre donne si presero cura di lui da bambino: Umm Ayman Baraka e Fātima bint Asad, moglie dello zio Abū Tālib. La prima era la schiava etiopica della madre che lo aveva allevato dopo il periodo trascorso presso con Halīma, rimanendo con lui fino a che Maometto ne propiziò il matrimonio, dapprima con un medinese e poi col figlio adottivo Zayd. Nella tradizione islamica Umm Ayman, che generò Usama ibn Zayd, fa parte della Gente della Casa (Ahl al-Bayt) e il Profeta nutrì sempre per lei un vivo affetto, anche per essere stata una delle prime donne a credere al messaggio coranico da lui rivelato. Altrettanto importante fu l'affettuosa e presente sua zia Fātima bint Asad, che Maometto amava per il suo carattere dolce, tanto da mettere il suo nome a una delle proprie figlie e per la quale il futuro profeta pregò spesso dopo la sua morte. I numerosi viaggi intrapresi per via dell'attività mercantile familiare - dapprima con lo zio e poi come agente della ricca e colta vedova Khadīja bt. Khuwaylid - dettero a Maometto occasione di ampliare in maniera significativa le sue conoscenze in campo religioso e sociale. Sposata nel 595 Khadìja bint Khuwàylid (che restò finché visse la sua unica moglie), egli poté dedicarsi alle sue riflessioni spirituali in modo più assiduo e, anzi, pressoché esclusivo. Khadìja fu il primo essere umano a credere nella Rivelazione di cui Maometto era portatore e lo sostenne con forte convinzione fino alla sua morte avvenuta nel 619. A lui, in una vita di coppia senz'altro felice, dette quattro figlie - Zaynab, Ruqayya, Umm Khulthūm e Fāima, detta al-Zahrāʾ (tutte premorte al padre, salvo l'ultima) - oltre a due figli maschi (al-Qàsim e ʿAbd Allah) che morirono tuttavia in tenera età.

Rivelazione. Nel 610 Maometto, affermando di operare in base a una Rivelazione ricevuta, cominciò a predicare una religione monoteista basata sul culto esclusivo di Dio, unico e indivisibile. In effetti il concetto di monoteismo era diffuso in Arabia da tempi più antichi e il nome Allah (principale nome di Dio nell'Islam) significa semplicemente "Iddio". Gli abitanti dell'Arabia peninsulare e di Mecca - salvo pochi cristiani e zoroastriani e un assai più consistente numero di ebrei - erano per lo più dediti a culti politeistici e adoravano un gran numero di idoli. Questi dèi erano venerati anche in occasione di feste, per lo più abbinate a pellegrinaggi (in arabo: mawsim). Particolarmente rilevante era il pellegrinaggio panarabo, detto ajj, che si svolgeva nel mese lunare di Dhu l-Hijja ("Quello del Pellegrinaggio"). In tale occasione molti devoti arrivavano nei pressi della città, nella zona di Mina, Muzdalifa e di ʿArafa. Gli abitanti di Mecca avevano anche un loro proprio pellegrinaggio urbano (la cosiddetta ʿumra) che svolgevano nel mese di rajab in onore del dio tribale Hubal e delle altre divinità panarabe, graziosamente ospitate dai Quraysh all'interno del santuario meccano della Kaʿba. Maometto, come altri anīf, era solito ritirarsi a meditare, secondo la tradizione islamica, in una grotta sul monte Hira vicino Mecca. Secondo tale tradizione, una notte, intorno all'anno 610, durante il mese di Ramadan, all'età di circa quarant'anni, gli apparve l'arcangelo Gabriele (in arabo Jibrīl o Jabrāʾīl, ossia "potenza di Dio": da "jabr", potenza, e "Allah", Dio) che lo esortò a diventare Messaggero (rasūl) di Allah con le seguenti parole: « (1) Leggi, in nome del tuo Signore, che ha creato, (2) ha creato l'uomo da un grumo di sangue! (3) Leggi! Ché il tuo Signore è il Generosissimo, (4) Colui che ha insegnato l’uso del calamo, (5) ha insegnato all'uomo quello che non sapeva». Turbato da un'esperienza così anomala, Maometto credette di essere stato soggiogato dai jinn e quindi impazzito (majnūn, "impazzito", significa letteralmente "catturato dai jinn") tanto che, scosso da violenti tremori, cadde preda di un intenso sentimento di terrore. Secondo la tradizione islamica Maometto poté in quella sua prima esperienza teopatica sentire le rocce e gli alberi che gli parlavano. Preso dal panico fuggì a precipizio dalla caverna in direzione della propria abitazione e nel girarsi vide Gabriele sovrastare con le sue ali immense l'intero orizzonte (per quel "gigantismo" che caratterizza le "realtà angeliche", anche in contesti diversi da quello islamico) e lo sentì rivelargli di essere stato prescelto da Dio come suo messaggero. Non gli fu facile accettare tale notizia ma a convincerlo della realtà di quanto accadutogli, provvide innanzi tutti la fede della moglie e, in seconda battuta, quella del cugino di lei, Waraqa ibn Nawfal, che alcuni indicano come cristiano ma che, più verosimilmente, era uno di quei monoteisti arabi (anīf) che non si riferivano tuttavia a una specifica struttura religiosa organizzata. Dopo un lungo e angosciante periodo in cui le sue esperienze non ebbero seguito (fatra), Gabriele tornò di nuovo a parlargli per trasmettergli altri versetti e questo proseguì per 23 anni, fino alla morte nel 632 di Maometto.

È ancora oggetto di disputa la questione riguardante l'analfabetismo di Maometto. Si nota come la sua professione di commerciante abbia potuto portarlo in contatto con altre lingue e altre culture, e come sia intervenuto, secondo una tradizione riportata da Tabari, per apportare una correzione riguardante la sua firma nel Trattato di udaybiyya. Ci sarebbe poi una lettera autografa, conservata nel museo Topkapi di Istanbul. Secondo alcuni, tutto deriverebbe da un equivoco riguardante l'espressione a lui riferita di al-Nabī al-ummī che può voler dire in effetti "il profeta ignorante" ma anche, e più verosimilmente, "il profeta della comunità (araba)" o "il profeta di una cultura non basata su testi sacri scritti". Altre fonti fanno notare come le personalità in grado di leggere e scrivere, nel periodo precedente all'Egira, fossero una quindicina, tutte conosciute per nome, e in effetti il Corano sarebbe il più antico libro arabo in prosa. Studiosi occidentali fanno notare come le tribù nomadi, compresa quella di Maometto, disprezzassero la scrittura, privilegiando la trasmissione orale delle conoscenze. La maggior parte dei musulmani propende per un analfabetismo del loro Profeta, escludendo pertanto radicalmente che egli abbia potuto leggere la Bibbia o altri testi sacri, che del resto sarebbero comparsi in forma scritta solo diverso tempo dopo la sua morte. Maometto cominciò dunque a predicare la Rivelazione che gli trasmetteva Jibrīl, ma i convertiti nella sua città natale furono pochissimi per i numerosi anni che egli ancora trascorse a Mecca. Fra essi il suo amico intimo e coetaneo Abu Bakr (destinato a succedergli come califfo, guida della comunità islamica che si fondò con lenta ma sicura progressione malgrado l'assenza di precise indicazioni scritte e orali in merito) e un gruppetto assai ristretto di persone che sarebbero stati i suoi più validi collaboratori: i cosiddetti "Dieci Benedetti" (al-ʿashara al-mubashshara). La Rivelazione da lui espressa dunque - raccolta dopo la sua morte nel Corano, il libro sacro dell'Islam - dimostrò la validità del detto evangelico per cui "nessuno è profeta in patria". Maometto ripeté per ben due volte per intero il Corano nei suoi ultimi due anni di vita e molti musulmani lo memorizzarono per intero ma fu solo il terzo califfo ʿUthmān b. ʿAffān a farlo mettere per iscritto da una commissione coordinata da Zayd b. Thābit, segretario del Profeta. Così il testo accettato del Corano poté diffondersi nel mondo a seguito delle prime conquiste che portarono gli eserciti di Medina in Africa, Asia ed Europa, rimanendo inalterato fino ad oggi, malgrado lo Sciismo vi aggiunga un capitolo (Sura) e alcuni brevi versetti (ayat).

Gli ultimi anni a Mecca e l'Egira. Nel 619, l'"anno del dolore", morirono tanto suo zio Abu Talib, che gli aveva garantito affetto e protezione malgrado non si fosse convertito alla religione del nipote, quanto l'amata Khadìja. Fu solo dopo ripetute insistenze che Maometto contrasse nuove nozze, tra cui quelle con ʿĀʾisha bt. Abī Bakr, figlia del suo più intimo amico e collaboratore, Abu Bakr. L'ostilità dei suoi concittadini tentò di esprimersi con un prolungato boicottaggio nei confronti di Maometto e del suo clan, con il divieto di intrattenere con costoro rapporti di tipo economico commerciale, i troppi vincoli parentali creatisi però fra i clan della stessa tribù fecero fallire il progetto di ridurre a più miti consigli Maometto. Nel 622 il crescente malumore dei Quraysh nel veder danneggiati i propri interessi - a causa dell'inevitabile conflitto ideologico e spirituale che si sarebbe radicato con gli altri arabi politeisti (che con loro proficuamente commerciavano e che annualmente partecipavano ai riti della ʿumra del mese di rajab) - lo indusse a rifugiarsi con la sua settantina di correligionari, a Yathrib, trecentoquaranta chilometri più a nord di Mecca, che mutò presto il proprio nome in Madīnat al-Nabī, "la Città del Profeta" (Medina). Il 622, l'anno dell'Egira (emigrazione), divenne poi sotto il califfo 'Omar ibn al-Khattàb il primo anno del calendario islamico, utile alla tenuta dei registri fiscali e dell'amministrazione in genere.

La Umma e l'inizio dei conflitti armati. Inizialmente Maometto si ritenne un profeta inserito nel solco profetico antico-testamentario, ma la comunità ebraica di Medina non lo accettò come tale. Nonostante ciò, Maometto predicò a Medina per otto anni e qui, fin dal suo primo anno di permanenza, formulò la Costituzione di Medina (Rescritto o Statuto o Carta, in arabo aīfa) che fu accettata da tutte le componenti della città-oasi e che vide il sorgere della Umma, la prima Comunità politica di credenti. Nello stesso tempo, con i suoi seguaci, condusse attacchi contro le carovane dei Meccani e respinse i loro contrattacchi. L'ostilità di Maometto nei confronti dei suoi concittadini si concretizzò nel primo vittorioso scontro armato ai pozzi di Badr, alla successiva disfatta di Uud e alla finale vittoria strategica di Medina (Battaglia del Fossato) contro i politeisti Quraysh che lo avevano inutilmente assediato.

L'atteggiamento verso gli ebrei. In tutte queste circostanze Maometto colpì in diversa misura anche gli ebrei di Medina, che si erano resi colpevoli agli occhi della Umma della violazione del Rescritto di Medina e di tradimento nei confronti della componente islamica. In occasione dei due primi fatti d'armi furono esiliate le tribù ebraiche dei Banū Qaynuqāʿ e dei Banū Naīr, mentre dopo la vittoria nella cosiddetta "battaglia" del Fossato (Yawm al-Khandaq), i musulmani decapitarono tra i 700 e i 900 uomini ebrei della tribù dei Banū Qurayza, arresasi ai seguaci del Profeta in conseguenza del fallimento dell'assedio dei Quraysh e dei loro alleati arabi, protrattosi per 25 giorni. Le loro donne e i loro bambini furono invece venduti come schiavi sui mercati d'uomini di Siria e del Najd, dove vennero quasi tutti riscattati dai loro correligionari di Khaybar, Fadak e di altre oasi arabe higiazene. La cruenta decisione fu probabilmente la conseguenza dell’accusa di intelligenza col nemico durante l’assedio ma la sentenza non fu decisa da Maometto che invece affidò il responso sulla punizione da adottare a Saʿd b. Muʿādh, sayyid dei Banū ʿAbd al-Ashhal, clan della tribù medinese dei Banu Aws e un tempo principale alleato dei B. Quraya. Questi, ferito gravemente da una freccia (tanto da morirne pochissimi giorni più tardi) e ovviamente pieno di rabbia e rancore, decise per quella soluzione estrema, non frequente ma neppure del tutto inconsueta per l'epoca. Che non si trattasse comunque di una decisione da leggere in chiave esclusivamente anti-ebraica potrebbe dimostrarcelo il fatto che gli altri B. Quraya che vivevano intorno a Medina, e nel resto del ijāz (circa 25.000 persone), non furono infastiditi dai musulmani, né allora, né in seguito. In proposito si è anche espresso uno dei più apprezzati storici del primo Islam, Fred McGrew Donner, che, nel suo Muhammad and the believers (Cambridge, MA, The Belknap Press of Harvard University Press, 2010, p. 74), afferma « dobbiamo... concludere che gli scontri con altri ebrei o gruppi di ebrei furono il risultato di particolari atteggiamenti o comportamenti politici di costoro, come, per esempio, il rifiuto di accettare la leadership o il rango di profeta di Muhammad. Questi episodi non possono pertanto essere considerati prove di un'ostilità generalizzata nei confronti degli ebrei da parte del movimento dei Credenti, così come non si può concludere che Muhammad nutrisse un'ostilità generalizzata nei confronti dei Quraysh perché fece mettere a morte e punì alcuni suoi persecutori appartenenti a questa tribù. (Fred M. Donner, Maometto e le origini dell'islam, ediz. e trad. di R. Tottoli, Torino, Einaudi, 2011, p. 76-77). » Una minoranza di studiosi musulmani rifiutano di riconoscere l'incidente ritenendo che Ibn Ishaq, il primo biografo di Maometto, abbia presumibilmente raccolto molti dettagli dello scontro dai discendenti degli stessi ebrei Qurayza. Questi discendenti avrebbero arricchito o inventato dettagli dell'incidente prendendo ispirazione dalla storia delle persecuzioni ebraiche in epoca romana.

La conquista dell'Arabia e la morte. Nel 630 Maometto era ormai abbastanza forte per marciare su Mecca e conquistarla. Tornò peraltro a vivere a Medina e da qui ampliò la sua azione politica e religiosa a tutto il resto del Hijaz e, dopo la sua vittoria nel 630 a unayn contro l'alleanza che s'imperniava sulla tribù dei Banū Hawāzin, con una serie di operazioni militari nel cosiddetto Wadi al-qura, a 150 chilometri a settentrione di Medina, conquistò o semplicemente assoggettò vari centri abitati (spesso oasi), come Khaybar, Tabūk e Fadak, il cui controllo aveva indubbie valenze economiche e strategiche.

Due anni dopo Maometto morì a Medina, dopo aver compiuto il Pellegrinaggio detto anche il "Pellegrinaggio dell'Addio", senza indicare esplicitamente chi dovesse succedergli alla guida politica della Umma. Lasciava nove vedove - tra cui ʿĀʾisha bt. Abī Bakr - e una sola figlia vivente, Fāima, andata sposa al cugino del profeta, ʿAlī b. Abī ālib, madre dei suoi nipoti al-asan b. ʿAlī e al-usayn b. ʿAlī. Fatima, piegata dal dolore della perdita del padre e logorata da una vita di sofferenze e fatiche, morì sei mesi più tardi, diventando in breve una delle figure più rappresentative e venerate della religione islamica.

Origine del nome. "Maometto" è la volgarizzazione italiana fatta in età medievale del nome "Muhammad", utile semplificazione della pronuncia. La parola araba "muhammad", che significa "grandemente lodato", è infatti un participio passivo di II forma (intensiva) della radice [h-m-d] (lodare). Secondo lo studioso francese Michel Masson], invece, nelle lingue romanze, e tra queste l'italiano, si osserva una storpiatura del nome del profeta in senso spregiativo (e da ciò deriverebbero, a suo dire, il francese Mahomet e l'italiano Macometto). Allo stesso modo si esprimono alcuni scrittori italiani che ritengono che il nome "Maometto" non sarebbe di diretta origine araba, ma "un'italianizzazione" adottata all'epoca per costituire una sintesi dell'espressione spregiativa di "Mal Commetto", volta a conferire una connotazione negativa al Profeta dell'Islam.

Maometto secondo i non musulmani. Dopo un protratto periodo di indifferenza nei confronti dell'Islam, superficialmente equivocato dalla Cristianità occidentale e orientale, come una delle tante eresie del Cristianesimo nelle dispute con cristiani, questi ultimi sottolinearono sovente il carattere sincretistico della religione di Maometto, basata allo stesso tempo su tradizioni arabe preislamiche (come il culto della Pietra Nera della Mecca) e su tradizioni cristiane siriache ed ebraiche, e mossero critiche alla personalità di Maometto, alla formazione e trasmissione del testo coranico e alla diffusione dell'islam attraverso la spada. Nell'Occidente medievale Maometto fu considerato per oltre cinque secoli un cristiano eretico. Dante Alighieri - non consapevole del profondo grado di diversità teologica della fede predicata da Maometto, per l'influenza su di lui esercitata dal suo Maestro Brunetto Latini, che riteneva Maometto un chierico cristiano di nome Pelagio, appartenente al casato romano dei Colonna - lo cita nel canto XXVIII dell'Inferno tra i seminatori di scandalo e di scisma nella Divina Commedia assieme ad Ali ibn Abi Tàlib, suo cugino-genero, coerentemente con quanto da lui già scritto ai versetti 70-73 del canto VIII dell'Inferno:« ...«Maestro, già le sue meschite / là entro certe ne la valle cerno, / vermiglie come se di foco uscite / fossero... » in cui le "meschite" (evidente deformazione della parola del volgare castigliano mezquita, derivante dall'arabo masjid, che significa moschea) della città di Dite sono le "vermiglie" abitazioni della città dannata ove dimorano gli eresiarchi cristiani. È questo (e non altro) il motivo per cui nella basilica di San Petronio a Bologna, in un celebre affresco, Maometto fu raffigurato all'inferno, secondo la descrizione di Dante, con il ventre squarciato, come spaccata era la comunità cristiana a causa dei suoi vari scismi. Il motivo per cui Dante lo colloca tra i seminatori di discordie e non tra gli eresiarchi è probabilmente dovuto a una leggenda medievale che parla di Maometto come vescovo e cardinale cristiano, che poi avrebbe rinnegato la propria fede, deluso per non aver raggiunto il papato o per altra ragione e avrebbe creato una nuova religione «mescolando quella di Moisè con quella di Cristo». Secondo una tradizione diffusa tra i musulmani, il Negus di Abissinia - che ospitò gli esiliati musulmani quando Maometto era in vita - avrebbe attestato la sua fede in lui come profeta di Dio.

Si può ridere di Dio? Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura, scrive Paolo Pegoraro su  “Aleteia”. Ricordiamo tutti il monaco cieco che, ne Il nome della rosa, avvelena quanti si avvicinano al prezioso scritto nel quale Aristotele difende la commedia e il riso. È vero che la tristezza intossica, meno che il Medioevo sia stato un’epoca di cupa e triste penitenza. Eric Auerbach, nel suo immortale studio Mimesis, ha documentato che la struttura portante della narrativa cristiana, a partire dai Vangeli, è proprio la commedia… non la tragedia. E Dante, con la sua Comedìa, ne è la pietra miliare. Lo affianca il prologo che Francois Rabelais – frate francescano (a suo modo), monaco benedettino (a suo modo), parroco diocesano (a suo modo) – antepone al Gargantua et Pantagruel: «Altra cosa non può il mio cuore esprimere / vedendo il lutto che da voi promana: / meglio è di risa che di pianti scrivere, / ché rider soprattutto è cosa umana». Altrettanto si potrebbe dire per il suo predecessore padano, il monaco, poi ex monaco, infine di nuovo monaco Teofilo Folengo. La tradizione del grottesco e del caricaturale crebbe febbrilmente in Occidente: dalle deformi statue gotiche alle pagine grottesche di Flannery O’Connor fino al caricaturale Vangelo secondo Biff di Christopher Moore. Per contrapporsi e disgregare le istituzioni, si dirà. Fosse pure, il fatto è che la tradizione comico-grottesca crebbe qui come non altrove. Prolificò qui un umorismo religioso, dissacrante, talora perfino blasfemo. Nessuna sorpresa: le barzellette più sconce vengono bisbigliate in sacrestia. Come si rapporta, allora, Dio con il ridere? Il grande poeta irlandese Patrick Kavanagh espose il suo pensiero in maniera convincente nella composizione A View of God and the Devil (Una visione di Dio e del Diavolo – traduzione dell’autore).

* * *

Ho incontrato Dio Padre sulla strada e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: divertente, sperimentale, irresponsabile sulle frivolezze. Non era un uomo che vorrebbe essere eletto al Consiglio né impressionerebbe un vescovo o un circolo di artisti. Non era splendido, spaventoso o tremendo e neppure insignificante. Questo era il mio Dio che fece l’erba e il sole e i ciottoli nei ruscelli in aprile; questo era il Dio che ho incontrato in una vecchia cava colma di denti-di-leone. Questo era il Dio che ho incontrato a Dublino mentre vagavo per strade inconsapevoli. Questo era il Dio che covò sui campi erpicati di Rooney accanto alla statale Carrick il giorno che i miei primi versi furono stampati io lo conobbi e mai ebbi paura di morte o dannazione e seppi che la paura di Dio era il principio della follia.

Il Diavolo anche il Diavolo ho incontrato, e gli aggettivi con cui vorrei descriverlo sono questi: solenne, noioso, conservatore. Era l’uomo che il mondo eleggerebbe al Consiglio, sarebbe nella lista degli invitati al ricevimento di un vescovo, assomigliava a un artista. Era il tizio che scrive di musica sui quotidiani andava in collera quando qualcuno rideva; era grave su cose senza peso; dovevi fare attenzione al suo complesso d’inferiorità perché era consapevole di non essere creativo.

* * *

Colpisce che il primo aggettivo scelto da Kavanagh per descrivere il “suo” Dio sia proprio amusing (“divertente”) in opposizione a quel povero diavolo che «andava in collera quando qualcuno rideva». Perché rideva proprio di lui, probabilmente, abituato a prendersi “dannatamente” sul serio. Mentre il divino sa essere irresponsabile «sulle frivolezze», il demoniaco è grave «su cose senza peso». Mentre il divino evoca risate, il demoniaco spande paura. Mentre il divino umorismo ha mille sfumature, la “dannata” serietà è monolitica e monotona. Il Dio di Kavanagh è un Dio autoironico. Non è possibile deriderlo semplicemente perché è Lui il primo a ridere di se stesso. Non si può ridere “di” Dio semplicemente perché si può ridere soltanto “con” Lui. Proprio perché così prolificamente creativo (egli “cova” i campi come una chioccia) e fantasioso, non sorprenderebbe se fosse Lui in persona l’autore delle migliori storielle su se stesso. Se il demoniaco rivela il proprio «complesso d’inferiorità» irrigidendosi di continuo, nel vano tentativo di nascondere la propria sterilità, per contro il sigillo della creatività senza limiti è l’umiltà (umile, yet not insignificant!). E, fra tutte, l’autoironia è la forma di umiltà più bella. Perché l’autoironia è una forma di umiltà così autentica che proprio non ci riesce, a prendersi sul serio.

Chiunque sa ridere degli altri, basta avere un granello d'intelligenza; ma per ridere con loro di se stessi, occorre un'oncia di santità.

Divina Commedia. Dante aveva già capito tutto: ecco dove e come aveva messo Maometto. C'è una satira anti-Maometto più feroce di quella di Charlie Hebdo. Circola liberamente in Europa e non solo da secoli. A scriverla fu uno dei più grandi scrittori della storia dell'Occidente. E la si studia anche in tutte le scuole. Mette il profeta musulmano e Alì, suo cugino, genero e successore come Califfo, nientemeno che all'inferno, nel canto XXVIII dedicato ai seminatori di discordia. Lui, l'anti-Maometto, è nientemeno che Dante e l'opera è la Divina Commedia. In cui Maometto viene messo nella bolgia più "sozza" che si possa immaginare, piena di corpi mutilati e orrendamente sfigurati. C'è che secondo le convinzioni dell'epoca, condivise evidentemente da Dante, l'islam era il risultato di uno scisma nell'ambito della cristianità: come riporta il Corriere della Sera, il cardinale o monaco Maometto, amareggiato per non aver conseguito il papato, avrebbe fondato una nuova dottrina. Per questo Dante lo immagina nella nona bolgia, squarciato dal mento all'ano, "infin dove si trulla" (ovvero dove si scorreggia). Alì con la faccia spaccata dal mento alla fronte. Questo perchè, secondo Dante, i seminatori di discordia nell'aldilà erano condannati a subire il contrappasso adeguato, soffrendo nel loro corpo le stesse mutilazioni di cui sono stati artefici in vita.

Dante, Maometto e Charlie Hebdo, scrive “Biuso”.

«Già veggia, per mezzul perdere o lulla,

com’io vidi un, così non si pertugia,

rotto dal mento infin dove si trulla.

Tra le gambe pendevan le minugia;

la corata pareva e ‘l tristo sacco

che merda fa di quel che si trangugia.

Mentre che tutto in lui veder m’attacco,

guardommi e con le man s’aperse il petto,

dicendo: ‘Or vedi com’ io mi dilacco!”

vedi come storpiato è Mäometto!’»

(Inferno, XXVIII, 22-31).

Così Dante Alighieri descrive la figura ripugnante dello ‘scismatico’ Maometto, tagliato/squartato come lui volle tagliare/squartare l’unità cristiana del Mediterraneo. Ancora una volta i monoteismi confermano tutta la loro carica di violenza, gli uni contro gli altri. Nel presente i più pericolosi e armati di tali monoteismi sono quello di Israele e quello degli islamisti. Massacrare i redattori del giornale parigino Charlie Hebdo perché hanno «offeso il Profeta» è semplicemente ripugnante. E conferma ancora una volta tutta la violenza insita nell’Identità senza Differenza, nell’Uno.

«Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese di Egitto, dalla condizione servile. Non avere altri dèi di fronte a me. […]  Perché io il Signore tuo Dio sono un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione per quanti mi odiano, ma usa misericordia fino a mille generazioni verso coloro che mi amano e osservano i miei comandamenti» (Deuteronomio, cap. 5, versetti 6-10).

«Allah testimonia, e con Lui gli Angeli e i sapienti, che non c’è dio all’infuori di Lui, Colui Che realizza la giustizia. Non c’è dio all’infuori di Lui, l’Eccelso, il Saggio». (Corano, sura III, versetto 18).

«Egli Allah è Unico, Allah è l’Assoluto. Non ha generato, non è stato generato e nessuno è eguale a Lui» (Corano, sura CXII, versetti 1-4).

«E i miscredenti che muoiono nella miscredenza, saranno maledetti da Allah, dagli angeli e da tutti gli uomini. Rimarranno in questo stato in eterno e il castigo non sarà loro alleviato, né avranno attenuanti. Il vostro Dio è il Dio Unico, non c’è altro dio che Lui, il Compassionevole, il Misericordioso» (Corano, sura II, versetti 161-163).

Dante e l’Islam. È ormai assodata l’influenza di molte fonti musulmane sull’autore della Divina Commedia. Ma oggi, turbati dalla violenza fondamentalista, tendiamo a dimenticare i rapporti profondi tra la cultura araba e quella occidentale, scrive Umberto Eco su “L’Espresso”. Nel 1919 Miguel Asín Palacios pubblicava un libro (“La escatologia musulmana en la Divina Comedia”) che aveva fatto subito molto rumore. In centinaia di pagine identificava analogie impressionanti tra il testo dantesco e vari testi della tradizione islamica, in particolare le varie versioni del viaggio notturno di Maometto all’inferno e al paradiso. Specie in Italia ne era nata una polemica tra sostenitori di quella ricerca e difensori dell’originalità di Dante. Si stava per celebrare il sesto centenario della morte del più “italiano” dei poeti, e inoltre il mondo islamico era guardato piuttosto dall’alto al basso in un clima di ambizioni coloniali e “civilizzatrici”: come si poteva pensare che il genio italico fosse debitore delle tradizioni di “extracomunitari” straccioni? Ricordo che alla fine degli anni Ottanta avevamo organizzato a Bologna una serie di seminari sugli interpreti “deliranti” di Dante, e quando ne era uscito un libro (“L’idea deforme”, a cura di Maria Pia Pozzato) i vari saggi si occupavano di Gabriele Rossetti, Aroux, Valli, Guénon e persino del buon Pascoli, tutti accomunati come interpreti eccessivi, o paranoici, o stravaganti del divino poeta. E si era discusso se porre nella schiera di questi eccentrici anche Asín Palacios. Ma si era deciso di non farlo perché ormai tante ricerche successive avevano stabilito che Asín Palacios forse era stato talora eccessivo ma non delirante. Ormai è assodato che Dante abbia subito l’influenza di molte fonti musulmane. Il problema non è se lui le avesse avvicinate direttamente ma come sarebbero potute pervenirgli. Si potrebbe cominciare dalle molte visioni medievali, dove si raccontava di visite ai regni dell’oltretomba. Sono la “Vita di san Maccario romano”, il “Viaggio di tre santi monaci al paradiso terrestre”, la “Visione di Tugdalo”, sino alla leggenda del pozzo di san Patrizio. Fonti occidentali, certo, ma ecco che Asín Palacios le paragonava a tradizioni islamiche, mostrando che anche in quei casi i visionari occidentali avevano appreso qualcosa dai visionari dell’altra sponda del Mediterraneo. E dire che Asín Palacios non conosceva ancora quel “Libro della Scala”, ritrovato negli anni Quaranta del secolo scorso, tradotto dall’arabo in castigliano e poi in latino e antico francese. Poteva conoscere Dante questa storia del viaggio nell’oltretomba del Profeta? Poteva averne avuto notizia attraverso Brunetto Latini, suo maestro, e la versione latina del testo era contenuta in una “Collectio toledana”, dove Pietro il Venerabile, abate di Cluny, aveva fatto raccogliere testi arabi filosofici e scientifici - tutto questo prima della nascita di Dante. E Maria Corti si era molto battuta per riconoscer la presenza di queste fonti musulmane nell’opera dantesca. Chi oggi voglia leggere qualcosa su almeno un resoconto della avventura oltremondana del Profeta trova da Einaudi “Il viaggio notturno e l’ascensione del profeta”, con una prefazione di Cesare Segre. Il riconoscere queste influenze non toglie nulla alla grandezza di Dante, con buona pace degli antichi oppositori di Asín Palacios. Tanti autori grandissimi hanno porto orecchio a tradizioni letterarie precedenti (si pensi, tanto per fare un esempio all’Ariosto) e tuttavia hanno poi concepito un’opera assolutamente originale. Ho rievocato queste polemiche e queste scoperte perché ora l’editrice Luini ripubblica il libro di Asín Palacios, con il titolo più accattivante di “Dante e l’Islam”, e riprende la bella introduzione che Carlo Ossola ne aveva scritto per la traduzione del 1993. Ha ancora senso leggere questo libro, dopo che tante ricerche successive gli hanno in gran parte dato ragione? Lo ha, perché è scritto piacevolmente e presenta una mole immensa di raffronti tra Dante e i suoi “precursori” arabi. E lo ha ai giorni nostri quando, turbati dalle barbare follie del fondamentalismi musulmani, si tende a dimenticare i rapporti che ci sono sempre stati tra la cultura occidentale e la ricchissima e progredita cultura islamica dei secoli passati.

Maometto prima di Dante all'inferno. Un viaggio miracoloso che precede e forse ispira la «Commedia». Ma è solo apologetico, scrive Segre Cesare su “Il Corriere della Sera”. Nei suoi ultimi dieci anni Maria Corti era tutta presa dal problema dei contatti arabo-cristiani nella letteratura medievale. Punti di riferimento, sostanzialmente due: il tema del viaggio di Ulisse oltre le colonne d'Ercole, forse derivato da tradizioni arabe, e gli eventuali contatti fra la Commedia e un testo musulmano, il Libro della Scala, che narrava il miracoloso viaggio notturno di Maometto dalla Mecca a Gerusalemme e la sua successiva visita nei regni oltramondani. Per i due protagonisti, Ulisse e Dante, l'obiettivo è il mondo dei morti: sfiorato da Ulisse, attraversato da Dante. Le ricerche della Corti diedero spunto ad articoli e conversazioni, dibattiti, interviste. Ci si potrebbe stupire di tanto interesse per problemi che non trovarono del tutto le soluzioni desiderate, ma davvero stimolante per il lettore era già la possibilità di immergersi in problematiche di ricerca sempre più raffinate, che, indipendentemente dalle auspicate conclusioni, attraversavano punti nodali della cultura del Medioevo.Si sa che fra cultura musulmana e cultura occidentale esisteva una notevole interrelazione, che l'intensa attività traduttoria rese ancora più stretta. Si traduceva, naturalmente, dall'arabo al latino e alle lingue romanze, e non viceversa. Tra le opere tradotte, c'è il cosiddetto Libro della Scala: l'originale arabo è perduto, così come la sua prima versione spagnola, opera di un medico ebreo legato al re di Castiglia Alfonso el Sabio, ma rimangono due traduzioni, una latina e una francese, derivate dalla versione spagnola e da ascrivere (sicuramente la prima, forse la seconda) a un notaio toscano, Bonaventura da Siena, esule, dopo il 1260, presso Alfonso.Il Libro della Scala è forse la traduzione dall'arabo che ha suscitato più interesse, ma non tanto nel mondo medievale, quanto semmai presso i lettori moderni, e per una ragione molto semplice: le sue vere o apparenti rassomiglianze con la Commedia. Che Dante abbia conosciuto e imitato il popolare libro arabo?La prima curiosità per l'opera si era manifestata dopo l'edizione del testo latino pubblicata da Enrico Cerulli (1949): nella postfazione, Cerulli insisteva sul problema dei rapporti tra Libro e Commedia, riferendosi ai concetti di plagio e di imitazione (due concetti, sia detto per inciso, che ora noi trattiamo diversamente, parlando piuttosto di intertestualità e interdiscorsività). Poi tutto si calmò, almeno fino agli studi della Corti. Ora, una nuova edizione del Libro ci consente di riprendere il discorso, alla luce anche di nuove scoperte e prospettive. Il problema non è più analizzare le affinità, ma distinguere tra ciò che accomuna le due opere perché elemento diffuso nella cultura del tempo, e ciò che è stato trasposto di proposito dall'una all'altra narrazione. Si tenga conto che nel Medioevo lo scambio d'invenzioni e d'immagini era frequentissimo, anche tra gli apologeti delle tre fedi monoteistiche.La nuova edizione che ci propone Anna Longoni, allieva della Corti (Il libro della Scala di Maometto, Bur, pp. 368, ? 13), ha come pregio maggiore quello di offrirci un'edizione filologica della versione (o riscrittura) latina, testimoniata da due manoscritti, uno vaticano, dell'inizio del XIV secolo, e l'altro conservato alla Biblioteca Nazionale di Parigi, affiancata da una precisa traduzione in italiano moderno. Ma non vanno trascurati né l'Introduzione, molto informata, né, in appendice, la ristampa del principale articolo della Corti su Dante e la cultura islamica.In partenza, direi che gli elementi congiuntivi tra Libro e Commedia sono soprattutto la strutturazione dei regni ultraterreni e la descrizione delle pene dei dannati, mentre quello disgiuntivo è lo spirito completamente diverso che anima le due opere. La Commedia ha finalità didattiche, filosofiche e narrative, in fondo anche autocelebrative; il Libro della Scala è l'esaltazione di Allah e della sua potenza, e la consacrazione di Maometto come profeta. In più, la Commedia è primariamente un'opera d'arte, mentre il Libro della Scala è opera eminentemente apologetica. Ma ciò che allontana la Scala dalla Commedia è la diversissima tradizione che caratterizza le due opere. Perché i temi del «viaggio notturno» e dell'«ascensione al cielo» di Maometto, di cui il Libro della Scala presenta una redazione particolare, sono maturati attraverso il tempo: concepiti già all'epoca di Maometto (VII secolo), sono stati rielaborati precocemente (dice la tradizione) da Ibn'Abbas, cugino del Profeta, riscritti nel IX secolo. E continuano tuttora a circolare, anche a livello popolare (in proposito, si può leggere l'edizione del Viaggio di Ibn'Abbas a cura di Ida Zilio-Grandi, Einaudi 2010). Della Commedia viceversa sappiamo tutto, o quasi, dato che ci è noto chi l'ha scritta e quando. Nel tessuto dello stesso Libro è evidente la bipartizione tra il «viaggio notturno» di Maometto per andare dalla Mecca a Gerusalemme su una specie di ippogrifo, e il «Libro della scala», in senso stretto, che prevede l'ascensione di Maometto, attraverso la scala di Giacobbe, dall'inferno al paradiso, sino all'incontro con Allah. A un certo punto le due parti sono state cucite assieme: si tenga conto che si tratta di un'opera a tradizione orale, dunque aperta a qualunque contaminazione, anche se va riconosciuto che il contenuto rimane in fondo unitario. Ma Dante come avrebbe potuto conoscere il Libro della Scala? S'era inventata una favola ingegnosa, senza prove: Brunetto Latini, ambasciatore dei guelfi fiorentini alla corte di Alfonso el Sabio, una volta tornato a Firenze, avrebbe potuto riassumere al suo discepolo Dante il Libro, o qualche sua parte. Ma oggi gli studi sull'islamismo medievale sono molto più approfonditi, e sappiamo persino di vere scuole di arabo, in Inghilterra, a Hereford, o nel Convento di Miramar a Maiorca, oltre naturalmente alla scuola di Toledo. Il prodotto più consistente di questi circoli di studiosi è la Collectio Toletana, un'antologia di testi arabi, tra cui il Corano, tradotti in latino, e ampiamente diffusi nell'Europa medievale. Anche la convinzione che in Italia il Libro fosse sconosciuto, già smentita dai versi di Fazio degli Uberti, che nel Dittamondo (1336) cita un «Libro che Scala ha nome» e riassume in qualche verso i costumi musulmani, è ora solennemente confutata (2011) da Luciano Gargan, che ha trovato il Libro citato in un catalogo bolognese del 1312, che elenca i libri di un frate domenicano, Ugolino.Ma insomma Dante ha conosciuto o no il Libro della Scala? Tutti i critici, anche la Corti e la Longoni, hanno cercato, con equilibrio, le prove più consistenti. Certo, Dante, come tutti i grandi, è capace di trovare spunti e suggerimenti ovunque, e può aver raccattato qualcosa anche da lì. Però bisogna rendersi conto delle sue prospettive e delle sue presupposizioni culturali. Cosa poteva trovare in un libro nettamente popolare, dove il gusto dell'iperbole («misura in lunghezza quanto potrebbe percorrere un uomo in cinquecento anni»; «ognuno di questi serpenti ha in bocca diciottomila denti, ciascuno dei quali è grande tanto quanto una di quelle piante chiamate palme») si mescola con quello dei colori, sicché Maometto avanza tra quinte di veli colorati? C'è qualche scena grandiosa, ma l'unico sentimento che suscita è lo stupore. Noi siamo vittime del gusto moderno per il primitivo, e abbiamo tutto il diritto di accostare il Libro della Scala alla Commedia. Ma quanto a metterli sullo stesso piano, a qualcuno è lecito essere riluttante.

«Dante antisemita e islamofobo. La Divina Commedia va tolta dai programmi scolastici». L'accusa di Gherush92 organizzazione di ricercatori consulente dell'Onu, scrive “Il Corriere della Sera”. in alternativa alcune parti del capolavoro andrebbero espunte dal testo. La Divina Commedia deve essere tolta dai programmi scolastici: troppi contenuti antisemiti, islamofobici, razzisti ed omofobici. La sorprendente richiesta arriva da «Gherush92», organizzazione di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale con il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti.

ANTISEMITISMO - «La Divina Commedia - spiega all'Adnkronos Valentina Sereni, presidente di Gherush92 - pilastro della letteratura italiana e pietra miliare della formazione degli studenti italiani presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposta senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all'antisemitismo e al razzismo». Sotto la lente di ingrandimento in particolare i canti XXXIV, XXIII, XXVIII, XIV. Il canto XXXIV, spiega l'organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell'apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio, persona infida, traditore» (così scrive De Mauro, Il dizionario della lingua italiana). Il significato negativo di giudeo è poi esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell'antisemitismo. «Studiando la Divina Commedia - sostiene Gherush92 - i giovani sono costretti, senza filtri e spiegazioni, ad apprezzare un'opera che calunnia il popolo ebraico, imparano a convalidarne il messaggio di condanna antisemita, reiterato ancora oggi nelle messe, nelle omelie, nei sermoni e nelle prediche e costato al popolo ebraico dolori e lutti». E ancora, prosegue l'organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù; i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti».

MAOMETTO - Ma attenzione. Il capolavoro di Dante conterrebbe anche accenti islamofobici. «Nel canto XXVIII dell'Inferno - spiega ancora Sereni - Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l'Islam come una eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli. L'offesa - aggiunge - è resa più evidente perchè il corpo "rotto" e "storpiato" di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi considerati un'offesa».

OMOSESSUALI - Anche gli omosessuali, nel linguaggio dantesco i sodomiti, sarebbero messi all'indice nel poema dell'Alighieri. Coloro che ebbero rapporti «contro natura», sono infatti puniti nell'Inferno: i sodomiti, i peccatori più numerosi del girone, sono descritti mentre corrono sotto una pioggia di fuoco, condannati a non fermarsi. Nel Purgatorio i sodomiti riappaiono, nel canto XXVI, insieme ai lussuriosi eterosessuali. «Non invochiamo nè censure nè roghi - precisa Sereni - ma vorremmo che si riconoscesse, in maniera chiara e senza ambiguità che nella Commedia vi sono contenuti razzisti, islamofobici e antisemiti. L'arte non può essere al di sopra di qualsiasi giudizio critico. L'arte è fatta di forma e di contenuto e anche ammettendo che nella Commedia esistano diversi livelli di interpretazione, simbolico, metaforico, iconografico, estetico, ciò non autorizza a rimuovere il significato testuale dell'opera, il cui contenuto denigratorio è evidente e contribuisce, oggi come ieri, a diffondere false accuse costate nei secoli milioni e milioni di morti. Persecuzioni, discriminazioni, espulsioni, roghi hanno subito da parte dei cristiani ebrei, omosessuali, mori, popoli infedeli, eretici e pagani, gli stessi che Dante colloca nei gironi dell'inferno e del purgatorio. Questo è razzismo che letture simboliche, metaforiche ed estetiche dell'opera, evidentemente, non rimuovono».

CRIMINI - «Oggi - conclude Sereni - il razzismo è considerato un crimine ed esistono leggi e convenzioni internazionali che tutelano la diversità culturale e preservano dalla discriminazione, dall'odio o dalla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, e a queste bisogna riferirsi; quindi questi contenuti, se insegnati nelle scuole o declamati in pubblico, contravvengono a queste leggi, soprattutto se in presenza di una delle categorie discriminate. È nostro dovere segnalare alle autoritá competenti, anche giudiziarie, che la Commedia presenta contenuti offensivi e razzisti che vanno approfonditi e conosciuti. Chiediamo, quindi, di espungere la Divina Commedia dai programmi scolastici ministeriali o, almeno, di inserire i necessari commenti e chiarimenti». Certo c'è da chiederci cosa succederebbe se il criterio proposto da «Gherush92» venisse applicato ai grandi autori della letteratura. In Gran Bretagna vedremmo censurato «Il mercante di Venezia» di Shakespeare? O alcuni dei racconti di Chaucer? Certo è che il tema del politicamente corretto finisce sempre più per invadere sfere distanti dalla politica vera e propria. Così il Corriere in un articolo del 1996 racconta come, al momento di scegliere personaggi celebri per adornare le future banconote dell'euro, Shakespeare fu scartato perchè potenzialmente antisemita Mozart perché massone, Leonardo Da Vinci perché omosessuale. Alla fine si decise per mettere sulle banconote immagini di ponti almeno loro non accusabili di nulla.

Dante "razzista", follia Onu: bandire Divina Commedia. L'associazione Gherush92, consulente delle Nazioni Unite: "Offende ebrei, musulmani, gay. Non va studiata a scuola", scrive di Caterina Maniaci su “Libero Quotidiano”. L’hanno recitata a migliaia, ovunque nel mondo; l’hanno citata, letta, studiata, commentata in milioni di volumi e per intere generazioni. È persino diventata una sorta di fenomeno sociale, dopo che Vittorio Sermonti prima e Roberto Benigni poi l’hanno declamata a un pubblico sempre più numeroso, fino ad approdare in tv. Ma nessuno, fino a oggi, si era mai immaginato di poter parlare della Divina Commedia in questi termini: ossia come un’opera piena di luoghi comuni, frasi offensive, razziste, islamofobiche e antisemite che difficilmente possono essere comprese e che raramente vengono evidenziate e spiegate nel modo corretto. Definisce così il contenuto di numerose terzine dantesche “Gherush92”, organizzazione  di ricercatori e professionisti che gode dello status di consulente speciale per il Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite e   che svolge progetti di educazione allo sviluppo, diritti umani, risoluzione dei conflitti, razzismo, antisemitismo, islamofobia. E proprio secondo questa organizzazione il poema di Dante andrebbe eliminato dai programmi scolastici o, quanto meno, letto con le dovute accortezze. Sotto la lente censoria sono finiti, in particolare, i canti dell’Inferno XIV, XXIII, XXVIII e XXXIV. Il canto XXXIV, spiega l’organizzazione, è una tappa obbligata di studio. Il personaggio e il termine Giuda e giudeo sono parte integrante della cultura cristiana: «Giuda per antonomasia è persona falsa, traditore (da Giuda, nome dell’apostolo che tradì Gesù)»; «giudeo è termine comune dispregiativo secondo un antico   pregiudizio antisemita che indica chi è avido di denaro, usuraio,   persona infida, traditore». Il significato negativo di giudeo è esteso a tutto il popolo ebraico. Il Giuda dantesco è la rappresentazione del Giuda dei Vangeli, fonte dell’antisemitismo. E ancora, prosegue l’organizzazione, «nel canto XXIII Dante punisce il Sinedrio che, secondo i cristiani, complottò contro Gesù;  i cospiratori, Caifas sommo sacerdote, Anna e i Farisei, subiscono tutti la stessa pena, diversa però da quella del resto degli ipocriti: per contrappasso Caifas è nudo e crocefisso a terra, in modo che ogni altro dannato fra gli ipocriti lo calpesti». Il poema, spiega  Valentina Sereni,  presidente di Gherush92, «pilastro della letteratura italiana e pietra  miliare della formazione degli studenti italiani, presenta contenuti offensivi e discriminatori sia nel lessico che nella sostanza e viene proposto senza che via sia alcun filtro o che vengano fornite considerazioni critiche rispetto all’antisemitismo e al razzismo». Spiega ancora Sereni: «Nel canto XXVIII dell’Inferno  Dante descrive le orrende pene che soffrono i seminatori di discordie, cioè coloro che in vita hanno operato lacerazioni politiche, religiose e familiari. Maometto è rappresentato come uno scismatico e l’Islam come un’eresia. Al Profeta è riservata una pena atroce: il suo corpo è spaccato dal mento al deretano, in modo che le budella gli pendono dalle gambe, immagine che insulta la cultura islamica. Alì, successore di Maometto, invece, ha la testa spaccata dal mento ai capelli». «L’offesa», aggiunge, «è resa più evidente perché il corpo “rotto” e “storpiato” di Maometto è paragonato ad una botte rotta, oggetto che contiene il vino, interdetto dalla tradizione islamica. Nella descrizione di Maometto vengono impiegati termini volgari e immagini raccapriccianti tanto che nella traduzione in arabo della Commedia del filologo Hassan Osman sono stati omessi i versi   considerati un’offesa». La stessa Sereni, da noi ricontattata, ci spiega che lo studio sulla Divina Commedia è stato eseguito dai ricercatori  di Gherush92 «dopo alcuni mesi di riflessione». Il gruppo «si finanzia con le quote dei soci iscritti». Alla domanda se esistono nuovi studi su altre opere letterarie, risponde: «Ci stiamo lavorando e più avanti saranno diffusi». Nessun timore che, utilizzando simili criteri di analisi, tutta la letteratura italiana delle origini possa essere considerata razzista, omofoba e antisemita? «Non è colpa nostra se ci sono opere d’arte italiane eventualmente  razziste», ribadisce la Sereni, perché «è l’insegnamento della Divina Commedia che deve essere contestualizzato e siccome viene insegnata e proclamata oggi, il contesto è oggi. Oggi possiamo e dobbiamo fare queste osservazioni sul razzismo nella Divina Commedia e in altre opere d’arte. D’altra parte il razzismo contro le stesse entità esisteva tanto allora quanto oggi». Tutto chiaro e preciso. Ma pur essendo Gherush92 consulente dell’Onu, status di tutto rispetto e cosa che non è concessa proprio a tutte le organizzazioni, la sede a Roma, segnalata  nel sito dell’United Nations Department of Economic and Social Affairs, è inesistente: a quell’indirizzo non risulta nessuna organizzazione. Lo abbiamo scoperto personalmente. Una zona di quasi campagna, nella periferia nord della Capitale, tra villette e piccoli capannoni aziendali. Il numero civico non corrisponde, anzi non esiste. Chiediamo in giro. «Associazione Gherush92? Mai sentita, qui non c’è», risponde una ragazza che esce da un cancello. In effetti, ci viene confermato dalla stessa associazione che quell’indirizzo non è valido e non ce n’è un altro cui fare riferimento...

Il nemico che trattiamo da amico. (Questo articolo fu pubblicato sul Corriere della Sera il 16 luglio 2005). All’indomani dell’attentato terroristico di matrice islamica che ha insanguinato la redazione parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, si inseriscono nel dibattito pubblico di queste ore, le riflessioni di Oriana Fallaci sul rapporto tra Islam e Occidente. L’articolo fu scritto dopo la strage alla metropolitana di Londra del 7 luglio 2005 da Oriana Fallaci.

Ora mi chiedono: «Che cosa dice, che cosa ha da dire, su quello che è successo a Londra?». Me lo chiedono a voce, per fax, per email, spesso rimproverandomi perché finoggi sono rimasta zitta. Quasi che il mio silenzio fosse stato un tradimento. E ogni volta scuoto la testa, mormoro a me stessa: cos' altro devo dire?!? Sono quattr'anni che dico. Che mi scaglio contro il Mostro deciso ad eliminarci fisicamente e insieme ai nostri corpi distruggere i nostri principii e i nostri valori. La nostra civiltà. Sono quattr' anni che parlo di nazismo islamico, di guerra all' Occidente, di culto della morte, di suicidio dell' Europa. Un' Europa che non è più Europa ma Eurabia e che con la sua mollezza, la sua inerzia, la sua cecità, il suo asservimento al nemico si sta scavando la propria tomba. Sono quattr' anni che come una Cassandra mi sgolo a gridare «Troia brucia, Troia brucia» e mi dispero sui Danai che come nell' Eneide di Virgilio dilagano per la città sepolta nel torpore. Che attraverso le porte spalancate accolgono le nuove truppe e si uniscono ai complici drappelli. Quattr' anni che ripeto al vento la verità sul Mostro e sui complici del Mostro cioè sui collaborazionisti che in buona o cattiva fede gli spalancano le porte. Che come nell' Apocalisse dell' evangelista Giovanni si gettano ai suoi piedi e si lasciano imprimere il marchio della vergogna.

Incominciai con «La Rabbia e l'Orgoglio». Continuai con «La Forza della Ragione». Proseguii con «Oriana Fallaci intervista sé stessa» e con «L' Apocalisse». E tra l'uno e l'altro la predica «Sveglia, Occidente, sveglia». I libri, le idee, per cui in Francia mi processarono nel 2002 con l'accusa di razzismo-religioso e xenofobia. Per cui in Svizzera chiesero al nostro ministro della Giustizia la mia estradizione in manette. Per cui in Italia verrò processata con l'accusa di vilipendio all'Islam cioè reato di opinione. (Reato che prevede tre anni di galera, quanti non ne riceve l'islamico sorpreso con l'esplosivo in cantina). Libri, idee, per cui la Sinistra al Caviale e la Destra al Fois Gras ed anche il Centro al Prosciutto mi hanno denigrata vilipesa messa alla gogna insieme a coloro che la pensano come me. Cioè insieme al popolo savio e indifeso che nei loro salotti viene definito dai radical-chic «plebaglia di destra». Sì, è vero: sui giornali che nel migliore dei casi mi opponevano farisaicamente la congiura del silenzio ora appaiono titoli composti coi miei concetti e le mie parole. Guerra all'Occidente, Culto della Morte, Suicidio dell'Europa, Sveglia Italia Sveglia. Sì, è vero: sia pur senza ammettere che non avevo torto l'ex segretario della Quercia ora concede interviste nelle quali dichiara che questi terroristi vogliono distruggere i nostri valori, che questo stragismo è di tipo fascista ed esprime odio per la nostra civiltà».

Sì, è vero: parlando di Londonistan, il quartiere dove vivono i ben settecentomila musulmani di Londra, i giornali che prima sostenevano i terroristi fino all'apologia di reato ora dicono ciò che dicevo io quando scrivevo che in ciascuna delle nostre città esiste un'altra città. Una città sotterranea, uguale alla Beirut invasa da Arafat negli anni Settanta. Una città straniera che parla la propria lingua e osserva i propri costumi, una città musulmana dove i terroristi circolano indisturbati e indisturbati organizzano la nostra morte. Del resto ora si parla apertamente anche di terrorismo-islamico, cosa che prima veniva evitata con cura onde non offendere i cosiddetti musulmani moderati. Sì, è vero: ora anche i collaborazionisti e gli imam esprimono le loro ipocrite condanne, le loro mendaci esecrazioni, la loro falsa solidarietà coi parenti delle vittime. Si, è vero: ora si fanno severe perquisizioni nelle case dei musulmani indagati, si arrestano i sospettati, magari ci si decide ad espellerli. Ma in sostanza non è cambiato nulla. Nulla. Dall'antiamericanismo all'antioccidentalismo al filoislamismo, tutto continua come prima. Persino in Inghilterra. Sabato 9 luglio cioè due giorni dopo la strage la BBC ha deciso di non usare più il termine «terroristi», termine che esaspera i toni della Crociata, ed ha scelto il vocabolo «bombers». Bombardieri, bombaroli. Lunedì 11 luglio cioé quattro giorni dopo la strage il Times ha pubblicato nella pagina dei commenti la vignetta più disonesta ed ingiusta ch'io abbia mai visto. Quella dove accanto a un kamikaze con la bomba si vede un generale anglo-americano con un' identica bomba. Identica nella forma e nella misura. Sulla bomba, la scritta: «Killer indiscriminato e diretto ai centri urbani». Sulla vignetta, il titolo: «Spot the difference, cerca la differenza».

Quasi contemporaneamente, alla televisione americana ho visto una giornalista del Guardian, il quotidiano dell' estrema sinistra inglese, che assolveva l'apologia di reato manifestata anche stavolta dai giornali musulmani di Londra. E che in pratica attribuiva la colpa di tutto a Bush. Il criminale, il più grande criminale della Storia, George W. Bush. «Bisogna capirli». Cinguettava «la politica americana li ha esasperati. Se non ci fosse stata la guerra in Iraq...». (Giovanotta, l'11 settembre la guerra in Iraq non c'era. L'11 settembre la guerra ce l'hanno dichiarata loro. Se n'è dimenticata?). E contemporaneamente ho letto su Repubblica un articolo dove si sosteneva che l'attacco alla subway di Londra non è stato un attacco all'Occidente. E' stato un attacco che i figli di Allah hanno fatto contro i propri fantasmi. Contro l'Islam «lussurioso» (suppongo che voglia dire «occidentalizzato») e il cristianesimo «secolarizzato». Contro i pacifisti indù e la magnifica varietà che Allah ha creato. Infatti, spiegava, in Inghilterra i musulmani sono due milioni e nella metropolitana di Londra non trovi un inglese nemmeno a pagarlo oro. Tutti in turbante, tutti in kefiah. Tutti con la barba lunga e il djellabah. Se ci trovi una bionda con gli occhi azzurri è una circassa». (Davvero?!? Chi l' avrebbe mai detto!!! Nelle fotografie dei feriti non scorgo né turbanti né kefiah, né barbe lunghe né djellabah. E nemmeno burka e chador. Vedo soltanto inglesi come gli inglesi che nella Seconda Guerra Mondiale morivano sotto i bombardamenti nazisti. E leggendo i nomi dei dispersi vedo tutti Phil Russell, Adrian Johnson, Miriam Hyman, più qualche tedesco o italiano o giapponese. Di nomi arabi, finoggi, ho visto soltanto quello di una giovane donna che si chiamava Shahara Akter Islam).

Continua anche la fandonia dell'Islam «moderato», la commedia della tolleranza, la bugia dell'integrazione, la farsa del pluriculturalismo. Vale a dire delle moschee che esigono e che noi gli costruiamo. Nel corso d' un dibattito sul terrorismo, al consiglio comunale di Firenze lunedì 11 luglio il capogruppo diessino ha dichiarato: «E' ora che anche a Firenze ci sia una moschea». Poi ha detto che la comunità islamica ha esternato da tempo la volontà di costruire una moschea e un centro culturale islamico simili alla moschea e al centro culturale islamico che sorgeranno nella diessina Colle val d'Elsa. Provincia della diessina Siena e del suo filo-diessino Monte dei Paschi, già la banca del Pci e ora dei Ds. Bé, quasi nessuno si è opposto. Il capogruppo della Margherita si è detto addirittura favorevole. Quasi tutti hanno applaudito la proposta di contribuire all' impresa coi soldi del municipio cioé dei cittadini, e l'assessore all'urbanistica ha aggiunto che da un punto di vista urbanistico non ci sono problemi. «Niente di più facile». Episodio dal quale deduci che la città di Dante e Michelangelo e Leonardo, la culla dell' arte e della cultura rinascimentale, sarà presto deturpata e ridicolizzata dalla sua Mecca. Peggio ancora: continua la Political Correctness dei magistrati sempre pronti a mandare in galera me e intanto ad assolvere i figli di Allah. A vietarne l' espulsione, ad annullarne le (rare) condanne pesanti, nonché a tormentare i carabinieri o i poliziotti che con loro gran dispiacere li arrestano. Milano, pomeriggio dell' 8 luglio cioé il giorno dopo la strage di Londra. Il quarantaduenne Mohammed Siliman Sabri Saadi, egiziano e clandestino, viene colto senza biglietto sull' autobus della linea 54. Per effettuare la multa i due controllori lo fanno scendere e scendono con lui. Gli chiedono un documento, lui reagisce ingaggiando una colluttazione. Ne ferisce uno che finirà all'ospedale, scappa perdendo il passaporto, ma la Volante lo ritrova e lo blocca. Nonostante le sue resistenze, dinanzi a una piccola folla lo ammanetta e nello stesso momento ecco passare una signora che tutta stizzita vuole essere ascoltata come testimone se il poverino verrà processato ed accusato di resistenza. I poliziotti le rispondono signora ci lasci lavorare, e allora lei allunga una carta di identità dalla quale risulta che è un magistrato. Sicché un po' imbarazzati ne prendono atto poi portano Mohammed in questura e qui... Bé, invece di portarlo al centro di permanenza temporanea dove (anziché in galera) si mettono i clandestini, lo lasciano andare invitandolo a presentarsi la prossima settimana al processo cui dovrà sottoporsi per resistenza all' arresto e lesioni a pubblico ufficiale. Lui se ne va, scompare (lo vedremo mai più?) e indovina chi è la signora tutta stizzita perché lo avevano ammanettato come vuole la prassi.

La magistrata che sette mesi fa ebbe il suo piccolo momento di celebrità per aver assolto con formula piena tre musulmani accusati di terrorismo internazionale e per aver aggiunto che in Iraq non c'è il terrorismo, c'è la guerriglia, che insomma i tagliateste sono Resistenti. Sì, proprio quella che il vivace leghista Borghezio definì «una vergogna per Milano e per la magistratura». E indovina chi anche oggi la loda, la difende, dichiara ha fatto benissimo. I diessini, i comunisti, e i soliti verdi. Continua anche la panzana che l'Islam è una religione di pace, che il Corano predica la misericordia e l'amore e la pietà. Come se Maometto fosse venuto al mondo con un ramoscello d'ulivo in bocca e fosse morto crocifisso insieme a Gesù. Come se non fosse stato anche lui un tagliateste e anziché orde di soldati con le scimitarre ci avesse lasciato san Matteo e san Marco e san Luca e san Giovanni intenti a scrivere gli Evangeli. Continua anche la frottola dell' Islam vittima dell'Occidente. Come se per quattordici secoli i musulmani non avessero mai torto un capello a nessuno e la Spagna e la Sicilia e il Nord Africa e la Grecia e i Balcani e l'Europa orientale su su fino all' Ucraina e alla Russia le avesse occupate la mia bisnonna valdese. Come se ad arrivare fino a Vienna e a metterla sotto assedio fossero state le suore di sant'Ambrogio e le monache Benedettine. Continua anche la frode o l'illusione dell'Islam Moderato. Con questa, il tentativo di farci credere che il nemico è costituito da un' esigua minoranza e che quella esigua minoranza vive in paesi lontani.

Bé, il nemico non è affatto un'esigua minoranza. E ce l'abbiamo in casa. Ce l'avevamo in casa l'11 settembre del 2001 cioé a New York. Ce l'avevamo in casa l'11 marzo del 2004 cioé a Madrid. Ce l' avevamo in casa l'1, il 2, il 3 settembre del medesimo anno a Beslan dove si divertirono anche a fare il tiro a segno sui bambini che dalla scuola fuggivano terrorizzati, e di bambini ne uccisero centocinquanta. Ce l'avevamo in casa il 7 luglio scorso cioé a Londra dove i kamikaze identificati erano nati e cresciuti. Dove avevano studiato finalmente qualcosa, erano vissuti finalmente in un mondo civile, e dove fino alla sera precedente s'eran divertiti con le partite di calcio o di cricket. Ce l'abbiamo in casa da oltre trent'anni, perdio. Ed è un nemico che a colpo d'occhio non sembra un nemico. Senza la barba, vestito all'occidentale, e secondo i suoi complici in buona o in malafede perfettamente inserito nel nostro sistema sociale. Cioé col permesso di soggiorno. Con l'automobile. Con la famiglia. E pazienza se la famiglia è spesso composta da due o tre mogli, pazienza se la moglie o le mogli le fracassa di botte, pazienza se non di rado uccide la figlia in blue jeans, pazienza se ogni tanto suo figlio stupra la quindicenne bolognese che col fidanzato passeggia nel parco. E' un nemico che trattiamo da amico. Che tuttavia ci odia e ci disprezza con intensità. Tale intensità che verrebbe spontaneo gridargli: se siamo così brutti, così cattivi, così peccaminosi, perché non te ne torni a casa tua? Perché stai qui? Per tagliarci la gola o farci saltare in aria? Un nemico, inoltre, che in nome dell' umanitarismo e dell' asilo politico (ma quale asilo politico, quali motivi politici?) accogliamo a migliaia per volta anche se i Centri di Accoglienza straripano, scoppiano, e non si sa più dove metterlo. Un nemico che in nome della «necessità» (ma quale necessità, la necessità di riempire le strade coi venditori ambulanti e gli spacciatori di droga?) invitiamo anche attraverso l'Olimpo Costituzionale. «Venite, cari, venite. Abbiamo tanto bisogno di voi». Un nemico che per partorire non ha bisogno della procreazione assistita, delle cellule staminali. Il suo tasso di natalità è così alto che secondo il National Intelligence Council alla fine di quest'anno la popolazione musulmana in Eurabia risulterà raddoppiata. Un nemico che le moschee le trasforma in caserme, in campi di addestramento, in centri di reclutamento per i terroristi, e che obbedisce ciecamente all' imam (però guai se arresti l'imam.

Peggio ancora, se qualche agente della Cia te lo toglie dai piedi col tacito consenso dei nostri servizi segreti). Un nemico che in virtù della libera circolazione voluta dal trattato di Schengen scorrazza a suo piacimento per l'Eurabia sicché per andare da Londra a Marsiglia, da Colonia a Milano o viceversa, non deve esibire alcun documento. Può essere un terrorista che si sposta per organizzare o materializzare un massacro, può avere addosso tutto l' esplosivo che vuole: nessuno lo ferma, nessuno lo tocca. (Ma quando in seguito alla strage di Londra la Francia denuncia il trattato di Schengen e perfino la Spagna zapatera pensa di imitarla, l'Italia e gli altri paesi europei rispondono scandalizzati no no). Un nemico che appena installato nelle nostre città o nelle nostre campagne si abbandona alle prepotenze ed esige l' alloggio gratuito o semi-gratuito nonché il voto e la cittadinanza. Tutte cose che ottiene senza difficoltà. Un nemico che protetto dalla Sinistra al Caviale e dalla Destra al Fois Gras e dal Centro al Prosciutto ciancia, appunto, di integrazione e pluriculturalismo ma intanto ci impone le proprie regole e i propri costumi. Che bandisce il maiale dalle mense delle scuole, delle fabbriche, delle prigioni. Che aggredisce la maestra o la preside perché una scolara bene educata ha gentilmente offerto al compagno di classe musulmano la frittella di riso al marsala cioé «col liquore». E attenta a non ripeter l'oltraggio. Un nemico che negli asili vuole abolire anzi abolisce il Presepe e Babbo Natale. Che il crocifisso lo toglie dalle aule scolastiche, lo getta giù dalle finestre degli ospedali, lo definisce «un cadaverino ignudo e messo lì per spaventare i bambini musulmani». (Parlo, s'intende, dell' arabo con la cittadinanza italiana che mi ha denunciato per vilipendio all'Islam. Che contro di me ha scritto un lercio e sgrammaticato libello dove elencando quattro sure del Corano chiede ai suoi correligionari di eliminarmi, che per le sue malefatte non è mai stato o non ancora processato). Un nemico che in Inghilterra s'imbottisce le scarpe di esplosivo onde far saltare in aria il jumbo del volo Parigi-Miami. (Parlo, s'intende, dell'arabo con la cittadinanza inglese che per puro miracolo beccarono sulla American Airlines).

Un nemico che ad Amsterdam uccide Theo van Gogh colpevole di girare documentari sulla schiavitù delle musulmane e che dopo averlo ucciso gli apre il ventre, ci ficca dentro una lettera con la condanna a morte della sua migliore amica. (Parlo, s'intende, dell'arabo con cittadinanza olandese che probabilmente anzi spero verrà condannato all' ergastolo e che al processo ha sibilato alla mamma di Theo: «Io non provo alcuna pietà per lei. Perché lei è un'infedele»). Il nemico, infine, per il quale trovi sempre un magistrato clemente cioé pronto a scarcerarlo. E che i governi eurobei (ndr: non si tratta d'un errore tipografico, voglio proprio dire eurobei non europei) non espellono neanche se è clandestino. Continua anche il discorso sul Dialogo delle due Civiltà. Ed apriti cielo se chiedi qual è l'altra civiltà, cosa c'è di civile in una civiltà che non conosce neanche il significato della parola libertà. Che per libertà, hurryya, intende «emancipazione dalla schiavitù». Che la parola hurryya la coniò soltanto alla fine dell' Ottocento per poter firmare un trattato commerciale. Che nella democrazia vede Satana e la combatte con gli esplosivi, le teste tagliate. Che dei Diritti dell'Uomo da noi tanto strombazzati e verso i musulmani scrupolosamente applicati non vuole neanche sentirne parlare. Infatti rifiuta di sottoscrivere la Carta dei Diritti Umani compilata dall' Onu e la sostituisce con la Carta dei Diritti Umani compilata dalla Conferenza Araba. Apriti cielo anche se chiedi che cosa c' è di civile in una civiltà che tratta le donne come le tratta.

L' Islam è il Corano, cari miei. Comunque e dovunque. E il Corano è incompatibile con la Libertà, è incompatibile con la Democrazia, è incompatibile con i Diritti Umani. E' incompatibile col concetto di civiltà. E visto che ho toccato questo argomento mi ascolti bene, signor giudice di Bergamo che ha voluto incriminarmi per vilipendio all'Islam ma che non ha mai incriminato il mio persecutore per vilipendio al Cristianesimo. Nonché per istigazione all' omicidio. (Il mio). Mi ascolti e mi condanni pure. Mi infligga pure quei tre anni di reclusione che i magistrati italiani non infliggono nemmeno ai terroristi islamici beccati con l' esplosivo in cantina. Il suo processo è inutile. Finché avrò un filo di fiato io ripeterò ciò che ho scritto nei miei libri e che riscrivo qui. Non mi sono mai fatta intimidire, non mi faccio mai intimidire dalle minacce di morte e dalle persecuzioni, dalle denigrazioni, dagli insulti contro i quali Lei si è guardato bene dal proteggermi anche come semplice cittadino. Quindi si figuri se mi faccio intimidire da Lei che mi nega il costituzionale diritto di pensare ed esprimere la mia opinione. Però, prima del processo, una curiosità me la deve togliere. Nella cella mi ci terrà tutta sola o coi carabinieri che lo Stato Italiano mi ha cortesemente imposto affinché non venga ammazzata come Biagi o come Theo van Gogh? Glielo chiedo perché il ministro degli Interni dice che nelle nostre carceri oltre il cinquanta per cento dei detenuti sono musulmani, e suppongo che di quei carabinieri avrei più bisogno in galera che a casa mia. (Quanto a voi, signori del Parlamento, congratulazioni per aver respinto la proposta del ministro della Giustizia: abolire il reato di opinione. E particolari congratulazioni all' onorevole di Alleanza Nazionale che oltre ad aver gestito quel rifiuto ha chiesto di abolire il reato d' apologia del fascismo). Continua anche l'indulgenza che la Chiesa Cattolica (del resto la maggiore sostenitrice del Dialogo) professa nei riguardi dell' Islam. Continua cioé la sua irremovibile irrid