Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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MALAGIUSTIZIOPOLI
PRIMA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’ITALIA DELLA MALAGIUSTIZIA
OSSIA, LA LEGGE DEL PIU’ FORTE,
NON LA FORZA DELLA LEGGE
DISFUNZIONI DEL SISTEMA
CHE COLPISCONO LA COLLETTIVITA’
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli.
Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla.
Le pene siano mirate al risarcimento ed alla rieducazione, da scontare con la confisca dei beni e con lavori socialmente utili. Ai cittadini sia garantita la libera nomina del difensore o l'autodifesa personale, se capace, ovvero il gratuito patrocinio per i poveri. Sia garantita un'indennità e una protezione alla testimonianza.
Sia garantita la scusa solenne e il risarcimento del danno, anche non patrimoniale, al cittadino vittima di offesa o violenza di funzionari pubblici, di ingiusta imputazione, di ingiusta detenzione, di ingiusta condanna, di lungo o ingiusto processo.
Il difensore civico difenda i cittadini da abusi od omissioni amministrative, giudiziarie, sanitarie o di altre materie di interesse pubblico."
di Antonio Giangrande
*****
MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
Dell’ingiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.
LA LEGGE E' UGUALE PER TUTTI ?!?!
LA GIUSTIZIA E' DI QUESTO MONDO ?!?!
"Art. 101 della Costituzione: La Giustizia è amministrata in nome del popolo. I costituenti hanno omesso di indicare che la Giustizia va amministrata non solo in nome, ma anche per conto ed interesse del popolo. Un paradosso: le illegalità, vere o artefatte, sono la fonte indispensabile per il sostentamento del sistema sanzionatorio - repressivo dello Stato. I crimini se non ci sono bisogna inventarli. Una società civile onesta farebbe a meno di Magistrati ed Avvocati, Forze dell'Ordine e Secondini, Cancellieri ed Ufficiali Giudiziari.....oltre che dei partiti dei giudici che della legalità fanno una bandiera e dei giornalisti che degli scandali fanno la loro missione. Sarebbe una iattura per coloro che si fregiano del titolo di Pubblici Ufficiali, con privilegi annessi e connessi. Tutti a casa sarebbe il fallimento erariale. Per questo di illegalità si sparla."
di Antonio Giangrande
MALAGIUSTIZIOPOLI
MALAGIUSTIZIA CHE COLPISCE LA COMUNITA'
SOMMARIO PRIMA PARTE
INTRODUZIONE.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZIALE. LA GIURISPRUDENZA DI SCOPO E IL CONCORSO ESTERNO.
PATTEGGIAMENTO: DA ECONOMIA PROCESSUALE AD AMMISSIONE DI COLPA INDISCUTIBILE.
IL 41 BIS "SPECIALE".
IL PROCESSO SPERIMENTALE...
ASTE GIUDIZIARIE TRUCCATE: LINFA PER LA MAFIA.
GIP E GIORNALISTI COPIA-INCOLLA: PASSACARTE DEI PM.
"PADRI DELLA PATRIA" VITTIME E COMPLICI DELLA NOSTRA ROVINA.
LA SCHIAVITU' DEI MAGISTRATI.
COLPA DEI PROCESSI INDIZIARI...
POLIZIA, POLIZIA PENITENZIARIA E CARABINIERI: ABBIAMO UN PROBLEMA?
LA RETORICA COLPEVOLISTA DELLA GIUSTIZIA MEDIATICA.
ASSOLTI. PERO’…
E’ TUTTA QUESTIONE DI COSCIENZA.
CORRUZIONE A PALAZZO DI GIUSTIZIA. LA CRIMINALITA' DEL GIUDIZIARIO.
I MEDIA ED I LORO PECCATI: DISINFORMAZIONE, CALUNNIA, DIFFAMAZIONE.
PER UNA LETTURA UTILE E CONSAPEVOLE CONTRO L’ITALIA DEI GATTOPARDI.
POLITICA, GIUSTIZIA ED INFORMAZIONE. IN TEMPO DI VOTO SI PALESA L’ITALIETTA DELLE VERGINELLE.
LA REPUBBLICA DELLE MANETTE.
“TUTTI DENTRO, CAZZO!!”
LA LEGGE NON E’ UGUALE PER TUTTI.
ITALIA PAESE DELL’IMMUNITA’ E DELLA CENSURA. PER L’EUROPA INADEMPIENTE SU OGNI NORMA.
STATO DI DIRITTO?
CHI E’ IL POLITICO?
CHI E’ L’AVVOCATO?
DELINQUENTE A CHI? CHI E’ IL MAGISTRATO?
DUE PAROLE SULLA MAFIA. QUELLO CHE LA STAMPA DI REGIME NON DICE.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
2 OTTOBRE 2013. LE GIRAVOLTE DI BERLUSCONI. L’APOTEOSI DELLA VERGOGNA ITALICA.
ITALIA DA VERGOGNA.
ITALIA BARONALE.
CASA ITALIA.
ITALIA. SOLIDARIETA’ TRUCCATA E DI SINISTRA.
LA GUERRA TRA ASSOCIAZIONI ANTIRACKET.
ITALIA: PAESE ZOPPO.
QUANDO I BUONI TRADISCONO.
DUE COSE SU AMNISTIA, INDULTO ED IPOCRISIA.
FACILE DIRE EVASORE FISCALE A TUTTI I TARTASSATI. GIUSTO PER MANTENERE I PARASSITI. LA LOREN E MARADONA.
ANCHE GESU' E' STATO CARCERATO.
ANCHE GLI STUDENTI SONO UNA CASTA.
QUANTO SONO ATTENDIBILI LE COMMISSIONI D’ESAME?
LO STATO CON LICENZA DI TORTURARE ED UCCIDERE.
E LA CHIAMANO GIUSTIZIA. CHE CAZZO DI INDAGINI SONO?
27 NOVEMBRE 2013. LA DECADENZA DI BERLUSCONI.
FIGLI DI QUALCUNO E FIGLI DI NESSUNO.
LA TERRA DEI CACHI, DEI PARLAMENTI ABUSIVI E DELLE LEGGI, PIU’ CHE NULLE: INESISTENTI.
LO SPRECO DI DENARO PUBBLICO PER GLI ESAMI DI AVVOCATO.
SONO BRAVI I COMUNISTI. NIENTE DIRITTO DI DIFESA PER I POVERI.
MENTRE PER LE LOBBIES LE PORTE SONO SEMPRE APERTE.
LA LOBBY DEI DENTISTI E LA MAFIA ODONTOIATRICA.
UNIONE EUROPEA: ITALIA 60 MILIARDI DI CORRUZIONE. CHI CAZZO HA FATTO I CONTI?
FATTI DI CRONACA, DISFATTI DI GIUSTIZIA.
LOTTA ALL’EVASIONE FISCALE E CONTRIBUTIVA. DA QUALE PULPITO ARRIVA LA PREDICA, SE LO STATO E’ IL PRIMO EVASORE IN ITALIA?
L’ITALIA, IL PAESE DEI NO. LA SINDROME DI NIMBY.
L’ITALIA DEI COLPI DI STATO.
PER LA TUTELA DEI DIRITTI DEGLI INDIGENTI. PRO BONO PUBLICO OBBLIGATORIO.
NON VI REGGO PIU’.
BELLA ITALIA, SI’. MA ITALIANI DEL CAZZO!!!
FENOMENOLOGIA RANCOROSA DELL’INGRATITUDINE.
SE NASCI IN ITALIA…
DIRITTO E GIUSTIZIA. I TANTI GRADI DI GIUDIZIO E L’ISTITUTO DELL’INSABBIAMENTO.
GIUSTIZIA DA MATTI E MOSTRI A PRESCINDERE.
L’ANTIMAFIA DEI RECORD.
MAGISTRATI: FACCIAMO QUEL CHE VOGLIAMO!
GUERRA DI TOGHE. ANCHE I MAGISTRATI PIANGONO.
ANCHE BORSELLINO ERA INTERCETTATO.
IL SUD TARTASSATO.
IL NORD EVADE PIU’ DEL SUD.
PATRIA, ORDINE. LEGGE.
RESPONSABILITA' ED IRRESPONSABILITA'.
LA IRRESPONSABILITA' DEI CITTADINI.
LA IRRESPONSABILITA' DELLE ISTITUZIONI.
LA IRRESPONSABILITA' DEGLI AVVOCATI.
LA IRRESPONSABILITA' DEI BUROCRATI.
RESPONSABILITA' ED INSICUREZZA PUBBLICA.
LA CORTE DI CASSAZIONE O DI SCASSAZIONE? ANNULLAMENTI PIU' CHE CONFERME (SOLO IL 14,7%). MAGISTRATI SOTTOSTANTI INCAPACI?
LA LEGGE NON E' UGUALE PER TUTTI. CORTE DI CASSAZIONE INCOERENTE: NON VA D'ACCORDO NEMMENO CON SE STESSA!
CARCERE DURO E' TORTURA, MA NON SI DICE.
RESPONSABILITA', ABUSI DI POTERE E TORTURA DI STATO.
RESPONSABILITA' E TRIBUNALI INSICURI. SPARI IN AULA, FASCICOLI CHE SPARISCONO E TRIBUNALI COLABRODO.
GIARDIELLO, IL KILLER DI MILANO, CRIMINALE O EROE?
MAGISTRATI SENZA VERGOGNA.
PARLIAMO DEI TRIBUNALI DEI MINORI.
G8 E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLO STATO.
AMANDA KNOX, RAFFAELE SOLLECITO E GLI ALTRI. TORTURATI IMPUNEMENTE DALLA GIUSTIZIA.
DETENUTO SUICIDA IN CARCERE? UNO DI MENO!!!
BENI CONFISCATI ALLA MAFIA: FACCIAMO CHIAREZZA! NON E’ COSA LORO!
IL BUSINESS DEI BEI SEQUESTRATI E CONFISCATI.
USURA ED ESTORSIONE: CONVIENE DENUNCIARE? RISPONDONO LORO. ANTONIO GIANGRANDE. PINO MANIACI E MATTEO VIVIANI DE LE IENE PER I FRATELLI CAVALLOTTI E L'ITALGAS. FRANCESCO DIPALO. LUIGI ORSINO. PINO MASCIARI. COSIMO MAGGIORE. LUIGI COPPOLA. LUIGI LEONARDI. TIBERIO BENTIVOGLIO. IGNAZIO CUTRO'.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
E POI PARLIAMO DELL'ILVA.
EQUITALIA. STROZZINI DI STATO.
CONCORSI ED ESAMI. LE PROVE. TRUCCO CON I TEST; TRUCCO CON GLI ELABORATI.
SI STAVA MEGLIO QUANDO SI STAVA PEGGIO.
USURA BANCARIA: I MAGISTRATI STANNO CON LE BANCHE.
IMPUNITA’ ED IMMUNITA’. LA LEGGE NON VALE PER I COLLETTI BIANCHI ED I MAGISTRATI.
SPECULAZIONI: LA LISTA FALCIANI.
GIUDICI SENZA CONDIZIONAMENTI?
A PROPOSITO DI RIMESSIONE DEL PROCESSO ILVA. ISTANZA RESPINTA: DOVE STA LA NOTIZIA?
CALABRIA: LUCI ED OMBRE. COME E' E COME VOGLIONO CHE SIA. "NDRANGHETISTI A 14 ANNI E PER SEMPRE.
INAUGURAZIONE ANNO GIUDIZIARIO: LITURGIA APPARISCENTE, AUTOREFERENZIALE ED AUTORITARIA.
CORRUZIONE NEL CUORE DELLO STATO.
I TRIBUNALI PROPRIETA' DEI GIUDICI.
GIUSTIZIA E VELENI. LA GUERRA TRA MAGISTRATI.
BERLUSCONI ASSOLTO? COLPA DEL GIUDICE!
FASCICOLI CHE SPARISCONO. UFFICIO GIUDIZIARIO: NON C'E' POSTA PER TE!
I GRANDI PROCESSI DEL 2014 ED I GRANDI DUBBI: A PERUGIA, KERCHER; A TARANTO, SCAZZI; A TORINO, ETERNIT; A MILANO, STASI; SENZA DIMENTICARE CUCCHI A ROMA.
SLIDING DOORS A MILANO: CRISAFULLI E BARILLA'. LA VITA CAMBIATA SENZA SAPERE UN CAZZO.
CASO MARO’. ITALIANI POPOLO DI MALEDUCATI, BUGIARDI ED INCOERENTI. DICONO UNA COSA, NE FANNO UN’ALTRA.
SOMMARIO SECONDA PARTE
CHI NON VUOLE LA PRESCRIZIONE?
LA GIUSTIZIA IN MANO ALLA POLIZIA.
L’IMPATTO DEI MEDIA SUL PROCESSO PENALE.
GIORNALI E PROCURE.
STEFANO SURACE E I MONDI DELL’INFORMAZIONE.
FINALMENTE LA TV DIVENTA GARANTISTA.
I MICHELE MISSERI NEL MONDO. LE CONFESSIONI ESTORTE DALLE PROCURE AVALLATE NEI TRIBUNALI.
IL CARCERE UCCIDE: TUTTO MORTE E PSICOFARMACI.
IL PARTITO DELLE MANETTE COL CULO DEGLI ALTRI.
GIUSTIZIA CAROGNA.
L'IMPRESA IMPOSSIBILE DELLA RIPARAZIONE DEL NOCUMENTO GIUDIZIARIO.
LA STORIA DELL’AMNISTIA.
CODICE ANTIMAFIA E MISURE DI PREVENZIONE. PADRI E PADRINI.
L’AQUILA NERA E L’ARMATA BRANCALEONE.
LA BANDA DEGLI ONESTI E MAFIA CAPITALE.
QUANDO IN PRIGIONE CI VANNO I BAMBINI.
QUANDO IN ESILIO CI VANNO I BAMBINI.
I FORCAIOLI SI DELEGITTIMANO DA SOLI.
LA MAFIA DELL'ANTIMAFIA. LA "ROBBA" DEI BOSS? COSA NOSTRA...
CHE AFFARONE I SEQUESTRI E LE AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. L’OMERTA’ DELL’ANTIMAFIA.
LO STATO STA CON I LADRI. OVVIO SONO COLLEGHI!
SACRA ROTA. LA SPELONCA DELLA CORRUZIONE. PROVE FALSE O INVENTATE PER ANNULLARE I MATRIMONI.
LA LEGGE NON AMMETTE IGNORANZA?
LA METASTASI DELLA GIUSTIZIA. IL PROCESSO INDIZIARIO. IL PROCESSO DEL NULLA. UOMO INDIZIATO: UOMO CONDANNATO.
IL CARCERE E LA GUERRA DELLE BOTTE.
IMPRENDITORIA CRIMINOGENA. SEQUESTRI ED AMMINISTRAZIONI GIUDIZIARIE. A CHI CONVIENE?
LA TORTURA DI STATO, L'INTERVENTO DEL PAPA E L'INFERNO DEI RISARCIMENTI.
TI INGINOCCHI AL PM E COLLABORI? SEI PREMIATO!
PROCESSO CRIMINOGENO E CRIMINALITA’ DEL GIUDIZIARIO.
LA CHIAMANO GIUSTIZIA, PARE UNA BARZELLETTA. PROCESSI: POCHE PAGINE DA LEGGERE E POCHI TESTIMONI.
CARCERI A SORPRESA. LE CELLE LISCE E LE ISPEZIONI SENZA PREAVVISO.
INCHIESTA. IL CARCERE, I CARCERATI, I PARENTI DEI CARCERATI ED I RADICALI…….
L’ITALIA COME LA CONCORDIA. LA RESPONSABILITA’ DELLA POLITICA.
ITALIANI. LA CASTA DEI "COGLIONI". FACCIAMO PARLARE CLAUDIO BISIO.
LO STRAPOTERE DEI MAGISTRATI E LA VICINANZA DEI GIUDICI AI PM.
EDITORIA E CENSURA. SARAH SCAZZI ED I CASI DI CRONACA NERA. QUELLO CHE NON SI DEVE DIRE.
LA SINISTRA E LE TOGHE D’ASSALTO
IL BERLUSCONI INVISO DA TUTTI. I GIORNALISTI DI SINISTRA: VOCE DELLA VERITA’? L’ESPRESSO E L’OSSESSIONE PER SILVIO BERLUSCONI.
LA DEMOCRAZIA SOTTO TUTELA: ELEZIONI CON ARRESTO.
BARONATO. EXPO LA NUOVA TANGENTOPOLI. E LA GUERRA TRA TOGHE.
LA COERENZA ED IL BUON ESEMPIO DEI FORCAIOLI.
ISTITUZIONI CONTRO. LA CASSAZIONE ACCUSA LA CORTE COSTITUZIONALE DI INSABBIARE.
ANCHE IL CSM INSABBIA.
I MAGISTRATI FANNO IMPUNEMENTE QUEL CHE CAZZO VOGLIONO!
LATINA OGGI, UCCISO DALLA MALAGIUSTIZIA.
I PALADINI DELL’ANTIMAFIA. SE LI CONOSCI LI EVITI.
MAI DIRE MAFIA. FRANCESCO CAVALLARI E LA SFIDUCIA NEI MAGISTRATI.
I MAGISTRATI E LA SINDROME DELLA MENZOGNA.
LECCE E CAGLIARI: AVVOCATI CON LE PALLE.
GIUSTIZIA ALTERNATA. GIUDICI SENZA PALLE.
GIUSTIZIA A NUMERO CHIUSO.
AVVOCATI CONTRO MAGISTRATI.
CARCERI. LA CELLA ZERO E LE SQUADRETTE.
PARLIAMO DEI CRITERI DI VALUTAZIONE DELLE PROVE E DI CHI LI METTE IN PRATICA PER STABILIRE CHI MERITA E CHI NON MERITA DI DIVENTARE MAGISTRATO, AVVOCATO, NOTAIO, ECC.
LE TOGHE IGNORANTI.
PARLIAMO DELLA CORTE DI CASSAZIONE, MADRE DI TUTTE LE CORTI. UN CASO PER TUTTI. DISCUTIAMO DELLA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
C’E’ UN GIUDICE A BERLINO!
IL PAESE DEL GARANTISMO IMMAGINARIO.
I GIOVANI VERGINELLI ATTRATTI DAL GIUSTIZIALISMO.
MANETTE FACILI ED OMICIDI DI STAMPA E DI STATO: I PROCESSI TRAGICOMICI.
MARIO MORI E LA MAGISTRATURA.
ED IL CITTADINO COME SI DIFENDE? CON I REFERENDUM INUTILI ED INAPPLICATI.
LA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO E LA DINASTIA DEGLI ESPOSITO.
CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CARMINE SCHIAVONE. LA VERA MAFIA SONO I POLITICI, I MAGISTRATI E LE FORZE DELL’ORDINE.
L'ITALIA VISTA DALL'ESTERO.
COSTITUZIONE ITALIANA: COSTITUZIONE MASSONICA.
ED I LIBERALI? SOLO A PAROLE.
POPULISTA A CHI?!?
APOLOGIA DELLA RACCOMANDAZIONE. LA RACCOMANDAZIONE SEMPLIFICA TUTTO.
LA LEGA MASSONICA.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE: TERRORISTICA E GIUDIZIARIA.
GIUSTIZIA. LA RIFORMA IMPOSSIBILE.
MAGISTRATI: IL RISPETTO SI MERITA, NON SI PRETENDE!!
GLI ITALIANI NON HANNO FIDUCIA IN QUESTA GIUSTIZIA.
UN PAESE IN ATTESA DI GIUDIZIO.
RIFORMA DELLA (IN)GIUSTIZIA?
DA QUANTO TEMPO STIAMO ASPETTANDO GIUSTIZIA?
GIUDICI, NON DIVENTATE UNA CASTA.
DA UN SISTEMA DI GIUSTIZIA INGIUSTA AD UN ALTRO.
IN ITALIA, VINCENZO MACCARONE E' INNOCENTE.
TOGHE SCATENATE.
CORTE DI CASSAZIONE: CHI SONO I MAGISTRATI CHE HANNO CONDANNATO SILVIO BERLUSCONI.
CHI E' ANTONIO ESPOSITO.
ANTONIO ESPOSITO COME MARIANO MAFFEI.
PARLIAMO DI FERDINANDO ESPOSITO.
GIUDICE ANTONIO ESPOSITO: IMPARZIALE?
IL PDL LICENZIO' SUO FRATELLO.
PROCESSO MEDIASET. LA CONDANNA DI SILVIO BERLUSCONI.
BERLUSCONI: CONFLITTO INTERESSI; INELEGGIBILITA’; ABITUALITA’ A DELINQUERE. MA IN CHE ITALIA VIVIAMO?
BERLUSCONI E CRAXI: DUE CONDANNATI SENZA PASSAPORTO.
DA ALMIRANTE A CRAXI CHI TOCCA LA SINISTRA MUORE.
BERLUSCONIANI CONTRO ANTIBERLUSCONIANI.
I ROSSI BRINDANO ALLA CONDANNA.
QUANDO IL PCI RICATTO' IL COLLE: GRAZIA ALL'ERGASTOLANO.
PASQUALE CASILLO E BERLUSCONI.
CORRUZIONE: MANETTE A GIUDICI ED AVVOCATI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
SE SCRIVI DI LORO TE LA FANNO PAGARE.
GLI ABUSI DEI GENERALI. SI SALTA DA MAFIA IN MAFIA.
MAGISTRATI. CON LA DESIRE' DIGERONIMO I PANNI SPORCHI SI LAVANO IN FAMIGLIA?!?
PROPOSTA DI LEGGE: L’ISTITUZIONE DEL DIFENSORE CIVICO GIUDIZIARIO.
L’ITALIA DELLE DENUNCE CRETINE.
OBBLIGATORIETA' DELL'AZIONE PENALE: UNA BUFALA. L’ITALIA DELLE DENUNCE INSABBIATE.
LA CASTA PERSEGUITATA ED INETTA. SE SUCCEDE A LORO…FIGURIAMOCI AI POVERI CRISTI.
CONFLITTI INVESTIGATIVI OCCULTI. LE INDAGINI IN MANO A CHI?
ITALIA, CULLA DEL DIRITTO NEGATO. STORIE DI FALLIMENTI.
MEZZO SECOLO DI GIUSTIZIA ITALIANA A STRASBURGO: UN’ECATOMBE.
LO STATO DELLA GIUSTIZIA VISTO DA UN MAGISTRATO.
LA MALAGIUSTIZIA E L’ODIO POLITICO. LA VICENDA DI GIULIO ANDREOTTI.
LA RIMESSIONE DEI PROCESSI PER LEGITTIMO SOSPETTO (SUSPICIONE): UNA NORMA MAI APPLICATA.
ITALIA, TARANTO, AVETRANA: IL CORTOCIRCUITO GIUSTIZIA-INFORMAZIONE. TUTTO QUELLO CHE NON SI OSA DIRE.
LETTERA AL DEPUTATO MAI ELETTO.
DENUNCIA CONTRO UN MAGISTRATO.
SE QUESTA E’ GIUSTIZIA.
SEI IN CARCERE? CREPA!
GIUSTIZIA ADDIO.
LEGGE INGANNO. LEGGE PINTO SUI PROCESSI LUMACA. CORNUTI E MAZZIATI.
RIFORMA FORENSE. AVVOCATURA: ROBA LORO IN PARLAMENTO.
LA MAGISTRATURA E’ FORTE CON I DEBOLI E DEBOLE CON I FORTI.
PARLIAMO DELL’INTIMIDAZIONE DEI MAGISTRATI CHE CAUSA CENSURA ED OMERTA’
PARLIAMO DELLA MAFIA DEGLI AUSILIARI GIUDIZIARI
PARLIAMO DELL’IMMANE NUMERO DI LEGGI
PARLIAMO DELLE SENTENZE STRAVAGANTI
PARLIAMO DEI GIUDICI ONORARI. TANTI ONERI, POCO ONORE. GIUDICI A BASSO ONORARIO.
PARLIAMO DELLA PRESCRIZIONE CAUSATA DAI FANNULLONI
PARLIAMO DELLA MEDIAZIONE IN MANO AGLI AVVOCATI
PARLIAMO DELLE GALERE DA TERZO MONDO
PARLIAMO DELL’IMPUNITA’ DEI POTENTI
PARLIAMO DELLA PRESUNZIONE D’INNOCENZA
PARLIAMO DI INSABBIAMENTI
PARLIAMO DEI TEMPI BIBLICI
PARLIAMO DI SPRECHI, TEMPI E COSTI
PARLIAMO DELLA STRAVAGANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE
PARLIAMO DI GIUSTIZIA NEGATA. NIENTE RISARCIMENTO PER L'INGIUSTA IMPUTAZIONE
PARLIAMO DI «PROCESSO INGIUSTO: TEMPI LUNGHI, ERRORI GIUDIZIARI E INGIUSTE DETENZIONI»
PARLIAMO DI «CREDIBILITÀ DEI MAGISTRATI AI MINIMI TERMINI»
PARLIAMO DI «TROPPE INTERCETTAZIONI, MISURE CAUTELARI, CENSURE E FUGHE DI NOTIZIE IMPUNITE»
PARLIAMO DELL’ALTO NUMERO DI REATI E DELLA LORO IMPUNITA’
PARLIAMO DI RAPPORTO EURISPES: 7 PROCESSI PENALI SU 10 SONO RINVIATI
PARLIAMO DI DURATA: 4-8 ANNI PER IL CIVILE; 4-6 ANNI PER IL PENALE
PARLIAMO DI DATI MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, DIPARTIMENTO PENITENZIARIO. CARCERE: ICONA DELL'INGIUSTIZIA
PARLIAMO DI ABUSI E VIOLENZE SUI DETENUTI, UN DOSSIER INFINITO…….. PARLIAMO DEL RAPPORTO EURISPES. AD OGGI 5 MILIONI CIRCA DI ERRORI GIUDIZIARI E IL 50% DEI RECLUSI VITTIME DI DETENZIONI INGIUSTE
PARLIAMO DI FALSE TESTIMONIANZE
PARLIAMO DI PERIZIE INFONDATE. PARLIAMO DI CTU CIVILE (CONSULENTE TECNICO D’UFFICIO) E DI PERITO PENALE
PARLIAMO DELLA GIUSTIZIA: UNA PIOVRA
PARLIAMO DELL’INETTITUDINE DELLO STATO, CHE CAUSA MORTI INNOCENTI
PARLIAMO DI OTTO ANNI PER SCRIVERE UNA SENTENZA: BOSS MAFIOSI LIBERI
PARLIAMO DI DENUNCE PENALI MAI ISCRITTE NEL REGISTRO GENERALE
PARLIAMO DI MILANO: IL TRIBUNALE CONVOCA TOPOLINO E PAPERINA
PARLIAMO DEI FASCICOLI CHE SPARISCONO
PARLIAMO DEL MINISTERO CHE RISARCISCE GLI AVVOCATI, “STRESS DA MALAGIUSTIZIA”
PARLIAMO DELLA MALAGIUSTIZIA OCCULTA: DI CUI NESSUNO PARLA
PARLIAMO DELLO SFRUTTAMENTO E LAVORO NERO NEI TRIBUNALI
PARLIAMO DELL’USURA E DEI FALLIMENTI TRUCCATI
Cos’è la Legalità: è la conformità alla legge.
Ancora oggi l’etimologia di lex è incerta; i più ricollegano effettivamente lex a legere, ma un’altra teoria la riconduce alla radice indoeuropea legh- (il cui significato è quello di “porre”), dalla quale proviene l’anglosassone lagu e, da qui, l’inglese law.
Nella Grecia antica le leggi sono il simbolo della sovranità popolare. Il loro rispetto è presupposto e garanzia di libertà per il cittadino. Ma la legge greca non è basata, come quella ebraica, su un ordine trascendente; essa è frutto di un patto fra gli uomini, di consuetudini e convenzioni. Per questo è fatta oggetto di una ininterrotta riflessione che si sviluppa dai presocratici ad Aristotele e che culmina nella crisi del V secolo: se la legge non si fonda sulla natura, ma sulla consuetudine, non è assoluta ma relativa come i costumi da cui deriva; dunque non ha valore normativo, e il diritto cede il campo all'arbitrio e alla forza. La relazione che intercorre tra il concetto di legge e il concetto di luogo è insito nell’etimologia del termine greco nomos, che significa pascolo e che, progressivamente, dietro alla necessaria consuetudine di legittimare la spartizione del “pascolo”, ha finito per assumere questo secondo significato: legge. Ma nemein significa anche abitare e nomas è il pastore, colui che abita la legge, oltre che il pascolo; la conosce e la sa abitare. E nemesis è la divinità che si accanisce inevitabilmente su coloro che non sanno abitare la legge.
Da qui il detto antico “qui la legge sono io”. Conflittuale se travalica i confini di detto pascolo. Legge e luogo sono intrinsecamente connessi. Infatti, la nemesi della legge è proprio quella libertà commerciale che esige un’economia globale, che travalica tutti i confini, che considera la terra come un unico grande spazio. Insieme ai paletti di delimitazione degli stati sradica così anche la legge che li abita.
I greci, con Platone, avevano teorizzato l’origine divina del nomos. Obbedire alle leggi della polis significava implicitamente riconoscere il dio (nomizein theos) che si nasconde dietro l’ethos originario.
La conclusione di entrambi i percorsi - quello lungo e quello breve - dovrebbe condurre a definire la politica come scienza anthroponomikè o scienza di amministrare gli esseri umani. Nómos in greco significa "norma", "legge", "convenzione"; vuol dire "pascolo" e nomeus vuol dire "pastore": il procedimento dicotomico sembra condurre lontano dal nómos nel suo primo senso, a far intendere l'antroponomia come l'arte di pascolare gli uomini.
Cicerone adotta l’etimologia di lex da legere, non perché la si legge in quanto scritta, bensì perché deriva dal verbo legere nel significato di “scegliere”.
“Dicitur enim lex a ligando, quia obligat agendum”, Questa etimologia di “legge” si trova all’inizio della celebre esposizione di Tommaso d’Aquino sulla natura della legge, presente nella Summa theologiae.
Da qui il concetto di legge: “la legge è una regola o misura nell’agire, attraverso la quale qualcuno è indotto ad agire o vi è distolto. Legge, infatti, deriva da legare, poiché obbliga ad agire.”
Il termine italiano legge deriva da legem, accusativo del latino lex.
Lex significava originariamente norma, regola di pertinenza religiosa.
Queste regole furono a lungo tramandate a memoria, ma la tradizione orale - che implicava il rischio di travisamenti - fu poi sostituita da quella scritta.
Sono così giunte fino a noi testimonianze preziose come le Tavole Eugubine, una raccolta di disposizioni che riguardavano sacrifici ed altre pratiche di culto dell’antico popolo italico di Iguvium, l’attuale Gubbio.
A Roma, in età repubblicana, vennero promulgate ed esposte pubblicamente le Leggi delle Dodici Tavole, che si riferivano non più solamente a questioni religiose: il termine lex assunse così il valore di norma giuridica che regola la vita e i comportamenti sociali di un popolo.
Sul finire dell’età antica l’imperatore Giustiniano fece raccogliere tutta la tradizione legislativa e giuridica romana nel monumentale Corpus Iuris, la raccolta del diritto, che ha costituito la base della civiltà giuridica occidentale.
Dalla riscoperta del Corpus Iuris sono state costituite circa mille anni fa le Facoltà di Legge - cioè di Giurisprudenza e di Diritto - delle grandi università europee, nelle quali si sono formati i giuristi, ovvero gli uomini di legge di tutta l’Europa medievale e moderna.
La parola legge è divenuta sinonimo di diritto, con il valore di complesso degli ordinamenti giuridici e legislativi di un paese.
In questo senso oggi la Costituzione italiana sancisce che la legge è uguale per tutti, e afferma la necessità per ogni persona di una educazione al rispetto della legalità: una società civile deve fondarsi sul rispetto dei diritti e dei doveri di tutti i cittadini che trovano nelle leggi le loro regole.
Per millenni, tuttavia, il concetto di legge è stato collegato esclusivamente ad ambiti religiosi o sacrali, e per alcuni popoli ancora oggi all’origine delle leggi vi è l’intervento divino.
Pensiamo agli ebrei, per i quali la Legge - la Thorà nella lingua ebraica - è senz’altro la legge divina, non soltanto in riferimento ai Comandamenti consegnati dal Signore a Mosè sul monte Sinai - la legge mosaica - ma in generale a tutta la Bibbia, considerata come manifestazione della volontà divina che regola i comportamenti degli uomini.
Anche i Musulmani osservano una legge - la legge coranica - contenuta in un testo sacro, il Corano, dettato da Dio, Allah, al suo profeta Maometto.
Una legalità fondata sulla giustizia è dunque l’unico possibile fondamento di una ordinata società civile, e anche una delle condizioni fondamentali perché ci sia una reale difesa della libertà dei cittadini di ogni nazione.
Dura lex, sed lex: la frase, tradotta dal latino letteralmente, significa dura legge, ma legge. Più propriamente in italiano: "La legge è dura, ma è (sempre) legge" (e quindi va rispettata comunque).
Chi vive ai margini della legge, o diventa fuorilegge, si pone al di fuori della convivenza civile e va sottoposto ai rigori della legge, cioè a una giusta punizione: in nome della legge è proprio la formula con cui i tutori dell’ordine intimano ai cittadini di obbedire agli ordini dell’autorità, emanati secondo giustizia.
Il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, "diritto di natura") è il termine generale che racchiude quelle dottrine filosofico-giuridiche che affermano l'esistenza di un diritto, cioè di un insieme di norme di comportamento dedotte dalla "natura" e conoscibili dall'essere umano.
Il giusnaturalismo si contrappone al cosiddetto positivismo giuridico basato sul diritto positivo, inteso quest'ultimo come corpus legislativo creato da una comunità umana nel corso della sua evoluzione storica. Questa contrapposizione è stata efficacemente definita "dualismo".
Secondo la formulazione di Grozio e dei teorici detti razionalisti del giusnaturalismo, che ripresero il pensiero di Tommaso d’Aquino, attualizzandolo, ogni essere umano (definibile oggi anche come ogni entità biologica in cui il patrimonio genetico non sia quello di alcun altro animale se non di quello detto appartenente alla specie umana), pur in presenza dello stato e del diritto positivo ovvero civile, resta titolare di diritti naturali, quali il diritto alla vita, ecc. , diritti inalienabili che non possono essere modificati dalle leggi. Questi diritti naturali sono tali perché ‘razionalmente giusti’, ma non sono istituiti per diritto divino; anzi, dato Dio come esistente, Dio li riconosce come diritti proprio in quanto corrispondenti alla “ragione” connessa al libero arbitrio da Dio stesso donato.
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MALAGIUSTIZIA, OSSIA GIUSTIZIA NON UGUALE PER TUTTI.
Difficilmente si troverà nel mondo editoriale un’opera come questa: senza peli sulla lingua (anzi sulla tastiera). Nell’affrontare il tema della Giustizia non si può non parlare dei tarli che la divorano e che generano Ingiustizia e Malagiustizia.
La MALAGIUSTIZIA, oggetto della presente opera, è la disfunzione ed i disservizi dell’amministrazione della Giustizia che colpiscono la comunità: sprechi, disservizi, insofferenza che provocano sfiducia verso le istituzioni ed il sistema. Quindi si può dire che la Malagiustizia è la causa dell’Ingiustizia.
L’INGIUSTIZIA è l’effetto che la malagiustizia opera sui cittadini: ossia le pene, i sacrifici e le sofferenze patite dai singoli per colpa dell’inefficienza del Sistema sorretto e corrotto da massonerie, lobbies e caste autoreferenziali attinti da spirito di protagonismo e con delirio di onnipotenza: giudicanti, ingiudicati, insomma, CHE NON PAGHERANNO MAI PER I LORO ERRORI e per questo, sostenuti dalla loro claque in Parlamento, a loro si permette di non essere uguali, come tutti, di fronte alla legge!!!
Dell’ingiustizia si parla in un’inchiesta ed in un libro a parte. Dei legulei, ossia degli operatori della giustizia, si parla dettagliatamente anche di loro in altra inchiesta ed in altro libro.
PRIMA PARTE
INTRODUZIONE
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che ne disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
Giustizia, ci sono giudici che scrivono l'opposto di quanto c'è negli atti. In alcuni procedimenti i giudici hanno scritto in ordinanze di archiviazione o di condanna motivazioni non rispondenti ai verbali. Il caso Yara, scrive Carlo Carpi, Giovedì, 19 luglio 2018, su "Affari Italiani". Negli ultimi mesi in maniera disordinata, casuale ma altrettanto allarmante per un pubblico televisivo dall’occhio attento si sono diramate nei principali programmi di intrattenimento notizie secondo le quali in procedimenti giudiziari di importanza nazionale e pertanto oggetto di grande attenzione massmediatica i giudici abbiano scritto in ordinanze di archiviazione o ancora peggio in sentenze di condanna motivazioni non rispondenti ai verbali di Polizia Giudiziaria o addirittura in esplicito contrasto con essi. Ebbene si sa che nelle aule di giustizia non sempre le parti in causa riescano a far emergere la verità nel senso astratto del termine, ma non può e soprattutto non deve passare sotto silenzio il fatto che dei giudici di questa Repubblica democratica seduti comodamente nelle proprie poltrone e con tutto il tempo necessario ai fini di una valutazione attenta degli atti possano permettersi l’arbitrio di scrivere esattamente il contrario di quanto emerge dai verbali di indagine e di udienza e a maggior ragione lungo tutti i tre gradi di giudizio a meno che questi non vengano sconfessati da ulteriori indagini e approfondimenti che comunque dovrebbero per lo meno risultare negli atti stessi del giudizio o di procedimenti penali a carico di quegli ufficiali di P.G. per i reati di falso e abuso di ufficio. Come non ricordare la puntata del programma “le Iene” andato in onda il 5 Novembre 2017 su Italia 1 dove si evidenziò come nell’ordinanza di archiviazione del GIP del Tribunale di Siena in merito al presunto suicidio di David Rossi, responsabile relazioni esterne del Monte dei Paschi di Siena, veniva indicata come sentita in atti la segretaria del Presidente Massari, l’ultima persona ad incontrare il manager volato dalla finestra del suo ufficio come mostrato dalle telecamere di sorveglianza, e di come dalla sua testimonianza non emergessero fatti di particolare interesse. Ebbene gli inviati delle Iene, dopo aver mostrato copia dell’ordinanza in diretta, in presenza della figlia del Rossi, dimostrarono come in realtà la donna indicata dal GIP quale teste non venne mai chiamata a testimoniare e che quindi negli atti citati non poteva esserci traccia di tali verbali. E ancora il 10 Dicembre 2017 scorso su Quarto Grado, trasmissione Mediaset specializzata nella cronaca giudiziaria, a proposito del caso Bossetti si diede spazio alle dichiarazioni del legale difensore dell’imputato secondo il quale la Corte di Appello di Brescia confermando la condanna di primo grado per omicidio della piccola Yara avrebbe scritto in sentenza che “la difesa quanto l’accusa concorda che Guarinoni sia il padre naturale di Bossetti”, aspetto che la difesa ha smentito tassativamente essere presente in atti. Non di minore rilevanza l’editoriale del giornalista indipendente Marco Delpino trasmesso il 6 Febbraio scorso su STV, emittente ligure, e successivamente condiviso su Facebook con migliaia di visualizzazioni, all’attenzione del quale vennero indirizzate segnalazioni di molti altri procedimenti penali, forse meno eclatanti per il grande pubblico, ma sicuramente significativi per le persone che ne sono state protagoniste, con tanto di ordinanze e di sentenze riconducibili ai Tribunali di Genova, Milano e Brescia con motivazione in palese contrasto, anche nel senso letterale del termine, con le risultanze dei verbali di udienza e di P.G. Siamo di fronte a delle sentenze scritte con motivazione esplicitamente falsa? Oppure scegliamo una linea più garantista concedendo il beneficio della clamorosa svista? Una cosa è certa: nelle aule di giustizia quanto emerge non è assolutamente accettabile, soprattutto per i terribili effetti che tali errori commessi, a prescindere dal dolo o dalla colpa che sia, abbiano conseguenze nefaste sui condannati, in molti casi anche in stato di detenzione, sulle loro famiglie e più in generale sulla società civile ed economica nel suo complesso. Ma un aspetto che emerge ancora più violentemente dalle sentenze citate da Marco Delpino di come anche in Cassazione vi sia una sezione, nello specifico la VII°, che come mansione dovrebbe unicamente vagliare l’ammissibilità dei ricorsi proposti dagli imputati, ricordiamolo innocenti fino a sentenza passata in giudicato, che violando la procedura penale e i quadri tabellari del Consiglio Superiore della Magistratura e della stessa Cassazione, esprime condanne si sottolinea SENZA la presenza del legale difensore dell’imputato, in quanto camere di consiglio non partecipate, e SENZA MOTIVAZIONE. In altri casi come dalla documentazione sopra citata si evince come anche altre sezioni della Suprema Corte abbiano espresso sentenze di condanna senza uno stralcio di motivazione e questo in manifesto contrasto con quanto espresso dal Codice di Procedura Penale, dalla Costituzione e dalla Carte dei Diritti dell’Uomo secondo le quali nessun uomo può essere condannato senza motivazione, senza la presenza di un legale difensore e per delle ipotesi di reato non punibili secondo la Legge oppure in analogia ai casi giudiziari trattati dalla Corte di Appello di Genova, Milano e Brescia con motivazione letteralmente contraria agli atti citati. L’Italia è ancora la patria del Diritto? E ancora, visto che si predica la doverosa ospitalità ai rifugiati politici e a coloro che scappano dalle persecuzioni, siamo un Paese che può vantarsi in quanto asseritamente Civile di dare il buon esempio a quelli che vengono bollati come incivili e inumani?
La svolta di Grillo: «Aboliamo il carcere!» «La pena non è mai stata la risposta adeguata al crimine, anzi finisce per fabbricarlo», scrive il 14 luglio 2018 "Il Dubbio".
IL POST DEL FONDATORE DEL MOVIMENTO CINQUE STELLE. "L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone parla chiaro, dalla fine del 2015 ad oggi il numero dei detenuti in Italia è cresciuto davvero tanto, ben 6.098 in più. Il sovraffollamento è pari al 115,2%. (…) Rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla. (…) Le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. (…) Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. (…) La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. (…) La cosa importante (…) sarebbe cercare misure alternative al carcere. (…) Il sistema punitivo che stiamo adottando è antico come il mondo, ma soprattutto non funziona. Non funziona e mi pare che sia sotto gli occhi di tutti. Senza fare molta retorica, mi pare che si rubi, si stupri e si uccida ancora. Sono passati millenni, faraoni, re e interi imperi sono scomparsi, eppure in fondo in fondo parliamo sempre delle stesse cose. Diamo qualche numero. L’ultimo rapporto dell’Associazione Antigone parla chiaro, dalla fine del 2015 ad oggi il numero dei detenuti in Italia è cresciuto davvero tanto, ben 6.098 in più. Il sovraffollamento è pari al 115,2%. Inoltre molte sezioni di molti carceri non vengono utilizzate. Ma il vero problema è un altro, sono i recidivi. Ad oggi sono un numero incredibile. Su circa 58.000 detenuti, solo il 37% non avevano mai commesso altri crimini, per il restante 63% le mura dello Stato erano già note, addirittura il 13% di loro (più di 7000 persone) avevano dalle 5 alle 9 precedenti carcerazioni. Di tutti i detenuti, circa il 35% sono in custodia cautelare. Cioè quasi 20.000 persone. Aumentano anche quelli che vengono arrestati preventivamente ed è ancora in attesa di una sentenza di primo grado. Oggi sono più di 10.000 persone. Sono numeri incredibili, allarmanti. Inoltre rinchiudere una persona per anni dentro una stanza, oltre ad essere una tortura senza senso, non porta a nulla e non capisco quali risultati dovrebbe por- tare. Oggi è chiaro. Se non fosse chiaro abbiamo i dati a dircelo. È chiaro che servono mezzi alternativi. E non sono l’unico che sta cercando di far capire che il sistema non va così come è costruito. Nils Christie è un criminologo norvegese e ha dedicato gran parte del suo impegno accademico a far emergere le distorsioni del sistema penitenziario. Sono pienamente d’accordo con lui quando dice che le carceri sono una struttura progettata per infliggere legalmente dolore, uno strumento di controllo sociale e un vero e proprio business. Un business fantastico, perché continua a crescere e se si ferma, non c’è che fare una nuova legge e creare altri criminali. Per prima cosa dobbiamo domandarci quale significato ha il crimine, dobbiamo capire che tipo di fenomeno è. Ma la domanda più scomoda è un’altra. Il crimine esiste? Sicuramente esistono degli atti disumani, nessuno lo mette in dubbio, ma se analizziamo bene cosa intendiamo per crimine scopriamo che c’è dell’altro. Per esempio proprio Nils Christie negli anni ’ 50 compie una ricerca sulle guardie dei campi di concentramento norvegesi. Quegli uomini che sotto l’occupazione nazista stavano facendo il loro dovere, qualche giorno dopo diventano dei criminali. Ma come percepivano, quelle guardie, le loro azioni? Come consideravano i propri atti mentre li compivano? Erano crimini, secondo loro? La risposta è no. Il crimine è difficile da definire esattamente. Non è qualcosa che esiste in natura, qualcosa di dato, finito, di certo. È qualcosa che esiste nelle nostre menti e con il tempo cambia assumendo nuove forme e colori. Dobbiamo capire che lo stato delle nostre prigioni non solo è il prodotto del crimine, ma dello stato generale della cultura di un paese. Dobbiamo tendere a un mondo a carceri zero, o almeno, al minimo possibile. Come il Canada che con il welfare ha dimostrato come sia possibile limitare il ricorso alla detenzione e indirizzare il denaro verso lo stato sociale invece che verso lo stato penale. Quindi in questa prospettiva, la soluzione penale diventa una delle possibilità, non più la sola. La punizione diventa una, ma solo una, tra diverse opzioni. La pena non è mai la riposta adeguata al crimine per la sua soluzione; anzi si limita a fabbricarlo. La prigione, il più delle volte, è dannosa per gli individui. La cosa importante nella politica carceraria di un qualsiasi paese civile sarebbe cercare misure alternative al carcere e molto spesso questo significa accompagnarli verso uno standard di vita accettabile: provare a cercare un’abitazione, cercare alternative nei periodi di disoccupazione, rieducare, reintegrare, far sì che si possa ricreare una vita. Per davvero". DAL BLOG DI BEPPE GRILLO
Ingroia: «Condivido anch’io, spero sia la svolta per il M5s e il Paese». L’ex pm Antonio Ingroia: «Beppe non finisce mai di stupire, ma io la penso come lui. La cella è criminogena e ci finiscono solo gli emarginati», scriv e Errico Novi il 14 luglio 2018 su "Il Dubbio". Sorpresa doppia. «Saluto positivamente le parole di Grillo. Beppe non finisce mai di sorprendere, ma spero possa indurre una svolta positiva per il Paese nel dibattito sul carcere». Anche Antonio Ingroia sogna un mondo senza detenuti, o spera quanto meno in un maggiore ricorso alle misure alternative? «Sarà sorpreso lei, io queste cose le penso da sempre».
Mi scusi, avvocato Ingroia, lei ha alle spalle un’attività da pubblico ministero implacabile: è davvero contro la detenzione?
«In un mondo ideale non dovrebbe esserci il carcere. Non dovrebbero esserci neppure i reati, in realtà. Ma certo quanto dice Grillo a proposito della percentuale di recidiva per chi sconta periodi di reclusione dovrebbe far riflettere: la soluzione afflittiva è fallimentare, si dovrebbe lasciare più spazio alle misure alternative. Soprattutto, ci si dovrebbe ricordare che la stragrande maggioranza di chi commette reati proviene da condizioni di disagio e che la detenzione non è certo la cura di tali marginalità. Le malattie sociali, con la pena detentiva, si incancreniscono e rendono probabile appunto che la persona, in carcere, ci finisca di nuovo. Solo, vorrei ci si ricordasse di una distinzione».
Quale sarebbe?
«Da una parte c’è la tendenza a commettere reati determinata dal disagio, dall’altra non si deve per questo abbassare la guardia e concedere l’impunità né di fronte a quelle parti delle classi dirigenti che si rendono responsabili di comportamenti gravi, né ovviamente dinanzi al fenomeno mafioso, la forma più pericolosa di criminalità che ci troviamo a dover fronteggiare in Italia. Ma da noi la percentuale di corrotti e di mafiosi, negli istituti di pena, è bassissima…»
Il carcere è criminogeno?
«Sì. Proprio in virtù di quell’aggravarsi della marginalizzazione di cui ho appena detto.
Grillo vuole superare il carcere. Ingroia pure. Non è che l’idea di fermare la riforma Orlando perché l’opinione pubblica l’avrebbe maldigerita è senza fondamento? Che insomma gli italiani vogliono più misure alternative?
«Difficile dirlo. L’opinione pubblica oscilla, in simili valutazioni, a seconda dell’impatto emotivo suscitato dai fatti d cronaca. Ma è anche vero che un ruolo negativo è spesso svolto dall’informazione, che segnala con eccessiva enfasi i rari casi di persone evase dai domiciliari o dal regimi di semilibertà. Se questi temi venissero affrontati con più serietà anche dai media, l’atteggiamento generale dei cittadini sarebbe più sereno. Ci sarebbero posizioni meno esasperate. Ma da anni nel nostro Paese ogni dibattito è sopra le righe».
Grillo farà cambiare idea al M5s sulla riforma, riuscirà a sbloccarla?
«Va intanto salutata positivamente la sua uscita, che mette in primo piano principi e esigenze a cui si dovrebbe guardare sempre. Certo, un mondo senza carcere è appunto ideale. Ma sugli ideali bisogna sempre tener fisso lo sguardo, in modo che il nostro agire reale possa andare nella giusta direzione. Il carcere è di certo un luogo poco umano. Ripeto: da un messaggio così significativo non si deve trarre la possibilità di un attenuarsi della risposta a condotte criminali per nulla legate al disagio o alla marginalità. Ma io confido che le parole di Beppe Grillo possano stimolare un dibattito positivo, non solo nei cinquestelle e nella maggioranza ma in tutto il Paese».
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie. Il Potere ti impone: subisci e taci…e noi, coglioni, subiamo la divisione per non poterci ribellare.
Il limite del tempo e dell'uomo, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 28/12/2017, su "Il Giornale". «Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l'una di non saper nulla, l'altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte». Un pensiero di Leopardi dallo Zibaldone. Inadatto al clima natalizio, ma terribilmente vero. Forse la forza di un pensiero così chiaro dissolve le nostre illusioni, ma ci impegna a dimenticarlo, per fingere che la nostra vita abbia un senso. Perché vivere altrimenti? L'insensatezza della nostra azione si misura con la brevità del tempo. Da tale pensiero è sfiorato anche Dante, che non dubitava di Dio, ma misurava il nostro limite rispetto al tempo: «Se tu riguardi Luni e Urbisaglia/come sono ite e come se ne vanno/di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia,/udir come le schiatte si disfanno/non ti parrà nuova cosa né forte,/poscia che le cittadi termine hanno./Le vostre cose tutte hanno lor morte,/sì come voi; ma celasi in alcuna/che dura molto, e le vite son corte». Se tutto finisce, perché noi dovremmo sopravviverci? E se ci fosse qualcosa dopo la morte, che limite dovremmo porvi? I nati e i morti, prima di Cristo, gli egizi e i greci, con le loro religioni, che spazio dovrebbero avere, nell'aldilà che non potevano presumere? La vita dopo la morte toccherebbe anche agli inconsapevoli? Con Dante e Leopardi, all'inferno incontreremo anche Marziale e Catullo? O la vita oltre la morte non sono già, come per Leopardi, i loro versi?
Una locuzione latina, un motto degli antichi romani, è: dividi et impera! Espediente fatto proprio dal Potere contemporaneo, dispotico e numericamente modesto, per controllare un popolo, provocando rivalità e fomentando discordie.
Comunisti, e media a loro asserviti, istigano le rivalità.
Dove loro vedono donne o uomini, io vedo persone con lo stesso problema.
Dove loro vedono lgbti o eterosessuali, io vedo amanti con lo stesso problema.
Dove loro vedono bellezza o bruttezza, io vedo qualcosa che invecchierà con lo stesso problema.
Dove loro vedono madri o padri, io vedo genitori con lo stesso problema.
Dove loro vedono comunisti o fascisti, io vedo elettori con lo stesso problema.
Dove loro vedono settentrionali o meridionali, io vedo cittadini italiani con lo stesso problema.
Dove loro vedono interisti o napoletani, io vedo tifosi con lo stesso problema.
Dove loro vedono ricchi o poveri, io vedo contribuenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono immigrati o indigeni, io vedo residenti con lo stesso problema.
Dove loro vedono pelli bianche o nere, io vedo individui con lo stesso problema.
Dove loro vedono cristiani o mussulmani, io vedo gente che nasce senza volerlo, muore senza volerlo e vive una vita di prese per il culo.
Dove loro vedono colti od analfabeti, io vedo discultura ed oscurantismo, ossia ignoranti con lo stesso problema.
Dove loro vedono grandi menti o grandi cazzi, io vedo geni o cazzoni con lo stesso problema.
Gattopardismo. Vocabolario on line Treccani. Gattopardismo s. m. (anche, meno comunem., gattopardite s. f.). – Nel linguaggio letterario e giornalistico, l’atteggiamento (tradizionalmente definito come trasformismo) proprio di chi, avendo fatto parte del ceto dominante o agiato in un precedente regime, si adatta a un nuova situazione politica, sociale o economica, simulando d’esserne promotore o fautore, per poter conservare il proprio potere e i privilegi della propria classe. Il termine, così come la concezione e la prassi che con esso vengono espresse, è fondato sull’affermazione paradossale che «tutto deve cambiare perché tutto resti come prima», che è l’adattamento più diffuso con cui viene citato il passo che nel romanzo Il Gattopardo (v. la voce prec.) si legge testualmente in questa forma «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi» (chi pronuncia la frase non è però il principe di Salina ma suo nipote Tancredi).
Se questa è democrazia…
I nostri politici sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti.
I liberali sono una parte politica atea e senza ideologia. Credono solo nella libertà, il loro principio fondante ed unico, che vieta il necessario e permette tutto a tutti, consentendo ai poveri, se capaci, di diventare ricchi. Io sono un liberale ed i liberali, sin dall’avvento del socialismo, sono mal tollerati perché contro lobbies e caste di incapaci. Con loro si avrebbe la meritocrazia, ma sono osteggiati dai giornalisti che ne inibiscono la visibilità.
I popolari (o populisti) sono la maggiore forza politica fondata sull’ipocrisia e sulle confessioni religiose. Vietano tutto, ma, allo stesso tempo, perdonano tutto, permettendo, di fatto, tutto a tutti. Sono l’emblema del gattopardismo. Con loro non cambia mai niente. Loro sono l’emblema del familismo, della raccomandazione e della corruzione, forte merce di scambio alle elezioni. Si infiltrano spesso in altre fazioni politiche impedendone le loro peculiari politiche ed agevolano il voltagabbanesimo.
I socialisti (fascisti e derivati; comunisti e derivati) sono una forza politica ideologica e confessionale di natura scissionista e frammentista e falsamente moralista, a carattere demagogico ed ipocrita. Cattivi, invidiosi e vendicativi. La loro confessione, più che ideologia, si fonda sul lavoro, sulle tasse e sul fisco. Rappresenterebbe la classe sociale meno abbiente. Illude i poveri di volerli aiutare, carpendone i voti fiduciari, ma, di fatto, impedisce loro la scalata sociale, livellando in basso la società civile, verso un progressivo decadimento, in quanto vieta tutto a tutti, condanna tutto e tutti, tranne a se stessi. Si caratterizzano dalla abnorme produzione normativa di divieti e sanzioni, allargando in modo spropositato il tema della legalità, e dal monopolio culturale. Con loro cambierebbe in peggio, in quanto inibiscono ogni iniziativa economica e culturale, perché, senza volerlo si vivrebbe nell’illegalità, ignorando, senza colpa, un loro dettato legislativo, incorrendo in inevitabili sanzioni, poste a sostentare il parassitismo statale con la prolificazione di enti e organi di controllo e con l’allargamento dell’apparato amministrativo pubblico. L’idea socialista ha infestato le politiche comunitarie europee.
Per il poltronificio l’ortodossia ideologica ha ceduto alla promiscuità ed ha partorito un sistema spurio e depravato, producendo immobilismo, oppressione fiscale, corruzione e raccomandazione, giustizialismo ed odio/razzismo territoriale.
La gente non va a votare perché il giornalismo prezzolato e raccomandato propaganda i vecchi tromboni e la vecchia politica, impedendo la visibilità alle nuove idee progressiste. La Stampa e la tv nasconde l’odio della gente verso questi politici. Propagandano come democratica l’elezione di un Parlamento votato dalla metà degli elettori Ed un terzo di questo Parlamento è formato da un movimento di protesta. Quindi avremo un Governo di amministratori (e non di governanti) che rappresenta solo la promiscuità, e la loro riconoscente parte amicale, ed estremamente minoritaria.
Se questa è democraziaQuesto non lo dico io…Giorgio Gaber: In un tempo senza ideali nè utopia, dove l'unica salvezza è un'onorevole follia...Testo Destra-Sinistra - 1995/1996
Le parole, definiscono il mondo, se non ci fossero le parole, non avemmo la possibilità di parlare, di niente. Ma il mondo gira, e le parole stanno ferme, le parole si logorano invecchiano, perdono di senso, e tutti noi continuiamo ad usarle, senza accorgerci di parlare, di niente.
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa è nostra
è evidente che la gente è poco seria
quando parla di sinistra o destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Fare il bagno nella vasca è di destra
far la doccia invece è di sinistra
un pacchetto di Marlboro è di destra
di contrabbando è di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una bella minestrina è di destra
il minestrone è sempre di sinistra
quasi tutte le canzoni son di destra
se annoiano son di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Le scarpette da ginnastica o da tennis
hanno ancora un gusto un po’ di destra
ma portarle tutte sporche e un po’ slacciate
è da scemi più che di sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
I blue-jeans che sono un segno di sinistra
con la giacca vanno verso destra
il concerto nello stadio è di sinistra
i prezzi sono un po’ di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La patata per natura è di sinistra
spappolata nel purè è di destra
la pisciata in compagnia é di sinistra
il cesso é sempre in fondo a destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La piscina bella azzurra e trasparente
è evidente che sia un po’ di destra
mentre i fiumi tutti i laghi e anche il mare
sono di merda più che sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è la passione l’ossessione della tua diversità
che al momento dove è andata non si sa
dove non si sa dove non si sa.
Io direi che il culatello è di destra
la mortadella è di sinistra
se la cioccolata svizzera é di destra
la nutella é ancora di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La tangente per natura è di destra
col consenso di chi sta a sinistra
non si sa se la fortuna sia di destra
la sfiga è sempre di sinistra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Il saluto vigoroso a pugno chiuso
è un antico gesto di sinistra
quello un po’ degli anni '20 un po’ romano
è da stronzi oltre che di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
L’ideologia, l’ideologia
malgrado tutto credo ancora che ci sia
è il continuare ad affermare un pensiero e il suo perché
con la scusa di un contrasto che non c’è
se c'é chissà dov'è se c'é chissà dov'é.
Canticchiar con la chitarra è di sinistra
con il karaoke è di destra
I collant son quasi sempre di sinistra
il reggicalze é più che mai di destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
La risposta delle masse è di sinistra
con un lieve cedimento a destra
Son sicuro che il bastardo è di sinistra
il figlio di puttana è a destra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Una donna emancipata è di sinistra
riservata è già un po’ più di destra
ma un figone resta sempre un’attrazione
che va bene per sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Tutti noi ce la prendiamo con la storia
ma io dico che la colpa é nostra
é evidente che la gente é poco seria
quando parla di sinistra o destra.
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Ma cos'é la destra cos'é la sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Destra sinistra
Basta!
Dall'album E Pensare Che C'era Il Pensiero.
E comunque non siamo i soli a dirlo…Rino Gaetano Nuntereggae più, 1978.
Nuntereggae più
Abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè con le canzoni
senza fatti e soluzioni
la castità (NUNTEREGGAEPIU')
la verginità (NUNTEREGGAEPIU')
la sposa in bianco, il maschio forte
i ministri puliti, i buffoni di corte
ladri di polli
super pensioni (NUNTEREGGAEPIU')
ladri di stato e stupratori
il grasso ventre dei commendatori
diete politicizzate
evasori legalizzati (NUNTEREGGAEPIU')
auto blu
sangue blu
cieli blu
amore blu
rock and blues
NUNTEREGGAEPIU'
Eja alalà (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi (NUNTEREGGAEPIU')
dc dc (NUNTEREGGAEPIU')
pci psi pli pri
dc dc dc dc
Cazzaniga (NUNTEREGGAEPIU')
Avvocato Agnelli, Umberto Agnelli
Susanna Agnelli, Monti, Pirelli
dribbla Causio che passa a Tardelli
Musiello, Antognoni, Zaccarelli (NUNTEREGGAEPIU')
Gianni Brera (NUNTEREGGAEPIU')
Bearzot (NUNTEREGGAEPIU')
Monzon, Panatta, Rivera, D'Ambrosio
Lauda, Thoeni, Maurizio Costanzo, Mike Bongiorno
Villaggio, Raffa, Guccini
onorevole eccellenza, cavaliere senatore
nobildonna, eminenza, monsignore
vossia, cherie, mon amour
NUNTEREGGAEPIU'
Immunità parlamentare (NUNTEREGGAEPIU')
abbasso e alè
il numero 5 sta in panchina
s'è alzato male stamattina
mi sia consentito dire (NUNTEREGGAEPIU')
il nostro è un partito serio
disponibile al confronto
nella misura in cui
alternativo
aliena ogni compromess
ahi lo stress
Freud e il sess
è tutto un cess
ci sarà la ress
se quest'estate andremo al mare
solo i soldi e tanto amore
e vivremo nel terrore che ci rubino l'argenteria
è più prosa che poesia
dove sei tu? non m'ami più?
dove sei tu? io voglio tu
soltanto tu dove sei tu?
NUNTEREGGAEPIU'
Uè paisà (NUNTEREGGAEPIU')
il bricolage (NUNTEREGGAEPIU')
il quindici-diciotto
il prosciutto cotto
il quarantotto
il sessantotto
le pitrentotto
sulla spiaggia di Capocotta
(Cartier Cardin Gucci)
Portobello e illusioni
lotteria trecento milioni
mentre il popolo si gratta
a dama c'è chi fa la patta
a settemezzo c'ho la matta
mentre vedo tanta gente
che non c'ha l'acqua corrente
non c'ha niente
ma chi me sente
ma chi me sente
e allora amore mio ti amo
che bella sei
vali per sei
ci giurerei
ma è meglio lei
che bella sei
che bella lei
ci giurerei
sei meglio tu
che bella sei
che bella sei
NUNTEREGGAEPIU'
L’astensione al voto non basta. Come la protesta non può essere delegata ad una accozzaglia improvvisata ed impreparata. Bisogna fare tabula rasa dei vecchi principi catto comunisti, filo massonici-mafiosi.
Noi siamo un unicum con i medesimi problemi, che noi stessi, conoscendoli, possiamo risolvere. In caso contrario un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Ed io non sarò tra quei coglioni che voteranno dei coglioni.
La legalità è un comportamento conforme alla legge. Legalità e legge sono facce della stessa medaglia.
Nei regimi liberali l’azione normativa per intervento statale, per regolare i rapporti tra Stato e cittadino ed i rapporti tra cittadini, è limitata. Si lascia spazio all’evolvere naturale delle cose. La devianza è un’eccezione, solo se dannosa per l'equilibrio sociale.
Nei regimi socialisti/comunisti/populisti l’intervento statale è inflazionato da miriadi di leggi, oscure e sconosciute, che regolano ogni minimo aspetto della vita dell’individuo, che non è più singolo, ma è massa. Il cittadino diventa numero di pratica amministrativa, di cartella medica, di fascicolo giudiziario. Laddove tutti si sentono onesti ed occupano i posti che stanno dalla parte della ragione, c’è sempre quello che si sente più onesto degli altri, e ne limita gli spazi. In nome di una presunta ragion di Stato si erogano miriadi di norme sanzionatrici limitatrici di libertà, spesso contrastati, tra loro e tra le loro interpretazioni giurisprudenziali. Nel coacervo marasma normativo è impossibile conformarsi, per ignoranza o per necessità. Ne è eccezione l'indole. Addirittura il legislatore è esso medesimo abusivo e dichiarato illegittimo dalla stessa Corte Costituzionale, ritenuto deviante dalla suprema Carta. Le leggi partorite da un Parlamento illegale, anch'esse illegali, producono legalità sanzionatoria. Gli operatori del diritto manifestano pillole di competenza e perizia pur essendo essi stessi cooptati con concorsi pubblici truccati. In questo modo aumentano i devianti e si è in pochi ad essere onesti, fino alla assoluta estinzione. In un mondo di totale illegalità, quindi, vi è assoluta impunità, salvo l'eccezione del capro espiatorio, che ne conferma la regola. Ergo: quando tutto è illegale, è come se tutto fosse legale.
L’eccesso di zelo e di criminalizzazione crea un’accozzaglia di organi di controllo, con abuso di burocrazia, il cui rimedio indotto per sveltirne l’iter è la corruzione.
Gli insani ruoli, politici e burocratici, per giustificare la loro esistenza, creano criminali dove non ne esistono, per legge e per induzione.
Ergo: criminalizzazione = burocratizzazione = tassazione-corruzione.
Allora, si può dire che è meglio il laissez-faire (il lasciare fare dalla natura delle cose e dell’animo umano) che essere presi per il culo e …ammanettati per i polsi ed espropriati dai propri beni da un manipolo di criminali demagoghi ed ignoranti con un’insana sete di potere.
Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.
Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.
Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.
Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti ed i loro vincoli annessi (urbanistici, storici, culturali, architettonici, archeologici, artistici, ambientali, idrogeologici, di rispetto, ecc.), che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza e di vincoli, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico) inesistente od antico, altrimenti non si potrebbe sanare con ulteriori costi sanzionatori che rende l’abuso antieconomico. Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.
Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.
Prima della rivoluzione francese “L’Ancien Régime” imponeva: ruba ai poveri per dare ai ricchi.
Erano dei Ladri!!!
Dopo, con l’avvento dei moti rivoluzionari del proletariato e la formazione ideologica/confessionale dei movimenti di sinistra e le formazioni settarie scissioniste del comunismo e del fascismo, si impose il regime contemporaneo dello stato sociale o anche detto stato assistenziale (dall'inglese welfare state). Lo stato sociale è una caratteristica dei moderni stati di diritto che si fondano sul presupposto e inesistente principio di uguaglianza, in quanto possiamo avere uguali diritti, ma non possiamo essere ritenuti tutti uguali: c’è il genio e l’incapace, c’è lo stakanovista e lo scansafatiche, l’onesto ed il deviante. Il capitale di per sé produce reddito, anche senza il fattore lavoro. Lavoro e capitale messi insieme, producono ricchezza per entrambi. Il lavoro senza capitale non produce ricchezza. Il ritenere tutti uguali è il fondamento di quasi tutte le Costituzioni figlie dell’influenza della rivoluzione francese: Libertà, Uguaglianza, Solidarietà. Senza questi principi ogni stato moderno non sarebbe possibile chiamarlo tale. Questi Stati non amano la meritocrazia, né meritevoli sono i loro organi istituzionali e burocratici. Il tutto si baratta con elezioni irregolari ed a larga astensione e con concorsi pubblici truccati di cooptazione. In questa specie di democrazia vige la tirannia delle minoranze. L’egualitarismo è una truffa. E’ un principio velleitario detto alla “Robin Hood”, ossia: ruba ai ricchi per dare ai poveri.
Sono dei ladri!!!
Tra l’antico regime e l’odierno sistema quale è la differenza?
Sempre di ladri si tratta. Anzi oggi è peggio. I criminali, oggi come allora, saranno coloro che sempre si arricchiranno sui beoti che li acclamano, ma oggi, per giunta, ti fanno intendere di fare gli interessi dei più deboli.
Non diritto al lavoro, che, come la manna, non cade dal cielo, ma diritto a creare lavoro. Diritto del subordinato a diventare titolare. Ma questo principio di libertà rende la gente libera nel produrre lavoro e ad accumulare capitale. La “Libertà” non è statuita nell’articolo 1 della nostra Costituzione catto comunista. Costituzioni che osannano il lavoro, senza crearne, ma foraggiano il capitale con i soldi dei lavoratori.
Le confessioni comuniste/fasciste e clericali ti insegnano: chiedi e ti sarà dato e comunque, subisci e taci!
Io non voglio chiedere niente a nessuno, specie ai ladri criminali e menzogneri, perché chi chiede si assoggetta e si schiavizza nella gratitudine e nella riconoscenza.
Una vita senza libertà è una vita di merda…
Cultura e cittadinanza attiva. Diamo voce alla piccola editoria indipendente.
Collana editoriale “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo”. Una lettura alternativa per l’estate, ma anche per tutto l’anno. L’autore Antonio Giangrande: “Conoscere per giudicare”.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI.
La collana editoriale indipendente “L’Italia del Trucco, l’Italia che siamo” racconta un’Italia inenarrabile ed inenarrata.
È così, piaccia o no ai maestrini, specie quelli di sinistra. Dio sa quanto gli fa torcere le budella all’approcciarsi del cittadino comune, ai cultori e praticanti dello snobismo politico, imprenditoriale ed intellettuale, all’élite che vivono giustificatamente separati e pensosi, perennemente con la puzza sotto il naso.
Il bello è che, i maestrini, se è contro i loro canoni, contestano anche l’ovvio.
Come si dice: chi sa, fa; chi non sa, insegna.
In Italia, purtroppo, vigono due leggi.
La prima è la «meritocrazia del contenuto». Secondo questa regola tutto quello che non è dichiaratamente impegnato politicamente è materia fecale. La conseguenza è che, per dimostrare «l'impegno», basta incentrare tutto su un contenuto e schierarsene ideologicamente a favore: mafia, migranti, omosessualità, ecc. Poi la forma non conta, tantomeno la realtà della vita quotidiana. Da ciò deriva che, se si scrive in modo neutro (e quindi senza farne una battaglia ideologica), si diventa non omologato, quindi osteggiato o emarginato o ignorato.
La seconda legge è collegata alla prima. La maggior parte degli scrittori nostrani si è fatta un nome in due modi. Primo: rompendo le balle fin dall'esordio con la superiorità intellettuale rispetto alle feci che sarebbero i «disimpegnati».
Secondo modo per farsi un nome: esordire nella medietà (cioè nel tanto odiato nazional-popolare), per poi tentare il salto verso la superiorità.
Il copione lo conosciamo: a ogni gaffe di cultura generale scatta la presa in giro. Il problema è che a perderci sono proprio loro, i maestrini col ditino alzato. Perché è meno grave essere vittime dello scadimento culturale del Paese che esserne responsabili. Perché, nonostante le gaffe conclamate e i vostri moti di sdegno e scherno col ditino alzato su congiuntivi, storia e geografia, gli errori confermano a pieno titolo come uomini di popolo, gente comune, siano vittime dello scadimento culturale del Paese e non siano responsabili di una sub cultura menzognera omologata e conforme. Forse alla gente comune rompe il cazzo il sentire le prediche e le ironie di chi - lungi dall’essere anche solo avvicinabile al concetto di élite - pensa di saperne un po’ di più. Forse perché ha avuto insegnanti migliori, o un contesto famigliare un po’ più acculturato, o il tempo di leggere qualche libro in più. O forse perchè ha maggior dose di presunzione ed arroganza, oppure occupa uno scranno immeritato, o gli si dà l’opportunità mediatica immeritata, che gli dà un posto in alto e l’opportunità di vaneggiare.
Non c'è nessun genio, nessun accademico tra i maestrini. Del resto, mai un vero intellettuale si permetterebbe di correggere una citazione errata, tantomeno di prenderne in giro l'autore. Solo gente normale con una cultura normale pure loro, con una alta dose di egocentrismo, cresciuti a pane, magari a videocassette dell’Unità di Veltroni e citazioni a sproposito di Pasolini. Maestrini che vedono la pagliuzza negli occhi altrui, pagliuzza che spesso non c'è neppure, e non hanno coscienza della trave nei loro occhi o su cui sono appoggiati.
Intervista all’autore, il dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
«Quando ero piccolo a scuola, come in famiglia, mi insegnavano ad adempiere ai miei doveri: studiare per me per sapere; lavorare per la famiglia; assolvere la leva militare per la difesa della patria; frequentare la chiesa ed assistere alla messa domenicale; ascoltare i saggi ed i sapienti per imparare, rispettare il prossimo in generale ed in particolare i più grandi, i piccoli e le donne, per essere rispettato. La visita giornaliera ai nonni ed agli zii era obbligatoria perché erano subgenitori. I cugini erano fratelli. Il saluto preventivo agli estranei era dovuto. Ero felice e considerato. L'elargizione dei diritti era un premio che puntuale arrivava. Contava molto di più essere onesti e solidali che non rivendicare o esigere qualcosa che per legge o per convenzione ti spettava. Oggi: si pretende (non si chiede) il rispetto del proprio (e non dell'altrui) diritto, anche se non dovuto; si parla sempre con imposizione della propria opinione; si fa a meno di studiare e lavorare o lo si impedisce di farlo, come se fosse un dovere, più che un diritto; la furbizia per fottere il prossimo è un dono, non un difetto. Non si ha rispetto per nessun'altro che non sia se stesso. Non esiste più alcun valore morale. Non c'è più Stato; nè Famiglia; nè religione; nè amicizia. Sui social network, il bar telematico, sguazzano orde di imbecilli. Quanto più amici asocial si hanno, più si è soli. Questa è l'involuzione della specie nella società moderna liberalcattocomunista».
Quindi, oggi, cosa bisogna sapere?
«Non bisogna sapere, ma è necessario saper sapere. Cosa voglio dire? Affermo che non basta studiare il sapere che gli altri od il Sistema ci propinano come verità e fermarci lì, perché in questo caso diveniamo quello che gli altri hanno voluto che diventassimo: delle marionette. E’ fondamentale cercare il retro della verità propinata, ossia saper sapere se quello che sistematicamente ci insegnano non sia una presa per il culo. Quindi se uno già non sa, non può effettuare la verifica con un ulteriore sapere di ricerca ed approfondimento. Un esempio per tutti. Quando si studia giurisprudenza non bisogna fermarsi alla conoscenza della norma ed eventualmente alla sua interpretazione. Bisogna sapere da chi e con quale maggioranza ideologica e perchè è stata promulgata o emanata e se, alla fine, sia realmente condivisa e rispettata. Bisogna conoscere il retro terra per capirne il significato: se è stata emessa contro qualcuno o a favore di qualcun'altro; se è pregna di ideologia o adottata per interesse di maggioranza di Governo; se è un'evoluzione storica distorsiva degli usi e dei costumi nazionali o influenzata da pregiudizi, o sia una conformità alla legislazione internazionale lontana dalla nostra cultura; se è stata emanata per odio...L’odio è un sentimento di rivalsa verso gli altri. Dove non si arriva a prendere qualcosa si dice che non vale. E come quel detto sulla volpe che non riuscendo a prendere l’uva disse che era acerba. Nel parlare di libertà la connessione va inevitabilmente ai liberali ed alla loro politica di deburocratizzazione e di delegificazione e di liberalizzazione nelle arti, professioni e nell’economia mirante all’apoteosi della meritocrazia e della responsabilità e non della inadeguatezza della classe dirigente. Lo statalismo è una stratificazione di leggi, sanzioni e relativi organi di controllo, non fini a se stessi, ma atti ad alimentare corruttela, ladrocinio, clientelismo e sopraffazione dei deboli e degli avversari politici. Per questo i liberali sono una razza in estinzione: non possono creare consenso in una massa abituata a pretendere diritti ed a non adempiere ai doveri. Fascisti, comunisti e clericali sono figli degeneri di una stessa madre: lo statalismo ed il centralismo. Si dicono diversi ma mirano tutti all’assistenzialismo ed alla corruzione culturale per influenzare le masse: Panem et circenses (letteralmente «pane e [giochi] circensi») è una locuzione latina piuttosto nota e spesso citata, usata nell'antica Roma e al giorno d'oggi per indicare in sintesi le aspirazioni della plebe (nella Roma di età imperiale) o della piccola borghesia, o d'altro canto in riferimento a metodi politici bassamente demagogici. Oggi la politica non ha più credibilità perchè non è scollegata dall’economia e dalle caste e dalle lobbies che occultamente la governano, così come non sono più credibili i loro portavoce, ossia i media di regime, che tanto odiano la "Rete". Internet, ormai, oggi, è l'unico strumento che permette di saper sapere, dando modo di scoprire cosa c'è dietro il fronte della medaglia, ossia cosa si nasconda dietro le fake news (bufale) di Stato o dietro la discultura e l'oscurantismo statalista».
Cosa racconta nei suoi libri?
«Sono un centinaio di saggi di inchiesta composti da centinaia di pagine, che raccontano di un popolo difettato che non sa imparare dagli errori commessi. Pronto a giudicare, ma non a giudicarsi. I miei libri raccontato l’indicibile. Scandali, inchieste censurate, storie di ordinaria ingiustizia, di regolari abusi e sopraffazioni e di consueta omertà. Raccontano, attraverso testimonianze e documenti, per argomento e per territorio, i tarli ed i nei di una società appiattita che aspetta il miracolo di un cambiamento che non verrà e che, paradosso, non verrà accettato. In più, come chicca editoriale, vi sono i saggi con aggiornamento temporale annuale, pluritematici e pluriterritoriali. Tipo “Selezione dal Reader’s Digest”, rivista mensile statunitense per famiglie, pubblicata in edizione italiana fino al 2007. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi nei saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali di distribuzione internazionale in forma Book o E-book. Canali di pubblicazione e di distribuzione come Amazon o Google libri. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche. I testi hanno una versione video sui miei canali youtube».
Qual è la reazione del pubblico?
«Migliaia sono gli accessi giornalieri alle letture gratuite di parti delle opere su Google libri e decine di migliaia sono le pagine lette ogni giorno. Accessi da tutto il mondo, nonostante il testo sia in lingua italiana e non sia un giornale quotidiano. Si troveranno, anche, delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato».
Perché è poco conosciuto al grande pubblico generalista?
«Perché sono diverso. Oggi le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili sono emarginati o ignorati. Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti. In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo. Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso. Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte. Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”».
Qual è la sua missione?
«“Chi non conosce la verità è uno sciocco, ma chi, conoscendola, la chiama bugia, è un delinquente…Ci sedemmo dalla parte del torto visto che tutti gli altri posti erano occupati. Ci sono uomini che lottano un giorno e sono bravi, altri che lottano un anno e sono più bravi, ci sono quelli che lottano più anni e sono ancora più bravi, però ci sono quelli che lottano tutta la vita: essi sono gli indispensabili”. Citazioni di Bertolt Brecht. Rappresentare con verità storica, anche scomoda ai potenti di turno, la realtà contemporanea, rapportandola al passato e proiettandola al futuro. Per non reiterare vecchi errori. Perché la massa dimentica o non conosce. Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché è orgoglioso di essere diverso?
«E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale».
Dr. Antonio Giangrande. Orgoglioso di essere diverso.
La massa ti considera solo se hai e ti votano solo se dai. Nulla vali se tu sai. Victor Hugo: "Gli uomini ti stimano in rapporto alla tua utilità, senza tener conto del tuo valore." Le persone si stimano e si rispettano in base al loro grado di utilità materiale, tangibile ed immediata, da rendere agli altri e non, invece, al loro valore intrinseco ed estrinseco intellettuale. Per questo gli inutili da sempre, pur con altissimo valore, sono emarginati o ignorati, inibendone, ulteriormente, l’utilità.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.
Fa quello che si sente di fare e crede in quello che si sente di credere.
La Democrazia non è la Libertà.
La libertà è vivere con libero arbitrio nel rispetto della libertà altrui.
La democrazia è la dittatura di idioti che manipolano orde di imbecilli ignoranti e voltagabbana.
Cattolici e comunisti, le chiese imperanti, impongono la loro libertà, con la loro morale, il loro senso del pudore ed il loro politicamente corretto.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Facciamo sempre il solito errore: riponiamo grandi speranze ed enormi aspettative in piccoli uomini senza vergogna.
Un altro errore che commettiamo è dare molta importanza a chi non la merita.
"Fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza". Dante, Inferno XXVI
Le pecore hanno paura dei lupi, ma è il loro pastore che le porta al macello.
Da sociologo storico ho scritto dei saggi dedicati ad ogni partito o movimento politico italiano: sui comunisti e sui socialisti (Craxi), sui fascisti (Mussolini), sui cattolici (Moro) e sui moderati (Berlusconi), sui leghisti e sui pentastellati. Il sottotitolo è “Tutto quello che non si osa dire. Se li conosci li eviti.” Libri che un popolo di analfabeti mai leggerà.
Da queste opere si deduce che ogni partito o movimento politico ha un comico come leader di riferimento, perché si sa: agli italiani piace ridere ed essere presi per il culo. Pensate alle battute di Grillo, alle barzellette di Berlusconi, alle cazzate di Salvini, alle freddure della Meloni, alle storielle di Renzi, alle favole di D’Alema e Bersani, ecc. Partiti e movimenti aventi comici come leader e ladri come base.
Gli effetti di avere dei comici osannati dai media prezzolati nei tg o sui giornali, anziché vederli esibirsi negli spettacoli di cabaret, rincoglioniscono gli elettori. Da qui il detto: un popolo di coglioni sarà sempre amministrato o governato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Per questo non ci lamentiamo se in Italia mai nulla cambia. E se l’Italia ancora va, ringraziamo tutti coloro che anziché essere presi per il culo, i comici e la loro clack (claque) li mandano a fanculo.
Antonio Giangrande, scrittore, accademico senza cattedra universitaria di Sociologia Storica, giornalista ed avvocato non abilitato. "Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io, vivi i miei dolori, i miei dubbi, le mie risate...vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io. Ognuno ha la propria storia. E solo allora mi potrai giudicare." Luigi Pirandello.
Dapprima ti ignorano. Poi ti deridono. Poi ti emarginano. Poi ti combattono. Tu sei solo, ma non per sempre. Loro sono tanti, ma non per sempre. Ed allora sarai vincente, ma solo dopo la tua morte. I primi a combatterti sono i prossimi parenti ed i compaesani ed allor "non ragioniam di loro, ma guarda e passa" (Dante Alighieri). “Gesù, venuto nella sua patria, insegnava nella loro sinagoga e la gente rimaneva stupita e diceva: «Da dove gli vengono questa sapienza e i prodigi? Non è costui il figlio del falegname? E sua madre, non si chiama Maria? E i suoi fratelli, Giacomo, Giuseppe, Simone e Giuda? E le sue sorelle, non stanno tutte da noi? Da dove gli vengono allora tutte queste cose?». Ed era per loro motivo di scandalo. Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria e in casa sua». E lì, a causa della loro incredulità, non fece molti prodigi”. Mt 13, 54-58.
Se si disprezza quello che gli altri sono e fanno, perché, poi, si è come gli altri e si osteggiano i diversi?
"C’è un’azione peggiore che quella di togliere il diritto di voto al cittadino e consiste nel togliergli la voglia di votare.” (R. Sabatier)
«La disperazione più grave che possa impadronirsi di una società è il dubbio che vivere onestamente sia inutile» - Corrado Alvaro, Ultimo diario, 1961.
Vivere senza leggere, o senza sfogliare i libri giusti scritti fuori dal coro o vivere studiando dai saggi distribuiti dal sistema di potere catto comunista savoiardo nelle scuole e nelle università, è molto pericoloso. Ciò ti obbliga a credere a quello che dicono gli altri interessati al Potere e ti conforma alla massa. Allora non vivi da uomo, ma da marionetta.
Se scrivi e dici la verità con il coraggio che gli altri non hanno, il risultato non sarà il loro rinsavimento ma l’essere tu additato come pazzo. Ti scontri sempre con la permalosità di magistrati e giornalisti e la sornionità degli avvocati avvezzi solo ai loro interessi. Categorie di saccenti che non ammettono critiche. Se scrivi e sei del centro-nord Italia, i conterranei diranno: che bel libro, bravo, è uno di noi. Se scrivi e sei del centro-sud Italia i conterranei diranno: quel libro l’avrei scritto anch’io, anzi meglio, ma sono solo cazzate. Chi siamo noi? Siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. Da bambini i genitori ci educavano secondo i loro canoni, fino a che abbiamo scoperto che era solo il canone di poveri ignoranti. Da studenti i maestri ci istruivano secondo il loro pensiero, fino a che abbiamo scoperto che era solo il pensiero di comunisti arroganti. Prima dell’ABC ci insegnavano “Bella Ciao”. Da credenti i ministri di culto ci erudivano sulla confessione religiosa secondo il loro verbo, fino a che abbiamo scoperto che era solo la parola di pedofili o terroristi. Da lettori e telespettatori l’informazione (la claque del potere) ci ammaestrava all’odio per il diverso ed a credere di vivere in un paese democratico, civile ed avanzato, fino a che abbiamo scoperto che si muore di fame o detenuti in canili umani. Da elettori i legislatori ci imponevano le leggi secondo il loro diritto, fino a che abbiamo scoperto che erano solo corrotti, mafiosi e massoni. Ecco, appunto: siamo i “coglioni” che altri volevano che fossimo o potessimo diventare. E se qualcuno non vuol essere “coglione” e vuol cambiare le cose, ma non ci riesce, vuol dire che è “coglione” lui e non lo sa, ovvero è circondato da amici e parenti “coglioni”.
John Keating: Qualunque cosa si dica in giro, parole e idee possono cambiare il mondo. Sono salito sulla cattedra per ricordare a me stesso che dobbiamo sempre guardare le cose da angolazioni diverse. E il mondo appare diverso da quassù. Non vi ho convinti? Venite a vedere voi stessi. Coraggio! È proprio quando credete di sapere qualcosa che dovete guardarla da un'altra prospettiva. Carpe diem. Cogliete l'attimo, ragazzi... Rendete straordinaria la vostra vita!
Gerard Pitts: Cogli la rosa quando è il momento, che il tempo, lo sai, vola e lo stesso fiore che sboccia oggi, domani appassirà. John Keating: Non leggiamo e scriviamo poesie perché è carino: noi leggiamo e scriviamo poesie perché siamo membri della razza umana; e la razza umana è piena di passione. Medicina, legge, economia, ingegneria sono nobili professioni, necessarie al nostro sostentamento; ma la poesia, la bellezza, il romanticismo, l'amore, sono queste le cose che ci tengono in vita. Dal film L'attimo fuggente (Dead Poets Society), film del 1989 diretto da Peter Weir e con protagonista Robin Williams.
Studiare non significa sapere, volere non significa potere. Ai problemi non si è capaci di trovare una soluzione che accontenti tutti, perché una soluzione per tutti non esiste. Alla fine nessuno è innocente, perché in questa società individualista, violenta e superficiale tutti sono colpevoli. Io ho preso la mia decisione mentre la totalità di voi non sa prenderne alcuna (anche nelle cose più semplici). Come potreste capire cosa è veramente importante nella vita? Non saprete mai se avete preso la decisione giusta perché non vi siete fidati di voi stessi. Accusate il sistema, ma il sistema è freddo inesorabile matematico, solo chi è deciso a raggiungere la riva la raggiungerà. Vi auguro tutto il meglio per la vostra vita. “Class Enemy”, di Rok Bicek film del 2013.
Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, destinatario delle denunce presentate dai magistrati per tacitarlo e ricevente da tutta Italia di centinaia di migliaia di richieste di aiuto o di denunce di malefatte delle istituzioni. Ignorato dai media servi del potere.
Come far buon viso a cattivo gioco ed aspettare che dal fiume appaia il corpo del tuo nemico. "Subisci e taci" ti intima il Sistema. Non sanno, loro, che la vendetta è un piatto che si gusta freddo. E non si può perdonare...
Un padre regala al figlio un sacchetto di chiodi. “Tieni figliolo, ecco un sacchetto di chiodi. Piantane uno nello steccato Ogni volta che che perdi la pazienza e litighi con qualcuno perchè credi di aver subito un'ingiustizia” gli dice. Il primo giorno il figlio piantò ben 37 chiodi ma nelle settimane successive imparò a controllarsi e il numero di chiodi cominciò piano piano a diminuire. Aveva infatti scoperto che era molto più facile controllarsi che piantare chiodi e così arrivò un giorno in cui non ne piantò nemmeno uno. Andò quindi dal padre e gli disse che per quel giorno non aveva litigato con nessuno, pur essendo stato vittima d'ingiustizie e di soprusi, e non aveva piantato alcun chiodo. Il padre allora gli disse: “Benissimo figliolo, ora leva un chiodo dallo steccato per ogni giorno in cui non hai perso la pazienza e litigato con qualcuno”. Il figlio ascoltò e tornò dal padre dopo qualche giorno, comunicandogli che aveva tolto tutti i chiodi dallo steccato e che non aveva mai più perso la pazienza. Il padre lo portò quindi davanti allo steccato e guardandolo gli disse: “Figliolo, ti sei comportato davvero bene. Bravo. Ma li vedi tutti quei buchi? Lo steccato non potrà più tornare come era prima. Quando litighi con qualcuno, o quando questi ha usato violenza fisica o psicologica nei tuoi confronti, rimane una ferita come questi buchi nello steccato. Tu puoi piantare un coltello in un uomo e poi levarlo, e lo stesso può fare questi con te, ma rimarrà sempre una ferita. E non importa quante volte ti scuserai, o lui lo farà con te, la ferita sarà sempre lì. Una ferita verbale è come il chiodo nello steccato e fa male quanto una ferita fisica. Lo steccato non sarà mai più come prima. Quando dici le cose in preda alla rabbia, o quando altri ti fanno del male, si lasciano delle ferite come queste: come i buchi nello steccato. Possono essere molto profonde. Alcune si rimarginano in fretta, altre invece, potrebbero non rimarginare mai, per quanto si possa esserne dispiaciuti e si abbia chiesto scusa".
Io non reagisco, ma mi si permetta di raccontare l'accaduto. Voglio far conoscere la verità sui chiodi piantati nelle nostre carni.
La mia esperienza e la mia competenza mi portano a pormi delle domande sulle vicende della vita presente e passata e sul perché del ripetersi di eventi provati essere dannosi all’umanità, ossia i corsi e i ricorsi storici. Gianbattista Vico, il noto filosofo napoletano vissuto fra il XVII e XVIII secolo elaborò una teoria, appunto dei corsi e ricorsi storici. Egli era convinto che la storia fosse caratterizzata dal continuo e incessante ripetersi di tre cicli distinti: l’età primitiva e divina, l’età poetica ed eroica, l’età civile e veramente umana. Il continuo ripetersi di questi cicli non avveniva per caso ma era predeterminato e regolamentato, se così si può dire, dalla provvidenza. Questa formulazione di pensiero è comunemente nota come “teoria dei corsi e dei ricorsi storici”. In parole povere, tanto per non essere troppo criptici, il Vico sosteneva che alcuni accadimenti si ripetevano con le medesime modalità, anche a distanza di tanto tempo; e ciò avveniva non per puro caso ma in base ad un preciso disegno stilato della divina provvidenza.” Io sono convinto, invece, che l’umanità dimentica e tende a sbagliare indotta dalla stupidità e dall’egoismo di soddisfare in ogni modo totalmente i propri bisogni in tempi e spazi con risorse limitate. Trovare il perché delle discrepanze dell’ovvio raccontato. Alle mie domando non mi do io stesso delle risposte. Le risposte le raccolgo da chi sento essere migliore di me e comunque tra coloro contrapposti con le loro idee sullo stesso tema da cui estrapolare il sunto significativo. Tutti coloro che scrivono, raccontano il fatto secondo il loro modo di vedere e lo ergono a verità. Ergo: stesso fatto, tanti scrittori, quindi, tanti fatti diversi. La mia unicità e peculiarità, con la credibilità e l’ostracismo che ne discende, sta nel raccontare quel fatto in un’unica sede e riportando i vari punti di vista. In questo modo svelo le mistificazioni e lascio solo al lettore l’arbitrio di trarne la verità da quei dati.
Voglio conoscere gli effetti, sì, ma anche le cause degli accadimenti: il post e l’ante. La prospettiva e la retrospettiva con varie angolazioni. Affrontare le tre dimensioni spaziali e la quarta dimensione temporale.
Si può competere con l’intelligenza, mai con l’idiozia. L’intelligenza ascolta, comprende e pur non condividendo rispetta. L’idiozia si dimena nell’Ego, pretende ragione non ascoltando le ragioni altrui e non guarda oltre la sua convinzione dettata dall’ignoranza. L’idiozia non conosce rispetto, se non pretenderlo per se stessa.
Quando fai qualcosa hai tutti contro: quelli che volevano fare la stessa cosa, senza riuscirci, impediti da viltà, incapacità, ignavia; quelli che volevano fare il contrario; e quelli, ossia la stragrande maggioranza, che non volevano fare niente.
Certe persone non sono importanti, siamo noi che, sbagliando, gli diamo importanza. E poi ci sono quelle persone che non servono ad un cazzo, non fanno un cazzo e si credono sto cazzo.
Correggi un sapiente ed esso diventerà più colto. Correggi un ignorante ed esso diventerà un tuo acerrimo nemico.
Molti non ti odiano perché gli hai fatto del male, ma perché sei migliore di loro.
Più stupido di chi ti giudica senza sapere nulla di te è colui il quale ti giudica per quello che gli altri dicono di te. Perché le grandi menti parlano di idee; le menti medie parlano di fatti; le infime menti parlano solo male delle persone.
E’ importante stare a posto con la propria coscienza, che è molto più importante della propria reputazione. La tua coscienza sei tu, la reputazione è ciò che gli altri pensano di te e quello che gli altri pensano di te è un problema loro.
Le bugie sono create dagli invidiosi, ripetute dai cretini e credute dagli idioti, perché un grammo di comportamento esemplare, vale un quintale di parole. Le menti mediocri condannano sempre ciò che non riescono a capire.
E se la strada è in salita, è solo perché sei destinato ad arrivare in alto.
Ci sono persone per indole nate per lavorare e/o combattere. Da loro ci si aspetta tanto ed ai risultati non corrispondono elogi. Ci sono persone nate per oziare. Da loro non ci si aspetta niente. Se fanno poco sono sommersi di complimenti. Guai ad aspettare le lodi del mondo. Il mondo è un cattivo pagatore e quando paga lo fa sempre con l’ingratitudine.
Il ciclo vitale biologico della natura afferma che si nasce, si cresce, ci si riproduce, si invecchia e si muore e l’evoluzione fa vincere i migliori. Solo a noi umani è dato dare un senso alla propria vita.
Ergo. Ai miei figli ho insegnato:
Le ideologie, le confessioni, le massonerie vi vogliono ignoranti;
Le mafie, le lobbies e le caste vi vogliono assoggettati;
Le banche vi vogliono falliti;
La burocrazia vi vuole sottomessi;
La giustizia vi vuole prigionieri;
Siete nati originali…non morite fotocopia.
Siate liberi. Studiare, ma non fermarsi alla cultura omologata. La conoscenza è l'arma migliore per vincere.
Antonio Giangrande, orgoglioso di essere diverso.
Lettera ad un amico che ha tentato la morte.
Le difficoltà rinforzano il carattere e certo quello che tu eri, oggi non lo sei.
Le difficoltà le affrontano tutti in modi diversi, come dire: in ogni casa c’è una croce. L’importante portarla con dignità. E la forza data per la soluzione è proporzionale all’intelligenza.
Per cui: x grado di difficoltà = x grado di intelligenza.
Pensa che io volevo studiare per emergere dalla mediocrità, ma la mia famiglia non poteva.
Per poter studiare dovevo lavorare. Ma lavoro sicuro non ne avevo.
Per avere un lavoro sicuro dovevo vincere un concorso pubblico, che lo vincono solo i raccomandati.
Ho partecipato a decine di concorsi pubblici: nulla di fatto.
Nel “mezzo del cammin della mia vita”, a trentadue anni, avevo una moglie e due figli ed una passione da soddisfare.
La mia vita era in declino e le sconfitte numerose: speranza per il futuro zero!
Ho pensato ai miei figli e si è acceso un fuoco. Non dovevano soffrire anche loro.
Le difficoltà si affrontano con intelligenza: se non ce l’hai, la sviluppi.
Mi diplomo in un anno presso la scuola pubblica da privatista: caso unico.
Mi laureo alla Statale di Milano in giurisprudenza in due anni: caso raro.
Sembrava fatta, invece 17 anni per abilitarmi all’avvocatura senza successo per ritorsione di chi non accetta i diversi. Condannato all’indigenza e al discredito, per ritorsione dei magistrati e dei media a causa del mio essere diverso.
Mio figlio ce l’ha fatta ad abilitarsi a 25 anni con due lauree, ma è impedito all’esercizio a causa del mio disonore.
Lui aiuta gli altri nello studio a superare le incapacità dei docenti ad insegnare.
Io aiuto gli altri, con i miei saggi, ad essere orgogliosi di essere diversi ed a capire la realtà che li circonda.
Dalla mia esperienza posso dire che Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi o valutazioni lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
Per questo un popolo di coglioni sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da coglioni.
Quindi, caro amico, non guardare più indietro. Guarda avanti. Non pensare a quello che ti manca o alle difficoltà che incontri, ma concentrati su quello che vuoi ottenere. Se non lasci opere che restano, tutti di te si dimenticano, a prescindere da chi eri in vita.
Pensa che più difficoltà ci sono, più forte diventerai per superarle.
Volere è potere.
E sii orgoglioso di essere diverso, perché quello che tu hai fatto, tentare la morte, non è segno di debolezza. Ma di coraggio.
Le menti più eccelse hanno tentato o pensato alla morte. Quella è roba da diversi. Perché? Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Per questo bisogna vivere, se lo hai capito: per ribellione e per rivalsa!
Non si deve riporre in me speranze mal riposte.
Io posso dare solidarietà o prestare i miei occhi per leggere o le mie orecchie per sentire, ma cosa posso fare per gli altri, che non son stato capace di fare per me stesso?
Nessuno ha il potere di cambiare il mondo, perché il mondo non vuol essere cambiato.
Ho solo il potere di scrivere, senza veli ideologici o religiosi, quel che vedo e sento intorno a me. E’ un esercizio assolutamente soggettivo, che, d’altronde, non mi basta nemmeno a darmi da vivere.
E’ un lavoro per i posteri, senza remunerazione immediata.
Essere diversi significa anche essere da soli: senza un gruppo di amici sinceri o una claque che ti sostenga.
Il fine dei diversi non combacia con la meta della massa. La storia dimostra che è tutto un déjà-vu.
Tante volte ho risposto no ai cercatori di biografie personali, o ai sostenitori di battaglie personali. Tante volte, portatori delle loro bandiere, volevano eserciti per lotte personali, elevandosi a grado di generali.
La mia missione non è dimostrare il mio talento o le mie virtù rispetto agli altri, ma documentare quanto questi altri siano niente in confronto a quello che loro considerano di se stessi.
Quindi ritienimi un amico che sa ascoltare e capire, ma che nulla può fare o dare ad altri, perché nulla può fare o dare per se stesso.
Sono solo un Uomo che scrive e viene letto, ma sono un uomo senza Potere.
Dell’uomo saggio e giusto si segue l’esempio, non i consigli.
Se si è omologati (uguali) o conformati (simili) e si sta sempre dietro alla massa, non si sarà mai primi nella vita, perché ci sarà sempre il più furbo o il più fortunato a precederti.
In un mondo caposotto (sottosopra od alla rovescia) gli ultimi diventano i primi ed i primi sono gli ultimi. L’Italia è un Paese caposotto. Io, in questo mondo alla rovescia, sono l’ultimo e non subisco tacendo, per questo sono ignorato o perseguitato. I nostri destini in mano ai primi di un mondo sottosopra. Che cazzo di vita è?
Si nasce senza volerlo. Si muore senza volerlo. Si vive una vita di prese per il culo.
Dove si sentono alti anche i nani e dove anche i marescialli si sentono generali, non conta quanti passi fai e quali scarpe indossi, ma conta quante tracce lasci del tuo percorso.
Il difetto degli intelligenti è che sono spinti a cercare le risposte ai loro dubbi. Il pregio degli ignoranti è che non hanno dubbi e qualora li avessero sono convinti di avere già le risposte.
Un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Il ciclo vitale, in biologia, è l'intervallo tra il susseguirsi di generazioni di una specie. L'esistenza di ogni organismo si svolge secondo una sequenza ciclica di stadi ed eventi biologici, caratterizzata in base alla specie di appartenenza. Queste sequenze costituiscono i cosiddetti Cicli Biologici. Ogni essere vivente segue un ciclo vitale biologico composto dai seguenti stadi: nascita, crescita, riproduzione, senescenza e morte. Per quanto possa essere breve o corta la vita, nessun essere vivente preso singolarmente è immortale. Ma la sua specie diventa immortale attraverso la riproduzione e l'evoluzione. Gli esseri viventi si evolvono nel corso del tempo per potersi meglio adattare alla natura che li circonda. Attraverso la riproduzione le generazioni trasmettono i propri geni a quelle future. Durante questo passaggio le nuove generazioni possono assumere caratteristiche nuove o perderne alcune. Le differenze si traducono in vantaggi o in handicap per chi le possiede, agendo direttamente sul processo evolutivo tramite la selezione naturale degli individui. Le nuove caratteristiche che agevolano l'adattamento all'ambiente offrono all'individuo maggiori probabilità di sopravvivenza e, quindi, di riproduzione. E' innaturale non riprodursi. Senza riproduzione non vi è proseguimento ed evoluzione della specie. Senza riproduzione il ciclo vitale biologico cessa. Ciò ci rende mortali. Parlare in termini scientifici dell'eterosessualità e del parto, quindi di stati naturali, fa di me un omofobo ed un contrabortista, quindi un non-comunista? Cercare di informare i simili contro la deriva involutiva, fa di me un mitomane o pazzo?
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte. I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta….” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso….” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale.
Da sempre diffido di chi, vestito da lupo, è pecora genuflessa alla magistratura. I saccenti giustizialisti dei 5 stelle che provino a proporre la figura del difensore civico giudiziario con poteri di magistrato, senza essere uno di loro, per poter metter le mani nelle carte dei fascicoli e poterle sparigliare. Io da anni mi batto inascoltato per questo. I signori dei 5 stelle non si degnano nemmeno di rispondere ai messaggi degli esperti: tanto san tutto loro. A sbraitare son bravi, ma a proporre leggi sensate, mi sa che non son capaci. Parlan solo di soldi, soldi, soldi ed onestà, certificata dai loro magistrati, e mai parlano di libertà ed opportunità senza concorsi ed esami pubblici truccati.
Ad ogni azione umana nefasta si trova sempre una giustificazione...lo si fa per le piante...lo si fa per gli animali...lo si fa per le persone! Ma, alla fine, rimane solo un'azione nefasta che fa male al prossimo...e, spesso, il prossimo siamo noi. A parte il partito preso, noi siamo tutti responsabili delle azioni nefaste di uno, quando gli permettiamo di farle.
Parlare nei miei libri del caso singolo del semplice cittadino significa incorrere nell’accusa di mitomania, pazzia o calunnia, oltre che nel disinteresse. Invece parlo di loro, delle istituzioni che delinquono impunite. Parlo della vera mafia. Cosa posso dire di più di quello che ho scritto e che altri non dicono? Credo che quanto divulgato possa essere di grande soddisfazione per le vittime, non potendo avere altro che quella in questa Italia con italiani di merda a cui interessa solo di loro stessi e se ne fottono degli altri.
Alla fine di noi rimane il nostro operato, checché gli altri ne dicano. E quello bisogna giudicare. Nasco da una famiglia umile e povera. Una di quelle famiglie dove la sfortuna è di casa. Non puoi permetterti di studiare, né avere amici che contano. Per questo il povero è destinato a fare il manovale o il contadino. Mi sono ribellato e contro la sorte ho voluto studiare, per salire nel mondo non mio. Per 17 anni ho cercato di abilitarmi nell’avvocatura. Non mi hanno voluto. Il mondo di sotto mi tiene per i piedi; il mondo di sopra mi calca la testa. In un esame truccato come truccati sono tutti i concorsi pubblici in Italia: ti abilitano se non rompi le palle. Tutti uguali nella mediocrità. Dal 1998 ho partecipato all’esame forense annuale. Sempre bocciato. Ho rinunciato a proseguire nel 2014 con la commissione presieduta dall’avv. Francesco De Jaco. L’avvocato di Cosima Serrano condannata con la figlia Sabrina Misseri per il delitto di Sarah Scazzi avvenuto ad Avetrana. Tutte mie compaesane. La Commissione d’esame di avvocato di Lecce 2014. La più serena che io abbia trovato in tutti questi anni. Ho chiesto invano a De Jaco di tutelare me, dagli abusi in quell’esame, come tutti quelli come me che non hanno voce. Se per lui Cosima è innocente contro il sentire comune, indotti a pensarla così dai media e dai magistrati, perché non vale per me la verità che sia vittima di un sistema che mi vuol punire per essermi ribellato? Si nega l’evidenza. 1, 2, 3 anni, passi. 17 anni son troppi anche per il più deficiente dei candidati. Ma gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Compiti non corretti, ma ritenuti tali in tempi insufficienti e senza motivazione e con quote prestabilite di abilitati. Così per me, così per tutti. Gli avvocati abilitati negano l’evidenza. Logico: chi passa, non controlla. Ma 17 anni son troppi per credere alla casualità di essere uno sfigato, specialmente perché i nemici son noti, specie se sono nelle commissioni d’esame. In carcere o disoccupato. Tu puoi gridare a squarciagola le ingiustizie, ma nessuno ti ascolta, in un mondo di sordi. Nessuno ti crede. Fino a che non capiti a loro. E in questa Italia capita, eccome se capita! La tua verità contro la verità del potere. Un esempio da raccontare. Ai figli non bisogna chiedere cosa vogliono fare da grandi. Bisogna dir loro la verità. Chiedergli cosa vorrebbero che gli permettessero di fare da grandi. Sono nato in quelle famiglie che, se ti capita di incappare nelle maglie della giustizia, la galera te la fai, anche da innocente. A me non è successo di andare in galera, pur con reiterati tentativi vani da parte della magistratura di Taranto, ma sin dal caso Tortora ho capito che in questa Italia in fatto di giustizia qualcosa non va. Pensavo di essere di sinistra, perché la sinistra è garantismo, ma non mi ritrovo in un’area dove si tollerano gli abusi dei magistrati per garantirsi potere ed impunità. E di tutto questo bisogna tacere. A Taranto, tra i tanti processi farsa per tacitarmi sulle malefatte dei magistrati, uno si è chiuso, con sentenza del Tribunale n. 147/2014, con l’assoluzione perché il fatto non sussiste e per non doversi procedere. Bene: per lo stesso fatto si è riaperto un nuovo procedimento ed è stato emesso un decreto penale di condanna con decreto del Gip. n. 1090/2014: ossia una condanna senza processo. Tentativo stoppato dall’opposizione.
Zittirmi sia mai. Pur isolato e perseguitato. Gli italiani son questi. Ognuno dia la sua definizione. Certo è che gli italiani non mi leggono, mi leggono i forestieri. Mi leggeranno i posteri. Tutto regolare: lo ha detto la tv, lo dicono i giudici. Per me, invece, è tutto un trucco. In un mondo di ladri nessuno vien da Marte. Tutti uguali: giudicanti e giudicati. E’ da decenni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti ai magistrati, all’economia ed alla politica, ma che non impediscono il fatto che di me si parli su 200.000 siti web, come accertato dai motori di ricerca. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it, Lulu.com. CreateSpace.com e Google Libri, oltre che in forma di lettura gratuita e free vision video su www.controtuttelemafie.it , mentre la promozione del territorio è su www.telewebitalia.eu.
Ho la preparazione professionale per poter dire la sua in questioni di giustizia?
Non sono un giornalista, ma a quanto pare sono l’unico a raccontare tutti i fatti. Non sono un avvocato ma mi diletto ad evidenziare le manchevolezze di un sistema giudiziario a se stante. La mia emigrazione in piena adolescenza in Germania a 16 anni per lavorare; la mia laurea quadriennale in Giurisprudenza presa in soli due anni all’Università Statale di Milano, lavorando di notte e con moglie e due figli da mantenere, dopo aver conseguito il diploma da ragioniere in un solo anno da privatista presso un Istituto tecnico Statale e non privato, per non sminuirne l’importanza, portando tutti i 5 anni di corso; tutto ciò mi ha reso immune da ogni condizionamento culturale od ambientale. I miei 6 anni di esercizio del patrocinio legale mi hanno fatto conoscere le magagne di un sistema che non è riuscito a corrompermi. Per questo dal 1998 al 2014 non mi hanno abilitato alla professione di avvocato in un esame di Stato, che come tutti i concorsi pubblici ho provato, con le mie ricerche ed i miei libri, essere tutti truccati. Non mi abilitano. Perché non sono uguale agli altri, non perché son meno capace. Non mi abilitano perché vedo, sento e parlo. Ecco perché posso parlare di cose giuridiche in modo di assoluta libertà, senza condizionamento corporativistico, anche a certezza di ritorsione. E’ tutta questione di coscienza.
Alle sentenze irrevocabili di proscioglimento del Tribunale di Taranto a carico del dr Antonio Giangrande, già di competenza della dr.ssa Rita Romano, giudice di Taranto poi ricusata perché denunciata, si aggiunge il verbale di udienza dell’11 dicembre 2015 della causa n. 987/09 (1832/07 RGNR) del Tribunale di Potenza, competente su fatti attinenti i magistrati di Taranto, con il quale si dispone la perfezione della fattispecie estintiva del processo per remissione della querela nei confronti del dr Antonio Giangrande da parte del dr. Alessio Coccioli, già Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, poi trasferito alla Direzione Distrettuale Antimafia di Lecce. Remissione della querela volontaria, libera e non condizionata da alcun atto risarcitorio.
Il Dr Antonio Giangrande era inputato per il reato previsto e punito dall’art. 595 3° comma c.p. “perchè inviando una missiva a sua firma alla testata giornalistica La Gazzetta del Sud Africa e pubblicata sui siti internet lagazzettadelsudafrica.net, malagiustizia.eu, e associazionecontrotuttelemafie.org, offendeva l’onore ed il decoro del dr. Alessio Coccioli, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, riportando in detto su scritto la seguente frase: “…il PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, ha reso lecito tale modus operandi (non rilasciare attestato di ricezione da parte dell’Ufficio Protocollo del Comune di Manduria ndr), motivandolo dal fatto che non è dannoso per il denunciante. Invece in denuncia si è fatto notare che tale usanza di recepimento degli atti, prettamente manduriana, può nascondere alterazioni procedurali in ambito concorsuale e certamente abusi a danno dei cittadini. Lo stesso PM Alessio Coccioli, inopportunamente delegando i carabinieri di Manduria, quali PG, per la colleganza con il comandante dei Vigili Urbani di Manduria, ha ritenuto le propalazioni del Giangrande, circa il concorso per Comandante dei Vigili Urbani, ritenuto truccato (perché il medesimo aveva partecipato e vinto in un concorso da egli stesso indetto e regolato in qualità di comandante pro tempore e dirigente dell’ufficio del personale), sono frutto di sue convinzioni non supportate da riscontri di natura obbiettiva e facendo conseguire tali riferimenti, al predetto dr. Coccioli, ad altre notazioni, contenute nello stesso scritto, nelle quali si denunciavano insabbiamenti, o poche richieste di archiviazioni strumentali attribuite ai magistrati della Procura della Repubblica di Taranto”.
Il Processo di Potenza, come i processi tenuti a Taranto, sono attinenti a reati di opinione. Lo stesso dr. Alessio Coccioli, una volta trasferito a Lecce, ha ritenuto che le opinioni espresse dal Dr Antonio Giangrande riguardo la Giustizia a Taranto non potessero continuare ad essere perseguite.
Ultimo atto. Esame di Avvocato 2015. A Lecce uno su quattro ce l’ha fatta. Sono partiti in 1.108: la prova scritta è stata passata da 275 praticanti. Preso atto.....
All'attenzione dell'avv. Francesco De Jaco. Illustre avv. Francesco De Jaco, in qualità di Presidente della Commissione di Esame di Avvocato 2014-2015, chi le scrive è il dr Antonio Giangrande. E’ quel signore, attempato per i suoi 52 anni e ormai fuori luogo in mezzo ai giovani candidati, che in sede di esame le chiese, inopinatamente ed invano, Tutela. Tutela, non raccomandazione. Così come nel 2002 fu fatto inutilmente con l’avv. Luigi Rella, presidente di commissione e degli avvocati di Lecce. Tutela perché quel signore il suo futuro lo ha sprecato nel suo passato. Ostinatamente nel voler diventare avvocato ha perso le migliori occasioni che la vita possa dare. Aspettava come tutti che una abilitazione, alla mediocrità come è l’esame forense truccato, potesse, prima o poi, premiare anche lui. Pecori e porci sì, lui no! Quel signore ha aspettato ben 17 anni per, finalmente, dire basta. Gridare allo scandalo per un esame di Stato irregolare non si può. Gridare al complotto contro la persona…e chi gli crede. Eppure a Lecce c’è qualcuno che dice: “quello lì, l’avvocato non lo deve fare”. Qualcuno che da 17 anni, infastidito dal mio legittimo operato anche contro i magistrati, ha i tentacoli tanto lunghi da arrivare ovunque per potermi nuocere. Chi afferma ciò è colui il quale dimostra con i fatti nei suoi libri, ciò che, agli ignoranti o a chi è in mala fede, pare frutto di mitomania o pazzia. Guardi, la sua presidenza, in sede di scritto, è stata la migliore tra le 17 da me conosciute. Purtroppo, però, in quel di Brescia quel che si temeva si è confermato. Brescia, dove, addirittura, l’ex Ministro Mariastella Gelmini chiese scampo, rifugiandosi a Reggio Calabria per poter diventare avvocato. Il mio risultato delle prove fa sì che chiuda la fase della mia vita di aspirazione forense in bruttezza. 18, 18, 20. Mai risultato fu più nefasto e, credo, immeritato e punitivo. Sicuro, però, che tale giudizio non è solo farina del sacco della Commissione di esame di Brescia. Lo zampino di qualche leccese c’è! Avvocato… o magistrato… o entrambi…: chissà? Non la tedio oltre. Ho tentato di trovare Tutela, non l’ho trovata. Forse chiedevo troppo. Marcire in carcere da innocente o pagare fio in termini professionali, credo che convenga la seconda ipotesi. Questo è quel che pago nel mettermi contro i poteri forti istituzionali, che io chiamo mafiosi. Avvocato, grazie per il tempo che mi ha dedicato. Le tolgo il disturbo e, nel caso l’importasse, non si meravigli, se, in occasione di incontri pubblici, se e quando ci saranno, la priverò del mio saluto. Con ossequi.
Avetrana lì 26 giugno 2015. Dr Antonio Giangrande, scrittore per necessità.
E’ da scuola l’esempio della correzione dei compiti in magistratura, così come dimostrato, primo tra tutti gli altri, dall’avv. Pierpaolo Berardi, candidato bocciato. Elaborati non visionati, ma dichiarati corretti. L’avvocato astigiano Pierpaolo Berardi, classe 1964, per anni ha battagliato per far annullare il concorso per magistrati svolto nel maggio 1992. Secondo Berardi, infatti, in base ai verbali dei commissari, più di metà dei compiti vennero corretti in 3 minuti di media (comprendendo “apertura della busta, verbalizzazione e richiesta chiarimenti”) e quindi non “furono mai esaminati”. I giudici del tar gli hanno dato ragione nel 1996 e nel 2000 e il Csm, nel 2008, è stato costretto ad ammettere: “Ci fu una vera e propria mancanza di valutazione da parte della commissione”. Giudizio che vale anche per gli altri esaminati. In quell’esame divenne uditore giudiziario, tra gli altri, proprio Luigi de Magistris, giovane Pubblico Ministero che si occupò inutilmente del concorso farsa di abilitazione forense a Catanzaro: tutti i compiti identici e tutti abilitati. Al Tg1 Rai delle 20.00 del 1 agosto 2010 il conduttore apre un servizio: esame di accesso in Magistratura, dichiarati idonei temi pieni zeppi di errori di ortografia. La denuncia è stata fatta da 60 candidati bocciati al concorso 2008, che hanno spulciato i compiti degli idonei e hanno presentato ricorso al TAR per manifesta parzialità dei commissari con abuso del pubblico ufficio. Risultato: un buco nell'acqua. Questi magistrati, nel frattempo diventati dei, esercitano. Esperienza diretta dell'avvocato Giovanni Di Nardo che ha scoperto temi pieni di errori di ortografia giudicati idonei alle prove scritte del concorso in magistratura indetto nel 2013 le cui prove si sono tenute nel Giugno del 2014. Se trovate che sia vergognoso condividete il più possibile, non c'è altro da fare.
Caso Bellomo, le forti parole di Filippo Facci dopo le testimonianze delle allieve, scrive robertogp il 28/12/2017 su "NewNotizie.it". Come redazione di ‘NewNotizie.it‘ abbiamo preferito non parlare della pietosa vicenda riguardante il consigliere di Stato Francesco Bellomo, il quale si trova adesso indagato dalla procura di Bari, Milano e Piacenza per estorsione, atti persecutori e lesioni gravi. In breve, Francesco Bellomo, consigliere di Stato nonché magistrato, conduceva dei corsi volti ad affrontare al meglio l’esame di accesso alla magistratura; l’accusa rivoltagli negli ultimi giorni si precisa in diverse testimonianze di allieve o ex allieve che accusano l’uomo di alcune clausole molto particolari presenti nel contratto d’iscrizione ai suoi corsi. Veniva ad esempio richiesto alle studentesse di recarsi al corso truccate, con tacchi alti, minigonna e altre peculiarità espresse nel dettaglio all’interno del contratto. Altre bizzarre clausole erano presenti nel foglio da firmare, quali ad esempio che il fidanzamento del o della borsista era consentito solo in seguito all’approvazione personale di Bellomo o addirittura la revoca della borsa di studio in caso di matrimonio. Filippo Facci, giornalista di ‘Libero Quotidiano‘ ha espresso il suo parere riguardo la vicenda sostenendo che le allieve che hanno sporto denuncia abbiano “una fisiologica propensione a essere zoccole (auguri per qualsiasi carriera) oppure siano troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato”. Seppur i toni siano decisamente sopra le righe, Facci spiega con tre motivazioni il perché di una frase così forte: “Il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l’ esame per magistrato; i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi e infine, alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso”. Facci ricorda infine che “l’ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali”. Mario Barba
Filippo Facci per Libero Quotidiano il 28 dicembre 2017. I dettagli su quanto il consigliere Francesco Bellomo sia porco (copyright Enrico Mentana) li trovate in un altro articolo, e così pure gli aggiornamenti sui «contratti di schiavitù sessuale» (copyright Liana Milella, Repubblica) che imponeva a qualche allieva. Ciò posto, scusate: 1) il corso di Bellomo era un corso non obbligatorio per affrontare l'esame per magistrato; 2) i contratti di Bellomo erano palesemente nulli, perché nessun contratto può imporre pretese del genere, e per saperlo basta non essere scemi; 3) alcuni contratti venivano firmati da borsiste che avevano accettato una relazione sessuale con Bellomo, approccio che ci è difficile pensare spontaneo e slegato ai buoni esiti del corso. Detto questo, insomma: una che accetta di vestirsi in un certo modo, e così truccarsi, e i tacchi e le calze, una che accetta clausole che vietavano i matrimoni e condizionavano i fidanzamenti e autorizzavano a mettere in rete ogni dettaglio sessuale, una che crede che altrimenti avrebbe pagato 100mila euro di penale, beh, una così ha una fisiologica propensione a essere zoccola (auguri per qualsiasi carriera) oppure è troppo stordita per poter fare il mestiere del magistrato: troppo facile da circonvenire o corrompere, comunque sprovvista dell' equilibrio necessario a decidere della vita altrui. Lo diciamo non solo perché l'ingresso in magistratura non prevede esami psico-attitudinali, ma perché molte borsiste di Bellomo, magistrati, anzi magistrate, lo sono già diventate.
Concorsi Pubblici ed abilitazioni Truccati. Chi è senza peccato scagli la prima pietra.
CUORI, TRUFFE E MAZZETTE: È LA FARSA “CONCORSONI”, scrive Virginia Della Sala su "Il Fatto Quotidiano" il 15 agosto 2016. Erano in 6mila per 340 posti. Luglio 2015, concorso in magistratura, prova scritta. Passano in 368. Come in tutti i concorsi, gli altri sono esclusi. Stavolta però qualcosa va diversamente. “Appena ci sono stati comunicati i risultati, a marzo di quest’anno, abbiamo deciso di fare la richiesta di accesso agli atti. Abbiamo preteso di poter visionare non solo i nostri compiti ma anche quelli di tutti i concorrenti risultati idonei allo scritto”, spiega uno dei concorrenti, Lugi R. Milleduecento elaborati, scansionati e inviati tramite mail in un mese. Per richiederli, i candidati hanno dovuto acquistare una marca da bollo da 600 euro. Hanno optato per la colletta: 230 persone hanno pagato circa 3 euro a testa per capire come mai non avessero passato quel concorso che credevano fosse andato bene. E, soprattutto, per verificare cosa avessero di diverso i loro compiti da quelli di chi il concorso lo aveva superato. “Ci siamo accorti che su diversi compiti compaiono segni di riconoscimento: sottolineature, cancellature, strani simboli, schemi”. Anche il Fatto ha potuto visionarli: asterischi, note a piè di pagina, cancellature, freccette. In uno si contano almeno due cuoricini. In un altro, il candidato ha disegnato una stellina. “Ora non c’è molto che possiamo fare per opporci a questi risultati – spiega Luigi – visto che sono scaduti i termini per ricorrere al Tar. Inoltre, molti di noi stanno tentando di nuovo il concorso quest’anno. Ecco perché preferiamo non esporci molto mediaticamente”.
IL RAPPORTO DI BANKITALIA. Eppure, decine di sentenze dimostrano come sia possibile richiedere l’annullamento anche per un solo puntino. “Cancellature, scarabocchi, codici alfanumerici. Decisamente un cuoricino è un segno distintivo per cui può essere sollecitata l’amministrazione – spiega l’avvocato Michele Bonetti –. Qui si parla di un concorso esteso. Ma mi è capitato di assistere persone che partecipavano a un concorso in cui, dei cinque candidati, c’era solo un uomo. Capirà che la grafia di un uomo è facilmente riconoscibile come tale”. Al di là delle scorrettezze, una ricerca della Banca d’Italia pubblicata qualche giorno fa ha dimostrato che in Italia, i concorsi pubblici non funzionano. O, per dirlo con le parole dei quattro economisti autori del dossier Incentivi e selezione nel pubblico impiego (Cristina Giorgiantonio, Tommaso Orlando, Giuliana Palumbo e Lucia Rizzica), “i concorsi non sembrano adeguatamente favorire l’ingresso dei candidati migliori e con il profilo più indicato”. Si parla di bandi frammentati a livello locale, di troppe differenze metodologiche tra le varie gare, di affanno nella gestione coordinata a livello nazionale. Tra il 2001 e il 2015, ad esempio, Regioni ed Enti locali hanno bandito quasi 19mila concorsi per assunzioni a tempo indeterminato, con una media di meno di due posizioni disponibili per concorso. Macchinoso anche il metodo: “Prove scritte e orali, prevalentemente volte a testare conoscenze teorico-nozionistiche” si legge nel paper. Ogni concorrente studia in media cinque mesi e oltre il 45 per cento dei partecipanti rinuncia a lavorare. Così, se si considera che solo nel 2014, 280mila individui hanno fatto domanda per partecipare a una selezione pubblica, si stima che il costo opportunità per il Paese è di circa 1,4 miliardi di euro l’anno. La conseguenza è che partecipa solo chi se lo può permettere e chi ha più tempo libero per studiare. Anche perché si preferisce la prevalenza di quesiti “nozionistici” che però rischiano di “inibire la capacità dei responsabili dell’organizzazione di valutare il possesso, da parte dei candidati, di caratteristiche pur rilevanti per le mansioni che saranno loro affidate, quali le ambizioni di carriera e la motivazione intrinseca”. A tutto questo si aggiungono l’eccesso delle liste degli idonei – il loro smaltimento determina “l’irregolarità della cadenza” dei concorsi e quindi l’incertezza e l’incostanza dell’uscita dei bandi, dice il dossier.
LA BEFFA SICILIANA. Palermo, concorsone scuola per la classe di sostegno nelle medie. Quest’anno, forse per garantire l’anonimato e l’efficienza, il concorso è stato computer based: domande e risposte al pc. Poi, tutto salvato su una penna usb con l’attribuzione di un codice a garanzia dell’anonimato. Eppure, la settimana scorsa i 32 candidati che hanno svolto la prova all’istituto Pio La Torre a fine maggio sono stati riconvocati nella sede. Dovevano indicare e ricordarsi dove fossero seduti il giorno dell’esame perché, a quanto pare, erano stati smarriti i documenti che avrebbero permesso di abbinare i loro compiti al loro nome. “È assurdo – commenta uno dei docenti – sembra una barzelletta: dovremmo fare ricorso tutti insieme, unirci e costringere una volta per tutte il Miur ad ammettere che forse non si era ancora pronti per questa svolta digitale”.
IL VOTO SUL COMPITO CHE NON È MAI STATO FATTO. Maria Teresa Muzzi è invece una docente che si era iscritta al concorso nel Lazio ma poi aveva deciso di non parteciparvi. Eppure, il 2 agosto, ha ricevuto la convocazione per la prova orale per la classe di concorso di lettere e, addirittura, un voto per uno scritto che però non ha mai fatto: 30,4. Avrebbe potuto andare a fare l’orale con la carta d’identità e ottenere una cattedra, mentre il legittimo concorrente avrebbe perso la sua chance di cambiare vita. Ha deciso di non farlo e ancora si attende la risposta dell’ufficio scolastico regionale che spieghi come sia stato possibile un errore del genere. In Liguria per la classe di concorso di sostegno nella scuola secondaria di I grado, l’ufficio scolastico regionale ha disposto la revoca della nomina della Commissione giudicatrice e l’annullamento di tutti i suoi atti perché sarebbero emersi “errori che possono influire sull’esito degli atti e delle operazioni concorsuali”. I candidati ancora attendono di avere nuovi esiti delle prove svolte. E, va ricordato, la correzione dei compiti a risposta aperta nei concorsi pubblici ha una forte componente discrezionale. “Ogni concorso pubblico ha margini di errore ed è perfettibile – spiega Bonetti –. In Italia, però, di lacune ce ne sono troppe e alcune sono strutturali al tipo di prova che si sceglie di far svolgere. L’irregolarità vera è propria, invece, riguarda le scelte politiche che, se arbitrarie e ingiuste, sono sindacabili”.
LE BUSTARELLE DI NAPOLI. Il problema è che si alza sempre più la soglia di accesso in nome della meritocrazia, ma si continuano a lasciare scoperti posti che invece servirebbe coprire. Favorendo così le chiamate dirette e i contratti precari. “Dalla scuola al ministero degli esteri all’autority delle telecomunicazioni – spiega Bonetti. La scelta politica è ancora più evidente nel settore della sanità: ci sono meccanismi di chiusura già nel mondo universitario. Oggi il corso di medicina è previsto per 10mila studenti in tutta Italia mentre le statistiche Crui dal 1990 hanno sempre registrato una media di 130mila immatricolati. Sono restrizioni con un’ideologia. Una volta entrati, ad esempio, c’è prima un altro concorso per la scuola di specializzazione e poi ancora un concorso pubblico che però è per 5mila persone. E gli altri? Attendono e alimentano il settore privato, che colma le lacune del sistema pubblico. O sono chiamati come collaboratori, con forme contrattuali che vanno dalla partita iva allo stage”. Nelle settimane scorse, il Fatto Quotidiano ha raccontato dell’algoritmo ritrovato dalla Guardia di Finanza di Napoli che avrebbe consentito ai partecipanti di rispondere in modo corretto ai quiz di accesso per un concorso. Ad averlo, uno degli indagati di un’inchiesta sui concorsi truccati per accedere all’Esercito. Nel corso delle perquisizioni la Finanza ha ritrovato 100mila euro in contanti, buste con elenchi di nomi (forse i clienti) e un tariffario: il prezzo per superare i concorsi diviso “a pacchetti”, a seconda dell’esame e del corpo al quale accedere (esercito, polizia, carabinieri). La tariffa di 50.000 euro sarebbe relativa al “pacchetto completo”: dai test fisici fino ai quiz e alle prove orali. Solo 20.000 euro, invece, per chi si affidava ai mediatori dopo aver superato le prove fisiche. Uno sconto consistente. Tutto è partito da una soffiata: un ragazzo al quale avevano fatto la proposta indecente, ha rifiutato e ha denunciato. Un altro pure ha detto no, ma senza denunciare. Virginia Della Sala, il Fatto Quotidiano 15/8/2016.
Concorsi truccati all’università, chi controlla il controllore? Scrive Alessio Liberati il 27 settembre 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Sta avendo una grande eco in questi giorni l’inchiesta sui concorsi truccati all’università, ove, come la scoperta dell’acqua calda verrebbe da dire, la procura di Firenze ha individuato una sorta di “cupola” che decideva carriere e futuro dei professori italiani. La cosiddetta “raccomandazione” o “spintarella” (una terminologia davvero impropria per un crimine tanto grave) è secondo me uno dei reati più gravi e meno puniti nel nostro ordinamento. Chi si fa raccomandare per vincere un concorso viene trattato meglio, nella considerazione sociale e giuridica (almeno di fatto) di chi ruba un portafogli. Ma chi ti soffia il posto di lavoro o una progressione in carriera è peggio di un ladro qualunque: è un ladro che il portafogli te lo ruba ogni mese, per sempre. Gli effetti di delitti come questo, in sostanza, sono permanenti.
Ma come si è arrivati a ciò? Va chiarito che il sistema giuridico italiano prevede due distinti piani su cui operare: quello amministrativo e quello penale. Di quest’ultimo ogni tanto si ha notizia, nei (rari) casi in cui si riesce a scoperchiare il marcio che si cela dietro ai concorsi pubblici italiani. Di quello relativo alla giustizia amministrativa si parla invece molto meno. Ma tale organo è davvero in grado di assicurare il rispetto delle regole quando si fa ricorso?
Personalmente, denuncio da anni le irregolarità che sono state commesse proprio nei concorsi per l’accesso al Consiglio di Stato, massimo organo di giustizia amministrativa, proprio quell’autorità, cioè, che ha l’ultima parola su tutti i ricorsi relativi ai concorsi pubblici truccati. Basti pensare che uno dei vincitori più giovani del concorso (e quindi automaticamente destinato a una carriera ai vertici) non aveva nemmeno i titoli per partecipare. E che dire dei tempi di correzione? A volte una media di tre pagine al minuto, per leggere, correggere e valutare. E la motivazione dei risultati attribuiti? Meramente numerica e impossibile da comprendere. Tutti comportamenti, si intende, che sono in linea con i principi giurisprudenziali sanciti proprio dalla giurisprudenza dei Tar e del Consiglio di Stato.
E allora il problema dei concorsi truccati in Italia non può che partire dall’alto: si prenda atto che la giustizia amministrativa non è in grado di assicurare nemmeno la regolarità dei concorsi al proprio interno e che, quindi, non può certo esserle affidato il compito istituzionale di decidere su altri concorsi: con un altro organo giurisdizionale che sia davvero efficace nel giudicare le irregolarità dei concorsi pubblici, al punto da costituire un effettivo deterrente, si avrebbe una riduzione della illegalità cui si assiste da troppo tempo nei concorsi pubblici italiani.
Se questa è antimafia…. In Italia, con l’accusa di mafiosità, si permette l’espropriazione proletaria di Stato e la speculazione del Sistema su beni di persone che mafiose non lo sono. Persone che non sono mafiose, né sono responsabili di alcun reato, eppure sottoposte alla confisca dei beni ed alla distruzione delle loro aziende, con perdita di posti di lavoro. Azione preventiva ad ogni giudizio. Alla faccia della presunzione d’innocenza di stampo costituzionale. Interventi di antimafiosità incentrati su un ristretto ambito territoriale o di provenienza territoriale.
Questa antimafia, per mantenere il sistema, impone la delazione e la calunnia ai sodalizi antiracket ed antiusura iscritti presso le Prefetture provinciali. Per continuare a definirsi tali, ogni anno, le associazioni locali sono sottoposte a verifica. L’iscrizione all’elenco è condizionata al numero di procedimenti penali e costituzioni di parti civili attivate. L’esortazione a denunciare, anche il nulla, se possibile. Più denunce per tutti…quindi. Chi non denuncia, anche il nulla, è complice od è omertoso.
A tal fine, per non aver adempito ai requisiti di delazione, calunnia e speculazione sociale, l’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, sodalizio nazionale di promozione sociale già iscritta al n. 3/2006 presso il registro prefettizio della Prefettura di Taranto Ufficio Territoriale del Governo, il 23 settembre 2017 è stata cancellata dal suddetto registro.
I magistrati favoriscono la mafia, scrive Barbara Di il 12 novembre 2017 su "Il Giornale".
(Quando diventano magistrati con un concorso truccato, spodestando i meritevoli, e per gli effetti sentendosi dio in terra, al di sopra della legge e della morale, ndr).
Quando lasciano indifesi i cittadini davanti ai soprusi.
Quando costringono un cittadino ad un processo eterno per vedersi dichiarare di aver ragione.
Quando non si studiano le carte di un processo e danno torto a chi ha ragione.
Quando per ignoranza applicano una legge nel modo sbagliato.
Quando ritardano anni una sentenza.
Quando un creditore con una sentenza esecutiva ci mette altri anni per avere una minima parte dei soldi spettanti.
Quando un creditore è costretto ad accettare pochi soldi, maledetti e subito per evitare un lungo e costoso processo.
Quando un proprietario di una casa occupata non riesce a riottenerla.
Quando non cacciano chi occupa abusivamente una casa popolare e chi ne avrebbe diritto dorme per strada.
Quando nei tribunali amministrativi devi attendere anni per vedere annullare provvedimenti assurdi della burocrazia o avere un’inutile autorizzazione ingiustamente negata.
Quando un cittadino è costretto a oliare la burocrazia con favori e bustarelle per non attendere anni quell’inutile autorizzazione o per non subire gli assurdi provvedimenti della burocrazia.
Quando un datore di lavoro si vede annullare il licenziamento di un ladro sindacalizzato.
Quando un lavoratore è costretto ad accettare una conciliazione e una buonuscita ridicola perché non ha soldi per un processo eterno.
Quando un cittadino vede impunito il ladro che lo ha derubato.
Quando lasciano impuniti i delinquenti perché non sono cittadini.
Quando incriminano i cittadini che tentano di difendersi da soli.
Quando danno pene ridicole e mai scontate a rapinatori e violentatori.
Quando danno pene esemplari solo ai violentatori che finiscono sui giornali.
Quando lasciano impuniti violenti devastatori che mettono a ferro e fuoco una città per ideologia.
Quando non indagano sui reati che non finiscono sui giornali.
Quando indagano sui reati solo per finire sui giornali.
Quando si inventano i reati per finire sui giornali.
Quando le assoluzioni per reati mediatici sono relegate in un trafiletto sui giornali.
Quando si inventano condanne assurde per reati mediatici che finiscono puntualmente riformate in appello.
Quando indagano sui politici per ideologia.
Quando arrestano i politici per ideologia e poi li assolvono a elezioni passate.
Quando fanno cadere i governi per impedire la riforma della giustizia.
Quando fanno carriera solo per ideologia o per i processi mediatici che si sono inventati.
Quando impediscono ai bravi magistrati di far carriera perché non appartengono alla corrente giusta o lavorano lontani dalle luci dei riflettori.
Quando non indagano sui colleghi che delinquono.
Quando non puniscono i colleghi per i loro clamorosi errori giudiziari.
Quando non applicano provvedimenti disciplinari ai colleghi che meriterebbero di essere cacciati.
Quando archiviano casi di scomparsa e li riaprono per trovare un cadavere in giardino solo dopo un servizio in televisione.
Quando invocano l’obbligatorietà dell’azione penale solo per i reati mediatici e politici anche se sono privi di riscontro.
Quando si dimenticano dell’obbligatorietà dell’azione penale quando i reati sono comuni e colpiscono i cittadini.
Quando si ricordano che un mafioso è mafioso solo quando dà una testata di stampo mafioso.
Quando un cittadino per avere ciò che gli spetta finisce per rivolgersi agli scagnozzi di un boss mafioso.
Quando gli unici territori dove i cittadini non subiscono furti, violenze e soprusi sono quelli controllati dalla mafia.
Quando i cittadini sono costretti a pagare il pizzo ai mafiosi per essere protetti.
Quando non fanno l’unica cosa che dovrebbero fare: dare giustizia per proteggere loro i cittadini.
Quando per colpa dei loro errori ed orrori in Italia ormai siamo tornati alla legge del più forte.
Quando i magistrati non fanno il loro mestiere, la mafia vince perché è il più forte.
A proposito di interdittive prefettizie.
Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. Inoltre l’antimafia preventiva diventata definitiva.
Infine, l’età adulta dell’informativa antimafia? Limiti e caratteri dell’istituto secondo una ricostruzione costituzionalmente orientata, scrive Fulvio Ingaglio La Vecchia. Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, sentenze 29 luglio 2016, n. 247 e 3 agosto 2016, n. 257.
Interdittive antimafia, una sentenza esemplare, scrive Maria Giovanna Cogliandro, Domenica 12/11/2017 su "La Riviera on line". Di recente il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha emesso una sentenza in cui vengono precisate le condizioni necessarie affinché l'interdittiva antimafia, figlia della cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore, non porti a un regime di polizia che metta a rischio diritti fondamentali. In questa continua corsa alla giustizia penale, figlia del populismo antimafia fatto di santoni e tromboni che, dai sottoscala di procure e prefetture, con le stimmate delle loro immacolate esistenze, sono sempre in cerca di un succoso cattivo da dare in pasto all’opinione pubblica, capita di imbattersi in una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, una sentenza di cui tutti dovrebbero avere una copia da conservare con cura nel proprio portafoglio, in mezzo ai santini e alla tessera sanitaria. La sentenza riguarda il ricorso presentato da un gruppo di imprese contro la Prefettura di Agrigento, l'Autorità nazionale Anticorruzione e il Comune di Agrigento. Le imprese in questione sono tutte state raggiunte da interdittiva antimafia. Ricordiamo che l’interdittiva antimafia permette all’amministrazione pubblica di interrompere qualsiasi rapporto contrattuale con imprese che presentano un pericolo di infiltrazione mafiosa, anche se non è stato commesso un illecito per cui titolari o dirigenti siano stati condannati. Per dichiarare l’inaffidabilità di un’impresa è sufficiente un’inchiesta in corso, una frequentazione sospetta, un socio “opaco”, una parentela pericolosa che potrebbe condizionarne le scelte, o anche solo la mera eventualità che l’impresa possa, per via indiretta, favorire la criminalità. La sentenza in questione rompe clamorosamente con questa cultura del sospetto portata avanti dai professionisti del rancore. "Benché un provvedimento interdittivo - argomentano i Giudici - possa basarsi anche su considerazioni induttive o deduttive diverse dagli “indici presuntivi”, è tuttavia necessario che le norme che conferiscono estesi poteri di accertamento ai Prefetti al fine di consentire loro di svolgere indagini efficaci e a vasto raggio, non vengano equiparate a un’autorizzazione a tralasciare di compiere indagini fondate su condotte o su elementi di fatto percepibili poiché, se con le norme in questione il Legislatore ha certamente esteso il potere prefettizio di accertamento della sussistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa, non ha affatto conferito licenza di basare le comunicazioni interdittive su semplici sospetti, intuizioni o percezioni soggettive non assistite da alcuna evidenza indiziaria". Non è quindi permesso far patire all'azienda un danno di immagine, sulla base di un fumus che non trovi riscontro nei fatti. In mancanza di condotte che facciano presumere che il titolare o il dirigente di un'azienda sia in procinto di commettere un reato (o che stia determinando le condizioni favorevoli per delinquere o per “favoreggiare” chi lo compia), non è legittimo che questi sia considerato come "soggetto socialmente pericoloso" e che debba, pertanto, sottostare a "misure di prevenzione" che vanno a incidere su diritti fondamentali. Per giustificare l'invio di una interdittiva antimafia, "non è sufficiente - proseguono i Giudici - affermare che uno o più parenti o amici del soggetto richiedente la certificazione antimafia risultano mafiosi, o vicini a soggetti mafiosi; o vicini o affiliati a cosche mafiose e/o a famiglie mafiose". Occorrerà innanzitutto precisare la ragione per la quale un soggetto viene considerato mafioso. "La pericolosità sociale di un individuo - dichiarano i Giudici - non può essere ritenuta una sua inclinazione strutturale, congenita e genetico-costitutiva (alla stregua di una infermità o patologia che si presenti - sia consentita l’espressione - "lombrosanamente evidente" o comunque percepibile mediante indagini strumentali o analisi biologiche), né può essere presunta o desunta in via automatica ed esclusiva dalla sua posizione socio-ambientale e/o dal suo bagaglio culturale; né, dunque, dalla mera appartenenza a un determinato contesto sociale o a una determinata famiglia (semprecchè, beninteso, i soggetti che ne fanno parte non costituiscano un’associazione a delinquere)". Nel provvedimento interdittivo vanno, inoltre, specificate le circostanze di tempo e di luogo in cui imprenditore e soggetto "mafioso" sono stati notati insieme; le ragioni logico-giuridiche per le quali si ritiene che si tratti non di mero incontro occasionale (o di incontri sporadici), ma di “frequentazione effettivamente rilevante", ossia di relazione periodica, duratura e costante volta a incidere sulle decisioni imprenditoriali. In poche parole, prendere il caffè con un mafioso o presunto tale non è sufficiente. Inoltre, emerge dalla sentenza, qualificare un soggetto “mafioso” sulla scorta di meri sospetti e a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria comporterebbe un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità "simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole e imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni e infiltrazioni mafiose realmente inquinanti". L'interdittiva che inchioda per ipotesi non combatte la delinquenza e la criminalità ma diviene strumentale per sgomberare il campo da personaggi scomodi. "D’altro canto - concludono i giudici - se per attribuire a un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza a una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono". Amen. Ripeto: questa è una sentenza da conservare accanto ai santini. E plastificatela, per evitare che si sgualcisca col tempo.
La strada dell'inquisizione è lastricata dalla cattiva antimafia. Una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione siciliana mette in guardia dagli abissi in cui rischiamo di sprofondare perdendo di vista i capisaldi dello Stato di diritto, scrive Rocco Todero il 29 Settembre 2017 su "Il Foglio". Nell’Italia che si è presa il vizio di accusare a sproposito la giustizia amministrativa di essere la causa della propria arretratezza economica e sociale capita di leggere una sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana (una sezione del Consiglio di Stato distaccata a Palermo) che dovrebbe essere mandata giù a memoria da quanti nel nostro Paese vivono facendo mostra di stellette meritocratiche (più o meno veritiere) negli uffici delle prefetture, nelle aule dei tribunali, nelle sedi delle università, nelle redazioni di molti giornali e, in ultimo, anche nelle aule del Parlamento. Da molti anni, oramai, si combatte in sede giudiziaria una battaglia sulle modalità di applicazione delle misure di prevenzione, le cosiddette informative antimafia, per mezzo delle quali l’eccessiva solerzia inquisitoria degli uffici periferici del Ministero dell’Interno cerca di realizzare quella che nel linguaggio giuridico si definisce una “tutela anticipata” del crimine, un’azione cioè volta a contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto economico - sociale senza che, tuttavia, si manifestino azioni delittuose vere e proprie da parte dei soggetti interdetti. Il risultato nel corso degli anni è stato abbastanza sconfortante, poiché decine di imprese individuali e società commerciali sono state colpite dall’informativa antimafia e poste, molto spesso, sotto amministrazione prefettizia sulla base di un semplice sospetto coltivato dalle forze dell’ordine. A molti, troppi, è capitato, così, di trovarsi sotto interdittiva antimafia (solo per fare alcuni esempi) a causa di un parente accusato di appartenere ad un’associazione mafiosa o per colpa di un’indagine penale per 416 bis poi sfociata nel proscioglimento o nell’assoluzione o perché una società con la quale s’intrattengono rapporti commerciali è stata a sua volta interdetta per avere stipulato contratti con altra impresa sospettata di subire infiltrazioni mafiose (si, è proprio cosi, si chiama informativa a cascata o di secondo o terzo grado: A viene interdetto perché intrattiene rapporti commerciali con B, il quale non è mafioso, ma coltiva contatti economici con C, il quale ultimo è sospettato di essere, forse, soggetto ad infiltrazioni mafiose. A pagarne le conseguenze è il soggetto A, perché l’infiltrazione mafiosa passerebbe per presunzione giudiziaria da C a B e da B ad A). Spesso i Tribunali amministrativi competenti a conoscere della legittimità delle informative antimafia emanate dalle Prefettura sono stati sin troppo indulgenti con l’Amministrazione pubblica, sacrificando l’effettività della tutela dei diritti fondamentali dei cittadini sull’altare di una lotta alle infiltrazioni mafiose che risente oramai troppo della pressione atmosferica di un clima allarmistico pompato ad arte per ben altri e meno nobili fini politici. Qualche settimana fa, invece, il Consiglio di Giustizia Amministrativa siciliano (composto dai magistrati Carlo Deodato, Carlo Modica de Mohac, Nicola Gaviano, Giuseppe Barone e Giuseppe Verde), dovendo decidere in sede d'appello dell’ennesima informativa antimafia emessa dalla Prefettura di Agrigento, ha sostanzialmente scritto un bellissimo e coraggioso saggio di cultura giuridica liberale, dimostrando che la lotta alla mafia si può ben coltivare salvaguardando i capisaldi di uno Stato di diritto liberal democratico moderno. Il Tribunale ha preso atto del fatto che per stroncare sul nascere la diffusione di alcune condotte criminose non si può fare altro che emettere “giudizi prognostici elaborati e fondati su valutazioni a contenuto probabilistico” che colpiscono soggetti in uno stadio “addirittura anteriore a quello del tentato delitto”. Ma alla pubblica amministrazione, argomentano i Giudici, non è permesso di scadere nell’arbitrio, cosicché non sarà mai sufficiente un mero “sospetto” per giustificare la limitazione delle libertà fondamentali dell’individuo. Si dovranno piuttosto documentare fatti concreti, condotte accertabili, indizi che dovranno essere allo stesso tempo gravi, precisi e concordanti. Non potranno mai essere sufficienti, continua il Tribunale, mere ipotesi e congetture e non potrà mai mancare un “fatto” concreto, materiale, da potere accertare nella sua esistenza, consistenza e rilevanza ai fini della verosimiglianza dell’infiltrazione mafiosa. Per potere affermare che l’impresa di Tizio è sospettata d'infiltrazioni mafiose, allora, non sarà sufficiente affermare che essa intrattiene rapporti con l’impresa di Caio (non mafiosa) che a sua volta, però, ha stipulato accordi con Mevio (lui si, sospettato di collusioni con la mafia), ma sarà necessario dimostrare che una qualche organizzazione mafiosa (ben individuata attraverso i soggetti che agiscono per essa, non la “mafia” genericamente intesa) stia tentando, in via diretta, d’infiltrarsi nell’azienda del primo soggetto. Il legame di parentela con un mafioso, chiariscono ancora i magistrati, non può avere alcuna rilevanza ai fini del giudizio sull’informativa antimafia se non si dimostrerà che chi è stato colpito dal provvedimento interdittivo, lui e non altri, abbia posto in essere comportamenti che possano destare allarme sociale per il loro potenziale offensivo dell’interesse pubblico, “non essendo giuridicamente e razionalmente sostenibile che il mero rapporto di parentela costituisca di per sé, indipendentemente dalla condotta, un indice sintomatico di pericolosità sociale ed un elemento prognosticamente rilevante”. La nostra non è l'epoca del medioevo, conclude il Consiglio di Giustizia Amministrativa, e l'ordinamento giuridico non può svestire i panni dello Stato di diritto: “Sicché, ove fosse possibile qualificare “mafioso” un soggetto sulla scorta di meri sospetti ed a prescindere dall’esame concreto della sua condotta penale e della sua storia giudiziaria si perverrebbe ad un aberrante meccanismo di estensione a catena della pericolosità simile a quello su cui si fondava, in un non recente passato, l’inquisizione medievale (che, com’è noto, fu un meccanismo di distruzione di soggetti ‘scomodi’ e non già di soggetti ‘delinquenti’; mentre il commendevole ed imprescindibile scopo che il Legislatore si pone è quello di depurare la società da incrostazioni ed infiltrazioni mafiose realmente inquinanti). D’altro canto, se per attribuire ad un soggetto la qualifica di ‘mafioso’ fosse sufficiente il mero sospetto della sua appartenenza ad una famiglia a sua volta ritenuta mafiosa e se anche la qualifica riferita alla sua famiglia potesse essere attribuita sulla scorta di sospetti; e se la mera frequentazione di un presunto mafioso (ma tale considerazione vale anche per l’ipotesi di mera frequentazione di un soggetto acclaratamente mafioso) potesse determinare il ‘contagio’ della sua (reale o presunta) pericolosità, si determinerebbe una catena infinita di presunzioni atte a colpire un numero enorme di soggetti senza alcuna seria valutazione in ordine alla loro concreta vocazione criminogena. E l’effetto sarebbe l’instaurazione di un regime di polizia nel quale la compressione dei diritti dei cittadini finirebbe per dipendere dagli orientamenti culturali e dalle suggestioni ideologiche (quand’anche non dalle idee politiche) dei funzionari o, peggio, degli organi dai quali essi dipendono.” Da mandare giù a memoria. Altro che il nuovo codice antimafia con il quale fare propaganda manettara a buon mercato.
A proposito di sequestri preventivi giudiziari.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
Dove non arrivano con le interdittive prefettizie, arrivano con i sequestri preventivi.
Interdittive: decine di aziende uccise dal reato di parentela mafiosa, scrive Simona Musco il 4 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Il fenomeno delle interdittive è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione del 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. Solo dalla Prefettura di Reggio Calabria, negli ultimi 14 mesi, sono partite 130 interdittive. Quasi dieci ogni 30 giorni, tutte frutto della gestione del Prefetto Michele Di Bari, approdato nella città dello Stretto ad agosto 2016. Un numero enorme che conferma una tendenza crescente, soprattutto in Calabria, dove in poco più di cinque anni le aziende hanno depositato quasi 500 ricorsi nelle cancellerie dei tribunali amministrativi di Catanzaro e Reggio Calabria. Ma il fenomeno – i cui dai sono ancora incerti – è nazionale: in cinque anni, dopo la riorganizzazione della materia nel 2011, sono circa 400 le imprese allontanate dai lavori pubblici. I numeri non sono ancora chiari, dato che gli archivi informatici dello Stato non hanno tutti i dati. E così succede che mentre dai siti dei tribunali amministrativi risulta un numero enorme di ricorsi (circa 2000 in cinque anni) e annullamenti (tra i 40 e i 90 l’anno), le cifre fornite dalla Dia, la Direzione investigativa antimafia, parlano di 31 annullamenti dal 2011 fino a maggio 2015. Numeri snelliti dal vuoto di informazioni dalle Prefetture di Napoli, Reggio Calabria e Vibo Valentia. La parte più corposa, dunque. La ratio dello strumento è chiara: «contrastare le forme più subdole di aggressione all’ordine pubblico economico, alla libera concorrenza ed al buon andamento della pubblica amministrazione», sentenzia il Consiglio di Stato. Un provvedimento preventivo, che prescinde quindi dall’accertamento di singole responsabilità penali e anticipa la soglia di difesa. «Per questo – dice ancora il Consiglio di Stato – deve essere respinta l’idea che l’informativa debba avere un profilo probatorio di livello penalistico e debba essere agganciata a eventi concreti ed a responsabilità addebitabili». Se c’è un sospetto, dunque, la Prefettura ha il potere e il dovere di tranciare i rapporti tra aziende private e pubblica amministrazione, attraverso tutta una serie di accertamenti ai quali non si può replicare fino a quando non diventano di pubblico dominio. Ovvero quando l’azienda colpita viene esclusa dai bandi pubblici e marchiata come infetta. Un’etichetta che, a volte, è giustificata da elementi tangibili e concreti, consentendo quindi di sfilare dalle mani dei clan l’appalto, ma altre decisamente meno. Tant’è che sono centinaia i ricorsi vinti, di una vittoria che però è solo parziale: sempre più spesso, infatti, chi si è visto colpire da un’interdittiva, pur vincendo il proprio ricorso, non riesce più a reinserirsi nel mondo del lavoro. Partiamo dal modus operandi: la Prefettura punta gran parte della sua decisione sui legami di parentela e su frequentazioni poco raccomandabili. Nulla o quasi, invece, si dice su fatti concreti che possano far temere effettivamente un condizionamento mafioso. Ed è proprio questo che fa crollare i provvedimenti davanti ai giudici amministrativi, per i quali non basta basarsi su rapporti commerciali e di parentela, «da soli insufficienti», dice ancora il Consiglio di Stato. Occorrono perciò, aggiunge, «altri elementi indiziari a dimostrazione del “contagio”». E «non possono bastare i precedenti penali» riferiti «ad indagini in seguito archiviate e, in altra parte, a condanne molto risalenti nel tempo», in quanto servono elementi «concreti e riferiti all’attualità». Un’interpretazione confermata anche dalla Corte costituzionale, secondo cui è arbitrario «presumere che valutazioni comportamenti riferibili alla famiglia di appartenenza o a singoli membri della stessa diversi dall’interessato debbano essere automaticamente trasferiti all’interessato medesimo». Ma è proprio questo il meccanismo che genera un circolo vizioso capace di far risucchiare una parte rilevante dell’economia dal vortice del sospetto. E le conseguenze non sono solo per le ditte: le interdittive, infatti, colpiscono aziende impegnate in appalti pubblici che così rimangono bloccati, cantieri aperti che si richiuderanno magari dopo anni. Dell’ambiguità dello strumento, lo scorso anno, aveva parlato il senatore Pd e membro della Commissione parlamentare antimafia Stefano Esposito, che al convegno “Warning on crime” all’Università di Torino aveva dichiarato che «lo strumento non funziona e nel 60% dei casi le interdittive vengono respinte» dai giudici amministrativi. Chiedendo dunque una riforma, che anche Rosy Bindi, poco prima, aveva annunciato, nel 2015. «Le interdittive antimafia sono uno strumento statico, mentre la lotta alla mafia ha bisogno di film», ha spiegato. Un film che nel nuovo codice antimafia coincide col controllo giudiziario delle aziende sospette, i cui risultati sono ancora tutti da vedere.
Che affare certe volte l’antimafia! Scrive Piero Sansonetti il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". I “paradossi” calabresi. Questa storia calabrese è molto istruttiva. La racconta nei dettagli, nell’articolo qui sopra, Simona Musco. La sintesi estrema è questa: un imprenditore incensurato, e senza neppure un grammo di carichi pendenti (che oltretutto è presidente di Confindustria), vince un appalto per costruire i parcheggi del palazzo di Giustizia a Reggio. Un lavoro grosso: più di 15 milioni. Al secondo posto, in graduatoria, una azienda amministrata da un deputato di Scelta Civica. L’azienda del deputato protesta per aver perso la gara e ricorre al Tar. Il Tar dà ragione all’imprenditore e torto all’azienda del deputato. Poi, all’improvviso, non si sa come, la Prefettura fa scattare l’interdittiva e cioè, per motivi cautelari, toglie l’appalto all’imprenditore e lo assegna all’azienda del deputato che aveva perso la gara. Come è possibile? Proviamo a spiegarci. Le interdittive funzionano così: sono discrezionali. Decide il prefetto. Non c’è bisogno di una condanna penale, addirittura – nel caso ad esempio, del quale stiamo parlando – nemmeno di un avviso di garanzia o di una ipotesi di reato. Il reato non c’è, però a me tu non mi convinci. Punto e basta. E allora io quell’appalto di 16 milioni di euro te lo levo e lo porgo all’azienda di un deputato. Il deputato in questione, peraltro, fa parte della commissione antimafia. E lo Stato di diritto? E la libera concorrenza? E l’articolo 3 del- la Costituzione? Beh, mettetevi il cuore in pace: esiste una parte del territorio nazionale, e in modo particolarissimo la Calabria, nel quale lo Stato di diritto non esiste, non esiste la libera concorrenza e l’Articolo 3 della Costituzione (quello che dice che tutti sono uguali davanti alla legge) non ha effetti. La ragione di questo Far West, in gran parte, è spiegabile con la presenza della mafia, che la fa da padrona, fuori da ogni regola. Ma anche lo Stato, che la fa da padrone, altrettanto al di fuori da ogni regola, e da ogni senso di giustizia, e mostrando sempre il suo volto prepotente, come questa storia racconta. Lo Stato, con la mafia, è responsabile del Far West. Allora il problema è molto semplice. È assolutamente impensabile che si possa condurre una battaglia seria contro la mafia e la sua grande estensione in alcune zone del Sud Italia, se non si ristabiliscono le regole e se non si riporta lo Stato alla sua funzione, che è quella di produrre equità e sicurezza sociale, e non di produrre prepotenza, incertezza e instabilità. La chiave di tutto è sempre la stessa: ristabilire lo Stato di diritto. E questo, naturalmente, vuol dire che bisogna impedire che i commercianti – ad esempio – siano taglieggiati dalla mafia, ma bisogna anche impedire che i diritti di tutti i cittadini – non solo quelli onesti – siano sistematicamente calpestati. La sospensione della legalità, gli strumenti dell’emergenza (come le interdittive, le commissioni d’accesso e simili) possono avere una loro utilità solo in casi rarissimi e in situazioni molto circoscritte. E solo se usati con rigore estremo e sempre con il terrore di commettere prevaricazioni e ingiustizie. Se invece diventano semplicemente – come succede molto spesso – strumenti di potere dell’autorità, magari frustrata dai suoi insuccessi nella battaglia contro la mafia, allora producono un effetto moltiplicatore, proprio loro, del potere mafioso. Perché la discrezionalità, l’arroganza, l’ingiustizia, creano una condizione sociale e psicologica di massa, nella quale la mafia sguazza. Naturalmente non ho proprio nessun elemento per immaginare che l’azienda che ha fatto le scarpe a quella dell’ex presidente di Confindustria (che si è dimesso dopo aver ricevuto questa interdittiva, che ha spezzato le gambe alla sua azienda e i nervi a lui), e cioè l’azienda del deputato dell’antimafia, abbia brigato per ottenere l’interdittiva contro il concorrente. Non ho mai sopportato la politica e il giornalismo che vivono di sospetti. Però il messaggio che è stato mandato alla popolazione di Reggio Calabria, oggettivamente, è questo: se non sei protetto dalla “compagnia dell’antimafia” qui non fai un passo. E se sei deputato, comunque, sei avvantaggiato. Capite che è un messaggio letale? P. S. Conosco molto bene l’imprenditore di cui sto parlando, e cioè Andrea Cuzzocrea, la cui azienda ora è al palo e rischia di fallire. Lo conosco perché insieme a un gruppo di giornalisti dei quali facevo parte, organizzò quattro anni fa la nascita di un giornale, che si chiamava “Il Garantista” e che durò poco perché dava fastidio a molti (personalmente, in quanto direttore di quel giornale, ho collezionato una trentina di querele) e non aveva una lira in cassa. “Il Garantista” era edito da una cooperativa, molto povera, della quale lui assunse per un periodo la presidenza. Non so quali telefonate ebbe con Teresa Munari. Però so per certo due cose. La prima è che Teresa Munari era una giornalista molto accreditata negli ambienti democratici di Reggio Calabria. L’ho conosciuta quattro o cinque anni fa, mi invitò a casa sua a una cena. C’erano anche il Procuratore generale di Reggio e una deputata molto famosa per il suo impegno “radicale” contro la mafia. La Munari collaborò a “Calabria Ora”, giornale regionale che al tempo dirigevo, e successivamente al “Garantista”. Non era raccomandata. E non fu mai, mai assunta. Non era in redazione, non partecipava alla vita del giornale, scriveva ogni tanto degli articoli, che siccome non avevamo il becco di un quattrino credo che non gli pagammo mai. Qualcuno è in grado di spiegarmi come si fa a dire che uno non può costruire un parcheggio perché una volta ha telefonato a Teresa Munari?
Levano l’appalto a un imprenditore incensurato e lo danno a un deputato dell’antimafia, scrive Simona Musco il 3 Novembre 2017 su "Il Dubbio". Reggio Calabria: un imprenditore incensurato si vede annullata l’assegnazione, e i lavori per 16 milioni sono affidati all’azienda di un deputato.
PARADOSSI CALABRESI. Una azienda di Reggio Calabria, guidata da imprenditori incensurati e senza carichi pendenti, vince un appalto molto ricco: la costruzione del parcheggio del palazzo di Giustizia. È un lavoro grosso, da 16 milioni. L’azienda che è arrivata seconda, nella gara d’appalto, fa ricorso. Il Tar gli dà torto. E conferma l’appalto all’azienda che si è classificata prima (su 19). Allora interviene il Prefetto e fa scattare l’interdittiva per l’azienda vincitrice. Che vuol dire? Che il prefetto ha questo potere discrezionale di interdire una azienda, temendo infiltrazioni mafiose, anche se questa azienda non è inquisita. E il prefetto di Reggio ha esercitato questo potere. E così il lavoro è passato al secondo classificato. Chi è? È un deputato. Un deputato della commissione antimafia.
Un appalto da 16 milioni di euro per la costruzione del parcheggio del nuovo Palazzo di Giustizia. Diciannove aziende che decidono di provarci e due che arrivano in cima alla graduatoria con pochissimi punti di distacco. E un’interdittiva antimafia che fa transitare l’appalto dalle mani della prima – la Aet srl – alla seconda, la Cosedil, fondata da un parlamentare della Commissione antimafia, Andrea Vecchio, e patrimonio della sua famiglia. È successo a Reggio Calabria, dove l’ex presidente di Confindustria Andrea Cuzzocrea ha visto sparire, in pochi mesi, un lavoro imponente, la poltrona di presidente degli industriali e la credibilità. Tutto a causa di uno strumento preventivo – l’interdittiva – che ora rischia di mandare a gambe all’aria l’azienda, da sempre attiva negli appalti pubblici, e i due imprenditori che la amministrano, Cuzzocrea e Antonino Martino, entrambi incensurati.
UN APPALTO DIFFICILE. Tutto comincia nel 2016, quando la Aet srl vince l’appalto per la costruzione dei parcheggi del tribunale di Reggio Calabria. Un lavoro che la città attendeva da tempo e che, finalmente, sembra potersi sbloccare. Ma i tempi per la firma del contratto vengono rallentati dai ricorsi. In prima fila c’è la Cosedil spa, azienda siciliana, che chiede al Tar la verifica dell’offerta presentata dalla Aet e dei requisiti dell’azienda e di conseguenza l’annullamento dei verbali di gara. I giudici amministrativi valutano il ricorso, bocciando tutte le obiezioni tranne una, quella relativa la giustificazione degli oneri aziendali della sicurezza, per i quali la Commissione giudicatrice dell’appalto avrebbe commesso «un macroscopico difetto d’istruttoria». Un errore, si legge nella sentenza, dal quale però non deriva «automaticamente l’obbligo di escludere la società prima classificata». Il Tar, a gennaio, interpella dunque la Stazione unica appaltante, alla quale chiede di effettuare una nuova verifica sull’offerta dell’Aet. Risultato: viene confermata «la regolarità e la correttezza» dell’aggiudicazione dell’appalto. La firma sul contratto per l’avvio dei lavori, dunque, sembrano avvicinarsi.
L’INTERDITTIVA. Ma l’iter per far partire i cantieri subisce un altro stop, quando ad aprile la Prefettura emette un’informativa interdittiva a carico dell’azienda, escludendola, di fatto, dai giochi. Cuzzocrea, che nel 2013 aveva chiesto alla Commissione parlamentare antimafia di «istituire le white list obbligatorie per gli appalti pubblici, rendendo così più trasparente un settore delicatissimo», si dimette da presidente di Confindustria. L’interdittiva riassume elementi già emersi in precedenza nella corposa relazione che ha portato allo scioglimento dell’amministrazione di Reggio Calabria, elementi già confutati, ai quali si aggiunge un nuovo dato, relativo alla parentesi da editore di Cuzzocrea. Ed è sulla base di quello che la Prefettura rivaluta tutto il passato, sebbene esente da risvolti giudiziari. Si tratta del contatto (finito nell’operazione “Reghion”) tra Cuzzocrea e l’ex deputato Paolo Romeo, già condannato definitivamente per concorso esterno in associazione mafiosa e ora in carcere in quanto considerato dalla Dda reggina a capo della cupola masso- mafiosa che governa Reggio Calabria. Nessun rapporto, almeno documentato, prima del 2014: i due si conoscono a gennaio di quell’anno, in Senato, dove sono stati entrambi invitati, in quanto rappresentanti delle associazioni, per discutere della costituenda città metropolitana. Dopo quella volta un unico contatto: Cuzzocrea, presidente della società editrice del quotidiano Cronache del Garantista, viene contattato da Romeo, che gli chiede di valutare l’assunzione di una giornalista, Teresa Munari, secondo la Dda strumento nelle mani di Romeo. Cuzzocrea propone la giornalista, nota in città e ormai in pensione, al direttore Sansonetti, che la inserisce tra i collaboratori, pur senza un contratto. Tra i pezzi scritti dalla Munari su quella testata ce n’è uno in particolare, considerato dalla Dda utile alla causa di Romeo. Che avrebbe perorato la causa dell’amica facendola passare come «un’opportunità per il giornale e non come un favore che richiedeva per sé stesso o per la giornalista», si legge nel ricorso presentato al Consiglio di Stato dalla Aet. La Prefettura non contesta nessun altro contatto tra Romeo e Cuzzocrea, che, scrivono i legali dell’azienda, «non poteva pensare, visto il modo in cui la cosa era stata richiesta, che vi fossero doppi fini nel suggerimento ricevuto. Romeo – si legge ancora – non ha mai avuto altri contatti con l’ingegnere Cuzzocrea ed è detenuto. Non si comprende, quindi, perché ci sarebbe il rischio che possa, iniziando oggi (perché in passato non è successo), condizionare l’attività della Aet». Gli elementi vecchi riguardano invece il socio Antonino Martino, socio al 50 per cento, e coinvolto, nel 2004, nell’operazione antimafia “Prius”, assieme ad alcuni suoi familiari. Un’indagine conclusa, per Martino, con l’archiviazione, chiesta dallo stesso pm, il 5 marzo 2009. Di lui un pentito aveva detto, per poi essere smentito, di essersi intestato, tra il 1992 e il 1993, un magazzino, in realtà riconducibile al temibile clan Condello di Reggio Calabria. Intestazione fittizia, dunque, ipotesi che si basava anche sulla convinzione – sbagliata – che il padre di Martino, Paolo, fosse parente di Domenico Condello. Tali elementi, nel 2013, non erano bastati alla Prefettura per interdire la Aet, tanto che l’azienda aveva ricevuto il nulla osta e l’inserimento nella “white list”, la lista di aziende pulite che possono lavorare con la pubblica amministrazione. E se anche fossero potenzialmente fonte di pericolo non sarebbero più attuali, considerato che, contestano i legali dell’azienda, Paolo Martino è morto e Condello si trova in carcere.
LA COSEDIL. La Aet, dopo la richiesta di sospensiva dell’interdittiva rigettata dal Tar, attende ora il giudizio del Consiglio di Stato. Nel frattempo, alle spalle dell’azienda reggina, rimane la Cosedil, fondata nel 1965 dal parlamentare del Gruppo Misto Andrea Vecchio. La Spa, secondo le visure camerali, è amministrata dai figli del parlamentare che rimane, come recita il suo profilo Linkedin, presidente onorario. Ma Vecchio, componente della Commissione antimafia, nelle dichiarazioni patrimoniali pubblicate sul sito della Camera si dichiara amministratore unico di una delle aziende che partecipano la Cosedil (la Andrea Vecchio partecipazioni) e consigliere della Cosedil stessa. Che rimane l’unica titolata a prendere, con un iter formalmente impeccabile, l’appalto.
Antimafia mafiosa. Come reagire, scrive il 27 settembre 2017 Telejato. C’È, È INUTILE RIPETERLO TROPPE VOLTE, UNA CERTA PRESA DI COSCIENZA DELLA TURPITUDINE DELLA LEGISLAZIONE ANTIMAFIA, CHE MEGLIO SAREBBE DEFINIRE “LEGGE DEI SOSPETTI”. ANCHE I PIÙ COCCIUTI COMINCIANO AD AVVERTIRE CHE NON SI TRATTA DI “ABUSI”, DI DOTTORESSE SAGUTO, DI “CASI” COME QUELLO DEL “PALAZZO DELLA LEGALITÀ”, DI FRATELLANZE E CUGINANZE DI AMMINISTRATORI DEVASTANTI. È tutta l’Antimafia che è divenuta e si è rivelata mafiosa. Come si addice al fenomeno mafioso, questa presa di coscienza rimane soffocata dalla paura, dal timore reverenziale per le ritualità della dogmatica dell’antimafia devozionale, del komeinismo nostrano che se ne serve per “neutralizzare” la nostra libertà. Molti si chiedono e ci chiedono: che fare? È già qualcosa: se è vero, come diceva Manzoni, che il coraggio chi non c’è l’ha non se lo può dare, è vero pure che certi interrogativi sono un indizio di un coraggio che non manca o non manca del tutto. Non sono un profeta, né un “maestro” e nemmeno un “antimafiologo”, visto che tanti mafiologhi ci hanno deliziato e ci deliziano con le loro cavolate. Ma a queste cose ci penso da molto tempo, ci rifletto, colgo le riflessioni degli altri. E provo a dare un certo ordine, una certa sistemazione logica a constatazioni e valutazioni. E provo pure a dare a me stesso ed a quanti me ne chiedono, risposte a quell’interrogativo: che fare? Io credo che, in primo luogo, occorre riflettere e far riflettere sul fatto che il timore, la paura di “andare controcorrente” denunciando le sciagure dell’antimafia e la sua mafiosità, debbono essere messe da parte. Che se qualcuno non ha paura di parlar chiaro, tutti possono e debbono farlo. Secondo: occorre affermare alto e forte che il problema, i problemi non sono quelli dell’esistenza delle dott. Saguto. Che gli abusi, anche se sono tali sul metro stesso delle leggi sciagurate, sono la naturale conseguenza delle leggi stesse. Che si abusa di una legge che punisce i sospetti e permette di rovinare persone, patrimoni ed imprese per il sospetto che i titolari siano sospettati è cosa, in fondo, naturale. Sarebbe strano che, casi Saguto, scioglimenti di amministrazioni per pretesti scandalosi di mafiosità, provvedimenti prefettizi a favore di monopoli di certe imprese con “interdizione” di altre, non si verificassero. Terzo. Occorre che allo studio, alle analisi giuridiche e costituzionali delle leggi antimafia e delle loro assurdità, si aggiungano analisi, studi, divulgazioni degli uni e degli altri in relazione ai fenomeni economici disastrosi, alle ripercussioni sul credito, siano intrapresi, approfonditi e resi noti. Possibile che non vi siano economisti, commercialisti, capaci di farlo e di spendersi per affrontare seriamente questi aspetti fondamentali della questione? Cifre, statistiche, comparazioni tra le Regioni. Il quadro che ne deriverà è spaventoso. Quindi necessario. E’ questo l’aspetto della questione che più impressionerà l’opinione pubblica. E poi: non tenersi per sé notizie, idee, propositi al riguardo. Questo è il “movimento”. Il movimento di cui molti mi parlano. Articolo di Mauro Mellini. Avvocato e politico italiano. È stato parlamentare del Partito Radicale, di cui fu tra i fondatori.
Ma cosa sarebbe codesta antimafia, che tutto gli è concesso, se non ci fosse lo spauracchio mediatico della mafia di loro invenzione? E, poi, chi ha dato la patente di antimafiosità a certi politicanti di sinistra che incitano le masse…e chi ha dato l’investitura di antimafiosità a certi rappresentanti dell’associazionismo catto-comunista che speculano sui beni…e chi ha dato l’abilitazione ad essere portavoci dell’antimafiosità a certi scribacchini di sinistra che sobillano la società civile? E perché questa antimafiosità ha immenso spazio su tv di Stato e giornali sostenuti dallo Stato per fomentare questa deriva culturale contro la nostra Nazione o parte di essa. Discrasia innescata da gruppi editoriali che influenzano l’informazione in Italia?
Fintanto che le vittime dell’antimafia useranno o subiranno il linguaggio dei loro carnefici, continueremo ad alimentare i cosiddetti antimafiosi che lucreranno sulla pelle degli avversari politici.
Se la legalità è l’atteggiamento ed il comportamento conforme alla legge, perché l’omologazione alla legalità non è uguale per tutti,…uguale anche per gli antimafiosi? La legge va sempre rispettata, ma il legislatore deve conformarsi a principi internazionali condivisi di più alto spessore che non siano i propri interessi politici locali prettamente partigiani.
Va denunciato il fatto che l’antimafiosità è solo lotta politica e di propaganda e la mafia dell’antimafia è più pericolosa di ogni altra consorteria criminale, perchè: calunnia, diffama, espropria e distrugge in modo arbitrario ed impunito per sola sete di potere. La mafia esiste ed è solo quella degli antimafiosi, o delle caste o delle lobbies o delle massonerie deviate. E se per gli antimafiosi, invece, tutto quel che succede è mafia…Allora niente è mafia. E se niente è mafia, alla fine gli stranieri considereranno gli italiani tutti mafiosi.
Invece mafioso è ogni atteggiamento e comportamento, da chiunque adottato, di sopraffazione e dall’omertà, anche istituzionale, che ne deriva.
Non denunciare ciò rende complici e di questo passo gli sciasciani non avranno mai visibilità se rimarranno da soli ed inascoltati.
Finalmente la giurisprudenza ha cominciato a fare qualche passo in avanti verso la civiltà giuridica. Merita il plauso l'ordinanza n. 48441 del 10 Ottobre 2017 con la quale la Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione ha riconosciuto il principio secondo il quale, se una persona viene assolta dall'accusa di associazione mafiosa, per gli stessi fatti non può essere considerata socialmente pericolosa. Riporto i passaggi più significativi dell'ordinanza.
"Lì dove le condotte sintomatiche della pericolosità siano legislativamente caratterizzate [...] in termini per lo più evocativi di fattispecie penali [...] è evidente che il giudice della misura di prevenzione (nel preliminare apprezzamento di tali 'fatti') non può evitare di porsi il problema rappresentato dalla esistenza di una pronunzia giurisdizionale che proprio su quella condotta [...] ha espresso una pronunzia in termini di insussistenza o di non attribuibilità del fatto all'individuo di cui si discute. [...] L'avvenuta esclusione del rilievo penale di una condotta, almeno tendenzialmente, impedisce di porre quel segmento di vita a base di una valutazione di pericolosità ed impone il reperimento, in sede di prevenzione, di ulteriori e diverse forme di conoscenza, capaci - in ipotesi - di realizzare ugualmente l'effetto di inquadramento nella categoria criminologica. [...] Lì dove il giudizio penale su un fatto rilevante a fini di inquadramento soggettivo abbia avuto un esito definitivo, tale aspetto finisce con il ricadere inevitabilmente nella cd. parte constatativa del giudizio di pericolosità". Questo principio, soprattutto alla luce dell'insegnamento della sentenza De Tommaso, dovrebbe rimettere in discussione la legittimità delle confische disposte nei confronti di persone assolte.
La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la Saguto e per 15 suoi amici, scrive il 26 ottobre 2017 Telejato. DOPO MESI DI INDAGINI, INTERROGATORI, INTERCETTAZIONI, IL NODO È ARRIVATO AL PETTINE. La procura di Caltanissetta ha chiesto il rinvio a giudizio per la signora Silvana Saguto, già presidente dell’Ufficio Misure di prevenzione, accusata assieme ad altri 15 imputati, di corruzione, abuso d’ufficio, concussione, truffa aggravata, riciclaggio, dopo una requisitoria durata cinque ore. Saranno invece processati col rito abbreviato i magistrati Tommaso Virga, Fabio Licata e il cancelliere Elio Grimaldi. Tra coloro per cui è stato chiesto il rinvio figurano il padre, il figlio Emanuele e il marito della Saguto, il funzionario della DIA Rosolino Nasca, i docenti universitari Roberto Di Maria e Carmelo Provenzano, assieme ad altri suoi parenti, l’ex prefetto di Palermo Francesca Cannizzo. Posizione stralciata anche per l’altro ex giudice dell’ufficio misure di prevenzione Chiaramontee per il suo compagno Antonio Ticali, per il quale la procura ha chiesto l’archiviazione, e per l’altro professore universitario Luca Nivarra e rito abbreviato per Cappellano Seminara. Prossima udienza il 6 novembre, con la parola alle parti civili e al collegio di difesa. Inutile soffermarci ancora sull’allegro e criminoso modo, portato avanti dalla Saguto, di mettere sotto sequestro aziende alle quali, in qualche modo spesso solo indiziario, si attribuiva una patente di mafiosità per procedere alla loro requisizione e affidarne la gestione agli avvocati o economisti che facevano parte del cerchio magico. L’amministrazione giudiziaria di questi beni ha arrecato danni irreversibili all’economia siciliana, poiché le aziende sono state smantellate e non più restituite, anche quando i proprietari sono stati penalmente assolti da ogni imputazione. E proprio oggi arriva la notizia del dissequestro di due aziende finite nel mirino della Saguto, che nel febbraio 2014 ne aveva disposto il sequestro: si tratta della Fattoria Ferla e della Special Fruit, che hanno operato da anni all’interno del settore ortofrutticolo e che oggi, dopo la disamministrazione affidata a Nicola Santangelo, oggi anche lui sotto processo, sono finite in liquidazione, lasciando disoccupati una decina di lavoratori. Le due aziende erano state accusate di essere sotto la protezione del boss dell’Acquasanta Galatolo, nell’ambito di un sequestro di 250 milioni, ma dopo l’attenta valutazione condotta dai magistrati dell’ufficio misure di prevenzione, oggi affidato al nuovo presidente Malizia e ai giudici Luigi Petrucci e Giovanni Francolini, è stato disposto il dissequestro, in quanto non esiste “neanche il sospetto” di infiltrazioni mafiose. Restano ancora sotto sequestro altri beni ed è in corso il procedimento per il successivo dissequestro.
L’antimafia preventiva diventata definitiva, scrive il 13 ottobre 2017 Telejato.
LA PREVENZIONE. Il caso Saguto ha causato l’implosione di un sistema concepito in origine per aggredire i patrimoni mafiosi e colpire i mafiosi nelle loro ricchezze costruite con l’illegalità. Il sistema, giorno dopo giorno è diventato un metodo in virtù del grande potere attribuito ai giudici di poter sequestrare i beni, anche attraverso la semplice “legge del sospetto”, e di poterli tenere sotto sequestro anche quando i procedimenti penali hanno ufficialmente decretato l’infondatezza di questo sospetto e prosciolto i cosiddetti “preposti”, cioè soggetti a sequestro da ogni imputazione di associazione, contiguità, concorso con il malaffare mafioso. Ancora oggi restano sotto sequestro immensi patrimoni di soggetti che, in altri periodi si sono piegati alla legge del pizzo, in alcuni casi per continuare a lavorare, in altri casi, è giusto dirlo, anche per avere mano libera nel badare ai propri affari. Quello che per loro era un “piegarsi alla regola” della “messa a posto”, per sopravvivere, diventa accusa di collaborazione e concorso in associazione mafiosa, così che le vittime diventano complici. L’imprenditoria siciliana, soprattutto nei suoi risvolti commerciali e nell’edilizia, ha subito tremende battute d’arresto, poiché la mannaia della prevenzione si è abbattuta su aziende che davano lavoro a migliaia di siciliani oggi disoccupati, senza preoccuparsi di sorvegliare la gestione dei beni confiscati, affidati ad amministratori giudiziari, alcuni senza scrupoli, altri del tutto incapaci e incompetenti, che hanno prosciugato i beni dell’azienda loro affidata per foraggiare se stessi e i propri collaboratori. In tal modo quello che avrebbe dovuto essere un momento “preventivo”, al fine di evitare la reiterazione del reato, diventa un momento definitivo, dato il prolungamento all’infinito delle misure di prevenzione, anche ad assoluzione penale avvenuta.
LA NUOVA LEGGE ANTIMAFIA. Da parte di alcuni settori si è gridato alla vittoria e al passo in avanti dato dal nuovo codice antimafia, approvato nel settembre scorso, ma, come abbiamo più volte scritto, si tratta di una legge nata vecchia, con qualche ritocco alla vecchia legge del 2012, senza che siano indicate regole precise né sul periodo, cioè sulla durata in cui un bene deve essere tenuto sotto sequestro, né sulle prove e sulle condizioni che dovrebbero giustificare il sequestro, né sulle penalità da attribuire agli amministratori incompetenti o ai magistrati che hanno agito frettolosamente, senza che la loro azione sia stata giustificata da un minimo di sentenza. È rimasto il solco tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, anzi il procedimento di prevenzione è stato esteso anche ai reati di corruzione, commessi in associazione, senza garanzie sulla possibile restituzione e sul risarcimento dei danni causati dalla disamministrazione. Insomma, come al solito non pagherà nessuno e i magistrati potranno continuare ad agire nel massimo della libertà che non è sempre garanzia di giustizia.
I RESPONSABILI. Dopo questa premessa citiamo, e ricordiamo i numerosi nomi di amministratori che, in un modo o in un altro hanno contribuito a creare sfiducia nella possibilità di potere portare avanti un’azione antimafia decisa e corretta, che avrebbe dovuto avere come finalità primaria la possibilità di non affossare l’economia siciliana, ma di salvaguardarla dalle infiltrazioni mafiose e di costruirla nel rispetto delle regole parallelamente alle condizioni di crisi, di cui ancora non si vede l’uscita, nonostante lo strombazzamento di miglioramenti dei quali in Sicilia non vediamo nemmeno l’ombra. La salvaguardia di quel poco esistente, spesso dovuto al coraggio di imprenditori che hanno rischiato tutto e si sono anche indebitati per costruire un’azienda, non è stata in alcun modo presa in considerazione, e ciò ha causato il crollo di strutture e aziende, come quelle dei Niceta, dei Cavallotti, di Calcedonio Di Giovanni, della catena di alberghi Ponte, della Motoroil, della Clinica Villa Teresa di Bagheria, (sia nel settore sanitario che in quello edilizio), della Meditour degli Impastato, dei supermercati Despar di Grigoli in provincia di Trapani e Agrigento, dell’impero televisivo e concessionario dei Rappa e così via. Responsabili i vari a Cappellano Seminara, Sanfilippo, Santangelo, Aulo Giganti, Ribolla, Scimeca, Benanti, Walter Virga, Rizzo, Modica de Moach e così via. Molti di questi sono ancora al loro posto, mentre altri sono stati sostituiti. Di questo lungo elenco faceva parte Luigi Miserendino che, ieri, si è dimesso da tutti gli incarichi, per avere lasciato al suo posto il re dei detersivi Ferdico, il quale è stato assolto da tutto, ma ricondotto in carcere, mentre il carcere è stato revocato a Miserendino, poiché, dimessosi, non potrà più reiterare il reato.
IL PROFESSORE. Oggi spunta la notizia, altrettanto grave dell’interrogatorio del prof. Carmelo Provenzano, il quale, dopo avere sistemato nelle varie amministrazioni moglie, fratello, cognata e altri amici, dopo avere rifornito di frutta fresca il frigorifero della Saguto e del prefetto di Palermo Cannizzo, dopo avere agevolato la laurea del figlio della Saguto, anche con l’aiuto del rettore dell’Università di Enna Di Maria, oggi dichiara candidamente al giudice Bonaccorso che lo sta interrogando, di avere fatto tutto questo perché rientrava nelle sue funzioni di docente aiutare gli alunni, tra i quali cita anche il figlio dell’ex procuratore capo di Caltanissetta Sergio Lari e si lamenta addirittura che le sue telefonate al figlio di Lari non sono agli atti del procedimento contro di lui. Va tenuto presente comunque che Lari è stato quello che ha dato il via all’inchiesta aperta dei giudici di Caltanissetta contro la Saguto e i suoi collaboratori, o, se vogliamo, complici. Secondo Provenzano tutto quello che è successo era “normale”, tutti facevano così, rientrava nel normale modo di gestire i beni sequestrati quello di aiutarsi e appoggiarsi reciprocamente tra i vari componenti del cerchio magico. Né più né meno come quando Craxi dichiarò in parlamento che il sistema delle tangenti ai partiti era normalità, che tutti facevano così, tutti mangiavano e non poteva essere lui solo a pagare per tutti. E se tutto è normale, non è successo niente, abbiamo scherzato, hanno scherzato i giudici di Caltanissetta ad aprire il procedimento, sono tutti innocenti e tutti dovrebbero essere assolti, Cappellano compreso, perché hanno fatto egregiamente il loro lavoro. Conclusione, ma non solo per Provenzano, è che tutto quello che dovrebbe essere anormale, anche il malaffare, è normale, mentre è anormale il corretto funzionamento della giustizia e l’applicazione di eventuali pene nei confronti di chi sbaglia. Ovvero fuori i mascalzoni e dentro chi si comporta onestamente o chi si permette di denunciare il disonesto modo di amministrare la cosa pubblica, i beni dello stato, il corretto funzionamento della giustizia. Come succede molto spesso in Italia, secondo un detto antichissimo cui ostinatamente non possiamo e non dobbiamo rassegnarci: “La furca è pi li poviri, la giustizia pi li fissa
L’Italia non è un paese per giovani (avvocati): elevare barriere castali e di censo non è una soluzione, scrive il 28 Aprile 2017 “L’Inkiesta”. Partiamo da due disfunzioni che affliggono il nostro Paese e che stanno facendo molto parlare di sé. Da una parte, la crisi delle libere professioni e, in generale, delle lauree, con importanti giornali nazionali che ci informano, per esempio, che i geometri guadagnano più degli architetti. Dall’altra, le inefficienze del sistema giudiziario. Queste, sono oggetto di dibattito da tempo immemorabile, ci rendono tra i Paesi peggiori dell’area OCSE e ci hanno fatti condannare da niente-popò-di-meno-che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Incrociate ora i due trend. Indovinate chi ci rimane incastrato in mezzo? Ovviamente i giovani laureati/laureandi in giurisprudenza, chiusi tra un percorso universitario sempre più debole e una politica incapace di portare a termine una riforma complessiva e decente dell’ordinamento forense. Come risolvere la questione? Con il numero chiuso a giurisprudenza? Liberalizzando la professione legale? Niente di tutto questo, ci mancherebbe. In un Paese dove gli avvocati rappresentano una fetta rilevante dei parlamentari, la risposta fornita dall’ennesima riforma è facile facile. Porre barriere di censo e di casta all’accesso alla professione. Da questa prospettiva tutte le recenti novità legislative acquistano un senso e rivelano una logica agghiacciante. I malcapitati che si laureeranno in Giurisprudenza a partire dall’anno 2016/2017 avranno una prima sorpresina: l’obbligo di frequentare una scuola di formazione per almeno 160 ore. Anche a pagamento se necessario, come da parere positivo del Consiglio Nazionale Forense.
La questione sarebbe da portare all’attenzione di un bravo psicanalista. Giusto qualche osservazione: (1) se la pratica deve insegnare il mestiere, perché aggiungere un’altra scuola obbligatoria?; (2) Se la Facoltà di Legge - che in Italia è lunghissima: 5 anni, contro i 3 di Stati Uniti e Regno Unito e i 4 della Francia, per esempio – serve a così poco, tanto da dover essere integrata anche dopo la laurea, perché non riformarla?; (3) perché fermare i ragazzi dopo la laurea, invece di farlo prima? Ci sarebbero anche altre questioni. Per esempio, 160 ore di formazione spalmate su 18 mesi, per i fortunati ammessi, non sono molte in teoria. Tuttavia, basta vedere le sempre maggiori proteste riportate dai giornali, e rigorosamente anonime, di praticanti-fotocopisti senza nome, sfruttati e non pagati, per accorgersi che la realtà è molto diversa dalla visione irenica (ipocrita è offensivo?) dei riformatori. E, in ogni caso, anche se il praticante fosse sufficientemente fortunato da avere qualche soldo in tasca, ciò non gli permetterebbe di godere del dono dell’ubiquità. Ma così si passerebbe dal settore della psicanalisi a quello della parapsicologia. Meglio evitare. Andiamo oltre.
Abbiamo superato la prima trincea. Coi soldi del nonno ci manteniamo nella nostra pratica non pagata o mal pagata. Magari siamo bravissimi ed accediamo ai corsi di formazione a gratis o con borsa. Arriva il momento dell’esame. Presto l’esame scritto sarà senza codice commentato. E fin qui, nessun problema. Meglio ragionare con la propria testa che affannarsi a cercare la “sentenza giusta”, magari senza capirla. Le prove verteranno sempre su diritto civile, diritto penale e un atto. Segue un esame orale con quattro materie obbligatorie: diritto civile, diritto penale, le due relative procedure, due materie a scelta e la deontologia forense. E qui il fine giurista si deve trasformare in una specie di Pico de La Mirandola, mandando a memoria tutto in poco tempo. Magari col capo che non ti concede più di un mese di assenza dalla tua scrivania. Ma il problema di questo esame è un altro. Poniamo che io sia un praticante in gamba e che abbia trovato lavoro in un grosso studio internazionale leader nel settore del diritto bancario. Plausibilmente, lavorerò con professionisti fantastici e avrò clienti prestigiosi. Serve a qualcosa per l’esame di stato? Risposta: no. Riformuliamo la questione. Se io mi occupo di diritto bancario o di diritto societario, cosa me ne frega di studiare diritto penale, materia che non mi interessa e che non praticherò mai? Mistero. L’esame di abilitazione fu regolato per la prima volta nel 1934 e la sua logica è rimasta ferma lì. Come se l’avvocato fosse ancora un piccolo professionista individuale che fa indifferentemente tutto. Pensateci la prossima volta che sentite qualcuno sciacquarsi la bocca con fregnacce sulla specializzazione degli avvocati e sulla dipartita dell’avvocato generico. Pensateci.
Passata anche la seconda trincea. Siete avvocati. Tutto bene? No. Tutto male. Finirete sotto il fuoco della Cassa Forense, obbligatoria, che vi mitraglierà. Non importa se siete potentissimi astri nascenti o piccoli professionisti. I risultati? Migliaia di giovani avvocati che si cancellano dall’albo ogni anno. Sgombriamo subito il campo da equivoci. Spesso quando si introduce questo tema ci si sente rispondere che in Italia ci sono troppi avvocati e se si sfoltiscono è meglio. Giusto. Ma ciò non può condurre ad affermare che dei giovani siano tagliati fuori da un sistema disfunzionale. La selezione dura va bene; il terno al lotto no. La competizione, anche spietata, va bene; le barriere all’accesso strutturate senza la minima logica no. Dietro le belle parole, si nasconde un sistema che, come avviene anche per altre professioni, cerca di tutelare se stesso sbattendo la porta in faccia ai giovani che vorrebbero entrare. Non tutti ovviamente. Senza troppa malizia vediamo che avrà meno crucci: (1) chi ha il padre, nonno, zio, fratello maggiore ecc… titolare di uno studio legale. Una mancetta arriverà sempre, con essa il tempo libero per frequentare la formazione obbligatoria e una study leave succulenta di un paio di mesi per preparare l’esame; (2) chi è ricco di famiglia e che, dunque, può godere dei vantaggi di cui sopra per vie traverse; (3) chi, date le condizioni di cui ai punti 1 e 2, può sostenere l’esame due, tre, quattro, cinque volte. E la meritocrazia? Naaaa, quello è uno slogan da sbandierare in campagna elettorale, cosa avete pensavate, sciocconi? In definitiva, il sistema come si sta concependo non fa altro che porre barriere all’ingresso che favoriscono il ceto e di casta. Una volta che si è entrati, invece, si fa in modo di cacciare fuori coloro che non arrivano a fine mese, tendenzialmente i più giovani o i più piccoli.
Ci sono alternative? Guardiamo un paese come la Francia. Lì, l’esame duro e temutissimo è quello per l’accesso all’école des Avocats, superato ogni anno da meno di un terzo dei candidati. Ma, (1) lo si sostiene appena terminata l’università, quando si è “freschi”; (2) è la precondizione per l’accesso al tirocinio, non un terno al lotto che viene al termine di 18/24 mesi di servaggio, spesso inutile ai fini del superamento dell’esame. Quindi, se si fallisce, al netto della delusione, si può subito andare a fare altro. Oppure si riprova (fino a tre volte). In ogni caso, però, non si buttano due anni di vita. La conclusione è sempre la stessa. L’Italia è un Paese che investe poco nei giovani. E che ci crede poco, a giudicare dalle frequenti sparate e rimbrotti di ministri vari. Sperando che non si cerchi, di fatto, di risolvere il problema con l’emigrazione, il messaggio deve essere chiaro. Non si faccia pagare ai giovani l’incapacità del sistema di riformarsi seriamente e organicamente. Le alternative ci sono.
Giornalisti? E’ meglio se andate a fare gli operai, scrive di Andrea Tortelli, Responsabile di "GiornalistiSocial.it". E’ meglio se andate a fare gli operai, credetemi. Lo dicono i numeri. Chiunque aspiri a fare il giornalista, in Italia, deve confrontarsi con un quadro di mercato ben più drammatico di quello di altri settori in crisi. Il giornalista rimane una professione molto (troppo) ambita, ma non conferisce più prestigio sociale a chi la pratica e soprattutto non è più remunerativa. Diverse classifiche, non solo italiche, inseriscono quello del reporter fra i lavori a maggiore rischio di indigenza. E chi pratica bazzica in questo mondo non può stupirsene.
Qualche numero sui media. Il mondo dei media è in crisi da tempo, ben prima che arrivassero i social a dare il colpo di grazia. In una provincia come Brescia, dove vivo, non c’è un solo giornale cartaceo o una televisione locale che nell’ultimo quinquennio non abbia ridotto il proprio organico e chiuso qualche bilancio in rosso. Tutto ciò mentre gli on line sopravvivono, ma non prosperano: generando numeri, ma recuperando ben poche delle risorse perse per strada dai media tradizionali. In Italia, va detto, i giornali non hanno mai goduto di troppa gloria. Da sempre siamo una delle popolazioni al mondo che legge meno. Meno di una persona su venti, oggi, compra un quotidiano in edicola e il calo è costante. Il Corriere della Sera, solo per fare un esempio, tra il 2004 e il 2014 ha dimezzato le proprie copie (l’on line, nello stesso periodo, è passato da 2 milioni di utenti al mese a 1,5 al giorno, Facebook da zero a 2 milioni di fan…). Nel 2016, ancora, i cinque giornali cartacei più venduti (Corsera, Repubblica, Sole 24 Ore, La Stampa e Gazzetta dello Sport) hanno perso un decimo esatto delle copie.
Non va meglio sul fronte dei fatturati. Dal 2004 al 2014 – permettetemi di riciclare un vecchio dato – il mercato pubblicitario italiano è passato da 8 miliardi 240milioni di euro a 5 miliardi e 739milioni (fonte DataMediaHub). La tv è scesa da 4 miliardi 451 milioni a 3.510 milioni, la stampa si è più che dimezzata da 2 miliardi 891 milioni a 1 miliardo 314 milioni, il web è cresciuto sì. Ma soltanto da 116 milioni a 474. Vuol dire che – dati alla mano – per ogni euro perso dalla carta stampata in questo decennio sono arrivati sul web soltanto 22 centesimi (del resto, agli attuali prezzi di mercato, mille clic vengono pagati oggi meno di due euro…). E gli altri 80 centesimi dove sono finiti? Un po’ si sono persi a causa della crisi. Ma una grossa fetta – non misurabile – è finita alle big del web, nel grande buco nero fiscale di Google e Facebook. Cioè è uscita dal circuito dell’informazione e dell’editoria.
I giornalisti che fanno? A una drastica riduzione delle copie e dei fatturati consegue ovviamente una drastica riduzione degli organici. Ma a questo dato si somma un aumento significativo dell’offerta (complici le scuole di giornalismo, ma non solo…) e un aumento esponenziale della concorrenza “impropria”, dovuta al fatto che Facebook è ormai la prima fonte di informazione degli italiani e sono molti a operare fuori dal circuito tradizionale (e spesso anche fuori dal circuito legale) dei media. In questo contesto, le possibilità di spuntare un contratto ex Articolo 1 (Cnlg) per un giovane sono praticamente nulle. Ma anche portare a casa almeno mille euro lordi al mese è un’impresa se ci sono quotidiani locali, anche di gruppi importanti, che pagano meno di 10 euro un articolo. E on line, a quotazioni di “mercato”, un pezzo viene pagato anche un euro. Lordo. Non è un caso che sempre più colleghi abbiano decisi di cambiare vita, e molto spesso sono i più validi. Ne conosco molti. C’è chi fa l’operaio part time a tempo indeterminato e arrotonda scrivendo (quasi per passione), chi ha mollato tutto per una cattedra da precario alle superiori, chi all’ennesima crisi aziendale ha deciso di andare a lavorare a tempo pieno in fabbrica per mantenere i figli e chi ancora era caporedattore di un noto giornale – oltre che penna di grandissimo talento – e ora si dedica alla botanica. Con risultati di eguale livello, pare. I dati dell’Osservatorio Job pricing, del resto, indicano che nel 2016 un operaio italiano guadagnava mediamente 1.349 euro. Il collaboratore di una televisione locale, a 25 euro lordi a servizio, dovrebbe fare più di 50 uscite (con montaggio annesso) per portare a casa la stessa cifra. Il collaboratore di un quotidiano locale dovrebbe firmare almeno 100 pezzi, tre al giorno. Senza ferie, tredicesima, malattia e possibilità di andare in banca a chiedere un mutuo se privo della firma di papi. Insomma: il vecchio adagio del “sempre meglio che lavorare” è ancora attuale, ma ha drammaticamente cambiato significato. Visto che il giornalismo è diventato per molti un hobby o una moderna forma di schiavitù, quasi al livello dei raccoglitori di pomodori pugliesi. Dunque?
La soluzione. Dunque… Quando qualcuno mi contatta per chiedermi come si fa a diventare giornalista (circostanza piuttosto frequente, visto che gestisco GiornalistiSocial.it) cerco sempre di fornirgli un quadro completo e oggettivo della situazione, per non illudere nessuno. Alcuni si incazzano e spariscono. Altri ringraziano delusi. I più ascoltano, ma non sentono. Una piccola parte comprende che il mestiere del giornalista, nel 2017, ha un senso solo se sussistono due elementi: una grande passione e la volontà di fare gli imprenditori di se stessi. Fare il giornalista, in Italia ma non solo, richiede oggi una grande capacità di adattamento al sistema della comunicazione e un sistema di competenze tecniche estese (fotografia, grafica, video, social, web, seo e anche marketing, parola che farebbe accapponare la pelle a quelli della vecchia scuola) per sopravvivere a un mercato sempre meno chiuso, in cui i concorrenti sono tanto i colleghi e gli aspiranti colleghi, quanto tutti i laureati privi di occupazione e i liberi professionisti dell’articolato mondo web. Ma questo è un altro capitolo. Nel frattempo, è meglio che andiate a fare gli operai. Oppure ribellatevi.
La precarietà dei giornalisti invisibili, scrive il 16 dicembre 2017 Valentina Tatti Tonni su "Articolo 21". Al pari degli altri danno senso alla verità, ma non sono retribuiti e il loro lavoro non è riconosciuto. In Italia c’è un sistema, perlopiù marcio che le cronache ben conoscono. In Italia per conoscere e volendo tutelare l’esercizio di una professione, c’è bisogno di un Ordine di categoria che come una grande impresa regoli gli iscritti con un badge (tessera di riconoscimento) e un’imposta annuale. Potranno lavorare in modo “regolare” solo i soci onorari dell’impresa. Tutti gli altri si sentiranno o saranno, poco labile la differenza, cittadini fuorilegge che svolgono una professione che non gli compete. C’è una diffusa credenza, falsa per il resto del mondo nel quale non esiste alcun Ordine perentorio e nel quale si è quello che si fa, che si diventi professionista solo entrando in possesso di questo magico libretto, lungi la riconoscenza che avrebbe potuto avere Joseph Pulitzer in assenza. Giornalista ed editore puro americano, di certo non si sarebbe sentito meno rispetto a un qualunque collega italiano. L’Italia dunque è una Repubblica fondata sul lavoro circoscritto a pochi eletti. I restanti fuori da questa ristretta cerchia, passano l’esistenza tra un contratto e un lavoro in nero. Nero come la borsa in tempo di guerra. Con un fazzoletto di volontà ben ripiegato nella tasca della giacca, nella loro mente sanno di essere buoni giornalisti ma si potrebbe affermare in loro l’idea di non essere considerati uguali dagli altri colleghi, non tanto per la giacca quanto per i diritti che si nascondono sotto. “Come hai fatto ad accettare un lavoro nero e sporcare così la professione?” si sentirà chiedere con astio, con tutte le colpe rovesciate in capo. E’ vero, avrebbe potuto non accettare e non avere alcuna visibilità, smettere di cercare l’opportunità giusta anche se spesso questo significherà ripiegare la passione e l’istinto. Avrebbe potuto vendere il suo ideale e il suo buon cuore al miglior offerente, barattare il pensiero prima che potesse giurare la sua lealtà alla Costituzione e alla deontologia. Avrebbe persino potuto evitare qualunque interferenza con la parola, sì, ma cosa sarebbe diventato senza la sua identità a contatto con la pelle? Non è giusto fare generalizzazioni. Esistono persone che sono riuscite nel loro intento, pur non avendo parenti o amici pronti a soccorrerli e indirizzarli. Sono riusciti a imboccare una strada e arrivare fino al traguardo senza scuole di giornalismo né aiuti di sorta. Tuttavia ogni persona ha una sua storia, ed è per questo presumo che il legislatore abbia voluto una legge costruita per assistere la professione, che prevedesse le sue problematiche e tentasse di risolverle. La precarietà in questo senso duplice è una di queste problematiche. E’ precario il lavoratore con un contratto provvisorio di cui si ci si attenda un cambiamento e dunque alla quotidianità vi si leghi un’aspettativa e un’ansia maggiore, ma è precario anche quel lavoratore d’altro canto minacciato per il suo operato o in alternativa imputato dinnanzi a una Corte composta di suoi pari che lo giudicheranno “colpevole di Giornalismo”. La condanna è la derisione ma non è possibile schierarsi per ricevere una miglior difesa, poiché da tale imputazione non ci si macchia per assenso generale ma per comportamento. Queste leggi approvate per rendere la precarietà meno illegale di fatto favoriscono l’incongruenza della disparità, non rendendo alcun merito a chi di questo lavoro ha fatto il suo mantra e la sua missione. Accedere a questo lavoro dovrebbe essere una possibilità, non un privilegio. E invece, le possibilità per accedervi sono ad oggi esclusive: frequentazione di una scuola biennale, il praticantato o la pubblicazione di un numero di articoli firmati e stipendiati in modo continuativo, queste le alternative per accedere alla professione. Il problema però è che a dispetto di dieci anni fa, la continuità è una chimera, così come il contratto, il pagamento, il praticantato, per una grande fetta di imprese editoriali presenti sul territorio non è neanche un’opzione. Va da sé che, esclusa la parentela e una dose di fortuna, il giornalismo resti un mondo a sé stante dove non tutti quelli che vogliono entrarvi a far parte ci riescono e, sia detto che, spesso, non è per mancanza di volontà ma a causa della privazione di tutta una serie di cose, come il fatto che sembra non esista più il mentore che ti dica: “Questo pezzo fa schifo, riscrivilo” e da queste sole piccole parole ti trasmetta il suo sapere e mantenga in te il coraggio di tentare. No, oggi il sapere è inserito dentro un cassetto elettronico, sterile e senza spessore umano. Così quella che si gioca è una corsa a ostacoli per vincere la penna d’oro, una corsa nella quale la competitività va a braccetto con la desolante paura di non essere abbastanza. Essendo l’Ordine un ente pubblico che gestisce l’albo associativo dei giornalisti italiani, dal 1963 anno della sua fondazione obbliga chiunque voglia intraprendere la professione a iscriversi e rispettare le sue leggi. Chiunque altro operi da freelance, non iscritto ad alcun registro, pur rispettando le leggi dell’albo cui vorrebbe appartenere per una forma di dipendenza, istiga tutti alla verità ma è un fuorilegge a tutti gli effetti. Se scrive o filma con cognizione lo può fare solo con le dovute precauzioni da cittadino, allargando così sotto di sé la piaga della casta. Può paragonarsi a un abile narratore, ma se vuole sfruttare la pazienza e l’insegnamento di un giornalista la cui realtà si misura con il badge di inserimento deve rischiare un ruolo che si sente addosso ma che non ha. Appartengono a questa fascia di professionisti, i giornalisti invisibili che vivono anni in un limbo fatto di sacrifici. Se lavorano in nero non è per compiacenza ma per necessità, e anzi, sapendo che prima o poi qualcuno potrebbe accorgersi del loro “stato temporaneo”, quasi in attesa trepidante di un visto speciale, sfoderano dalla penna o dalla telecamera un rigoroso senso morale e critico per ovviare al senso di manifesta inadeguatezza nella quale l’Ordine ci colloca. Se è lecito che non tutti si improvvisino del mestiere, che allo stesso modo verrebbe il dubbio del buon operato se un calzolaio si mettesse di punto in bianco a vendere viaggi, diverso sarebbe il caso di un calzolaio che in seguito a dovuti studi e approfondimenti abbia scoperto che è la pianificazione e la vendita del viaggio per conto terzi a rendere la sua vita migliore, sarebbe allora questo il modo per riconoscergli la possibilità di cambiare. Il giornalista invisibile, ugualmente, non può invece essere riconosciuto per l’inosservanza di un iter burocratico e la sua vita dovrà essere vincolata, senza per questo smettere di dare un senso alla verità rischiando tutto quello che gli basterebbe oltrepassare il confine per essere.
Mi sono laureata nonostante gli abusi dei professori. Mi chiamo Carolina, e sono una neolaureata all'Università Statale di Milano. Mi sono sentita moralmente obbligata a scrivere questa lettera, che spero potrà avere una sua risonanza. So che qualche anno fa i quotidiani si erano già occupati dell'incresciosa situazione logistica in alcune facoltà della Statale, una situazione che ha costretto me come centinaia di altri studenti a seguire per interi semestri le lezioni seduti sul pavimento, quando non addirittura in piedi fuori dalle porte e dalle finestre delle aule. Ma in questa sede vorrei invece parlare della condotta dei professori, della quale ingiustamente non si è mai fatto parola. Per natura tendo a non parlare mai di ciò che non conosco direttamente, quindi mi riferirò esclusivamente alle facoltà sotto la dicitura di Studi Umanistici della Statale. Volendo evitare di fare di tutta l'erba un fascio, ammetto volentieri il fatto di aver incontrato durante la mia carriera universitaria professori competenti e disponibili, e mi piacerebbe poter dire che sono la maggioranza. Ma ciò di cui non si parla mai sono gli altri, una vera e propria casta che segue solamente le proprie regole anche e spesso a dispetto degli studenti. Urge fare qualche esempio pratico. Ci sono professori che perdono esami di studenti e non solo non denunciano l'accaduto, ma bocciano gli studenti interessati sperando che loro non arrivino mai a scoprirlo, ma si limitino semplicemente a ripetere l'esame in questione. Ci sono professori che in una giornata di interrogazioni d'esame si prendono ben tre ore di pausa pranzo. Ce ne sono altri che con appelli programmati da mesi, fanno presentare tutti gli studenti iscritti e poi annunciano di dover partire per un viaggio, e che quelli non interrogati si devono ripresentare due settimane dopo. Alcuni si rifiutano, benché avvisati con anticipo, di interrogare gli studenti che hanno seguito il corso con un altro professore non disponibile per l'appello d'esame. E ultimi, ma certamente non per importanza, ci sono i professori che ogni anno mandano fuori corso decine di studenti che hanno finito per tempo gli esami, impedendogli di laurearsi nell'ultima sessione disponibile per loro e costringendoli a pagare un anno intero di retta universitaria perché "non hanno tempo di seguire questa tesi" oppure perché il candidato "è troppo indietro con la stesura, ci sarebbe troppo da fare". Tutti gli episodi sopra citati sono accaduti ad una sola persona, me. E per quanto io mi renda conto di essere stata particolarmente sfortunata, mi riesce difficile pensare di essere l'unica alla quale cose del genere sono successe. Questi veri e propri abusi di potere rendono quasi impossibile per gli studenti godere del generalmente buon livello di istruzione offerto dall'università. Mi includo nel gruppo quando mi chiedo come mai gli studenti non si siano mai fatti sentire, e mi vergogno quasi un po' a scrivere questa lettera con il mio bell'attestato di laurea appeso in stanza, ma la verità è che mi è costato fin troppa fatica, e non ero disposta a mettere a rischio la possibilità di ottenerlo, dal momento che non ero io ad avere il coltello dalla parte del manico. Ma non mi sembrava ad ogni modo corretto lasciare che tali comportamenti passassero sotto silenzio. L'istruzione pubblica dovrebbe essere un diritto, non un privilegio, ed insegnare dovrebbe essere una grande responsabilità, qualcosa di cui non abusare mai. Carolina Forin 14 ottobre 2017 “L’Espresso”
I mediocri del Politically Correct negano sempre il merito. Sostituiscono sempre la qualità con la quantità. Ma è la qualità che muove il mondo, cari miei, non la quantità. Il mondo va avanti grazie ai pochi che hanno qualità, che valgono, che rendono, non grazie a voi che siete tanti e scemi. La forza della ragione (Oriana Fallaci)
“L'Italia tenuta al guinzaglio da un sistema di potere composto da caste, lobbies, mafie e massonerie: un'Italia che deve subire e deve tacere.
La “Politica” deve essere legislazione o amministrazione nell’eterogenea rappresentanza d’interessi, invece è meretricio o mendicio, mentre le “Istituzioni” devono meritarlo il rispetto, non pretenderlo. Il rapporto tra cittadini e il rapporto tra cittadini e Stato è regolato dalla forza della legge. Quando non vi è cogenza di legge, vige la legge del più forte e il debole soccombe. Allora uno “Stato di Diritto” degrada in anarchia. In questo caso è palese la responsabilità politica ed istituzionale per incapacità o per collusione. Così come è palese la responsabilità dei media per omertà e dei cittadini per codardia o emulazione."
TIRANNIDE indistintamente appellare si debbe ogni qualunque governo, in cui chi è preposto alla esecuzion delle leggi, può farle, distruggerle, infrangerle, interpretarle, impedirle, sospenderle; od anche soltanto deluderle, con sicurezza d'impunità. E quindi, o questo infrangi-legge sia ereditario, o sia elettivo; usurpatore, o legittimo; buono, o tristo; uno, o molti; a ogni modo, chiunque ha una forza effettiva, che basti a ciò fare, è tiranno; ogni società, che lo ammette, è tirannide; ogni popolo, che lo sopporta, è schiavo. Vittorio Alfieri (1790).
"Quando si cerca di far progredire la conoscenza e l'intelligenza umana si incontra sempre la resistenza dei contemporanei, simile a un fardello che bisogna trascinare e che grava pesantemente al suolo, ribelle ad ogni sforzo. Ci si deve consolare allora con la certezza che, se i pregiudizi sono contro di noi, abbiamo con noi la Verità, la quale, dopo essersi unita al suo alleato, il Tempo, è pienamente certa della sua vittoria, se non proprio oggi, sicuramente domani."(Arthur Schopenhauer)
Il pregio di essere un autodidatta è quello che nessuno gli inculcherà forzosamente della merda ideologica nel suo cervello. Il difetto di essere un autodidatta è quello di smerdarsi da solo.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo con la discultura e la disinformazione. Ci si deve chiedere: perchè a scuola ci hanno fatto credere con i libri di testo che Garibaldi era un eroe ed i piemontesi dei salvatori; perché i media coltivano il luogo comune di un sud Italia cafone ed ignorante; perché la prima cosa che insegnano a scuola è la canzone “bella ciao”? Per poi scoprire da adulti e solo tramite il web: che il Sud Italia è stato depredato a causa proprio di Garibaldi a vantaggio dei Piemontesi; che solo i turisti che scendono a frotte nel meridione d’Italia scoprono quanto ci sia tanto da conoscere ed apprezzare, oltre che da amare; che “Bella ciao” è solo l’inno di una parte della politica italiana che in nome di una ideologia prima tradì l’Italia e poi, con l’aiuto degli americani, vinse la guerra civile infierendo sui vinti, sottomettendoli, con le sue leggi, ad un regime illiberale e clericale.
Ad Avetrana, il paese di Sarah Scazzi, non sono omertosi, sempre che non si tratti di poteri forti. Ma qualcuno certamente vigliacco e codardo lo è. Sapendo che io ho le palle per denunciare le illegalità, questi deficienti usano il mio nome ed appongono falsamente la mia firma in calce a degli esposti che colpiscono i poveri cristi rei di abusi edilizi o commerciali. I cretini, che poi fanno carriera politica, non sanno che i destinatari dei miei strali sono magistrati, avvocati, forze dell’ordine, e comunque pubblici ufficiali o esercenti un pubblico servizio. Che poi queste denunce finiscono nell’oblio perché “cane non mangia cane” e per farmi passare per mitomane o pazzo o calunniatore o diffamatore, è un’altra cosa. Però da parte di questi coglioni prendersela con i poveri cristi per poi far addossare la colpa a me ed essere oggetto di ritorsioni ingiustificate è da veri vigliacchi. D'altronde un paese di coglioni sarà sempre governato, amministrato, giudicato, istruito ed informato da coglioni.
È molto meglio osare cose straordinarie, vincere gloriosi trionfi, anche se screziati dall'insuccesso, piuttosto che schierarsi tra quei poveri di spirito che non provano grandi gioie né grandi dolori, perché vivono nel grigio e indistinto crepuscolo che non conosce né vittorie né sconfitte. (...) Non è il critico che conta, né l'individuo che indica come l'uomo forte inciampi, o come avrebbe potuto compiere meglio un'azione. L'onore spetta all'uomo che realmente sta nell'arena, il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore, dal sangue; che lotta con coraggio; che sbaglia ripetutamente, perchè non c'è tentativo senza errori e manchevolezze; che lotta effettivamente per raggiungere l'obiettivo; che conosce il grande entusiasmo, la grande dedizione, che si spende per una giusta causa; che nella migliore delle ipotesi conosce alla fine il trionfo delle grandi conquiste e che, nella peggiore delle ipotesi, se fallisce, almeno cade sapendo di aver osato abbastanza. Dunque il suo posto non sarà mai accanto a quelle anime timide che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta. Franklin Delano Roosevelt
Cari signori, io ho iniziato a destare le coscienze 20 anni prima di Beppe Grillo e nulla è successo. Io non cercavo gli onesti, ma le vittime del sistema, per creare una rivoluzione culturale…ma un popolo di “coglioni” sarà sempre governato ed amministrato, informato, istruito e giudicato da “coglioni”.
"Il popolo cornuto era e cornuto resta: la differenza è che il fascismo appendeva una bandiera sola alle corna del popolo e la democrazia lascia che ognuno se l'appenda da sé, del colore che gli piace, alle proprie corna... Siamo al discorso di prima: non ci sono soltanto certi uomini a nascere cornuti, ci sono anche popoli interi; cornuti dall'antichità, una generazione appresso all'altra...- Io non mi sento cornuto - disse il giovane - e nemmeno io. Ma noi, caro mio, camminiamo sulle corna degli altri: come se ballassimo..." Leonardo Sciascia dal libro "Il giorno della civetta".
Un chierico medievale si imbatté in un groviglio di serpi su cui spiccava un ramarro che già da solo sarebbe bastato a spaventarlo. Tuttavia, confrontata a quelle serpeggianti creature, la bestiola gli parve graziosa ed esclamò: «Beati monoculi in terra caecorum», nella terra dei ciechi anche l’orbo è re.
Noi siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. Quando esprimiamo giudizi gratuiti, cattivi ed illogici lo facciamo con la nostra bocca ma inconsapevolmente per volontà di altri. Lo facciamo in virtù di quanto ricevuto: dall’educazione familiare, dall’istruzione di regime, dall’indottrinamento politico e religioso, dall’influenza mediatica. Niente è farina del nostro sacco. Se ci basassimo solo sulle nostre esperienze staremmo solo zitti, sapendo che nessuno sarebbe capace e disposto ad ascoltarci.
In una Italia dove nulla è come sembra, chi giudica chi è onesto e chi no?
Lo hanno fatto i comunisti, i dipietristi, i leghisti, i pentastellati. Lor signori si son dimostrati peggio degli altri e comunque servitori dei magistrati. E se poi son questi magistrati a decidere chi è onesto e chi no, allora se tutti stanno dalla parte della ragione, io mi metto dalla parte del torto.
Ognuno di noi, anziché migliorarsi, si giova delle disgrazie altrui. Non pensando che a cercar l’uomo onesto con il lanternino si perde la ragione. Ma anche a cercarlo con la lanterna di Diogene si perde la retta via. Diogene di Sinope (in greco antico Διογένης Dioghénes) detto il Cinico o il Socrate pazzo (Sinope, 412 a.C. circa – Corinto, 10 giugno 323 a.C.) è stato un filosofo greco antico. Considerato uno dei fondatori della scuola cinica insieme al suo maestro Antistene, secondo l'antico storico Diogene Laerzio, perì nel medesimo giorno in cui Alessandro Magno spirò a Babilonia. «[Alessandro Magno] si fece appresso a Diogene, andandosi a mettere tra lui e il sole. "Io sono Alessandro, il gran re", disse. E a sua volta Diogene: "Ed io sono Diogene, il cane". Alessandro rimase stupito e chiese perché si dicesse cane. Diogene gli rispose: "Faccio le feste a chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non dà niente e mordo i ribaldi."» (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, Vita di Diogene il Cinico, VI 60). Diogene aveva scelto di comportarsi, dunque, come "critico" pubblico: la sua missione era quella di dimostrare ai Greci che la civiltà è regressiva e di dimostrare con l'esempio che la saggezza e la felicità appartengono all'uomo che è indipendente dalla società. Diogene si fece beffe non solo della famiglia e dell'ordine politico e sociale, ma anche delle idee sulla proprietà e sulla buona reputazione. Una volta uscì con una lanterna di giorno. Questi non indossava una tunica. Portava come solo vestito un barile ed aveva in mano una lanterna. "Diogene! - esclamo Socrate - con quale nonsenso tenterai di ingannarci oggi? Sei sempre alla ricerca, con questa lanterna, di un uomo onesto? Non hai ancora notato tutti quei buchi nel tuo barile?". Diogene rispose: "Non esiste una verità oggettiva sul senso della vita". A chi gli chiedeva il senso della lanterna lui rispondeva: "cerco l'uomo!". “... (Diogene) voleva significare appunto questo: cerco l’uomo che vive secondo la sua più autentica natura, cerco l’uomo che, aldilà di tutte le esteriorità, le convenzioni o le regole imposte dalla società e aldilà dello stesso capriccio della sorte e della fortuna, ritrova la sua genuina natura, vive conformemente a essa e così è felice."
Aste e usura: chiesta ispezione nei tribunali di Taranto e Potenza. Interrogazione dei Senatori Cinque Stelle: “Prassi illegali e vicende inquietanti”, titola “Basilicata 24” nel silenzio assordante dei media pugliesi e tarantini.
Da presidente dell’ANPA (Associazione Nazionale Praticanti ed Avvocati) già dal 2003, fin quando mi hanno permesso di esercitare la professione forense fino al 2006, mi sono ribellato a quella realtà ed ho messo in subbuglio il Foro di Taranto, inviando a varie autorità (Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, Procura della Repubblica di Taranto, Ministro della Giustizia) un dossier analitico sull’Ingiustizia a Taranto e sull’abilitazione truccata degli avvocati. Da questo dossier è scaturita solo una interrogazione parlamentare di AN del Senatore Euprepio Curto (sol perché ricoprivo l’incarico di primo presidente di circolo di Avetrana di quel partito). Eccezionalmente il Ministero ha risposto, ma con risposte diffamatorie a danno dell’esponente. Da allora e per la mia continua ricerca di giustizia come Vice Presidente provinciale di Taranto dell’Italia dei Valori (Movimento da me lasciato ed antesignano dei 5 Stelle, entrambi a me non confacenti per mia palese “disonestà”) e poi come presidente nazionale dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, sodalizio antimafia riconosciuto dal Ministero dell’Interno, per essermi permesso di rompere l’omertà, gli abusi e le ingiustizie, ho subito decine di procedimenti penali per calunnia e diffamazione, facendomi passare per mitomane o pazzo, oltre ad inibirmi la professione forense. Tutte le mie denunce ed esposti e la totalità dei ricorsi presentati a tutti i Parlamentari ed alle autorità amministrative e politiche: tutto insabbiato, nonostante la mafiosità istituzionale è sotto gli occhi di tutti.
I procedimenti penali a mio carico sono andati tutti in fumo, non riuscendo nell’intento di condannarmi, fin anche a Potenza su sollecitazione dei denuncianti magistrati.
Il 3 ottobre 2016, dopo un po’ di tempo che mancavo in quel di Taranto, si apre un ulteriore procedimento penale a mio carico per il quale già era intervenuta sentenza di assoluzione per lo stesso fatto. Sorvolo sullo specifico che mi riguarda e qui continuo a denunciare alla luna le anomalie, così già da me riscontrate molti anni prima. Nei miei esposti si parlava anche di mancata iscrizione nel registro generale delle notizie di reato e di omesse comunicazioni sull’esito delle denunce.
L’ufficio penale del Tribunale è l’ombelico del disservizio. Non vi è traccia degli atti regolarmente depositati, sia ufficio su ufficio (per le richieste dell’ammissione del gratuito patrocinio dall’ufficio del gratuito patrocinio all’ufficio del giudice competente), sia utenza su ufficio per quanto riguarda in particolare la lista testi depositata dagli avvocati nei termini perentori. Per questo motivo è inibito a molti avvocati percepire i diritti per il gratuito patrocinio prestato, non essendo traccia né delle istanze, né dei decreti emessi. Nell’udienza del 3 ottobre 2016, per gli avvocati presenti, al disservizio si è provveduto con una sorta di sanatoria con ripresentazione in udienza di nuove istanze di ammissione di Gratuito patrocinio e di nuove liste testi (fuori tempo massimo); per i sostituiti avvocati, invece, ogni diritto è decaduto con pregiudizio di causa. Non un avvocato si è ribellato e nessuno mai lo farà, perché mai nessuno in quel foro si è lamentato di come si amministra la Giustizia e di come ci si abilita. Per quanto riguarda la gestione degli uffici non si può alludere ad una fantomatica mancanza di personale, essendo l’ufficio ben coperto da impiegate, oltretutto, poco disponibili con l’utenza.
Io ho già dato per fare casino, non foss’altro che ormai sono timbrato tra i tarantini come calunniatore, mitomane o pazzo, facendo arrivare la nomea oltre il Foro dell’Ingiustizia.
La presente, giusto per rendere edotti gli ignoranti giustizialisti e sinistroidi in che mani è la giustizia, specialmente a Taranto ed anche per colpa degli avvocati.
Cane non mangia cane. E questo a Taranto, come in tutta Italia, non si deve sapere.
Questo il commento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS che ha scritto un libro “Tutto su Taranto. Quello che non si osa dire”.
Un’inchiesta di cui nessuno quasi parla. Si scontrano due correnti di pensiero. Chi è amico dei magistrati, dai quali riceve la notizia segretata e la pubblica. Chi è amico degli avvocati che tace della notizia già pubblicata. "Siediti lungo la riva del fiume e aspetta, prima o poi vedrai passare il cadavere del tuo nemico", proverbio cinese. Qualcuno a me disse, avendo indagato sulle loro malefatte: “poi vediamo se diventi avvocato”...e così fu. Mai lo divenni e non per colpa mia.
Dei magistrati già sappiamo. C’è l’informazione, ma manca la sanzione. Non una condanna penale o civile. Questo è già chiedere troppo. Ma addirittura una sanzione disciplinare.
Canzio: caro Csm, quanto sei indulgente coi magistrati…, scrive Giovanni M. Jacobazzi il 19 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Per il vertice della Suprema Corte questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona”. La dichiarazione che non ti aspetti. Soprattutto per il prestigio dell’autore e del luogo in cui è stata pronunciata. «Il 99% dei magistrati italiani ha una valutazione positiva. Questa percentuale non ha riscontro in nessuna organizzazione istituzionale complessa». A dirlo è il primo presidente della Corte di Cassazione Giovanni Canzio che, intervenuto ieri mattina in Plenum a Palazzo dei Marescialli, ha voluto evidenziare questa “anomalia” che contraddistingue le toghe rispetto alle altre categorie professionali dello Stato. La valutazione di professionalità di un magistrato che era stato in precedenza oggetto di un procedimento disciplinare ha offerto lo spunto per approfondire il tema, particolarmente scottante, delle “note caratteristiche” delle toghe. «È un dato clamoroso – ha aggiunto il presidente Canzio che i magistrati abbiano tutti un giudizio positivo». Questo appiattimento verso l’alto è l’esempio che qualcosa nel sistema di valutazione “non funziona” e che necessita di essere “rivisto” quanto prima. Anche perché fornisce l’immagine di una categoria particolarmente indulgente con se stessa. In effetti, leggendo i pareri delle toghe che pervengono al Consiglio superiore della magistratura, ad esempio nel momento dell’avanzamento di carriera o quando si tratta di dover scegliere un presidente di tribunale o un procuratore, si scopre che quasi tutti, il 99% appunto, sono caratterizzati da giudizi estremamente lusinghieri. Ciò stride con le cronache che quotidianamente, invece, descrivono episodi di mala giustizia. In un sistema “sulla carta” composto da personale estremamente qualificato, imparziale e scrupoloso non dovrebbero, di norma, verificarsi errori giudiziari se non in numeri fisiologici. La realtà, come è noto, è ben diversa. Qualche mese fa, parlando proprio delle vittime di errori giudiziari e degli indennizzi che ogni anno vengono liquidati, l’allora vice ministro della Giustizia Enrico Costa, parlò di «numeri che non possono essere considerati fisiologici ma patologici». Ma il problema è anche un altro. Nel caso, appunto, della scelta di un direttivo, è estremamente arduo effettuare una valutazione fra magistrati che presentato le medesime, ampiamente positive, valutazioni di professionalità. Si finisce per lasciare inevitabilmente spazio alla discrezionalità. Sul punto anche il vice presidente del Csm Giovanni Legnini è d’accordo, in particolar modo quando un magistrato è stato oggetto di una condanna disciplinare. «Propongo al Comitato di presidenza di aprire una pratica per approfondire i rapporti fra la sanzione disciplinare e il conferimento dell’incarico direttivo o la conferma dell’incarico». Alcuni consiglieri hanno, però, sottolineato che l’1% di giudizi negativi sono comunque tanti. Si tratta di 90 magistrati su 9000, tante sono le toghe, che annualmente incappano in disavventure disciplinari. Considerato, poi, che l’attuale sistema disciplinare è in vigore da dieci anni, teoricamente sarebbero 900 le toghe ad oggi finite dietro la lavagna. Un numero, in proporzione elevato, ma che merita una riflessione attenta. Il Csm è severo con i giudici che depositano in ritardo una sentenza ma è di “manica larga” con il pm si dimentica un fascicolo nell’armadio facendolo prescrivere.
Solo un rimbrotto per il pm che "scorda" l'imputato in galera, scrive Rocco Vazzana il 30 novembre 2016 su "Il Dubbio". Il Csm ha condannato 121 magistrati in due anni. Ma si tratta di sanzioni molto leggere. Centoventuno condanne in più di due anni. È il numero di sanzioni che la Sezione Disciplinare del Csm ha irrogato nei confronti di altrettanti magistrati. Il dato è contenuto in un file che in queste ore gira tra gli iscritti alla mailing list di Area, la corrente che racchiude Md e Movimenti. Su 346 procedimenti definiti - dal 25 settembre 2014 al 30 novembre 2016 - 121 si sono risolti con una condanna (quasi sempre di lieve entità), 113 sono le assoluzioni, 15 le «sentenze di non doversi procedere» e 124 le «ordinanze di non luogo a procedere». L'illecito disciplinare riguarda «il magistrato che manchi ai suoi doveri, o tenga, in ufficio o fuori, una condotta tale che lo renda immeritevole della fiducia e della considerazione di cui deve godere, o che comprometta il prestigio dell'ordine giudiziario». Le eventuali condanne hanno una gradazione articolata in base alla gravità del fatto contestato. La più lieve è l'ammonimento, un semplice «richiamo all'osservanza dei doveri del magistrato», seguito dalla censura, una formale dichiarazione di biasimo. Poi le sanzioni si fanno più severe: «perdita dell'anzianità» professionale, che non può essere superiore ai due anni; «incapacità temporanea a esercitare un incarico direttivo o semidirettivo»; «sospensione dalle funzioni», che consiste nell'allontanamento con congelamento dello stipendio e con il collocamento fuori organico; fino arrivare alla «rimozione» dal servizio. C'è poi una sanzione accessoria che riguarda il trasferimento d'ufficio. Per questo, la sezione Disciplinare può essere considerata il cuore dell'autogoverno. Perché se il Csm può promuovere può anche bloccare una carriera: ai fini interni non serve ricorrere alle pene estreme, basta decidere un trasferimento. E a scorrere il file con le statistiche sui procedimenti disciplinari salta immediatamente all'occhio un dato: su 121 condanne, la maggior parte (90) comminano una sanzione non grave (la censura) e 11 casi si tratta di semplice ammonimento. Le toghe non si accaniscono sulle toghe. La perdita d'anzianità, infatti, è stata inflitta solo a dieci magistrati (due sono stati anche trasferiti d'ufficio), mentre sette sono stati rimossi. Uno solo è stato trasferito d'ufficio senza ulteriori sanzioni, un altro è stato sospeso dalle funzioni con blocco dello stipendio, un altro ancora è stato sospeso dalle funzioni e messo fuori organico. Ma il dato più interessante riguarda le tipologie di illecito contestate. La maggior parte dei magistrati viene sanzionato per uno dei problemi tipici della macchina giudiziaria: il ritardo nel deposito delle sentenze, quasi il 40 per cento dei "condannati" è accusato di negligenze reiterate, gravi e ingiustificate. Alcuni, però, non si limitano al ritardo: il 4 per cento degli illeciti, infatti, riguarda «provvedimenti privi di motivazione», come se si trattasse di un disinteresse totale nei confronti degli attori interessati. Il 23 per cento delle condanne, invece, riguarda una questione che tocca direttamente la vita dei cittadini: la ritardata scarcerazione. E in un Paese in cui si ricorre facilmente allo strumento delle misure cautelari, questo tipo di comportamento determina spesso anche il peggioramento delle condizioni detentive. Quasi il 10 per cento dei giudici e dei pm è stato sanzionato poi per «illeciti conseguenti a reato». Solo il 6,6 per cento delle condanne, infine, è motivato da «comportamenti scorretti nei confronti delle parti, difensori, magistrati, ecc.. ».
Truccati anche i loro concorsi. I magistrati si autoriformino, scrive Sergio Luciano su “Italia Oggi”. Numero 196 pag. 2 del 19/08/2016. Il Fatto Quotidiano ha coraggiosamente documentato, in un'ampia inchiesta ferragostana, le gravissime anomalie di alcuni concorsi pubblici, tra cui quello in magistratura. Fogli segnati con simboli concordati per rendere identificabile il lavoro dai correttori compiacenti pronti a inquinare il verdetto per assecondare le raccomandazioni: ecco il (frequente) peccato mortale. Ma, più in generale, nell'impostazione delle prove risalta in molti casi – non solo agli occhi degli esperti – la lacunosità dell'impostazione qualitativa, meramente nozionistica, che soprattutto in alcune professioni socialmente delicatissime come quella giudiziaria, può al massimo – quando va bene – accertare la preparazione dottrinale dei candidati ma neanche si propone di misurarne l'attitudine e l'approccio mentale a un lavoro di tanta responsabilità. Questo genere di evidenze dovrebbe far riflettere. E dovrebbe essere incrociato con l'altra, e ancor più grave, evidenza della sostanziale impunità che la casta giudiziaria si attribuisce attraverso l'autogoverno benevolo e autoassolutorio che pratica (si legga, al riguardo, il definitivo I magistrati, l'ultracasta, di Stefano Livadiotti).
Ora parliamo degli avvocati. C’è il caso per il quale l’informazione abbonda, ma manca la sanzione.
Un "fiore" da 20mila euro al giudice e il processo si aggiusta. La proposta shock di un curatore fallimentare a un imprenditore. Che succede nei tribunali di Taranto e Potenza? Scrivono di Giusi Cavallo e Michele Finizio, Venerdì 04/11/2016 su “Basilicata 24". L’audio che pubblichiamo, racconta in emblematica sintesi, le dinamiche, di quello che, da anni, sembrerebbe un “sistema” illegale di gestione delle procedure delle aste fallimentari. I fatti riguardano, in questo caso, il tribunale di Taranto. I protagonisti della conversazione nell’audio sono un imprenditore, Tonino Scarciglia, inciampato nei meccanismi del “sistema”, il suo avvocato e il curatore fallimentare nominato dal Giudice.
Aste e tangenti, studio legale De Laurentiis di Manduria nell’occhio del ciclone, scrive Nazareno Dinoi il 9 e 10 novembre 2016 su “La Voce di Manduria”. C’è il nome di un noto avvocato manduriano nell’inchiesta aperta dalla Procura della Repubblica di Taranto sulle aste giudiziarie truccate. Il professionista (che non risulta indagato), nominato dal tribunale come curatore fallimentare di un azienda in dissesto, avrebbe chiesto “un fiore” (una mazzetta) da ventimila euro ad un imprenditore di Oria interessato all’acquisto di un lotto che, secondo l’acquirente, sarebbero serviti al giudice titolare della pratica fallimentare. Questo imprenditore che è di Oria, rintracciato e intervistato ieri da Telenorba, ha registrato il dialogo avvenuto nello studio legale di Manduria in cui l’avvocato-curatore avrebbe avanzato la richiesta “del fiore” da 20mila euro. Tutto il materiale, compresi i servizi mandati in onda dal TgNorba, sono stati acquisiti ieri dalla Guardia di Finanza e dai carabinieri di Taranto.
I presunti brogli nella gestione dei fallimenti. «Infangata la giustizia per scopi elettorali». Il presidente dell’Ordine degli Avvocati, Vincenzo Di Maggio, attacca il M5S: preferisce il sensazionalismo all’impegno per risolvere i problemi, scrive il 15 novembre 2016 Enzo Ferrari Direttore Responsabile di "Taranto Buona Sera". «Ma quale difesa di casta, noi come avvocati abbiamo soltanto voluto dire che il Tribunale non è un luogo dove si ammazza la Giustizia». Vincenzo Di Maggio, presidente dell’Ordine degli Avvocati, torna sulla polemica che ha infiammato gli operatori della giustizia negli ultimi giorni: l’interpellanza di un nutrito gruppo di senatori Cinquestelle su presunte nebulosità nella gestione delle procedure fallimentari ed esecutive al Tribunale di Taranto.
«Fallimenti ed esecuzioni, le procedure sono corrette». Documento delle Camere delle Procedure Esecutive e delle Procedure Concorsuali, scrive "Taranto Buona Sera” il 10 novembre 2016. Prima l’interrogazione parlamentare del M5S su presunte anomalie nella gestione delle procedure fallimentari, a scapito di chi è incappato nelle procedure come debitore; poi il video della registrazione di un incontro che sarebbe avvenuto tra un imprenditore, il suo avvocato e un curatore fallimentare. Un video dagli aspetti controversi e dai contenuti comunque tutti da verificare. Un’accoppiata di situazioni che ha destato clamore e che oggi fa registrare la netta presa di posizione della Camera delle Procedure Esecutive Immobiliari e della Camera delle Procedure Concorsuali. In un documento congiunto, i rispettivi presidenti, gli avvocati Fedele Moretti e Cosimo Buonfrate, fanno chiarezza a tutela della onorabilità dei professionisti impegnati come curatori e custodi giudiziari ed esprimendo piena fiducia nell’operato dei magistrati.
Taranto, rimborsi non dovuti. Procura indaga sugli avvocati. Riflettori accesi su 93mila euro spesi tra il 2014 e il 2015 dopo un esposto del Consiglio, scrive Mimmo Mazza su “La Gazzetta del Mezzogiorno” dell’11 aprile 2016. Finiscono all’attenzione della Procura della Repubblica i conti dell’Ordine degli avvocati di Taranto. A rivolgersi alla magistratura è stato lo stesso Consiglio, presieduto da Vincenzo Di Maggio, dopo che sarebbero emerse irregolarità contabili riguardanti le anticipazioni e i rimborsi alle cariche istituzionali nell’anno 2014, l’ultimo da presidente per Angelo Esposito, ora membro dal Consiglio nazionale forense. Il fascicolo è stato assegnato al sostituto procuratore Maurizio Carbone, l’ipotesi di reato è quella di peculato essendo l’Ordine degli avvocati ente di diritto pubblico (altrimenti si procederebbe per appropriazione indebita, ma il pm non sarebbe Carbone in quanto quest’ultimo fa parte del pool reati contro la pubblica amministrazione). Di questo se ne è parlato agli inizi, perché l’esposto era dello stesso Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, ma poi nulla si è più saputo: caduto nell’oblio. Il silenzio sarà rotto, forse, dalla inevitabile prescrizione, che rinverdirà l’illibatezza dei presunti responsabili.
E poi c’è il caso, segnalato da un mio lettore, di una eccezionale sanzione emessa dalla magistratura tarantina e taciuta inopinatamente da tutta la stampa.
La notizia ha tutti i crismi della verità, della continenza e dell’interesse pubblico e pure non è stata data alla pubblica opinione.
Il caso di cui trattasi si riferisce ad un esposto di un cittadino, presentato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto contro un avvocato di quel foro per infedele patrocinio, di cui già pende giudizio civile.
Ma facciamo parlare gli atti pubblicabili.
L’11 maggio 2012 viene presentato l’esposto, il 3 aprile 2013 con provvedimento di archiviazione, pratica 2292, si emette un documento in cui si dichiara che il Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Taranto delibera la sua archiviazione in quanto “non risultano elementi a carico del professionista tali da configurare alcuna ipotesi di infrazione disciplinare”. L’atto è sottoscritto il 17 novembre 2014, nella sua copia conforme, dall’avv. Aldo Carlo Feola, Consigliere Segretario. Mansione che il Feola ricompre da decenni.
Fin qui ancora tutto legittimo e, forse, anche, opportuno.
E’ successo che, con procedimento penale 2154/2016 R.G.N.R. Mod. 21, il 3 ottobre 2016 (depositata il 6) il Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Taranto, dr Maurizio Carbone, chiede il Rinvio a Giudizio dell’avv. Aldo Carlo Feola, difeso d’ufficio, “imputato del delitto di cui all’art. 476 c.p. (falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici), perché, in qualità di Consigliere con funzione di Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, rilasciava copia conforme all’originale della delibera datata 3 aprile 2013 del Consiglio, con la quale si disponeva di non dare luogo ad apertura di procedimento disciplinare nei confronti dell’avv. Addolorata Renna, con conseguente archiviazione dell’esposto presentato nei suoi confronti da Blasi Giuseppe. Provvedimento di archiviazione risultato in realtà inesistente e mai sottoscritto dal Presidente del Consiglio dell’Ordine di Taranto. In Taranto il 17 novembre 2014.”
Il Giudice per le Indagini Preliminari, con proc. 6503/2016, il 21 novembre 2016 fissa l’Udienza Preliminare per il 12 dicembre 2016 e poi rinvia per il Rito Abbreviato per il 10 aprile 2017 con interrogatorio dell’imputato ed audizione del teste, con il seguito.
Il Giudice per l’Udienza Preliminare, dr. Pompeo Carriere, il 16 ottobre 2017 con sentenza n. 945/2017 “dichiara Feola Aldo Carlo colpevole del reato ascrittogli, e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche, e applicata la diminuente per la scelta del rito abbreviato, lo condanna alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione, oltre al pagamento delle spese del procedimento. Pena sospesa per cinque anni, alle condizioni di legge, e non menzione. Visti gli artt. 538, 539, 541 c.p.p., condanna Feola Aldo Carlo al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separato giudizio, nonché alla rifusione delle spese processuali dalla medesima sostenute, che si liquidano in complessivi euro 3.115,00 (tremilacentoquindici) oltre iva e cap come per legge”.
Da quanto scritto è evidente che ci sia stata da parte della stampa una certa ritrosia dal dare la notizia. Gli stessi organi di informazione che sono molto solerti ad infangare la reputazione dei poveri cristi, sennonchè non ancora dichiarati colpevoli.
Travaglio: “I giornali a Taranto non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. “E’ vero, ma non per tutti…” Lettera aperta al direttore de IL FATTO QUOTIDIANO, dopo il suo intervento-show al Concerto del 1 maggio 2015 a Taranto, di Antonello de Gennaro del 2 maggio 2015 su "Il Corriere del Giorno". "Caro Travaglio, come non essere felice nel vedere Il Fatto Quotidiano, quotidiano libero ed indipendente da te diretto, occuparsi di Taranto? Lo sono anche io, ma nello stesso tempo, non sono molto soddisfatto della tua “performance” sul palco del Concerto del 1° maggio di Taranto. Capisco che non è facile leggere il solito “editoriale”, senza il solito libretto nero che usi in trasmissione da Michele Santoro, abitudine questa che deve averti indotto a dire delle inesattezze in mezzo alle tante cose giuste che hai detto e che condivido. Partiamo da quelle giuste. Hai centrato il problema dicendo: “A Taranto i giornali non scrivono nulla perchè sono comprati dalla pubblicità”. E’ vero e lo provano le numerose intercettazioni telefoniche contenute all’interno degli atti del processo “Ambiente Svenduto” e per le quali il Consiglio di Disciplina dell’Ordine dei Giornalisti di Puglia tergiversa ancora oggi nel fare chiarezza sul comportamento dei giornalisti locali coinvolti, cercando evidentemente di avvicinarsi il più possibile alla prescrizione amministrativa dei procedimenti disciplinari e salvarli”.
Comunque, a parte i distinguo di rito dalla massa, di fatto, però, nessuno di questa sentenza ne ha parlato.
In conclusione, allora, va detto che si è fatto bene, allora, ad indicare la notizia della condanna del Consigliere Segretario del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Taranto, come un fatto tra quelli che a Taranto son si osa dire…
Chi dice Terrone è solo un coglione. La sperequazione inflazionata di un termine offensivo come nota caratteristica di un popolo fiero. L’approfondimento del dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie, che sul tema ha scritto “L’Italia Razzista” e “Legopoli”.
Sui media spopola il termine “Terrone”. Usato dai razzisti del centro Nord Italia in modo dispregiativo nei confronti degli italiani del Sud Italia ed usati dai deficienti meridionali come caratteristica di vanto.
«Non è un reato dare dei terroni ai terroni, indi per cui i terroni sono terroni, punto. Arrivano dalla Terronia, terra di mezzo», diceva al telefono, parlando di un calabrese, una delle campionesse della Capitale Morale, quella Maria Paola Canegrati che smistava affarucci e mazzette per appalti nella Sanità, per circa 400 milioni di euro, a quanto è venuto fuori sinora. Naturalmente, lady Mazzetta, non sa che, invece, dire “terrone” con l'intento di offendere, è reato: ci sono sentenze, anche della Cassazione. Ma a lei deve sembrare un'ingiustizia! «Che cazzo ti devo dire, se adesso è un reato dare del terrone a un terrone, a 'sto punto qui io voglio diventare cittadina omanita»...., scrive Pino Aprile il 22 febbraio 2016.
«Io litigioso? È vero, ma sono migliorato… Mi chiamavano terun, africa, baluba, altro che non incazzarsi…» Dice Teo Teocoli in un intervista a Gian Luigi Paracchini il 22 luglio 2016 su "Il Corriere della Sera".
Gli opinionisti del centro Italia “po’ lentoni” (lenti di comprendonio, anche se oggi l’epiteto, equivalente a “Terrone”, da rivolgere al settentrionale è “Coglione”) su tutti i media la menano sulla terronialità. Cioè l’usare il termine “terrone” come una parola neutra. Come se fossero un po’ tutti leghisti.
Scandali e le mani della giustizia sulla Lega Padania. Come tutti. Più di tutti. I leghisti continuano a parlare, anziché mettersi una maschera in faccia per la vergogna. Su di loro io, Antonio Giangrande, ho scritto un libro a parte: “Ecco a voi i leghisti: violenti, voraci, arraffoni, illiberali, furbacchioni, aspiranti colonizzatori. Non (ri)conoscono la Costituzione Italiana e la violano con disprezzo”. Molti di loro, oltretutto, sono dei meridionali rinnegati. Terroni e polentoni: una litania che stanca. Terrone come ignorante e cafone. Polentone come mangia polenta o, come dicono da quelle parti, po’ lentone: ossia lento di comprendonio. Comunque bisognerebbe premiare per la pazienza il gestore della pagina Facebook “Le perle di Radio Padania”, ovvero quelli che per fornire una “Raccolta di frasi, aforismi e perle di saggezza dispensate quotidianamente dall’emittente radiofonica “Radio Padania Libera” sono costretti a sentirsela tutto il giorno. Una gallery di perle pubblicate sulla radio comunitaria che prende soldi pubblici per insultare i meridionali.
Si perde se si rincorre il Sud come passato, si vince se il Sud è vissuto oggi come consapevolezza di non poterne fare a meno. Accettare di essere comunque meridionale e non terrone a qualunque latitudine. Il treno porta giù, un altro mezzo ti può portare in qualunque altro luogo senza farti dimenticare chi sei e da dove vieni. A chi appartieni? Così si dice al Sud quando ti chiedono chi sia la tua famiglia. È un'espressione meravigliosa: si appartiene a qualcuno, si appartiene anche ai luoghi che vivono dentro di te.
Essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Ciononostante i nordisti, anziché essere grati al contributo svolto dagli emigrati meridionali per il loro progresso sociale ed economico, dimostrano tutta la loro ingratitudine.
Mutuiamo il titolo del libro di Lino Patruno “Alla riscossa Terroni” e “Terroni” di Pino Aprile per farne un motivo di orgoglio meridionale che deve portarci ad invertire una tendenza che data 150 anni. Non rivendichiamo un passato di benessere del Meridione, rivendichiamo un presente migliore per un Sud messo alle corde.
I terroni nascono anche a Gemonio e nelle valli bergamasche, scrive "L'Inkiesta" il 6 aprile 2012. Leggendo le cronache, ma, soprattutto, vedendo le immagini, relative al marciume che sta venendo a galla dai sottoscala leghisti, mi par che si possa dire una grande verità: l'aggettivo spregiativo "terrone" non si può appioppare solo ai meridionali, ma, con grande precisione, anche ai miei conterronei nordici. Devo dire la verità. Io - nordico e fieramente antileghista da molto tempo - che le storie di Roma ladrona, dell'uccello duro, del barbarossa, dell'ampolla sul diopò (che, a dire il vero, mi par più una saracca che un rito), di riti celtici, di fazzolettini verdi come il moccio, erano tutte una rozza e ignorante presa per il culo per ammansire i buoi e farsi in comodo i sollazzi propri, ne ero convinto da tempo. Da ben prima che si svegliassero i soliti magistrati (verrà il giorno, in questo paese dei matocchi, che qualche rivoluzione la farò il popolo?), bastava un po' di fiuto per capire che il sottobosco era questo. Ma le vedete le facce del cerchio magico? Ma avete presente la pacchianità della villa di Gemonio? E poi, la priorità alla "family", come la più bieca usanza del troppo noto familismo amorale, perchè parlare di "famigghia" era troppo terrone. Ma il dato è che questi sono - culturalmente, esteticamente e antropologicamente - terroni. Perchè terrone, per me, non è un epiteto riferibile a una provenienza geografica I.G.P.; è uno stile deteriore di rappresentarsi, chiuso, retrivo, in cui il dialetto non è cultura, ma rozzume esibito con orgoglio (e questo vale tanto per i napoletani, quanto per i veneti), in cui prevale la logica del clan su quella della civile società, in cui si deve fare sfoggio dell'ignoranza perchè questo è "popolare". Terrone è un ignorante retrogrado, cafone, ineducato. Con il risultato che il Bossi e la family sprofondano, il terronismo impera e un peloso, stantio e pietistico meridionalismo riprende fiato. Grazie Bossi, grazie leghisti: avete ucciso non solo la dignità del nord, ma anche la speranza vera che una riforma moderna di questo paese, tenuto insieme con una scatarrata, si potesse fare. Ah, dimenticavo. Se qualcuno mi dovesse dire "parla lui, di ignoranza presentata con orgoglio.
Da che pulpito vien il sermone!", dico: "Non perdete tempo in analisi: son diverso e me ne vanto. Si vuol che dica che sono ignorante e delinquente. Bene lo sono, in un mondo di saccenti ed onesti mafiosi, sono orgoglioso di esser diverso. Cosa concludere, di fronte a tali notizie di carattere storico? Questo: trovo triste che i nostri bravi leghisti rinneghino le proprie radici arabe, albanesi, meridionali, mediterranee. Da loro, così orgogliosi della Tradizione, non me lo aspettavo. Anzi dirò di più. Buon per loro avere origini meridionali, perchè ad essere POLENTONI si rischia di avere una considerazione minore che essere TERRONE.
Secondo Wikipedia Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale. Origine e significato. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo, e sta ad indicare una persona zotica un pò lenta di comprendonio (po' lentone). Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta e dai movimenti goffi e impacciati.
Analisi dei termini offensivi. Il termine polentone è un epiteto, con una connotazione negativa, utilizzato dagli abitanti dell'Italia meridionale per indicare gli abitanti dell'Italia settentrionale, scrive Wikipedia. Letteralmente significa mangiatore di polenta, un alimento, questo, storicamente molto diffuso nella cucina povera dell'Italia settentrionale. Fino ai primi anni del XX secolo, infatti, la polenta rappresentava l'alimento base, se non esclusivo, delle popolazioni del nord Italia (Lombardia, Veneto, Piemonte ecc.) purtroppo con conseguenze nefaste sulla salute di molti soggetti spesso vittime della pellagra, anche se li ha salvati da tante carestie alimentari. Polentone, come stereotipo linguistico, ha assunto, quindi, un significato spregiativo nell'Italia del Sud, e sta ad indicare una persona zotica. Il termine si è inserito nella dialettica campanilistica fra abitanti del nord e del sud della penisola, essendo usato in contrapposizione all'appellativo terrone: ambedue le parole hanno connotazioni antietniche, tese a rimarcare una asserita inferiorità etnica e culturale, anche se spesso usate solo in modo bonario. Lo stesso epiteto è utilizzato in Val Padana, soprattutto in Lombardia (pulentùn), per indicare una persona lenta di comprendonio (tonta) e dai movimenti goffi e impacciati.
La Padania o Patanìa (lett. Terra dei Patanari, coltivatori di patate) si estende in tutte le regioni del nord Italia: dalla Val d'Aosta alla Toscana fino al Friuli Venezia Giulia. È facile collocare geograficamente la Patanìa vera e pura: si traccia una retta che attraversa interamente il Po, passando rigorosamente al centro, perché solo la parte nord del Po è padana. La Padania si definisce anche Barbaria, cioè terra di barbari. Il mito di una terra popolata da eroi celtici, circondata da terribili barbari di matrice slava, è il concetto su cui si basa la Lega Nord. Trascurabile il dettaglio che un tempo la Padania fosse abitata da un'accozzaglia di popoli oltre ai Celti.
Terrone è un termine della lingua italiana, utilizzato dagli abitanti dell'Italia settentrionale e centrale come spregiativo per designare un abitante dell'Italia meridionale, talvolta anche in senso semplicemente scherzoso, scrive Wikipedia. In passato il termine era utilizzato con un altro significato e valenza; solo nel corso degli anni sessanta ha acquisito il senso attuale. Con il termine "terrone" (da teróne, derivazione di terra) si indicava nel XVII secolo un proprietario terriero, o meglio un latifondista. Già tra le Lettere al Magliabechi, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Magliabechiani costituiscono un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva (CXXXIV -II - 1277): «Quattro settimane sono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto tiro che ci fanno questi signori teroni di volerci scacciare dal partito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho lavorato tant'anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro». Il termine in seguito fu utilizzato per denominare chi era originario dell'Italia meridionale e con particolare riferimento a chi emigrava dal Sud al Nord in cerca di lavoro, al pari dei nordici milanesi, etichettati come baggiani, che emigravano nelle valli del Bergamasco, come menzionato da Alessandro Manzoni. Il termine si diffuse dai grandi centri urbani dell'Italia settentrionale con connotazione spesso fortemente spregiativa e ingiuriosa e, come altri vocaboli della lingua italiana (quali villano, contadino, burino e cafone) stava per indicare "servo della gleba" e "bracciante agricolo" ed era riferita agli immigrati del meridione. Gli immigrati venivano quindi considerati, sia pure a livello di folklore, quasi dei contadini sottosviluppati. Il termine, che deriva evidentemente da "terra" con un suffisso con valore d'agente o di appartenenza (nel senso di persona appartenente strettamente alla terra) è stato variamente interpretato come frutto di incrocio fra terre (moto) e (meridi)one, come "mangiatore di terra" parallelamente a polentone, "mangiapolenta", cioè l'italiano del nord; come "persona dal colore scuro della pelle, simile alla terra" o anche come "originario di terre soggette a terremoti" ("terre matte", "terre ballerine"). Il suo maggiore utilizzo data comunque essenzialmente agli anni sessanta e settanta e limitatamente ad alcune zone del nord Italia, in seguito alla forte ondata di emigrazione di lavoratori e contadini del meridione d'Italia in cerca di lavoro verso le industrie del nord e in particolare del triangolo industriale (Genova – Milano – Torino). In tale ambito si spiega anche la diffusione del termine: storicamente, grossi movimenti di popolazioni hanno sempre portato con sé anche fenomeni di intolleranza o razzismo più o meno larvati. Successivamente, allo stesso modo è sorta la locuzione "terrone del nord", generalmente per indicare gli italiani del nord-est (principalmente i veneti, detti "boari"), che per ragioni simili cominciarono negli stessi anni ad emigrare verso il nord-ovest, venendo così accomunati agli emigranti meridionali. Il riconoscimento di terrone come insulto e non come termine folkloristico è un processo che storicamente ha subito molte battute d'arresto e incomprensioni, probabilmente dovute al fatto che solo una parte della popolazione italiana ne riconosceva pienamente la gravità e il suo carattere offensivo. La Corte di Cassazione ha ufficialmente riconosciuto che tale termine ha un'accezione offensiva, confermando una sentenza del Giudice di Pace di Savona e confermando che la persona che l'aveva pronunciata dovesse risarcire la persona offesa dei danni morali. Spesso vengono associati a questo epiteto caratteristiche personali negative, tra le quali ignoranza, scarsa voglia di lavorare, disprezzo di alcune norme igieniche e soprattutto civiche. Analogamente, soprattutto in alcune accezioni gergali, il termine ha sempre più assunto il significato di "persona rozza" ovvero priva di gusto nel vestire, inelegante e pacchiana, dai modi inurbani e maleducata, restando un insulto finalizzato a chiari intenti discriminatori. Inoltre vengono spesso associati al termine anche tratti somatici e fisici, come la carnagione scura, la bassa statura, le gote alte, caratteristiche fisiche storicamente preponderanti al Sud rispetto al Nord Italia.
In conclusione c’è da affermare che bisogna essere orgogliosi di essere meridionali. Il meridionale non è migrante: è viaggiante con nostalgia e lascia il cuore nella terra natia.
Chi proferisce ingiurie ad altri o a se stesso con il termine terrone non resta che rispondergli: SEI SOLO UN COGLIONE.
Si evade il fisco più al Nord che al Sud. E’ uno dei dati che emerge dal rapporto sulla lotta all’evasione redatto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Secondo Padoan, la somma totale delle principali imposte evase (Iva, Ires, Irpef e Irap) ammonta a 91 miliardi. Il 52% di questa cifra si attesta dunque nel Settentrione, contro i 24 miliardi del centro (26% del totale) e i 19,8 miliardi del Meridione (22%). Il dato è influenzato dal maggior reddito nazionale del Nord. Soprattutto, scrivono i tecnici del Tesoro, la rabbrividire la percentuale di verifiche sulle imprese che trova irregolarità fiscali: è 98,1% tra le grandi, al 98,5% sulle medie e al 96,9% sulle Pmi. Il record tocca agli enti non commerciali, il 99,2% non è in regola. 100% di `positività´ i controlli sugli atti soggetti a registrazione. Ad ogni modo, l’evasione effettiva ‘pizzicata’ dall’Agenzia delle Entrate nel 2013, ha rilevato il Mef, ammonta a 24,5 miliardi. La maggiore imposta accertata è così salita dell’87% in sette anni, rispetto ai 13,1 miliardi del 2006. Un numero in calo rispetto agli anni 2009-2012 e soprattutto rispetto al picco di 30,4 miliardi del 2011.
LA BALLA DELLA SPEREQUAZIONE FINANZIARIA DELLE REGIONI DEL NORD A FAVORE DI QUELLE DEL SUD.
In Regione Lombardia non tornano 54 miliardi di tasse versate. (Lnews - Milano 06 settembre 2017). "La Lombardia è la regione che versa più tasse allo Stato ricevendo, in cambio, meno trasferimenti in termini di spesa pubblica. In questi anni, infatti, il residuo fiscale della Lombardia ha raggiunto la cifra record di 54 miliardi (fonte: Eupolis Lombardia). Si tratta del valore in assoluto più alto tra tutte le regioni italiane. Un'immensità anche a livello europeo se si pensa che due regioni tra le più industrializzate d'Europa come la Catalogna e la Baviera hanno rispettivamente un residuo fiscale di 8 miliardi e 1,5 miliardi". Lo scrive una Nota pubblicata oggi dal sito lombardiaspeciale.regione.lombardia.it.
RESIDUO FISCALE - "Con il termine residuo fiscale - spiega la Nota - s'intende la differenza tra quanto un territorio verso allo Stato sotto forma di imposte e quanto riceve sotto forma di spesa pubblica. Se il residuo fiscale abbia segno positivo, il territorio versa più di quanto riceve; se c'è un residuo negativo il territorio riceve più di quanto versa. Secondo James McGill Buchanan Jr, premio Nobel per l'Economia nel 1986, cui si attribuisce la paternità della definizione, il trattamento che lo Stato riserva ai cittadini può considerarsi equo se determina residui fiscali minimi in capo a individui, a prescindere dal territorio nel quale risiedono. Differenze marcate denotano una violazione dei principi di equità basilari".
I DATI PER REGIONE - "Dopo la Lombardia - appunta il teso - si colloca l'Emilia Romagna, con un residuo fiscale di 18.861 milioni di euro. Seguono Veneto (15.458 mln), Piemonte (8.606 mln), Toscana (5.422 mln), Lazio (3.775 mln), Marche (2.027 mln), Bolzano (1.100 mln), Liguria (610 mln), Friuli Venezia Giulia (526 mln), Valle d'Aosta (65 mln). In coda alla classifica: Umbria (-82 mln), Molise (-614 mln), Trento (-249 mln), Basilicata (-1.261 mln), Abruzzo (-1.301 mln), Sardegna (-5.262 mln), Campania (-5.705 mln), Calabria (-5.871 mln), Puglia (-6.419 mln) e Sicilia (-10.617 mln)".
IL DATO PRO CAPITE - Anche per quanto riguarda il residuo fiscale pro capite, la Lombardia presenta i valori più alti d'Italia, con 5.217 euro. Seguono Emilia Romagna (4.239), Veneto (3.141), Provincia Autonoma di Bolzano (2.117), Piemonte (1.950), Toscana (1.447), Marche (1.310), Lazio (641), Valle d'Aosta (508), Friuli Venezia Giulia (430), Liguria (386), Umbria (-92), Provincia Autonoma di Trento (-464), Campania (-974), Abruzzo (-979), Puglia (-1.572), Molise (-1.963), Sicilia (-2.089), Basilicata (-2.192), Calabria (-2.975) e Sardegna (-3.169)", spiega la Nota pubblicata.
Da sempre i giornali e le tv nordiste, spalleggiate dagli organi d’informazione stataliste, ce la menano sul fatto che ci sia un grande disavanzo finanziario tra le regioni del centro-nord ricco e le regioni povere del sud Italia. I conti, fatti in modo bizzarro, rilevano che il centro-nord paga molto di più di quanto riceva e che la differenza vada in solidarietà a quelle regioni che a loro volta sono votate allo spreco ed al ladrocinio. A fronte di ciò, i settentrionali, hanno deciso che è meglio tagliare quel cordone ombelicale e lasciar cadere quella zavorra che è il sud Italia. Ed il referendum secessionista è stato organizzato per questo, facendo leva sull’ignoranza della gente.
Ora facciamo degli esempi scolastici che si studiano negli istituti tecnici commerciali, per dimostrare di quanta malafede ed ignoranza sia propagandato questo referendum.
Una partita iva, persona o società, registra in contabilità la gestione e versa tasse, imposte e contributi nel luogo della sede legale presso cui redige i suoi bilanci semplici o consolidati (gruppi d’impreso con un capogruppo).
Il Centro-Nord Italia, con la Lombardia ed il Lazio in particolare, è territorio privilegiato per eleggere sede legale d’azienda, per la vicinanza con i mercati europei. Dove c’è sede legale vi è iscrizione al registro generale dell’imprese. Ergo: sede di versamento fiscale che alimenta quei numeri, oggetto di nota della Regione Lombardia. Quei dati, però, spesso, nascondono la ricchezza prodotta al sud (stabilimenti, appalti, manodopera, ecc.), ma contabilizzata al nord.
E’ risaputo che nel centro-nord Italia hanno stabilito le loro sedi legali le più grandi aziende economiche-finanziarie italiane e lì pagano le tasse. Il Sud Italia è di fatto una colonia di mercato. Di là si produce merce e lavoro (e disinformazione), di qua si consuma e si alimenta il mercato.
E’ risaputo che le aziende del centro nord appaltano i grandi lavori pubblici, specialmente se le aziende del sud Italia le fanno chiudere con accuse artefatte di mafiosità.
E’ risaputo che al nord il costo della vita è più caro e questo si trasforma proporzionalmente in reddito maggiorato rispetto ai cespiti collegati, come quelli immobiliari.
Il residuo fiscale era tollerato e l’assistenzialismo era alimentato, affinchè il mercato meridionale non cedesse e le aziende del nord potessero continuare a produrre beni e servizi e ad alimentare ricchezza nell’Italia settentrionale, condannando il sud ad un perenne sottosviluppo e terra di emigrazione.
Oggi lo Stato centralista assorbe tutta la ricchezza nazionale prodotta e l'assistenzialismo si è bloccato, ma il sud Italia continua ad essere un mercato da monopolizzare da parte delle aziende del Centro-Nord Italia. Una eventuale secessione a sfondo razzista-economica votata dai nordisti sarebbe un toccasana per i meridionali, che imporrebbero diversi rapporti commerciali, imponendo dei dazi od altre forme di limitazioni alle merci del nord. Il maggior costo di beni e servizi del nord Italia favorirebbe la nascita nel sud Italia di aziende, favorite economicamente dal minor costo della mano d’opera del posto e delle spese di trasporto e logistica locale. Inoltre quello che produce il centro nord è acquisibile su altri mercati. Quello che si produce al Sud Italia è peculiare e da quel mercato, per forza, bisogna attingere e comprare...
Quindi, viva il referendum…secessionista
A votare per questo referendum sono andati i mona. Questo l'ha detto lei, ma è vero". Risponde così il 24 ottobre 2017 all'intervistatore del programma Morning Showdi di Radio Padova il milanese Oliviero Toscani, il noto fotografo già protagonista, nel recente passato, di polemiche sui "veneti popolo di ubriaconi". "Sono andati a votare quattro contadini - rincara la dose - che non parlano neanche l'italiano". E ancora: "Nelle campagne la gente è isolata, incestuosa e vota queste cagate qua". Per lo stesso Toscani, invece, a non votare è stata "la minoranza intellettuale". Così il fotografo, maestro della provocazione, ritorna ad aprire una ferita solo apparentemente chiusa che aveva portato a querele all'epoca degli “imbriagoni”. Nell'intervista radiofonica sui referendum ha anche evidenziato un confronto con la Lombardia dove la percentuale di voto è stata minore. «Non a caso Milano - ha rilevato - è la prima città d'Italia per intellighenzia, e non a caso Milano è una città piena di immigrati. Milano è fatta così, è civile. Mentre i contadini là, che non parlano neanche italiano, cosa vuoi che votino?».
Paradosso sanità: il Sud paga più tasse perché i pazienti devono andare al Nord per curarsi. La mobilità sanitaria passiva ha un impatto enorme sui bilanci delle strutture meridionali. E le Regioni così devono aumentare le aliquote e chiudere strutture, scrive Gloria Riva il 18 gennaio 2018 su "L'Espresso". La distanza fra Catanzaro e Milano la si può calcolare in chilometri, sono 1.159, o in anni di vita in meno, che sono quattro. E in generale la prospettiva di vita in Calabria è molto più simile a quella di Romania o Bulgaria, mentre al Nord si sta come in Svezia. Tutto questo nonostante i cittadini del settentrione spendano in media 1.961 euro a testa per la sanità pubblica, quelli del Sud 1.799 e quelli del Centro 1.928 euro. Insomma, i quattrini da sborsare sono più o meno gli stessi, ma c'è un divario di assistenza sanitaria. Torniamo in Calabria: qui ogni cittadino sborsa 1.875 euro l'anno per la sanità pubblica, di cui 126 euro se ne vanno per pagare il conto presentato da altre Regioni, spesso del Nord, dove i compaesani calabresi sono andati a curarsi. Già, perché nel 2016 il 40,7 per cento dei malati di cancro della Calabria ha scelto l'ospedale di un'altra regione per curarsi. Dall'altro lato la Lombardia ha visto arrivare da fuori regione quasi 17 mila malati oncologici nei propri ospedali. Quell'immigrazione sanitaria consente ai lombardi di spendere “solo” 1.877 euro per una sanità d'eccellenza, risparmiandone 54, pagati appunti dai migranti in cerca di cure. Francesco Masotti è un dirigente sanitario dell'azienda sanitaria provinciale di Cosenza ed è anche segretario della Cgil Medici, a L'Espresso racconta la storia del commissariamento della sanità calabrese, iniziato nel 2010 e mai terminato: «Siamo al terzo piano di rientro e pare che i conti siano in peggioramento di oltre 30 milioni di euro», tutta colpa di inaspettate poste in bilancio che il commissario Massimo Scura si trova a dover contabilizzare per via di dimenticati debiti pregressi, contenziosi finanziari risalenti a 10 anni fa, recuperi di tariffe mai ritoccate ed esplose in questi ultimi anni, e poi saldi per la mobilità passiva. Rieccola, la mobilità passiva, il grande buco che attanaglia la sanità calabrese e non solo, che da sola si mangia il 65 per cento delle finanze locali. Secondo il rapporto Cergas Bocconi sullo stato di salute del Sistema Sanitario Nazionale, la Calabria da sola genera l'otto per cento dei viaggi sanitari verso altre regioni e un paziente su sei si ricovera fuori regione generando un debito per le tasche dei calabresi di 304 milioni. Una voragine. Succede perché il conto delle cure negli ospedali del Nord viene presentato alla regione Calabria. E visto che l'Italia da 17 anni si è dotata di un sistema federale per la sanità, ogni Regione, attraverso l'Irpef e l'Irap, cioè le tasse pagate dai lavoratori e dalle aziende, deve riuscire a coprire le spese per curare i propri cittadini. Ma non tutte ce la fanno. Va da sé che le Regioni con meno occupazione e povere di industria sono entrate subito in affanno e i sistemi sanitari locali sono stati ben presto commissariati. Per rimettersi in sesto, s'è provveduto a chiudere gli ospedali, ridurre i posti letto e bloccare l'assunzione di nuovi medici e infermieri, al punto che in queste regioni il personale è crollato del 15 per cento. Lo stesso è successo per i livelli essenziali di assistenza: «Il dato della Campania è davvero allarmante perché, rispetto al 2014 le performance si sono ridotte di oltre 30 punti. Ma ci sono peggioramenti anche in Puglia, Molise e Sicilia», si legge nell'indagine Cergas Bocconi, che continua spiegando come il piano di risanamento dei conti della sanità sia ancora in atto in cinque Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Calabria e il Lazio che dovrebbe presto uscirne dopo un decennio lacrime e sangue. Mentre la Calabria sembra lontanissima dal traguardo e «ci apprestiamo a entrare nel quarto programma di rientro. Il che significa altri tagli per il sistema sanitario calabrese, già ridotto all'osso. Ne usciremo mai?», si domanda Masotti, che spiega come il disavanzo venga pagato con un aumento delle tasse, dell'Irap e dell'Irpef. Arrivando a situazioni assurde, per cui un operaio di Varese versa l'1,58 di aliquota Irpef per la sanità, il suo collega di Gioia Tauro paga di più, l'1,73, ma poi «va in Lombardia a curarsi». Anche perché in Campania negli 10 anni sono andati in pensione 4.500 operatori - medici e infermieri - mai sostituiti. Ed è stata predisposta la chiusura di una miriade di piccoli ospedali, «a cui nessuno si è opposto, perché tutti ritenevamo fossero pericolosi per il cittadino e per gli operatori sanitari», dice il medico, che aggiunge: «Quei luoghi di cura non sono mai stati riconvertiti in presidi per il territorio». Insomma, la Calabria si trova nel limbo e secondo Masotti «poco o nulla è stato fatto, nonostante un progetto già finanziato dalla comunità e partito sei anni fa, per la costruzione di 20 Case della salute. Solo una è stata realizzata», afferma Masotti. Dunque, se prima del commissariamento la sanità calabrese era costosa perché vaporizzata in una miriade di piccoli ospedali poco efficienti, dopo la stretta economica è andata anche peggio, perché all'inefficienza si è aggiunta la penuria di strutture e di personale. Così i cittadini hanno perso qualsiasi fiducia nell'assistenza locale, hanno fatto le valigie e scelto di andarsi a curare altrove. Il paradosso è che tutto questo ha un costo altissimo per le aziende del territorio, «che per coprire i conti in rosso della sanità devono pagare più tasse che altrove». Infatti in Calabria, ma anche in altre Regioni come Marche, Lazio, Abruzzo, Molise, Campania, Puglia e Sicilia le aziende pagano più del 3,9 per cento di Irap. E anche il bollo auto, in molte di queste zone, costa più che al Nord. Insomma, più tasse e meno servizi. Il tipico cane che si morde la coda.
Un referendum da presa per il culo. Il 22 ottobre 2017 si chiede ai cittadini interessati. “Volete essere autonomi e tenere per voi tutto l’incasso?” E’ logico che tutti direbbero sì, senza distinzione di ideologia o natali. Ed i quorum raggiunti sono fallimentari tenuto conto dell’interesse intrinseco del quesito.
Specialmente, poi, se è stato enfatizzato tanto dai giornali e le tv del Nord, comprese quelle di Berlusconi.
“Al di là dell’enorme spreco di soldi pubblici per organizzare due referendum buoni solo a fare un po’ di propaganda elettorale a spese dei contribuenti, ha evidenziato il trionfo dell’egoismo di chi è più ricco e pensa di poter vivere meglio mantenendo sul territorio le risorse derivante dalle imposte dopo aver beneficiato per decenni di aiuti statali e del sostegno dello Stato”. Lo ha detto il consigliere regionale dei Verdi della Campania, Francesco Emilio Borrelli, per il quale “la Lega ha mostrato, ancora una volta, il suo vero volto che è fatto di odio verso il Sud e i meridionali”.
“Così come ha ricordato anche Prodi, chiedere ai cittadini se vogliono pagare meno tasse ancora una volta a danno dei meridionali è come un invito a nozze che non si può rifiutare, ma il problema è che, per chiederlo, in questo caso, Zaia e Maroni hanno speso milioni di euro di soldi pubblici per farlo” ha aggiunto Borrelli chiedendo ai cittadini lombardi e veneti: “Visto come sprecano i vostri soldi e come hanno speso, in passato, quelli, sempre pubblici, per il finanziamento ai partiti, siete proprio sicuri di volergliene affidare ancora di più?” “La Regione Campania viene privata ogni anno di 250 milioni di euro che vengono sottratti ai servizi sanitari e ai nostri concittadini perché considerata la regione più giovane d’Italia e grazie a una norma introdotta dai governatori leghisti e mai tolta” ha continuato Borrelli, sottolineando che “ogni anno la sola Campania viene depredata di centinaia di milioni di euro di fondi che invece vengono destinati al ricco Nord senza alcuna reale motivazione”. “La Rampa” 23 ottobre 2017.
In Italia conviene non fare nulla e non avere nulla, perché se hai o fai si fotte tutto lo Stato, per dare il tuo, non a chi è bisognoso, ma a chi non sa o non fa un cazzo. Cioè ai suoi amici o ai suoi scagnozzi professionisti corporativi.
L’Italia uccisa dai catto-comunisti, scrive Andrea Pasini il 30 ottobre 2017 su “Il Giornale”. Il comunismo ha ucciso l’Italia. “Max Horkheimer fornì d’altra parte, al termine della sua vita, con una sorprendete confessione, la spiegazione di questa incapacità di analisi da parte dei membri della scuola di Francoforte: riconobbe infatti con dolore che il marxismo aveva preparato il Sistema, che esso ne era responsabile allo stesso titolo dell’ideologia liberale borghese, in quanto la sua visione del mondo si fonda ugualmente su un progetto mondiale economicista e messianico”. Guillaume Faye, all’interno dello scritto "Il sistema per uccidere i popoli", recentemente ripubblicato dai tipi di Aga Editrice, ha fotografato l’evolversi delle idee forti provenienti dal diciannovesimo secolo. Loro ci odiano, odiano il nostro Paese, ma guardandosi allo specchio non possono fare a meno di odiarsi a loro volta. Una spirale senza fine, laddove astio, animosità ed acredini bruciano la base solida di questa nazione. Vittorio Feltri, in un animoso e vitale articolo apparso qualche anno fa sulle colonne di Libero, scrisse: “Gli stessi comunisti si vergognano di esserlo stati, ma la mentalità pauperistica è rimasta e non ha cessato di provocare danni. Risultato: in Italia è impossibile fare impresa o artigianato, aprire un’azienda, essere liberi professionisti senza essere considerati sfruttatori, evasori fiscali se non addirittura ladri”.
Proprio per questo motivo, ogni giorno, metto in campo tutte le mie energie al fine di stoppare, innanzitutto fisicamente, un oblio vertiginoso. Anche questo è il mio dovere in qualità di imprenditore. Lo Stato è in pericolo, la franata negli ultimi decenni è stata infausta. Ma davanti al fatalismo che attanaglia i popoli dobbiamo mettere in campo la nostra fede. Gli uomini di fede, uomini animati da un ardire che non conosce limiti, fanno paura ai catto-comunisti colpevoli di aver ridotto in cenere le speranze del domani. L’avvenire non sarà mai rosso di colore. Tornando ai piedi dello scrittore francese Faye leggiamo: “Gli intellettuali confessano, come Débray o Lévy, di fare oramai solamente della morale e non importa più che la loro verità si opponga alla realtà. La ragione ammette di non aver più ragione”. Il paradosso del marxismo 160 anni dopo. La ragione aveva torto scomodando, il sempre attuale, Massimo Fini. Ora conta credere, ciò che importa è come e quello che si fa per invertire la rotta, per non perdere il timone. Il Paese suona il corno e ci chiama a raccolta. Impossibile, a pochi giorni dal centenario di Caporetto, non rispondere, con tutto il proprio animo in tensione, presente.
In questo rimpallo, tra menti eccelse, contro il dominio sinistrato del presente e del futuro passiamo, nuovamente, la palla a Feltri: “E anche lo Stato, influenzato da alcuni partiti di ispirazione marxista, non aiuta con tutta una serie di vincoli burocratici, lacci e lacciuoli. E i sindacati hanno completato l’opera, contribuendo ad avvelenare i rapporti tra datore di lavoro e dipendenti, trasformando le fabbriche in luoghi d’odio e di lotta violenta, per umiliare i padroni e il personale non ideologizzato”. La storia non scorre più è tutto fermo nella mente dei retrogradi. Si avvinghiano alla legge Fiano i talebani di quest’epoca, per fare il verso a "Il Primato Nazionale", dimenticandosi dei problemi reali dell’Italia. Burocrati, sordidi e grigi, in doppio petto che accoltellano il ventre molle dello stivale, una carta bollata dopo l’altra. Alzare lo sguardo e tornare a cantare, davanti alle manette rosse della coscienza, non è facile, ma abbiamo il compito di tornare a farlo. Considerando il detto, “il lupo perde il pelo, ma non il vizio”, associandolo con le profetiche lezioni di Padre Tomas Tyn, scopriamo che il comunismo non è sparito, anzi si è rafforzato ed ha trovato gli alleati nei cattolici “non praticanti”. Potrà sembrare un’assurdità, invece è la mera realtà.
L’indiscutibile commistione di progressismo e comunismo, spesso umanitario ed accatto, ha creato con l’unione di un cattolicesimo snaturato una via collegata direttamente con i diritti civili, che non interseca, mai e poi mai, la sua strada con i diritti sociali. Aborto, divorzio, pacs, dico, unioni civili, matrimoni gay e chi più ne ha più ne metta. Fanno tutto ciò che non serve per gli italiani, fanno tutto ciò che non serve per difendere le fasce deboli della nazione. Tanti nostri connazionali hanno abbracciato il nemico, sono diventati uno di loro, per questo dobbiamo denunciare gli errori di chi sfida il tricolore e salvare la Patria. Il peccato, originale e capitale, è insito nell’ideologia marxista e rappresenta il male che sta distruggendo il nostro Paese, senza dimenticare il liberismo a tutti i costi della generazione Macron.
Milano, il paradosso: se la pena è la stessa per il giudice corrotto e per chi ha rubato una bottiglia di vino. Un noto avvocato, che ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro, grazie a vari sconti di pena ha concordato 4 anni in Appello. Quasi la stessa pena, 3 anni e 8 mesi, patteggiata in Tribunale per un reato da 8 euro, scrive Luigi Ferrarella il 30 ottobre 2017 su "Il Corriere della Sera”. Il problema è quando la combinazione dell’algebra giudiziaria, del tutto aderente alle regole, stride al momento di tirare la riga e, come risultato, fa patteggiare 3 anni e 8 mesi a chi ha rubato al supermercato una bottiglia di vino da 8 euro, mentre chi ha svenduto sentenze tributarie in contenziosi da milioni di euro esce dalla Corte d’Appello condannato a poco più: e cioè a pena concordata di 4 anni, ridotta rispetto ai 6 anni e 10 mesi del primo grado, che grazie allo sconto del rito abbreviato aveva già ridimensionato i teorici 10 anni iniziali. Luigi Vassallo è l’avvocato cassazionista che, nelle vesti di giudice tributario di secondo grado, alla vigilia di Natale 2015 fu fermato in flagranza di reato a Milano mentre intascava i primi 5.000 dei 30.000 euro chiesti ai legali di una multinazionale per intervenire su una collega di primo grado e «aggiustare» un contenzioso da milioni di euro. Due «corruzioni in atti giudiziari» nel giudizio immediato, e una «corruzione» e una «induzione indebita» nel successivo giudizio ordinario, lo avevano indotto ad accordarsi con il Fisco per 140.00 euro e a scegliere il rito abbreviato, il cui automatico sconto di un terzo gli aveva abbassato la prima sentenza a 4 anni e 8 mesi, e la seconda a 2 anni e 2 mesi. Per un totale, cioè un cumulo materiale, di 6 anni e 10 mesi. Ora in Appello arriva - come contemplato dalla recente legge in cambio del risparmio di tempo e risorse in teoria legato alla rinuncia difensiva a far celebrare il dibattimento di secondo grado - un altro sconto di un terzo, e si aggiunge già alla limatura di pena dovuta alla «continuazione» tra le 4 imputazioni delle due sentenze di primo grado riunite in secondo grado. Alla vigilia dell’udienza, dunque, l’avvocato Fabio Giarda rinuncia ai motivi d’appello diversi dal trattamento sanzionatorio, a fronte del sì del pg Massimo Gaballo all’accordo su una pena di 4 anni, ratificato dalla II Corte d’Appello presieduta da Giuseppe Ondei. Undici mesi Vassallo li fece in custodia cautelare (fra carcere e domiciliari), sicché non appare irrealistico l’agognato tetto dei 3 anni di pena da eseguire, sotto i quali potrà chiedere di scontarla in affidamento ai servizi sociali senza ripassare dal carcere. In Tribunale, invece, da detenuto arriva e da detenuto va via (senza sospensione condizionale della pena e senza attenuanti generiche) un altro imputato che nello stesso momento patteggia 3 anni e 8 mesi – quasi la stessa pena del giudice tributario – per aver rubato da un supermercato una bottiglia di vino da 8 euro e mezzo: il fatto però che avesse dato una spinta al vigilantes privato che all’uscita gli si era parato davanti, minacciandolo confusamente («non vedi i tuoi figli stasera») e agitando un taglierino, ha determinato il passaggio dell’accusa da «furto» a «rapina impropria», la cui pena-base è stata inasprita dai vari decreti-sicurezza, tanto più per chi come lui risulta «recidivo» a causa di due vecchi furti. Per ridurre i danni, il patteggiamento non scende a meno di 3 anni e 8 mesi. Quasi un anno di carcere per ogni 2 euro di vino.
“La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
Intervista al sociologo storico Antonio Giangrande, autore di un centinaio di saggi che parlano di questa Italia contemporanea, analizzandone tutte le tematiche, divise per argomenti e per territorio.
Dr Antonio Giangrande di cosa si occupa con i suoi saggi e con la sua web tv?
«Denuncio i difetti e caldeggio i pregi italici. Perché non abbiamo orgoglio e dignità per migliorarci e perché non sappiamo apprezzare, tutelare e promuovere quello che abbiamo ereditato dai nostri avi. Insomma, siamo bravi a farci del male e qualcuno deve pur essere diverso!»
Perché dice che “La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla”.
«Libri, 6 italiani su dieci non leggono. In Italia poi si legge sempre meno. Siamo tornati ai livelli del 2001. Un dato resta costante da decenni: una famiglia su 10 non ha neppure un libro in casa. I dati pubblicati dall’Istat fotografano l’inesorabile diminuzione dei lettori, con punte drammatiche al Sud. Impietoso il confronto con l’estero, scrive il 27 dicembre 2017 Cristina Taglietti su "Il Corriere della Sera". La gente usa esclusivamente i social network per informarsi tramite lo smartphone od il cellulare. Non usa il personal computer perchè non ha la fibra in casa che ti permette di ampliare più comodamente e velocemente la ricerca e l'informazione. La gente, comunque, non va oltre alla lettura di un tweet o di un breve post, molto spesso un fake nato dall'odio o dall'invidia, e lo condivide con i suoi amici. Non verifica o approfondisce la notizia. Non siamo nell'era dell'informazione globale, ma del "passa parola" totale. Di maggiore impatto numerico, invece, è la ricerca sui motori di ricerca, non di un tema o di un argomento di cultura o di interesse generale, ma del proprio nome. Si digita il proprio nome e cognome, racchiuso tra virgolette, per protagonismo e voglia di notorietà e dalla ricerca risulta quanti siti web lo citano. Non si aprono quei siti web per verificare il contenuto. Si fermano sulla prima frase che appare sulla home page di Google o altri motori similari, estrapolata da un contesto complesso ed articolato. Senza sapere se la citazione è diffamatoria o meritoria o riconducibile all'autore da lì partono querele, richieste di rimozione per diritto all’oblio o addirittura indifferenza».
Ha un esempio da fare sull’impedimento ad informare?
«Esemplari sono le querele e le richieste di rimozione. Libertà di informazione, nel 2017 minacciati 423 giornalisti. I dati dell'osservatorio promosso da Fnsi e Ordine. La tipologia di attacco prevalente è l'avvertimento (37 per cento), scrive il 31 dicembre 2017 "La Repubblica". Ognuno di questi operatori dell'informazione è stato preso di mira per impedirgli di raccogliere e diffondere liberamente notizie di interesse pubblico. La tipologia di attacco prevalente è stata l'avvertimento (37 per cento) seguita dalle querele infondate e altre azioni legali pretestuose (32 per cento)».
E sull’indifferenza…
«Le faccio leggere un dialogo tra me e un tizio che mi ha contattato. Uno dei tanti italiani che non si informa, ma usa internet in modo distorto. Uno di quel popolo di cercatori del proprio nome sui motori di ricerca e che vive di tweet e post. Un giorno questo tizio mi chiede “Lei ha scritto quel libro?”
E' un saggio - rispondo io. - L'ho scritto e pubblicato io e lo aggiorno periodicamente. A tal proposito mi sono occupato di lei e di quello che ingiustamente le è capitato, parlandone pubblicamente, come ristoro delle sofferenze subite, pubblicando l'articolo del giornale in cui è stato pubblicato il pezzo. Inserendolo tra le altre testimonianze. Comunque ho scritto anche un libro sul territorio di riferimento. Come posso esserle utile?
“Volevo giusto capire, io mi sono imbattuto per caso nell'articolo, cercando il mio nome... E sotto l'articolo ho visto un link che mi collegava al suo saggio...Capire più che altro perché prendere articoli di giornale su altra gente e farne un saggio... Sono solo curiosità”.
E’ comodo definirsi scrittori da parte di chi non ha arte né parte - spiego io. - I letterati, che non siano poeti, cioè scrittori stringati, si dividono in narratori e saggisti. E’ facile scrivere “C’era una volta...” e parlare di cazzate con nomi di fantasia. In questo modo il successo è assicurato e non hai rompiballe che si sentono diffamati e che ti querelano e che, spesso, sono gli stessi che ti condannano. Meno facile è essere saggisti e scrivere “C’è adesso...” e parlare di cose reali con nomi e cognomi. Impossibile poi è essere saggisti e scrivere delle malefatte dei magistrati e del Potere in generale, che per logica ti perseguitano per farti cessare di scrivere. Devastante è farlo senza essere di sinistra. Quando si parla di veri scrittori ci si ricordi di Dante Alighieri e della fine che fece il primo saggista mondiale. In generale. Dico, in generale: io non esprimo mie opinioni. Prendo gli articoli dei giornali, citando doverosamente la fonte, affinchè non vi sia contestazione da parte dei coglioni citati, che siano essi vittime, o che siano essi carnefici. Perchè deve sapere che i primi a lamentarsi sono proprio le vittime che io difendo attraverso i miei saggi, raccontando tutto quello che si tace.
"Siccome io le ho detto mi sono solo imbattuto per "caso"... Io ho visto questa cosa e sinceramente l'ho letta perché ho visto il mio nome, ma se dovessi prendere il suo saggio e leggerlo non lo farei mai. Perché: Cerco di lavorare ogni giorno con le mie forze. I miei aggiornamenti sono tutt'altro. Faccio tutto il possibile per offrirmi un futuro migliore. Sono sempre impegnato e non riuscirei a fermarmi due minuti per leggere".
Rispetto la sua opinione - rispondo. - Era la mia fino ai trent'anni. Dopo ho deciso che è meglio sapere ed essere che avere. Quando sai, nessuno ti prende per il culo...
"Ma per le cose che mi possono interessare per il mio lavoro e il mio futuro nessuno mi può prendere per il culo ... Poi è normale che in ogni campo ci sia l'esperto…"»
Come commenta...
«Confermo che quando sai, nessuno ti prende per il culo. Quando sai, riconosci chi ti prende per il culo, compreso l’esperto che non sa che a sua volta è stato preso per il culo nella sua preparazione e, di conseguenza sai che l’esperto, consapevole o meno, ti potrà prendere per il culo».
Comunque rimane la soddisfazione di quei quattro italiani su dieci che leggono.
«Sì, ma leggono cosa? I più grandi gruppi editoriali generalisti, sovvenzionati da politica ed economia, non sono credibili, dato la loro partigianeria e faziosità. Basta confrontare i loro articoli antitetici su uno stesso fatto accaduto. Addirittura, spesso si assiste, sulle loro pagine, alla scomparsa dei fatti. Di contro troviamo le piccole testate nel mare del web, con giornalisti coraggiosi, ma che hanno una flebile voce, che nessuno può ascoltare. Ed allora, in queste condizioni, è come se non si avesse letto nulla».
Concludendo?
«La gente non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla...e vota. Nel paese degli Acchiappacitrulli, più che chiedere voti in cambio di progetti, i nostri politici sono generatori automatici di promesse (non mantenute), osannati da giornalisti partigiani. Questa gente che non legge, non sa, ma sceglie, decide e parla, voterà senza sapere che è stata presa per il culo, affidandosi ai cosiddetti esperti. I nostri politici gattopardi sono solo mediocri amministratori improvvisati assetati di un potere immeritato. Governanti sono coloro che prevedono e governano gli eventi, riformando ogni norma intralciante la modernità ed il progresso, senza ausilio di leggi estemporanee ed improvvisate per dirimere i prevedibili imprevisti».
L'informazione sulla politica? In Italia è troppo di parte (per 6 lettori su 10). I risultati di una ricerca del Pew Research Center di Washington in 38 Paesi: l'Italia è tra gli Stati dove la fiducia nell'imparzialità dell'informazione politica è più bassa. Per sette giovani su 10 è la Rete il luogo principale dove trovare notizie, scrive Giuseppe Sarcina, corrispondente da Washington, il 11 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Solo il 36% degli italiani pensa che giornali, televisioni e siti web riportino in modo accurato le diverse posizioni politiche. Tra i Paesi occidentali solo gli spagnoli, con il 33%, e i greci, con il 18%, sono più critici. (In fondo all'articolo, la classifica completa). È uno dei risultati emersi dallo studio del Pew Research Center di Washington, appena pubblicato. Una ricerca di grande impegno, condotta dal 16 febbraio al 8 maggio 2017, raccogliendo 41.953 risposte in 38 Paesi.
Precisione e attendibilità. In tempi di «fake news» (qui la guida di Milena Gabanelli e Martina Pennisi), gli analisti del Pew Center hanno chiesto quanto siano considerati precisi, attendibili i media sui temi della politica. Tra gli Stati occidentali spiccano le percentuali di chi approva il lavoro di stampa e tv nei Paesi Bassi (74%), in Canada (73%) e in Germania (72%). Segue il gruppo intermedio con Svezia (66%) Regno Unito (52%), Francia (47%). Italia, Spagna e Grecia sono in coda. Negli Stati Uniti, già provati da un anno di presidenza di Donald Trump, il 47% degli interpellati apprezza il modo in cui vengono trattate le notizie politiche.
Meglio sugli Esteri. I numeri cambiano, anche sensibilmente, su altri quesiti. In Italia, per esempio, il 46% considera accurata l’informazione che riguarda l’azione di governo; il 60% quella sui principali eventi mondiali. In generale, considerando tutti i Paesi, il 75% del campione non considera accettabile un’informazione apertamente schierata su una posizione politica e il 52% promuove i media.
Per 7 giovani su 10 l'informazione è in Rete. Interessante anche il capitolo sulle news online. Si parte da un esito scontato, (i giovani si informano su Internet), per arrivare a compilare una classifica sul gap tra le diverse fasce di età tra gli utenti del web. Al primo posto il Vietnam, dove l’84% dei giovani tra i 18 e i 29 anni consulta la rete almeno una volta al giorno, contro solo il 10% degli ultra cinquantenni (gap pari al 74%). L’Italia è al terzo posto: 70% di giovani e 25% di navigatori oltre i cinquant’anni (gap del 45%). Gli Stati Uniti sono il Paese dove le distanze generazionali sono più ridotte: il 48% del pubblico più anziano consulta Internet, contro il 69% dei più giovani.
DUE PESI E DUE MISURE. Nicola Porro: "Fake news? No: se le scrive Repubblica, il giornale progressista", scrive il 28 Novembre 2017 "Libero Quotidiano". "Le fake news sono tali solo se non riguardano un tema politicamente corretto e non sono scritte a titoli cubitali...", scrive Nicola Porro sul suo profilo Twitter. Repubblica, sottolinea il vicedirettore de Il Giornale, "a pagina 4 sparava con grande evidenza un numero impressionante: 6.788.000. E la didascalia recitava: Italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito qualche forma di violenza pari al 31,6%". Peccato che questa notizia sia assolutamente "falsa, doppia come un gettone. Il tutto a corredo di un pezzo che chiede maggiori risorse contro il femminicidio: cioè maggiori tasse per far sì che una donna su tre (così spiega la didascalia) non debba più subire ignobili violenze". Quel numero, continua Porro, "è un macigno" e "il giornale antibufale per eccellenza, e cioè Repubblica", non ci dice "da dove esce". Bene, continua Porro, "nasce da un rapporto Istat del 2015 su dati del 2014", e "non si tratta di un dato puntuale, ma di un sondaggio. Cioè non ci sono 6,7 milioni di donne che hanno denunciato o lamentato o raccontato una violenza. C’è un sondaggio su un campione di 24.761 donne". Proprio così. Non solo, "si dice che il 31,6% delle donne italiane subisce violenza". Ma la maggior parte di loro subisce quella psicologica: il 22% della popolazione nazionale secondo l'Istat, e cioè 4,4 milioni su 6,7 milioni delle loro stime, si lamenta solo della violenza psicologica e non già di quella fisica. Grave comunque, ma ci sarà una differenza tra l’una e l’altra".
Firenze, le fake news dei giornali sugli stupri inventati. Diversi quotidiani nazionali hanno pubblicato la notizia: A Firenze nel 2016 false 90% delle denunce per violenza sessuale. Il questore smentisce, scrive Domenico Camodeca, Esperto di Cronaca l'11 settembre su "it.blastingnews.com". “Tutte le studentesse americane in Italia sono assicurate per lo stupro e a #Firenze su 150-200 denunce all’anno, il 90% risulta falso”. È questo il passaggio incriminato, privo di virgolette nella versione originale, di un articolo apparso il 9 settembre scorso sui quotidiani La Stampa e Il Secolo XIX, a margine di una intervista al ministro della Difesa, Roberta Pinotti, sui fatti legati all’ancora presunto stupro di Firenze. Anche altre testate, tra cui Il Messaggero, Il Gazzettino e Il Mattino (o, almeno, questa la ricostruzione fatta dalla giornalista del Fatto Quotidiano Luisiana Gaita) hanno poi rilanciato la notizia che, però, si è rivelata essere una #Fake News, una bufala insomma. A smentire i Media ci ha pensato il questore di Firenze Alberto Intini: “Secondo la banca dati della polizia solo 51 denunce per#violenza sessuale nel 2016 e, nei primi 9 mesi del 2017, solo 3 da parte di ragazze americane”. Di fronte alla presunta fake news smascherata, Stampa e Secolo decidono di non mollare, virgolettano la frase da loro pubblicata e la attribuiscono a una non meglio precisata “fonte istituzionale attendibile”, anche se coperta dal segreto professionale. Dunque, a Firenze, nel 2016, ci sono state tra le 150 e le 200 denunce per violenza sessuale (reato che va dal palpeggiamento al vero e proprio stupro), oppure solo 51?. E poi, è vero che le denunce presentate dalle donne americane sarebbero false per il 90%? Sostenitori della prima tesi sono, come detto, le redazioni di Stampa e Secolo le quali, nella nota apparsa successivamente in calce al pezzo contestato, spiegano che “i dati cui fa riferimento la fonte non sono nelle statistiche ufficiali perché non sono ancora confluiti nei database Istat”. Una pezza di appoggio abbastanza fumosa che, infatti, il procuratore di Firenze Intini contraddice fornendo i numeri provenienti dalla banca dati della polizia. Per non parlare dell’altra fake news che tutte le studentesse Usa in Italia sarebbero assicurate contro lo stupro Infatti, come ha spiegato anche Gabriele Zanobini, avvocato delle due ragazze protagoniste della vicenda, l’assicurazione stipulata dalle donne americane che si recano in Italia è generica e comprende ogni tipo di incidente o aggressione in cui si può incorrere.
«Denzel Washington sostiene Trump», la bufala su Facebook. Ennesimo caso di propaganda veicolata da American News, sito che posta contenuti falsi per orientare il dibattito. L’attore trasformato in un supporter del presidente eletto, scrive Marta Serafini su “Il Corriere della Sera” il 16 dicembre 2016. Tanto Denzel Washington risponde ad un giornalista che gli chiedeva un’opinione sulle fake news e sul ruolo dell’informazione moderna. Se non leggi i giornali sei disinformato, se invece li leggi sei informato male. Quindi cosa dovremo fare? chiede il giornalista, Washington replica: “Bella domanda. Quali sono gli effetti a lungo termine di troppa informazione? Una delle conseguenze è il bisogno di arrivare per primi, non importa più dire la verità. Quindi qual è la vostra responsabilità? Dire la verità, non solo arrivare per primi, ma dire la verità. Adesso viviamo in una società dove l’importante è arrivare primi. “Chi se ne frega? Pubblica subito” Non ci interessa a chi fa male, non ci interessa chi distrugge, non ci interessa che sia vero. Dillo e basta, vendi! Se ti alleni puoi diventare bravo a fare qualsiasi cosa. Anche a dire stronzate” tuona il celebre attore e regista.
I giornalisti professionisti si chiedono perché è in crisi la stampa. Le loro ovvie risposte sono:
Troppi giornalisti (litania pressa pari pari dalle lamentele degli avvocati a difesa dello status quo contro le nuove leve);
Troppi pubblicisti;
Troppa informazione web;
Troppi italiani non leggono.
La risposta invece è: troppo degrado intellettuale degli scribacchini e troppi “mondi di informazione”. Quando si parla di informazione contemporanea non si deve intendere in toto “Il Mondo dell’Informazione”, quindi informazione secondo verità, continenza-pertinenza ed interesse pubblico, ma “I Mondi delle Informazioni”, ossia notizie partigiane date secondo interessi ideologici (spesso di sinistra sindacalizzata) od economici. Insomma: quanto si scrive non sono notizie, ma opinioni! I lettori non hanno più l’anello al naso e quindi, diplomati e laureati, sanno percepire la disinformazione, la censura e l’omertà. In questo modo si rivolgono altrove per dissetare la curiosità e l’interesse di sapere. I pochi giornalisti degni di questo titolo sono perseguitati, perchè, pur abilitati (conformati), non sono omologati.
FAKE NEWS, GIORNALI E MORALISMI SENZA PIÙ NOTIZIE, scrive Alessandro Calvi il 22 dicembre 2017 su "Stati Generali". Certo, il problema sono le fake news; eppure, si dovrebbe dire anche dell’informazione di carta, di certe sue degenerazioni; o forse oramai è tardi, forse l’informazione è già morta e quello pubblicato dalla Stampa mercoledì 22 novembre – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – ne è il perfetto necrologio. Quella frase l’ha scritta Mattia Feltri dopo aver chiesto scusa ai lettori per aver costruito un pezzo su una notizia poi rivelatasi falsa; e però quella chiusa – «La notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive» – sembra dirci che i giornali oramai ritengono di poter fare a meno di fatti e notizie, accontentandosi delle opinioni, anche di quelle costruite su notizie false; il necrologio del giornalismo, appunto. La storia è piuttosto semplice. Feltri aveva dedicato una puntata della sua rubrica «Buongiorno» alla notizia secondo cui una bimba di 9 anni sarebbe andata in sposa a un uomo di 45 anni e poi da questo sarebbe stata violentata; tutto si sarebbe svolto nella comunità musulmana di Padova. Ebbene, dopo aver spiegato che di questo genere di storie si conosce poco o nulla poiché «avvengono dentro comunità chiuse, regolate dalla connivenza, persuase di essere nel giusto per volere divino», Feltri ricordava la «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta, un po’ genericamente recriminatoria» contro «i Weinstein e i Brizzi di tutto il mondo» e concludeva: «Tanta agitazione per ragazze indotte o costrette a concedersi in cambio di una carriera nel cinema è comprensibile e condivisibile, ma tanto silenzio per donne e bambine sequestrate a vita, in cambio di niente, è spaventoso». Ecco: peccato che alla fine sia uscito fuori che la storia della sposa bambina era falsa. A Feltri non è restato che ammettere l’errore e chiedere scusa, non rinunciando però ad affermare che, sebbene la notizia fosse falsa, «la riflessione sopravvive». E invece no: ché, anzi, a sopravvivere è semmai tutto quell’apparato fatto di notazioni e coloriture – «tanta agitazione» o «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta» – il quale, al venir meno dei fatti, si rivela per quello che è: una semplice impalcatura ideologica, forse persino un po’ infastidita da quella «battaglia opportuna […] sebbene un po’ scomposta». Tuttavia, il problema non è certo Feltri al quale piuttosto si dovrebbe riconoscere d’essere un gran signore avendo fatto ciò che pochi fanno: ammettere l’errore e chiedere scusa. D’altra parte, capita a tutti di sbagliare, soprattutto se ogni giorno – ogni giorno! – si è costretti a trarre una morale dalle notizie, con metodo oramai quasi industriale; è capitato anche al più inossidabile, al più inarrestabile, tra i dispensatori di morali e opinioni, Massimo Gramellini; la ricostruzione che fornì Alessandro Gilioli sull’Espresso di uno di questi errori – e di mezzo c’è sempre una fake news presa per buona – vale la lettura. Ma, appunto, il problema non è l’errore in sé, poiché l’errore può capitare. Il problema, sta invece nell’essere oramai diventata accettabile – tanto che non s’è visto alzarsi neppure un sopracciglio – un’affermazione come quella secondo cui «la notizia è falsa, ma la riflessione sopravvive». Il problema riguarda una idea di giornalismo che sembra prescindere dai fatti, per cui le opinioni oramai precedono la cronaca la quale spesso trova spazio soltanto se è in grado di confermare le opinioni, altrimenti se ne fa a meno, poiché comunque «la riflessione sopravvive». Il problema sta insomma nel fatto che l’informazione è stata da tempo ridotta a mero dispensario di opinioni, anche senza più fatti a sostegno. Di recente, sugli Stati Generali, è stato pubblicato un intervento – «Se noi giornalisti siamo sempre meno credibili, ci sarà un perché» – di Fabio Martini, anch’egli giornalista del quotidiano La Stampa, col quale non si può che concordare. E, peraltro, da queste parti si è ragionato spesso sulla crisi del giornalismo, e in particolare sulle conseguenze della marginalizzazione della cronaca. Lo si era fatto ad esempio prendendo spunto da fatti drammatici, come le stragi delle quali i quotidiani quasi non danno più notizia, e si era fatto lo stesso anche a partire da vicende più vicine, come il mancato racconto dell’agonia del lago di Bracciano. Di recente lo si è fatto a proposito di come l’informazione ha trattato le vicende di Ostia e del Virgilio. Comunque sia, il tema è sempre lo stesso: dai primi anni Novanta la cronaca inizia a essere massicciamente sostituita da altro, in particolare dai retroscena; e questo cambia tutto: cambia l’informazione e cambia anche il rapporto tra giornali e potere. «Sulle pagine dei giornali – si perdonerà l’autocitazione da quell’articolo che prendeva a pretesto la vicenda di Ostia per parlare di giornalismo – si affacciano sempre più massicciamente spifferi di Palazzo, brogliacci, verbali. Sembra che il lettore, attraverso la lettura di un verbale riportato pedissequamente dai giornali, possa essere immerso dentro la notizia senza più filtri né mediazioni. Sembra una rivoluzione. È invece l’esatto opposto. Per farsene una idea, basterebbe chiedersi chi dirige il traffico, chi sceglie quali verbali far uscire e quali spifferi lasciar trapelare. Ecco: per lo più, sono le fonti a stabilirlo, se non altro perché sono le fonti che conoscono a fondo il contesto. Insomma, sostituendo lo spazio della cronaca con il retroscena e rarefacendo sempre più il tradizionale lavoro di inchiesta giornalistica, i giornali si sono disarmati e consegnati alle fonti, quindi al potere». Il passaggio dalla cronaca al retroscena, e l’affermarsi progressivo delle opinioni sui fatti, finisce per trasformare anche la scrittura dei giornali. Il linguaggio della cronaca diventa sempre più simile a quello degli editoriali, intessuto di pedagogismi e di toni moralisticheggianti che non dovrebbero trovare spazio nel resoconto di un fatto. Anche questo contribuisce ad allentare il rapporto con la realtà, finendo per trasformare la cronaca – quando ancora trova spazio in pagina – in un racconto di maniera che non dice più molto del mondo. E non è ancora tutto. In questi giorni sono usciti in libreria due libri – non uno, due! – che Michele Serra ha dedicato alla rubrica che da anni cura per Repubblica, «L’amaca». In quello dei due che costituisce l’esegesi dell’altro, Serra scrive che gli anni nei quali iniziò a scrivere corsivi – «gli anni della post-ideologia», afferma – non erano più quelli di Fortebraccio e della sua ferrea faziosità. In realtà, rispetto all’epoca di Fortebraccio stava cambiando soprattutto il contenitore nel quale il corsivo veniva collocato: stavano cambiando i giornali e stava cambiando persino il giornalismo. Prima, informazione era per lo più il resoconto di un fatto e quindi aveva un senso l’esistenza di editoriali e corsivi; poi, con la marginalizzazione della cronaca e l’editorializzazione dell’intero giornale, i corsivi finiscono annegati in un mare di opinioni senza più cronaca, poiché, come s’è appena visto, la cronaca ha lasciato il posto al retroscena il quale ha a sua volta contribuito all’avvicinamento della informazione al potere attraverso il disarmo nei confronti delle fonti. In questo contesto, anche la funzione dei corsivi finisce per essere stravolta rispetto all’epoca di Fortebraccio: e il rischio permanente è che si passi dal graffio contro il potere al moralismo che accarezza lo stato delle cose e che massaggia il potere o la pancia dei lettori. Imboccata questa strada – sostituita la cronaca con il retroscena, scollegata l’informazione dai fatti, ridottala a ragionamento che può essere persino basato su una notizia falsa, stravolta infine la funzione dei corsivi – i giornali si sono ridotti a raccontare sempre meno le cose del mondo e per questo hanno sempre meno lettori e sono sempre più in crisi. A sentire chi i giornali li fa, però, il problema sarebbe soprattutto quello delle fake news o della rete che ruba lettori. E quindi si finisce per ritenere che la soluzione per recuperare lettori e credibilità sia quella di differenziarsi dalla rete, lasciando alla stessa rete il notiziario e concentrandosi ancor di più sulle opinioni. Lo ha spiegato piuttosto chiaramente il direttore di Repubblica Mario Calabresi presentando la nuova veste del giornale, scrivendo di aver addirittura «raddoppiato lo spazio per le analisi e i commenti». Bene. Ma davvero abbiamo bisogno di tutte queste opinioni? Possibile che si abbia tutta questa sfiducia nella capacità dei lettori – sempre che ai lettori si raccontino anche i fatti – di formarsi da sé una opinione? Non sarà, infine, che a forza d’andar dietro alle opinioni si stia rischiando di rendere ancor più flebile il rapporto tra giornali e fatti, oltre a quello oramai quasi evanescente tra giornali e lettori? Lo dirà il tempo. Tuttavia, proprio nel giorno in cui Calabresi annunciava il raddoppio delle analisi e dei commenti, la nuova Repubblica esordiva in edicola con una grande intervista al premier spagnolo Rajoy firmata dallo stesso Calabresi e posta in apertura di edizione. Quello stesso giorno, gli altri giornali raccontavano come Amsterdam avesse sfilato a Milano l’Agenzia europea del farmaco anche per il mancato accordo tra governo italiano e governo spagnolo. Ebbene, nella intervista uscita su Repubblica al capo di quel governo non c’era neppure una domanda su quel fatto. Sarà stata un scelta di opportunità, sarà stato perché l’intervista era stata chiusa prima, comunque si è rimasti con la sensazione che mancasse qualcosa. Quella scelta è stata legittima, certo; difficile però poi lamentarsi se i lettori quel qualcosa non lo cerchino più nei giornali.
Una Costituzione troppo elogiata. Commenti positivi si arrestano sistematicamente alla prima parte del testo, mentre la seconda è ampiamente discutibile e discussa, scrive Ernesto Galli della Loggia il 12 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". Non si può proprio dire che abbia destato un grande interesse il settantesimo anniversario appena trascorso dell’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica. Alla fine dell’anno passato, l’evento è stato naturalmente e doverosamente commemorato da tutte le autorità del caso ma nella più completa distrazione della gente immersa nelle festività natalizie. E altrettanto doverosamente esso ha innescato l’ormai consueto ciclo di celebrazioni ufficiali. Che stavolta ha preso la forma di un «viaggio della Costituzione» – organizzato dalla Presidenza del Consiglio - attraverso dodici città italiane ognuna destinata a essere sede di una lezione su un tema centrale della Carta (tra i quali temi fanno bella mostra di sé Democrazia e Decentramento, Stato e Chiesa e Diritto d’asilo, Solidarietà e Lavoro, mentre manca, assai significativamente, il tema della Libertà). Come di prammatica è stata organizzata anche una mostra itinerante, ovviamente multimediale, nella quale ciascuno dei dodici articoli principali è commentato dalla voce di Roberto Benigni, confermato anche in questa occasione nel suo ruolo ormai ufficiale di aedo della Repubblica. Paradossalmente, tuttavia, proprio l’assenza d’interesse da parte del pubblico unita alla piattezza celebrativa condita dei soliti discorsi esaltanti il «testo vivo» della Carta, la sua «sintesi mirabile» e così via magnificando, sono serviti a sottolineare per contrasto qualcosa che è assolutamente peculiare della nostra scena pubblica. Vale a dire la centralità che in essa ha la Costituzione. Una centralità beninteso tutta verbale, fatta per l’appunto di un continuo discorrere sulla Costituzione in ogni circostanza plausibile e implausibile, di una sua incessante evocazione ed esaltazione, di una profusione di elogi per ogni suo aspetto: per la sua saggezza, per la sua lungimiranza, completezza, incisività, bellezza stilistica, e chi più ne ha più ne metta. Credo che in tutta Europa non esista una Carta costituzionale fatta oggetto di un altrettanto inarrestabile fiume di parole laudative, così come credo che non esista un’altra classe politica (ma ci si aggiungono volentieri anche preti e vescovi) che se ne riempia tanto la bocca come quella italiana. A cominciare da coloro che rappresentano le istituzioni, il cui discorso, appunto, è, per la massima parte e in qualsivoglia circostanza più o meno «nobile», una trama di richiami di volta in volta ammonitori o storico-encomiastici alla Costituzione. È una caratteristica così tipicamente italiana da richiedere una spiegazione. La quale credo stia nel fatto che l’ufficialità italiana, non riuscendo a immaginarsi depositaria di un qualunque destino collettivo né investita di una qualunque prospettiva nazionale, non considerandosi attrice credibile e tanto meno portavoce di un qualunque futuro significativo del Paese, sa di non poter fare altro che richiamarsi al passato. Quando in una qualunque circostanza celebrativa la suddetta ufficialità è chiamata a dire di sé e di ciò che rappresenta in modo «alto», essa sa di non essere in grado di spingere lo sguardo avanti, di non avere la statura per dar voce a un progetto o a un destino, e quindi è costretta inevitabilmente a volgere lo sguardo all’indietro, solo all’indietro: cioè per l’appunto alla Costituzione. Naturalmente uno sguardo essenzialmente contemplativo: infatti, lungi dall’essere una retorica in vista dell’azione, la retorica ufficiale della Repubblica è vocazionalmente una retorica della memoria. La dimensione dei foscoliani «Sepolcri», insomma, è ancora e sempre la nostra: anche se oggi priva degli «auspici» che a suo tempo secondo il poeta da essi avremmo dovuto trarre. C’è ancora una considerazione da fare circa il discorso sulla Costituzione tipico della ufficialità italiana. Ed è che esso, nella sua abituale, pomposa, glorificazione del testo, tende sistematicamente a nascondere due verità. La prima è che forse quel testo medesimo così compiuto e perfetto non è, visto che fino a oggi sono almeno 16 (per un totale di oltre venti articoli) le modificazioni che è stato ritenuto utile o necessario apportarvi: e quasi sempre su aspetti per nulla secondari. La seconda verità nascosta dalla magniloquenza celebrativa quando nei suoi elogi si arresta, come fa sistematicamente, alla prima parte della Carta, riguarda la natura viceversa ampiamente discutibile e discussa della seconda parte, quella che tratta dei modi in cui il Paese è quotidianamente e concretamente governato e amministrato. Non a caso il modo come in Italia funzionano l’esecutivo, la giustizia, le Regioni o la burocrazia, non è mai fatto oggetto di attenzione e tanto meno di elogi dal discorso sulla Costituzione. Accortamente i ditirambi sono riservati solo ai massimi principi: alla solidarietà, al ripudio della guerra o al diritto allo studio e via dicendo. Sul resto, silenzio. Con il risultato che modificare ciò che pure a giudizio di moltissimi andrebbe modificato di questa seconda parte si rivela da sempre di una difficoltà titanica, dal momento che la cosa può facilmente essere fatta passare per un subdolo attacco ai principi suddetti. Ma se la Costituzione è così massicciamente presente nel discorso pubblico italiano questo avviene per un’ultima ragione, pure questa patologica. E cioè perché essa viene continuamente adoperata come arma contundente nella lotta politica quotidiana, piegata a suo uso e consumo. In realtà è la Costituzione stessa che si presta a esser adoperata in tal modo. Infatti, il lungo elenco di articoli dal 29 al 47 — articoli astrattamente prescrittivi riguardanti i rapporti «etico sociali» ed economici (l’astrattezza sta nello stabilire come obbligatori per la Repubblica, nella forma perlopiù di altrettanti «diritti» dei cittadini, una lunga serie di costosissimi obiettivi di una vasta quanto assoluta genericità) — tali articoli, dicevo, si prestano molto bene a essere fatti valere a difesa polemica di qualsiasi esigenza contro qualsiasi politica di qualsiasi governo. Non a caso, un tale uso strumentalmente politico della Costituzione cominciò fin dalla sua entrata in vigore, e si può dire che da allora non ci sia stato esecutivo italiano di destra o di sinistra che nelle più svariate occasioni non sia stato accusato in un modo o nell’altro di violare la Costituzione. Inutile dire quanto anche una simile pratica abbia contribuito e contribuisca a impedire che intorno alla Costituzione stessa si formi quell’aura di «sacralità» che invano i suoi celebratori vorrebbero.
Fake news, Gabanelli: “Polizia postale? Eccessivo. Politici e giornalisti hanno sempre raccontato balle”, scrive Gisella Ruccia il 23 gennaio 2018 su "Il Fatto Quotidiano". “Fake news? Adesso sono molto di moda. Perdiamo più tempo a parlare di fake news che non a scovare le notizie vere”. Sono le parole della giornalista Milena Gabanelli, ospite di Otto e Mezzo (La7). La storica ex conduttrice di Report spiega: “Non sono molto appassionata di questo argomento. L’allarme sulle fake news è direttamente proporzionale a quanto ne parliamo e a quanto lo gonfiamo. Le balle le hanno sempre raccontate la classe politica e i giornalisti che seguono la politica, per compiacerla o semplicemente per pigrizia”. E aggiunge: “Trovo veramente eccessivo l’intervento della polizia postale. Se questo è finalizzato a essere un deterrente, ha una qualche utilità. Ma non si può pensare che le 2mila persone della polizia postale, oltre a occuparsi di cyber-terrorismo, di e-banking, di pedopornografia, di pedofilia, di giochi e di scommesse online, di tutto il crimine che passa attraverso il web, debbano mettersi lì a rispondere ai cittadini”.
Giornalisti contro avvocati: «Vietato criticarci», scrive Giulia Merlo il 23 gennaio 2018 su "Il Dubbio". Fnsi, il sindacato dei giornalisti, attacca l’Osservatorio sull’informazione giudiziaria della Camera penale di Modena che replica: «Travisamento della notizia che offende la classe forense». Accetta di definirlo un «fraintendimento». Da penalista, però, specifica che il fraintendimento da parte della Federazione Nazionale della Stampa Italiana «si colloca tra la colpa grave e il dolo eventuale». La Camera Penale di Modena, per voce del suo presidente, Guido Sola, è al centro di una polemica al vetriolo proprio con la Fnsi e l’Ordine dei Giornalisti, ragione del contendere: la creazione dell’Osservatorio sull’informazione giudiziaria (iniziativa già in atto da due anni a livello nazionale, promossa dall’Unione Camere Penali italiane con la pubblicazione del Libro Bianco sull’informazione giudiziaria). Il “fraintendimento” è nato dopo l’annuncio della Camera Penale di Modena della costituzione dell’Osservatorio: «La cronaca giudiziaria ed i temi della giustizia hanno assunto negli ultimi tempi un interesse sempre maggiore da parte dell’opinione pubblica, tanto che da alcuni anni gli addetti ai lavori ed anche esperti di psicologia e sociologia si stanno interrogando sugli effetti distorsivi dei cosiddetti “processi mediatici”», si legge nel comunicato. E ancora, «l’informazione spesso diventa strumento dell’accusa per ottenere consensi e così inevitabilmente condizionare l’opinione pubblica e di conseguenza il giudicante: pensiamo ad esempio a quanto accaduto nel processo “Aemilia” allorché, pochi giorni dopo gli arresti, prima ancora delle decisioni del tribunale del riesame, è stato pubblicato e diffuso un libro che riportava fedelmente, quasi integralmente, il contenuto della misura cautelare con atti che dovevano rimanere segretati». Proprio questo passaggio ha scatenato la reazione del sindacato nazionale del giornalisti e dell’Ordine dei giornalisti nazionale e locale, che definiscono l’iniziativa dei penalisti «inquietante» e attaccano: «La Camera Penale di Modena fa esplicitamente riferimento al processo “Aemilia”, in corso da oltre un anno a Reggio Emilia, che per la prima volta ha alzato il velo sulle infiltrazioni mafiose in Emilia Romagna, per decenni sottovalutate. E lo fa proprio in concomitanza con un’udienza dello stesso processo in cui un pentito ha rivelato che, tra i progetti degli ‘ ndranghetisti in Emilia, c’era anche quello di uccidere un giornalista scomodo. Notizia che pare non aver toccato in maniera altrettanto significati- va la sensibilità degli avvocati. Del resto, non è la prima volta che sindacato e Ordine dei giornalisti sono costretti a occuparsi di intimidazioni, esplicite o velate, fatte a chi si occupa di informare i cittadini sul processo “Aemilia”. Ricordiamo le minacce in aula ai cronisti reggiani, le richieste dei legali degli imputati di celebrare il processo a porte chiuse, le proteste contro i giornalisti già manifestate da alcuni difensori alle Camere Penali di competenza». Insomma, quella degli avvocati è un’iniziativa «dal sapore intimidatorio» ed è «grave e inquietante che i media debbano essere messi sotto osservazione da un organismo composto solo da avvocati». Allusioni che indignano il presidente delle Camere Penali modenesi. «Siamo davanti ad un esempio lampante di travisamento della notizia», ha commentato il presidente Sola, «che offende gravemente chi ha deciso di costituire l’Osservatorio e tutta la classe forense». Che quello tra avvocati e giornalisti sia stato o meno di un equivoco, il fatto più grave è che «alla nostra iniziativa è stata associata una difesa ideologica da noi mai espressa alla criminalità organizzata, identificando il difensore con l’imputato». Come se gli avvocati “fossero” i clienti che difendono (nel caso Aemilia, indagati per ‘ ndrangheta). Al contrario, ha spiegato Sola, l’obiettivo dell’Osservatorio è di «aprire un percorso culturale a più livelli sul tema del bilanciamento del diritto di cronaca con il diritto alla difesa. In particolare, il monitoraggio sull’informazione giudiziaria e sulla politica giudiziaria verranno svolti con la finalità di organizzare un convegno e discuterne con tutte le parti in causa». Quanto al citato processo “Aemilia”, Sola ribadisce che «è stato citato come esempio di patologia, ma è scontato che l’Osservatorio non nasce certo per monitorare singoli processi, per di più ancora in corso. Aggiungo che, dal mio punto di vista, le fughe di notizie sono una patologia che non è certo da imputare ai giornalisti ma a chi permette che informazioni coperte da segreto trapelino illecitamente». La polemica non è ancora chiusa e se Sola ribadisce che «sarebbe importante avere un confronto con il mondo del giornalismo, cosa che del resto già è avvenuta proficuamente in molte sedi», la Camera Penale sottolinea come l’accaduto «rafforzi la convinzione che la decisione di costituire l’Osservatorio sia quanto mai più opportuna».
Vi spiego il manuale del perfetto burocrate. Come non prendere una decisione, come rimandarla o come non fare entrare in vigore una legge? Il manuale del perfetto burocrate spiegato dal professore di diritto costituzionale a Roma 3 Alfonso Celotto durante una delle ultime puntate di Virus.
Un viaggio irriverente (e anche amaro) nei labirinti della burocrazia italiana.
“NON CI CREDO, MA È VERO”: LA VITA SECONDO LA BUROCRAZIA, scrive Alfonso Celotto il 2 maggio 2016 su "Stati Generali". La burocrazia diventa parte della nostra vita dal momento in cui nasciamo e per ogni singolo passo che il bambino e poi l’uomo compie nel Paese in cui vive. Il dottor Ciro Amendola percorre un viaggio nei meandri di quel mostro invisibile che è la burocrazia in Italia, raccontando nel suo nuovo libro Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia episodi tanto veri quanto folli, e a volte un po’ ridicoli, che ognuno di noi si trova a vivere quotidianamente nell’iter dell’esistenza. La burocrazia è una grande macchina, una grande scatola, ci accompagna dalla nascita alla morte, in ogni attimo della nostra vita, con una serie di certificazioni, copie conformi, firme autenticate, sempre ai sensi e per gli effetti della normativa vigente. Bastano pochi secondi dopo il parto per entrare nella giungla della burocrazia. La nascita comporta subito almeno 3 adempimenti fondamentali, a carico dei genitori, che dovranno armarsi di santa pazienza e di un adeguato numero di ore di permesso dal lavoro. Occorre ottenere:
· Il certificato di nascita
· Il codice fiscale
· La tessera sanitaria (a cui si collegano il libretto sanitario e la scelta del pediatra).
Per semplificare la vita ai neo genitori, ovviamente vanno richiesti in tre uffici diversi. Il certificato di nascita viene rilasciato dall’Ufficio di Stato Civile del Comune in cui è nato il bambino entro 10 giorni dalla nascita e si basa sulla “attestazione di nascita” rilasciata dalla ostetrica presente al parto. È il momento fondamentale per l’attribuzione del nome. Ai sensi della legislazione vigente, secondo le ultime modifiche del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396, ogni neonato può avere fino a tre nomi, tutti riportati per esteso e senza virgola (quando firmerà dei documenti ufficiali dovrà quindi sempre mettere tutti i nomi). È vietato per legge dare al bambino lo stesso nome del padre, dei fratelli e delle sorelle o nomi volgari, ridicoli o impronunciabili. A questo punto, si è nati, si ha un nome, ma non si è ancora veramente esistenti per il diritto. Manca il codice fiscale. Che ovviamente non è di competenza del Comune, ma dell’Agenzia delle Entrate. Altra amministrazione, altre regole, altri moduli. La Agenzia delle Entrate rilascia un certificato provvisorio valido per 30 giorni, in attesa del tesserino plastificato che arriva a casa. A quel punto, il genitore si recherà, con il codice fiscale del bambino e un’autocertificazione dello stato di famiglia, presso gli uffici dell’ASL di zona per la scelta del pediatra di base. Gli verrà rilasciato il tesserino sanitario da esibire a ogni prestazione medica richiesta per il bambino, come per esempio le vaccinazioni. E potrà finalmente scegliere il pediatra. La via crucis burocratica è iniziata. Ora il cittadino esiste in vita, con nome, codice fiscale, tessera sanitaria e pediatra! La via crucis della vita burocratica è solo iniziata. Per accompagnarci – fra commi, formulari, procure e deleghe – fino alla pensione, quando ci verrà sottoposto il più paradossale dei moduli: la autocertificazione di esistenza in vita. Nulla di male che l’INPS voglia accertarsi con un modulo che la pensione sta per essere pagata a un tizio ancora in vita. Peccato che la autocertificazione venga richiesta a pena delle sanzioni correlate alle dichiarazioni mendaci! Ma se ho attestato il falso, in quanto già morto, come faccio ad essere sanzionato per aver dichiarato il falso?
Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia, di Ciro Amendola edito da Historica, 2016. Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia: Quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato? E plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire la "giornata del dono"? Se viene trovato un geco in un ufficio pubblico intervengono gli ispettori sanitari per sopprimerlo? E possibile che la Guardia forestale abbia fatto causa alla Guardia di finanza sul colore delle divise? Perché ogni anno la Legge finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi? Cosa accadde veramente quando la capitale fu trasferita da Firenze a Roma?
Carte nascoste e riunioni fiume. La resistenza passiva dei burocrati. Esce un manuale di sopravvivenza: “Regola numero uno: chi non fa non sbaglia”. “Non è vero, ma ci credo. Storie di ordinaria burocrazia” (Historica) è il libro che Alfonso Celotto, docente universitario di diritto costituzionale e a lungo negli staff di diversi ministeri, ha scritto firmandolo con il suo alter ego letterario, il dott. Ciro Amendola direttore della Gazzetta Ufficiale, protagonista dei suoi primi precedenti romanzi, scrive il 27/04/2016 Giuseppe Salvaggiulo su "La Stampa". Nella stanza della dott.ssa Martone, capo di gabinetto del ministero dei Beni Culturali, «in ripetute occasioni è stata riferita la presenza di una Tarentola mauritanica». Il rag. Esposito, accompagnato da due tecnici dell’Ufficio sorveglianza sanitaria, è assertivo: «Occorre un prelievo delle feci dell’animale, per effettuare una compiuta analisi di laboratorio, sulla cui base valutare se e come procedere». Ma per la dott.ssa «non se ne parla. Quel geco mi porta fortuna. Andate via». Impossibile, obietta il rag., a meno che «lei non mi firmi il modello H32-bis, assumendosi la responsabilità per l’impropria presenza in ufficio dell’animale vivo». Basta un’autocertificazione per trasformare la temibile Tarentola mauritanica in un innocuo geco. Comincia così una delle «Storie di ordinaria burocrazia» del libro «Non ci credo, ma è vero» dal dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale, sopraffino cultore dell’amministrazione e pseudonimo di Alfonso Celotto, costituzionalista e a lungo grand commis nei ministeri. Ogni racconto è uno spaccato della vita in un ufficio pubblico: leggi e decreti, provvedimenti e circolari, furbizie e vanità, sotterfugi e arabeschi ma anche insospettabile umanità. Nel primo capitolo l’autore ha scientificamente enucleato «le cattive abitudini del pubblico impiegato». Ne viene fuori un manuale di sopravvivenza «in una vita improntata non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio», il cui obiettivo è «eludere vagoni di pratiche in modo da offrire il proprio contributo operoso, ma senza prendersi alcuna responsabilità».
COME COMPORTARSI. Prima regola: tenere le carte a posto e far prevalere la forma sulla sostanza, nel senso di «chiedere sempre un parere in più e non uno in meno, seguire pedissequamente le procedure» e infischiarsene del vero interesse pubblico. Si dilatano i tempi? Meglio, l’importante è che l’istruttoria sia accuratissima e irreprensibile. «Di troppo zelo non è mai morto nessuno. Di superficialità molti». Seconda: attenersi rigorosamente al mansionario, «per fare il meno possibile». Il mansionario è «un rebus scritto in burocratese stretto», enigmatico come il responso della Sibilla cumana. Terza: copiare, perché chi copia non sbaglia mai e non si assume responsabilità (c’è sempre un precedente che aiuta e si può allegare). Quarta: nel dubbio, non fare perché «chi non fa non sbaglia» e non si assume responsabilità. Quinta: se proprio non si può evitare di affrontare una questione, convocare una riunione: consente di guadagnare tempo (convocazioni, conferme, rinvii). Indispensabile che i convocati siano almeno dieci, altrimenti la riunione potrebbe rivelarsi decisiva. Sesta: mettere da parte, sul ripiano più nascosto della stanza, le pratiche più difficili. Sono quelle legate a emergenze di attualità, sotto la luce dell’opinione pubblica. Apparentemente vanno risolte con priorità, in realtà «si fanno da sole». Troppe variabili, troppe complicazioni: meglio lasciarle lì. Dopo un paio di settimane l’attenzione scemerà e nessun superiore chiederà conto della mancata soluzione. Settima: non archiviare ordinatamente le carte più importanti, in modo che non siano rintracciabili da chiunque. Il funzionario perspicace aumenterà così il suo potere, rendendosi indispensabile. Ottava: «non regalare mai un minuto», anzi capitalizzare gli straordinari e i permessi. Il conto è semplice: «ai 365 giorni del calendario vanno sottratti 52 sabati, 52 domeniche, 30 giorni di ferie e un’ulteriore quindicina tra malattie, cure specialistiche, riposi compensativi, permessi sindacali, donazioni sangue, scioperi, permessi-studio, permessi familiari». Nona: non derogare ai ritmi della giornata-tipo: 8-11-13-15-16-16,12. Alle 8 lettura giornali e passaggio sui social network, caffè alle 11, pranzo alle 13, caffè alle 15, alle 16 chiusura dei fascicoli anche se incompiuti, in modo da presentarsi puntuali al tornello alle 16 e 12 minuti. «Ogni volta che il dott. Amendola rileggeva queste regole, si imbestialiva. Non si capacitava di atteggiamenti così miseri e gretti».
POST SCRIPTUM. Per un attimo la dott.ssa Martone ebbe voglia di mandare tutto e tutti a quel paese. Non valeva la pena spendere 15 ore al giorno contro quel muro di gomma. Poi... poi prese nel cassetto il modello H32-bis, che le era stato debitamente consegnato, e iniziò a compilarlo. In duplice copia e con firma debitamente autenticata».
“Non ci credo, ma è vero”, il libro di Celotto che racconta i paradossi della burocrazia, scrive Biancamaria Stanco il 3 Maggio 2016 su Cultora. Non ci credo, ma è vero – Storie di ordinaria burocrazia è il nuovo romanzo del giurista Alfonso Celotto firmato dal suo alter ego, il dott. Ciro Amendola. Dopo due romanzi che narrano le gesta e le vicissitudini del dott. Amendola negli uffici della Pubblica Amministrazione, ora è proprio il celebre direttore “a scendere in campo. È questa la grande novità” ha dichiarato Celotto. Il libro è infatti l’esordio narrativo di Ciro Amendola. Ma chi è davvero? È il direttore della Gazzetta Ufficiale Italiana, è un funzionario meticoloso, scrupoloso, maniaco dell’ordine e della precisione ossessionato dalla timbratura del cartellino. Un uomo abitudinario, perfezionista e amante del suo lavoro. E ha due anime: una svizzera, che si esplicita nella rigorosa puntualità e precisione professionale del dott. Amendola, e una più verace, un cuore partenopeo quello di Ciro amante della cucina, del buon vino e tifoso sfegatato del Napoli. Dietro il personaggio di Amendola vibra la personalità e l’esperienza di Alfonso Celotto, costituzionalista, avvocato e professore di Diritto Costituzionale a Roma Tre, ex Capo di Gabinetto e Capo dell’Ufficio legislativo dei ministri Bonino, Calderoli, Tremonti, Barca, Trigilia e Guidi. Un esperto conoscitore quindi delle leggi e della burocrazia che, indubbiamente, ha contribuito alla costruzione della figura del direttore. “Come disse Umberto Eco ‘in ogni romanzo c’è il 50% di un autore’ e in Amendola c’è un’amplificazione del personaggio che rispecchia quanto visto nella mia carriera” ha precisato Celotto. “Si scrive sempre su ciò che si conosce” ha aggiunto. “Come recita l’articolo 54 della Costituzione, Amendola è al servizio della Nazione” afferma il giurista. È un burocrate scrupoloso e molto attento che combatte con le continue violazioni della legge, la cattiva gestione della cosa pubblica e la lentezza della Pubblica Amministrazione. Nel primo capitolo decide di enucleare un decalogo delle «cattive abitudini del pubblico impiegato», un manuale di sopravvivenza improntato «non al senso di servizio per lo Stato, ma alla proficua occupazione delle ore da trascorrere in ufficio». 1. Tieni le carte a posto. 2. Applica con rigore il mansionario. 3. Chi copia non sbaglia. 4. Organizza riunioni con almeno 10 partecipanti. 5. Le pratiche più complesse non vanno lavorate. 6. Le carte importanti non si portano ordinatamente in archivio. 7. Non regalare mai un minuto. 8. Otto, undici, tredici, quindici. 9. Vai in ferie a giugno o a settembre. 10. Per mostrarti aggiornato usa spesso parole inglesi. Sette sono i racconti raccolti nel libro. “Sono tutte storie vere raccontate in maniera romanzata. Tutte cose verosimili” ha spiegato Celotto. Il manoscritto non va considerato un libro-denuncia del malfunzionamento del sistema burocratico italiano, per quanto rimane comunque uno specchio fedele della pessima gestione della cosa pubblica. “Non è vero, ma ci credo” – come ha affermato l’autore – è la raccolta di “racconti-verità scritti per far conoscere al lettore il settore della Pubblica Amministrazione. Una lettura leggera e semplificata. Un modo divertente per raccontare la Pubblica Amministrazione”. Celotto specifica che “il libro non vuole essere una denuncia, basta essere una macchina del fango. È un modo leggero per parlare di temi veri”. La scrittura è un’occasione per far conoscere al lettore la vita difficile di un Direttore fatta di decreti, leggi, circolari, provvedimenti, riti ministeriali e burocratici. Il direttore Amendola è convinto della necessità di riformare il sistema dell’Amministrazione Pubblica e si impegna in prima persona. È altresì convinto della difficoltà, ma da nuovo Ercole intraprende la sfida e affronta l’ennesima fatica. “Non basta una legge per cambiare il sistema, la Pubblica Amministrazione è una macchina ampia e complessa” – asserisce Celotto – “bisogna cambiare la mentalità. Si tratta di attuare un’operazione culturale”. Le parole d’ordine sono – a detta del giurista – “trasparenza” e “semplificazione”. “Serve il coraggio per rendere la macchina più veloce e funzionale” conclude Celotto. Il dott. Amendola non poteva non divenire punto di riferimento e modello di integrità morale per quanti lavorano onestamente e spingono per cambiare le cose. Forse dopo Elena Ferrante assisteremo a un nuovo caso editoriale. La differenza è che “Ciro Amendola esiste davvero, ma non potrà uscire allo scoperto. Non potrà concedersi perché deve lavorare”.
La burocrazia tra Kafka e Totò: a ruba "Non ci credo, ma è vero", scrive Affari italiani, Lunedì 4 luglio 2016. "Non ci credo, ma è vero. Storie di ordinaria burocrazia" il libricino introvabile di Alfonso Celotto è diventato un caso letterario. E' un libricino introvabile di poco più di cento pagine sui banconi di pochissime librerie, essendo pubblicato da un editore pressoché sconosciuto e privo di una rete commerciale, Historica. Ma la sua notorietà si diffonde col passaparola e il libricino va a ruba. S'intitola Non ci credo, ma è vero, storie di ordinaria burocrazia. E l'autore Ciro Amendola, non esiste. O meglio è lo pseudonimo di un tipo umano, il dott. Ciro Amendola, uno dei massimi esperti di diritto e burocrazia. Napoletano di nascita(1944), vive a Roma per necessità. Da anni fedele e scrupoloso servitore dello Stato, dal 2001 dirige la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana. Vive secondo immutabili ritmi svizzero-napoletani per conciliare l'impiego ministeriale con la missione esistenziale di completare la grande banca dati delle leggi d'Italia. Appassionato di cucina, vini, smorfia, scaramanzia, gioco del lotto, segue con attenzione le vicende calcistiche del Napoli. Per il suo esordio da scrittore ha scelto di descrivere i riti della vita ministeriale e della burocrazia che circondano la nostra vita di cittadini, secondo abitudini e prassi ottocentesche. L'idea è dell'autore vero, Alfonso Celotto, professore universitario di Diritto, già gran commis dello Stato (è stato capo di gabinetto di diversi ministeri, tra cui quello dello della Semplificazione, ai tempi del leghista Calderoli e del suo misterioso falò delle leggi inutili), geniale osservatore della vita dei burocrati e penna acuta ed ironica (ha al suo attivo anche per Mondadori Il dott. Ciro Amendola, direttore della Gazzetta Ufficiale e per Il mio libro Il Pomodoro va rispettato), a metà tra Kafka, Totò ed Edoardo De Filippo. L'opera è un piccolo gioiellino, veloce e dilettevole a leggersi. Racconta, ad esempio, quali sono i "Dieci comandamenti" a cui si attiene quotidianamente il pubblico impiegato. Si domanda se sia plausibile che nel 2015 il Parlamento italiano abbia approvato una legge per istituire le "giornate del dono". Rivela il fatto che la Guardia Forestale ha fatto causa alla Guardia di Finanza sul colore delle divise. Spiega perché ogni anno la legge Finanziaria (ora Legge di stabilità) ha un solo articolo con centinaia di commi. E molto altro ancora. Leggi, decreti, provvedimenti e circolari. Vini, sfogliate, ministeri e ministeriali. Il dott. Ciro Amendola si confronta non solo con il mondo del diritto e della pubblica amministrazione, ma anche con cucina, scaramanzia, napoletanità. "Poiché diritto e cucina si assomigliano", spiega Celotto alias Amendola nella videointervista ad Affaritaliani.it. "Non sono scienze, sono entrambi opinabili". E noi opiniamo.
D’Alema e la Tap, una storia degli orrori, scrive Nicola Porro, su “Il Giornale” il 20 gennaio 2018. La storia della Tap è una storia degli orrori. Per l’ennesima volta dimostra l’inaffidabilità del nostro «Sistema paese», di cui tutti si riempiono la bocca. La breve cronaca che vi stiamo per fare, è il migliore spot per dire alle imprese straniere: allontanatevi dall’Italia. Per le aziende che invece in questo paese ci campano, purtroppo c’è poco da fare. Altro che fuga di cervelli, la vera domanda è come sia possibile che qualcuno si ostini a rimanere. La nostra storia si compone di un attore, Massimo D’Alema, questa volta il ruolo da protagonista non glielo toglie nessuno. E da una serie di comprimari: otto sindaci delle zone vicine all’approdo del tubo Tap e una serie di sceriffi, questa volta buoni, che sono i giudici di tribunali di ogni ordine e grado. Un lustro fa, il nostro D’Alema, quando ancora era nel Partito Democratico, diceva in un’intervista televisiva che non bisognava raccontare sciocchezze ai cittadini e che il tubo che portava il gas in Italia si sarebbe dovuto fare e che si trattava di «un piccolo tubicino interrato che non comportava impatto»…D’altronde fu proprio D’Alema, quando era premier, a firmare il recepimento di una direttiva europea (Direttiva 96/82/CEE), in cui (semplifichiamo) venne escluso il trasporto gas, comprese le stazioni di pompaggio, dalle dure prescrizioni della cosiddetta Legge Seveso. Non contento di questo duplice atto, D’Alema qualche settima fa ha cambiato idea: «Dovrebbe far riflettere molti il modo in cui il governo nazionale ha potuto decidere con un proprio atto di imperio, dopo una lunghissima vicenda, l’approdo del gasdotto (Tap, ndr) in una delle aree turistiche più qualificate, con la pretesa di militarizzare il cantiere. Di fronte a tanta sfrontatezza, l’intera rappresentanza salentina avrebbe dovuto mettere la testa sotto terra per la vergogna». Qua l’unico che si deve vergognare delle proprie tarantelle è chiaramente D’Alema. La cosa finirebbe qua, se si trattasse solo dell’ennesima presa di posizione di un politico, oggi, con scarso seguito. Il problema è che D’Alema alimenta il clima di ostilità verso un’infrastruttura innocua, utile per la nostra diversificazione energetica, e che ci siamo impegnati a fare. Non parliamo della protesta delinquenziale, che sabota, distrugge e minaccia. Ma di quella ben più efficace fatta in doppiopetto, e alla quale D’Alema evidentemente strizza l’occhio per avere quattro consensi in più. Su ciò rischiando di doverseli spartire con esponenti come Barbara Lezzi del movimento cinque stelle, che sono imbattibili nel bloccare ogni tipo di infrastruttura. Dopo tredici diversi procedimenti e giudizi contro Tap e suoi rappresentanti, tutti incontestabilmente vinti dal Tubo negli ultimi cinque anni, a fine 2017 otto sindaci, non contenti, hanno fatto l’ennesimo esposto penale (a cui evidentemente si ispira D’Alema) contro i rappresentanti del Tap e del ministero. Soldi pubblici buttati nel cestino e minacce giuridiche nei confronti di amministratori che rischiano carriera e quattrini solo per alimentare la campagna elettorale e demagogica di politici che non vedono più in la del loro naso. Le contestazione sono sempre sulla famosa applicabilità della legge Seveso. Dopo che due volte al Tar, una volta al consiglio di Stato e persino un giudice penale hanno scritto nelle loro sentenze che la legge Seveso (quella che D’Alema dovrebbe conoscere bene) non si applica ad un tubo, gli otto sindaci continuano facendo finta di niente: tanto non pagano loro per queste cause temerarie. In realtà sperano che alla fine tra tanti magistrati, uno che gli conceda un piccolo rinvio o supplemento di indagine lo trovano. A quanto si sa, la riapertura dell’inchiesta sarebbe stata decisa perché gli 8 sindaci no Tap hanno chiesto di considerare il Prt (cioè il terminale di ricezione del gas) e il gasdotto di interconnessione alla rete nazionale (di Snam) un impianto unico da Melendugno a Brindisi e, dunque, di valutare se debba essere soggetto a una nuova valutazione di impatto ambientale. Tutte balle. I giudici, con delle sentenze chiarissime, hanno fatto capire che laddove arriva il tubo, non si manipola alcunché. I locali sono in sicurezza. E dunque non si devono richiedere nuove autorizzazioni o fare nuove richieste. Eppure in una sorta di tela di penelope giudiziario-burocratica, gli amministratori pugliesi cercano di rallentare, frenare, denunciare, questionare. Ci troviamo in un paese in cui anche rispettare le nostre leggi più farraginose e garantiste non è sufficiente. Un paese in cui un politico, ritenuto «serio e affidabile» come D’Alema, si rimangia una propria legge e la propria parola per ottenere quattro voti in più.
La storia infinita sull’ ILVA di Taranto. E qualche sospetto…, scrive il 14 dicembre 2017 "Il Corriere del Giorno". Tutelare contestualmente l’occupazione e la salute non è operazione facile ed agevole come dimostra il discutibile ricorso strumentale presentato dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia, fortemente osteggiato e criticato da Governo e sindacati insieme, che rischia di bloccare di nuovo la produzione ed il rilancio dell’occupazione ed economia dell’indotto tarantino. Nelle ultime settimane si è tornati a parlare della ipotesi fortemente cavalcata da Emiliano, improvvisatosi manager ed ambientalista, che lo stabilimento dell’ILVA di Taranto possa essere chiuso, facendo saltare l’acquisizione da parte della cordata Am InvestCo Italy, ma anche il posto di lavoro di 14 mila dipendenti (e circa 4.000 dell’indotto) e soprattutto la bonifica dell’area inquinata limitrofa al quartiere Tamburi di Taranto. L’ultimo problema nella prolungata difficile vita dell’acciaieria tarantina è un ricorso presentato irresponsabilmente al TAR Lecce dal Comune di Taranto e dalla Regione Puglia contro l’autorizzazione che il Governo ha dato all’azienda per consentirle di continuare a produrre fino al 2023, in cui devono essere terminati i lavori di bonifica dell’impianto. Il decreto di Palazzo Chigi di fatto consente allo stabilimento di continuare a produrre nelle condizioni attuali per cinque anni, in vista della bonifica degli impianti pronta a partire. Secondo il Comune di Taranto e la Regione, sostenuti da circa un migliaio di persone aderenti ai vari comitati di cittadini e dalle associazioni pseudo-ambientaliste, sarebbe un periodo di tempo troppo lungo, soprattutto per una città come Taranto che da anni è colpita dalle emissioni fuori misura dell’enorme stabilimento costruito a ridosso del centro urbano. Ma i due ultimi “populisti” pugliesi e cioè il governatore Emiliano ed il “fido” sindaco di Taranto Melucci hanno osteggiato la decisione, trovandosi contro il Governo ed sindacati, alleati a difesa del lavoro, sostenendo unitariamente che il ricorso alla magistratura è la strada sbagliata per poter migliorare la situazione. La travagliata vicenda dell’ILVA di Taranto ha origine nel 2012, quando una certa magistratura fortemente “politicizzata” e soprattutto alla spasmodica ricerca di protagonismo e visibilità nazionale, aveva disposto il sequestro dell’acciaieria e l’arresto di alcuni suoi dirigenti, tra cui i proprietari, la famiglia Riva, per violazioni ambientali affidandoli a commissari giudiziari che definire incompetenti e pericolosi è dir poco. Nell’ordinanza di sequestro della magistratura tarantina era scritto: “Chi gestiva e gestisce l’Ilva ha continuato nell’attività inquinante con coscienza e volontà per la logica del profitto, calpestando le più elementari regole di sicurezza”. Nei successivi due anni prima il governo Letta e poi quello guidato da Matteo Renzi hanno cercato di mantenere aperta almeno una parte dell’acciaieria, per poter proseguire nella produzione (che si è dimezzata a seguito anche dei lavori di risanamento ad alcuni altoforni), che è molto importante per diversi settori dell’industria italiana. La via per ottenere questo risultato fu l’approvazione di una serie di decreti leggi che, in pratica, consentivano all’ILVA di produrre inquinando oltre i livelli consentiti e prolungando il termine entro il quale l’impianto doveva essere riportato a norma. Operazione per cui occorrevano ingenti somme che neanche il Governo poteva stanziare a causa del divieto comunitario di “aiutare” finanziariamente le aziende. Nel 2014 l’ILVA venne posta dal Governo in amministrazione straordinaria ed affidato agli amministratori nominati dallo Stato venne affidato il compito di iniziare il risanamento ambientale ed economico, e successivamente metterla in vendita. Nel gennaio 2016 venne pubblicato il bando per la messa in vendita di Ilva, e ad aggiudicarselo è stato il consorzio Am InvestCo Italy, costituito dalla multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal (85%) leader mondiale nella produzione di acciaio, e dal Gruppo Marcegaglia (15%) che finora era stato il principale cliente di acciaio prodotto nello stabilimento siderurgico di Taranto. Lo scorso 29 settembre 2017 il Governo Gentiloni ha approvato una nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (AIA), con cui autorizza lo stabilimento di Taranto a continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023, allorquando le opere di bonifica e riduzione delle emissione dovranno essere definitivamente ultimate. Nello scorso mese di novembre 2017 la cordata Am InvestCo Italy ha illustrato e reso noto in una serie di incontri con il Governo e con i sindacati, le procedure e tempistiche con cui si intendeva procedere alla definitiva agognata bonifica dell’impianto di Taranto e conseguentemente all’attesa diminuzione delle sue emissioni dannose, impegnandosi a investire 1,15 miliardi di euro per il risanamento ambientale degli impianti dal 2018 al 2023, cioè anno in cui scadrà l’AIA approvata dal governo. I sindacati a partire dai leader nazionali della FIOM insieme a quelli di UILM, il più grande sindacato tra i lavoratori di Taranto, e di FIM CISL, sono sembrati abbastanza soddisfatti. Ma al Comune di Taranto guidato da Rinaldo Melucci un “neofita” della politica (con un recente passato di operatore portuale dai risultati non esaltanti, anzi deficitari) eletto per puro caso, ed alla Regione Puglia nelle mani dell’ex-magistrato Michele Emiliano, due “politicanti” che non hanno entrambi alcuna esperienza manageriale e soprattutto competenza scientifica-ambientale invece, il piano elaborato dai manager della multinazionale Arcelor Mittal non è piaciuto. Lo scorso 16 novembre, era previsto un altro incontro al Ministero dello Sviluppo Economico in cui la cordata Am InvestCo Italy avrebbe dovuto presentare il suo piano ambientale agli enti locali. Incontro a cui con poco tatto istituzionale il sindaco di Taranto, si è rifiutato di partecipare, pretendendo che venisse aperta una trattativa diretta, cioè un “tavolo” a cui avrebbero dovuto partecipare solo gli enti locali toccati direttamente dalla questione dello stabilimento di Taranto. Il sindaco di Taranto Melucci pretendeva di essere convocato entro il 24 novembre ed allorquando si è reso conto di essere stato ignorato, e la convocazione non arrivata, ha annunciato (“pilotato” dietro le quinte da Emiliano) che avrebbe fatto ricorso al TAR contro l’AIA approvata dal governo il 29 settembre, cioè l’autorizzazione che consente all’ILVA di Taranto di continuare a produrre alle attuali condizioni fino al 2023. Michele Emiliano e Melucci hanno annunciato ufficialmente il 28 novembre di aver presentato il ricorso affidandosi ad un avvocato-politicante barese Marcello Vernola già coinvolto nella vicenda delle “consulenze d’oro” del crack Ferrovie Sud Est, in cui la Guardia di Finanza e la magistratura barese hanno accertato sprechi e consulenze d’oro e soprattutto “allegre”. Come purtroppo accade in Italia quando c’è di mezzo la magistratura amministrativa, non è mai chiaro cosa potrebbe succedere in sede di giudizio. Qualora il TAR dovesse accogliere il ricorso del Comune di Taranto e della Regione Puglia è possibile che l’AIA venga sospesa in attesa della decisione finale del Consiglio di Stato al quale inevitabilmente il tal caso il Governo ricorrerebbe in appello. Ma in questa funesta ipotesi lo stabilimento dell’ILVA di Taranto verrebbe di fatto costretto a interrompere tutte le attività, con ingenti danni economici e sopratutto conseguenze sociali ed occupazionali imprevedibili. Il ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda molto presente e responsabilmente attivo sulla vicenda, su cui è calato il silenzio assordante dei partiti a partire dal Pd per finire a Forza Italia, ha duramente criticato la decisione del governatore Emiliano ed ha paventato l’ipotesi che il fermo delle attività produttive dell’ILVA di Taranto, potrebbe indurre la cordata Am InvestCo Italy ad un ritiro dell’offerta di acquisizione. Voci da tenere in considerazione ricordano che tale ipotesi potrebbe far rientrare in gioco il gruppo indiano Jindal concorrente nella gara pubblica di acquisizione dell’ILVA, che aveva persino manifestato (dopo aver perso la gara) la propria disponibilità ad aumentare la propria offerta iniziale che non era particolarmente vantaggiosa. Ed in certi affari dietro le quinte può succedere e “girare” di tutto e di più. Soprattutto in termine di soldi e contributi politico-elettorali…Il ministro Calendo ha ricordato che sinora “Emiliano ha fatto ricorso su tutto: dai vaccini al Tap, all’Ilva stessa. Per fortuna li ha sempre persi. Oggi però la situazione è diversa, perché il rischio è che Arcelor Mittal ritenga impossibile gestire l’acciaieria più grande dell’Unione Europea con il sindaco della città e il presidente della regione che vogliono cacciarlo via”. Come dicevamo poc’anzi i sindacati UILM e FIM-CISL sono schierati con Calenda e quindi con il Governo, la settimana scorsa hanno organizzato una forte protesta proprio di fronte alla sede del Consiglio Regionale di Puglia per protestare e manifestare contro il ricorso di Emiliano e Melucci, che mette a rischio i posti di lavoro dei 14 mila dipendenti ed i 4mila dell’indotto. Il ministro Calenda ha fatto sapere di essere pronto a ricominciare le trattative convocando per il prossimo 20 dicembre un “Tavolo per Taranto” che si terrà a condizione (giusta secondo noi) che la Regione e il Comune di Taranto ritireranno il loro ricorso, annunciando che, fino a quando il TAR non avrà adottato una propria decisione, tutti i colloqui sono sospesi, non volendo sottostare al vero e proprio “ricatto” dei due politicanti pugliesi. Infatti definire “politici” Emiliano e Melucci, potrebbe fare giustamente offendere la lunga tradizione di “veri politici” a cui la Puglia ha dato i Natali, a partire dai compianti Aldo Moro e Pinuccio Tatarella, arrivando a Claudio Signorile, Biagio Marzo, ecc…. Ma il problema ambientale di Taranto è in realtà soltanto l’ultimo dei problemi che si sono presentati nella “questione ILVA”. Un altro ostacolo è relativo alla procedura di infrazione aperta dalla Commissione Europea, in quanto secondo qualcuno con l’acquisizione di ILVA, il Gruppo Arcelor Mittal (il socio maggioritario e di controllo di Am InvestCo Italy n.d.r.) potrebbe arrivare ad avere una posizione dominante nella produzione dell’acciaio in Europa, violando così la normativa anti-trust dell’Unione. Il procedimento deve terminare entro il prossimo 23 marzo 2018, ma secondo fonti della Commissione dovrebbe concludersi anche prima. La multinazionale franco-indiana Arcelor Mittal ha già annunciato che in caso di richiesta da parte dell’Antitrust Europea di ridurre la produzione per non superare le soglie comunitarie, che non ridurrà o modificherà la produzione in Italia, ma piuttosto dismetterà altre sue attività all’estero. La storia degli ultimi mesi, conferma che quella dell’ILVA è di fatto una delle questioni industriali più complesse degli ultimi anni, dove si incrociano e scontrano esigenze ed interessi (a volte occultati) differenti e spesso in contrasto fra di loro. La questione delle questioni fondamentali è quella ambientale in quanto a causa delle numerose violazioni della normativa ambientale, lo stabilimento di Taranto, ha causato non pochi danni alla popolazione cittadina, portando a proteste dei cittadini. Ma esiste anche un fondamentale problema occupazionale: l’ILVA dà lavoro direttamente a Taranto 14 mila dipendenti, mantenendo di fatto altrettante famiglie, e tramite l’indotto, ad altre 4mila ed oltre 300 imprese di fornitori ed appaltanti. A Taranto l’ILVA è l’unica reale attività produttiva industriale ed economica, importantissima e fondamentale per l’economia locale. Concludendo c’è una questione industriale, la circostanza che l’acciaio prodotto da ILVA è molto importante per l’economia italiana e, conseguentemente, se gli stabilimenti dovessero chiudere per la gioia e vanità di Emiliano e Melucci e di un migliaio di pseudo-ambientalisti della domenica, diverse aziende italiane sarebbero costrette a rifornirsi all’estero, soprattutto in Germania, acquistando peraltro acciaio a prezzi maggiorati. Ma tutto questo Emiliano e Melucci non lo capiscono o non lo sanno. O forse è proprio quello che vogliono…?
LA LEGISLAZIONE GIURISPRUDENZIALE. LA GIURISPRUDENZA DI SCOPO E IL CONCORSO ESTERNO.
Quante sono le leggi vigenti in Italia? Scrive Claudio Rossi il 26 maggio 2018 su "Uomo Qualunque". Secondo Normattiva, un progetto della Presidenza del Consiglio dei Ministri, le leggi in Italia sarebbero in tutto circa 75.000. Il numero però non tiene conto delle leggi Regionali, di quelle comunali e dei regolamenti di enti e Autorità di cui il nostro paese è pieno: tra le 150 e le 160mila leggi in vigore. Leggi, decreti legge, decreti legislativi e altri atti numerati. Sfido qualsiasi burocrazia ad applicare e a far rendere efficiente un sistema così. Ci sono leggi che hanno oltre 100 anni ed altre poche settimane, leggi che sono ancora in vigore nonostante non vengano mai utilizzate ed altre invece che continuano a modificarsi. Ogni giorno in Italia vengono scritte 21 pagine di nuovi provvedimenti normativi. Un numero immenso. Tanto per avere un’idea, in Gran Bretagna sono 3000, in Germania 5500 e in Francia 7000. È una situazione democraticamente insostenibile. Le leggi sono le fondamenta della vita di qualsiasi società ed a guardare alla nostra da questa caotica prospettiva, vien da chiedersi come possa lo Stato reggersi ancora in piedi e vien voglia di gridare al miracolo etico, morale e culturale italiano. La domanda nasce spontanea, se gli altri Paesi si autogovernano con poche leggi, perché mai in Italia ne occorrono così tante per governarci? Semplice. Più leggi ci sono più è difficile muoversi nel meandri della legalità e più aumenta la corruzione. L’Italia è terzultima in Europa per corruzione percepita. Peggio di noi fanno solo Grecia e Bulgaria. Fu lo storico romano Tacito a metterla per iscritto per la prima volta nei suoi Annales: il suo “corruptissima re publica plurimae leges”, ossia “moltissime sono le leggi quando lo Stato è corrotto”, diventa la sintesi perfetta dell’attuale stato delle cose in Italia. Meno leggi significherebbe anche meno corruzione e una vita più semplice per tutti noi.
Ogni giorno in Italia vengono scritte 21 pagine di nuove leggi, scrive Michela Finizio il 20 aprile 2015 su "Il Sole 24 Ore". Ogni giorno in Italia vengono scritte 21 pagine di nuovi provvedimenti normativi. Se tutti insieme (leggi, decreti legge, decreti legislativi e leggi regionali approvati nel 2014) venissero raccolti in un unico libro, il testo complessivo sarebbe composto da oltre 14,2 milioni di caratteri battuti su carta, articolati in migliaia di commi e articoli. Un’opera redatta a più mani, approvata con tempistiche differenti sul territorio, di cui cittadini e contribuenti diventano lettori e protagonisti quotidiani. A rappresentare la prolifica produzione normativa dei governi e delle diverse assemblee nazionali e regionali è l’ultimo Rapporto sull’attività legislativa pubblicato a marzo dalla Camera dei Deputati, elaborato nella seconda «Infodata del Lunedì» del Sole 24 Ore su carta (in edicola il 20 aprile 2015) e online su Info Data Blog. I provvedimenti approvati possono essere più o meno lunghi: si va dai 38mila caratteri medi delle leggi in Friuli Venezia Giulia, approvate in circa 45 giorni, alle 6.200 battute (3,5 pagine, ciascuna da 1.800 caratteri) delle leggi emanate in Basilicata. Ad approvare un provvedimento le varie assemblee in media impiegano dai 21 ai 204 giorni. Il tempo record lo ha toccato la regione Campania, che in un anno ha approvato solamente una ventina di leggi. Scrivere tanto non vuol dire per forza essere efficaci: contare il numero di caratteri medi di ciascun provvedimento non racconta la complessità o la qualità dell’attività legislativa, ma restituisce la fotografia di un articolato corpus normativo che gli italiani ogni giorno devono interpretare. A contribuire in modo diverso alla produzione normativa nazionale sono stati gli ultimi cinque Governi: in circa 15 mesi di presidenza Mario Monti ha scritto oltre 1.130 pagine di decreti legge (in tutto 41, di cui 6 decaduti), circa 330 in meno rispetto a quelle scritte dall’ultimo Governo Berlusconi che, però, ha governato per 42 mesi.
Inutile chi legge. Scrive il 16.08.2018 Mario Sommossa su Sputniknews. Nel marzo 2010 l’allora Ministro per la Semplificazione Normativa Roberto Calderoli volle dimostrare che la pletora di leggi esistenti in Italia poteva essere ridotta. In una caserma dei Vigili del Fuoco diede simbolicamente fuoco a (dichiarò lui) 375.000 leggi inutili o non più vigenti nella pratica giurisprudenziale. Il dichiarato proposito era di ridurre le leggi che restavano in vigore a non più di 5000, da riorganizzarsi a loro volta in "testi unici" suddivisi per settore. Intento nobile e certamente condivisibile ma, ahimè, restato nel limbo delle intenzioni. Non si è mai saputo come fosse stato possibile bruciare 375.000 leggi se il Poligrafico dello Stato, che ha digitalizzato lo scorso gennaio tutte le leggi approvate dall'Unità d'Italia a oggi, ne ha contate solo circa 200.000 in tutto. Tuttavia la differenza tra le cifre è poca cosa: comunque erano e ancora restano troppe. Lo stesso Poligrafico ha calcolato che le leggi nazionali cui attualmente si devono riferire avvocati, giudici e cittadini italiani in genere sono più di 110.000. A queste si devono aggiungere tutte quelle varate dalle singole Regioni. Senza contare i regolamenti regionali e comunali. Non basta? Quasi tutte le leggi hanno bisogno, una volta approvate e prima di diventare esecutive, di circolari applicative. Il risultato è che perfino chi è animato dalla più civile volontà di rispettare gli ordinamenti può trovarsi a infrangere leggi o regolamenti senza saperlo. La situazione peggiora se si pensa che anche chi è incaricato di farle rispettare non riesce a conoscerle tutti e tantomeno a sempre ricordarne la giusta interpretazione. Come ciò si concili con la serenità del cittadino e con la certezza del diritto, lo giudichi ciascun lettore. Che la situazione non sia semplice lo si può vedere da quanto le norme siano intricate e legate tra loro. Più leggi che regolano la stessa materia, rinvii a testi precedenti, citazioni di articoli di altre leggi, linguaggi involontariamente esoterici comprensibili soltanto per gli addetti ai lavori, errori banali o sostanziali, contraddizioni con norme preesistenti, mancate abrogazioni delle stesse contraddizioni (quando immediatamente palesi): il tutto fa sì che si possa giustamente parlare di "giungla normativa". Alla fine degli anni '90 un volenteroso Parlamentare propose che, nel caso di rinvii ad articoli di altre leggi, fosse obbligatorio riportare nella nuova il testo cui ci si riferiva. Chiese altresì che nelle formulazioni fosse usato soltanto il linguaggio di uso comune, affinché la comprensione fosse la massima possibile e che, prima dell'approvazione di una nuova normativa, gli uffici svolgessero una ricerca nella legislazione esistente per scoprire eventuali sovrapposizioni o contraddizioni. Nel caso, si procedesse ove possibile all'abrogazione della vecchia. La proposta arrivò perfino nella Commissione Camerale competente ma lì si fermò, affossata dalle critiche di ex-magistrati ed ex-avvocati (sempre numerosi in Parlamento) che la giudicarono troppo "semplicistica". Vi rimediò (si fa per dire) il Governo con una "Norma sulla chiarezza dei testi normativi" nel giugno 2009. Peccato che, a causa dell'assenza di sanzioni contro un Governo inadempiente, la Norma sia rimasta inapplicata.
I promessi sposi capitolo 1: i bravi e le grida. Ma chi erano in effetti i bravi? L’autore cita una grida dell’8 aprile 1583, emanata dal governatore dello Stato di Milano che minacciava pene severissime contro tutti quei malviventi che si mettevano al servizio di qualche signorotto locale per esercitare soprusi e violenze, intimando a costoro di lasciare la città entro sei giorni. Tuttavia il 12 aprile 1584 lo stesso funzionario emanò un’altra grida in cui si minacciavano pene ancor più severe contro tutti quelli che avevano anche solo la fama di essere bravi, e il 5 giugno 1593 un altro governatore fu costretto a emanarne ancora un’altra con reiterate minacce, seguita da un’altra datata 23 maggio 1598 in cui si ribadivano pene severissime contro i bravi che commettevano omicidi, ruberie e vari altri delitti. La serie interminabile di gride prosegue con un provvedimento datato 5 dicembre 1600 ed emanato da un nuovo governatore di Milano, che minacciava nuovi tremendi castighi contro i bravi (anche se, osserva ironicamente l’autore, quel funzionario era forse più abile a ordire trame politiche e a spingere il duca di Savoia a muover guerra contro la Francia). A quella grida se ne aggiunsero altre prodotte da altri governatori nel 1612, 1618 e 1627, quest’ultima a firma di don Gonzalo Fernandez de Cordova poco più di anno prima dei fatti narrati; ciò basta all’autore a concludere che, ai tempi di don Abbondio, c’erano ancora molti bravi in Lombardia.
Qualcuno avrà senz’altro conservato memoria dalla lettura dei Promessi Sposi di cosa erano le "gride": erano quelle disposizioni, quegli ordini, quelle norme e quegli obblighi che venivano emanate a getto continuo e in numero esagerato dalle autorità spagnole e su una pletora di questioni, dal problema dei “bravi” alle precedenze agli incroci. E proprio perché non venivano rispettate, o lo erano solo per un breve periodo di tempo, ne venivano emanate di altro che restavano come le precedenti lettera morta, perché non c’era nessuno che le facesse rispettare e chi avrebbe dovuto farlo faceva altro.
"Gride”, perché appunto gridate dai banditori, considerata la scarsa alfabetizzazione del tempo, o affisse agli angoli delle strade maggiormente frequentate, dimodochè il maggior numero di persone ne venissero a conoscenza.
L'Azzecca-garbugli. L’Azzeccagarbugli è un avvocato di Lecco. Compare per la prima volta nel capitolo III per opera di Agnese, che propone a Renzo di consultarlo per ottenere un parere legale, dopo le minacce dei bravi di don Rodrigo che hanno trattenuto Don Abbondio dal celebrare il matrimonio fra i due protagonisti: “quello è una cima d’uomo!”, sentenzia Agnese. Egli è in realtà un avvocato secentesco che usa ingannevolmente la legge al servizio dei potenti. Ciò si nota già nello suo studio in cui campeggiano i ritratti dei dodici Cesari (gli imperatori romani da Giulio Cesare a Domiziano), simboli dell’assolutismo e anche dell’asservimento del dottore non alla legge ma al potere. Il dialogo fra l’Azzeccagarbugli e Renzo è interamente costruito su un equivoco, in cui la parola non è altro che forma vuota e ingannevole: quando il giovane popolano racconta la vicenda del matrimonio impedito, il dottore crede di aver di fronte un bravo responsabile dell’intimidazione del curato e lo rassicura: “perché, vedete a saper maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente”; “purchè non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci”. Sono parole che attuano un rovesciamento radicale di ogni principio di diritto e che esprimono una denuncia sottintesa dell’autore a questo episodio: la giustizia degli uomini non difende gli umili da chi detiene il potere. Questo concetto viene evidenziato ancor di più dalla reazione del popolano il quale, resosi conto del sopruso, pensa ancora che l’ordine della verità possa essere ripristinato (“vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia”) e, invece, viene cacciato via in malo modo dal dottore.
Azzeccagarbugli è la figura centrale del Capitolo 3°, è un avvocato venduto, è un miserabile e il Manzoni pur non dicendolo apertamente ce lo fa capire descrivendocelo appunto negli aspetti più negativi. Di questo personaggio emerge una grande miseria morale: ciò che preme all'avvocato è di assicurarsi il favore di don Rodrigo anche se per ottenere questo deve calpestare quella giustizia della quale dovrebbe essere servitore. Il Dottor Azzeccagarbugli è una figurina vista di scorcio, ma pur limpida e interessante. E' un leguleio da strapazzo, ma abile la sua parte a ordire garbugli per imbrogliare le cose, come lui stesso confessa a Renzo. Ci vuole la conoscenza del codice, è necessario saper interpretare le gride, ma per lui valgono sopra tutto le arti per ingarbugliare i clienti. Tale è la morale di questo tipo di trappolone addottorato, comunissimo in ogni società. Il Manzoni lo ha ricreato di una specifica individualità esteriore, nell'eloquio profuso, a volte enfatico e sentenzioso, a volte freddo e cavilloso, grave e serio nella posa di uomo di alte cure, pieno di sussiego nella sua mimica istrionica. Don Rodrigo lo ha caro, come complice connivente nei suoi delittuosi disegni, mentre il dottore accattando protezione col servilismo e l'adulazione, scrocca lauti pranzi. Alcuni osservano, e non a torto, che in questo personaggio il Manzoni abbia voluto farsi beffe dei legulei dalla coscienza facile.
"«Non facciam niente, – rispose il dottore, scotendo il capo, con un sorriso, tra malizioso e impaziente. – Se non avete fede in me, non facciam niente. Chi dice le bugie al dottore, vedete figliuolo, è uno sciocco che dirà la verità al giudice. All’avvocato bisogna raccontar le cose chiare: a noi tocca poi a imbrogliarle. Se volete ch’io v’aiuti, bisogna dirmi tutto, dall’a fino alla zeta, col cuore in mano, come al confessore. Dovete nominarmi la persona da cui avete avuto il mandato: sarà naturalmente persona di riguardo; e, in questo caso, io anderò da lui, a fare un atto di dovere. Non gli dirò, vedete, ch’io sappia da voi, che v’ha mandato lui: fidatevi. Gli dirò che vengo ad implorar la sua protezione, per un povero giovine calunniato. E con lui prenderò i concerti opportuni, per finir l’affare lodevolmente. Capite bene che, salvando sé, salverà anche voi. Se poi la scappata fosse tutta vostra, via, non mi ritiro: ho cavato altri da peggio imbrogli… Purché non abbiate offeso persona di riguardo, intendiamoci, m’impegno a togliervi d’impiccio: con un po’ di spesa, intendiamoci. Dovete dirmi chi sia l’offeso, come si dice: e, secondo la condizione, la qualità e l’umore dell’amico, si vedrà se convenga più di tenerlo a segno con le protezioni, o trovar qualche modo d’attaccarlo noi in criminale, e mettergli una pulce nell’orecchio; perché, vedete, a saper ben maneggiare le gride, nessuno è reo, e nessuno è innocente. In quanto al curato, se è persona di giudizio, se ne starà zitto; se fosse una testolina, c’è rimedio anche per quelle. D’ogni intrigo si può uscire; ma ci vuole un uomo: e il vostro caso è serio, vi dico, serio: la grida canta chiaro; e se la cosa si deve decider tra la giustizia e voi, così a quattr’occhi, state fresco. Io vi parlo da amico: le scappate bisogna pagarle: se volete passarvela liscia, danari e sincerità, fidarvi di chi vi vuol bene, ubbidire, far tutto quello che vi sarà suggerito.»
Mentre il dottore mandava fuori tutte queste parole, Renzo lo stava guardando con un’attenzione estatica, come un materialone sta sulla piazza guardando al giocator di bussolotti, che, dopo essersi cacciata in bocca stoppa e stoppa e stoppa, ne cava nastro e nastro e nastro, che non finisce mai. Quand’ebbe però capito bene cosa il dottore volesse dire, e quale equivoco avesse preso, gli troncò il nastro in bocca, dicendo: – oh! signor dottore, come l’ha intesa? l’è proprio tutta al rovescio. Io non ho minacciato nessuno; io non fo di queste cose, io: e domandi pure a tutto il mio comune, che sentirà che non ho mai avuto che fare con la giustizia. La bricconeria l’hanno fatta a me; e vengo da lei per sapere come ho da fare per ottener giustizia; e son ben contento d’aver visto quella grida.
- Diavolo! – esclamò il dottore, spalancando gli occhi. – Che pasticci mi fate? Tant’è; siete tutti così: possibile che non sappiate dirle chiare le cose?
- Ma mi scusi; lei non m’ha dato tempo: ora le racconterò la cosa, com’è. Sappia dunque ch’io dovevo sposare oggi, – e qui la voce di Renzo si commosse, – dovevo sposare oggi una giovine, alla quale discorrevo, fin da quest’estate; e oggi, come le dico, era il giorno stabilito col signor curato, e s’era disposto ogni cosa. Ecco che il signor curato comincia a cavar fuori certe scuse… basta, per non tediarla, io l’ho fatto parlar chiaro, com’era giusto; e lui m’ha confessato che gli era stato proibito, pena la vita, di far questo matrimonio. Quel prepotente di don Rodrigo…
- Eh via! – interruppe subito il dottore, aggrottando le ciglia, aggrinzando il naso rosso, e storcendo la bocca, – eh via! Che mi venite a rompere il capo con queste fandonie? Fate di questi discorsi tra voi altri, che non sapete misurar le parole; e non venite a farli con un galantuomo che sa quanto valgono. Andate, andate; non sapete quel che vi dite: io non m’impiccio con ragazzi; non voglio sentir discorsi di questa sorte, discorsi in aria.
- Le giuro…
- Andate, vi dico: che volete ch’io faccia de’ vostri giuramenti? Io non c’entro: me ne lavo le mani -. E se le andava stropicciando, come se le lavasse davvero. – Imparate a parlare: non si viene a sorprender così un galantuomo.
- Ma senta, ma senta, – ripeteva indarno Renzo: il dottore, sempre gridando, lo spingeva con le mani verso l’uscio; e, quando ve l’ebbe cacciato, aprì, chiamò la serva, e le disse: – restituite subito a quest’uomo quello che ha portato: io non voglio niente, non voglio niente.
Quella donna non aveva mai, in tutto il tempo ch’era stata in quella casa, eseguito un ordine simile: ma era stato proferito con una tale risoluzione, che non esitò a ubbidire. Prese le quattro povere bestie, e le diede a Renzo, con un’occhiata di compassione sprezzante, che pareva volesse dire: bisogna che tu l’abbia fatta bella. Renzo voleva far cerimonie; ma il dottore fu inespugnabile; e il giovine, più attonito e più stizzito che mai, dovette riprendersi le vittime rifiutate, e tornar al paese, a raccontar alle donne il bel costrutto della sua spedizione."
A Parlar di azzeccagarbugli non vi pare che si parli dei nostri contemporanei legulei togati, siano essi magistrati od avvocati?
Additare i difetti altrui è cosa che tutti sanno fare, più improbabile è indicare e correggere i propri. Non abbiamo bisogno di eroi, né, tantomeno, di mistificatori con la tonaca (toga e divisa). L’abito non fa il monaco. La legalità non va promossa solo nella forma, ma va coltivata anche nella sostanza. E’ sbagliato ergersi senza meriti dalla parte dei giusti. La definizione di mafie del dr Antonio Giangrande è: «Sono sodalizi mafiosi tutte le organizzazioni formate da più di due persone specializzati nella produzione di beni e servizi illeciti e nel commercio di tali beni. Sono altresì mafiosi i gruppi di più di due persone che aspirano a governare territori e mercati e che, facendo leva sulla reputazione e sulla violenza, conservano e proteggono il loro status quo». In questo modo si combattono le mafie nere (manovalanza), le mafie bianche (colletti bianchi, lobbies e caste), le mafie neutre (massonerie e consorterie deviate).
Strage di via D'Amelio, perquisizione a casa del cronista che rivelò l'inchiesta sul depistaggio Scarantino. Sequestrato il telefono di Salvo Palazzolo. A marzo l'articolo che diede atto della chiusura dell'indagine su tre poliziotti, scrive il 13 settembre 2018 "La Repubblica". Perquisizione a casa del cronista di Repubblica Salvo Palazzolo, che ha rivelato la chiusura dell'indagine sul depistaggio Scarantino. Su disposizione della procura di Catania, a Palazzolo è stato sequestrato un telefono cellulare ed è in corso una perquisizione della casa del giornalista e un controllo del suo computer personale. Palazzolo è indagato per rivelazione di notizie dopo l'articolo con il quale a marzo diede atto della chiusura dell'indagine sui poliziotti accusati di avere creato ad arte il pentito Vincenzo Scarantino. Una svolta nell'indagine sulla strage di via D'Amelio arrivata sei mesi fa. La procura di Caltanissetta ha chiuso l’indagine sul colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità per tanti anni e si apprestava a chiedere un processo per il dottore Mario Bo, per l'ispettore Fabrizio Mattei e per Michele Ribaudo (all'epoca era agente scelto). Secondo la sentenza del Borsellino quater "soggetti inseriti negli apparati dello Stato" indussero Vincenzo Scarantino a rendere false dichiarazioni sulla strage che uccise il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i poliziotti della scorta. "Sconcerto e forte preoccupazione" dell'Ordine dei giornalisti di Sicilia e dell'Assostampa siciliana per la decisione della Procura di Catania di indagare il giornalista di Repubblica Salvo Palazzolo. "Non si può trattare un giornalista come un criminale - dicono con una nota congiunta Odg Sicilia e Assostampa siciliana -. Agli occhi dei magistrati di Catania Palazzolo è colpevole di avere fatto bene il proprio lavoro, di essersi occupato, con scrupolo e con la serietà che gli è riconosciuta da tutti, della vicenda del depistaggio nelle indagini per la strage di via D'Amelio in cui morirono il giudice Borsellino con i suoi uomini della scorta". "Ciò che viene contestato in particolare al cronista di Repubblica - proseguono Ordine dei giornalisti di Sicilia e Assostampa - è l'avere pubblicato a marzo scorso un articolo con cui informava della chiusura dell'indagine sui poliziotti accusati (tre sono gli indagati) di avere creato ad arte il pentito Scarantino, inducendolo a rendere false dichiarazioni sulla strage che costò la vita al giudice Borsellino. La notizia c'era, il collega, dandola, ha solo fatto il proprio dovere di cronista, cui va riconosciuto, tra l'altro, il diritto alla tutela delle proprie fonti".
Se Roma esulta perché ha una mafia. Il magistrato Luca Tescaroli festeggia la vittoria contro due mostri, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, condannati a un numero spropositato di anni, con la aggravante mafiosa, scrive Vittorio Sgarbi, Giovedì 13/09/2018, su "Il Giornale". Non c'è più grande malinconia che quella di vedere la giustizia con il volto dell'agonismo sportivo. Il magistrato Luca Tescaroli festeggia la vittoria contro due mostri, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, condannati a un numero spropositato di anni, con la aggravante mafiosa. La procura è soddisfatta: Mafia capitale non è teorema ma realtà. E, invece di dolersene, i magistrati se ne compiacciono: «A Roma c'è stata una mafia autoctona, originale e originaria», anche se «non paragonabile a Cosa nostra». Gli affari di due spostati, liberamente frequentati e rispettati dalla pubblica amministrazione, non è corruzione semplice ma è frutto di «un condizionamento di tipo mafioso». Tutti contenti. Almeno temporaneamente, come precisa il procuratore Pignatone. Che però in Cassazione non troverà più un Carnevale, sputtanato come «ammazzasentenze» perché indisponibile a vedere la mafia dove non c'è. Io, per esempio, la vedo nell'abbattimento inaccettabile dei villini liberty a Roma, con la complicità di Comune e sovrintendenza, nell'indifferenza dei pm da me e da Italia Nostra informati, nella persona di Pignatone e dei suoi sostituti. Alla disperata ricerca di Mafia capitale, quando l'hanno vista non se ne sono accorti, e nonostante la denuncia hanno lasciato abbattere il villino Naselli del 1930. Oggi sono soddisfatti: hanno riconosciuto mafiosi Buzzi e Carminati, due che si erano preparati al cinema, vedendo «Il Padrino».
Reato di mafia e meno anni di detenzione: ritorna la giurisprudenza di scopo. Il commento di Cataldo Intrieri del 13 Settembre 2018 su "Il Dubbio". Molto stupore ha suscitato la sentenza d’Appello che ha riconosciuto il marchio di mafiosità all’associazione criminale facente capo al duo Buzzi- Carminati. Tra i motivi di sorpresa vi è l’apparente incongruenza per cui pur riconoscendo il massimo di pericolosità come definizione del reato ad esso si è accompagnata una robusta diminuzione delle pene. Laddove in primo grado decenni di carcere erano stati salutati da scene di giubilo calcistico tra i destinatari, in appello il taglio delle pene, anche robusto come i 6 anni in meno a Carminati, ha suscitato rabbiose reazioni. Mafia capitale: ritorna la giurisprudenza di scopo. L’apparente stranezza trova spiegazione nel ricorso alle vecchie sanzioni previste per il 416 bis prima del 2015, in qualche assoluzione dai reati minori e dalla concessione “a pioggia” delle attenuanti generiche totalmente negate in primo grado. In questo scenario il rovesciamento della decisione in tema di qualificazione mafiosa, paradossalmente è l’aspetto meno sorprendente perché gli addetti ai lavori sanno che da diverso tempo prima nelle commissioni parlamentari e poi nelle aule di Cassazione è in corso una “ rivoluzione silenziosa” nata da una serie di analisi sociologiche ( i libri di Rocco Sciarrone sulle “Mafie del Nord” e di Vittorio Martone su “Le mafie di mezzo”) tradotte poi nel linguaggio del diritto da una tenace battaglia di alcuni magistrati ( il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e l’ex Procuratore Nazionale Anti- Mafia Franco Roberti oggi inopinatamente sbarcato nella giunta regionale del governatore campano De Luca) e soprattutto da alcune pronunce della Suprema Corte di Cassazione. Il “nuovo modello di Mafia” è un’organizzazione leggera che può consistere di piccoli gruppi, non legata al controllo del territorio e non abbisognevole di manifestare la propria violenza intimidatrice in quanto perfettamente omogenea e solubile nella società civile che la circonda di suo predisposta alla corruzione ed alla connivenza E così “… la permeabilità del contesto sociale all’uso strumentale dell’intimidazione mafiosa è una variabile fortemente condizionata dal più o meno spiccato senso civico e dallo sviluppo di un adeguato livello di legalità che portano ad un inevitabile scollamento tra l’obiettiva espressione intimidatoria dell’associazione e l’effettiva penetrazione sociale, sicchè il postulato di una necessaria incisione della realtà in termini macroscopici non appare rispondente ai parametri di concreta offensività della fattispecie» ( Sez. 2, n. 24851 del 04/ 04/ 2017, Garcea e altri, Rv. 270442). Al netto del linguaggio criptico il concetto è perfettamente sovrapponibile al più rozzo “pensiero” di Alfonso Bonafede: la corruzione permea ampi strati della società così da rendere inutile la violenza e l’intimidazione, specchiandosi le componenti criminali e sociali l’una nell’altra. Lo “stigma” mafioso funge dunque da Daspo giudiziario, perchè alla pena non eccessiva (in quanto commisurata ad una pericolosità “debole”) si sostituisce con ben maggiore efficacia il complesso delle preclusioni e delle misure di sicurezza per pervenire alla “sanzione sociale” della esclusione dal mondo produttivo dal colpevole. Appunto, “chi sbaglia paga”. Si sta celebrando dunque tra settori della Magistratura e della politica al governo una saldatura motivata dalla esigenza di bonifica dalla corruzione. Eppure non sono passati che pochi mesi da quando la Corte Costituzionale ha ribadito la sua ferma contrarietà alla “Giurisprudenza di scopo” ed al ruolo del giudice come argine sociale contro i fenomeni criminali. Il rischio, osserva la Consulta di causare la perdita della necessaria terzietà e va aggiunto l’elevata probabilità di conflitti politici di cui i contrasti con la Lega di Salvini possono essere un’avvisaglia.
Mafia Capitale, nel processo d’appello il giudice che nega i clan. Partirà a marzo il secondo grado del processo. Fra i giudicanti anche Claudio Tortora che definì «semplici criminali» i Fasciani di Ostia, versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione, scrive Ilaria Sacchettoni il 16 gennaio 2018 su "Il Corriere della Sera". La data non è ancora stata fissata, ma l’avvio del processo d’appello per Mafia Capitale è previsto a marzo. Quanto al collegio giudicante qualche certezza c’è già. Assieme al presidente della Terza sezione Claudio Tortora siederanno Raffaella Palmisano e Patrizia Campolo. Ma è Tortora il nome che infonde qualche ottimismo nello sterminato collegio difensivo del cosiddetto Mondo di mezzo: già presidente della seconda sezione il magistrato era a capo del collegio che, nel 2016, aveva escluso l’esistenza di una mafia a Ostia, sostenendo che difettasse «la prova della pervasività del potere coercitivo del gruppo Fasciani», versione sconfessata a dicembre dalla Cassazione. Ora, la sfida argomentativa della procura riguarda proprio la lettura del fenomeno mafioso. Non c’è mafia nella Capitale avevano concluso i giudici di primo grado il 20 luglio scorso, pur distribuendo condanne pesanti a Massimo Carminati (20 anni), Salvatore Buzzi (19) e agli altri imputati che avrebbero dato vita a una semplice organizzazione criminale. Per i pm romani invece, la città non è immune dal contagio mafioso. Basta guardare oltre gli stereotipi di una mafia «con la coppola e la lupara che spara e uccide, ovvero che parla calabrese o siciliano» per rintracciare un’organizzazione autoctona con poteri di intimidazione altrettanto efficaci di quelli di altre organizzazioni. Nel ricorso sul Mondo di mezzo l’aggiunto Paolo Ielo e i sostituti Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli invitano i giudici «a liberarsi da quel modello oleografico di associazione mafiosa stigmatizzato dalla giurisprudenza della Cassazione» e a rivalutare, ad esempio, le testimonianze esitanti o apertamente reticenti di alcuni imprenditori terrorizzati all’idea di deporre su Carminati. A margine di un dibattito pubblico estivo il procuratore capo Giuseppe Pignatone aveva detto la sua: «Carminati otteneva il controllo con il metodo mafioso in quanto aveva la disponibilità della violenza. Tutti lo sapevano: aveva alle spalle un pedigree noto a Roma. Riteniamo che ci fossero le condizioni per il riconoscimento del carattere mafioso».
La rivincita di Pignatone. Sentenza d’appello: «La mafia a Roma c’è». I giudici della Corte d’Appello di Roma ribaltano la sentenza di primo grado sul Mondo di Mezzo: l’associazione per delinquere che fa capo a Buzzi e Carminati è di tipo mafioso. Ma le pene vengono ricalcolate e ridotte, scrive Giulia Merlo il 12 Settembre 2018 su "Il Dubbio". L’associazione mafiosa c’è, ma le pene vengono ridotte. I giudici della Terza sezione della Corte d’Appello di Roma, Presidente dr. Claudio Tortora hanno letto ieri nell’aula bunker di Rebibbia (presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi) il dispositivo di una delle sentenze più attese degli ultimi anni, riuscendo di fatto a dare ragione sia all’accusa che alla difesa. La mafia a Roma c’è, ha stabilito il collegio ribaltando la decisione del luglio 2017 Tribunale Ordinario di Roma X sezione penale, III Collegio Presidente Rosanna Ianniello, Renato Orfanelli, Giulia Arcieri (che aveva riconosciuto solo l’esistenza di due associazioni per delinquere, che avevano i riferimenti in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi). Eppure, anche condannando gli imputati per un diverso e più grave titolo di reato (dal 416 c. p. al 416 bis, ovvero l’associazione mafiosa), le pene sono state ridotte. Il manovratore del “Mondo di Mezzo” Carminati, condannato in primo grado a 20 anni, si è visto ricalcolare la pena a 14 anni e sei mesi. Il “ras delle coop” Buzzi doveva scontare 19 anni, ridotti a 18 e 4 mesi. I due hanno seguito la lettura del dispositivo in videoconferenza dai penitenziari di Opera e di Tolmezzo e non hanno voluto essere ripresi dalle telecamere. I giudici, inoltre, hanno riconosciuto l’associazione per delinquere di stampo mafioso, l’aggravante mafiosa o il concorso esterno anche per 18 dei 43 imputati. L’esito della camera di consiglio, se da una parte ha sposato la linea dell’accusa di chiedere il riconoscimento del reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, dall’altra non ha invece accolto la richiesta di pena: 26 anni e mezzo per Carminati e 25 anni e 9 mesi per Buzzi (in primo grado, invece, la richiesta era stata di 28 anni per Carminati e per Buzzi di 26 anni e 3 mesi). «Massimo Carminati è un boss, così lo chiamano i criminali nelle intercettazioni, riconoscendolo come capo, obbediscono a lui perché riconoscono il suo potere criminale», aveva spiegato il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini nella sua requisitoria dello scorso 29 marzo. E ancora, «non si tratta di stabilire se a Roma c’è la mafia ma se questa organizzazione criminale rientra nel 416bis, se ha operato con il metodo mafioso che si riconosce dall’uso della violenza e intimidazione, dall’acquisizione di attività economiche e dall’infiltrazione nella pubblica amministrazione», ha spiegato la Procura, che nell’atto di appello aveva contestato solamente il mancato riconoscimento del 416 bis e dell’aggravante del metodo mafioso e dunque chiedeva una diversa lettura giuridica dei fatti ( riconoscendo non due diverse associazioni per delinquere semplici ma una unica e di stampo mafioso) e non la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale. Linea che ha convinto la Terza Corte D’Appello. Ora ai difensori non resta che attendere il deposito delle motivazioni, per valutare gli estremi per un ricorso in Cassazione.
IL PRIMO GRADO. Nel luglio dello scorso anno, la Decima sezione penale del Tribunale di Roma aveva ritenuto che esistessero due associazioni: una coordinata da Carminati e dedita ad usura ed estorsioni; la seconda composta sempre da Carminati ma insieme a Salvatore Buzzi, che invece si occupava di corrompere funzionari per ottenere appalti in favore delle coop dello stesso Buzzi. Al termine del dibattimento, le condanne erano state 41, con 5 assoluzioni. Nelle motivazioni – rovesciate nella decisione d’Appello – si leggeva che «la mafiosità» individuata dalla procura nell’inchiesta sul Mondo di Mezzo non è quella «recepita dal legislatore nella attuale formulazione della fattispecie di cui all’art. 416 bis per la quale, non è sufficiente il ricorso sistematico alla corruzione ed è invece necessaria l’adozione del metodo mafioso, inteso come esercizio della forza della intimidazione». Non solo, il tribunale non aveva individuato «per i due gruppi criminali, alcuna mafiosità “derivata” da altre, precedenti o concomitanti formazioni criminose» e «le due associazioni non sono caratterizzate neppure da mafiosità autonoma». Nessun margine di equivoco, almeno per i giudici del primo grado, riguardo la non “mafiosità” delle condotte. Gli stessi giudici, però, avevano scelto una linea di severità nell’indicazione delle pene: 20 e 19 anni per Carminati e Buzzi e a nessuno dei 46 imputati il riconoscimento di alcuna attenuante generica. Tanto che l’avvocato di Carminati, Giosuè Naso, aveva parlato di «Pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato dato alla procura» nel non riconoscere l’associazione per delinquere di stampo mafioso. La Corte d’Appello, invece, sembra aver optato per la linea opposta: riconosce l’associazione mafiosa, ma ricalcola le pene in senso favorevole agli imputati.
LE REAZIONI. «Le sentenze vanno rispettate. Lo abbiamo fatto in primo grado e lo faremo anche adesso. La Corte d’Appello ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso». Questo il commento a caldo del procuratore aggiunto Giuseppe Cascini, al quale ha fatto eco il Procuratore generale Giovanni Salvi, definendo la sentenza «il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell’esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie». Opposte, invece, le reazioni dei difensori dei due principali imputati, che in primo grado avevano ottenuto la vittoria dell’esclusione della “mafiosità” delle condotte. «È una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese», ha commentato il difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, sottolineando il fatto che «i magistrati hanno avuto l’atteggiamento di Ponzio Pilato, quello del “mezza prova mezza pena”. Siccome sanno benissimo che il fenomeno mafioso nei fatti non è minimamente configurante si sono messi una mano sulla coscienza riducendo dove hanno potuto i trattamenti sanzionatori». Ancora più duro il difensore di Carminati, Bruno Giosuè Naso, che ha definito «una sorpresa» la sentenza: «L’insussistenza dell’accusa mafiosa mi sembrava inattaccabile: mi sbagliavo. Se persino questo collegio, che è uno dei migliori della Corte d’Appello, ha riconosciuto l’aggravante mafiosa o io dopo 50 anni di attività professionale non capisco più nulla di diritto, oppure è successo qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza». Plauso per la decisione del giudici d’appello, invece, è stato espresso dal mondo politico, in particolare dal Movimento 5 Stelle e dal Partito Democratico. «Questa sentenza conferma che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. È quello che stiamo facendo», ha detto la sindaca di Roma Virginia Raggi, presente in aula. «È una sentenza storica che certifica l’esistenza di un’organizzazione criminale tollerata dalla vecchia politica capitolina», ha aggiunto Giulia Sarti, presidente della Commissione Giustizia di Montecitorio. Tra i dem, il primo a ringraziare la procura «per il grande lavoro» è Matteo Orfini. Il senatore Franco Mirabelli, invece, ha sottolineato come «dopo tanti anni il negazionismo di chi ha sostenuto che a Roma non ci fosse la mafia è stato sconfitto».
Roma, Mafia Capitale: era davvero mafia! La sentenza d'appello ribalta il primo grado: riconosciuta l'associazione a stampo mafioso, anche se pene ridotte per Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, scrive l'11 settembre 2018 Panorama. A Roma c'era davvero un'organizzazione mafiosa che ha controllato il territorio per anni, con infiltrazioni nel mondo istituzionale. Questo secondo la sentenza della Corte d'appello di Roma sull'inchiesta sul "Mondo di Mezzo - Mafia Capitale", che ribalta la sentenza di primo grado. Dimezza le pene ma riconosce l'aggravante mafiosa. Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, la cupola del sistema delle cooperative romane, sono condannati riconoscendo loro il 416 bis, cioè l'associazione mafiosa.
La sentenza d'appello. Il processo d'appello è iniziato il 6 marzo 2018. L'11 settembre 2018 la terza sezione della Corte d'appello di Roma, presieduta dal giudice Claudio Tortora, riconosce l'accusa di metodo mafioso, ancora rivendicata dai pm. Per alcuni degli imputati viene riconosciuta l'associazione a delinquere di stampo mafioso, prevista dall'articolo 416 bis del codice penale. Massimo Carminati è condannato a 14 anni e sei mesi (invece dei 20 anni in primo grado), Salvatore Buzzi a 18 anni e 4 mesi (invece dei 19 anni in primo grado). Oltre che per Carminati e Buzzi, i giudici hanno riconosciuto l'associazione a delinquere di stampo mafioso, l'aggravante mafiosa o il concorso esterno, a vario titolo, anche per Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi). Condannati anche Paolo Di Ninno (6 anni e 3 mesi), Agostino Gaglianone (4 anni e 10 mesi), Alessandra Garrone (6 anni e 6 mesi), Luca Gramazio (8 anni e 8 mesi), Carlo Maria Guaranì (4 anni e 10 mesi), Giovanni Lacopo (5 annu e 4 masi), Roberto Lacopo (8 anni), Michele Nacamulli (3 anni e 11 mesi), Franco Panzironi (8 anni e 4 mesi), Carlo Pucci (7 anni e 8 mesi) e Fabrizio Franco Testa (9 anni e 4 mesi). Il sindaco di Roma Virginia Raggi ha così commentato la sentenza su Twitter: "Criminalità e politica corrotta hanno devastato Roma, responsabili giusto che paghino. Noi proseguiamo il nostro cammino sulla strada della legalità".
Il primo grado. Il 20 luglio 2017, invece, la decima Corte del tribunale di Roma in primo grado aveva fatto cadere l'accusa di associazione mafiosa: una vicenda di mafia, in cui la mafia non c'era. Aveva condannato a 20 anni di reclusione comminata Massimo Carminati, l'ex membro dei Nuclei armati rivoluzionari considerato ai vertici dell'organizzazione che, secondo la Procura romana, per anni ha condizionato le istituzioni capitoline. A Salvatore Buzzi, il suo braccio destro, accusato di corruzione e turbativa d’asta con l’aggravante del metodo mafioso, 19 anni di carcere. 11 anni sia per Luca Gramazio che per Riccardo Brugia. A Franco Panzironi, accusato di corruzione aggravata dall’aver favorito la associazione mafiosa, 10 anni. Dure condanne, ma che non confermavano l'accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un'organizzazione criminale di stampo mafioso. Il processo era iniziato il 5 novembre 2015.
Come nacque l'indagine Mafia Capitale. Era fine 2014 quando partì il blitz. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo a essere bloccato nell'operazione "Mafia Capitale", il 2 dicembre, era stato il capo del clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana. Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra le 36 persone arrestate c'era Salvatore Buzzi, considerato il braccio destro di Carminati. Nel tempo l'indagine ha coinvolto anche Gianni Alemanno, sindaco di Roma dal 2008 al 2013. Il 7 febbraio 2017 era stata archiviata l'accusa nei suoi confronti di concorso esterno in associazione mafiosa. Erano rimaste in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine.
Mafia Capitale: sentenza Appello su Mondo di Mezzo. Le critiche: “Carminati e Buzzi? Cambiato il reato...” Mafia Capitale, oggi sentenza d'Appello: ultime notizie, ribaltate condanne per Carminati e Buzzi. Ridotti gli anni di carcere ma c'è "associazione a delinquere di stampo mafioso", scrive l'11 settembre 2018 Niccolò Magnani su "Il Sussidiario". Secondo Massimo Bordin, giornalista ed ex direttore di Radio Radicale, quanto avvenuto con la sentenza di Secondo Grado per Mafia Capitale è uno di quei dispositivi destinati a fare giurisprudenza. E non in positivo: «il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”», scrive Bordin in un primo commento a caldo sul Foglio. È come se fosse stato “cambiato” il reato di mafia e dunque, riducendo tutto alle massime estremizzazioni, si potrebbe dire che d’ora in poi “tutto può essere mafia”. In conclusione Bordin sottolinea ancora un punto, «Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto».
ECCO PERCHÈ LO SCONTO DI PENA PER CARMINATI E BUZZI. Come abbiamo accennato nel dare la notizia della sentenza in Corte d’Appello, le pene per i due massimi imputati nel processo Mondo di Mezzo, Massimo Carminati e Salvatore Buzzi, sono state ridotte nonostante sia stata provata la loro “mafiosità”. Il motivo è semplice, come spiega l’Huffington Post dopo aver sentito gli avvocati Vasaturo (avvocato di Libera, costituitosi parte civile) e Diddi (legale di Buzzi): «Oltre a quello disciplinato dal 416 bis gli imputati erano accusati anche di una serie di altri reati, alcuni dei quali legati alla corruzione. Nel processo di primo grado l'accusa di associazione a delinquere era caduta mentre, invece, erano rimaste in piedi alcune delle altre. Il cumulo delle pene di quei reati, quindi, aveva portato a una condanna più pesante rispetto a quella dell'Appello, almeno per Buzzi e Carminati». Per quanto riguarda le altre condanne, riconosciuto l’associazione a delinquere di stampo mafioso anche per Riccardo Brugia (11 anni e 4 mesi per l’ex braccio destro di Carminati), Claudio Bolla (4 anni e 5 mesi), Emanuela Bugitti (3 anni e 8 mesi), Claudio Caldarelli (9 anni e 4 mesi), Matteo Calvio (10 anni e 4 mesi).
LEGALE DI CARMINATI: “O NON CONOSCO DIRITTO O SENTENZA STRAVAGANTE”. Dopo la sentenza della terza sezione della Corte d'Appello di Roma, presieduta da Claudio Tortora, che ha riconosciuto l'aggravante mafiosa nell'indagine "Mondo di Mezzo" meglio nota come Mafia Capitale, a mostrare perplessità è l'avvocato difensore dell'ex Nar Massimo Carminati. Come riportato da La Repubblica, il legale Giosuè Naso ha dichiarato: "L'insussistenza dell'associazione mafiosa mi sembrava inattaccabile, mi sbagliavo. Questo collegio ha invece riconosciuto la sussistenza della mafia. Se anche questo collegio, che è uno dei migliori della corte d'appello, ha riconosciuto l'aggravante mafiosa e la mafiosità di questa associazione o io dopo 50 anni di attività professionale non conosco più nulla di diritto, il che ci può stare benissimo, oppure c'è qualcosa di stravagante che ha influito sulla sentenza". Sul procedimento ha poi ribadito: "E' un processetto". (agg. di Dario D'Angelo)
L'avvocato di Buzzi: "Da oggi pericoloso vivere in Italia": "Quanto accaduto è grave, è un fatto assolutamente stigmatizzabile l'aver riconosciuto in questa roba la mafia. Vedo che per molti cittadini da oggi è molto pericoloso vivere in Italia, è una bruttissima pagina per la giustizia del nostro Paese". Così l'avvocato difensore di Salvatore Buzzi, Alessandro Diddi, parlando a margine della lettura del dispositivo della sentenza d'appello. Diddi ha poi aggiunto: "Il collegio ha riconosciuto la associazione di stampo mafioso, ma ha ridotto il trattamento sanzionatorio che era stato applicato in primo grado. Noi abbiamo da sempre sostenuto che il tribunale fosse andato con la mano pesante su diverse condotte". Francesco Salvatore per repubblica.it 11 settembre 2018
RAGGI CONTRO IL PD. «La Corte d'Appello di Roma ha accolto l'impugnazione della Procura generale e della Procura della Repubblica di Roma e ha riconosciuto il carattere mafioso dell'associazione. Questo è il punto di arrivo di un intenso impegno e al tempo stesso di partenza. La consapevolezza dell'esistenza anche a Roma e nel Lazio di forze criminali in grado di condizionare la vita economica e politica e di indurre timore nella popolazione resta il centro di riferimento delle iniziative giudiziarie, che devono necessariamente essere accompagnate dalla crescita della coscienza civile e dal risanamento della struttura della pubblica amministrazione»: così ha spiegato il procuratore generale Giovanni Salvi dopo la sentenza d’Appello dal carcere di Rebibbia. Molto polemica invece il sindaco di Roma, Virginia Raggi, che senza “citarli” attacca a testa bassa il Partito Democratico della Capitale: «Questa sentenza conferma la gravità di come il sodalizio tra imprenditoria criminale e una parte della politica corrotta abbia devastato Roma», ha dichiarato la prima cittadina M5s che era presente alla lettura della sentenza. Non solo, «Conferma, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che bisogna tenere la barra dritta sulla legalità. E' quello che stiamo facendo e continueremo a fare per questa città e i cittadini».
PM SODDISFATTI. La sentenza odierna della Corte d’Appello segna un punto importante nella vicenda giudiziaria conosciuta come Mafia Capitale dato che, rispetto al primo grado, c’è stato un vero e proprio ribaltamento, con gli imputati Massimo Carminati e Salvatore Buzzi che, pur vedendosi ridotte le pene, si sono pure visti attribuire l’aggravante mafiosa per le proprie condotte: “La Corte ha deciso che l’associazione criminale che avevamo portato in giudizio era di stampo mafioso” ha detto soddisfatto il procuratore aggiunto Giuseppe Cascini circondato da un nugolo di giornalisti. “Un nostro successo? Non ho una visione agonistica dei processi” si è schernito invece il pm Luca Tescaroli a proposito di quello che è un successo dei pm in merito al processo a quello che nella vulgata giornalistica oramai era conosciuto come il Mondo di Mezzo che imperava a Roma: e facendo eco al suo collega si è detto pure lui soddisfatto che i giudici dell’Appello “abbiano riconosciuto il lavoro che abbiamo svolto”. (agg. di R. G. Flore)
Mafia Capitale, Pignatone: "Roma non è Palermo, il problema più grave resta la corruzione". "Sì, era mafia ma Roma non è Palermo". "Il problema più grave resta la corruzione". Così il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone sulle sentenza d'appello per Mafia capitale in due interviste a Il Corriere della Sera e a La Repubblica. Pur essendo il "Mondo di mezzo" "un gruppo che utilizzava il metodo mafioso, questo come gli altri gruppi inquisiti o condannati per associazione mafiosa, dai Fasciani agli Spada, ai Casamonica, non sono paragonabili a Cosa nostra, alla 'ndrangheta o alla camorra. E Roma - ha affermato parlando con il Corriere - non è Palermo, né Reggio Calabria né Napoli. L'abbiamo sempre sostenuto, anche nel parere contrario allo scioglimento del Comune per mafia", ha detto il procuratore. Quello che contraddistingue la mafiosità del gruppo di Carminati e Buzzi "non è il controllo del territorio, ma il controllo di un ambiente sociale, di alcuni settori dell'imprenditoria". "La nostra elaborazione avanzata dell'associazione mafiosa era già basata su alcune pronunce della Corte suprema, che poi l'ha ribadita in altre sentenze. La corte d'appello ne ha preso atto e ha individuato un condizionamento di tipo mafioso". "Non tutti i traffici di droga si possono considerare mafiosi, così come non tutti le corruzioni. Ci dev'essere un condizionamento derivante dal vincolo associativo, ed è necessaria la "riserva di violenza" riconosciuta all'esterno. Detto questo, anche dopo questa sentenza, ripeto che a Roma il problema principale non è la mafia". E qual è? "Credo che si possa individuare in quell'insieme di reati contro la pubblica amministrazione e l'economia che va sotto il nome di corruzione ma comprende le grandi bancarotte, le grandi frodi fiscali, le grandi turbative d'asta e fenomeni correlati. La cifra di una metropoli come Roma è la complessità, anche sotto il profilo criminale. Mafia capitale è solo un tassello di un mosaico molto più grande e complicato". "Io fui il primo - ha detto Pignatone a Repubblica - dopo gli arresti, a esprimere parere contrario allo scioglimento per mafia dell'assemblea capitolina. Proprio perché sostenevo che la peculiarità di Mafia Capitale era tale che si poteva ritenere cessata l'associazione mafiosa nel momento in cui era stata disarticolata". Come è possibile che la Corte di Appello, pur riconoscendo il reato più grave di mafia, abbia poi ridotto le pene? "Le pene per il 416 bis sono state modificate in senso più afflittivo successivamente agli arresti del dicembre 2014. Noi abbiamo ritenuto che le nuove pene, più alte, potessero applicarsi perché ritenevamo che l'associazione a delinquere, formalmente, dovesse essere considerata "attiva" fino al pronunciamento della sentenza di primo grado. L'Appello, al contrario, penso abbia ritenuto che Mafia Capitale sia cessata al momento degli arresti e dunque che il calcolo delle pene andasse fatto con le vecchie norme". Agi 12 settembre 2018
RICONOSCIUTA "AGGRAVANTE MAFIOSA". La sentenza è stata ribaltata ma le pene sono state ridotte: così il processo d’Appello si conclude con le importanti decisioni di questi minuti dall’aula bunker del Carcere di Rebibbia. Massimo Carminati condannato in Appello a 14 anni e sei mesi. Salvatore Buzzi 18 anni e 4 mesi: sono queste le prime condanne in Appello al processo per Mafia Capitale-mondo di mezzo che hanno due punti cruciali da segnalare subito. A differenza del Primo Grado, in questa sentenza viene riconosciuta “l’aggravante mafiosa” mentre le pene sono state ridotte, come ha spiegato l’avvocato di Carminati, perché sono state eliminate alcune recidive passate. «Nel primo processo l'aggravante mafiosa cadde perché, come si leggeva nelle motivazioni, l'applicazione letterale del 416bis non era possibile», scrive Repubblica: per le decisioni di oggi invece bisognerà attendere le motivazioni tra 100 giorni, ma intanto le rispettive difese di Buzzi e Carminati continuano a ribadire, «questo è un processino cui però vengono condannati con pene mostruose, altro che alte, i nostri assistiti».
ATTESA PER BUZZI E CARMINATI. L’hanno chiamata Mafia Capitale fin da subito, eppure dopo le condanne in Primo Grado quell’appellativo andava abolito visto che i giudici della III sezione di Roma avevano esclusa l’aggravante del metodo mafioso e dell’associazione a delinquere di stampo mafioso per tutti i 41 condannati (sui 46 imputati, ndr). Nel 2017 venne riconosciuta l’esistenza di due associazioni a delinquere “semplici” che avevano in Massimo Carminati e Salvatore Buzzi i due punti di riferimento. Per l’ex Nar i giudici avevano sentenziato 20 anni di reclusione per “corruzione” ma non per “aggravante mafioso”; per il “re delle cooperative romane” invece il magistrato decise di condannarlo a 19 anni di reclusione per associazione a delinquere “semplice”. I giudici ora, dopo il Processo di Appello tenuto nell’ultimo anno, sono riuniti in Camera di Consiglio nell’Aula bunker del Carcere di Rebibbia: alle 13 è attesa la sentenza che potrebbe, viste le richieste dell’accusa, ribaltare completamente la decisione del Primo Grado.
MAFIA CAPITALE: LE RICHIESTE DELL’ACCUSA. Mafia Capitale-mondo di mezzo: bisognerà decidere a quale dei due “ambiti” appartengono gli imputati. Se infatti il terrorista “nero” Carminati e il ras delle cooperative avevano messo i piedi una organizzazione mafiosa, allora si concretizzerà la richiesta della accusa: per l'ex Nar il pg Pignatone ha chiesto una condanna a 26 anni e mezzo, mentre per Buzzi 25 anni e 9 mesi. Se invece viene confermata la tesi del Primo Grado, allora non si può parlare di “mafia capitale” ma di grande organizzazione criminale senza le aggravanti di rito, e senza dunque anche il regime di carcere duro (41Bis) per i condannati. Come riporta bene l’Ansa in attesa della sentenza d’Appello, «Secondo l'accusa negli anni il gruppo un tempo guidato dal solo Carminati sarebbe cresciuto, passando dalle semplici estorsioni al controllo di attività economiche, appalti e bandi pubblici. Dopo l'incontro con Buzzi, avvenuto nel 2011, ci sarebbe stato un'ulteriore salto di qualità, che avrebbe permesso all'organizzazione di condizionare politica e pubblica amministrazione». Oggi si attendono novità sulla presenza o meno di una “nuova mafia” che agiva nella Capitale.
Il fatto alternativo di Mafia capitale. Una bolla di fatti alternativi non la puoi sgonfiare, e così nel processo d’Appello si è deciso di convertire il senso di condanne già erogate nel significato simbolico che le bolle richiedono. Stavolta la mafia c’è. Ma la bufala resta lì ed è sempre grande, scrive Giuliano Ferrara l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Mafia capitale è un classico “fatto alternativo”, un caso di scuola, la bolla informativa al posto del contenuto di fatto. Anche i bambini hanno capito quel che non era difficile divinare a tutta prima e che nessuna sentenza potrà mai smentire: due o tre associazioni per delinquere a scopo di lucro (appalti, corruzione della pubblica amministrazione e della politica capitolina per segmenti, prestito a strozzo) furono smantellate da indagini giudiziarie che, per comodità e aura mediatico-politica, furono condotte con ...
E’ stato cambiato il reato di mafia, e adesso tutto può essere mafia. La sentenza pronunciata dalla Corte di appello sul cosiddetto processo Mafia Capitale contro Massimo Carminati e l’associazione a delinquere, scrive Massimo Bordin l'11 Settembre 2018 su "Il Foglio". Ci sarà tempo per valutare più analiticamente il dispositivo della sentenza pronunciata dalla Corte di appello che ha accolto il ricorso della procura romana sul processo Mafia Capitale, ma il cuore del problema, l’elemento che ha spostato il giudizio nel suo secondo grado sta probabilmente nell’analisi del fatto piuttosto che nella sistemazione degli elementi e dei precedenti in punto di diritto. Qui si era avvertito il lettore, all’inizio del processo d’Appello, che, dalla sentenza di primo grado, le cose in Cassazione erano mutate sul tema della utilizzabilità del reato di mafia per associazioni a delinquere attive anche lontano dai luoghi tradizionali dell’insediamento mafioso e non necessariamente connotate da pratiche esplicitamente violente. Più di una sentenza definitiva della Suprema Corte aveva convalidato decisioni di alcune Corti di appello, non solo romane, che avevano applicato estensivamente il famoso articolo 416 bis anche a piccole associazioni criminali, in più di un caso formate neppure da italiani. La giurisprudenza della Cassazione, insomma, si era mossa in controtendenza rispetto alla sentenza del tribunale su Carminati e soci. Naturalmente nella discussione il fenomeno è stato valorizzato dalla pubblica accusa e analizzato criticamente dalle difese, che hanno cercato di sganciarlo dal merito del processo romano. Qui arriviamo al punto vero che non è, o almeno non è solo, una dotta disquisizione giuridica, ma principalmente è l’interpretazione dei fatti processuali. In soldoni il giudice di primo grado, nelle motivazioni della sentenza, aveva fatto un discorso di questo tipo: “Cari pm, non ci avete convinto sull’associazione mafiosa perché, prima ancora dell’aggettivo, è il sostantivo singolare che non va. Doveva essere plurale, perché qui le associazioni a delinquere sono due. Hanno una persona in comune, Carminati, ma non basta secondo noi a unificarle e se sono divise sono due gruppi di associati che commettono reati magari anche gravi senza arrivare in nessuno dei due casi a rappresentarsi come fenomeni mafiosi”. Non si diceva esplicitamente che anche la procura in fondo la pensava così, ma alla fine l’interpretare come artificiosa l’unificazione operata dall’accusa alludeva proprio a questo. Siccome ogni processo è fatto di persone, di storie, di comportamenti e intrecci, per parlare con cognizione di causa di questa sentenza occorre davvero aspettare di leggere come la Corte di appello li ha interpretati e combinati per contraddire sul punto di fatto decisivo la sentenza di primo grado. Comunque dal dispositivo si capisce nitidamente anche un’altra cosa. Il fatto che alcuni imputati, Carminati più di tutti, vedano ridotta la loro pena malgrado la condanna per una nuova imputazione, mostra come la sentenza di primo grado, pur non considerando la mafia, con gli imputati non era stata affatto tenera. Questa nuova sentenza sembra dire addirittura che aveva ecceduto.
«Avvocato, amico della mafia ti sommergerò col fango!». L’intimidazione di un giornalista dell’Espresso contro un difensore, scrive Damiano Aliprandi il 9 giugno 2018 su "Il Dubbio". Un giornalista dell’Espresso, molto famoso, Lirio Abbate, ieri ha pubblicato su Facebook un post che potrebbe essere stampato sui libri che studiano il linguaggio dell’odio e della volgarità negli anni 10 del XXI secolo. Ha scritto Abbate, rivolto a Cesare Placanica, presidente della camera penale di Roma: «Le infamità e le calunnie vomitate ieri in un’aula di giustizia da un para- difensore presidente di categoria a Roma hanno eguali solo ad affiliati alla mafia. Para- difensore, dico a te che leggi questo post: di te e dei tuoi amici criminali che ti pagano, non ho paura. Ho la coscienza pulita per affrontarti. Il fango che tu e i tuoi amici mafiosi volete spargere sulla mia correttezza professionale vi si ritorcerà sommergendovi». In serata la federazione della stampa è intervenuta, a sorpresa, non per chiedere scusa, ma per difendere Abbate e chiedere interventi del ministro contro Placanica. IL VICEDIRETTORE DELL’ESPRESSO È PREOCCUPATO PER IL CASO MONTANTE? «Ho la coscienza pulita per affrontarti. Il fango che tu e i tuoi amici mafiosi volete spargere sulla mia correttezza professionale vi si ritorcerà sommergendovi», tuona il vicedirettore de L’Espresso Lirio Abbate tramite un post su Facebook. Si rivolge direttamente all’avvocato Cesare Placanica, Presidente della Camera Penale di Roma, riferendosi alla sua arringa di giovedì scorso durante il processo d’appello giornalisticamente battezzato “Mafia Capitale”, concentrata sulla tesi della Procura romana – respinta dai giudici di primo grado – sulla presunta natura mafiosa del sodalizio tra Buzzi e Carminati. Il giornalista dell’Espresso ha definito Placanica un «para- difensore presidente di categoria» che avrebbe «vomitato infamità e calunnie» nei suoi confronti che «hanno eguali solo ad affiliati alla mafia». Il suo commento sul social network è stato considerato particolarmente feroce, associando di fatto la figura del difensore ai criminali e alla criminalità mafiosa da lui assistita nel processo. Ma cosa ha detto l’avvocato Placanica durante la sua arringa da generare un commento del genere? Probabilmente Abbate si riferisce a due passaggi del suo intervento durato un’ora e mezzo, volto a smontare la ricostruzione fatta dai pubblici ministeri, quando ha fatto cenno a due situazioni che coinvolgerebbe-ro Abbate. Il primo è relativo al caso giudiziario del sistema Montante, quando dall’informativa ( riportata da Il Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta, sono emersi nomi di giornalisti che avrebbero avuto frequentazioni con l’ex presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, il quale – secondo la tesi della procura di Caltanissetta – avrebbe avvicinato alcuni giornalisti per adoperarsi a far sì che le redazioni di alcuni quotidiani venissero, in un certo senso, redarguite e manipolate, per non scrivere notizie negative sul suo conto o su quello di soggetti a lui vicini. Dall’informativa il nome di Abbate viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. L’avvocato Placanica durante l’arringa ha esclamato: «Perché non le scrivono queste cose sui loro giornali, perché non le trovate?». Ha anche tenuto a precisare che lui considera Montante innocente fino a prova contraria e ha detto di essere contento che queste notizie relative a presunti rapporti con i giornalisti, non sono stati dati in pasto all’opinione pubblica «sempre più becera». Altro passaggio che avrebbe fatto scatenare la reazione di Abbate, riguarda il famoso furto al caveau della città giudiziaria di piazzale Clodio, a Roma, avvenuto la notte tra il 16 e 17 luglio del 1999. L’avvocato Placanica, soprattutto in questo caso, ha indirizzato espressioni polemiche e sferzanti – connesse ai temi di difesa che stava affrontando – nei confronti di un giornalista, definendolo «cialtrone» e sottolineando «mi rifiuto di fare il nome». Ma giustamente, il giornalista dell’Espresso, si è sentito parte in causa perché fu lui che scrisse un’inchiesta sul famoso furto dove sostenne che Carminati si impossessò di documenti riservati per ricattare la Repubblica italiana. In effetti, Abbate pubblicò un libro dove viene riportata la lista indicante le cassette di sicurezza piene di documenti scottanti che avrebbero concesso una specie di “impunità” all’ex-Nar Carminati in virtù del materiale acquisito con la rapina. Ci sono nomi di giudici, avvocati, tutte persone che sarebbero state sotto ricatto per farsi aggiustare i processi. Il problema è che non uno dei giudici citati è segnalato come titolare, all’epoca, d’inchieste scottanti su Carminati o su chissà quale altro “potere occulto”. Abbate non cita neanche una sentenza su cui possa gravare il sospetto di essere stata “aggiustata” per compiacere qualche “sodalizio criminale”. Una lista che però non ha avuto nemmeno un effetto immediato visto che furono arrestati e processati tutti gli autori del colpo, Carminati compreso. L’avvocato Placanica, durante l’arringa, è stato costretto a parlare di questo furto e della tesi di Abbate, perché la vicenda è stata evocata anche dai Pm durante la requisitoria.
Sistema-Montante: l’antimafia siciliana convoca tutti i cronisti (tranne Lirio Abbate). I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana, scrive Damiano Aliprandi il 31 Maggio 2018 su "Il Dubbio". I giornalisti coinvolti nell’informativa legata all’operazione giudiziaria del tribunale di Caltanissetta “Double Face” approdano alla Commissione regionale antimafia siciliana. Ma, per ora, è il giornalista Lirio Abbate il grande assente nell’elenco dei nomi dei cronisti che, secondo l’agenzia Ansa, sfileranno davanti alla Commissione sul “sistema Montante”. Aspetto controverso di una vicenda giudiziaria che diventa di ora in ora più delicata al punto che da lunedì scorso Maria Carmela Giannazzo, presidente della sezione Gip e Gup del Tribunale di Caltanissetta firmataria delle ordinanze dell’inchiesta è sotto scorta. La decisione è stata adottata dal Comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica riunitosi nei giorni scorsi alla prefettura di Caltanissetta. Al magistrato che ha anche firmato i provvedimenti dell’inchiesta sull’ex presidente della sezione Misure di Prevenzione del Tribunale di Palermo, Silvana Saguto, è stata assegnata un’auto blindata con una scorta di terzo livello. Intanto la Commissione antimafia siciliana ha fornito un lungo elenco di politici e dirigenti dell’amministrazione regionale. Ma in particolare saranno anche ascoltati diversi giornalisti per capire l’eventuale ruolo che avrebbero avuto per agevolare il “sistema Montante” e gli eventuali benefici che avrebbero ricevuto. Il presidente dell’Antimafia, Claudio Fava, ha fornito in conferenza stampa, a Palazzo dei Normanni, un elenco di nomi, alcuni dei quali compaiono nella informativa ( riportata ieri dal Dubbio) che la polizia giudiziaria ha consegnato alla Dda di Caltanissetta e acquisita dalla commissione, mentre altri come i giornalisti Attilio Bolzoni, Giampiero Casagni, Antonio Fraschilla, Accursio Sabella, Mario Barresi – risultano tra coloro che venivano osteggiati dal “sistema” dell’ex presidente della Confindustria siciliana, arrestato per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione. La Commissione antimafia si avvarrà del supporto come consulente a titolo gratuito dell’ex magistrato Gioacchino Natoli, in pensione da qualche mese. «Non ci sovrapporremo all’inchiesta giudiziaria che si concentra sull’esistenza di fattispecie penali – ha detto Fava nella conferenza stampa -. Noi intendiamo indagare sulle distorsioni dei processi politici e di spesa, per noi è urgente e indifferibile. Pensiamo che questo “sistema Montante” di un governo parallelo abbia ancora i suoi addentellati all’interno dell’amministrazione regionale». Nell’elenco dei convocati dalla Commissione appaiono alcuni cronisti citati nell’informativa e che avrebbero avuto legami con il “sistema Montante”: Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza de Il Fatto Quotidiano, Giuseppe Sottile de Il Foglio, l’ex direttore di Panorama Giorgio Mulè e Roberto Galullo de Il Sole 24 ore. A chi ha chiesto il motivo per cui nella lista dei cronisti che saranno auditi non figurano i nomi di altri giornalisti citati nell’informativa della polizia giudiziaria, su cui considerati gli omissis forse ci sono indagini in corso, Fava ha risposto: «È probabile che l’elenco si allargherà in corso d’opera». All’appello infatti manca il giornalista de l’Espresso Lirio Abbate. Dall’informativa il suo nome viene fuori a partire dalla testimonianza resa da Maria Sole Vizzini, revisore contabile dell’Ast, a proposito del tentativo di fusione tra la stessa società e la Jonica Trasporti, partecipata della Regione di cui Montante possedeva una piccola quota che, in caso di fusione e successiva privatizzazione dell’Ast, avrebbe comportato per Montante il diritto di prelazione sull’acquisto delle azioni in vendita. È nell’informativa che si legge «i legami dell’Abbate Lirio con il Montante sono cristallizzati agli atti d’indagine». In effetti gli inquirenti alludono al file excel denominato “copia di appunti in ordine cronologico” dove nella cartella “tutti” si rintracciano gli appunti relativi agli incontri di Montante con il giornalista, rassegnati in una tabella. Elencati per data, compaiono meticolosamente raccolti gli appuntamenti delle singole occasioni di incontro, specificati uno per uno sotto la voce “descrizione”. Gli inquirenti inseriscono cosi nell’informativa l’estratto della tabella che dal 2008 al 2014 con cadenze diverse, elenca le occasioni, e le descrive come cene, colazioni, appuntamenti, gite in barca; anche gli orari sono specificati nei dettagli cosi come le persone eventualmente presenti nelle circostanze. A giudicare dall’agenda Excel che raccoglie gli appuntamenti, se fosse stato chiamato dalla Commissione, Abbate avrebbe potuto chiarire agli inquirenti con chi fosse in barca nel giorno 15.8.2012 assieme a Montante, Venturi e tale Antonio I. di cui il Montante non indicò il cognome, a differenza di ogni altra indicazione sull’agenda, sempre molto dettagliata sulle identità dei presenti. A parte l’elencazione delle occasioni e la loro descrizione, nell’informativa la posizione di Abbate rispetto all’inchiesta degli inquirenti nei rapporti di Montante con la stampa, si concentra sulla vicenda in cui il giornalista era intervenuto personalmente a muovere gli animi nella direzione della fusione che il Montante auspicava: si tratta, come già descritto, della fusione tra la Ats e una sua partecipata; fusione tanto voluta dal Montante, che deteneva il 49% della partecipata, quanto osteggiata dal revisore contabile di Ats e dal Presidente avvocato Giulio Cusumano. Accadeva che in momenti diversi e con modalità distinte, l’Abbate risultava entrato in contatto con la vicenda, quando aveva riferito alla Vizzini – come disse la stessa sentita a testimone dagli inquirenti – di «usare il fioretto» sulla proposta della fusione; mentre sulla posizione dell’avvocato Cusumano si era preoccupato, a detta della stessa testimone, di contattarla telefonicamente per sapere se fosse a conoscenza di qualche informazione sulla vita privata di quest’ultimo o su situazioni giudiziarie che avessero riguardato i familiari. La particolarità segnalata dalla teste Vizzini fu che il Cusumano aveva rappresentato qualche tempo prima alla stessa – come si legge nella testimonianza contenuta nell’informativa agli atti – che due soggetti, travisati parzialmente in viso con delle sciarpe, lo avevano avvicinato, minacciandolo che se avesse osteggiato la fusione, avrebbero reso note personali vicende della sua vita sfera privata e vecchie vicende giudiziarie che avevano attinto suoi familiari in passato.
Mafia capitale, 19 anni a Buzzi e 20 a Carminati. Ma per i giudici non è una cupola. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze, scrive il 20 luglio 2017 "Il Dubbio". 20 anni di carcere per Massimo Carminati e 19 anni per Salvatore Buzzi. E’ la sentenza di primo grado del processo Mafia Capitale. Dunque, secondo i giudici di Roma, l’organizzazione capitanata da Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non è stata una vera associazione mafiosa. La sentenza è stata letta davanti a centinaia di giornalisti e tv provenienti da tutto il mondo. I due principali imputati, Salvatore Buzzi e Massimo Carminati, hanno ascoltato le parole della presidente Rosanna Ianniello in videoconferenza. In aula non c’era il procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone mentre c’era la sindaca Virginia Raggi. La sentenza è arrivata dopo quasi due anni di dibattimento e 240 udienze. Alla sbarra erano finiti 46 imputati, 19 con l’accusa di 416 bis, vero terreno di battaglia di questo maxiprocesso tenutosi, al ritmo di 4 udienze a settimana, nell’aula bunker di Rebibbia, fatta eccezione per la prima a piazzale Clodio. Un’associazione che, secondo la Procura di Roma, “usando il metodo mafioso”, fatto di assoggettamento, intimidazione e omertà, avrebbe messo le mani su gare e appalti della pubblica amministrazione, dai rifiuti ai profughi al verde pubblico, grazie anche ai politici messi a libro paga. Da destra a sinistra nessuno escluso perché, come ha detto Buzzi in collegamento dal carcere di Tolmezzo, “non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo”.
Mafia Capitale, 20 anni a Carminati e 19 a Buzzi: la lettura della condanna. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso.
Mafia Capitale, il procuratore Ielo: ''Sentenza ci dà in parte torto, ma la delusione non ci appartiene''. Il procuratore aggiunto Paolo Ielo commenta la sentenza della decima sezione del Tribunale di Roma del Processo Mafia Capitale che non ha riconosciuto le accuse di associazione mafiosa.
Mafia Capitale, legale Carminati: ''Sconfitta di Pignatone, sono solo quattro cazzari''. "Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi". Lo ha detto l'avvocato di Massimo Carminati, Bruno Giosuè Naso, commentando la sentenza del processo a Mafia Capitale nell'aula bunker di Rebibbia. Interrogato poi da una giornalista, l'avvocato conferma quanto detto tempo fa in merito a quella che lui stesso definisce "la banda del benzinaro": "Sono solo quattro cazzari".
Mafia Capitale, legale Buzzi: ''Provata l'inesistenza della mafiosità''. "Né Salvatore Buzzi né Massimo Carminati sono mafiosi. Questa è una pietra miliare, una lezione di diritto della quale qualcuno dovrà prendere atto". A dirlo è Alessandro Diddi, l'avvocato di Salvatore Buzzi, al termine della lettura della sentenza di Mafia capitale che ha condannato il ras delle cooperative a 19 anni di reclusione. "Erano i pubblici ufficiali a rivolgersi a Buzzi, e non lui a intimidirli", ha sottolineato il legale.
L'avvocato di Massimo Carminati Giosuè Naso, al termine della sentenza che ha visto decadere l'accusa per associazione mafiosa del suo assistito, nell'aula bunker di Rebibbia ingaggia una lite con un funzionario di polizia e viene portato via. La figlia Ippolita, anch'essa avvocata, chiede ironicamente se il padre sia stato arrestato. Contattato successivamente al telefono, l'avvocato Naso ha fatto sapere che si sarebbe trattato di "sciocchezze", senza fornire ulteriori spiegazioni.
Roma. “Mafia Capitale”…anzi no! Adesso bisognerà cambiare nome…?!? Scrive il 20 luglio 2017 Antonello de Gennaro su "Il Corriere del Giorno". Caduta l’associazione mafiosa richiesta dalla procura romana. E’ stata vana la inutile passerella del Sindaco di Roma Virginia Raggi. La decisione della 10ma sezione penale del Tribunale di Roma è la sconfitta delle etichette della informazione “forcaiola” e serva della pessima politica. Nella sentenza è stata esclusa sia la natura del sodalizio mafioso ex art 416 bis del codice penale, sia la presenza dell’aggravante del “metodo mafioso” prevista dall’art. 7 D.L. 152/1991 convertita con Legge 203/1991. In definitiva si è trattato il processo a due associazioni a delinquere semplici. Al termine del processo il Tribunale di Roma ha condannato Salvatore Buzzi a 19 anni di reclusione, 20 anni per Massimo Carminati, 11 per Luca Gramazio, ex capogruppo del Pdl in Comune. Caduta quindi l’accusa di associazione mafiosa a 19 imputati del processo a mafia capitale, tra cui i presunti capi Carminati e Buzzi. Per l’ex presidente dell’assemblea Capitolina Mirko Coratti la corte ha stabilito una pena di 6 anni di reclusione. Luca Odevaine, ex responsabile del tavolo per i migranti, è stato condannato a 6 anni e 6 mesi. Undici anni per Ricardo Brugia il presunto braccio destro di Carminati, 10 per Franco Panzironi l’ex Ad di Ama. L’ex minisindaco del municipio di Ostia, commissariato per infiltrazione mafiose, Andrea Tassone è stato condannato a 5 anni. Su 46 imputati tre sono stati assolti. Si tratta di Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, per i quali la Procura aveva chiesto 16 anni di carcere, e l’ex dg di Ama Giovanni Fiscon, per il quale erano stati chiesti 5 anni. Secondo l’accusa Rotolo e Ruggiero avrebbero garantito i contatti tra “Mafia Capitale” ed ambienti della ‘ndrangheta. I giudici della decima Corte presieduta da Rosanna Ianniello hanno inflitto oltre 250 anni di carcere, dimezzando di fatto le pene rispetto alle richieste della Procura che aveva proposto per tutti gli imputati 5 secoli di carcere. I giudici hanno detto che “la mafia a Roma non esiste, come andiamo dicendo da 30 mesi” ha dichiarato soddisfatto l’avvocato Giosuè Naso difensore di Massimo Carminati. “La presa d’atto della inesistenza dell’associazione mafiosa – ha aggiunto – ha provocato una severità assurda e insolita. Mai visto che a nessuno di 46 imputati non venissero date attenuanti. Sono pene date per compensare lo schiaffo morale dato alla procura”. I giudici della X sezione del Tribunale di Roma sono stati chiamati a giudicare i 46 imputati del processo denominato “Mafia Capitale”, l’associazione che avrebbe condizionato la politica romana, guidata da l’ex Nar Massimo Carminati e dal ras delle cooperative Salvatore Buzzi. Il presidente della Corte Rosanna Ianniello, prima di entrare in camera di consiglio, ha ringraziato il “personale amministrativo” del tribunale, “senza il quale non sarebbe stato possibile portare a compimento il processo” e i tecnici, che hanno “lavorato con competenze e dedizione”. Un ringraziamento, da parte del presidente, anche alla procura, in particolare al pm Luca Tescaroli, che “si è contraddistinto per la professionalità” ed agli avvocati difensori.
Mafia Roma: pm Ielo, sentenze si rispettano – “Questa sentenza riconosce un’associazione a delinquere semplice, non di tipo mafioso. Sono state date anche condanne alte. Rispettiamo la decisione dei giudici anche se ci danno torto in alcuni punti mentre in altri riconoscono il lavoro svolto in questi anni. Attenderemo le motivazioni”. Lo afferma il procuratore aggiunto Paolo Ielo dopo la sentenza della X sezione penale del Tribunale di Roma.
Carminati a legale, “avevi ragione tu, sono soddisfatto” – “Avevi ragione tu, sono soddisfatto”. Queste le parole pronunciate da Massimo Carminati parlando con la sua legale Ippolita Naso, commentando la sentenza che lo condanna a 20 anni, anziché a 28 anni, non essendo stata riconosciuta l’associazione mafiosa. L’avvocato era convinto che l’associazione mafiosa non sarebbe stata riconosciuta e così è stato. “Avevi ragione tu”, le ha quindi detto Carminati. “Ora mi devono togliere subito dal 41 bis”. E’ la prima richiesta che Massimo Carminati ha rivolto al suo avvocato subito dopo la lettura delle sentenza della X sezione penale del tribunale di Roma che non ha riconosciuto l’esistenza dell’associazione mafiosa. “Non me lo aspettavo – ha aggiunto l’ex Nar al telefono con l’avvocato – avevi ragione tu ad essere ottimista”. “Carminati temeva – ha detto l’avvocato Naso – che le pressioni mediatiche avessero portato ad un esito negativo per lui”.
Buzzi a legali, ora quando esco da carcere? – “Ora quando esco?”: questo il primo commento di Salvatore Buzzi dopo la lettura della sentenza per i 46 imputati di mafia capitale, esprimendo felicità per l’esito del processo. “Mi auguro – ha aggiunto parlando con il suo avvocato – che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire”. Condanne esemplari per tutti gli imputati per alcuni anche superiore alle richieste del pm ma non si tratta di un’associazione mafiosa. In 41 sono stati condannati e in 5 assolti.
Ecco tutte le condanne: Massimo Carminati 20 anni; Salvatore Buzzi anni 19 anni; Riccardo Brugia 11 anni; Fabrizio Testa 11 anni; Luca Gramazio 11 anni; Franco Panzironi 10 anni; Cristiano Guarnera 4 anni; Giuseppe Ietto 4 anni; Claudio Caldarelli 10 anni; Agostino Gaglianone 6 anni e 6 mesi; Carlo Pucci 6 anni; Roberto Lacopo 8 anni; Matteo Calvio 9 anni; Nadia Cerrito 5 anni; Carlo Maria Guarany 5 anni; Paolo Di Ninno 12 anni; Alessandra Garrone 13 anni e 6 mesi; Claudio Bolla 6 anni; Emanuela Bugitti 6 anni; Stefano Bravo 4 anni; Mirko Coratti 6 anni; Sandro Coltellacci 7 anni; Michele Nacamulli 5 anni; Giovanni De Carlo 2 anni e 6 mesi; Antonio Esposito 5 anni; Giovanni Lacopo 6 anni; Franco Figurelli 5 anni; Claudio Turella 9 anni; Guido Magrini 5 anni; Sergio Menichelli 5 anni; Marco Placidi 5 anni; Mario Schina 5 anni e 6 mesi; Mario Cola 5 anni; Daniele Pulcini 1 anno; Angelo Scozzafava 3 anni; Andrea Tassone 5 anni; Giordano Tredicine 3 anni; Luca Odevaine 6 anni e 6 mesi; Pierpaolo Pedetti 7 anni; Tiziano Zuccolo 3 anni e 3 mesi; Pierina Chiaravalle 5 anni.
Questi gli assolti: Giovanni Fiscon assolto; Rocco Rotolo assolto; Salvatore Ruggero assolto; Giuseppe Mogliani assolto; Fabio Stefoni assolto.
Mafia Capitale non esiste. 20 anni per Carminati ma è un "delinquente abituale". Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette la parola fine al maxi processo durato due anni. Condanne pesanti ma non per 416 bis. Nervi tesi per l'avvocato Naso che dà in escandescenze e viene portato via dalla polizia, scrive Giovanni Tizian e Federico Marconi il 20 luglio 2017 su "L'Espresso". Mafia Capitale non esiste. La storia si ripete. Come ai tempi della banda della Magliana, per il tribunale di Roma non esiste organizzazione mafiosa locale nella città eterna. Svanisce in mezz’ora, il tempo della lettura del verdetto. La Corte d’Assise ha condannato Massimo Carminati a 20 anni e Salvatore Buzzi a 19 ma non per 416 bis, cioè il reato di associazione mafiosa. Il verdetto della Corte d’Assise di Roma mette così la parola fine al maxi processo durato due anni e 240 udienze. I giudici riconoscono due associazioni, semplici, con a capo Carminati. In una di queste hanno confermato il ruolo centrale di Salvatore Buzzi, braccio economico della “banda”. Secondo i giudici, inoltre, il “Cecato” è un delinquente abituale. Dopo tre ore di camera di consiglio è arrivata la sentenza del maxiprocesso Mafia Capitale. Dopo 230 udienze la X sezione penale del Tribunale di Roma in primo grado di giudizio ha condannato Massimo Carminati a 20 anni di reclusione, mentre quelli che dovrà scontare Salvatore Buzzi sono 19. Cade invece l'accusa per associazione di stampo mafioso. La sentenza è arrivata poco dopo le 13, in un aula gremita di giornalisti. Nelle gabbie di Rebibbia una decina gli imputati detenuti. Tre, tra cui Carminati, erano collegati dal 41 bis in videoconferenza. In fondo all’aula parenti e amici degli imputati. Tra loro Il fratello di Massimo Carminati, Sergio, e il leader di Militia Maurizio Boccacci. Alla lettura delle prime pesanti condanne alcune donne hanno pianto, altre hanno gioito per le assoluzioni. Tra i banchi delle parti civili, invece, era presente anche la sindaca di Roma, Virginia Raggi. “È una giornata importante” ha commentato la sindaca appena entrata in aula, una ventina di minuti prima dell’ingresso della Corte. Raggi che oggi scopre di governare una città in cui la mafia non c’è mai stata. Dai tempi della Banda della Magliana, nessun processo ha mai riconosciuto l’associazione mafiosa ai gruppi criminali imputati. Tra i 41 condannati, pene pesanti anche per Alessandra Garrone (13 anni e 6 mesi), Fabrizio Testa (12), Luca Gramazio (11), Luca Brugia (11), Franco Panzironi (10), Luca Odevaine (8), Mirko Coratti (6 anni) e Giordano Tredicine (3). Condannato, inoltre, Andrea Tassone, ex presidente del municipio di Ostia, poi sciolto per mafia, e Luca Odevaine, il regista del business dei migranti, a 8 anni complessivi. La pena di 9 anni è stata inflitta a Matteo Calvio, detto “Spezza pollici”, ritenuto il tirapiedi del capo dell’associazione Massimo Carminati. Paolo Ielo, procuratore aggiunto di Roma, ha dichiarato: «La sentenza in parte ci dà torto ma aspettiamo di leggere le motivazioni». Era evidente la delusione negli sguardi di chi ha condotto le indagini sul gruppo Carminati. Le difese, invece, nonostante le pene comunque alte, si ritengono soddisfatte della decisione della corte. Alcuni degli imputati a piede libero hanno esultato, uno di loro rivolgendosi all’inviato di Repubblica ha chiesto: «E mo che vi inventate?». Mezz’ora dopo la lettura della sentenza, la tensione non è calata. Nervi tesi per l’avvocato di Carminati, Domenico Naso. Dopo la soddisfazione per il verdetto che cancella il reato di mafia, l’avvocato ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono accesi e c’è stato un battibecco con l’agente, che ha chiesto a Naso di seguirlo al posto di polizia. L'avvocato Naso, legale di Carminati va in escandescenza alla fine della sentenza. Ha avuto un diverbio con i poliziotti di guardia. I toni si sono esasperati e l'avvocato è stato portato al posto di polizia. Alla fine il dirigente della polizia ha calmato la situazione.
Perché "Mafia Capitale" è stata archiviata. Tra i 113 prosciolti anche Alemanno e Zingaretti. Ecco chi erano gli indagati e perché sono stati scagionati, scrive l'8 febbraio 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. Mafia Capitale è stata archiviata. Non sono emersi "elementi idonei a sostenere l'accusa in giudizio" e così la posizione di 113 indagati nell'inchiesta viene, appunto, archiviata perché il reato al centro di tutte le indagini, l’associazione di stampo mafioso regolata dall’articolo 416 bis, non sussiste. L'ex sindaco Gianni Alemanno, scagionato. L'ex amministratore delegato di Eur S.p.A, Riccardo Mancini, scagionato. E scagionati anche gli avvocati Michelangelo Curti, Domenico Leto e Pierpaolo Dell'Anno. Idem per il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti e il suo ex capo di gabinetto Maurizio Venafro. Disposta in camera di consiglio la restituzione degli atti al pubblico ministero di Salvatore Forlenza, Salvatore Buzzi, Carminati e Giovanni Fiscon, all'epoca direttore generale della municipalizzata, dell’ex presidente della commissione Bilancio del comune, Alfredo Ferrari e dell’ex consigliere comunale della lista civica “Marino sindaco” Luca Giansanti. L'elenco è lungo, i nomi si sprecano. Le accuse, no. Il blitz era partito nel 2014 con gli arresti delle prime 37 persone. Un vero e proprio terremoto nella vita istituzionale della Capitale che da quel momento era diventata mafiosa. Il primo ad essere bloccato infatti nell'operazione "Mondo di mezzo" era stato il già citato capo del Clan, Massimo Carminati, ex Nar ed ex appartenente alla Banda della Magliana, sotto processo per il 416bis, e ora invece scagionato dalla contestazione di associazione per delinquere finalizzata a rapine e riciclaggio (come per Ernesto Diotallevi e Giovanni De Carlo, che erano sospettati di essere a Roma i referenti di Cosa Nostra, oggi salvi). Con Carminati all'epoca erano finiti in manette anche ex amministratori locali, manager di municipalizzate e imprenditori per associazione a delinquere di stampo mafioso. Tra quei nomi c'era anche quello di Gianni Alemanno. In particolare per l'ex sindaco di Roma le accuse erano più di una: corruzione e illecito finanziamento. Ma nei suoi confronti dell'ex sindaco i pm contestavano anche il reato di associazione a delinquere di stampo mafioso, appunto, e quello di aver ricevuto somme di danaro per il compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio, attraverso la fondazione Nuova Italia di cui era presidente. In ballo, 125 mila euro per i fondi illeciti ricevuti tra il 2012 ed il 2014. Alemanno poi avrebbe preso anche 75 mila euro camuffati da finanziamento per cene elettorali, 40 mila euro che gli sarebbero stati erogati per la Nuova Italia, più altri 10 euro ma senza una causale. Ma, se di mafia non si può più parlare, per lui restano ancora in piedi le accuse per corruzione e finanziamento illecito, l'altro filone di indagine per cui andrà a processo a maggio prossimo. Il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, era saltato fuori invece come indagato per sospetto concorso in corruzione per due episodi risalenti 2011 e nel 2013 e per turbativa d'asta a causa delle dichiarazioni di Salvatore Buzzi, fondatore della cooperativa di ex carcerati “29 Giugno” a capo anche lui di un’organizzazione di tipo mafioso. Principale imputato nell'inchiesta, Buzzi avrebbe raccontato alla magistratura ciò che c'era dietro il nuovo palazzo della Provincia dell'Eur, ossia che l'amministratore Zingaretti avrebbe acquistato prima della sua costruzione. In archivio alcune accuse anche per Maurizio Venafro, indagato per corruzione, la ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi, indagata per concorso in corruzione, l'ex consigliere comunale della lista Marchini, Alessandro Onorato, anche lui indagato per concorso in corruzione, il presidente del Consiglio regionale Daniele Leodori, per turbativa d'asta, e per l'ex delegato allo sport della Giunta Alemanno Alessandro Cochi. Nell'elenco dei prosciolti figurano anche i nomi degli imprenditori Luca Parnasi, Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak e Gianluca Ius, e poi Leonardo Diotallevi, figlio di Ernesto, l'allora capo della segreteria personale di Alemanno Antonio Lucarelli e l'ex consigliere di Roma Multiservizi Stefano Andrini. Resta accusato di mafia invece il consigliere regionale di Forza Italia, Luca Gramazio che il gip Flavia Costantini, nell'ordinanza che ha portato al suo arresto nel 2015 sosteneva: "Mette al servizio dell'organizzazione le sue qualità istituzionali, svolge una funzione di collegamento tra l'organizzazione la politica e le istituzioni, elabora, insieme a Testa, Buzzi e Carminati, le strategie di penetrazione della Pubblica Amministrazione, interviene, direttamente e indirettamente nei diversi settori della Pubblica Amministrazione di interesse dell’associazione". Niente mafia insomma, o quasi. Perché, come scrive Andrea Feltri su La Stampa, la Piovra che ha stritolato Roma è solo un moscardino.
L'insano sollievo. L'editoriale di Mario Calabresi del 21 luglio 2017 su “La Repubblica". La sentenza sul processo Mafia Capitale porta a 250 anni di condanne ma i giudici hanno bocciato l'aggravante sull'associazione mafiosa. Quando la politica di una città, di fronte a condanne per 250 anni di carcere, festeggia ci sarebbe da essere contenti. Ma se si ascolta meglio e si scopre che non si festeggia perché giustizia è stata fatta bensì perché i criminali che dominavano la scena sono riconosciuti delinquenti però non mafiosi, allora c’è davvero da avere paura. Quando ci si sente sollevati perché i Palazzi erano infiltrati fino al midollo da un’associazione criminale che non può essere definita mafiosa, allora si è perduti. Amare Roma significa fare pulizia, non continuare a nascondere la spazzatura della corruzione, del malaffare e della criminalità organizzata dietro una rivendicazione d’orgoglio posticcio. Significa fare i conti davvero e fino in fondo con una città che è diventata capitale dello spaccio di cocaina, in cui il crimine controlla gangli economici vitali. Le sentenze si rispettano ma la sensazione di sollievo che si è diffusa ieri sembra portare le lancette del tempo molto indietro, a quegli anni in cui si negava la ‘ndrangheta in Piemonte o in Emilia, in cui si scuoteva la testa indignati all’idea che i clan stessero conquistando tutto l’hinterland milanese. E sappiamo quali danni abbiano fatto decenni di sottovalutazione politica dei fenomeni mafiosi. Ora a Roma si stabilisce che è la geografia a definire i fenomeni e non i fenomeni a riscrivere la geografia. La mafia è tornata ad essere cosa siciliana, nessuno si permetta più di immaginare che sopra il Garigliano nuovi clan autoctoni possano utilizzare modalità che sono proprie delle associazioni di stampo mafioso. Possiamo andare a dormire tranquilli, magari dopo aver fatto un brindisi. Ma chiudete bene la porta e assicuratevi che i ragazzi siano in casa.
Mafia Capitale da oggi è Mazzetta Capitale: la sconfitta della Procura e l’esultanza dei condannati. La sentenza di primo grado stabilisce che non si è trattato di associazione mafiosa, ma di associazione «semplice». Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni, l’apporto dell’ex estremista nero Carminati al sistema corruttivo del rosso Buzzi, scrive Giovanni Bianconi il 20 luglio 2017 su "Il Corriere della Sera". Non era un’associazione mafiosa, bensì un’associazione per delinquere «semplice». Anzi, due: una più piccola, quella del benzinaio di corso Francia, dedita per lo più alle estorsioni; l’altra più grande e strutturata, messa in piedi per corrompere la pubblica amministrazione. Entrambe incarnate da Massimo Carminati, l’ex estremista nero divenuto criminale comune di peso ma non un boss, evidentemente. Non più Mafia Capitale, insomma, ma Mazzetta capitale. Un sistema nel quale più dell’assoggettamento e dell’intimidazione imposta dalla caratura del bandito con un occhio solo ha inciso la compravendita dei politici esercitata da Salvatore Buzzi, il capo delle cooperative sociali. Un «mondo di mezzo» diverso da quello disegnato dall’accusa, che aveva sommato la «riserva di violenza» garantita dagli ex picchiatori degli anni Settanta divenuti malavitosi di strada alla corruzione praticata sistematicamente da imprenditori spregiudicati; la prima metà del sodalizio è caduta, lasciando in piedi la seconda che rientra in un contesto molto più «normale», accettabile e digeribile da una città come Roma. È il motivo per cui gli imputati esultano, insieme ai loro avvocati, a dispetto di pene molto severe inflitte dalla X sezione del Tribunale di Roma: vent’anni di carcere per Carminati, 19 per Buzzi e a scendere quasi tutti gli altri (solo 5 dei 46 accusati sono stati assolti), con una scala di responsabilità che dal punto di vista dei ruoli attribuiti ai singoli personaggi sembra seguire l’impostazione dei pubblici ministeri. Ma la vera posta in gioco era un’altra: la scommessa di una nuova associazione mafiosa, originale e originaria, autoctona e autonoma, diversa da tutte le altre contestate finora, che da oggi non è più nemmeno presunta. Semplicemente non c’è, perché così hanno deciso i giudici del Tribunale, dopo che altri giudici l’avevano invece riconosciuta: il gip che ordinò gli arresti a fine 2014, il tribunale del Riesame che li confermò e persino la Cassazione, che aveva ribadito come non fosse necessario il controllo del territorio né l’esercizio della violenza; bastava la minaccia, anche implicita, e la corruzione del sistema politico che era da considerarsi l’arma principale a disposizione di una nuova mafia. Questo impianto, dopo un anno e mezzo di dibattimento e 250 udienze, non ha retto. Il tribunale composto da tre magistrati ha ritenuto (probabilmente a maggioranza, due contro uno, ma sono solo rumors non verificabili che non tolgono nulla al peso della decisione) che la minaccia insita in una personalità dal passato turbolento come quella di Carminati non fosse sufficiente a configurare neanche quel «metodo mafioso» che ormai da tempo ha superato i confini siciliani o calabresi, dove viene praticato da decenni. Era la sfida della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, il magistrato che dopo aver contrastato Cosa nostra e ’ndrangheta ha applicato (insieme ai suoi aggiunti e sostituti, e ai carabinieri del Ros che molto hanno creduto e investito su questa indagine) quel metodo investigativo e quel reato a questo frammento di criminalità romana che ha aggredito la pubblica amministrazione. Sfida persa. Resta da capire, e dovranno spiegarlo le motivazioni della sentenza, quale apporto ha portato l’ex estremista nero all’associazione corruttiva del rosso Buzzi, se non la «riserva di violenza» negata dai giudici. Nell’attesa, ci si dividerà tra l’esultanza di chi ha sempre definito tutta questa costruzione nient’altro che una fiction a vantaggio di qualche carriera, una «mafia all’amatriciana» inventata a tavolino per i motivi più disparati, e il rammarico di chi dirà che Roma sconta un ritardo culturale nella lotta al crimine e ha perso un’occasione storica per impedire che tutto prima o poi si annacqui, finisca sotto la sabbia o si perda nelle nebbie mai completamente diradate. Divisioni inevitabili di fronte a un’accusa tanto clamorosa quanto inedita, che ha tenuto banco per quasi tre anni e ha avuto indiscutibili ricadute politiche. Finendo per travolgere le due precedenti giunte comunali e mettendo qualche premessa per l’avvento di quella nuova (non a caso ieri la sindaca Raggi s’è presentata in aula per assistere personalmente all’ultimo atto). Ma è evaporata in meno di un’ora, il tempo necessario a leggere il dispositivo della decisione; polemiche e letture contrapposte sono garantite. Tuttavia al di là della sconfitta subita dai pubblici ministeri — parziale e non definitiva, ché le condanne ci sono comunque state e per il resto ci saranno gli altri gradi di giudizio — restano l’importanza e il peso di un’inchiesta e di un verdetto che hanno scoperchiato il grande malaffare di Roma. Con pene molto pesanti che, se da un lato aumentano il valore per l’assoluzione dall’accusa di mafia, dall’altro hanno il sapore del contrappeso confermando la gravità di quanto scoperto: dai 10 anni di carcere inflitti a uno dei principali collaboratori dell’ex sindaco Alemanno (a sua volta imputato per corruzione in un processo parallelo) ai 10 per l’ex presidente del Consiglio comunale con la giunta Marino. Sintomo di un’infiltrazione criminale, seppure non mafiosa, che non aveva confini politici e ha condizionato l’amministrazione della Capitale d’Italia.
Cari giudici di Mafia capitale, è l’ora di rileggere Sciascia, scrive Tommaso Cerno venerdì 21 luglio 2017 su "L'Espresso". «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». Abbiamo risentito la frase italiana per eccellenza: la mafia non esiste. Quella dei tempi d’oro. Quando la politica mangiava con loro e i giornalisti venivano ammazzati. Lo dicono ridacchiando mentre uno ‘Stato cecato’ ha inflitto oltre 280 anni di carcere a un’organizzazione criminale guidata da er Cecato vero, Massimo Carminati. Con una sentenza che ripulisce Roma dal lordume. Fra le risatine di avvocati entusiasti per avere mandato in galera i loro assistiti. Ridono perché questa è una sentenza pesante, ma che mostra una visione vecchia della mafia. E fa sembrare loro dei giuristi. Mentre ripetono quello che i mafiosi dicono dal carcere: la mafia non c’è. Un limite culturale dello Stato. Pur con sostanziali passi avanti rispetto agli anni delle assoluzioni choc, degli indulti a comando. Diciamo che qualcuno dovrebbe rileggersi Leonardo Sciascia. Se si ricorda chi sia. Denunciava già nel 1961 questa tendenza italica, quella di non sapere o volere adattare alla modernità la criminalità organizzata che cambia metodi e modi con maggiore velocità rispetto al codice penale: «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… ». A distanza di mezzo secolo da questa profezia, il tribunale infligge pene severissime ai criminali che avevano messo le mani su Roma, ma non cancella la parola “Forse” dalla più celebre citazione de “Il Giorno della Civetta”. E la mafia certamente ha ascoltato dalle sue lorde tane e dalle sue latitanze. Perché può stare certa che in un Paese come il nostro, invischiato in decine di scandali e omicidi, attovagliato spesso con loschi figuri, affermare in nome del popolo italiano che non solo non siamo riusciti a sconfiggere le mafie storiche, ma siamo stati capaci di farne crescere una nuova, nel cuore di Roma, già graziata ai tempi della Banda della Magliana, è roba troppo grossa per il nostro Stato. Lo sappiamo da anni. Una cosa buona c’è. L’organizzazione criminale di er Cecato, di quel Massimo Carminati, ex terrorista nero, viene smantellata da una condanna pesantissima. È un passo avanti. Ma non basta. L’organizzazione messa sotto i riflettori dall’Espresso nel 2012, quando Roma faceva finta di non conoscere quel signore che se ne stava seduto in un distributore di benzina facendo piedino a un pezzo di politica di tutti i colori, con lo stesso sguardo immobile che tenne durante il processo Pecorelli al fianco di Andreotti, va dietro le sbarre. Va detta una cosa: in Italia erano in molti a volersi levare di torno Carminati, come è stato, ma a non voler scoperchiare il marcio che nasconde quel suo mondo di mezzo. Sembra che la giustizia vada avanti, però a piccoli passi. Stavolta le pene ci sono, ma c’è pure l’ennesimo rinvio della grande questione che tiene impalata l’Italia. Siamo in grado di capire che la mafia non porta più la coppola, non usa i pizzini né carica la lupara? Non è facile. Per questo dico senza paura che questa condanna non è il migliore regalo di Stato alla memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nell’anniversario delle stragi. E ci costringe a rileggere parole che risuonano come una oscura profezia, anche se stentano a prendere vita dentro un’aula di giustizia. La mafia non è un demone, è normalità. Non è sangue, è aria che respiriamo: «Una associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento per i propri associati, e che si pone come elemento di mediazione tra la proprietà e il lavoro; mediazione, si capisce, parassitaria e imposta con mezzi di violenza». Lo scrisse Sciascia, appunto, nel 1957. Quando quei giudici erano bambini o nemmeno erano nati. Lo scrisse in nome suo. Incurante di loro. Prima o poi lo riscriveranno anche i giudici in una sentenza. In nome del popolo italiano. Quello che può vincere contro gli uomini, i mezz’uomini, gli ominicchi, i (con rispetto parlando) pigliainculo e i quaquaraqua. «Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sul giornale gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno... La linea della palma... Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato... E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma». Leonardo Sciascia, Il giorno della civetta, 1961
Non era Mafia Capitale (e qualcuno osò dirlo). Dure condanne ma nessuna conferma del 416 bis. Già nel 2015 Panorama aveva sollevato dubbi sulla coerenza giuridica dell'associazione mafiosa, scrive Maurizio Tortorella il 20 luglio 2017 su Panorama. Fin dal gennaio 2015, quando ormai da un mese in tutte cronache giudiziarie aveva fatto la sua comparsa quel nome impegnativo e sinistro, “Mafia Capitale”, Panorama aveva mostrato qualche perplessità tecnica sulla coerenza giuridica della principale accusa rivolta contro una sequela d’indagati e arrestati nell’inchiesta romana su corruzione e appalti pubblici. Oggi il processo si è concluso in primo grado con dure condanne, ma senza che la decima corte penale del Tribunale confermasse l’accusa del 416 bis, per nessuno dei 19 imputati (su un totale di 46) che la Procura romana aveva individuato come facenti parte di un’organizzazione criminale di stampo mafioso.
Quindi non è mafioso il neofascista Massimo Carminati, che pure è stato condannato a 20 anni di reclusione, e non lo è nemmeno Salvatore Buzzi, l’ex ergastolano per omicidio, poi redentosi e divenuto alfiere di alcune cooperative sociali (rosse) che a Roma e circondario facevano affari d’oro con gli immigrati (19 anni di carcere). Tra i condannati, sebbene anch’egli assolto dall'imputazione di mafia, compare anche Luca Odevaine, già capo di segreteria del sindaco Walter Veltroni e poi divenuto responsabile del “tavolo per i migranti”: 6 anni e 6 mesi di reclusione. Adesso, come sempre in questi casi, dovremo aspettare le motivazioni della sentenza per capire dove e perché gli inquirenti hanno sbagliato, o esagerato prospettando una specie di "416 bis alla romana". Certo, oggi tornano alla mente le parole del difensore di uno dei condannati, il consigliere regionale del Pdl Luca Gramazio (11 anni); intervistato da Panorama nell’ottobre 2015, l’avvocato Giuseppe Valentino aveva negato tutte le accuse, ma sull’associazione mafiosa si era inalberato con forza particolare: “Che mafia è quella che non usa le pistole ma il denaro per persuadere e corrompere? Qui c’è tutt’al più un sottobosco romano, un autentico suk, dove pullulano chiacchieroni e millantatori”. È evidente che l'avvocato Valentino almeno su quel punto aveva ragione: di certo, Cosa nostra, la 'ndrangheta e la camorra napoletana, cioè le associazioni mafiose che tutti noi purtroppo conosciamo, usano mezzi intimidatori molto più violenti di quelli utilizzati dagli imputati di Mafia Capitale. Ma oggi, dopo l'assoluzione da quell'accusa, tornano alla mente anche i fischi con i quali alcuni giornali-bandiera del populismo giudiziario avevano accolto quanti (su Panorama, ma anche sul Foglio o sul settimanale Tempi) a suo tempo mostravano perplessità per l’ipotesi “mafia a Roma”. Contro chi aveva osato scrivere che “l’associazione criminale che gravitava attorno a Salvatore Buzzi e a Massimo Carminati non può essere neppure lontanamente paragonata alla mafia. Non ci sono le pistole, l’omertà, l’organizzazione verticistica, il vincolo associativo…”. Nessuna polemica. Leggeremo le motivazioni. Solo il tempo di ricordare che in un altro primo grado, il 3 novembre 2015, c’era stata una sentenza anticipata, pronunciata in uno stralcio di processo per un imputato minore della grande inchiesta Mafia Capitale: Emilio Gammuto, accusato dalla Procura di Roma di corruzione e di associazione mafiosa, era stato condannato a 5 anni e 4 mesi di reclusione per entrambi i reati. In quel caso, i giornali-bandiera di cui sopra avevano brindato alla condanna, sbeffeggiando i garantisti d'accatto che si ostinavano a non vedere quanta mafia ci fosse nell'inchiesta. Gammuto era stato processato in anticipo rispetto al gruppone dei suoi colleghi imputati perché aveva scelto la formula del procedimento abbreviato. E la sua condanna (arrivata quasi un anno dopo l’emersione dell’inchiesta) era parsa confermare in pieno l’impianto accusatorio. Invece, lo scorso gennaio, in Corte d’appello Gammuto era stato assolto dal 416 bis. Si vedrà per tutti in Cassazione. Si vedrà anche se domattina, su certi giornali-bandiera, la sentenza della decima sezione penale di Roma verrà "rispettata e non criticata": sarebbe una delle auree (ed eccessive) leggi del populismo giudiziario. Ma si sa come finiscono certe cose...
L'eroe della sesta giornata. Mafia capitale e quegli esponenti del Pd rimasti immobili di fronte a anni di malaffare, scrive Giorgio Mulè il 12 dicembre 2014 su Panorama. Non ho letto tutti i documenti giudiziari a sostegno dell’operazione Mafia capitale. Ne ho letti a sufficienza, però, per farmi un’idea piuttosto circostanziata della vicenda. Dirò subito che, avendo compulsato decine di ordinanze di custodia cautelare su Cosa nostra, mi lascia molto perplesso l’attribuzione del marchio di mafia ai soggetti arrestati o indagati. Ci sono alcune vicende che fanno a cazzotti con la pretesa di avere a che fare con un’organizzazione sovrapponibile a Cosa nostra o che si vorrebbe pericolosa tanto quanto gli efferati delinquenti siciliani: a Roma, secondo quanto contestato nei capi di imputazione, ci sono presunti boss che si agitano per recuperare due assegni scoperti da 300 e 600 euro, addirittura colui che si vorrebbe come braccio destro di Massimo Carminati mette su un putiferio per far saldare un debito da 670 euro. Ora, va bene che c’è la crisi e siamo disposti a credere che il quartier generale di Mafia capitale sia presso un benzinaio, però c’è anche un minimo di dignità criminale da salvaguardare se bisogna dar retta alle stime che indicano in oltre 10 miliardi il fatturato di Mafia spa: insomma, Leoluca Bagarella (braccio destro di Totò Riina) non rischiava di finire in galera e sputtanare la "famiglia" per 670 euro, suvvia. L’avrebbero ucciso i suoi stessi compari per questa leggerezza. Transeat, i tempi cambiano e magari sono io a dovermi aggiornare. C’è però un punto del ragionamento degli inquirenti che mi appare così debole da non poter credere che abbia avuto l’avallo di una toga espertissima come il procuratore Giuseppe Pignatone. I magistrati sostengono infatti che Mafia capitale sia una sorta di gemmazione della Banda della Magliana, la stessa finita al cinema e in televisione con la superba trasposizione di Romanzo criminale. Ma stabilire in un atto giudiziario alla base di decine di arresti un nesso diretto tra lo share e la realtà significa conferire alla fiction carattere di verità oggettiva, il che a mio giudizio è una follia oltre che un pericolosissimo vulnus in sede di valutazione degli indizi da parte dei giudici. Eccoci a pagina 33 dell’ordinanza di custodia cautelare: "Il collegamento con la Banda della Magliana è, infatti, solo uno degli elementi su cui si fonda la forza di intimidazione della organizzazione che ci occupa (Mafia capitale, ndr), che si avvale di quella derivazione come strumento di rafforzamento della caratura e della immagine criminale dei suoi associati, sfruttando anche il 'successo mediatico' di quella organizzazione, successo che ne ha indubitabilmente sancito, almeno nell’immaginario collettivo (che però è ciò che conta in questo tipo di delitti), il carattere di mafiosità". Dopo aver letto questo ragionamento, per assurdo, un pubblico ministero particolarmente su di giri potrebbe perfino formulare un’ipotesi di reato di concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di sceneggiatori, registi e attori di Romanzo criminale che con la loro opera avrebbero dato un contributo occasionale a questa Cosa nostra all’amatriciana. Sopportata questa dissertazione giuridica, è il caso di fare altre considerazioni intorno alla vicenda. I reati contestati, i soggetti coinvolti e le dimissioni a catena seguite all’esplosione degli arresti all’interno della giunta di Roma imporrebbero un atto unilaterale di dignità politica da parte del sindaco Ignazio Marino: le dimissioni. Perché è questa l’unica strada percorribile rispetto all’ipotesi accusatoria (difficile da smontare in quanto a ruberie e deviazioni finanziarie) secondo la quale Carminati & c. facevano il bello e il cattivo tempo all’interno del Comune di Roma contando perfino sull’asservimento del funzionario che il sindaco aveva voluto come cerniera con il commissario Anticorruzione. Intendiamoci, sarebbe possibile anche uno scioglimento d’autorità da parte del ministero dell’Interno. A scorrere i decreti che dal Piemonte alla Sicilia hanno portato in un recentissimo passato a spazzare via giunte e consigli comunali senza tenere minimamente conto della presunzione di innocenza, non si comprende in verità come e perché Roma dovrebbe godere di un regime specialissimo di valutazione degli indizi. In realtà lo sappiamo perfettamente ed è questione squisitamente politica. Di opportunismo politico, meglio. Come potrebbe mai il Pd di Matteo Renzi accettare questo schiaffo planetario? Siamo alle comiche, ne converrete: c’è un sindaco che fino al momento della grande retata era bollato (giustamente) come inadeguato dai massimi dirigenti del suo partito, il Partito democratico, al punto da essere stato commissariato su due piedi. Scoppiata la bufera, pur di tenerlo in vita e non andare a elezioni, lo stesso Pd ha la faccia tosta di commissariare il commissario con un nuovo commissario. Inarrivabili. D’altronde ci tocca vivere il tempo degli eroi della sesta giornata, quello in cui – ricordate le Cinque giornate di Milano? – gli opportunisti mostrano il petto accaparrandosi meriti che non hanno. Come Marino, appunto. E come Renzi, il quale, pur di non prendere atto del fallimento di un partito che non ha saputo rifondare dal Veneto alla Sicilia, butta la palla altrove. Sarà allora arrivato il momento, dopo aver letto le malefatte contestate a Roma al cooperatore Salvatore Buzzi così coccolato dall’ex capo della Lega delle cooperative e attuale ministro del Lavoro Giuliano Poletti, di accendere un faro in tutta Italia sul business della misericordia sociale. E cioè su questo enorme calderone in cui – nel nome di un fine nobile come l’accoglienza degli immigrati, l’assistenza dei nomadi o il reinserimento dei detenuti – le coop la fanno da padroni. Si verifichino le convenzioni, le procedure di appalto, i contributi elargiti alle feste di partito e a manifestazioni di "impegno sociale". Il Pd si è dimostrato incapace di fare pulizia al suo interno nonostante sei mesi fa Renzi avesse invitato i suoi a denunciare il malaffare, a "salire i gradini dei palazzi di giustizia". La verità e che in quei palazzi molti esponenti del Pd i gradini li salgono, ma solo dopo che il malaffare è stato scoperto. E spesso per rispondere ad accuse gravissime. Infamanti, direi. Non solo per un partito, ma per una intera classe politica.
Mafia Capitale non esiste: e questa è la condanna senza appello per la politica romana. E così scopriamo che la politica romana è stata messa sotto scacco non dalla versione romana del Padrino, ma da una banale associazione di trafficoni. Serviva la procura per fermarli? O bastavano occhi aperti e un po’ di coraggio? Ci fossero stati, forse Roma non sarebbe nello stato in cui è ora, scrive Flavia Perina il 21 Luglio 2017 su "L'Inkiesta". Approfitta dei tassi più bassi dell'estate. Tuffati nell'offerta speciale che celebra i 40 anni di Mercedes-Benz Financial: TAN fisso di 0,90% o 1,90%, TAEG variabile a seconda del modello e un anno di RC Auto incluso.... Adesso lo sappiamo per sentenza: era Febbre da Cavallo, non il Padrino. E così, il verdetto di primo grado al processo di Mafia Capitale (che d'ora in poi converrà chiamare Non-Mafia Capitale) ha tra i suoi primi effetti collaterali la necessità di riconsiderare il rapporto tra la città di Roma, i principali partiti cittadini e le bande affaristiche che si muovevano (si muovono?) negli uffici capitolini. Qualificare queste bande come “mafia” ha salvato, in qualche modo, tutti quelli che a vario titolo si sono distratti davanti ai traffici di Salvatore Buzzi e Massimo Carminati. La mafia è cattivissima, la mafia uccide, contro la mafia fior fiore di classi dirigenti si sono squagliate perché nessuno è tenuto ad essere eroe: naturale che alti dirigenti, signori delle tessere, persino sindaci, a Roma come in passato a Palermo, si siano girati dall'altra parte e abbiano fatto finta di non vedere per non trovarsi – chissà – un Luca Brasi alla porta. Ma se non era mafia, se erano solo Mandrake, Er Pomata e Manzotin, il discorso cambia. Ed è molto più difficile spiegare perché ci siano voluti i magistrati per levare di mezzo questa ordinaria, banale associazione di trafficoni, provocando il terremoto che sappiamo. Non erano così spaventosi e minacciosi, quelli di Non-Mafia Capitale. E nemmeno così ricchi da potersi permettere le famose offerte “che non si possono rifiutare”. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” (98 milioni in dieci anni, tra il 2003 e il 2013) con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per un solo filone degli scandali milanesi di Expo, l'imprenditore vicentino Enrico Maltauro ha denunciato la richiesta di un milione e duecentomila euro di mazzette (poi ne versò 600mila). Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Insomma, Mandrake, Er Pomata e Manzotin, all'approdo del processo di primo grado, non solo risultano poco temibili ma anche piuttosto modesti nelle loro possibilità corruttive. Mettendo insieme gli appalti del consorzio di Cooperative della “29 Giugno” con i bonifici effettuati e le intercettazioni si è arrivati a un valore di corruzione pari più o meno a 500 mila euro. Per il Mose veneziano, secondo l'accusa, alcuni dirigenti del Consorzio Nuova Venezia, assegnatario esclusivo dell'appalto da 5,5 miliardi, avrebbero pagato in tangenti la colossale cifra di 22 milioni di euro. Ora che il tribunale ci ha restituito nelle giuste proporzioni il ritratto delle bande affaristiche del Comune di Roma, due sono le considerazioni. La prima riguarda la Procura romana che ha perseguito fino in fondo la “pista mafiosa”, e la scansiamo: ne parleranno altri, più esperti in questioni giudiziarie. La secondachiama in causa il sistema politico capitolino, tutto, la destra, la sinistra e pure il M5S, perchè le redini di questa città negli anni d'oro della coppia Buzzi&Carminati le hanno tenute tutti, da posizioni di governo o di opposizione, e col senno di poi è naturale chiedere: ma davvero vi siete fatti mettere nel sacco da questi? Davvero serviva la Procura per fermarne, o quantomeno denunciarne, i modesti traffici? Siete scemi o cosa? La città ha pagato un prezzo altissimo per lo scandalo e tutto ciò che ne è seguito. Il commissariamento del Pd, la fuga di molti suoi militanti disgustati, e dall'altra parte lo sputtanamento della destra con un analogo distacco di chi ci aveva creduto, il suo declino elettorale, l'eclissi politica di uno come Gianni Alemanno, che pure in città contava qualcosa. E poi, i nove mesi di calvario di Ignazio Marino, i cui uffici furono devastati dall'indagine e dagli arresti. L'imbarbarimento del confronto politico in città, la revoca della fiducia al sindaco da parte della sua maggioranza, il caos che ne è seguito con la parallela e inarrestabile ascesa del Movimento Cinque Stelle, che ha potuto proporsi come unica forza di moralizzazione in una Capitale che a un certo punto sembrava la Palermo di Ciancimino, o la Miami di Scarface. Non era vero. Era la solita Roma di sempre. La Roma dei «politici pezzenti», come Vittorio Sbardella chiamava i sottopanza che si sporcavano direttamente le mani con gli affari. La Roma del «Fra' che te serve», nella geniale sintesi di Franco Evangelisti, che pre-esiste a qualsiasi formula di governo cittadino e che è stata il sottotesto inespresso di ogni amministrazione. La solita Roma nella sua versione più basic, più elementare, la «mafia del benzinaro» come ha detto Massimo Carminati in aula, con il modesto potere di scambio di qualche spiccio per la campagna elettorale, di qualche centinaia di tessere comprate per vincere un congresso. Che la destra e la sinistra capitoline non siano riusciti a fermare neanche questi modesti delinquenti, a liberarsene, a tenerli nella regola in qualche modo, fa cadere le braccia. Per molti versi, sarebbe stato più consolatorio immaginarle distrutte da Don Vito Corleone piuttosto che da Er Pomata.
«Sì, li condanniamo, però non era mafia», scrive Simona Musco il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". L’ex sindaco Marino attacca: “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Ma Orfini: “Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”.
IL PROCESSO. Non c’era mafia a Roma, ma solo due associazioni a delinquere che si sono presi la città con corruzione e malaffare. Il processo “Mafia Capitale” dunque regge a metà: 41 le condanne e cinque le assoluzioni, ma con l’esclusione del metodo mafioso, quello che ha dato il nome all’intero processo. Il calcolo finale delle pene dimezza così il complessivo chiesto in aula dai magistrati. Quelle più alte sono andate ai due protagonisti dell’inchiesta: Massimo Carminati, l’ex Nar, condannato a 20 anni, contro i 28 chiesti dall’accusa, e Salvatore Buzzi, il ras delle cooperative, condannato a 19 anni a fronte dei 26 richiesti. L’ex vicepresidente della sua cooperativa, la “29 giugno”, Carlo Guaray, per il quale avevano chiesto 19 anni, è stato condannato a cinque. Il X collegio penale presieduto da Rossana Ianniello ha iniziato a leggere la sentenza alle 13, dentro un’aula bunker stracolma di giornalisti, dopo una camera di consiglio durata 4 ore. In aula anche i parenti degli imputati, assiepati dietro la ringhiera. Il grande assente, poi definito dai legali lo «sconfitto», è stato il procuratore capo Giuseppe Pignatone. A presidiare l’aula c’erano i tre pm che hanno condotto le 240 udienze, Paolo Ielo, Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini. Dieci minuti prima della lettura della sentenza è toccato agli imputati fare l’ingresso in aula, sistemati nei gabbiotti numerati dall’ 1 al 4. Alcuni sono rimasti seduti, altri appesi alle sbarre con lo sguardo fisso sull’altare di legno dal quale poco dopo sono spuntati i giudici. Non è un mafioso, dunque, Massimo Carminati, ma un «delinquente abituale». Per lui, a pena espiata, il tribunale ha stabilito l’affidamento ad una colonia agricola o ad una casa di lavoro per almeno due anni. Nel frattempo gli sono stati confiscati i beni: dai gemelli d’oro custoditi in casa, alle opere d’arte, ma soprattutto le armi, una katana, due machete e un’accetta. Le condanne sono arrivate anche per i politici coinvolti: sei anni – due in più rispetto alla richiesta – per Mirko Coratti (Pd), ex presidente del consiglio comunale di Roma ed esponente; 11 anni per Luca Gramazio, ex consigliere regionale Pdl; 10 anni a Franco Panzironi, ex ad dell’Ama, otto per Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale; cinque ad Andrea Tassone (Pd), ex presidente del municipio di Ostia. Assolti, invece, Giovanni Fiscon, ex sindaco di Castelnuovo di Porto, Fabio Stefoni, Giuseppe Mogliani, Salvatore Ruggiero e Rocco Rotolo. «La mafia a Roma non esiste», ha sentenziato il legale di Carminati, Bruno Giosuè Naso. «C’è stata una severità assurda: non si è mai visto che su 46 imputati nemmeno uno meriti le circostanze attenuanti generiche. Sono quindi delle pene date per compensare lo schiaffo morale che è stato rivolto alla Procura – ha affermato – Non so se questo processo ha dei vincitori, ma certamente ha uno sconfitto: Pignatone. Su questo non ci sono dubbi». E la sconfitta, in parte, l’ha ammessa anche l’aggiunto Ielo. «È una sentenza che in parte ci dà torto, per quanto riguarda la qualificazione giuridica, ed in parte riconosce la bontà del nostro lavoro – ha detto – La sentenza riconosce l’esistenza di un’associazione a delinquere semplice ed aggravata. È stato un fenomeno di criminalità organizzata ma non di tipo mafioso. Sono state riconosciute due distinte organizzazioni criminali che non avevano però il carattere della mafiosità. Ma la dinamica della delusione non appartiene a chi fa il mio mestiere». L’ex Nar ha seguito tutto da lontano, in videoconferenza. «Era convinto che sarebbe andata male. Temeva che tutte le pressioni mediatiche avrebbero portato a un responso negativo per lui. Mi ha anche detto che adesso lo devo togliere dal 41 bis, questo è il suo primo pensiero e la sua prima preoccupazione», ha spiegato l’avvocato Ippolita Naso al termine del colloquio telefonico con Carminati. Più soddisfatto, invece, Buzzi. «Ora quando esco? questo il suo primo commento Mi auguro che alla luce di questa decisione la mia permanenza in carcere stia per finire». La sentenza ha certificato l’esistenza di un grande sistema corruttivo ma nulla a che vedere con la pesantezza delle accuse mosse dalla Procura. Una «mafia costruita» secondo Alessandro Diddi, legale di Buzzi. «Credo che oggi Buzzi sia stato creduto perchè altrimenti certe condanne che si basano esclusivamente sulle sue dichiarazioni il Tribunale non le avrebbe potute fare. Per questo motivo credo che la Procura debba rifare da capo il processo al “mondo di mezzo”. Abbiamo dato una grande lezione alla Procura che ha investito tutto sul 416 bis impedendo di accertare le corruzioni in questa città».
LE REAZIONI.
MARINO – “Senza Mafia capitale e l’inchiesta sugli scontrini io sarei ancora in Campidoglio”. Lo dice l’ex primo cittadino di Roma, Ignazio Marino in un’intervista alla Stampa. “Contro di me – spiega – ci fu una convergenza opaca di interessi. Non so se qualcuno abbia voluto o tentato di condizionare la magistratura. Ma so che i giudici non sono condizionabili”. Marino quindi si lascia andare a un giudizio ultimativo sul Pd: “Soffro per l’agonia a cui è sottoposto il partito che ho contribuito a fondare. Oggi mi sembra difficile dire che il Pd renziano esista ancora”.
ORFINI – “Possiamo reagire in tanti modi alla sentenza di ieri, tutti ovviamente comprensibili e legittimi. Ma il più sbagliato è quello forse più diffuso in queste ore: sostenere che si dovrebbe chiedere scusa a Roma perchè Roma non è una città mafiosa. Lo dico da romano innamorato della mia città: a Roma la mafia c’è. Ed è forte e radicata”. A scriverlo in un articolo pubblicato sul sito della rivista Left Wing è Matteo Orfini, presidente del Pd. “Basta fare una passeggiata in centro e contare i ristoranti sequestrati perchè controllati dalla mafia. Basta passeggiare nei tanti quartieri in cui le piazze di spaccio sono gestite professionalmente, con tanto di vedette sui tetti e controllo militare del territorio. Basta spingersi a Ostia e seguire le attività degli Spada, o andare dall’altra parte della città dove regnano i Casamonica. Basta leggere le cronache per trovare la mafia ovunque”, aggiunge. “Ma quella di Carminati non è mafia, dice il processo. Vedremo cosa stabiliranno i prossimi gradi di giudizio, ma come scrissi mesi fa, cambia davvero poco. A Roma la mafia c’è e ha dilagato usando la corruzione come grimaldello. Oggi Roma è gestita da più clan che hanno evidentemente trovato un equilibrio tra di loro e si sono spartiti la città. A chi ha iniziato a sgominare questo sistema bisogna solo dire grazie, soprattutto se si pensa che in passato la procura di Roma era nota come il “porto delle nebbie”. Farebbe piacere anche a me – continua Orfini – poter dire che la mafia a Roma non c’è. Ma sarebbe una bugia. Io sono orgoglioso di essere romano. Ed è proprio l’orgoglio che mi fa dire che – di fronte a quello che oggi è diventata Roma – bisogna reagire e combattere, non affidarsi a tesi di comodo. Roma non è stata umiliata da chi indaga. Roma è stata umiliata da chi l’ha soggiogata. E da chi non ha saputo impedirlo. Invertire l’ordine delle responsabilità significa continuare a tenere gli occhi chiusi”, conclude.
RAGGI – “Quello che la sentenza ha comunque accertato è che c’è stato un pesantissimo e intricatissimo sistema che per anni ha tenuto sotto scacco la politica. Questo significa che quando parlo di bandi, di seguire le procedure di legge, vuol dire andare verso un nuovo corso, quello che i cittadini ci hanno chiesto. Io non vedo altra strada se non quella di continuare in questa direzione”. Così la sindaca di Roma Virginia Raggi interpellata a margine di una conferenza stampa torna a commentare la sentenza di ieri sul processo “Mafia Capitale” che pur infliggendo pesantissime condanne per corruzione ha escluso l’associazione mafiosa, mantenendo l’associazione semplice.
Roberto Saviano, dito medio a chi lo insulta, scrive il 22 Luglio 2017 “Libero Quotidiano”. Dito medio agli insulti e un consiglio: "Se vi infastidiscono le mie parole state alla larga da questa pagina. Non sarà insultando che mi ridurrete al silenzio". Così Roberto Saviano in un post su Facebook risponde a chi lo attacca e a chi vuole metterlo a tacere. "Se parlo di Napoli, meglio che stia zitto. Se parlo di infiltrazioni mafiose al Nord, meglio che parli di Napoli. Se parlo di riciclaggio a Londra, meglio che parli di Italia. Se parlo di una parte politica, ma non parli mai degli altri? Più mi invitate al silenzio, più capisco di colpire nel segno, di centrare il bersaglio". E poi c'è chi è convinto che io non capisca ciò che accade perché non vivo più a Napoli, perché non vivo più in Italia. Vivrei, invece, come dice un senatore di Ala, in un attico a Manhattan. Triste constatazione: alla politica si dà ormai credito solo quando diffonde bufale". "Ed ecco quindi un messaggio chiaro e inequivocabile per chi mi insulta - prosegue lo scrittore - mi dispiace, perdete il vostro tempo. Continuerò a studiare, ad analizzare, a mettere insieme tasselli e a farne un racconto comprensibile (soprattutto) per i non addetti ai lavori. Perché è questo il mio obiettivo: condividere ciò che imparo".
Saviano critica se le sentenze non sono le sue, scrive Annalisa Chirico, Sabato 22/07/2017, su "Il Giornale". Sgombriamo il campo dagli equivoci: il tribunale non dice che Roma è la culla della legalità, che Carminati e Buzzi sono due stinchi di santo; né le toghe ritengono che le soavi minacce al telefono fossero una candid camera per burlarsi dei poliziotti all'ascolto, che mattacchioni. La verità è che le decisioni dei giudici paiono incontestabili quando coincidono con le proprie opinioni e attese, possono essere invece aspramente criticate quando contrastano con il nostro dover essere della giustizia. Se ne faccia una ragione Roberto Saviano il quale replica alla sentenza che ha condannato gli imputati di Mazzetta capitale (Mafia, non scherziamo) annullando l'imputazione dell'associazione mafiosa. Eppure la speculazione a uso e consumo dei mafiologi nostrani prosegue, del resto sulla mitologia mafiosa si costruiscono lucrose carriere. Saviano paragona la Roma, covo di cravattari e corruttori, alla Palermo delle stragi mafiose che trucidarono Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e numerosi altri uomini dello Stato. Ma se tutto è mafia, nulla è mafia. «A Roma la mafia non esiste. Anche a Palermo non esisteva», cinguetta su Twitter lo scrittore napoletano. Come se non bastasse, l'autore di Gomorra, che vive sotto scorta, si spinge fino ad auspicare una modifica della stessa fattispecie criminosa: «È ora di rivedere un reato applicabile solo a gruppi capeggiati da meridionali». Ecco il Saviano legislatore che dà consigli al Parlamento per adattare la legge dello Stato alle sue personali convinzioni, e nel far ciò, senza sprezzo per il ridicolo, egli finge di non sapere, o forse non sa. C'è da sperare che il Saviano pensiero non contempli la retroattività della legge penale, ma soprattutto vorremmo sapere se nei suoi auspici il progetto rivoluzionario comporterebbe pure l'introduzione di una nuova fattispecie: la mafia etnica senza mafiosità. Ponendo la questione in termini di appartenenza geografica, come se i giudici smentissero l'aggravante mafiosa per una pura circostanza di accento siculo o calabrese mancante, Saviano auspica che i nuovi confini del metodo mafioso siano definiti su base linguistica. Sono mafiosi pure i romani doc, brianzoli e venessiani chi lo avrebbe mai detto. Nessuno nega che la ndrangheta si sia radicata saldamente a Roma come a Milano, ma la sconfitta della procura capitolina nasce dalla ostinata volontà, questa sì fallace, di dimostrare l'esistenza di una Cupola all'ombra del Cupolone, retta da er Cecato, vertice di un sistema fondato non su sangue e violenza, intimidazione e sacralità associativa, ma sulla elargizione di mazzette. Corrotti e mafiosi non sono sinonimi.
Pignatone non si arrende: “A Roma la mafia c’è…”, scrive il 22 luglio 2017 "Il Dubbio". Il procuratore capo parla dopo la sentenza di Mafia Capitale: “Non è vero che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico della città”. “Non ho cambiato idea questa notte: a Roma le mafie esistono e lavorano incessantemente nel traffico di stupefacenti, nel riciclaggio di capitali illeciti, nell’usura”. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone torna a parlare dopo la sentenza di Mafia Capitale. Un giudizio che ha confermato il ruolo di Buzzi e Carminati nella gestione della corruzione escludendo però l’aggravante mafiosa. Nella sua intervista a Repubblica il procuratore capo di Roma ribadisce quindi che l’associazione criminale di Buzzi e Carminati tornerebbe a qualificarla come mafia”. Pignatone da un lato ammette la “sconfitta”, data dal non riconoscimento da parte dei giudici del 416 bis, l’associazione mafiosa, dall’altro però sottolinea che “la sentenza ha riconosciuto che a Roma ha operato una associazione criminale che si è resa responsabile di una pluralità di fatti di violenza, corruzione, intimidazione” e che l’indagine della procura romana “ha svelato un sistema criminale capace di infiltrare il tessuto amministrativo e politico della città fino al punto di avere a libro paga amministratori della cosa pubblica”. E l’intera inchiesta non è stata “una fiction”. Il procuratore capo respinge le semplificazioni giornalistiche che sono seguite alla sentenza: “Dire che con le nostre inchieste abbiamo cambiato il corso politico degli eventi a Roma, che abbiamo esposto la città al ludibrio del mondo, significa attribuirci un uso politico della giustizia penale che non abbiamo in alcun modo esercitato. Non penso che debba rispondere il mio ufficio di chi ha usato politicamente i fatti che la nostra inchiesta ha fatto emergere”. Pignatone sottolinea inoltre che Roma “ha un’emergenza altrettanto grave, se non più grave della mafia: e sono la corruzione e i reati economici. Noi trattiamo bancarotte per centinaia di milioni di euro; frodi all’erario ed evasioni fiscali per miliardi. E su questo vorrei fosse chiaro a tutti che il mio ufficio non accetta ne’ intende rassegnarsi all’idea che tutto questo sia normale. Faccia parte del paesaggio, addirittura ne sia componente necessaria”. Chiarito che dire ‘Mondo di Mezzo’ (il nome dell’inchiesta, ndr) è mafia ma non equivale a dire che Roma è mafia, perchè un’affermazione simile sarebbe “assurda”, Pignatone aggiunge che comunque “il problema mafia esiste ed esiste da tempo. Basterebbe ricordare che sulla mafiosità della Banda della Magliana esistono due sentenze della Cassazione che giungono a conclusioni opposte. E comunque in questi anni passi avanti nella consapevolezza che la mafia non sia solo un fenomeno meridionale ci sono stati in tutta Italia. Anche a Roma”.
Mafia Capitale, lite tra Abbate e avvocato di Carminati. Mentana: “È adrenalina da sentenza”, scrive il 21 luglio 2017 "Trendinitalia". Polemica al calor bianco a Bersaglio Mobile (La7) tra Lirio Abbate, giornalista dell’Espresso, e Ippolita Naso, avvocato difensore di Massimo Carminati. La legale accusa Abbate di essere “ossessionato” dall’ex Nar. Il giornalista sorvola e racconta il colpo messo a segno da Carminati nel 1999 al caveau della Banca di Roma all’interno del Palazzo di Giustizia, con la complicità di quattro carabinieri corrotti. Ma Naso lo interrompe: “Non è così, sono stati i carabinieri ad aver organizzato il furto e hanno chiesto aiuto a Carminati, perché non erano in grado di farlo da soli. Quindi, si sono rivolti ai “cassettari” romani. Sta dando dati errati. Lo vede che non si legge le carte processuali?”. “Ma non è così! Questo lo racconti ai ragazzini! Lei rilegga bene le sentenze e tutte le carte”, ribatte Abbate. E a intervenire è Enrico Mentana, che, scettico, chiede all’avvocato: “Ma questi carabinieri come hanno trovato Carminati? Sulle Pagine Gialle?”. Abbate spiega che il furto fu organizzato su commissione perché richiesto da alcuni avvocati per ricattare dei magistrati romani. Ma l’avvocato di Carminati ribadisce: “Lei sta calunniando dei magistrati romani”. “E’ tutto scritto nelle carte” – replica il giornalista – “Se dico una falsità, lei ha tutti gli strumenti penali per ricorrere nei miei confronti”. “No, non ne ho bisogno”, risponde Naso. Abbate poi si sofferma sul teste Roberto Grilli, che, per paura di Carminati, ritrattò durante il dibattimento la propria testimonianza resa nella fase preliminare. “Quello che dice mi conferma che non legge le sentenze di cui poi parla”, commenta, piccata, Ippolita Naso. “Invece le sue parole mi confermano che, quando il suo cliente minaccia di spaccarmi la faccia, lei non ha mosso un dito”, controbatte Abbate, che fa riferimento alle note telefonate intercorse tra Carminati e al suo braccio destro, Riccardo Brugia. In quell’occasione, l’ex terrorista dei Nar, infastidito da un articolo pubblicato nel 2012 da Abbate, si sfogò: “Non so chi è sto Lirio Abbate, infame pezzo di merda. Se lo trovo gli fratturo la faccia”. Naso insorge e accusa il giornalista di essersi procurato le intercettazioni delle conversazioni tra lei e Carminati: “Le conversazioni tra me e il mio cliente lei non le avrebbe dovute neanche leggere, le ha lette perché forse qualche suo amico carabiniere gliele ha date. Lei ha fatto un autogol clamoroso”. E ripete più volte: “Si vergogni”. Abbate ribatte: “Veramente le telefonate tra lei e il suo cliente sono rimaste coperte dal segreto. E’ lei che è caduta nella trappola. Lei sa benissimo che non sono come voi che “ho qualcuno”. Si vergogni lei”. A sedare la bagarre è Mentana che osserva: “Io capisco che c’è l’adrenalina da sentenza, ma Lirio Abbate non ha certamente ascoltato le telefonate tra lei e il suo cliente”.
I lapsus del giornalismo embedded, scrive Valerio Spigarelli il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Certe volte, nella cronaca giudiziaria, la fantasia supera la realtà, nel senso etimologico del termine. Quel che è avvenuto oggi, prima durante e dopo la lettura della sentenza che ha stabilito, per ora, che Mafia Capitale è un esperimento giudiziario andato male, nella migliore delle ipotesi – o un bluff sostenuto proprio da una stampa che ha da tempo rinunciato al suo ruolo, nella peggiore – lo dimostra al di là di ogni ragionevole dubbio. Vediamo i fatti. Attorno alle 9,30, il collegio del Tribunale di Roma si ritira in camera di consiglio indicando per le ore 13 il momento in cui leggerà il dispositivo della sentenza. Per i giudici non c’è mafia per Rai e Ansa invece sì. L’aula è gremita di avvocati, familiari e rappresentanti della stampa. Decine di giornalisti e operatori video, cespugli di telecamere montate sui treppiedi, che pare di stare in un film hollywodiano degli anni Cinquanta. Clima delle grandi occasioni giornalistiche, insomma. Il pienone di giornalisti, a dirla tutta, è una novità, visto che non se ne vedevano così tanti dai tempi del debutto del processo. Nel corso delle 250 udienze la presenza dei cronisti s’era fatta sempre più rada; spesso i giornalisti era assenti del tutto, soprattutto quando a parlare era la difesa. Talmente assenti che alcune cronache comparse sui giornali non avevano raccontato quel che realmente era avvenuto nel corso dell’una o dell’altra udienza, ma avevano liberamente ripreso gli avvenimenti dagli atti di qualche anno prima contenuti nelle informative di polizia giudiziaria. Insomma, visto che non avevano tempo di venire, i giornalisti ascoltavano il processo su radio radicale, il più delle volte, e qualche volta neanche quello: invece di udire quello che aveva detto il teste convocato per una certa udienza, andavano a sfogliare le informative e riportavano quello che la stessa persona aveva raccontato nel chiuso di un ufficio di polizia qualche anno prima. In ogni caso ieri no, tutti presenti, attenti ed informati. Talmente informati che neppure un’oretta dopo il ritiro in camera di consiglio dei giudici, alle 10,15 l’ANSA, cioè la più grande e prestigiosa agenzia giornalistica italiana, lancia un breve takesubito ripreso da molte testate dal titolo shock “MAFIA ROMA: CARMINATI CONDANNATO A 28 ANNI”. Il testo specificava “Massimo Carminati è stato condannato a 28 anni al termine del processo a Mafia Capitale. La decima corte del Tribunale di Roma ha accolto le richieste della Procura riconoscendo l’ex Nar come capo dell’associazione mafiosa che avrebbe condizionato la politica romana”. La notizia, ovviamente, cade come una bomba tra gli avvocati presenti. È una balla, evidentemente, visto che i giudici non sono ancora usciti, ma, si sa, gli avvocati sono sospettosi e malfidati, e dunque si scatena immediatamente una ridda di ipotesi e commenti: “avranno avuto la notizia dell’esito e gli è sfuggita” “certamente hanno parlato con qualcuno” “forse hanno visto una bozza del dispositivo” “chi sarà la talpa?”. I più allenati a verificare la fisiognomica giudiziaria – cioè quella scienza inesatta molto in voga nei tribunali che pretende di preconizzare l’esito delle cause a seconda delle espressioni dei giudici, dei pm o del personale amministrativo (e che di solito non ci azzecca mai) – subito pretendono di trarre conferme della verità della notizia dal fatto che uno dei tre pm, non precisamente un giovialone, fin dalla prima mattina dispensa sorrisi a destra e a manca. Anche la circostanza – di suo comunque non troppo elegante – che al seguito dei procuratori si è presentato il ROS che aveva seguito le indagini praticamente al completo, capo, sottocapo e militi in polpa e delegazione, viene subito collegata alla bufala per accreditarla: “se stanno qui è perché sanno qualcosa; ‘sto giornalista dice la verità!” è la conclusione dei più smart tra i commentatori. Neppure quando, una manciata di minuti dopo, la stessa agenzia ANSA dichiara che si è trattato di uno spiacevole incidente pregando di “annullare la notizia” in quanto “andata in rete per errore”, i commenti preoccupati si acquietano: “figurarsi, erano obbligati a farlo! E poi una smentita è una notizia data due volte”. I più addentro ai misteri della stampa nazionale dopo un po’ ricostruiscono l’accaduto millantando le più diverse fonti, dall’amico giornalista vaticano alla fidanzata occulta di un capo redattore. Secondo questa versione è semplicemente accaduto che un cronista un po’ sbadato ha inserito in rete una bozza, una sorta di coccodrillo giudiziario tanto per usare termini da redazione, che aveva predisposto per portarsi un po’ avanti col lavoro. Tutto qui. Spiacevole incidente, appunto. “Spiacevole, sì” – pensa qualcuno dei più scaramantici, come il sottoscritto – anche il fatto che il coccodrillo sia quello: chissà se ne hanno fatto uno che dice LA PROCURA DI ROMA SMENTITA etc etc”. Di commento in commento si arrivava alle 13. La tensione sale quando entra il Tribunale, la gloriosa stampa nazionale è tutta coi cellulari in mano che registrata l’evento. Anche su Radio Rai Uno sono sul pezzo, vanno in diretta interrompendo il notiziario delle 13: “Carminati condannato a 20 anni, Buzzi a 19, riconosciuta l’associazione di tipo mafioso che era la questione centrale del processo, il perno attorno al quale ruotava l’inchiesta” dice il giornalista. È la seconda balla della giornata, ancora più clamorosa della prima, visto che il cronista non sta al desk di una redazione dislocata chissà dove, ma proprio nell’aula bunker di Rebibbia, tanto che si scusa perché deve parlare a bassa voce. Sta lì, sicuramente col cellulare in mano, ma col cervello sintonizzato chissà dove, visto che non capisce quel che succede. Anche qui, a stretto giro ed in diretta, segue canonica smentita: un po’ come a tutto il calcio minuto per minuto, il reporter si ricollega e dice “scusa (Bortoluzzi?) devo precisare che è in realtà caduta l’accusa di associazione mafiosa. La notizia non è vera, il cronista s’è sbagliato”!. E due. Ora, perché racconto quella che può sembrare solo la cronaca impietosa di un paio di topiche giornalistiche? Perché non sono topiche, sono lapsus freudiani che dicono tutto sulla gloriosa stampa nazionale, embedded sul carro delle Procure da troppo tempo, e oggi ancor più comodamente assisa sulle alfette delle agenzie investigative. Una stampa che sbaglia perché non gli sembra vero, proprio no, che possa sbagliare una Procura, o il ROS, e dunque scrive coccodrilli forcaioli, quando non copia veline giudiziarie o intercettazioni illegittimamente diffuse, oppure fraintende una cosa semplice come un dispositivo di una sentenza proprio perché ha smesso di abbaiare al potere giudiziario, come dovrebbe fare un vero cane da guardia del potere, ma azzanna solo chi finisce dentro gli ingranaggi giudiziari. Poi magari si scusa, “spiacevole incidente”, “scusa Ameri mi dicono che non è gol”. Eppure oggi la notizia, quella su cui dovevano fare attenzione, era una sola: se c’era o non c’era la Mafia a Roma, ci voleva poco. Naturalmente anche il resto dell’universo giornalistico inizia a parlare e commentare, e non sono pochi quelli che, al succo, dicono: “la mafia non c’è ma le condanne, e pure toste, invece sì: dunque che cambia? La Procura ha vinto lo stesso”. E magari sono quelli che da qualche anno in qua l’hanno menata su e giù per le colonne dei giornali proprio sul fatto che di epocale, in questo processo, c’era la Mafia, Capitale per di più, non certo la corruzione che è vecchia come il mondo. Quella era la notizia “vera” ma a molti, troppi, giornalisti italiani non gli va giù che quella “notizia”, su cui si sono cullati per anni, alla fine sia stata dichiarata ufficialmente “una balla” e allora fanno diventare realtà la fantasia. Come volevasi dimostrare. Ma che c’entra col giornalismo?
Massimo Carminati, il non-boss della non-mafia, scrive Paolo Delgado il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". Di “materiale” contro l’ex Nar ce n’è in abbondanza, ma del tutto insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e presentarlo come un capo clan. No, Massimo Carminati non è la versione borgatara di don Totò Riina. La condanna comminata a Roma è pesantissima, sul quanto reggerà al secondo e terzo grado si accettano scommesse. Ma sta di fatto che la vera posta in gioco di questo processo, che non erano le condanne scontate in partenza ma la conferma della “mafiosità” degli associati la porta a casa il Cecato. In aula Carminati ha fatto e anche un po’ strafatto con la palese intenzione di dipingersi come un qualsiasi coatto della serie “teneteme che l’ammazzo”, un tipo pericoloso certo, ma niente a che vedere con i don di Cosa nostra e con il loro ben diverso stile. Era anche quella una recita. Carminati non viene dai casermoni della periferia romana ma dalle palazzine bene di Roma nord, e proprio per questo nella banda della Magliana c’era chi lo guardava storto. Fabiola Moretti, compagna prima di Danilo Abbruciati poi di Antonio Mancini, raccontava che a lei quel ragazzo per bene che non aveva scelto il crimine per bisogno ma per ideologia proprio non andava giù. Qualcosa di ideologico, nella biografia del ragazzo di buona famiglia che già sui banchi del liceo confidava al compagno di classe Valerio Fioravanti di voler «violare tutti gli articoli del codice penale», c’è davvero: quella sorta di non- riconoscimento dello Stato democratico, che soprattutto nei ‘ 70, aveva portato al formarsi di una vera area di sovrapposizione nella quale s’incontravano fascisti affascinati dal crimine e banditi doc ma col cuore nero, come lo stesso Abbruciati, o come il solo vero capo della “bandaccia”, Franco Giuseppucci “er negro”. I pentiti della Magliana, Mancini e Maurizio Abbatino, sono stati negli ultimi anni tra i più decisi nell’accreditare la versione della procura di Roma. Hanno rilasciato interviste a raffica accusando Carminati di essere proprio quel boss dei boss che emergeva dalle migliaia di pagine dell’atto d’accusa. Elementi concreti però non ne hanno mai prodotti e i loro racconti confermano quel che già si sapeva. Massimo Carminati era certamente limitrofo alla Banda, soprattutto tramite Giuseppucci di cui era amico, e si è trovato di conseguenza coinvolto in una serie di fattacci: indipendentemente dalle condanne i pentiti hanno parlato del tentato omicidio di Mario Proietti “Palle d’oro”, per vendicare l’uccisione di Giuseppucci, di un’esecuzione, dell’intervento del Cecato per tirare fuori dai guai il fascista Paolo Andriani, reo di aver “perso” un carico d’armi della banda. Ma è il quadro appunto di un irregolare vicino alla banda, non di un associato e ancora meno di un boss. La stessa cosa si può dire dei Nar, l’altra banda, in questo caso terrorista, che figura a lettere fluorescenti nel pedigree di Carminati. Che fossero amici e camerati è certo. La contiguità non ha bisogno di essere provata e in fondo l’occhio perso che gli è valso il soprannome, il Cecato lo deve proprio alla vicinanza con i Nar. Gli agenti appostati al valico del Gaggiolo, il 20 aprile 1981, aprirono il fuoco contro la macchina nella quale viaggiavano, diretti clandestinamente in Svizzera, Carminati e i due neri Mimmo Magnetta e Alfredo Graniti proprio perché convinti che su quell’auto ci fosse Francesca Mambro. Lo ammisero candidamente al processo e la giustificazione valse un’assoluzione piena. Ma di vere e proprie azioni con i Nar agli atti ne risulta una sola, la rapina miliardaria alla Chase Manhattan Bank del 27 novembre 1979. Ma l’aspetto più sbalorditivo della «straordinaria caratura criminale» del non- boss della non- mafia romana va cercato, più che nelle molto citate frequentazioni dei ruggenti anni ‘ 70, nel silenzio dei decenni successivi. Carminati esce di scena fino al 1999, quando organizza la rapina al caveau del palazzo di giustizia di Roma. Il colpo frutta 18 mld di vecchie lire ma vengono svaligiate anche 147 cassette di sicurezza. Secondo i giornalisti corifei della procura di Roma il vero obiettivo del colpaccio erano proprio quei documenti, che avrebbero permesso a Carminati di ricattare mezzo palazzo di Giustizia. A prenderla sul serio bisognerebbe concludere che nella Capitale il marcio alligna soprattutto da quelle parti: 150 magistrati con segreti tali da essere esposti a ogni sorta di ricatto meriterebbero in effetti l’avvio di una maxi- inchiesta Mafia- Palazzaccio. Complotti a parte, tutto indica che in quei decenni di silenzio, prima e dopo il colpo al caveau, Carminati abbia continuato a percorrere la strada che si era scelto da ragazzo. Le intercettazioni ambientali squadernate nel processo indicano senza dubbio una fiorente attività di “recupero crediti”. Confermano che l’ex fascista con un occhio solo ha sempre continuato a bazzicare la malavita romana, nella quale è altrettanto indiscutibilmente una figura di rispetto. Molto probabilmente è entrato in contatto con l’una o l’altra delle organizzazioni criminali propriamente dette che convivono nella Capitale, qualche volta rischiando la collisione, più spesso accontentandosi della spartizione. Materiale abbondante per parlare di un bandito, come del resto Carminati non esita a definirsi. Insufficiente per chiamare in causa l’onorata società e per fare di Massimo Carminati, già fascista, sodale della banda della Magliana, miliziano con la destra maronita in Libano, più volte detenuto, il gemello diverso di don Corleone.
Vi racconto la vera storia di Salvatore Buzzi, scrive Lanfranco Caminiti il 21 luglio 2017 su "Il Dubbio". In carcere fondò la 29 giugno, cooperativa nata per il recupero dei detenuti. E lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Salvatore Buzzi è un criminale italiano. Dice così Wikipedia, e nella sua laconicità sembra non possa restare altro da dire. Eppure, d’essere «un criminale italiano», lo si potrebbe dire d’uno qualunque delle migliaia di detenuti, senza che la cosa faccia una piega. A Buzzi invece, Wikipedia resta stretto. È il 29 giugno 1984. I giornaloni italiani parlano della sinistra socialista all’attacco ma senza dichiarare guerra a Craxi; di un’intervista dell’onorevole Tina Anselmi in cui parla delle trame della P2 che fanno pensare al fascismo; di mille miliardi stanziati in Parlamento per ristrutturare in cinque anni gli aeroporti di Fiumicino e della Malpensa; del giallo del Dams, a Bologna, in cui è stata orrendamente assassinata, un anno prima, Francesca Alinovi critica d’arte emergente; dell’ex cancelliere Helmut Schmidt, ritiratosi da mesi dall’attività politica, che ha preso la parola al Bundestag per presentare un suo progetto sull’Europa. Non parlano di carcere. Nessuno scrive di carcere. «Le misure alternative alla detenzione e ruolo della comunità esterna». È il 29 giugno 1984, e questo è il titolo del convegno a Rebibbia. A ascoltare Salvatore Buzzi parlare del recupero di chi ha sbagliato ma non deve essere dimenticato ci sono sul palco il sindaco di Roma Ugo Vetere, il ministro della Giustizia Giuliano Vassalli e Nicolò Amato, direttore generale delle carceri. C’è lo Stato, insomma. In pompa magna. Nacque così la cooperativa 29 giugno, che è poi la data da cui per loro tutto ebbe inizio. 29 giugno 1984. Quel fatidico convegno. La prima cooperativa di detenuti in Italia (e già Buzzi era stato il primo detenuto a laurearsi in cella: Lettere e filosofia, tesi su Vilfredo Pareto, 110 e lode). Un fiore all’occhiello, quella cooperativa, per l’amministrazione penitenziaria. Negli anni, centinaia di detenuti sono usciti dal carcere e hanno trovato forme di sussistenza e reinserimento per mezzo della cooperativa. La cooperativa che è stata al centro dell’indagine giudiziaria più comunemente nota come Mafia-Capitale. Nacque facendo bottiglie di pomodoro da rivendere, e poi pulendo gli spazi di Rebibbia e poi allargandosi piano piano. Una gran mano gliela diede Angiolo Marroni, comunista, che allora era vicepresidente della Provincia e che si costruì il resto della carriera politica, e anche quella del figlio, Umberto, poi deputato Pd – i carcerati hanno un sacco di familiari da far votare – su quelle iniziative dei detenuti, fino a diventare il loro Garante per la Regione Lazio, vita natural durante. Ruolo centrale per la destinazione di congrui fondi. La cooperativa 29 giugno entrò a far parte della rete della Lega delle cooperative, quella dove imperò Poletti, ora ministro del Lavoro. Un fiore all’occhiello per la Lega. Buzzi non viene dalla strada, non era un delinquentello di quartiere, anche se è nato alla Magliana, che ha imparato presto la dura legge della vita – mangia o sarai mangiato – e che è progressivamente cresciuto di rango e di reato. È figlio di una maestra e di un grande invalido: a vent’anni è già in banca a lavorare. È un mestiere d’oro, in quegli anni, il lavoro in banca: si guadagna tanto, rispetto i salari medi, un sogno. Ci facevano le canzoni, i nostri cantautori, per dire di come ci si potesse vendere l’anima, di come ci si potesse ridurre in mezzo a quel fiume di denaro. Ma per Buzzi le cose non sono esattamente così: in quel tenore di vita ci sguazza, anzi prova a accrescerlo con qualche “manovrina”. Un gioco di assegni rubati che passa a un pischello di vent’anni ma già svelto di mano e d’ingegno: solo che il pischello si mette a ricattarlo – quella macchinona di Buzzi, come avrà fatto a comprarsela? E tutti quei regali e quelle cene con la giovane brasiliana, come può permettersele? I due si incontrano per un chiarimento definitivo, il pischello ci va armato – almeno è così che la racconta poi Buzzi – una colluttazione, e Buzzi che colpisce e colpisce e colpisce. Trentaquattro coltellate, risultano tante quando le contano. Una storiaccia. Pena complessiva: anni 14 e mesi 8 di reclusione per i reati di omicidio e calunnia. È il 26 giugno 1980. Tre anni dopo, si laurea. E un anno dopo organizza il convegno di Rebibbia. Deve avere del sale in zucca, Buzzi, oltre a essere «un criminale italiano». Per capire il convegno di Rebibbia e tutto quello che venne dopo bisogna capire cosa succedeva dentro le carceri negli anni Ottanta del secolo scorso. Una massa di detenuti politici (che tali non furono mai considerati) e di detenuti politicizzatisi, attraverso le rivolte degli anni Sessanta e Settanta e il lavoro della sinistra extraparlamentare prima e dei Nap dopo, e condizioni di vita sempre più restrittive, a fronte di una popolazione detenuta che aumentava. Si evadeva, si progettavano rivolte, si sparava per le strade. Persino agli architetti delle carceri sparavano. Eppure, invece di puntare a una maggiore militarizzazione e con una opinione pubblica sgomenta e disponibile forse a un discorso ancora più repressivo, ci fu un parlamentare, uno spirito cattolico inquieto e fermo, che riuscì a ribaltare il punto di vista: si chiamava Mario Gozzini. Bisognava allentare la presa, non c’era altro modo per uscire da quella spirale viziosa, più repressione più violenza più repressione. C’era tutta un’area di detenuti politici – quelli dell’Area omogenea di Rebibbia, che cercavano di sfuggire alla tenaglia Brigate rosse/ Stato – che si incontravano con parlamentari di vario segno politico, producevano documenti per convegni, ragionavano sulle possibilità di “socializzare il carcere”. Gozzini non voleva «l’umanizzazione del carcere» – un concetto orrendo –, piuttosto puntava a dare valore e attuazione all’articolo 27 della Costituzione, laddove dice che la pena è rieducativa. E così, la Gozzini (legge 10 ottobre 1986, numero 663), intervenne su permessi premio, l’affidamento al servizio sociale, la detenzione domiciliare, la semilibertà, la libertà condizionale, la liberazione anticipata. Insomma, allentò la presa. È nella formazione di questo quadro normativo e istituzionale che nacque la cooperativa 29 giugno di Salvatore Buzzi. Lui stesso divenne «carne e sangue» di quella possibilità di un percorso di riabilitazione. Il resto è cronaca giudiziaria e politica.
Mafia Capitale, storia e protagonisti del "Mondo di mezzo". Le tappe e i protagonisti dell'inchiesta su Mafia Capitale che ha scoperchiato il "Mondo di mezzo" della politica romana, scrive Giovanni Neve, Giovedì 20/07/2017, su "Il Giornale". Ben 240 udienze celebrate nell'aula bunker di Rebibbia e diluite in 20 mesi; 46 imputati, molti dei quali accusati di associazione di stampo mafioso e ancora in carcere (da Massimo Carminati al 41 bis detenuto a Parma, a Salvatore Buzzi nella struttura di massima sicurezza a Tolmezzo); 80mila intercettazioni telefoniche e ambientali trascritte; 10 milioni di carte e altri 4 milioni di pagine di brogliaccio. Sono questi alcuni numeri del processo Mafia Capitale che si è concluso oggi con la sentenza di primo grado. Queste le tappe più significative:
2 dicembre 2014 - 37 persone arrestate (28 in carcere e 9 ai domiciliari) e decine di perquisizioni eccellenti, tra cui quella nei confronti dell'ex sindaco Gianni Alemanno, indagato per associazione di stampo mafioso: sono i primi risultati dell'operazione Mondo di Mezzo, poi mediaticamente denominata Mafia Capitale. La Procura ritiene che negli ultimi anni nella capitale e nel Lazio abbia agito un'associazione di stampo mafioso che ha fatto affari (leciti e no) con imprenditori collusi e con la complicità di dirigenti di municipalizzate ed esponenti politici di ambo gli schieramenti, per il controllo delle attività economiche e per la conquista degli appalti pubblici. Lunga la lista dei reati contestati: estorsione, corruzione, usura, riciclaggio, turbativa d'asta e trasferimento fraudolento di valori. A guidare questa organizzazione - secondo chi indaga - sono il presidente della cooperativa "29 giugno" Salvatore Buzzi e l'ex terrorista di destra, Massimo Carminati, ritenuto colui che "impartiva le direttive agli altri partecipi, forniva loro schede dedicate per comunicazioni riservate e manteneva i rapporti con gli esponenti delle altre organizzazioni criminali, con pezzi della politica e del mondo istituzionale, finanziario e con appartenenti alle forze dell'ordine e ai servizi segreti".
4 giugno 2015 - Nuova ondata di arresti per Mafia Capitale: 19 persone in carcere, 25 ai domiciliari, altre 21 indagate a piede libero e altrettante perquisizioni. Provoca l'ennesimo terremoto. Ancora una volta, l'ex terrorista dei Nar Massimo Carminati e il presidente della cooperativa 29 giugno Salvatore Buzzi risultano i pezzi da novanta dell'ordinanza di custodia cautelare del gip Flavia Costantini, eseguita all'alba dai carabinieri del Ros. La novità è che sono stati chiamati in causa anche esponenti delle istituzioni, di destra e di sinistra (al Comune e alla Regione Lazio), risultati a libro paga dell'organizzazione di stampo mafioso che a Roma faceva affari di ogni tipo (business degli immigrati 'in primis') e si aggiudicava i migliori appalti (tra i quali punti verde e piste ciclabili). In carcere finisce anche Luca Gramazio, ex consigliere capogruppo Pdl (poi Fi) in consiglio comunale e poi in Regione: è ritenuto il volto istituzionale di Mafia Capitale per aver messo le sue cariche al servizio del sodalizio criminoso con cui avrebbe elaborato "le strategie di penetrazione nella pubblica amministrazione".
5 novembre 2015 - Comincia il processo davanti ai giudici della decima sezione penale del tribunale. Autorizzate le riprese televisive in aula "alla luce dell'interesse sociale particolarmente rilevante alla conoscenza del dibattimento in relazione alla natura delle imputazioni, ai soggetti coinvolti e alla gravità dei fatti contestati".
7 febbraio 2017 - Finiscono in archivio le posizioni di 113 indagati su 116 coinvolti nel procedimento stralcio di Mafia Capitale per imputazioni più o meno residuali, rispetto al processo principale. Accogliendo le richieste avanzate dalla Procura di Roma nell'agosto 2016, il gip Flavia Costantini ha firmato il decreto di archiviazione con un provvedimento di 82 pagine che riguarda esponenti della politica, imprenditori, professionisti, ex militanti di destra e amministratori. Molti di loro, però, sono già a giudizio (o sono stati già processati) per altre imputazioni. Due i motivi principali che hanno spinto il giudice ad accogliere l'impostazione della Procura: per alcune posizioni, "le indagini sin qui portate avanti non hanno consentito di individuare elementi sufficienti per sostenere l'accusa in giudizio"; per tutte le altre, non sono state riscontrate o ritenute credibili le dichiarazioni accusatorie fatte da Salvatore Buzzi. E così, per il reato di associazione di stampo mafioso escono definitivamente di scena, ad esempio, l'ex sindaco Gianni Alemanno (che però è sotto processo per corruzione e finanziamento davanti ai giudici della seconda sezione penale), gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno, Domenico Leto e Michelangelo Curti, l'ex capo della segreteria politica di Alemanno Antonio Lucarelli, l'ex responsabile di Ente Eur Riccardo Mancini ed Ernesto Diotallevi, che era finito nel mirino dei pm perchè sospettato di essere a Roma il referente di Cosa Nostra. Archiviazione anche per il presidente Pd della Regione Lazio Nicola Zingaretti (indagato per due episodi di corruzione e uno di turbativa d'asta), per il suo ex braccio destro Maurizio Venafro (che era accusato di corruzione, mentre è in attesa del giudizio di appello dopo essere stato assolto in primo grado da un'accusa di turbativa d'asta) e per una serie di altri esponenti della politica come l'ex presidente del primo municipio della capitale, Sabrina Alfonsi (corruzione), il consigliere comunale della Lista Marchini, Alessandro Onorato (corruzione), il parlamentare ex Pdl, poi passato al Gruppo Misto, Vincenzo Piso (finanziamento illecito), il presidente del Consiglio Regionale del Lazio, Daniele Leodori, (turbativa d'asta) e Alessandro Cochi, ex delegato allo sport della giunta Alemanno (turbativa d'asta). Accolta pure la richiesta di archiviazione, per un episodio di abuso d'ufficio, per Luca Gramazio, l'ex capogruppo Pdl alla Regione Lazio ancora detenuto in carcere per il filone principale e per Massimo Carminati che rispondeva di associazione per delinquere finalizzata ai delitti di rapina e riciclaggio contestata anche a Luigi Ciavardini, Fabrizio Pollak, Stefano Massimi e Gianluca Ius.
27 aprile 2017 - la procura chiede la condanna di tutti e 46 imputati per complessivi 515 anni di reclusione. Le pene più elevate sono state sollecitate dai pm nei confronti di coloro che sono ritenuti gli organizzatori o semplici partecipi dell'associazione di stampo mafioso. Il primo della lista è Massimo Carminati (28 anni perché capo oltre che promotore), seguito da Salvatore Buzzi (26 anni e 3 mesi).
20 luglio 2017 - Arriva la sentenza: Salvatore Buzzi condannato a 19 anni, Massimo Carminati a 20. Per Mirko Coratti, ex presidente del Consiglio comunale di Roma ed esponente del Partito democratico, 6 anni di carcere. Per Gramazio la pena è di 11 anni. Dieci anni a Franco Panzironi, ex ad dell'Ama. Riccardo Brugia a 11 anni. Luca Odevaine, ex componente del Tavolo di coordinamento nazionale sui migranti del Viminale, è stato condannato a sei anni e sei mesi di reclusione.
Storia kafkiana di un condannato che non è stato mai imputato, scrive Paolo Delgado il 17 gennaio 2017 su "Il Dubbio". Era un operaio della coop di Buzzi, lo hanno rovinato senza un processo e gli hanno tolto il lavoro. Franco La Maestra è un ex brigatista che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero la sua condanna. Una volta libero diventa socio della Cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa: fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. Ma il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa e sulla porta incrocia Buzzi. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Da quel momento, almeno secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale, La Maestra diventa il braccio destro di Buzzi. L’uomo non verrà mai inquisito né indagato, eppure il Tribunale dispone la sua sospensione dal servizio «per motivi di ordine pubblico». Per valutare l’inchiesta che ha fatto tremare Roma sin dalle fondamenta bisognerà aspettare la sentenza di primo grado e forse non basterà neppure quella. Ma che la corte d’assise accetti o meno l’azzardato impianto accusatorio del processo Mafia Capitale, quello che ha trasformato in storia di criminalità organizzata quella che all’apparenza sembrerebbe una vicenda di ‘ normale’ corruzione, non sarà indifferente, anche se solo dopo il terzo grado di giudizio si potrà definitivamente avvalorare quell’impianto che in quel caso finirebbe senza dubbio per fare scuola. Però non c’è bisogno di aspettare la sentenza per rendersi conto che quel capo d’imputazione incandescente ha prodotto alcuni esiti nefasti, dei quali bisognerebbe tenere conto, per evitarli in circostanze simili, indipendentemente dal fatto che la corte accetti o meno l’impostazione della procura di Roma. Un caso esemplare è quello di Franco La Maestra, ex brigatista rosso che avendo rifiutato sia il pentimento che la dissociazione, ha scontato per intero e sino all’ultimo giorno la sua condanna a 14 anni e mezzo di carcere. Una volta libero, la maestra diventa socio della cooperativa 29 giugno fondata da Salvatore Buzzi, il perno stesso dell’inchiesta Mafia Capitale. La Maestra non è uno dei capi della cooperativa. Fa l’operaio addetto al recupero rifiuti. In un’intercettazione si sentono lui e un compagno di lavoro lamentarsi senza mezzi termini perché «ci trattano come bestie da soma». Il giorno in cui Buzzi finisce in manette, 2 dicembre 2014, La Maestra è nella sede della cooperativa per una vertenza sindacale di quelle dure, con tanto di scioperi, e sulla porta incrocia Buzzi in manette. Il presidente della cooperativa gli rivolge qualche parola che poi, debitamente intercettata, assume una valenza poco proporzionata. Buzzi invita a «non litigare» e ordina di tenere lontano Giovanni Campennì, indicato dagli inquirenti come uomo della ‘ ndrangheta e elemento di raccordo tra il clan Mancuso e la super cooperativa di Buzzi: «Non lo voglio tra i piedi». Buzzi aggiunge alla raccomandazione di non litigare una frase, «Adesso il capo sei tu», che secondo l’Ufficio Misure di Prevenzione del Tribunale di Roma sarebbe rivolta proprio a La Maestra e che secondo quest’ultimo era invece indirizzata al gestore del servizio. Essendo poco credibile il salto repentino da operaio semplice addetto alla raccolta differenziata dei rifiuti a ‘capo’ è probabile che La Maestra dica la verità. Anche perché, capo o non capo, è un fatto che Franco La Maestra non solo non verrà mai inquisito per i fatti di Mafia Capitale ma neppure indagato. Ciò nonostante quasi un anno più tardi, il 30 ottobre 2015, la sezione Misure di Prevenzione dispone la sua sospensione dal servizio e dalla retribuzione «per motivi di ordine pubblico», che diventa operativa il giorno seguente. Da questo momento si configura una di quelle situazioni proverbialmente definite ‘kafkiane’. La Maestra, pur non essendo oggetto di alcun provvedimento penale, è indicato come persona che mantiene «rapporti con la ‘ ndrangheta» e svolge un «ruolo di primo piano nella gestione criminale della cooperativa». Dovrebbe difendersi, ma non essendo né inquisito né indagato mica è facile. Non può accedere al fascicolo, non può spiegare e chiarire durante un interrogatorio, non sa a chi rivolgersi. In compenso è privo di stipendio, non gode di alcun ammortizzatore sociale e a rigore non è neppure un disoccupato, essendo stato solo «sospeso» e non licenziato. Potrebbe licenziarsi da solo, ma sospetta che con sulle spalle una sospensione spiegata con quelle motivazioni trovare un nuovo lavoro non gli sarebbe facile. Quindi prova a impugnare la sospensione. Solo che in questi casi a decidere sull’impugnazione è il presidente della stessa sezione Misure di Prevenzione che ha disposto l’ordinanza, e ci mancherebbe solo che non si desse ragione da solo. Quindi respinge, è la motivazione rende ancora più surreale il quadro: «Si deve rilevare che i provvedimenti del giudice delegato in un procedimento di prevenzione sono provvedimenti sostanzialmente amministrativi / autorizzativi / dispositivi emessi per la gestione dei beni sequestrati nell’ambito del procedimento di prevenzione e non rientrano tra i provvedimenti di prevenzione espressamente previsti dal Dlvo 159/ 2011… Si tratta, dunque, di atti liberi, che non sono e non possono essere inquadrati in ipotesi tipizzate come misure di prevenzione». In questo modo, per il soggetto in questione, il non essere indagato diventa per magia giuridica un punto di massima debolezza invece che un sostegno. Non essendo indagato e non essendo quindi sottoposto ai «provvedimenti di prevenzione espressamente previsti» non può fare altro che sperare in qualche miracolo, nel frattempo cercando di cavarsela senza reddito di sorta.
Mafia Capitale, Odevaine alla sbarra: "Ecco perché prendevo 5000 euro al mese da Buzzi". L'interrogatorio dell'ex vicecapo di gabinetto di Veltroni, confermato per tre mesi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno: "Da fine 2011 al novembre 2014 sono stato remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di 'facilitatore'. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione", scrive Federica Angeli l'1 febbraio 2017 su "La Repubblica". "Ho percepito cinquemila euro al mese da Salvatore Buzzi da fine 2011 al novembre del 2014. Per lui risolvevo i problemi, facilitavo gli interessi di Buzzi. Ho preso soldi anche dalla cooperativa La Cascina". Soldi da Salvatore Buzzi (5mila euro mensili, di cui una parte in nero) e soldi dalla cooperativa “La Cascina” (10mila euro al mese che potevano arrivare anche a 20mila). Per anni, almeno dal 2011 al 2014, Luca Odevaine, anni prima vicecapo di gabinetto vicario del sindaco Veltroni, incarico proseguito per altri tre mesi con l'arrivo del sindaco Alemanno, ha intascato fior di tangenti mettendo a frutto il suo lavoro di componente del Tavolo di coordinamento sugli immigrati del Viminale (struttura creata nell'estate del 2014 ma informalmente esistente due anni prima) e di presidente della Fondazione IntegraAzione, che curava e coordinava eventi politici, religiosi e sociali. Sentito dal tribunale nel processo Mafia Capitale in corso nell'aula bunker di Rebibbia, Odevaine ha ammesso quanto già dichiarato alla Procura nei mesi scorsi: "Venivo remunerato dal gruppo Buzzi per la mia attività di facilitatore. Semplificavo i suoi rapporti con la pubblica amministrazione. Svolgevo un funzione di raccordo tra le sue cooperative, il ministero degli Interni e i funzionari della Prefettura, un mondo con il quale le coop faticavano ad avere un dialogo costante. Io mettevo a disposizione l'esperienza acquisita nel Comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, conoscevo molte persone ma non è vero che io orientassi i flussi degli immigrati, non avrei potuto farlo. Il Tavolo discuteva su temi generali e non decideva". Odevaine è stato poi interpellato sui soldi ricevuti dai vertici della Cascina (segmento giudiziario già definito davanti al gup con un patteggiamento di pena a due anni e 8 mesi di reclusione per corruzione e la restituzione di circa 250mila euro, più o meno l'equivalente della somma incassata in modo illecito), per agevolare l'assegnazione dell'appalto per la gestione del Cara di Mineo dopo aver concordato con loro il contenuto del bando di gara. "Anche in questo caso - ha spiegato Odevaine - ricevevo soldi per il mio lavoro di raccordo col Ministero dell'Interno". Molte domande dei pm Luca Tescaroli e Giuseppe Cascini hanno riguardato il commercialista Stefano Bravo, anche lui sotto processo per corruzione perchè sospettato di aver curato la predisposizione della documentazione fittizia che avrebbe dovuto giustificare l'ingresso delle somme illecite nella casse della Fondazione e delle società riferibili a Odevaine. "Era il mio commercialista personale e della famiglia, si occupava della contabilità della Fondazione. A lui ogni tanto chiedevo consiglio, gli dissi che avevo soldi in contanti ma lui certe cose preferiva non saperle. Io gli presentai i rappresentanti della Cascina e poichè con questa cooperativa avevo in piedi un affare che non aveva nulla a che vedere con la questione immigrati, gli chiesi se voleva occuparsene. Cominciavo ad avere numerose attività fuori dall'Italia e avevo bisogno di una persona che seguisse le mie cose in Italia". "Con la giunta Alemanno sì stabili un accordo per cui ad ogni consigliere comunale vennero dati 400mila euro da spendere per eventi culturali. L'accordo fu preso dal sindaco Alemanno e dal capogruppo di minoranza Umberto Marroni", ha spiegato Odevaine, che, vicecapo di gabinetto del sindaco Veltroni, fu confermato per i tre mesi successivi nel 2008 quando la capitale incoronò Alemanno ma dopo un mese fu messo di fatto all'angolo. "Alemanno - ha poi aggiunto - mise nuove figure in base ad appartenenze politiche nei posti chiave dell'amministrazione: Gianmario Nardi, che era stato allontanato da Veltroni perché troppo vicino a imprenditori che facevano manifestazioni pro suolo pubblico fu nominato vicecapo gabinetto. Marra fu spostato al Patrimonio". "Alemanno mi disse che per tutto il periodo della mia permanenza al Comune le due sue persone di assoluta fiducia a cui avrei dovuto far riferimento per qualunque cosa erano Riccardo Mancini e l'onorevole Vincenzo Piso che era stato in carcere con lui negli anni Ottanta e aveva finanziato la sua campagna elettorale. Quando a capo dell'Ufficio Decoro venne nominato Mirko Giannotta, segretario storico del Movimento Sociale di Acca Larentia e responsabile della tentata rapina nel maggio 2006 da Bulgari in via Condotti, e distrusse tutti gli archivi del materiale di pubblica sicurezza da me raccolto, decisi di lasciare Palazzo Senatorio e mi spostai in una stanza a piazza San Marco".
Buzzi parla ancora: «Ho dato 875mila euro a Panzironi e finanziato la campagna di Veltroni», scrive Vincenzo Imperitura il 29 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Vergogna per aver foraggiato la destra? «Diceva Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo». «Camerata io? Io so’ comunista». Suona più o meno come la famosa battuta del grande Mario Brega, la risposta fulminante che Salvatore Buzzi si lascia sfuggire in aula, rispondendo al difensore dell’ex ad di Ama, Franco Panzironi, che gli chiede se non provava vergogna ad aver finanziato le campagne elettorali della destra. «Rispondo in termini marxiani e citando Deng Xiaoping: non devi guardare se il gatto è bianco o nero, l’importante è che prenda il topo. Io avevo 300 persone da mantenere. Non ho mai votato Pdl», replica Buzzi (considerato il braccio finanziario del “mondo di mezzo”) nel corso della settima e ultima udienza di Mafia Capitale dedicata alla sua deposizione. «A Franco Panzironi, complessivamente, abbiamo dato 875mila euro», racconta in collegamento video con l’aula bunker di Rebibbia. «A lui restavano i soldi in nero per vincere le gare Ama, quelli in chiaro andavano alla Fondazione Nuova Italia e quindi certo che andavano a Gianni Alemanno. Panzironi è un delinquente, chiedeva sempre soldi». Soldi che, racconta sempre Buzzi, sarebbero andati all’ex Ad di Ama (imputato nello stesso processo) anche fuori dal circuito elettorale: «Quando gli abbiamo dato i primi 100mila euro non c’era nessuna campagna elettorale e neppure quando gli abbiamo dato i secondi 120mila o i terzi 100mila». Buzzi poi parla del sostegno ai tempi di Walter Veltroni: «Il sistema delle cooperative tirò fuori circa 150mila euro. Non erano soldi per vincere le gare. Era un riconoscimento all’attività dell’amministrazione Veltroni che aveva affidato alle cooperative sociali la manutenzione del verde dei parchi di Roma». E se ieri si è chiusa la lunghissima deposizione di Buzzi, oggi nell’aula bunker di Rebibbia, è il turno dell’imputato numero uno del processo, Massimo Carminati. L’ex membro della destra eversiva degli anni di piombo parlerà in video collegamento dal carcere di Parma ma, contrariamente a quanto successo fino a ora, il “cecato” già protagonista di un “saluto romano” durante un udienza non potrà venire ripreso dalle telecamere che dalle prime battute seguono il processo agli imputati di Mafia Capitale. È stato lo stesso Carminati a revocare l’autorizzazione. Secondo l’avvocato Ippolita Naso, uno dei difensori dell’imputato, il “nero” della banda delle Magliana «solo in parte parlerà del suo passato, lui intende rispondere a domande ben precise su fatti che gli sono stati contestati in questo dibattimento».
Lo show di Carminati: «Io sono un vecchio fascista degli anni 70», scrive Vincenzo Imperitura il 30 Marzo 2017, su "Il Dubbio". Mafia capitale, il protagonista del “mondo di mezzo” a ruota libera in tribunale: «Ho sempre saputo di essere controllato, ho un solo occhio ma ci vedo benissimo». Seduto su una sedia di plastica, attorniato dal mare di carte del maxi processo su “Mafia capitale” che lo vede alla sbarra come imputato principale, e ripreso da una telecamera fissa che fa un po’ serie poliziottesca, Massimo Carminati è un fiume in piena. Così impaziente di rispondere, per la prima volta nella sua lunga “carriera” processuale, che si infuria quando il collegamento dal carcere di Parma crea qualche imbarazzo. Ha il senso dello spettacolo Carminati: è consapevole delle decine di giornalisti che affollano l’aula bunker del carcere di Rebibbia (e che non lo possono riprendere per la prima volta in 180 udienze), e non si fa mancare qualche colpo di teatro, in una deposizione, dice l’avvocato Ippolita Naso introducendo l’interrogatorio «che sarà limitata, come limitato è stato il diritto alla difesa del mio imputato, tuttora rinchiuso in regime di carcere duro». Nel lungo racconto dell’ex terrorista nero ci sono almeno un paio di punti fermi. Punti sui quali il presunto capo del “mondo di mezzo”, torna più volte durante la prima delle due giornate che lo vedranno impegnato in prima persona: la rivendicazione (quasi tronfia) della propria storia fascista, e la “persecuzione” giudiziaria di cui sarebbe stato vittima negli anni. «Io sono un vecchio fascista degli anni ’ 70, e sono contento e felice di quello che sono. Non ho niente da nascondere, niente di cui vergognarmi» dice sicuro Carminati, mentre Salvatore Buzzi, dal carcere di Tolmezzo, lo osserva in piedi, sgranando gli occhi e passeggiando stancamente lungo la stanzetta del video collegamento. «Io sono un vecchio fascista, non c’entro niente con i servizi. Qui sostenete che abbia collegamenti con i servizi segreti ma la verità è che quando mi associano ai servizi, io in realtà mi offendo. Mi accusano di avere ricevuto notizie relative all’inchiesta da due poliziotti del commissariato di Ponte Milvio e da un vecchio maresciallo in pensione. Ma io sono un pregiudicato ed è normale che fossi conosciuto dai poliziotti di quartiere che venivano a controllarmi continuamente, soprattutto durante il periodo in affido. Ma – dice senza mai perdere la calma e con gran senso dei tempi scenici – mettiamoci d’accordo. Questi, ma che potevano fa’? Le cose sono due, o io sono Fantomas come mi descrivete e quindi mi relaziono con chi dite voi, o sono un cretino, che parla con degli sfigati che non mi possono aiutare». Per contrastare l’ipotesi di avere ricevuto segnalazioni sull’indagine che lo riguardava poi, il “cecato”, ha anche dato lezioni di investigazione in aula, raccontando di essersi accorti immediatamente dei pedinamenti, ma di averli associati alla perquisizione subita qualche giorno prima. «Sono sempre stato sotto controllo, ma dopo la perquisizione le cose sono peggiorate. Ma i pedinamenti erano visibilissimi, cioè era impossibile non vederli. Una volta – ha detto ancora l’imputato – si sono fermati in due in una macchina davanti a una banca, e la polizia che è passata più volte lì davanti non si è mai fermata. Cose che se mi ci mettevo io lì davanti a una banca, in due minuti arrivava l’esercito». Carminati poi è certo di essere stato usato come cardine per dare “forza” all’intero procedimento e, incurante dei 32 capi d’imputazione che gli vengono contestati, dall’associazione mafiosa alla corruzione, passando per l’usura e la violenza, ripete più volte di essere stato descritto come il male in persona. «Senza di me questo processo sarebbe stato ridicolo – affonda – invece c’è Carminati in mezzo e quindi cambia tutto. Ma forse – dice ancora – questo pensiero è solo figlio del mio Ego ipertrofico. Sulla figura del perseguitato Carminati ritorna più volte, intervallando il racconto con piccole frasi prese dalla strada. «Io c’ho un occhio solo, ma ci vedo benissimo» oppure, raccontando di quando avrebbe “fiutato” l’indagine che lo riguardava «La preda sa sempre che il cacciatore è in agguato». Ma sono i giornalisti le vittime preferite degli affondi di Carminati: «Io sono diventato una macchietta, chi mi conosce sa che sono una macchietta. Mi hanno dato del “Nero” di Romanzo Criminale, del samurai, mi hanno rotto tutti le palle. Ma queste cose che in un certo tipo di mondo ti rende ridicolo, non sono cose che ti danno potere, sono cose che ti fanno diventare deficiente. Tutti quelli che mi conoscono mi prendevano per il culo su questa cosa, sono diventato una macchietta, questa è la verità. Non sto dicendo che sono una mammoletta. Ma non c’entro nulla con Romanzo criminale, con i samurai e con tutte queste puttanate».
Banditello comune o boss de noantri? Ecco chi è Carminati…, scrive Paolo Delgado il 31 Marzo 2017 su "Il Dubbio". “Mafia capitale”, biografia di Carminati: la prima pistola se la procurò a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare le banche. È un bandito come tanti (non tantissimi però e ci tiene a rimarcarlo, con quel passato politico rivendicato in partenza e i continui riferimenti al senso dell’onore) oppure è il Totò Riina de noantri, il capo dei capi nella Capitale? Che la personalità e il ruolo dell’imputato pesino in un processo penale è consueto, ma che l’intera architettura dell’accusa dipenda dalla risposta a quegli interrogativi è invece inusuale. Trattasi anzi di un caso forse unico. «Senza di me questo processo è ridicolo»: almeno in questo Massimo Carminati ha senz’altro ragione. Se si tratti di una volgarissima storia di mazzette come in Italia se ne contano a mucchi o se invece ci si trovi di fronte a un modello nuovo e diverso, ma non meno pericoloso, di mafia dipende solo da questo: dal chi è davvero Massimo Carminati. E’ solo la sua presenza che giustifica l’accusa di mafia rivolta a una cooperativa abituata a distribuire tangenti e a una banda dedita essenzialmente al recupero crediti. Senza Pirata lo storico processo non va oltre un fattaccio di corruzione spiccia e cravattari di mano pesante. Criminale Massimo Carminati lo è di sicuro, e non fa nulla per nasconderlo. Al contrario rivendica: «Nel mondo di sotto ci sono pochi comandamenti, magari solo 3 ma li si rispetta. Le anime belle che stanno di sopra ne hanno dieci ma non ne rispettano nemmeno uno». La prima pistola se la procura a 16 anni, più per sparare ai compagni che per rapinare banche. «Sono un vecchio fascista degli anni ‘ 70 e sono contentissimo di esserlo», spiega ai giudici di Mafia Capitale nella sua prima deposizione dopo una quarantina d’anni di mutismo in numerose aule di giustizia. Nei ‘ 70 frequenta il Tozzi, scuola privata di Monteverde. In classe ci sono Alessandro Alibrandi, Franco Anselmi e Valerio Fioravanti, il nucleo centrale dei primi Nar, e c’è Maurizio Boccacci, futuro naziskin. Rispetto ai Nuclei armati rivoluzionari, Carminati è in realtà una figura anomala. Più che i bar di Monteverde bazzica il Fungo dell’Eur, altro luogo di ritrovo fisso del neofascismo romano, dove conta tra gli amici intimi i fratelli Bracci, che come lui sembrano subire il fascino della delinquenza pura oltre che della politica armata. A differenza degli altri Nar non viene dal Msi, e si configura già come una sorta di lupo solitario. Il ruolo visibilmente lo compiace, tanto da vantarsene ancora adesso: «Fanno la fila per ammazzarmi ma io posso stare solo contro tutti». Quando nel corso della prima rapina dei Nar, quella all’armeria di Monteverde Centofanti, Anselmi viene ammazzato dal proprietario, Carminati, per vendetta, piazza una bomba nel negozio. Fioravanti, che con i Nar sta pianificando l’omicidio del bottegaio, vede sfumare la rappresaglia e si risente. Tra i due, in realtà, non corre ottimo sangue e ancora oggi entrambi parlano dell’altro con un filo di disprezzo. Il futuro don capitolino coinvolge infatti nei suoi rapporti con la criminalità comune Alessandro Alibrandi e Fioravanti, che in materia è piuttosto moralista, non gliela perdona. Essendo quella dei Nar soprattutto una sigla a disposizione di chiunque avesse voglia di adoperarla, è difficile dire chi abbia davvero fatto parte della più famosa banda armata di estrema destra in Italia. Però Francesca Mambro è tassativa: Massimo non era dei Nar. Il particolare non è solo pittoresco. Proprio la militanza sia nei Nar che nella famigerata “banda” è infatti la fonte di quella “straordinaria caratura criminale” che nell’ordinanza della procura di Roma viene segnalata più volte e che, sola, giustifica l’accusa di associazione mafiosa. Franco Giuseppucci, Er Negro, Carminati lo conosce al bar che entrambi, vicini di casa, frequentano. Il primo capo della banda della Magliana è un fascistone, si tiene in casa il busto di Benito, il ragazzino fascista e determinato gli sta simpatico. Il rapporto tra i due vale a Carminati l’arruolamento d’ufficio nella banda resa celebre dal Romanzo di De Cataldo, con annesso film e due fortunatissime serie tv. In realtà il rapporto con la bandaccia non è diverso da quello con i Nar: Carminati è contiguo, mai davvero interno. Er Negro chiede qualche favore e secondo i pentiti, non suffragati però da sentenze di condanna, si tratta di favori sanguinosi, incluso l’omicidio Pecorelli. Qualche favore concede in cambio: Carminati gli affida i frutti delle rapine, Giuseppucci li presta a strozzo e poi gli consegna i cospicui interessi. A conti fatti per la lunga scia di sangue che la banda si porta dietro, la sola condanna che colpirà anche il fascista sarà per il deposito di armi della banda nei sotterranei del ministero della Salute. Leggenda vuole che Carminati fosse l’unico ad avere accesso a quell’arsenale oltre ai pezzi da novanta della banda. In realtà, a spulciare le testimonianze, viene fuori che se l’ingresso non era certo libero, non era neppure così riservato e limitato. La menomazione a cui deve il piratesco soprannome è conseguenza di un’imboscata in piena regola. il 20 aprile 1981. Alle origini ci sono probabilmente le confessioni di Cristiano Fioravanti che, arrestato pochi giorni prima, indica alla polizia il varco di frontiera che i Nar usano di solito per passare in Svizzera. L’appostamento mira a catturare Francesca Mambro, ammetteranno al processo i poliziotti, e quando passa la macchina sospetta mitragliano 145 colpi. Dentro, invece, ci sono Carminati, altri due fascisti, una ventina di milioni ma nessuna arma. I camerati restano illesi. Carminati perde l’occhio. «Da allora – ha detto ieri in aula l’imputato numero 1 – tra me e il mondo c’è una guerra che non è ancora finita». Da allora Carminati ha deposto i modi da ragazzo di buona famiglia che i compari della bandaccia ricordano adottando il tipico romanesco della coatteria locale. Da allora ci sono stati una sfilza di processi e un congruo numero d’anni passati in galera. La sola condanna seria arriva però per il furto al caveau del palazzo di Giustizia di Roma, nel 1999. Secondo alcune fantasiose belle penne il colpo gli permise di trafugare documenti riservati tanto deflagranti da tenere in stato di perenne ricatto un cospicuo numero di magistrati. Se fosse vero risulterebbe lievemente inquietante sapere che i giudici della Capitale sono in buona quantità ricattabili. Se fosse vero, peraltro, si capirebbe fino a un certo punto come mai il ricattatore soggiorna da oltre due anni nelle patrie galere in regime di 41bis, ormai unico o quasi a godere di quelle delizie ancora prima della prima condanna. Massimo Carminati sa perfettamente che in questo processo tutto dipende non da cosa ha fatto ma da chi è: senza dubbio si adopera per sminuire il proprio stesso ruolo. E’ certo che le frequentazioni e la dimestichezza con i boss della Capitale indicano un ruolo meno marginale di quanto voglia far sembrare. Ma, almeno agli atti, prove della sua sovranità sulla Roma criminale e quindi della sua primazia mafiosa proprio non sembrano esserci.
Mafia Capitale. Una Repubblica Ricattabile. I segreti della lista Carminati. Il ricatto alla Repubblica parte nell'estate del 1999 quando Massimo Carminati penetra nel caveau della banca a palazzo di Giustizia di Roma, e sceglie 147 cassette eccellenti. Adesso l'Espresso rivela la lista. E i suoi segreti. È un furto su commissione diretto a ricattare qualcuna delle vittime. Fra loro si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. E poi avvocati. Sono persone connesse con i più grandi misteri d’Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all’omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura. Di Lirio Abbate il 20 ottobre 2016 su Espresso TV
Gli avvisi di Carminati e i segreti ancora potenti. Cosa vuole dire e a chi parla il boss di mafia Capitale sotto processo a Roma, scrive Lirio Abbate il 28 novembre 2016 su "L'Espresso". Massimo Carminati sembra ossessionato dalle inchieste dell’Espresso. Un chiodo fisso che lo porta a svelare segreti mai confessati prima. Così, al tavolo giudiziario attorno al quale si sta giocando la partita processuale di mafia Capitale, il “re di Roma” ha calato il jolly: la vicenda dei documenti riservati rubati nel caveau della Banca di Roma nel 1999. Per 17 anni Carminati non ne aveva parlato: ha deciso di farlo dopo l’inchiesta di copertina dell’Espresso, “Ricatto alla Repubblica”. Nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999 il “nero” guidò un commando nel sotterraneo blindato della filiale di piazzale Clodio, all’interno della cittadella giudiziaria di Roma, svaligiando 147 cassette di sicurezza, selezionate da 900, con la complicità di alcuni carabinieri di sorveglianza. Mai nessuna delle vittime ha denunciato la sottrazione di quei documenti, perché - come scrivono i magistrati nella sentenza con cui è stato condannato Carminati - era difficile che qualcuno in possesso di questo materiale riservato fosse disposto a denunciarne la scomparsa. Eppure uno dei temi del processo che si è svolto a Perugia su quel furto era questo: il colpo di Carminati e soci poteva servire proprio ad acquisire documenti segreti. Da quasi due anni Carminati è in carcere. Ora parla in aula e ammette per la prima volta di aver rubato quei documenti. "È ovvio dal 2002 da dove proviene la mia disponibilità economica. Se c'erano tutti questi dubbi sulla mia partecipazione al colpo del caveau a piazzale Clodio (avvenuto nel luglio del 1999 ndr) potevano dirlo subito così mi assolvevano invece di condannarmi. C'erano tanti documenti in quel caveau, ma anche tanti soldi e io qualche soldo l'ho preso". Carminati è uomo attento e meticoloso. È uno stratega. Proprio come lo sono i boss delle mafie tradizionali. Per questo motivo martedì 22 novembre non gli possono essere sfuggite per caso frasi che rimandano a ricatti e intimidazioni. Ha detto espressamente: «È vero, c’erano molti documenti, e così fra un documento e l’altro ho preso pure qualche soldo». Un’affermazione che serve solo in apparenza a spiegare l’origine del suo patrimonio («qualche soldo»): il riferimento importante è invece quello ai documenti. In un dibattimento nel quale accusa e difesa si stanno scontrando sul sistema Carminati: sul fatto se sia o no mafia. Sono in molti ad ascoltare le parole di Carminati. Ma pochissimi danno il giusto peso a questa affermazione del “nero” sui documenti. Eppure proprio in questo passaggio è nascosta la “nuova mafia” romana. Meglio, il metodo mafioso. Oggi abbiamo la certezza che in alcune delle cassette aperte c’erano documenti importanti su cui Carminati voleva mettere le mani, grazie a questa ammissione fatta in aula. Il nostro titolo era “Ricatto alla Repubblica”, appunto. Perché il “nero” ha potuto godere a lungo di protezione grazie anche a queste carte. Oggi la storia può essere diversa perché diverse da allora sono le persone nei posti chiave della magistratura e delle istituzioni. Ma c’è sempre la possibilità che qualcuno abbia qualcosa da temere da quelle carte. Ed è per questo motivo che in aula Carminati ora ricorda di aver preso tanti documenti scottanti. Si tratta di un avviso ai naviganti. A quei marinai che con lui hanno solcato i mari in tempesta. E adesso stanno a guardare. I boss mafiosi come Riina e Bagarella non hanno bisogno di impugnare una pistola per incutere terrore: a loro basta uno sguardo, un gesto, una parola, per minacciare e intimidire. È ciò che accade anche con Carminati. Aver ricordato adesso i documenti sottratti durante il “furto del secolo”, come venne definito nel 1999, è un gesto di minaccia tipico della mafia e del metodo mafioso, ma anche un segnale che mostra il salto di qualità di questa mafia romana. Non accade per caso, ma alla vigilia di una importante sentenza - e dopo la nostra inchiesta che tanti fastidi ha provocato al “cecato”. Ora abbiamo la conferma che siamo davanti a una persona in grado di parlare a pezzi del Paese che ancora non conosciamo. E lo fa attraverso annunci che consegnano messaggi precisi a chi sa. Questo è il metodo, ed è mafioso.
Il ricatto di Massimo Carminati: ecco la lista dei derubati nel furto al caveau del 1999. Il Cecato svuotò 147 cassette, colpendo magistrati, avvocati, funzionari della Giustizia. Connessi con i più grandi misteri d'Italia: dalla strage di Bologna alla P2, dal delitto Pasolini all'omicidio Pecorelli, dalla Banda della Magliana a Cosa nostra. Sullo sfondo si staglia l'ombra di Andreotti. E così nasce un potere che fa ancora paura, scrivono Lirio Abbate e Paolo Biodani il 24 ottobre 2016 su "L'Espresso". Il colpo del secolo, era stato definito. Ma non era solo un furto clamoroso: il movente era un grande ricatto. Allo Stato e alla Giustizia. Nelle sentenze definitive i giudici scrivono di un bottino "eccezionale": «Almeno 18 miliardi di vecchie lire», mai recuperati. Sottolineano «l’audacia» di un’azione criminale «spettacolare»: un commando di banditi che riesce a svaligiare in tutta calma il caveau della banca più sorvegliata d’Italia, senza sparare, senza forzare neppure un lucchetto, senza far scattare il doppio sistema d’allarme. Vanno a colpo sicuro: hanno in mano una lista selezionata di cassette di sicurezza da svuotare. È un furto «pluriaggravato» che spinge i magistrati di ieri e di oggi a evidenziarne la «carica intimidatoria». Per «la valenza simbolica del luogo violato»: il palazzo di giustizia di Roma, in piazzale Clodio, presidiato giorno e notte da militari armati. Per «l’inquietante capacità di penetrazione corruttiva fin dentro l’Arma dei carabinieri». Per la qualità delle vittime: decine di alti magistrati, avvocati, cancellieri, consulenti, professionisti e imprenditori. E per il «potere di ricatto» che, secondo le sentenze, era il vero obiettivo di quell’assalto al cuore della giustizia italiana. Organizzato e diretto da Massimo Carminati, l’ex terrorista nero che proprio da allora diventa «un intoccabile». Un «boss carismatico» che, mentre è sotto processo con Giulio Andreotti per l’omicidio del giornalista Mino Pecorelli, svuota le cassette di sicurezza di una lista di magistrati e avvocati romani di cui vuole spiare i segreti. La genesi di "mafia Capitale" si concretizza nell’estate 1999, con questo grande colpo, mentre l’Italia s’illude di aver chiuso il libro nero della Prima Repubblica. Stragi di destra, terrorismo di sinistra e guerra fredda sono ricordi sbiaditi. A capo del governo c’è Massimo D’Alema, il primo premier post-comunista. Mentre Carminati s’infila di notte nel caveau, sul Paese c’è l’ombra della crisi e del "governo tecnico": D’Alema è preoccupato per il rinascere di un Grande centro che possa spingere la sinistra all’opposizione. Dopo decenni di debito pubblico, crisi e svalutazioni, i conti sono in ordine e l’euro alle porte sembra annunciare un’Europa forte e unita. L’economia cresce, l’euforia spinge i capitani coraggiosi della finanza a scalare ex monopoli statali come Telecom. Perfino Tangentopoli pare archiviata: nonostante le oltre mille condanne per corruzione e fondi neri del 1992-94, l’intesa bicamerale con la destra di Berlusconi ha partorito una riforma costituzionale, ribattezzata «giusto processo», in grado di annientare perfino i verbali d’accusa già raccolti dalla magistratura. Che non era mai arrivata così in alto: a Milano si processano anche i giudici corrotti della capitale, a Roma i boss impuniti della Banda della Magliana, tra Palermo e Perugia siede sul banco degli imputati addirittura il senatore a vita Giulio Andreotti per mafia e omicidio. L’attacco alla fortezza giudiziaria della capitale si consuma nella notte tra venerdì 16 e sabato 17 luglio 1999. La "città giudiziaria" è interamente recintata da alte mura sorvegliate notte e giorno da carabinieri. All’interno c’è l’agenzia 91 della Banca di Roma. Carminati e i suoi complici arrivano dopo le 18, dentro un furgone identico a quello in uso ai carabinieri, che in questo modo evita i controlli. A mezzanotte e mezza almeno otto banditi entrano nel caveau sotterraneo, senza scassinare nulla, usando le chiavi e le combinazioni fornite da un complice: un impiegato della banca rovinato dai debiti. A guidare il commando è Carminati in persona. In mano ha un foglio di carta con una lista di nomi, scritti a penna, in rosso: sono magistrati, avvocati, cancellieri. «Queste cassette sono roba mia», intima ai complici, tutti scassinatori molto esperti. «Tutto il resto è vostro» aggiunge il "Cecato". Le sentenze spiegano che Carminati, con quel colpo, «è alla ricerca di documenti per ricattare magistrati» e «aggiustare processi»: su 900 cassette ne vengono aperte solo 147. Aperture su indicazione. Gli altri banditi puntano ai soldi: sventrano intere file di cassette, arraffano contanti, gioielli e riempiono una quindicina di borsoni sportivi. Carminati invece ha «una mappa con i numeri delle cassette»: sono quelle che gli interessano, ritrovate aperte «in ordine sparso, a macchia di leopardo». Di fronte ai carabinieri, i criminali comuni scappano. L’ex terrorista nero invece ne ha corrotti almeno quattro, reclutati da un sottufficiale cocainomane: tre accompagnano la banda nel caveau, il quarto spalanca il cancello esterno della cittadella fortificata. Alle 4 di notte la razzia è terminata: i banditi se ne vanno con calma, sul furgone con i colori dei carabinieri, con un bottino pari a oltre nove milioni di euro, di cui verranno recuperati meno di 150 mila euro. Alle 6.40 di sabato 17 luglio l’addetta alle pulizie dà l’allarme. I primi agenti di polizia trovano nel caveau gli attrezzi da scasso e un caotico cumulo di cassette svuotate. Le prime notizie raccontano di una refurtiva miliardaria, tra oro, gioielli e denaro contante, ma anche di due chili di cocaina, di cui però negli atti del processo non c’è traccia. La Roma che conta trema: le cassette di sicurezza servono a custodire non solo gioielli, ma anche pacchi di denaro nero, che è rischioso depositare sui normali conti bancari. E spesso nascondono documenti e foto scottanti. Tra i clienti di quella banca ci sono decine di magistrati, avvocati e dipendenti del tribunale. L’elenco completo non era stato mai reso pubblico. Le indagini dei pm di Perugia ipotizzano che il colpo abbia subito un’accelerazione. Quella banca restava aperta anche di sabato. Se Carminati ha agito venerdì notte, significa che aveva fretta. C’è il fondato sospetto che l’ex terrorista avesse saputo che qualche cliente eccellente, la mattina seguente, progettava di ritirare qualcosa di molto importante. I giudici dei successivi processi, celebrati a Perugia proprio «per la massiccia presenza di magistrati tra le vittime», concludono che un furto del genere era sicuramente «finalizzato alla sottrazione di documenti scottanti, utilizzabili per ricattare la vittima o terzi». Le indagini non sono riuscite a chiarire se Carminati abbia raggiunto il suo obiettivo, soprattutto perché «nessuno ha denunciato la sottrazione di documenti». Il tribunale però non ci crede, osservando che «quanti per avventura avessero detenuto siffatto materiale, ben difficilmente sarebbero poi disposti a denunciarne con entusiasmo la scomparsa». Oltre al buon senso, un indizio è il ritrovamento, tra i resti fracassati delle cassette, di lettere e altre carte private, abbandonate dai banditi sul pavimento del caveau perché appartenevano a cittadini qualunque. Quindi anche quel caveau custodiva documenti. E un mare di contanti di oscura provenienza. L’assicurazione della banca ha risarcito solo il bottino documentabile: cinque miliardi di lire su un totale di «almeno 18». Eppure a Perugia nessuna vittima si è costituita parte civile nel processo a Carminati. Quel furto nasconde un quadro criminale che le sentenze definiscono «inquietante». Proprio l’identità delle vittime giudiziarie può misurare la capacità intimidatoria di chi oggi è accusato di essere il capo di Mafia Capitale. Ciò nonostante, neppure i magistrati riuscivano a ritrovare l’elenco completo dei derubati, mentre le sentenze finali citano solo pochi nomi, pur chiarendo che la banda del caveau ha svuotato le cassette di almeno 134 persone. Adesso "l’Espresso" ha recuperato le copie degli atti più importanti, da cui emergono dati e fatti rimasti inediti e così a distanza di diciassette anni dal furto vengono svelati. Sono atti che identificano due categorie opposte di vittime. Da una parte giudici onestissimi, rigorosi, preparati, spesso con ruoli di vertice nelle corti e nei ministeri, insieme a grandi avvocati, impegnati anche come difensori di parti civili in processi per mafia o terrorismo nero, compresi casi in cui era imputato lo stesso Carminati. Dall’altra, magistrati e legali con un passato imbarazzante, in qualche caso addirittura arrestati e condannati per corruzione. La toga più famosa è il titolare della cassetta svaligiata numero 720: «Domenico Sica, magistrato, prefetto». Per tutti gli anni Settanta e Ottanta, Sica è stato il più importante pm italiano, preferito a Giovanni Falcone come primo Alto commissario antimafia. Per i giudici amici era "Nembo Sic", l’attivissimo magistrato che ha guidato tutte le indagini più scottanti della procura di Roma, dal terrorismo politico agli scandali economici. I detrattori invece lo chiamavano "Rubamazzo", da quando una sua indagine parallela permise di sottrarre ai giudici di Milano l’inchiesta sulla P2 di Licio Gelli, chiusa a Roma dopo un decennio con risultati nulli. Sica è morto nel 2014, senza che nessuno pubblicamente lo avesse mai segnalato come vittima di Massimo Carminati. È stato lui ad occuparsi anche dell’omicidio Pecorelli, del caso Moro, dell’attentato al Papa e della scomparsa di Emanuela Orlandi. Giorgio Lattanzi, intestatario con la moglie di un’altra cassetta svuotata, oggi è il vicepresidente della Corte costituzionale. Per anni è stato uno dei più autorevoli giudici della Cassazione: come presidente della sesta sezione penale, in particolare, guidava i collegi chiamati a rendere definitive (o annullare) tutte le condanne per corruzione emesse in Italia. Contattato dall’Espresso, il giudice Lattanzi, tramite un portavoce, conferma di «aver denunciato subito il fatto» e precisa che «all’epoca non aveva nessun elemento per ipotizzare qualcosa di diverso da un semplice furto, anche perché in quel periodo non trattava processi di particolare rilevanza e nella cassetta non custodiva alcun documento, mentre il reato gli causò un danno economico molto rilevante, poi risarcito dall’assicurazione». Tra i legali spiati e derubati spicca Guido Calvi, ex senatore del Pds-Ds dal 1996 al 2010, quando fu eletto al Csm. Calvi è stato avvocato di parte civile in molti processi contro il terrorismo di destra: il suo nome compare anche nell’ultimo ricorso in Cassazione contro l’assoluzione di Carminati per il più grave depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna (2 agosto 1980, 85 vittime), organizzato per evitare la condanna definitiva di Valerio Fioravanti e Francesca Mambro, come lui neofascisti dei Nar. Calvi è stato avvocato di Massimo D’Alema e ora presiede un comitato per il No. Il suo studio legale è parte civile nel processo a mafia Capitale. «Che il furto al caveau avesse una finalità ricattatoria è qualcosa di più che un sospetto», spiega l’avvocato Calvi, il quale aggiunge: «Il colpo al Palazzo di giustizia era chiaramente finalizzato a colpire avvocati e alti magistrati, a trovare carte segrete... Nella mia cassetta però tenevo solo gioielli di famiglia, nessun documento. Mi manca soprattutto la mia collezione di penne, di valore solo affettivo: sono un avvocato di sinistra, difendo anche clienti poveri, che poi per sdebitarsi mi regalano una Montblanc con il mio nome inciso. Erano i più bei ricordi della mia carriera. Lo dico sempre all’avvocato Naso: almeno le penne il tuo cliente potrebbe restituirmele...». Giosuè Naso è il difensore di Carminati. Il furto al caveau ha colpito anche altri prestigiosi avvocati, come Nino Marazzita, amico di Guido Calvi, che ricorda: «Abbiamo lavorato più volte insieme, anche contro la destra romana. Con Nino presentammo la prima denuncia per riaprire l’inchiesta sull’omicidio di Pier Paolo Pasolini, dove ero stato parte civile, nel tentativo di identificare i complici neofascisti di Pino Pelosi». Alla domanda se ritenga possibile che Carminati, con il colpo al caveau, abbia raggiunto l’obiettivo di intimidire qualche giudice, l’avvocato Calvi risponde così: «I processi sulle stragi nere e sui depistaggi dei servizi, da piazza Fontana a Bologna, sono pieni di assoluzioni assurde firmate da magistrati collusi o intimiditi. Prima del maxiprocesso di Falcone e Borsellino, anche i processi di mafia finivano sempre con l’insufficienza di prove». I primi rapporti di polizia identificano, tra le vittime del furto, 17 magistrati, 55 avvocati, 5 cancellieri, altri 17 dipendenti del tribunale, un carabiniere e un perito giudiziario. I principali danneggiati sono quattro imprenditori romani che si sono visti rubare l’equivalente in lire di 500 mila euro e un milione ciascuno. Decine di denunce risultano però presentate in ritardo, dagli effettivi proprietari di beni custoditi in cassette intestate ad altri: familiari o amici fidati. Negli atti completi, quindi, si contano almeno 22 magistrati. Quasi tutti con ruoli di vertice: presidenti di sezioni civili o penali del tribunale o della corte d’appello, magistrati dirigenti del ministero della giustizia, giudici e sostituti pg della Cassazione. Nella procura di Roma, competente a indagare su Carminati, la banda del caveau ha preso di mira tra gli altri l’aggiunto Giuseppe Volpari, capo dei pm di Tangentopoli nella capitale, spesso in contrasto con i magistrati milanesi di Mani Pulite. Stando agli atti risulta forzata ma non aperta anche la cassetta di sicurezza di Luciano Infelisi, il controverso ex pm che incriminò i vertici della Banca d’Italia, Paolo Baffi e Mario Sarcinelli, che nel 1979 si rifiutarono di salvare Michele Sindona, il banchiere della mafia e della P2, poi condannato per l’omicidio dell’"eroe borghese" Giorgio Ambrosoli: uno scandalo giudiziario ricostruito nel processo Andreotti. Il giudice della stessa istruttoria era Antonio Alibrandi: il padre del terrorista nero Alessandro Alibrandi, uno dei fondatori dei Nar (con Fioravanti e Carminati), ucciso nel 1981 in una sparatoria con la polizia. Tra le vittime del furto ci sono poi diversi avvocati della banda della Magliana (ormai divisa) e altri legali collegati alla P2, come Gian Antonio Minghelli, registrato nella loggia segreta di Gelli insieme al padre, un generale della Pubblica sicurezza. Oltre a derubare giudici e avvocati integerrimi, la banda di Carminati ha svuotato le cassette di magistrati già allora inquisiti. Come Orazio Savia, pm di alcune tra le più contestate indagini romane, come il caso Enimont o il misterioso suicidio nel 1993 del dirigente ministeriale Sergio Castellari. Savia nel 1997 è stato arrestato e condannato per corruzione. Svaligiati anche due forzieri di Claudio Vitalone, ex pm romano, poi senatore e ministro andreottiano, defunto nel 2008, e una terza cassetta intestata al fratello Wilfredo, avvocato, che ha presentato diverse denunce a Perugia. Al momento del furto, Carminati attendeva la sentenza di primo grado del processo per l’omicidio di Mino Pecorelli, insieme ad Andreotti, lo stesso Claudio Vitalone e tre boss di Cosa nostra. Due mesi prima, i pm di Perugia avevano chiesto l’ergastolo. Il giornalista che conosceva i segreti della P2 era stato ucciso nel 1979 con speciali pallottole Gevelot, dello stesso lotto di quelle poi sequestrate nell’arsenale misto Nar-Magliana, allora gestito proprio da Carminati. Sembrava incastrato da tre pentiti della Magliana, in grado di riferire le rivelazioni di Enrico De Pedis, il boss sepolto nella basilica di Sant’Apollinare, e Danilo Abbruciati, ammazzato a Milano mentre tentava di uccidere Roberto Rosone, il vicepresidente del Banco Ambrosiano. La sentenza su Pecorelli viene emessa a settembre, due mesi dopo il furto: tutti assolti. In appello addirittura la corte condanna Andreotti (poi assolto in Cassazione), ma non Carminati. Negli stessi mesi l’ex terrorista nero ha un’altra emergenza giudiziaria: è imputato di aver fornito a due ufficiali piduisti del Sismi (già condannati con Licio Gelli) il mitra e l’esplosivo che i servizi segreti fecero ritrovare su un treno, per depistare l’inchiesta sulla strage di Bologna, fabbricando una falsa «pista internazionale». Per questa vicenda nel giugno 2000 Carminati viene condannato a nove anni di reclusione. Ma nel dicembre 2001 i giudici d’appello di Bologna lo assolvono con una motivazione a sorpresa: è vero che ha prelevato dal famoso arsenale un mitra Mab modificato, ma non è certo fosse proprio identico a quello usato per il depistaggio, per cui il reato va considerato prescritto. Tutte le sentenze meritano rispetto perché il codice impone che vengono confermate o smentite dalla Cassazione. Ma in questo caso non succede. La procura generale di Bologna non ricorre contro l’assoluzione di Carminati. L’avvocatura generale, che all’epoca rappresenta il governo Berlusconi, non si presenta in udienza. Contro Carminati rimane solo il ricorso dei familiari delle vittime, ma la Cassazione lo dichiara «inammissibile»: i parenti possono piangere i morti, ma «non hanno un interesse giuridico» a contestare i depistaggi, anche se organizzati per garantire l’impunità agli stragisti. Per il furto al caveau, Carminati viene arrestato il 29 dicembre 1999, grazie alle confessioni di tre carabinieri corrotti, e torna libero il 18 gennaio 2001, con il suo bottino ancora intatto. Da quel momento c’è uno spartiacque nei suoi processi. Nel marzo 2001, prima dell’assoluzione di Bologna, la Cassazione annulla le condanne per mafia inflitte in primo e secondo grado alla Banda della Magliana. Carminati si vede dimezzare la pena, interamente scontata con la detenzione per le altre accuse ormai cadute. A Roma la mafia, almeno per la Cassazione, non c’è più. Anzi non c’è mai stata. A Perugia, nel 2005, a conclusione di un dibattimento che riserva udienza dopo udienza molte sorprese a favore dell’imputato, il boss nero viene condannato a quattro anni per il furto al caveau e la corruzione dei carabinieri. Le sentenze denunciano reticenze dei testimoni, rifiuti di deporre, depistaggi, falsi alibi accreditati perfino da un notaio e dal capo della gendarmeria di San Marino. Salta fuori che i carabinieri avevano interrogato il noleggiatore del furgone un mese prima della polizia, senza essere titolari dell’indagine e senza dire niente alla procura. Tre alti ufficiali dell’Arma vengono indagati per omessa denuncia: il tribunale di Perugia osserva «con stupore» che si sono rifiutati di testimoniare «benchè già archiviati». In aula l’unico scassinatore che aveva confessato, Vincenzo Facchini, interrogato dal pm Mario Palazzi, si rifiuta perfino di pronunciare il nome di Carminati: «Io questo signore non lo conosco, non lo voglio conoscere», risponde terrorizzato. E poi aggiunge: «Con questa domanda lei mi mette la testa sotto la ghigliottina!». La condanna per il colpo al caveau diventa definitiva il 21 aprile 2010. Ma Carminati evita il carcere grazie all’indulto Prodi-Berlusconi, che gli cancella tre anni di pena. Quindi ottiene l’affidamento nella cooperativa sociale di Salvatore Buzzi. E, secondo l’accusa, fonda Mafia Capitale.
Lista Carminati, l'elenco delle vittime del furto. Avvocati, magistrati, dipendenti del tribunale, carabinieri e ctu. Per la prima volta l'Espresso è in grado di rivelare di chi erano le cassette di sicurezza violate dal Cecato nel colpo al palazzo di Giustizia del 1999, scrive L'Espresso" il 24 ottobre 2016.
NOME – PROFESSIONE - NUMERO CASSETTA
Aldo Ambrosi Avvocato 188
Virginio Anedda Magistrato 274
Maria Luisa Arzilli Cancelliere 379
Giuseppe Altobelli Dipendente Tribunale 691
Mirella Antona Dipendente Tribunale 714
Silvio Bicchierai Commercialista 90
Giuseppina Bragagnolo Commercialista 115
Giulia Brizzi Dipendente Tribunale 125
Luigi Bartolini Cancelliere 191
Marisa Bondanese Dipendente Tribunale 985
Gualtiero Cremisini Avvocato 393
Francesco Caracciolo di Sarno Avvocato 421
Guido Calvi Avvocato 445
Giuseppe Castaldo Dipendente Tribunale 718
Enzo Carilupi Avvocato 721
Michele Caruso Avvocato 113
Silvia Castagnoli Magistrato 123
Claudia Cannarella Dipendente Tribunale 133
Giuseppe Crimi Avvocato 137
Annamaria Carpitella Avvocato 145
Maurizio Calò Avvocato 174
Cesare Romano Carello Avvocato 177
Leonardo Calzona Avvocato 233
Dario Canovi Avvocato 240
Giovanni Casciaro Magistrato 261
Antonio Cassano Magistrato 282
Carla Cochetti Dipendente Tribunale 382
Francesco De Petris Avvocato 30
Anna Maria Donato Avvocato 127
Giovanni De Rosis Morgia Avvocato 189
Lucio De Priamo Avvocato 192
Francesco d'Ajala Valva Avvocato 237
Assunta Bruno De Santis Dipendente Tribunale 385
Generoso Del Gaudio Dipendente Tribunale 693
Serapio De Roma Avvocato 713
Alessandro Fazioli Avvocato 52 e 212
Maria Frosi Avvocato 120
Torquato Falbaci Magistrato 209
Giuliano Fleres Avvocato 255 e 257
Efisio Ficus Diaz Avvocato 285
Giorgio Fini Avvocato 692
Maria Grappini Avvocato 15
Ivo Greco Magistrato 235
Giuseppe Cellerino Magistrato 126
Adalberto Gueli Magistrato 141
Aurelio Galasso Magistrato 213
Giuseppe Gianzi Avvocato 259
Francesco Giordano Avvocato 391
Vito Giustianiani Magistrato 403
Angelo Gargani Dipendente Tribunale 543
Fabrizio Hinna Danesi Magistrato 715
Michele Imparato Cancelliere 248
Maria Elisabetta Lelli Ctu 114
Stefano Latella Carabiniere 121
Giorgio Lattanzi Magistrato 215
Antonio Liistro Magistrato 258
Mauro Lambertucci Avvocato 324
Michelino Luise Avvocato 741
Antonio Loreto Avvocato 65
Vanda Maiuri Dipendente Tribunale 35
Simonetta Massaroni Avvocato 183
Nicola Mandara Avvocato 277
Antonio Minghelli Avvocato 280
Caterina Mele Avvocato 297
Luigi Mancini Avvocato 333
Giancarlo Millo Magistrato 378
Alberto Oliva Avvocato 446
Bruno Porcu Avvocato 12
Liliana Pozzessere Dipendente Tribunale 202
Francesco Palermo Avvocato 343
Enrico Parenti Magistrato 368
Valeria Rega Cancelliere 74
Bruno Riitano Avvocato 110
Agostino Rosso Di Vita Avvocato 178
Filomena Risoli Dipendente Tribunale 394
Domenico Ruggiero Avvocato 451
Gisella Rigano Dipendente Tribunale 738
Francesco Rizzacasa Avvocato 743
Antonietta Sodano Avvocato 149
Domenico Sica Magistrato 720
Vincenzo Taormina Avvocato 94
Cesare Testa Avvocato 181
Wilfredo Vitalone Avvocato 81
Claudio Vitalone Magistrato 304 e 306
Bruno Villani Avvocato 164
Fortunato Vitale Avvocato 50
Giuseppe Volpari Magistrato 281
Paolo Volpato Avvocato 380
Umberto Zaffino Avvocato 199
Edmondo Zappacosta Avvocato 236 e 322
Maurizio Zuccheretti Avvocato 252
Per ricattare magistrati e avvocati in cambio di alleggerimenti di sentenze o sconti di pena. Furto al caveau del tribunale. A caccia di soldi e documenti. E i pm perugini adesso accusano: "I carabinieri non hanno collaborato", scrive il 10 luglio 2000 “La Repubblica. Perquisizioni e arresti per il furto nel caveau della filiale della Banca di Roma, all'interno del tribunale della capitale. In una notte, quella tra il 16 e il 17 luglio scorso, vennero saccheggiate 147 cassette di sicurezza di "proprietà" di dipendenti del palazzo. Un furto che apparve come uno schiaffo: a una banca e nel cuore del tribunale. Ma anche un colpo non semplice da mettere a segno, riuscito grazie a una infinita serie di complicità dentro e fuori il Palazzo di giustizia. E con più di un obiettivo: ricavare soldi ed entrare in possesso di documenti compromettenti per poi ricattare magistrati e avvocati. Una trama sulla quale per un anno hanno indagato la Procura della repubblica di Perugia e la Squadra mobile della capitale, che stamattina hanno dato il via a una serie di arresti e perquisizioni. Un'indagine che ha messo in luce l'esistenza di una banda a più teste: carabinieri, ex della banda della Magliana, esponenti dell'estrema destra, dipendenti dell'istituto di credito e del tribunale. E il furto nel caveau assume contorni diversi: ladri alla ricerca di soldi e gioielli ma anche di documenti compromettenti da usare come armi di ricatto verso i clienti dell'istituto, per lo più magistrati e avvocati. Un'indagine, si apprende adesso, che sarebbe andata avanti più velocemente se l'esito degli accertamenti compiuti dai carabinieri della capitale fosse stato comunicato per tempo. Questa almeno è l'accusa dei pm perugini che esprimono anche diverse "perplessità" per alcuni atti svolti dei militari. Nella loro ordinanza si parla infatti di "mancati approfondimenti investigativi" sulle notizie acquisite dai militari e la "mancata comunicazione" delle stesse alla procura del capoluogo umbro. Nonostante la mancata cooperazione, tuttavia, sotto accusa è finito Marco Vitale, 51 anni, reduce della banda della Magliana, già in carcere. Complice del furto anche un dipendente della Banca di Roma, Orlando Sembroni, 49 anni. Nella banda anche Lucio Smeraldi, 61 anni, gestore dell'edicola interna del tribunale. Gli arresti riguardano poi altri "cassettari", ricettatori, complici e basisti. Confermato, anzi aggravato, il ruolo di quattro carabinieri in servizio a Piazzale Clodio (Mercurio Digesu, di 41, Feliciano Tartaglia, di 37, Adriano Martiradonna, di 48, Flavio Amore di 30 anni, mentre un quinto militare, Roberto Cozzolino è accusato solo di concorso in furto aggravato). Il tramite con l'Arma dei carabinieri era il capo dei "cassettisti" storici romani, Stefano Virgili, 49 anni, apparentemente uscito dal giro e boss dei parcheggiatori dell'Eur con la società Mutua Nova. Nei guai un esponente dell'estrema destra Massimo Carminati, 42 anni, anch'egli interessato al contenuto delle cassette di sicurezza. Tra gli arrestati un dipendente della Corte d'appello di Roma, Reginaldo Velocchia, 64 anni. Insieme a un avvocato penalista romano Antonio Iuvara (sottoposto alla misura dell'obbligo di dimora) avrebbe fatto pressione su un presidente della Corte d'appello di Roma Tommaso Figliuzzi con un preciso motivo: alleggerire in secondo grado la condanna di Vitale nel processo per la banda della Magliana. Ottenendone magari la scarcerazione, perché proprio il Vitale avrebbe partecipato dal carcere all'operazione "cassette di sicurezza". La banda dei "cassettieri" (trenta persone coinvolte, venti arrestate e dieci indagate), cercava così di arrivare al controllo del palazzo di giustizia e stavano organizzando un nuovo colpo, secondo quanto dichiarato dagli inquirenti. Questa volta l'obiettivo era l'ufficio corpi di reato della Procura della repubblica di piazzale Clodio, dove sono custoditi i reperti sequestrati nell'ambito delle indagini giudiziarie: armi e droga. Materiale che sarebbe servito sia per ricavare denaro (dalla vendita di droga), sia per compiere azioni criminali.
Mafia Capitale, Carminati e i dossier scomparsi nel 1999. Il misterioso furto al caveau della Banca di Roma del Tribunale di Roma fa da sfondo all'inchiesta capitolina, scrive l'11 dicembre 2014 Sabino Labia su "Panorama". In una delle ultime intercettazioni relative all’inchiesta di Mafia Capitale si sente Massimo Carminati parlare il 27 gennaio 2012, con un’altra persona, del Procuratore Capo di Roma Giuseppe Pignatone e dei rischi del suo arrivo alla Procura romana per tutta l’organizzazione perché avrebbe buttato all’aria Roma visto che in Calabria ha capottato tutto e non si fa inglobà dalla politica. Tra il finto stupore generale e lo sgomento che sta provocando questa inchiesta, c’è anche l’anomala, per usare un eufemismo, vicenda di come Carminati, un personaggio dall’oscuro passato, sia uscito sempre indenne da tutte le inchieste che lo hanno coinvolto. Per quale motivo il Guercio si preoccupa proprio dell’arrivo di un giudice completamente estraneo al mondo romano e, soprattutto, dal curriculum di vero servitore dello Stato? E’ sufficiente rileggere la cronaca di qualche anno fa per avere un’idea. C’è una strana storia a fare da sfondo a tutta questa sporca vicenda e che suscita una certa inquietudine. Risale al 1999 e traccia in maniera precisa e inequivocabile il ruolo di Carminati a Roma. E’ il 16 luglio ed è un venerdì, intorno alle 18un furgone blu con il tetto bianco, simile a quelli usati dai carabinieri, ma con la differenza che si tratta di un comune furgone preso a nolo e ridipinto, supera uno dei cancelli del Tribunale della Capitale. Scendono tre uomini e con naturalezza si confondono tra le tantissime persone che in quel momento affollano la cittadella della Giustizia che dispone di quattro palazzi di cinque piani e di quattro ingressi. Alle 14 i due accessi laterali vengono regolarmente chiusi. Alle 20 gli addetti alla sicurezza chiudono l’entrata principale di Piazzale Clodio; a quel punto rimane aperto un solo varco, sul retro, in via Varisco, dove staziona un carabiniere di guardia. Tutti i visitatori, nel frattempo, sono usciti tranne i tre uomini che sono riusciti a nascondersi chissà dove. Passano tre ore e, alle 23, muniti di torce escono dal nascondiglio e si dirigono verso lo sportello della Banca di Roma che si trova nel corridoio della Pretura Penale e che dista soltanto 70 metri dal Commissariato di Polizia interno al Tribunale dove staziona sempre un poliziotto di guardia. Nel giro di quindici minuti i tre, muniti di chiavi false, aprono la porta blindata della banca e con un by-pass elettronico disinnescano il sistema d’allarme collegato al 113 e a un istituto di vigilanza privato. Si dirigono al cancello che dà accesso a due rampe di scale, scendono velocemente e arrivano a un’altra porta blindata, la aprono ed entrano nel caveau. All’interno ci sono 997 cassette di sicurezza, ma l’obiettivo dei tre sono solo 197 cassette segnate con una crocetta rossa da qualche complice che si è preoccupato di svolgere il proprio compito in precedenza. Con una grossa pinza le aprono e trasferiscono il contenuto di 174 cassette in 25 borsoni che si erano portati dietro. Le altre 23 cassette aperte rimangono intatte, forse non interessava il contenuto. Dopo due ore di operazione i tre escono dal caveau e attendono nascosti che alle 3 arrivi il quarto complice con l’auto all’uscita laterale di via Strozzi, un’entrata chiusa da oltre un mese per motivi di sicurezza e utilizzata solo dai magistrati; rompono il lucchetto ed escono. Si fermano a un bar per fare colazione e subito dopo si disperdono nel caldo della notte romana. Alle 6,40 di sabato 17 la donna delle pulizie dà l’allarme. I primi poliziotti che accorrono trovano alcuni pezzi dell’attrezzatura: guanti, piedi di porco e cacciaviti. Manca solo l’estrattore, l’attrezzo utilizzato per scardinare le cassette. Fino a quel momento il caveau della Banca di Roma situato all’interno del Tribunale era considerato una sorta di Fort Knox per la sua sicurezza ma, nel giro di poche ore, è diventato il luogo più insicuro al mondo situato nell’ormai famoso porto delle nebbie (il nome dato al Tribunale della Capitale per come molte inchieste finivano insabbiate tra gli anni ’70 e gli anni ’90). E anche questa storia sembra subire la medesima sorte. Le prime notizie raccontano di un bottino composto da documenti, due chili di cocaina, gioielli per cinquanta miliardi, cinque quintali d’oro e soldi per dieci miliardi di lire. Quello che più inquieta è che i proprietari delle cassette erano magistrati, avvocati e dipendenti del Tribunale. Le prime reazioni sono tra il comico e il grottesco, ma nessuno immagina quello che si scoprirà di lì a qualche mese. A occuparsi dell’inchiesta è, per competenza, la Procura di Perugia che a dicembre dello stesso anno traccia le prime conclusioni. Secondo i magistrati umbri Silvia Della Monica e Mario Palazzi il palazzo di Giustizia romano era, da almeno un anno e mezzo, in mano a Massimo Carminati, (che nel frattempo è stato arrestato, e che in quei giorni era anche accusato di essere l’autore materiale dell’omicidio di Mino Pecorelli poi assolto), e altri tre complici esperti nell’apertura di cassette di sicurezza. Nel corso di questo arco di tempo il Guercio, che secondo i giudici era più interessato ai documenti che al contante, aveva avuto libero accesso oltre che al caveau anche ad alcuni uffici, compresi quelli del sesto piano dove si trovano le sale d’ascolto per le intercettazioni. A fare queste rivelazioni sono due carabinieri che confessano di essere stati i complici della banda. Passano i giorni e la storia del furto si tinge sempre più di giallo. A un anno di distanza i giudici scoprono che non si sarebbe trattato di un semplice furto di una banda di ladri, anche perché di banche a Roma c’è l’imbarazzo della scelta, ma di un preciso colpo su commissione realizzato per ricattare alcuni personaggi. I protagonisti della vicenda sono carabinieri corrotti, esponenti della Banda della Magliana, un cassiere di banca, un impiegato del Ministero della Giustizia, un avvocato massone e, perché non manca mai, un collaboratore dei Servizi Segreti. Detto che di quel bottino e di quei documenti non si è avuta più traccia, a quindici anni di distanza Massimo Carminati si è preoccupato dell’arrivo di Pignatone a Roma perché avrebbe messo ordine soprattutto al porto delle nebbie.
Mafia Capitale, Massimo Carminati svaligiò la superbanca per ricattare i giudici, scrive l'08/06/2015 "Giornalettismo". Una delle rapine più misteriose della capitale d'Italia venne commessa proprio dal "Cecato": Salvatore Buzzi sa tutto, o quasi. Quali i mandanti? Quali le coperture politiche? Mafia Capitale, così Massimo Carminati svaligiò il caveau della Banca di Roma a Piazzale Clodio, una delle filiali più inespugnabili della Capitale d’Italia e meno frequentate dai “cassettari” dell’Urbe proprio per l’alto rischio necessario a “trattarla”. Ma Carminati, nel lontano 1999, riuscì a svuotare le cassette di sicurezza: per rapinare valori, oro, gioielli? No, o meglio, anche: ma principalmente documenti. Documenti importanti che potevano essere utili per ricattare proprio i giudici del Palazzaccio. Questo fu l’unico crimine per cui Massimo Carminati, detto il “cecato”, fu effettivamente condannato. La storia del colpo la racconta Salvatore Buzzi, sodale di Massimo Carminati nell’organizzazione criminale che le inchieste del Mondo di Mezzo stanno portando alla luce, nelle intercettazioni riportate dal Messaggero. Vennero svaligiate 147 cassette di sicurezza su 900. A distanza di anni, dopo indagini, arresti e tre gradi di giudizio, sono gli atti dell’inchiesta Mafia capitale a confermare quella che è sempre sembrata l’unica vera ragione del colpo: acquisire documenti per ricattare giudici e avvocati. È proprio Salvatore Buzzi, che del Nero conosce fama e misteri, a tirare in ballo la vecchia storia, mentre con l’ex brigatista Emanuela Bugitti discute su quale sia il modo più rapido per recuperare atti riferibili alla locazione di un complesso immobiliare, di nuova costruzione, a Nerola. La chiave di tutto è ancora una volta Carminati, a lui nessuno è in grado di dire di no. Ricorda Buzzi: «Lui fa na…na rapina alle cassette di sicurezza della…(furto al caveau della Banca di Roma, ndr)…trovano de tutto e de più». Aggiunge Bugitti: «Sono i giudici che mettono le cose». Allora Buzzi spiega: «Eh, qualcuno è ricattabile. Secondo te perché non è mai stato condannato. A parte questo reato, tutto il resto sempre assolto…». Sempre assolto, Carminati, tranne che nel 1999: quattro anni di galera, più volte indultati. Dal colpo la banda di Carminati porta via ingenti quantità d’oro che prova a piazzare, raccontano testimoni e pentiti interrogati dai magistrati. [Parla] Giuseppe Cillari, le cui vicende giudiziarie sono legate all’omicidio Casillo e alle attività della Banda della Magliana. «Una sera – riferì ai pm – vennero da me Pasquale Martorello, Piero Tomassi e Stefano Virgili che volevano disfarsi dell’oro. È avvenuto dopo l’arresto dei carabinieri». All’incontro erano presenti l’ex cassettaro e neo-imprenditore Virgili, che di lì a poco verrà colpito da mandato di cattura, e altri complici del colpo. Ricorda ancora Cillari: «Mi hanno parlato di 5 quintali d’oro da piazzare e io ho detto che quell’oro valeva il prezzo di mercato meno il dieci per cento. Complessivamente 50 miliardi. Mi è stato detto che c’erano anche altri 5 miliardi di certificati, più un miliardo e 200 milioni in contanti. L’oro è stato sepolto prima nei pressi di Viterbo, poi a Montalto di Castro. Martorello sa dov’è». Ma a nessuno interessa l’oro di Carminati, men che meno al “Nero” della banda della Magliana. La rapina nel caveau della Banca di Roma di Piazzale Clodio ha tutt’altra ragione. Una storia oscura, fatta di mandanti nella Roma bene e di intrecci con i servizi segreti, secondo le testimonianze. Il vero scopo – rivela il ricettatore – non erano i soldi, ma i documenti che valgono molto più dei gioielli. So che hanno documenti importanti. Il motivo per cui è stato fatto il furto è stato quello di prendere dei documenti che potessero servire a ricattare i magistrati e so che i documenti sono stati trovati. Mi è stato riferito che il furto sarebbe stato commissionato a Virgili da alcuni avvocati, due romani. So che l’interesse era rivolto a documenti di magistrati, in modo da poterli ricattare per la gestione dei processi importanti che hanno su Roma. Uno di questi si trova a Montecarlo con Tomassi e tale Giorgio Giorgi, dei servizi segreti. Ed è proprio riguardo i presunti mandanti di Carminati che il terreno per i testimoni, o comunque per chi sceglie di parlare, si fa immediatamente scivoloso. Su Carminati e presunti ispiratori “politici”, poi, nessuno ha voluto aggiungere nulla. Nemmeno Vincenzo Facchini, uno dei complici nel colpo che ha scelto di collaborare. Davanti a quel nome ha manifestato addirittura un atteggiamento ostruzionistico, e al pm Mario Palazzi che gli ha chiesto dei suoi rapporti con il Nero, ha risposto: «Dottore, questa domanda mi mette sotto la ghigliottina. Io questo signore non lo conosco e non lo voglio conoscere».
Un paese fondato sui dossier. Le liste di Sindona, Gelli, Calvi, le rivelazioni a sfondo sessuale. Così ricattare è stato, nella storia d’Italia, un modo di comandare, scrive Bruno Manfellotto su "L'Espresso" il 24 ottobre 2016. Non c’è cronista della mia generazione che non abbia sognato di mettere le mani sulla mitica lista dei 500 esportatori di capitali della Finabank di Michele Sindona, amorevolmente salvati e rimborsati dalla super andreottiana Banca di Roma un attimo prima che la bancarotta li travolgesse. Almeno toccarli, quei fogli, darci un’occhiata... Niente. Anche perché la lista è esistita, certo, ma non c’è più, solo pochi l’hanno letta, e comunque qualcuno l’ha fatta sparire. Di Ferdinando Ventriglia, dominus della Banca di Roma e della politica economica dalla metà degli anni Settanta, si raccontava addirittura che non l’avesse nemmeno voluta vedere, anzi che se la fosse letteralmente data a gambe quando gliene parlarono. Chissà. Comunque, che spettacolo vedere sulla scena il meglio di politici, imprenditori, alti prelati, barbe finte (molti riempiranno la P2 di Licio Gelli) impegnati a difendersi minacciando. Storia finita però in un nulla di fatto, senza colpevoli e senza verità, come tante altre sordide faccende di veline. E di generale omertà. Ma in fondo, quel che conta per chi alimenta le centrali della diffamazione, non è come va a finire, ma cosa succede nel frattempo, cioè dopo che la bomba è esplosa. E il dopo dura sempre molto. Una Repubblica fondata sul ricatto. Con radici antiche. Giolitti e Crispi, fine Ottocento, si fecero la guerra minacciando rivelazioni intorno al crac della Banca Romana; Fanfani e Piccioni, anni Cinquanta, si giocarono la successione a De Gasperi al vertice della Dc a colpi di memoriali sul caso di Wilma Montesi, trovata morta sul litorale di Torvajanica; i primi vagiti del centrosinistra, anni Sessanta, furono accompagnati dalle 157 mila schedature del Sifar del generale De Lorenzo, quello del “tintinnar di sciabole” di un colpo di Stato sventato. E del resto, molti anni prima, anche Mussolini aveva fatto largo uso degli archivi dell’Ovra, e li temeva perfino per se stesso e per la sua Claretta. Poi sfornare dossier è diventato abitudine, dall’artigianale agenzia “Op” di Mino Pecorelli agli otto computer di Pio Pompa, l’agente del Sismi ingaggiato contro i nemici del Cav. A ciascuno il suo dossier. Una lista pronta all’uso finiscono per farsela in casa pure Diego Anemone, cricca degli appalti pubblici, e perfino il Madoff dei Parioli. Non si sa mai. Gli argomenti cari ai fabbricanti di ricatti sono sempre le banche, cioè i soldi, e il sesso, eterno metronomo della politica. Al primo appartiene, appunto, la lista dei 500 resa nota perché chi doveva sapere sapesse quanti erano gli amici potenti alla corte di Sindona. Per arrivare al processo ci vorranno dieci anni, ma la lista non si troverà più e chi l’aveva nascosta non sarebbe stato perseguibile per intervenuta amnistia. Amen. Poi c’è il romanzo dello Ior, da Marcinkus a Gotti Tedeschi, passando per Calvi, Mennini e Pazienza, e pure la banda della Magliana di Renatino De Pedis, ogni volta con larga diffusione di carte e allusioni. E naturalmente ci sono le cassette di sicurezza del Palazzo di Giustizia di Roma opportunamente svuotate da Massimo Carminati, boss di Mafia Capitale, di cui racconta qui Lirio Abbate. Non può mancare Piero Fassino crocifisso (e poi assolto) per un’intercettazione - «Abbiamo una banca» - arrivata, ma guarda un po’, nelle mani di Berlusconi che, felice, esclama rivolto al suo pusher: «Come posso sdebitarmi per questo prezioso regalo?». Poi c’è il sesso, e funziona, anche se Roma non è Washington. E qui Berlusconi e il suo cerchio magico danno il meglio. La memoria corre ai dossier che costringono alle dimissioni il direttore di Avvenire Dino Boffo, reo di eccesso di critiche al Cav.; alla incredibile vicenda di Piero Marrazzo, vigilia delle primarie del Pd, sorpreso tra coca e trans da carabinieri-agenti provocatori che filmano un video offerto poi alla Mondadori per 200mila euro, che B. sfrutta da par suo: «Se fossi in te, Piero, cercherei di farlo sparire...»; all’odissea di Stefano Caldoro, candidato poco gradito alla guida della Regione Campania (il Pdl voleva il più potente Nicola Cosentino), al quale Denis Verdini, allora indimenticabile factotum berlusconiano, fa sapere che circolano brutte notizie sulle sue abitudini sessuali... Ma nel buco nero era finito anche Silvio Sircana, portavoce di Romano Prodi premier, paparazzato in una strada popolata di prostitute; per Gianfranco Fini, in rotta di collisione con il Capo, era bastato evocare antiche vicende “a luci rosse”; di Veronica Lario, moglie umiliata che osa ribellarsi, sono spuntate dal nulla foto a seno nudo e allusioni su un amante... La macchina del fango non si ferma mai. Oggi la cronaca ci regala il milione e 700 mila euro in un controsoffito dell’appartamento di Fabrizio Corona: arrestato per qualcosa che assomiglia all’evasione fiscale. Forse nell’Italia dei ricatti è l’unico finito in galera. In attesa del prossimo condono...
Di Lello: «C'era un teorema: la mafia non esiste. Noi lo smontammo». Intervista di Giulia Merlo del 19 ottobre 2016 su "Il Dubbio. «Nessuno si accorse che Buscetta aveva cominciato a parlare. Si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto i boss si resero conto che era sparito nel nulla». «Con quel processo smontammo la retorica de "La mafia non esiste"». A dirlo è Giuseppe Di Lello, uno dei quattro giudici istruttori del pool di Falcone e uno dei protagonisti del maxiprocesso di Palermo Sono passati trent'anni da quel 10 febbraio 1986, dal teorema Buscetta e dai 260 imputati condannati in primo grado. Un processo che ancora anima i dibattiti e che ha visto - sulle pagine di questo giornale - contrapposte le tesi dell'ex procuratore aggiunto della Dna Alberto Cisterna e Tiziana Maiolo.
«La storia del maxiprocesso è anche la storia di una relazione nuova tra giustizia e informazione», ha scritto Cisterna. Da parte in causa, condivide?
«Condivido il fatto che il processo di Palermo è stato un punto di incontro tra stampa e giudici. Per la prima volta, infatti, c'è stata una vera e propria divulgazione mediatica degli eventi processuali. Niente a che vedere con il rapporto di oggi, però».
In che senso?
«Tanto per cominciare, non abbiamo mai fatto una sola conferenza stampa. Né, tantomeno, c'è mai stata una fuga di notizie dagli uffici di noi giudici istruttori. Pensi che il pentito Buscetta parlò in segreto con Falcone per tre mesi interi e nessuno, dico nessuno, ne era al corrente».
Nessuna soffiata alla stampa?
«Assolutamente no, si venne a sapere solo dopo, perché ad un certo punto la mafia si rese conto che Buscetta era come sparito nel nulla, dopo l'arresto in Brasile. Non lo trovavano né in carcere né in ospedale e allora capirono».
Oggi sarebbe assolutamente impensabile...
«Oggi, se un pentito parla, come per magia lo sanno tutti il giorno dopo e leggono tutti i dettagli sulle pagine dei giornali».
Si è anche scritto che, in quel processo, si processò la Mafia con la M maiuscola, prima ancora che i singoli individui. Lei è d'accordo?
«All'epoca era necessario stabilire, per la prima volta nel nostro ordinamento, se l'associazione mafiosa esisteva in sé, al di sopra dei reati commessi dai singoli individui. Non dimentichiamo che alcuni, in quel periodo, continuavano a ripetere che la mafia non esisteva».
Eppure, Tiziana Maiolo ha sostenuto che sia stato un errore «pensare che il processo non sia solo il luogo dove confermare l'ipotesi accusatoria nei confronti del singolo imputato, ma l'arma con cui si combattono fenomeni sociali trasgressivi». Avete davvero processato la Mafia e non i mafiosi?
«Che assurdità. Per noi era assolutamente necessario stabilire il contesto in cui si svolgevano i fatti, non bastava vagliare solo i singoli reati. Dovevamo individuare preliminarmente se il fenomeno mafioso e il contesto in cui prendeva forma davano vita ad una associazione per delinquere. Certo, è ovvio che al banco degli imputati sedevano i singoli mafiosi, ma per ottenere il risultato dovevamo prima di tutto affermare o smentire il principio della mafia come associazione per delinquere».
Oggi la mafia come la avete conosciuta e combattuta voi è ancora presente in Sicilia?
«La mafia è fatta di tradizione, continuità e innovazione. Queste tre caratteristiche fanno sì che il fenomeno non sia più identico a quello che abbiamo conosciuto trent'anni fa».
Diversa ma non sconfitta?
«Oggi la mafia è sicuramente indebolita: tutti i boss - con eccezione di Matteo Messina Denaro - sono in carcere con la pena dell'ergastolo. Inoltre ormai è una costante il fatto che i beni proventi di mafia vengano sequestrati. Questo è un colpo durissimo, ma attenzione: Cosa Nostra non è ancora vinta».
Immagina, oggi, che si possa istruire un processo come quello di Palermo?
«Non credo sia pensabile, anzitutto perché è cambiato il rito da inquisitorio ad accusatorio. Inoltre i mafiosi da processare sono molti meno, si pensi soprattutto al fatto che da allora non si è più ricostituita una vera e propria "cupola" come quella di Riina, Provenzano, Greco e Pippo Calò».
E quindi dove e come germina oggi la mafia?
«La mafia continua ad essere molto pervasiva sul territorio ed ha grande connessione soprattutto con i singoli poteri locali. Sottolineo però anche il grande lavoro di repressione portato avanti dallo Stato e dalle forze dell'ordine che operano nelle aree più a rischio».
Oggi il concetto di "antimafia" viene utilizzato nei contesti più diversi e in alcuni casi si è rivelata un paravento per situazioni opache. Come considera l'utilizzo di questo termine?
«Certo, esiste il pericolo che l'antimafia venga brandita come arma contundente, ma io ritengo che vadano sempre fatti i dovuti distinguo».
Italia, dalla Repubblica dello spread a quella dei bonus, scrive il 26.05.2015 Marco Fontana. Uno sport molto in voga tra gli opinionisti politici è quello di identificare per titoli le discontinuità storiche del Parlamento italiano. Un esempio classico è la distinzione tra Prima e Seconda Repubblica, che sintetizza il cambio di assetto istituzionale avvenuto nel 1992-94 dopo che sui partiti politici si abbatté lo tsunami Tangentopoli. Originale la più recente spartizione ideata dall'editorialista dell'Espresso, Marco Damilano, che nel suo ultimo saggio afferma: C'è stata la Repubblica dei partiti, che aveva come religione la Rappresentanza. Poi è arrivata la Repubblica del Cavaliere, fondata sulla rappresentazione. Quella che sta nascendo è la Repubblica dell'Auto-rappresentazione. Una Selfie-Repubblica, con un'unica bandiera: l'Io. Riteniamo che la classificazione di Prima, Seconda e Terza Repubblica sia uscita pesantemente sconfitta dai colpi della cronaca giudiziaria. In sostanza, niente è davvero cambiato dal ‘92 ad oggi. Che differenza c'è tra l'inchiesta Mafia Capitale (con le presunte commistioni tra sistema delle cooperative e partiti), le operazioni Minotauro e Quadrifoglio (che hanno svelato le infiltrazioni mafiose al Nord e negli appalti di Expo 2015), i casi Monte dei Paschi — Unipol/Sai e le "mazzette" di Tangentopoli? La corruzione continua a dilagare dentro e fuori dalla politica: intanto sarà lievitato il prezzo da pagare, ma nulla è mutato. La percezione della corruzione nelle istituzioni da parte dei cittadini sfiora il 90%, un vero record tra i paesi dell'Ocse. Secondo un recente studio di Unimpresa, è un fenomeno che costituisce una pesante zavorra per l'Italia: ha fatto diminuire gli investimenti stranieri del 16% e aumentare del 20% il costo complessivo degli appalti; ha divorato in dieci anni circa 100 miliardi di euro di PIL; le imprese sotto lo scacco della corruzione sarebbero cresciute in media un 25% in meno rispetto alle concorrenti che operano in un'area di legalità. Sono cifre terribili che l'Italia non riesce a combattere efficacemente, anche perché il sistema giudiziario sembra colpire soltanto i comprimari, le zampe di quella bestia che è il sistema clientelare, senza andarne a recidere la testa. E negli ultimi anni anche la fiducia dei cittadini nella magistratura è crollata. In un contesto del genere, dove tutto sembra uguale ai tempi prima di Tangentopoli, pare fuori luogo parlare di Prima e Seconda o Terza Repubblica. Il passato è tornato d'attualità, dimostrando che sotto il profilo etico possono cambiare i personaggi, ma il copione rimane il medesimo. Sulla classificazione di Damilano non v'è nulla da eccepire, se non che tale visione è figlia di un'ideologia radical chic che preferisce per la sua classe politica grigiore e anonimato rispetto all'identificazione con un leader forte e carismatico. D'altra parte non si comprende il motivo per cui tale fervore critico, molto generoso nei giudizi in patria, non si abbatta con lo stesso impeto su politici stranieri quali Clinton, Obama o Tsipras, individui dall'Io forte che vengono innalzati ad icone senza neppure aspettare che ottengano successi reali per i propri cittadini. Personalmente, credo sarebbe molto più semplice concentrarsi sugli ultimi anni della politica italiana, che hanno visto alternarsi tre governi non votati dal popolo e che hanno prodotto risultati nefasti per la qualità della vita e per le aspettative sul futuro delle persone. L'Italia ha visto tramontare la sua forma di governo conosciuta e ha abbracciato un nuovo modello, la Repubblica dello Spread, nella quale la democrazia si piega a parametri economici soggettivi ed esterni. Dopo le rivelazioni di Alain Friedman è ormai palese che nel 2011 elementi al di fuori del nostro Paese abbiano agito per piegare il Parlamento italiano ad accettare rappresentanti più graditi alla Troika. Non è fantapolitica, altrimenti avremmo visto partire smentite e querele. Nessuno fiata neppure di fronte a inchieste giudiziarie di cui si parla poco, ma di cui media si dovrebbero occupare, perché hanno determinato un'ingerenza esterna alla nostra democrazia. Dal caos venuto dalla finta austerity di Monti e Letta si sarebbe scatenata prima o poi una reazione. La richiesta di continui sacrifici senza poter vedere l'uscita dal tunnel ha necessariamente portato ad aggrapparsi a chiunque racconti belle favole di speranza. Ed ecco che la parabola di ascesa di Renzi ha trovato il suo terreno fertile. In Italia è tornato il tempo di chi promette mirabolanti soluzioni ai problemi quotidiani. E non importa se in realtà sta solo concedendo una parte del dovuto, anche in termini costituzionali. Si è così passati alla nuova fase: la Repubblica dei bonus. Una continua elargizione dello Stato magnanimo, prima con gli 80 euro, poi coi bonus bebè e infine il bonus pensioni. Chissà che un domani, dopo un paio di anni di nuova local tax, non arrivi anche il bonus casa. Perchè quando in Italia si parla di bonus, è meglio coprire con le mani il portafoglio e assicurarsi che sia ancora in tasca.
Mafia: il concorso esterno è una "perversione" intellettuale, scrive il 7 marzo 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Luca D'Auria, Avvocato e docente di Diritto. Torna in primo piano il tema complicato del concorso esterno in associazione criminale e mafiosa. Sul punto si è assistito, nei circa quattordici anni dalla prima decisione Dimitry che ne ha costruito l’ipotesi, ad una vera e propria guerra ideologica tra giuristi, magistrati ed avvocati. Categorie, a differenza che su altri temi della giustizia, non spaccate in una contrapposizione netta e “di colori” (avvocati contro magistrati) ma trasversale. Ultimamente la Corte europea dei diritti dell’uomo prima ed il giudice per le indagini preliminari di Catania (procedimento Ciancio, decisione del dicembre 2015 le cui motivazioni sono rese note in questi giorni) hanno sferrato dei duri colpi al concorso esterno. Diversamente, la Cassazione, nel corso degli anni, aveva rivisto i contorni dell’ipotesi delittuosa, definendone e modificandone i connotati. Di cosa si tratta? Il concorso esterno sarebbe la sommatoria della norma sul concorso di persone (articolo 110 del codice penale) con le fattispecie specifiche di associazione per delinquere “semplice” e di stampo mafioso (articoli 416 e 416bis del codice penale). Lo scopo di questo collegamento tra norme giuridiche è dettata dalla necessità di punire coloro che, pur non facendo parte di un’associazione, tuttavia offrono un aiuto, un’opportunità, un ausilio nel momento di bisogno all’associazione stessa. Si pensi al professionista o al “colletto bianco” (cioè colui che svolge un mestiere lecito, economicamente rilevante) che piega la sua professionalità (anche una volta sola) alle esigenze dell’associazione. Costui non entrerebbe mai a far parte del gruppo criminale aiutato ma, a determinati fini, si presterebbe a “dare una mano”. Un esempio può essere il medico che cura l’associato fuori dallo schema tipico del mestiere, per esempio non in ospedale, al fine di evitare obblighi di comunicazione all’autorità giudiziaria oppure l’avvocato che si trasforma da lecito consigliere giuridico a “consigliori” (sono parole della giurisprudenza) cioè a soggetto che non difende il criminale con gli strumenti del diritto ma suggerisce operazioni giuridiche “stortando” la legge, occultando un’operazione illecita con uno schermo giuridico o comunque favorendo la violazione della legge.
In tutti questi casi il “colletto bianco” o il professionista non entra a far parte della “banda” ma si mette “una tantum” a disposizione della medesima dalla sua posizione, per così dire, privilegiata. Inizialmente la giurisprudenza aveva individuato questa figura giuridica in colui che interviene in un momento di “fibrillazione” (da intendersi come crisi) del gruppo, mentre, negli anni successivi, per arginare il campo delle possibili interpretazioni, la giurisprudenza ha superato il concetto di fibrillazione per approdare a soluzioni più mature. In particolare limitando di molto le normali regole della partecipazione criminosa ed in specie quella definita “morale”, che punisce colui che non partecipa materialmente (cioè con azioni specifiche) al reato ma lo avalla, lo incentiva o lo suggerisce (per esempio con parole, ammiccamenti, omissioni, tutte capaci di rafforzare la volontà di colui o coloro che compiono gli atti materiali). Questa limitazione, individuabile nelle motivazioni della decisione delle Sezioni Unite contro l’imputato Mannino, è un fatto unico rispetto alle regole generali sul concorso nel reato che, per tutte le altre ipotesi di partecipazione al delitto, consente questo apporto, svincolato da veri e propri atti concreti. La ragione della barriera al concorso morale nel concorso esterno è stata voluta proprio per impedire che le maglie della punibilità fossero troppo ampie e si scadesse nell’indeterminatezza delle accuse. Infatti, è assai complicato capire se il concorrente esterno realmente offra un contributo decisivo al gruppo, figuriamoci se questo contributo viene esteso a colui che non partecipa all’associazione e dall’esterno di essa la rafforza senza compiere atti manifesti ed oggettivi. Per evitare di scadere in argomentazioni ideologiche bisogna però tentare di toccare alcuni elementi giuridici fondamentali e solamente dopo è possibile trarre alcune conseguenze, se ci sono, della vita che questa ipotesi di reato può avere. La Corte europea ed il giudice del caso Ciancio mettono in luce un argomento assai importante: l’assenza di una disposizione normativa di concorso esterno e ciò è un tema fondamentale per una legislazione, come la nostra, che vive sul dogma del principio di legalità in virtù del quale nessuno può essere punito per un fatto che, al momento della sua commissione, non è previsto dalla legge come reato. E la legge non contempla il concorso esterno. Ad esempio, nei paesi anglosassoni, salvo introduzioni recenti, le ipotesi di reato sono di costruzione giurisprudenziale e non esiste la norma giuridica che descrive la condotta punibile. Da noi è quanto accaduto per il concorso esterno: l’ha costruito la giurisprudenza e la giurisprudenza stessa lo ha modificato nei suoi contorni. All’apparenza dunque non vi sarebbero dubbi di nessun tipo: è un’operazione contraria al principio di legalità preveduto dall’articolo 2 del codice penale. Sicchè nessuno potrebbe essere punito per concorso esterno. C’è un però, giuridicamente assai rilevante. In qualsiasi manuale di diritto penale, per spiegare il concorso di reato, viene detto che è la somma del citato articolo 110 del codice penale con la norma che punisce il reato. In questo modo la punibilità viene allargata da chi materialmente pone in essere la condotta vietata (ad esempio chi spara e uccide) a chi, volendo il reato, pone in essere condotte diverse ma ugualmente connesse col reato (ad esempio compra la pistola e la offre al killer o, nel caso di concorso morale, suggerisce la vittima). Ebbene, la costruzione del concorso esterno è la medesima (110 più 416 o 416bis). È dunque illegittima solamente perché prevede la partecipazione ad un reato necessariamente “di gruppo”? Ed ancora: si invoca la necessità di una norma specifica. Ma perché sarebbe necessaria per il concorso nel reato associativo quando non è necessaria per tutti gli altri reati? Il dubbio sulla materia allora si sposta su di un piano più linguistico che giuridico: credo che ciò che andrebbe abbattuto è il termine “esterno” che, realmente, mette gran confusione, sia perché rischia di ampliare troppo l’area del punibile, sia perché fa pensare ad un reato nuovo e diverso. La giurisprudenza dovrebbe, forse, ammettere che il concorso esterno è una “perversione” intellettuale proprio nella sua definizione di “esternalità” e tornare alla possibilità che siano punibili determinate condotte agevolatrici dell’associazione criminale qualora siano realmente utili e volontariamente poste in essere da colui che le agisce. Forse lo spirito della decisione Ciancio è proprio questa. Anche la decisione di abrogare le leggi giudicate inutili o superate non è semplice e se ne accorse lo stesso Calderoli. Proprio a causa dell'intreccio tra le varie leggi, tra quelle che lui "bruciò" si scoprì che ce n'era una del 1934 che disciplinava il funzionamento dei Tribunali dei minori. Senza quella legge, il Tribunale non avrebbe più potuto operare e fu quindi necessaria una Nota pubblicata in Gazzetta Ufficiale nel 2011 per consentirne la sopravvivenza. Quasi lo stesso successe con una legge del 1962 cancellata da una sentenza della Corte di Cassazione nel 2005. Riguardava la Tutela degli Alimenti e puniva l'alterazione e la vendita di cibo avariato. Applicando ciò che ne restava, due Tribunali nel dicembre 2010 assolsero degli imputati realmente sofisticatori ma oramai non più colpevoli. Anche in quel caso si rimediò solo in seguito attraverso un'altra sentenza della Cassazione del gennaio 2011 che giudicò quella legge come "non abrogata". Nonostante l'affollamento normativo, in ogni campagna elettorale i partiti promettono nuove leggi che dovrebbero affrontare e risolvere problemi sociali ed economici più o meno sentiti e, appena arrivati in Parlamento, gli eletti si precipitano a presentare proposte che, nel corso dei cinque anni, arrivano spesso a superare il numero di 15.000. Fortunatamente, in una singola legislatura soltanto qualche centinaio arriva alla discussione in Commissione e un numero ancora minore arriva nelle Assemblee. Non è comunque garantito che le Aule le approvino e, anche se una delle due Camere lo facesse, all'altra può capitare di bocciarle o modificarle. In quest'ultimo caso, il provvedimento emendato torna nell'Aula dove era cominciato il suo cammino e o le modifiche sono accettate così come formulate, o la "navetta" riparte ancora in senso opposto. Il meccanismo è lo stesso anche per semplici correzioni a leggi esistenti. Aggiungiamo a quanto sopra l'inefficienza della burocrazia pubblica, il clientelismo di molte delle assunzioni e delle promozioni nella macchina dello Stato, la frequente volontà dei funzionari di "non correre rischi" nell'assumere decisioni. Per uscire da questo circuito infernale sarebbe necessaria una forte volontà di razionalizzazione cui collaborino Governo, Parlamento e alti funzionari ministeriali. E' innanzitutto indispensabile ridurre la produzione legislativa di Parlamento e Regioni, cui devono restare soltanto le scelte più squisitamente politiche. Tutti gli aspetti più strettamente "tecnici" dovrebbero derivare da quelle scelte politiche di fondo e restare di competenza degli uffici preposti. La burocrazia dovrebbe essere rivalorizzata in termini di competenze, ma soprattutto attraverso la consapevolezza di svolgere un altissimo servizio civico. Ogni mancanza di senso del dovere nelle proprie funzioni dovrebbe, allora, essere drasticamente punita. In Francia, ove il servire lo Stato in una pubblica Amministrazione è considerato un grande onore e non soltanto un "posto", si è lavorato per venticinque anni per semplificare tutto il sistema normativo e si è riusciti a raggruppare tutte le leggi in 75 codici. Forse potremmo andare a prendere lezioni da loro.
Il concorso esterno in associazione di tipo mafioso: il delitto imperfetto. Il problema dell'ammissibilità del concorso eventuale di persone nel reato di cui all'art. 416-bis c.p., scrive Giovanni Tringali su Studio Castaldi il 02/01/2016. Non esiste nel diritto penale italiano una norma che prevede il concorso esterno in associazione di tipo mafioso: il reato si ricava dal combinato disposto dell'art. 110 e 416-bis del codice penale. In base alla norma generale in tema di concorso, soggiace alla stessa pena prevista per il reato, ciascuno dei concorrenti. Da questo punto di vista concorrere o partecipare all'associazione di tipo mafioso è indifferente. Ma è ovvio che una cosa è essere mafiosi e un'altra è concorrere con un'associazione di tipo mafioso. Essendo intrinseca al riconoscimento del concorso esterno in associazione di tipo mafioso la possibilità di conferire trattamenti sanzionatori analoghi a comportamenti ontologicamente diversi e aventi un diverso grado di disvalore penale, si pone il problema del contrasto con il principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. La questione interessa il principio di legalità, il divieto di irretroattività della legge penale ma più in generale la certezza del diritto. Si illustreranno alcune decisioni della suprema Corte ma si avverte sin d'ora che si ritiene indispensabile che il lettore tenga ben presente innanzitutto le norme evitando di attribuire alle sentenze (e ancor peggio all'interpretazione delle sentenze) una qualche virtù magica capace di soddisfare l'esigenza di tutti i cittadini alla "certezza del diritto".
Stante la complessità dell'argomento, si chiede umilmente scusa per le eventuali inesattezze e omissioni del presente elaborato. Le norme:
Art. 110 c.p. - Pena per coloro che concorrono nel reato: «Quando più persone concorrono nel medesimo reato, ciascuna di esse soggiace alla pena per questo stabilita, salve le disposizioni degli articoli seguenti».
Art. 416-bis. Associazione di tipo mafioso: «Chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso formata da tre o più persone, è punito con la reclusione da dieci a quindici anni. Coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da dodici a diciotto anni. L'associazione è di tipo mafioso quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva per commettere delitti, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o comunque il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, appalti e servizi pubblici o per realizzare profitti o vantaggi ingiusti per sé o per altri, ovvero al fine di impedire od ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sé o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. Se l'associazione è armata si applica la pena della reclusione da dodici a venti anni nei casi previsti dal primo comma e da quindici a ventisei anni nei casi previsti dal secondo comma. L'associazione si considera armata quando i partecipanti hanno la disponibilità, per il conseguimento della finalità dell'associazione, di armi o materie esplodenti, anche se occultate o tenute in luogo di deposito. Se le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo sono finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, o il profitto di delitti, le pene stabilite nei commi precedenti sono aumentate da un terzo alla metà. Nei confronti del condannato è sempre obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate a commettere il reato e delle cose che ne sono il prezzo, il prodotto, il profitto o che ne costituiscono l'impiego. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alla camorra, alla ‘ndrangheta e alle altre associazioni, comunque localmente denominate, anche straniere, che valendosi della forza intimidatrice del vincolo associativo perseguono scopi corrispondenti a quelli delle associazioni di tipo mafioso».
Gli elementi essenziali dell'associazione di tipo mafioso ex art 416-bis c.p. Premesso che:
· l'esistenza dell'associazione mafiosa denominata "cosa nostra" costituisce una realtà incontrovertibile sul piano giudiziario a seguito della sentenza emessa dalla Corte di Cassazione il 30 Gennaio 1992 nel definire il procedimento contro Abbate Giovanni ed altri, più noto come primo maxi-processo;
· l'espressione legislativa "di tipo mafioso", significa soltanto "modello mafioso", così da ricomprendere nella previsione dell'art. 416-bis anche le nuove organizzazioni, non riconducibili alla mafia tradizionale, che tentano di introdurre metodi di intimidazione, di omertà e di sudditanza psicologica. La tipicità del modello associativo risiede nella "modalità" con cui l'associazione si manifesta e non già negli scopi (genericamente delitti) che si intendono perseguire. Le condotte possono essere infatti le più varie e anche essere costituite da attività lecite: ciò che conta è il modus operandi dell'associazione;
· il metodo mafioso, espressamente descritto nel comma III dell'art. 416 bis c.p., si connota, dal lato attivo, nell'utilizzazione della forza intimidatrice nascente dal vincolo associativo e, dal lato passivo, in una correlazione di causa ed effetto, nella condizione di assoggettamento e di omertà che da detta forza deriva per il singolo, sia all'esterno che all'interno dell'associazione;
· l'associazione mafiosa delineata dall'art. 416-bis prescinde sia da profili di ordine territoriale sia da aspetti di carattere organizzativo che richiamino gli ordinamenti mafiosi tradizionali: in altre parole è mafiosa anche l'organizzazione che non sia radicata in Sicilia e che non abbia una struttura verticistica come quella siciliana;
· l'associazione di tipo mafioso è una figura del tutto autonoma e distinta rispetto alla ordinaria associazione per delinquere: ciò che la distingue è certamente il peculiare metodo utilizzato dal sodalizio per conseguire le proprie finalità, le quali, pur potendo essere in taluni casi di per sè non penalmente rilevanti (es. acquisizione del controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni ecc.), si convertono in illecite proprio per l'adozione di una peculiare metodologia;
· la forza di intimidazione[3] può sinteticamente ravvisarsi nella capacità propria di certe organizzazioni criminali di incutere timore determinando un diffuso stato di coazione psicologica tale da costringere chi la subisce a comportamenti non voluti per timore di azioni esemplari e terribili (riguardo all'accezione da dare al verbo "si avvalgono" usato dal legislatore, il più recente indirizzo giurisprudenziale ritiene necessario il compimento effettivo ed attuale di atti di intimidazione e non sufficiente che l'associazione sia solita, o comunque, intenda avvalersi di tale forza);
· l'assoggettamento è lo "status" di coartazione psicologica che induce i soggetti terzi rispetto all'associazione, a sottostare ai suoi voleri, divenendone ad un tempo vittime e complici, e che all'interno dell'organizzazione criminale si manifesta nell'impossibilità di recedere dal vincolo associativo inizialmente contratto;
· l'omertà è l'atteggiamento riscontrabile nell'ambiente sociale in cui l'organizzazione mafiosa esercita la propria influenza, di reticenza, tacita connivenza o addirittura di solidarietà nei confronti della stessa che si manifesta nel rifiuto a collaborare con gli organi dello Stato ostacolandone l'intervento punitivo (c.d. omertà esterna), ma che si riscontra anche all'interno gruppo criminale, e si palesa nella cautela degli adepti nel chiedere spiegazioni su determinati eventi concernenti le dinamiche interne dell'organizzazione criminale, nel subire le direttive ed eseguire remissivamente i compiti assegnati dai capi (c.d. omertà interna);
· le finalità dell'associazione di tipo mafioso hanno carattere alternativo e non cumulativo. Ciò consente che, anche in presenza di una sola di esse, il reato possa ritenersi integrato e viceversa la eventuale compresenza di tutti gli scopi tipici non muta il carattere unitario del reato.
Veniamo agli aspetti essenziali:
- Bene giuridico tutelato: ordine pubblico. Il bene giuridico primario ad essere tutelato è l'ordine pubblico in senso materiale ossia la condizione di pacifica convivenza, di buon assetto e regolare andamento del vivere civile. Vengono tutelati altri interessi tra cui l'ordine pubblico "economico", infatti l'associazione di tipo mafioso tende naturalmente e sempre maggiormente a prendere il controllo dell'economia del luogo. Il controllo delle attività economiche è una finalitàri conducibile all'elemento soggettivo del reato (dolo specifico) ma non fa parte degli elementi costitutivi dello stesso, di conseguenza, non è necessario che tale controllo sia concretamente assunto perché si configuri il reato;
- Elemento oggettivo: condotta di partecipazione. L'elemento materiale di questo reato è costituito dalla condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, intendendosi per partecipazione la stabile permanenza del vincolo associativo (c.d. pactum sceleris) tra gli autori del reato - almeno in numero di tre - allo scopo di realizzare una serie indeterminata di attività tipiche dell'associazione;
- Elemento soggettivo: dolo specifico. Per quanto concerne l'elemento soggettivo si tratta di dolo specifico, il dolo cioè caratterizzato dalla cosciente volontarietà di partecipare a detta associazione per delinquere con il fine di realizzare il particolare programma - concretizzantesi sia in condotte "illecite", sia in condotte di per sé "lecite", ma penalmente perseguibili perché realizzate con le modalità sud descritte;
- Tipo di reato: reato di pericolo, plurisoggettivo a concorso necessario, permanente. Parlando di tipo di reato, possiamo affermare che si tratta di un reato plurisoggettivo a concorso necessario, permanente, a forma libera. Possiamo considerarlo un reato di pericolo perché il fatto di costituire un'associazione di tipo mafioso, per ciò solo, mette in pericolo l'ordine pubblico, ma possiamo considerarlo anche un reato di evento per la sussistenza ed operatività del sodalizio attraverso la realizzazione del programma criminoso. Perché possa compiutamente ritenersi accertata l'esistenza di un sodalizio criminoso di stampo mafioso, sarà, dunque, necessario avere la prova di un accordo criminoso tra almeno tre persone (da cui la natura di reato necessariamente plurisoggettivo del delitto in oggetto), a carattere generale e continuativo (da cui la natura di reato permanente), destinato a rimanere in vita anche dopo la consumazione, prevista solo come eventuale, di singoli fatti criminosi (c.d. autonomia del delitto de quo rispetto ai c.d. reati-fine), volto al perseguimento delle specifiche finalità previste, in via alternativa, dalla norma in esame e mediante il sistematico ricorso alla forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e omertà che ne derivano.
Concorso di persone e associazione di tipo mafioso, tratti distintivi. Ammettere il concorso eventuale di un "soggetto esterno" nel reato di associazione di tipo mafioso significa punire questo soggetto con la stessa pena prevista per chi fa parte dell'associazione stessa. Si equipara cioè l'extraneus con l'intranues. Si capisce come la dottrina e la giurisprudenza si siano più volte occupati della questione.
Il concorso di persone nel reato è caratterizzato dalla presenza di una serie di elementi strutturali:
a. la pluralità di persone (almeno due - fattispecie plurisoggettiva eventuale);
b. la commissione, in forma plurisoggettiva, di un reato;
c. il contributo causale di ciascun concorrente;
d. l'elemento soggettivo tipico della commissione plurisoggettiva del reato.
L'associazione mafiosa è caratterizzata:
a. dalla pluralità di persone (almeno tre – fattispecie plurisoggettiva necessaria);
b. formazione e permanenza di un vincolo associativo continuativo (far parte) allo scopo di commettere una serie indeterminati di delitti ovvero di realizzare taluna delle altre azioni descritte dalla norma (reato di natura permanente);
c. consapevolezza di ciascun associato di far parte dell'illecito sodalizio e di essere disponibile ad operare per l'attuazione del comune programma criminoso;
d. dal metodo mafioso (avvalersi della "forza di intimidazione" e della condizione di assoggettamento e omertà che ne deriva);
e. struttura organizzativa (non è sufficiente un mero accordo);
f. la distinzione tra condotte principali (coloro che promuovono, dirigono o organizzano) e condotte secondarie (semplici partecipi che comunque offrono un contributo causale utile alla lesione di beni giuridici penalmente tutelati dalle norme);
g. dolo specifico, il quale richiede che il partecipe voglia coscientemente e volontariamente far parte del sodalizio, adottandone le particolari modalità operative, condividendone gli scopi ed essendo animato dal fine di realizzarli[6].
Dire che i soggetti devono concorrere nel medesimo reato, significa che tutte le diverse condotte di partecipazione devono essere finalisticamente orientate verso il medesimo evento il che implica, tra l'altro, la coincidenza volitiva – ad esempio, se il reato necessita di dolo specifico - è indispensabile che tutti i concorrenti:
a. seguano la finalità specifica richiesta dalla norma incriminatrice o, quanto meno;
b. siano consapevoli di contribuire alla condotta di chi, per commettere il reato, agisce con tale finalità.
Pertanto, il concorrente eventuale nel reato associativo deve agire "quanto meno" con la volontaria consapevolezza che la sua azione contribuisce alla realizzazione degli scopi della societas sceleris, il che, in tutta evidenza, non sembra differire dagli elementi - soggettivo e oggettivo - caratterizzanti la partecipazione all'associazione di tipo mafioso e, quindi, dal concorso necessario.
Nel concorso di persone, l'elemento soggettivo del reato plurisoggettivo non differisce dal dolo del reato monosoggettivo, esso consta di due elementi:
1) coscienza del "fatto criminoso";
2) volontà di concorrere con altri alla realizzazione di un reato.
Affinché sussista la volontà di concorrere è sufficiente la coscienza del contributo fornito all'altrui condotta. Non è necessario un accordo preventivo dei correi essendo punibile anche la condotta di colui – anche sconosciuto agli altri agenti – che agevoli il disegno criminoso in via del tutto estemporanea, in vantaggio di un soggetto del tutto ignaro. In altri termini, basta la volontà unilaterale di concorrere.
Il concorso di persone nel reato è concepito come una struttura unitaria, nella quale confluiscono tutti gli atti dei compartecipi, sicché gli atti dei singoli sono, al tempo stesso loro propri e comuni agli altri, purché sussistano due condizioni: una oggettiva, nel senso che tra gli atti deve sussistere una connessione causale rispetto all'evento, l'altra soggettiva, consistente nella consapevolezza di ciascuno del collegamento finalistico dei vari atti, ossia che il singolo volontariamente e coscientemente apporti il suo contributo, materiale o soltanto psicologico, alla realizzazione dell'evento da tutti voluto.
Si rammenta, inoltre, che il nostro legislatore ha accolto, in tema di concorso di persone nel reato, il principio dell'equivalenza causale in forza del quale ogni concorrente che contribuisce alla verificazione dell'evento lo cagiona nella sua totalità e, pertanto, il fatto va integralmente imputato a ciascun concorrente. Si richiede che ciascun compartecipe apporti un contributo che faccia sua l'intera realizzazione criminosa, favorendo (cioè rendendo più probabile) l'evento del reato. Tale contributo può consistere in un qualunque apporto capace di favorire il verificarsi dell'evento.
Orbene, il "fatto criminoso" (evento) dell'associazione di tipo mafioso è caratterizzato dal "far parte" dell'associazione con lo scopo di commettere delitti utilizzando il metodo mafioso, per cui concorrere nel reato di cui all'art. 416-bis dovrebbe significare, nella sua dimensione minima:
1) coscienza del fatto criminoso altrui (il "far parte" dell'associazione);
2) volontà di concorrere alla realizzazione del reato intesa non come voler "far parte" (altrimenti diventerebbe impossibile distinguere l'intraneus dall'extraneus) ma come "coscienza del contributo" fornito ad altri nella condotta di "far parte" dell'associazione.
In questo senso, l'essenza della responsabilità del "concorrente esterno" può essere desunta da situazioni di contiguità all'organizzazione criminale, le quali, rafforzando l'apparato strumentale e agevolando la realizzazione del programma criminoso dell'illecito sodalizio, possono contribuire in misura rilevante a mettere in pericolo i beni giuridici protetti dalla norma incriminatrice (l'ordine pubblico generale, l'ordine economico, l'ordine democratico, il corretto funzionamento della pubblica amministrazione).
Dal punto di vista prettamente soggettivo, mentre la figura del partecipe tende a realizzare gli scopi dell'associazione mafiosa, quella del concorrente si limita a "contribuire a realizzare" gli scopi della stessa. Ciò che si vuole dire è che realizzare è ben diverso dal contribuire a realizzare gli scopi dell'associazione, come essere mafiosi è diverso dall'essere concorrenti alla mafia.
Rispetto ai fini dell'associazione si può dire che questi sono voluti dall'affiliato mentre sono solamente conosciuti dal concorrente esterno (egli sa che altri vuole).
Vediamo la seguente scheda:
Concorrente necessario (Affiliato/partecipe) (Soggetto interno), Concorrente eventuale (Soggetto "esterno") Realizza gli scopi dell'associazione, Contribuisce a realizzare gli scopi dell'associazione.
Elemento oggettivo (c.d. condotta tipica) consiste nel far parte dell'associazione. Far parte significa avere un rapporto stabile e continuativo. Occorre un grado di compenetrazione del soggetto con l'organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato, con determinati e continui, compiti, anche per settori di competenza. L'inserimento nell'organizzazione sussiste anche a prescindere da rituali di iniziazione o formalità che lo ufficializzano, ben potendo risultare "per facta concludentia".
Elemento oggettivo (c.d. condotta atipica) consiste nel dare un contributo morale o materiale idoneo al potenziamento o almeno al consolidamento o mantenimento dell'organizzazione. Il contributo può essere continuativo ma anche episodico, purché funzionale al mantenimento in vita dell'ente, non deve riguardare singoli appartenenti ma l'intera organizzazione, non deve riguardare singoli fatti criminali. La condotta atipica, per essere rilevante, deve contribuire alla realizzazione della condotta partecipativa posta in essere da altri, purché rimanga un contributo esterno.
Elemento soggettivo (dolo specifico) volontà di far parte dell'associazione e fine di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa (affectio societatis). Il partecipe, volendo far parte dell'associazione, ne condivide gli scopi e le strategie complessive. Si tratta di condotte illecite, sia in condotte di per sé lecite, ma che diventano penalmente perseguibili in quanto realizzate con la consapevolezza di far parte del sodalizio criminoso e con la volontà di operare al fine di conservare ovvero rafforzarne la struttura.
Elemento soggettivo (dolo specifico/generico) consapevolezza e volontà di contribuire ad agevolare o rafforzare l'associazione. Il concorrente eventuale non vuole far parte dell'organizzazione. Non rileva il contributo dato perseguendo fini propri dell'agente, ma solo il contributo finalizzato ad aiutare l'organizzazione. Il concorrente eventuale pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo l'associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest'ultima, degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire.
Esistenza o conservazione dell'associazione sembrano fare riferimento alla condotta partecipativa, mentre agevolazione e rafforzamento invece sembrano più adatti al concetto di contributo e quindi di concorso esterno. E' importante anche stabilire il momento in cui viene prestato il contributo: quest'ultimo, infatti, assume un peso maggiore quanto più è prestato in una situazione di reale pericolo per la sopravvivenza dell'ente. In passato si è tentato di delimitare lo scenario criminologico nel quale si ambienta il concorso esterno richiamando concetti come lo stato di "fibrillazione o di patologia" in cui versa l'associazione. Questi concetti, purtroppo, sono insiti di grande indeterminatezza e su di essi non si può certo stabilire un criterio identificativo per la condotta punibile.
Come si vede il dolo è specifico per l'associato (c.d. dolo di partecipazione) mentre può essere considerato specifico o generico per il concorrente (c.d. dolo di contribuzione). Sicuramente il dolo del concorrente è diverso dal dolo del partecipe: il concorrente eventuale non potrà avere quella parte del dolo che ha il partecipe e che consiste nella volontà di fare parte dell'associazione. In tema, si ricorda inoltre che è pacificamente ammesso in dottrina e in giurisprudenza la possibilità di concorrere con dolo generico in un reato a dolo specifico, a condizione che un altro soggetto abbia agito con la finalità richiesta dalla legge. In questo senso, non è necessario che il concorrente eventuale abbia la volontà di far parte del sodalizio e di realizzarne gli scopi, essendo sufficiente che egli abbia la consapevolezza che altri ne fa parte e agisce con la volontà di perseguirne i fini.
Elemento tipico della condotta di partecipazione (stabile e continuativa) è l'intraneità all'organizzazione mafiosa, la quale si manifesta nell'apporto causale proveniente da chi, previa accettazione delle regole dell'accordo associativo e correlativo riconoscimento da parte dell'ente, è stabilmente inserito nella struttura organizzativa. La condotta potrà ritenersi realizzata quando risulti che il soggetto, nell'ambito dell'organizzazione, esplichi una qualsiasi attività (reato a forma c.d. libera) ancorché di importanza secondaria, che vada a vantaggio dell'associazione considerata nel suo complesso, con la consapevolezza e la volontà di associarsi, condividendo le finalità dell'organizzazione ed allo scopo di contribuire all'attuazione del suo programma criminoso, senza che sia necessario che il singolo persegua direttamente tali fini.
La distinzione con la figura del concorrente eventuale va ravvisata nella prestazione, da parte del "concorrente esterno", di un contributo causale, materiale o psicologico, rilevante ai fini del consolidamento o del rafforzamento dell'associazione e tuttavia atipico rispetto a quanto previsto dall'art. 416 bis c.p., in quanto non dipende dall'assunzione di una posizione funzionale all'interno dell'ente.
Ciò che si vuole rimarcare con questa vignetta è che la differenza tra appartenente e concorrente all'associazione di tipo mafioso è basata, fondamentalmente, sulla volontà di far parte e sulla correlativa accettazione e riconoscimento da parte degli altri membri dell'associazione stessa del soggetto, la qual cosa, ovviamente, non si riscontra nel concorrente esterno. Partendo dalla considerazione che il dolo del partecipe e il dolo del concorrente non sono sovrapponibili, si può comprendere la piena configurabilità del concorso esterno (il dolo del concorrente non contiene l'elemento dell'affectio societatis). Il vero problema, a questo punto, sembra quello relativo alla determinazione dei "coefficienti minimi" di rilevanza penale di ciascuna presunta condotta di concorso. In verità, se noi pensiamo che chi concorre nel medesimo reato soggiace alla stessa pena prevista per questo, la questione è quella di distinguere il partecipante dal concorrente e, quest'ultimo, da quel soggetto che non è punibile perché non raggiunge (oggettivamente e/o soggettivamente) il coefficiente minimo per la sua incriminazione. Ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 416-bis c.p., non è necessario:
a) che siano raggiunti effettivamente e concretamente uno o più scopi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice;
b) che ciascuno utilizzi la forza d'intimidazione;
c) che ciascuno consegua direttamente per sé o altri il profitto o il vantaggio contrassegnato dal connotato dell'ingiustizia.
Ai fini della configurabilità del concorso ex art 110 c.p., occorre attentamente verificare l'adeguatezza del contributo rispetto alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie e, quindi, la sua apprezzabilità in termini oggettivi e soggettivi in relazione alla vita del sodalizio, dovendo la prestazione esterna consistere in un apporto materialmente idoneo e psicologicamente diretto a irrobustire e a rafforzare la struttura organizzativa che caratterizza il fenomeno associativo. La dimostrazione della sussistenza dei "limiti minimi" di condotta per la configurazione del concorso esterno - il contributo. La causalità funge da criterio di imputazione oggettiva del fatto al soggetto: il nesso causale tra condotta ed evento di regola comprova che non solo l'azione, ma lo stesso risultato lesivo è opera dell'agente, per cui - sussistendo gli altri presupposti di natura psicologica - quest'ultimo può essere chiamato a risponderne penalmente. Il problema è stabilire a quali condizioni l'evento lesivo possa essere considerato conseguenza dell'azione. Secondo la teoria "condizionalistica" è causa ogni condizione dell'evento, ogni antecedente senza il quale l'evento non si sarebbe verificato. Perché l'azione umana assurga a causa è sufficiente che essa rappresenti una delle condizioni che concorrono a produrre il risultato lesivo.
Per sostenere che vi sia "concorso eventuale esterno" all'associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare che il contributo sia stato causale alla vita associativa. Infatti, in base al principio dell'equivalenza causale previsto negli artt. 40[8] e seguenti c.p., tutte le condizioni che concorrono a produrre l'evento sono causa di esso (si veda infra per la definizione di evento).
Secondo alcuni critici, la famosa sentenza del 05 ottobre 1994 n. 16 (caso Demitry Giuseppe), avrebbe lasciata irrisolta la questione della necessità o meno che il contributo del concorrente esterno sia effettivo, ossia che la condotta idonea a rafforzare l'organizzazione criminale abbia di fatto condotto alla verificazione di tale effetto. Con la sentenza in commento si tentava di identificare la condotta punibile nei casi in cui contributo fosse coinciso a non meglio definiti stati "patologici" o di "fibrillazione" dell'associazione. Ciò che in realtà si voleva affermare con la sentenza Demitry è che lo spazio proprio del concorrente eventuale appare essere quello dell'emergenza nella vita dell'associazione. L'anormalità e la patologia possono esigere anche un solo contributo, il quale, dunque, può essere anche episodico, ovvero estrinsecarsi, appunto, in un unico intervento, purché consenta all'associazione di mantenersi in vita. La dottrina maggioritaria ha chiarito in seguito come non sia necessario né che l'apporto del concorrente esterno intervenga in una fase di anormalità del sodalizio, né che, senza lo stesso, l'associazione di tipo mafioso rischi la propria estinzione. Secondo la sentenza Demitry, il concorso eventuale si configura, non soltanto nel caso di concorso psicologico - nelle forme della determinazione e della istigazione nel momento in cui l'associazione viene costituita - ma anche successivamente quando il terzo non abbia voluto entrare a far parte dell'associazione o non sia stato accettato come socio e, tuttavia, presti all'associazione medesima un proprio contributo, a condizione che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie, sia idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento della organizzazione. In tema di idoneità della condotta concorsuale a raggiungere il risultato vantaggioso per l'associazione si può citare la sentenza di secondo grado del 29 giugno 2001 n. 2247 con cui la Corte d'Appello di Palermo condanna alla pena di sei anni di reclusione il giudice Carnevale per aver contribuito in maniera non occasionale alla realizzazione degli scopi dell'associazione "cosa nostra", alterando l'ordinario procedimento di formazione della volontà deliberativa collegiale, componendo i collegi con magistrati a lui fedeli, o esercitando pressioni su altri colleghi, peraltro quasi sempre riuscendo nell'intento. La sentenza specifica come, nell'ambito del c.d. aggiustamento dei processi, si presentino due modalità alternative di configurazione del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, a seconda che il contributo apportato dall'extraneus sia di tipo: occasionale, oppure si tratti di un'ingerenza manifestata in una pluralità di casi (nella specie procedimenti penali).
Nel primo caso, l'evento di rafforzamento o mantenimento in vita dell'associazione si concretizzerebbe solo per effetto di un aiuto che sia stato effettivamente prestato (giudizio ex post - logica causale); nella seconda ipotesi, invece, la verifica di un'effettiva alterazione dei singoli giudizi sarebbe superflua, poiché l'effetto di rafforzamento si realizzerebbe già mediante la consapevolezza, da parte dell'associazione, dello stabile apporto di un soggetto infungibile nell'apparato giudiziario (giudizio ex ante – paradigma aumento del rischio).
I giudici pongono l'accento:
· sul nesso causale (l'aver svolto un'attività complessivamente idonea ad incidere, con efficacia determinante, sul contenuto delle decisioni);
. sul contributo agevolatore (aveva agevolato l'organizzazione mafiosa in un frangente decisivo).
Ai fini dell'accertamento giudiziario della responsabilità penale minima del concorrente esterno sarebbe, quindi, utilizzabile un giudizio ex ante o ex post a seconda dei casi.
La sentenza del caso Carnevale sancisce il definitivo affermarsi della configurabilità del concorso esterno nel reato associativo, sia nella forma morale - fatta eccezione per la mera "contiguità compiacente" - sia in quella materiale.
Le norme sul concorso di persone sono norme di carattere generale: l'art. 110 c.p. consente di assegnare rilevanza penale a condotte diverse da quella tipica e ciò nondimeno necessarie o almeno utili, alla consumazione del reato di associazione di tipo mafioso. In buona sostanza, se il contributo atipico del concorrente non è sovrapponibile alla condotta tipica del partecipe, vi è sempre spazio per il concorso eventuale.
Ora, è pacificamente ammesso che in caso di "concorso di persone" nel reato, i concorrenti possono dare:
a. un contributo necessario, ponendo in essere una condicio sine qua non del reato, contributo che può essere:
· sia di partecipazione morale, che è quella che dà luogo alla determinazione dell'altrui proposito criminoso;
· sia di partecipazione materiale, che si esterna in tutte le possibili forme di estrinsecazione del contributo fisico essenziale.
b. un contributo agevolatore, limitandosi soltanto a facilitare la realizzazione del reato, contributo che può essere, ancora una volta:
· sia di partecipazione morale, che rafforza l'altrui proposito criminoso;
· sia di partecipazione materiale, che si manifesta in tutte le forme in cui l'agevolazione fisica può estrinsecarsi.
La partecipazione morale, sia nella forma della determinazione, sia in quella del rafforzamento, si risolve sempre in una condotta atipica – ad es. sono atipiche sia la condotta di chi determina altri a commettere il furto sia la condotta di chi rafforza il proposito di colui che ha già deciso di commettere il furto, perché nessuna delle due condotte è il furto o parte del furto. Questo tipo di partecipazione proprio perché si risolve in una condotta atipica, è necessariamente tutta "esterna".
Il riconoscimento del concorso morale esterno nella forma dell'istigazione e della determinazione al reato associativo è sempre stato ritenuto pacifico. Si pensi al caso nel quale è stato condannato per concorso esterno nel reato di cui all'art. 416 bis un padre, ex capomafia, che, non facendo più parte dell'associazione aveva istigato il figlio ad abbandonare l'attività bancaria alla quale si era avviato per entrare a far parte della congregazione mafiosa in qualità di dirigente di una società finanziaria costituita e alimentata con i proventi delle attività dell'associazione stessa (cfr. Cass. pen., 14 settembre 1990 Aglieri).
Secondo la sentenza Carnevale, il contributo punibile richiesto al concorrente deve poter essere apprezzato in termini di concretezza, specificità e rilevanza, e deve essere idoneo a determinare, sotto il profilo "causale", la conservazione o il rafforzamento dell'associazione. Occorre, in altre parole, il compimento di specifici interventi indirizzati a questo fine. Ciò che conta, infatti, non è la mera disponibilità dell'extranues a conferire il contributo richiesto dall'associazione, bensì l'effettività di tale contributo, e cioè che a seguito di un impulso proveniente dall'ente criminale il soggetto si sia di fatto attivato nel senso indicatogli.
Accertamento "ex ante" o "ex post" del contributo punibile. Le Sezioni Unite hanno precisato che il contributo del soggetto estraneo deve dispiegare un'efficacia causale reale sul piano oggettivo del potenziamento della struttura organizzativa dell'ente, da accertare ex post sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità. La Corte ritiene che non sia sufficiente che il contributo atipico - con prognosi di mera pericolosità ex ante - sia considerato idoneo ad aumentare la probabilità o il rischio di realizzazione del fatto di reato, qualora poi, con giudizio ex post, si riveli per contro ininfluente o addirittura controproducente per la verificazione dell'evento lesivo (viceversa, nella sentenza Carnevale del 2001 richiamata supra, in considerazione dello stabile apporto di un soggetto infungibile nell'apparato giudiziario, si ventila la possibilità di valutare il contributo ex ante). La Cassazione sostiene che anche il contributo eziologico dell'extraneus deve atteggiarsi a condizione necessaria dell'evento (condicio sine qua non), secondo lo stesso modello di causalità tipico delle fattispecie incriminatrici a forma libera e causalmente orientate: occorre, cioè, un nesso condizionalistico tra condotta ed evento fondato su riconosciute leggi scientifiche universali o statistiche, o comunque su massime di esperienza teoricamente ed empiricamente controllabili, tale da condurre conclusivamente ad un giudizio di responsabilità enunciato in termini di elevata probabilità logica o probabilità prossima alla certezza (si veda, come punto di riferimento in tema di causalità penalmente rilevante, la sentenza del 10 luglio 2002 n. 30328 (caso Franzese). Quando si parla di evento nell'ambito del concorso eventuale esterno, si può fare riferimento alla nozione di evento "in senso naturalistico", come modificazione del mondo esteriore, per cui risulta plausibile individuare una modificazione del mondo esteriore nel "rafforzamento", mentre l'operazione ermeneutica risulta assai più problematica rispetto al concetto di "conservazione" (il quale ultimo implica, logicamente, l'esatto contrario di una modificazione). Qualora si adotti, invece, la nozione di evento "in senso giuridico", inteso come lesione o messa in pericolo del bene giuridico tutelato dalla norma, si può più agevolmente sostenere che "conservazione e rafforzamento" del sodalizio criminoso si atteggino concettualmente a eventi giuridici in quanto comportano la lesione del bene giuridico, costituito nel caso di specie dall'ordine pubblico.
Con la sentenza del 20 settembre 2005 n. 33748 (caso Mannino) la Cassazione enuncia il seguente principio di diritto: «E' configurabile il concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso nell'ipotesi di scambio elettorale politico-mafioso, in forza del quale il personaggio politico, a fronte del richiesto appoggio dell'associazione nella competizione elettorale, si impegna ad attivarsi, una volta eletto, a favore del sodalizio criminoso, pur senza essere organicamente inserito in esso, a condizione che:
a) gli impegni assunti dal politico, per l'affidabilità dei protagonisti dell'accordo, per i caratteri strutturali dell'organizzazione, per il contesto di riferimento e per la specificità dei contenuti, abbiano il carattere della serietà e della concretezza;
b) all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli impegni assunti dal politico abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé, e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali.
Ad ogni modo, al fine di ribadire una posizione di garanzia del principio di legalità formale la Corte afferma che: «nella pur accertata vicinanza e disponibilità di un personaggio politico nei confronti di un sodalizio criminoso o di singoli esponenti del medesimo sono da ravvisare relazioni e contiguità sicuramente riprovevoli da un punto di vista etico e sociale, ma di per sé estranee, tuttavia, all'area penalmente rilevante del concorso esterno in associazione mafiosa, la cui esistenza postula la rigorosa verifica probatoria, nel giudizio, degli elementi costitutivi del nesso di causalità e del dolo del concorrente».
Dal punto di vista del dolo, nei delitti associativi si esige che il concorrente esterno, pure sprovvisto dell'affectio societatis, cioè della volontà di far parte dell'associazione, sia tuttavia:
a) consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini);
b) consapevole dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione.
L'elemento soggettivo del "concorrente esterno". Nella sentenza Carnevale i giudici considerano non sufficiente riscontrare nell'agente soltanto la coscienza e volontà di fornire un contributo vantaggioso per l'associazione, a prescindere dalla condivisione degli scopi e della strategia complessiva del sodalizio: occorre che il concorrente "pur estraneo" all'associazione, della quale non intende far parte, apporti un contributo che sa e vuole sia diretto alla realizzazione, magari anche parziale, del programma criminoso del sodalizio. Il ragionamento delle Sezioni Unite muove dalla nozione di "medesimo reato" contenuta nell'art. 110 c.p.: affinché si possa affermare che i concorrenti hanno commesso il "medesimo reato" è necessario che le loro condotte risultino finalisticamente orientate verso l'evento tipico di ciascuna figura criminosa che nel reato di cui all'art. 416 bis c.p. va ravvisato nella sussistenza ed operatività del sodalizio attraverso la realizzazione del programma criminoso. Non è sufficiente la mera accettazione del rischio (dolo eventuale) che l'organizzazione criminale ne esca "conservata o rafforzata", bensì è necessario che di "tale evento" si abbia una rappresentazione piena e sicura. In realtà, l'aver elevato la condivisione psicologica della realizzazione, anche parziale, del programma criminoso a requisito essenziale della condotta del concorrente esterno altro non ha fatto se non confondere i due piani della partecipazione interna - anch'essa sorretta dalla condivisione del programma criminoso - e del concorso esterno. Inoltre, affermare che l'intervento del concorrente esterno può sostanziarsi anche in un'attività continuativa e ripetuta, determina un ulteriore assottigliamento delle differenze tra intraneus ed extraneus all'associazione.
In sintesi, la sentenza Carnevale si distacca per almeno due aspetti dagli enunciati della sentenza Demitry:
1) non è più richiesto che il contributo del concorrente esterno sia apportato in momento di "fibrillazione" dell'associazione di intensità tale che, senza di esso, la societas sceleris andrebbe inevitabilmente incontro alla sua dispersione o scomparsa;
2) per la struttura del dolo della condotta del concorrente esterno, nel senso che questo non deve solo rappresentarsi, ma anche volere che, attraverso il suo contributo, siano realizzati i fini dell'associazione o, meglio, che la sua condotta sia diretta finalisticamente a realizzare l'evento rappresentato dalla "sussistenza ed operatività" del sodalizio.
Si afferma, quindi, un modello causalmente orientato di concorso esterno, ove l'evento, coperto dal necessario dolo diretto, è rappresentato dalla conservazione o dal rafforzamento dell'associazione criminosa in questione ed è realizzato, con consapevole condotta a forma libera, non necessariamente continuativa, e con condivisione dei fini generali, da un soggetto che non può dirsi, ne vuole essere, stabilmente inserito nell'organigramma associativo.
Opinioni contrarie alla configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Parte della dottrina e della giurisprudenza ha escluso la possibilità di configurare il concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Secondo queste posizioni, la cosiddetta "partecipazione esterna" consistente nell'aver prestato al sodalizio:
1) un proprio e adeguato contributo;
2) con la consapevole volontà di raggiungere, con quegli atti, i suoi scopi, si risolve, in realtà, nel fatto tipico della partecipazione punibile.
Con riferimento all'elemento soggettivo si afferma che il dolo del concorrente esterno debba atteggiarsi in coincidenza con quello del reato associativo, nel senso che non può prescindersi dal considerare l'approvazione del programma del sodalizio malavitoso quale requisito minimale dell'atteggiamento psicologico dell'individuo esterno all'organizzazione che concorra in essa mediante condotte obbiettivamente funzionali ai fini illeciti dell'associazione (cfr. ordinanza del 28 marzo 1991 emessa dal G.I.P. del Tribunale di Catania che ha escluso il concorso nel caso di contiguità tra imprenditori e mafia).
La corte di Cassazione, confermando la decisione della Corte d'Assise di Palermo, conclusiva del primo maxi-processo celebrato contro la mafia in Italia, afferma che «i c.d. concorsi esterni nell'associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p. non sono inquadrabili nell'ipotesi della compartecipazione ai sensi dell'art. 110 c.p., posto che, ove concretatisi in sistematico e continuativo appoggio nel conseguimento degli scopi associativi, sono essi stessi condotte di partecipazione, in nulla dissimili dalle altre concorrenti, omissis». (Sent. Cass. del 30 gennaio 1992 n. 6992).
In generale, le tesi che sostengono l'esclusione della configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso prendono le mosse dal profilo soggettivo, in quanto si asserisce che la particolare struttura del delitto di associazione mafiosa richiede l'accertamento di un complesso bagaglio psicologico che, ove ritenuto sussistente, farebbe automaticamente configurare il reato di partecipazione, senza quindi lasciare spazio al concorso criminoso: la condotta dell'extraneus, se animata dal dolo specifico peculiare che contraddistingue il reato associativo mafioso(volontà di far parte dell'associazione e fine di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa (affectio societatis), non può in alcun modo distinguersi da quella del partecipe. Dal punto di vista oggettivo si ammette la possibilità di riscontrare nella realtà "condotte atipiche" che si sostanzino in un contributo alla realizzazione della condotta tipica. La differenza tra concorso esterno e condotta partecipativa, da questo punto di vista, è più facile da spiegare, sempre che ovviamente non si riscontri l'esistenza del dolo specifico tipico dell'affiliato.
L'assistenza agli associati. La norma. Art. 418. Assistenza agli associati: «Chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato o di favoreggiamento, dà rifugio o fornisce vitto, ospitalità, mezzi di trasporto, strumenti di comunicazione a taluna delle persone che partecipano all'associazione è punito con la reclusione da due a quattro anni. La pena è aumentata se l'assistenza è prestata continuamente. Non è punibile chi commette il fatto in favore di un prossimo congiunto».
La questione dei limiti di punibilità della contiguità alla mafia o, altrimenti detto, dei confini applicativi del concorso esterno nell'associazione mafiosa può essere vista alla luce della norma che punisce chi assiste taluna delle persone che partecipano all'associazione mafiosa. Punendo con minore gravità alcuni comportamenti, rispetto alla condotta partecipativa al reato associativo mafioso, l'art. 418 prevede una forma tipica di contributo punibile che è prossimo al concetto di contiguità alla mafia.
Il problema è che anche questa norma può essere intesa in due modi completamente opposti:
a) da una parte si può sostenere che il legislatore abbia voluto escludere il concorso eventuale esterno in associazione mafiosa, tipizzando, come uniche condotte penalmente rilevanti, il fornire rifugio, il vitto, l'ospitalità, i mezzi di trasporto e gli strumenti di comunicazione, delimitando, inoltre, tale assistenza a talune delle persone che partecipano all'associazione, escludendo cioè che tale contributo si possa riferire all'intera organizzazione considerata nel suo complesso;
b) dall'altra, si può legittimamente sostenere che quando gli stessi comportamenti si sostanzino nella prestazione di contributi materiali all'organizzazione criminale complessivamente considerata, può, invece, configurarsi un concorso criminoso nella fattispecie associativa. Il legislatore, cioè, avrebbe voluto prevenire ogni forma residuale di collaborazione non inquadrabile nell'ambito del concorso esterno né in quello del favoreggiamento.
Tutto sembra ruotare sull'inciso "fuori dai casi di concorso nel reato o di favoreggiamento". L'uso del termine "concorso" può significare la volontà di indicare ogni ipotesi di concorso, sia esso eventuale o necessario (partecipazione), e può, di conseguenza, indirettamente confermare che il legislatore dava per scontato che nei confronti dei reati associativi poteva rilevare, oltre che la partecipazione, il concorso eventuale. Sul punto occorre rilevare che la giurisprudenza si è espressa nel senso che il richiamato "concorso" non potrebbe che identificarsi con quello eventuale o esterno. Anche secondo la Suprema Corte l'impiego, per riferirsi agli stessi soggetti, di due diverse locuzioni ("persone che partecipano all'associazione" e "concorso") non avrebbe alcuna giustificazione logica se il termine "concorso" fosse riferito quello necessario, talché ciò confermerebbe la configurabilità del concorso eventuale dell'extraneus nel delitto di cui all'art. 416-bis.
L'aggravante dell'articolo 7 del Decreto Legge 13 maggio 1991, n. 152. La norma: «1. Per i delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, la pena è aumentata da un terzo alla metà. 2. Le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 del codice penale, concorrenti con l'aggravante di cui al comma 1 non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alla predetta aggravante». La ratio sottostante al citato art. 7 non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma quella di contrastare in maniera più decisa l'atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino "metodi mafiosi", che cioè inducano nelle vittime una particolare coartazione psicologica. A titolo di esempio, la suprema Corte ha qualificato atti intimidatori di "tipo mafioso" quelli compiuti nella esecuzione di un tentativo di estorsione, mediante telefonate minatorie alla vittima designata e sparando colpi d'arma da fuoco contro la facciata del negozio e l'autovettura di quest'ultima (Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 30246 del 17/05/2002).
L'aggravante scatta per la commissione di delitti punibili con pena diversa dall'ergastolo, in due casi distinti:
1) avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis (c.d. metodo mafioso);
2) al fine di agevolare l'attività delle associazioni di cui all'art. 416-bis (c.d. agevolazione mafiosa).
Mentre nel primo caso la sussistenza della circostanza aggravante dell'utilizzazione del "metodo mafioso" non implica che sia stata dimostrata l'esistenza di un'associazione di tipo mafioso[10], nel secondo caso è necessario che l'associazione esista essendo impensabile l'aggravamento di pena per aver favorito un'entità astratta.
Il problema è stabilire cosa deve intendersi per "avvalersi o giovarsi" del metodo mafioso. La risposta dovrebbe risultare agevole se detta modalità fosse sufficientemente tipizzata all'art. 416 bis c.p., cui l'aggravante in esame fa espresso rinvio. Purtroppo vi sono limiti di determinatezza che contraddistinguono la fattispecie incriminatrice dell'associazione di stampo mafioso; ne consegue che, per effetto traslativo, il deficit di tassatività dell'art. 416 bis c.p. si estenda anche agli elementi tipizzanti del Decreto Legge13 maggio 1991, n. 152. Sembra corretta l'interpretazione della locuzione "avvalendosi delle condizioni previste dall'articolo 416-bis del codice penale" come effettivo sfruttamento della fama di organizzazioni criminali operanti nell'ambito di un determinato territorio.
Ad ogni modo, si cercherà di fare chiarezza. La circostanza aggravante in questione, nel primo caso (metodo mafioso):
a) si applica anche al soggetto non appartenente all'associazione il quale si avvalga della forza intimidatrice dell'associazione mafiosa medesima per realizzare un fine proprio mafioso, sfruttando l'esistenza in una data zona di associazioni mafiose;
b) è applicabile anche al reato tentato, per cui non si richiede che il fine particolare perseguito debba essere in qualche modo realizzato;
c) occorre l'effettivo utilizzo del metodo mafioso nel commettere i delitti, inoltre, essa scatta anche se posta in essere da un solo soggetto;
d) ha natura oggettiva.
Nel secondo caso (agevolazione mafiosa):
a) si applica anche al soggetto non appartenente all'associazione;
b) ha natura soggettiva, riguardando una modalità (volontà) dell'azione rivolta ad agevolare un'associazione di tipo mafioso e si trasmette, quindi, a tutti i concorrenti nel reato, ivi compreso il soggetto affiliato all'organizzazione criminale, che risulti essere stato favorito dalla condotta agevolatrice;
c) l'elemento soggettivo è il dolo specifico, proprio perché ha ad oggetto la specifica finalità di agevolare l'associazione. Peraltro, si ritiene che l'agevolazione dell'attività dell'associazione non deve essere provata per la sussistenza dell'aggravante (ciò comporta l'applicazione di inaccettabili schemi di tipo presuntivo). Occorrerebbe, invece, raggiungere almeno la prova della oggettiva idoneità della condotta al raggiungimento della finalità perseguita dall'agente.
Riguardo la questione circa l'applicabilità o meno dell'aggravante ai partecipanti ad un'associazione di stampo mafioso, esistono due orientamenti:
1) il primo esclude l'operatività della disposizione citata nei confronti dei membri di un sodalizio di stampo mafioso sostenendo che il legislatore con la medesima ha inteso colmare possibili spazi di condotte che, pur senza configurare partecipazione all'associazione mafiosa, dimostrino finalità collaborative o contiguità. In pratica, la circostanza, nella sua configurazione materiale, concerne condotte ricomprese nella fattispecie associativa, di conseguenza non può essere contestata a chi già risponde di quest'ultima poiché si determinerebbe una duplicazione di sanzione per un unico addebito, in antitesi con l'art. 84 c.p. in tema di reato complesso;
2) il secondo ne afferma l'applicabilità. Il fatto che ad un partecipe sia addebitato ai sensi della norma codicistica il metodo mafioso quale patrimonio sociale e caratteristica dell'azione del gruppo, non preclude la possibilità di contestargli il suddetto metodo, quale da lui effettivamente utilizzato in determinate occasioni delittuose.
Orbene, la condotta sanzionata dall'art. 416 bis c.p. consiste nell'essere inserito stabilmente in un sodalizio, arrecando un contributo di un qualche rilievo ai fini dello scopo comune, il quale è rappresentato dalla commissione di un numero indeterminato di delitti, dall'acquisizione della gestione o del controllo di attività economiche, dal conseguimento di ingiusti profitti ovvero dall'incidere indebitamente sul diritto di voto; obiettivi che gli adepti perseguono avvalendosi della forza intimidatrice che promana dal vincolo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva.
Non è necessario che ogni socio:
a) realizzi i reati-fine che, mano a mano, vengono posti in essere;
b) compia le specifiche azioni funzionali alla conquista di supremazia;
c) utilizzi il metodo mafioso essendo sufficiente che egli sia consapevole che altri lo impiegano.
Affinché l'associato risponda anche dei "singoli delitti" occorre che egli vi abbia dato uno specifico consapevole apporto, non bastando che essi rientrino nel programma associativo.
Riguardo invece al metodo mafioso, si osservi la differenza tra i due casi:
1) quello previsto dall'art. 416 bis c.p. connota il fenomeno associativo ed è, al pari del vincolo, un elemento che permane indipendentemente dalla commissione dei vari reati;
2) quello di cui alla disposizione che sancisce l'aggravamento di pena è caratteristica solo eventuale di un concreto episodio delittuoso, facendo scattare l'operatività dell'aggravante solo se viene effettivamente utilizzato.
Di conseguenza, il metodo mafioso può essere addebitato al partecipe in due casi:
a) quale patrimonio sociale e caratteristica dell'azione del gruppo;
b) perché da lui effettivamente utilizzato in determinate occasioni delittuose.
In definitiva, nel caso in cui questi "singoli delitti" vengono commessi dal partecipe e la sua condotta è sorretta dal dolo specifico di agevolare l'attività dell'associazione, allora potrà essergli ascritta anche l'aggravante ex art. 7 D.L. 152/91, in quanto si verifica l'esistenza di un fattore psicologico in più, mentre se i singoli delitti vengono commessi utilizzando il c.d. metodo mafioso la circostanza aggravante non può trovare applicazione ostandovi il principio del ne bis in idem. Che non si tratti di un "concorso apparente" di norme valga la considerazione che il reato associativo postula un effettivo apporto alla causa comune mentre la configurazione dell'aggravante è relativa alla semplice volontà di favorire, indipendentemente dal risultato. Si tratta di due realtà fattuali diverse pertanto non è violato il principio del ne bis in idem sostanziale. Guardando il problema da una prospettiva diversa, cioè dal punto di vista della vittima, il problema diventa quello di stabilire se basti la mera consapevolezza di rapportarsi con un soggetto intraneo a una associazione di tipo mafioso per la contestazione aggravata di cui all'art. 7. Il rischio è che si opti per l'integrazione dell'aggravante anche in occasioni in cui la forza di intimidazione non è esplicitata, ossia anche nei casi di mera notorietà nel territorio dell'associazione criminale o in quelli in cui la forza derivi automaticamente dal carisma della caratura mafiosa del soggetto agente. Al fine di riportare entro i limiti della legalità l'aggravante in esame si può concludere che, anche quando il delitto sia commesso in un territorio in cui sia notoriamente presente l'associazione mafiosa, la sua configurabilità, nella forma dell'avvalersi delle condizioni di cui all'art. 416 bis c.p., (cd. metodo mafioso), è subordinata alla sussistenza, nel caso concreto, di condotte specificamente evocative di forza intimidatrice, derivante dal vincolo associativo e non dalle mere caratteristiche soggettive di chi agisce idonee a determinare una condizione di assoggettamento e omertà (Cfr., sez. V, n. 28442 del 17 aprile 2009). Ovviamente, occorre che il giudice provi l'esistenza dell'associazione agevolata, ma direi anche l'operatività della stessa, essendo impensabile un aggravamento di pena per il favoreggiamento di un'entità solo immaginaria o sia semplicemente esistente senza essere di fatto operativa. Altra questione è quella relativa ai rapporti dell'aggravante in esame e l'ipotesi di concorso esterno (rectius eventuale) nel reato di associazione di tipo mafioso.
Lecita è la domanda: chi commette un "delitto" aggravato ex art. 7 per il fatto di usare il c.d. metodo mafioso o per agevolare l'attività delle associazioni di cui all'art. 416-bisc.p., si rende responsabile anche di concorso "esterno" in quest'ultimo reato? Considerando le condotte, si può affermare che l'agevolare è condotta ben diversa dall'assumere un ruolo "essenziale, ineliminabile ed insostituibile". Inoltre, non è detto che l'agevolazione avvenga nei momenti di difficoltà dell'organizzazione criminale. In sintesi:
a) l'aggravante di cui all'art. 7 legge 13 maggio 1991, n. 152 si sostanzia nella semplice finalità di agevolazione dell'attività posta in essere dalla consorteria mafiosa, essendo solo necessario che venga accertata tale oggettiva finalizzazione dell'azione;
b) il concorso esterno deve essere occasionale, deve presentare il carattere di una rilevante importanza, tale da comportare l'assunzione di un ruolo esterno ma essenziale, ineliminabile ed insostituibile, particolarmente nei momenti di difficoltà dell'organizzazione criminale.
La risposta alla domanda è che il concorrente esterno all'associazione di tipo mafioso non è necessariamente responsabile dell'aggravante di cui all'art. 7 in questione, dipende da caso a caso. L'aggravante può scattare solo se, già integrati tutti i presupposti per ritenerlo concorrente esterno, nel commettere un delitto si avvalga del c.d. metodo mafioso e non anche nel caso in cui sia mosso dal fine di agevolare l'associazione mafiosa: tale fine, infatti, è già elemento costitutivo del concorso esterno a livello di elemento soggettivo (dolo generico). Se si ammettesse l'aggravante anche nel caso in questione verrebbe violato il principio del ne bis in idem sostanziale.
In definitiva, si possono delineare tre ruoli distinti:
1) il partecipante all'associazione;
2) il concorrente eventuale;
3) colui che consuma un reato aggravato ex art. 7 L. 152/91.
Immaginiamo che Tizio (partecipante), Caio (concorrente esterno) e Sempronio (che consuma reato aggravato) commettano il reato di estorsione di cui all'art. 629 c.p.. Vediamo i casi possibili:
Con la sentenza del 30 marzo 2011 la corte di Cassazione ha annullato l'ordinanza con la quale il Tribunale del riesame di Bologna aveva confermato la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 7 D.-L. 13 maggio 1991, n. 152 nei confronti di un dottore commercialista, indagato per il reato di riciclaggio aggravato e continuato, nonché per reati fiscali (artt. 2 e 8 D. Lgs. 10 marzo 2000, n. 74) e fallimentari (art. 223 R. D. 16 marzo 1942, n. 267) in relazione al dissesto di una società riconducibile ad una organizzazione mafiosa.
Più in particolare il ricorrente era accusato di avere gestito – nell'interesse dell'emissario della citata cosca– talune ditte con sede in Italia e all'estero, emettendo false fatture di vendita di materiale in realtà inesistente e consentendo, così, il conseguimento di un indebito lucro fiscale.
Nell'annullare "in parte" l'ordinanza, la Corte di cassazione ha osservato come mancasse la prova della consapevolezza da parte del ricorrente di avere agito al fine di favorire, nell'esercizio dell'attività professionale, non solo gli interessi illeciti del proprio cliente, ma soprattutto quelli della cosca mafiosa della quale quest'ultimo era il referente.
In sostanza la circostanza aggravante sussiste solo a condizione che tale comportamento risulti assistito dalla consapevolezza di favorire l'intero sodalizio, e non un suo singolo componente del quale si ignorino le connessioni con la criminalità organizzata.
Ulteriore questione è quella dei rapporti tra l'aggravante in argomento e il delitto di favoreggiamento personale. La norma stabilisce: «Chiunque, dopo che fu commesso un delitto per il quale la legge stabilisce la pena di morte) o l'ergastolo o la reclusione, e fuori dei casi di concorso nel medesimo, aiuta taluno a eludere le investigazioni dell'autorità, comprese quelle svolte da organi della Corte penale internazionale, o a sottrarsi alle ricerche effettuate dai medesimi soggetti, è punito con la reclusione fino a quattro anni. Quando il delitto commesso è quello previsto dall'art. 416-bis, si applica, in ogni caso, la pena della reclusione non inferiore a due anni. Se si tratta di delitti per i quali la legge stabilisce una pena diversa, ovvero di contravvenzioni, la pena è della multa fino a euro 516. Le disposizioni di questo articolo si applicano anche quando la persona aiutata non è imputabile o risulta che non ha commesso il delitto» (Art. 378. Favoreggiamento personale). In tempi recenti la suprema Corte ha chiarito che, in tema di favoreggiamento personale, l'aggravante di cui al secondo comma dell'art. 378 c. p. è compatibile con quella prevista dall'art. 7 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, quando il favoreggiamento si riferisca non solo alla persona facente parte dell'associazione di stampo mafioso ma sia diretto anche ad agevolare l'intera associazione. Tale compatibilità discenderebbe dalla diversa natura delle due circostanze aggravanti:
1) l'aggravante di cui all'art. 378 comma 2, ha natura oggettiva perché sussiste per il solo fatto che il soggetto favorito abbia fatto parte dell'organizzazione mafiosa e non è necessario avere la prova che l'attività del soggetto sia diretta ad agevolare l'intero sodalizio;
2) la circostanza aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991, (caso dell'agevolazione mafiosa) invece ha natura soggettiva dovendo l'agente avere l'intento di agevolare l'intera organizzazione o un suo esponente di spicco. Si pensi all'aiuto fornito al capo che si concretizzi nell'agevolazione per dirigere da latitante l'associazione così finendo per costituire un aiuto all'associazione la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto. (cfr. Fattispecie relativa all'agevolazione, protrattasi per rilevanti periodi di tempo, di esponenti di spicco di "cosa nostra" attraverso l'ospitalità presso vari immobili di pertinenza dei favoreggiatori - Sez. V, sent. n. 6199 del 30-11-2010).
Il fatto di favorire la latitanza di un personaggio di vertice di un'associazione mafiosa non determina necessariamente la sussistenza dell'aggravante, deve, infatti, valutarsi la oggettiva funzionalità della condotta agevolativa posta in essere e i suoi riflessi nei confronti dell'intera organizzazione. Favorire un semplice affiliato di un'associazione mafiosa difficilmente può integrare la circostanza aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991, perché normalmente manca il fine di agevolare l'associazione intera e la consapevolezza di fornire un contributo al perseguimento dei suoi fini (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4971 del 22/01/2010).
Riguardo ai rapporti tra l'aggravante in tema di "rapina" di cui all'art. 628 comma 3 c.p. e l'aggravante di cui all'art. 7 comma 1 della legge 203/1991 sì è ritenuto che queste possono concorrere essendo le stesse ancorate a presupposti di fatto diversi. La norma: (Art. 628 - Rapina) «Chiunque, per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, mediante violenza alla persona o minaccia, s'impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene è punito con la reclusione da tre a dieci anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065. Alla stessa pena soggiace chi adopera violenza o minaccia immediatamente dopo la sottrazione, per assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o per procurare a sé o ad altri l'impunità. La pena è della reclusione da quattro anni e sei mesi a venti anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098:
1) se la violenza o minaccia è commessa con armi, o da persona travisata, o da più persone riunite;
2) se la violenza consiste nel porre taluno in stato di incapacità di volere o di agire;
3) se la violenza o minaccia è posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'articolo 416-bis;
3 bis) se il fatto è commesso nei luoghi di cui all'articolo 624-bis o in luoghi tali da ostacolare la pubblica o privata difesa;
3 ter) se il fatto è commesso all'interno di mezzi di pubblico trasporto;
3 quater) se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell'atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro;
3-quinquies) se il fatto è commesso nei confronti di persona ultrasessantacinquenne.
Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall'articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui al terzo comma, numeri 3, 3 bis, 3 ter e 3 quater, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti».
La compatibilità delle due aggravanti è spiegata con la differenza strutturale che esiste tra le stesse:
1) l'aggravante di cui all'art. 628 comma terzo, n. 3, c.p. necessita dell'uso della violenza o minaccia e la provenienza di questa da soggetto appartenente ad associazione mafiosa. Non è indispensabile accertare in concreto le modalità di esercizio della suddetta violenza o minaccia o che esse siano attuate utilizzando la forza intimidatrice derivante dall'appartenenza dell'agente al sodalizio mafioso;
2) l'aggravante di cui all'art. 7 sussiste sole se l'attività criminosa sia stata posta in essere con modalità di tipo "mafioso", pur non essendo necessario che l'agente appartenga al predetto sodalizio.
Riguardo al "delitto di estorsione" si ritiene che, a determinate condizioni, possa configurarsi l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. n. 152 del 1991.
La norma: (Art. 629 - Estorsione) «Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni e con la multa da euro 1.000 a euro 4.000. La pena è della reclusione da sei a venti anni e della multa da euro 5.000 a euro 15.000, se concorre taluna delle circostanze indicate nell'ultimo capoverso dell'articolo precedente». La circostanza di cui all'art. 7 può configurarsi anche nel caso di estorsione allorché la condotta minacciosa, oltre ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, sia espressione di capacità persuasiva in ragione del vincolo dell'associazione mafiosa e sia, pertanto, idonea a determinare una condizione d'assoggettamento e d'omertà. Occorre che siano accertati un'attività intimidatoria caratterizzata da "mafiosità" e l'esplicazione di condotte che siano, altresì, riconducibili agli interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese possibili con l'ausilio degli appartenenti al sodalizio. Ad esempio è stato ritenuto configurabile il delitto di tentata estorsione, con l'aggravante del metodo mafioso, nel caso in cui si costringa la persona offesa a stipulare un contratto per essa non vantaggioso, quanto al prezzo e alle modalità, con l'attivo intervento nella trattativa di un "pregiudicato" ben noto per la sua caratura criminale (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 12882 del 17/12/2007 e Cass. Sez. 1, Sentenza n. 5783 del 22/01/2010). L'aggravante in questione è stata ritenuta integrata sia con riferimento alla delitto di ricettazione di cui all'art. 648 c.p. sia con riferimento ai delitti di rivelazioni ed utilizzazione di segreti d'ufficio di cui all'art. 326 c. p. e di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico di cui all'art. 615 ter, sempreché le condotte delittuose, ivi previste, siano tenute per apprendere notizie sulle sorti del procedimento penale in relazione al reato di associazione mafiosa di cui all'art. 416 bis c.p.(Cfr. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23134 del 16/04/2004). L'aggravante del metodo mafioso si ritiene compatibile con il delitto di usura, in quanto il metodo mafioso può ben sussistere nella fase della stipula dell'accordo usurario come condizionante l'accordo stesso nella prospettiva del futuro adempimento. Così, a titolo di esempio, la circostanza aggravante del metodo mafioso, è stata ritenuta configurabile nel caso in cui l'indagato ha come tecnica di intimidazione il riferimento alla provenienza dei capitali da persone legate alla criminalità organizzata (Cfr. Cass. Sez. 6, Sentenza n. 23153 del 16/05/2007. La circostanza aggravante in oggetto può trovare applicazione anche in relazione al delitto di trasferimento fraudolento di valori di cui all'art. 12 quinquies del D.L. n. 306 del 1992. (Cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 3472 del 08/01/2010). Si consideri inoltre che, allorché siano contestate, in relazione al medesimo reato, le circostanze aggravanti di aver agito sia al fine di agevolare l'attività di un'associazione di tipo mafioso, sia per motivi abietti di cui all'art. 61 n. 1 del c.p., le due circostanze concorrono se quella comune, nei termini fattuali della contestazione e dell'accertamento giudiziale, risulta autonomamente caratterizzata da un "quid pluris" rispetto alla finalità di consolidamento del prestigio e del predominio sul territorio del gruppo malavitoso. Infine, il delitto presupposto dei reati di riciclaggio (art. 648-bis c.p.) e di reimpiego di capitali (art. 648-ter c.p.) può essere costituito dal delitto di associazione mafiosa, di per sé idoneo a produrre proventi illeciti. Di conseguenza non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter c. p. e quello di cui all'art. 416-bis c.p., quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego riguardi denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa (Cass. pen., Sez. Un., 27 febbraio 2014, n. 25191).
Il concorso eventuale nei reati a concorso necessario – alcuni casi pratici tratti dalla giurisprudenza. L'efficacia causale della singola condotta di ogni compartecipe viene tradizionalmente riferita alla realizzazione in forma collettiva di un reato. Nei casi di sostegno esterno che sono al vaglio si tratta di condotte di concorso eventuale che accedono non già alla realizzazione in forma collettiva di un reato qualsiasi da eseguire o in corso di esecuzione, bensì a un reato a concorso necessario già consumato, essendo l'associazione mafiosa preesistente rispetto al contributo dell'estraneo. In altre parole, si tratta di contributi prestati dall'esterno nei confronti di un'entità associativa già costituita e che perdura nel tempo, secondo lo schema del reato permanente: ribadendo quanto già detto, la condotta di sostegno dell'estraneo è stata identifica dalla giurisprudenza nella "conservazione" o nel "rafforzamento" dell'associazione criminosa (o di un suo particolare settore). Il problema è che la condotta dell'extraneus dovrebbe porsi come condizione necessaria per la produzione della lesione dell'ordine pubblico, ma detta lesione deriva piuttosto dalla preesistenza dell'intero sodalizio: sicché l'unico modo per ammettere la configurabilità del concorso esterno consiste nel ritenere che esso realizzi una forma di incremento di una lesione (o messa in pericolo) che si è verificata e continua a verificarsi anche a prescindere dal contributo stesso.
Caso 1 (Avvocato) In tema di associazione di tipo mafioso, l'avvocato che - senza limitarsi a fornire al proprio cliente-associato consigli, pareri ecc. mantenendosi nell'ambito di quanto legalmente consentito - si trasformi in un "consigliori" della cosca, assicurando un'assistenza tecnico-legale finalizzata a suggerire sistemi e modalità di elusione fraudolenta della legge (nella specie, diretti a far acquisire agli esponenti del sodalizio il controllo di una società), risponde del delitto di concorso esterno, ovvero di quello di partecipazione all'associazione, qualora ricorrano gli ulteriori presupposti della "affectio societatis" e dello stabile inserimento nella struttura organizzativa del sodalizio (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17894 del 08/04/2014)
Caso 2 (Forze di Polizia) Integra il concorso esterno in associazione mafiosa la condotta di un appartenente alle forze di polizia giudiziaria che fornisce ripetutamente agli esponenti apicali di una cosca notizie in ordine ad indagini in corso, ad operazioni preventive in preparazione e ad iniziative di polizia in danno degli affiliati, in tal modo rendendo più sicuri i piani criminali del sodalizio e favorendone l'ideazione e l'esecuzione. (In motivazione, la S.C. ha precisato che tale sistematica attività non poteva essere ricondotta nell'alveo del delitto di favoreggiamento, che ricorre invece nell'ipotesi di episodico aiuto ad eludere le investigazioni o sottrarsi alle ricerche in favore del singolo associato, che abbia commesso un reato eventualmente compreso nel programma associativo) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 11898 del 13/11/2013).
Caso 3 (Imprenditore) In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, deve ritenersi "colluso" l'imprenditore che, senza essere inserito nella struttura organizzativa del sodalizio criminale e privo della "affectio societatis", instauri con la cosca un rapporto di reciproci vantaggi, consistenti, per l'imprenditore, nell'imporsi sul territorio in posizione dominante e, per l'organizzazione mafiosa, nell'ottenere risorse, servizi o utilità. (Nel caso di specie, l'imprenditore operava nell'ambito del sistema di gestione e spartizione degli appalti pubblici attraverso un'attività di illecita interferenza, che comportava, a suo vantaggio, il conseguimento di commesse e, in favore del sodalizio, il rafforzamento della propria capacità di influenza nel settore economico, con appalti ad imprese contigue) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 30346 del 18/04/2013).
Caso 4 (Borghesia mafiosa) Nei rapporti tra partecipazione ad associazione mafiosa e mero concorso esterno, la differenza tra il soggetto "intraneus" ed il concorrente esterno risiede nel fatto che quest'ultimo, sotto il profilo oggettivo, non è inserito nella struttura criminale, pur fornendo ad essa un contributo causalmente rilevante ai fini della conservazione o del rafforzamento dell'associazione, e, sotto il profilo soggettivo, è privo della "affectio societatis", mentre il partecipe "intraneus" è animato dalla coscienza e volontà di contribuire attivamente alla realizzazione dell'accordo, e quindi del programma delittuoso, in modo stabile e permanente. (La S.C. ha precisato che anche il contributo degli appartenenti alla c.d. "borghesia mafiosa" può integrare gli estremi della vera e propria partecipazione all'associazione mafiosa, e non del mero concorso esterno). (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18797 del 20/04/2012).
Caso 5 (Corriere) Integra il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, e non la meno grave fattispecie di favoreggiamento personale, la condotta del soggetto, estraneo all'associazione, che faccia da "corriere" tra un latitante e altri membri del sodalizio criminale, mediante la consegna di messaggi inerenti alle attività delittuose del gruppo (Sez. 1, Sentenza n. 54 del 11/12/2008).
Caso 6(Notaio) In tema di associazione di tipo mafioso, è configurabile il concorso esterno nella condotta della persona che, pur priva dell'"affectio societatis" e non risultando inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo - purché questo abbia apprezzabile rilevanza causale - ai fini della sua conservazione o del suo rafforzamento e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del suo programma criminoso. Ne consegue che integrano la condotta di concorso esterno nell'associazione di tipo mafioso le prestazioni professionali rese da un notaio le quali, pur astrattamente dovute in favore di chiunque ne faccia richiesta, devono essere rifiutate allorché di esse possa ragionevolmente ritenersi che riguardano atti od operazioni illeciti, o apparentemente leciti, compiuti da soggetti mafiosi. (Nella specie, la Corte ha ritenuto qualificabile come concorso esterno nel delitto associativo la condotta di un notaio che aveva prestato la sua opera in tutte le fasi, durate per anni, di una complessa e articolata speculazione edilizia, del valore di svariati miliardi di lire, progettata da un noto "clan" camorristico, consentendone la realizzazione non solo mediante il rogito di numerosi atti negoziali, ma anche attraverso l'avallo al pagamento di tangenti da parte di prestanome al capo-clan, la custodia di assegni a garanzia emessi dopo l'acquisto del terreno da lottizzare e, insomma, l'assunzione della veste di garante del buon esito dell'intera operazione, in cambio di che aveva ottenuto dai membri dell'associazione l'appoggio elettorale in un collegio senatoriale) (Sez. 6, Sentenza n. 13910 del 06/02/2004).
Alcuni casi concreti della storia italiana. Lungi dal voler esaminare le questioni nel merito, di verificare cioè se le singole condotte siano state poste in atto e conseguentemente siano state sufficientemente provate in giudizio, con l'ulteriore avvertenza che i nominativi diversi dagli imputati richiamati nell'elaborato sono stati indicati al solo fine di rendere comprensibile il testo, scorrendo questi casi concreti si vuole soltanto mostrare quali comportamenti siano stati ritenuti penalmente rilevanti ai fini dell'affermazione di una responsabilità a titolo di concorso c.d. esterno ex art. 110 c.p..
Il caso Andreotti. Il Tribunale di Palermo aveva assolto l'imputato da entrambe le imputazioni (di associazione per delinquere sino al 28 settembre 1982, di associazione di tipo mafioso per il periodo successivo) ai sensi del comma 2 dell'art. 530 c.p.p., avendo ritenuto carenti o contraddittorie le relative prove. La sentenza è stata impugnata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo, che ne hanno chiesto la riforma con affermazione della responsabilità dell'imputato. La Corte di Appello ha riformato la statuizione relativa al primo periodo (antecedente al 1980), applicando la prescrizione perché ha ritenuto che l'imputato avesse in tale periodo partecipato (ndr in concorso esterno) al sodalizio criminoso, mentre ha confermato la statuizione assolutoria per quello successivo. La Cassazione con la sentenza del 15 ottobre 2004 n. 49691 rigetta il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Palermo e dell'imputato e condanna quest'ultimo al pagamento delle spese processuali. La suprema Corte stabilisce che:
1) la "partecipazione" all'associazione criminosa si sostanzia nella volontà dei suoi vertici di includervi il soggetto e nell'impegno assunto da costui di contribuirne alla vita attraverso una condotta a forma libera, ma in ogni caso tale da costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento del sodalizio;
2) in mancanza dell'inserimento formale nel sodalizio, è soltanto la prestazione di "contributi reali" che rende concreta ed effettiva, e non meramente teorica, la disponibilità e nel contempo ne materializza la prova.
Secondo la suprema Corte la costruzione giuridica della Corte territoriale di Palermo resiste al vaglio di legittimità perché essa ha interpretato i fatti di cui è processo: Andreotti, facendo leva sulla sua posizione di uomo politico di punta soprattutto a livello governativo, avrebbe manifestato la propria disponibilità - sollecitata o accettata da Cosa Nostra - a compiere interventi in armonia con le finalità del sodalizio ricevendone in cambio la promessa, almeno parzialmente mantenuta, di sostegno elettorale alla sua corrente e di eventuali interventi di altro genere.
La sentenza della Corte di Appello ha ravvisato la partecipazione nel reato associativo non nei termini riduttivi della mera disponibilità, ma in quelli più ampi e giuridicamente significativi di una "concreta collaborazione", sviluppatasi anche attraverso l'opera di Lima, dei Salvo e di Ciancimino, oltre che nella ritenuta interazione con i vertici del sodalizio (il riferimento è alla questione Mattarella), oltre che alla rinunzia a denunciare i fatti gravi di cui era venuto a conoscenza. Più analiticamente, la Corte territoriale ha affermato che il sen. Andreotti aveva avuto piena consapevolezza che i suoi referenti siciliani (Lima, i Salvo e poi anche Ciancimino) intrattenevano amichevoli rapporti con alcuni boss mafiosi; che egli aveva, quindi, a sua volta, coltivato amichevoli relazioni con gli stessi boss; che aveva palesato ai medesimi una disponibilità non necessariamente seguita da concreti, consistenti interventi agevolativi; che aveva loro chiesto favori; che li aveva incontrati; che aveva interagito con essi; che aveva loro indicato il comportamento da tenere in relazione alla delicatissima questione Mattarella, sia pure senza riuscire ad ottenere, in definitiva, che le stesse indicazioni venissero seguite; che aveva conquistato la loro fiducia tanto da discutere insieme anche di fatti gravissimi (come appunto l'assassinio del Presidente Mattarella), nella sicura consapevolezza di non correre il rischio di essere denunciati, che aveva omesso di denunciare le loro responsabilità, in particolare in relazione all'omicidio del Presidente Mattarella, malgrado potesse, al riguardo, offrire utilissimi elementi di conoscenza. In merito al concetto di disponibilità, la Corte specifica che la stessa deve trovare concreta estrinsecazione attraverso comportamenti specifici: in mancanza di un'affiliazione rituale, con conseguente assunzione formale della qualifica di "uomo d'onore", è solo attraverso la prestazione di un contributo concreto al sodalizio associativo che si materializza e si manifesta anche all'esterno la prova della relativa partecipazione. Bisogna, cioè, che l'agente tenga un comportamento funzionale al sodalizio, fornendogli un contributo che può anche essere minimo e di qualsiasi forma e contenuto, ma che deve essere effettivo e provato. Riguardo al problema della "estrinsecazione dei comportamenti specifici", la Corte territoriale, nell'affermare la sussistenza del reato associativo, aveva valutato non determinante il deficit probatorio in ordine a specifici e concreti interventi agevolativi degli interessi dell'associazione mafiosa da parte dell'imputato, essendo sufficiente la consapevole instaurazione, non senza personale tornaconto, di una relazione stabile con il sodalizio e l'apprestamento di un contributo rafforzativo attraverso la manifestazione di disponibilità verso i mafiosi. Al di là, quindi, di specifici contributi (che poi non furono provati) si afferma che può costituire "concreto contributo punibile" anche la semplice relazione stabile con il sodalizio. E per usare le parole della Corte di Appello, il reato era integrato trattandosi di un eminentissimo personaggio politico nazionale, di spiccatissima influenza nella politica generale del Paese ed estraneo all'ambiente siciliano, il quale, nell'arco di un congruo lasso di tempo, anche al di fuori di una esplicitata negoziazione di appoggi elettorali in cambio di propri interventi in favore di un'organizzazione mafiosa di rilevantissimo radicamento territoriale nell'Isola:
a) aveva chiesto e ottenuto, per conto di suoi sodali, ad esponenti di spicco della associazione interventi para-legali, ancorché per finalità non riprovevoli;
b) aveva incontrato ripetutamente esponenti di vertice della stessa associazione;
c) aveva intrattenuto con essi relazioni amichevoli, rafforzandone l'influenza anche rispetto ad altre componenti dello stesso sodalizio tagliate fuori da tali rapporti;
d) aveva palesato autentico interessamento in relazione a vicende particolarmente delicate per la vita del sodalizio mafioso;
e) aveva indicato ai mafiosi, in relazione a tali vicende, le strade da seguire e discusso con i medesimi anche di fatti criminali gravissimi da loro perpetrati in connessione con le medesime vicende, senza destare in essi la preoccupazione di venire denunciati;
f) aveva omesso di denunciare elementi utilità far luce su fatti di particolarissima gravità, di cui era venuto a conoscenza in dipendenza di diretti contatti con i mafiosi;
g) aveva dato, in buona sostanza, a detti esponenti mafiosi segni autentici – e non meramente fittizi - di amichevole disponibilità, idonei, anche al di fuori della messa in atto di specifici ed effettivi interventi agevolativi, a contribuire al rafforzamento della organizzazione criminale, inducendo negli affiliati, anche per la sua autorevolezza politica, il sentimento di essere protetti al più alto livello del potere legale.
In definitiva, una serie di comportamenti (anche non penalmente rilevanti, se singolarmente considerati) protratti nel tempo che inducevano gli affiliati a pensare di essere protetti al più alto livello. Questi comportamenti possono costituire un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all'esistenza o al rafforzamento del sodalizio. E a questo punto, in tema di prova, potremmo richiamare quanto detto sopra a proposito della sentenza della Cassazione del 2005 (caso Mannino): detta prova sussisterebbe se all'esito della verifica probatoria ex post della efficacia causale degli impegni assunti dal politico risulti accertato, sulla base di massime di esperienza dotate di empirica plausibilità, che gli stessi impegni abbiano inciso effettivamente e significativamente, di per sé, e a prescindere da successive ed eventuali condotte esecutive dell'accordo, sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali. A livello normativo non si può dimenticare l'esistenza di un raccordo tra "libero convincimento del giudice" e "l'obbligo di motivazione", messo in risalto dalla correlazione tra la norma di cui all'art. 192 c. I° e quella di cui all'art. 546 lett. e) c.p.p, che richiede che la sentenza contenga, tra l'altro, l'indicazione delle prove poste a base della decisione e l'enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie. Ma perché la motivazione del giudice possa assolvere adeguatamente al proprio scopo essa deve tenere conto di altro principio cardine del nostro Ordinamento penale che è quello della valutazione unitaria delle complessive emergenze processuali; in tal senso cfr. Cass. Sez. VI Sent. 10642 del 03/11/92:"Ai sensi dell'art. 192 cod. proc. pen. non può dirsi adempiuto l'onere della motivazione ove il giudice si limiti ad una mera considerazione del valore autonomo dei singoli elementi probatori, senza pervenire a quella valutazione unitaria della prova, che è principio cardine del processo penale, perchè sintesi di tutti i canoni interpretativi dettati dalla norma stessa". (Nella specie la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata sul rilievo che il giudice di merito aveva isolatamente considerato gli indizi a carico dell'imputato senza considerare la loro eventuale valenza complessiva nell'ambito della successione degli eventi e del collegamento con altri imputati). L'accertamento dei fatti è quindi il risultato ultimo cui deve tendere il giudizio penale in una analisi dei risultati probatori che deve essere globale e critica. Per quanto concerne la prova c.d. logico-critica il legislatore ha espressamente posto all'art. 192 secondo comma, con una formula mutuata dall'art. 2729 del cod. civile, la regola secondo cui "l'esistenza di un fatto non può essere desunta da indizi a meno che questi siano gravi, precisi e concordanti".
A tal proposito si consideri la seguente sentenza: "L'art. 192 comma secondo nuovo cod. proc. pen. riconosce formalmente la validità probatoria degli indizi, quando siano gravi, precisi e concordanti. Gravi sono gli indizi consistenti, cioè resistenti alle obiezioni e, quindi attendibili e convincenti; precisi sono quelli non generici e non suscettibili di diversa interpretazione altrettanto o più verosimile, perciò non equivoci; concordanti sono quelli che non contrastano tra loro e più ancora con altri dati o elementi certi. Quando hanno queste caratteristiche gli indizi possono costituire prova di un fatto, se valutati nel loro complesso e in logica coordinazione"(Cass. Sez. 1- Sent. n. 03499 del 27/03/1991).
Il caso Contrada. In sintesi, la vicenda si snoda:
1) con sentenza del 5 aprile 1996 n. 338, il tribunale di Palermo condannò Bruno Contrada alla pena di dieci anni di reclusione per concorso esterno in associazione di stampo mafioso (articoli 110, 416 e 416 bis del codice penale). In particolare, il tribunale lo ritenne colpevole di avere, tra il 1979 e il 1988, in qualità di funzionario di polizia poi di capo di gabinetto dell'alto commissario per la lotta alla mafia e di vicedirettore dei servizi segreti civili (SISDE), apportato sistematicamente un contributo alle attività e al perseguimento degli scopi illeciti dell'associazione mafiosa denominata «Cosa nostra». Il 1 gennaio 1997 il ricorrente interpose appello.
2) con sentenza del 4 maggio 2001, la corte d'appello di Palermo assolse il ricorrente perché il fatto non sussiste. (le prove prese in considerazione non fossero determinanti) Il procuratore generale della Repubblica propose ricorso per cassazione.
3) con sentenza del 12 dicembre 2002, la Corte di cassazione annullò la sentenza della corte d'appello di Palermo e rinviò la causa ad altra sezione di questa stessa corte.
4) con sentenza del 25 febbraio 2006, una diversa sezione della corte d'appello di Palermo confermò il contenuto della sentenza del tribunale di Palermo del 5 aprile 1996. In particolare essa fece valere che al momento della presentazione dell'appello, il 1° gennaio 1997, la Corte di cassazione si era pronunciata due volte a sezioni unite nel senso dell'esistenza del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso in particolare nelle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994 e Mannino, n. 30 del 27/09/1995, e che questa posizione fu confermata nelle due sentenze intervenute successivamente in materia ossia, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino, n. 33748 del 17 luglio 2005). Il ricorrente propose ricorso per cassazione.
5) con sentenza depositata l'8 gennaio 2008, la Corte di cassazione respinse il ricorso del ricorrente.
Varie le richieste di revisione del processo presentate dalla difesa di Bruno Contrada, l'ultima delle quali presentata a seguito della sentenza con cui la Corte europea dei diritti dell'uomo (14 aprile 2015 - Ricorso n. 66655/13) ha stabilito che il loro assistito non poteva essere condannato per concorso esterno in quanto si tratta di un'accusa non prevista come reato nel periodo contestato. La Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto in data 18 novembre 2015 tale richiesta di revisione del processo all'ex funzionario del Sisde. Prima della sentenza Demitry del 5 ottobre 1994 la giurisprudenza aveva oscillato tra l'esclusione e il riconoscimento del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso. In data 4 luglio 2008, invocando l'articolo 7 della Convenzione dei diritti dell'uomo, Bruno Contrada adisce alla Corte europea dei diritti dell'uomo sostenendo che il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso è il risultato di una evoluzione giurisprudenziale "posteriore" all'epoca dei fatti per i quali è stato condannato. Perciò, tenuto conto delle divergenze giurisprudenziali sull'esistenza di detto reato, non avrebbe potuto prevedere con precisione la qualificazione giuridica dei fatti che gli erano ascritti e, di conseguenza, la pena che sanzionava le sue condotte. In sostanza denunciava la violazione del principio di irretroattività della norma penale (cosa, peraltro, che Contrada aveva invocato sia dopo il giudizio di primo grado del tribunale di Palermo sia dopo la sentenza di secondo grado della Corte d'appello di Palermo). Lo stesso ha sostenuto in particolare che, all'epoca dei fatti di causa, l'applicazione della legge penale relativa al concorso in associazione di tipo mafioso non fosse prevedibile in quanto era il risultato di una evoluzione giurisprudenziale successiva.
Il governo solleva tre obiezioni riguardo la ricevibilità del ricorso, ma la Corte lo dichiara ricevibile. Si consideri il contenuto dell'articolo 7 - Nulla poena sine lege - della Convenzione CEDU: «1. Nessuno può essere condannato per una azione o una omissione che, nel momento in cui è stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non può essere inflitta una pena più grave di quella applicabile al tempo in cui il reato è stato commesso. 2. Il presente articolo non ostacolerà il giudizio e la condanna di una persona colpevole di una azione o di una omissione che, al momento in cui è stata commessa, costituiva un crimine secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili».
In sintesi, la Corte sostiene che la garanzia sancita all'articolo 7 (elemento essenziale dello stato di diritto), occupa un posto preminente nel sistema di protezione della Convenzione, come sottolineato dal fatto che non è permessa alcuna deroga ad essa ai sensi dell'articolo 15 neanche in tempo di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione. Come deriva dal suo oggetto e dal suo scopo, essa dovrebbe essere interpretata e applicata in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie. L'articolo 7 della Convenzione non si limita a proibire l'applicazione retroattiva del diritto penale a svantaggio dell'imputato, esso sancisce anche, in maniera più generale, il principio della legalità dei delitti e delle pene «nullum crimen, nulla poena sine lege». Se vieta in particolare di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano dei reati, esso impone anche di non applicare la legge penale in modo estensivo a svantaggio dell'imputato, ad esempio per analogia. Di conseguenza la legge deve definire chiaramente i reati e le pene che li reprimono. Questo requisito è soddisfatto se la persona sottoposta a giudizio può sapere, a partire dal testo della disposizione pertinente, se necessario con l'assistenza dell'interpretazione che ne viene data dai tribunalie, se del caso, dopo aver avuto ricorso a consulenti illuminati, per quali atti e omissioni le viene attribuita una responsabilità penale e di quale pena è passibile per tali atti. Pertanto, il compito della Corte è, in particolare, quello di verificare che, nel momento in cui un imputato ha commesso l'atto che ha comportato l'esercizio dell'azione penale e la condanna, esistesse una disposizione di legge che rendeva l'atto punibile, e che la pena inflitta non eccedesse i limiti fissati da tale disposizione. La Corte rammenta anche che non ha il compito di sostituirsi ai giudici nazionali nella valutazione e nella qualificazione giuridica dei fatti, purché queste si basino su un'analisi ragionevole degli elementi del fascicolo. Più in generale, la Corte rammenta che sono in primo luogo le autorità nazionali, in particolare le corti e i tribunali, a dover interpretare la legislazione interna. Il suo ruolo si limita dunque a verificare la compatibilità con la Convenzione degli effetti di tale interpretazione. La Corte ha ritenuto che la questione della causa Contrada fosse quella di stabilire se, all'epoca dei fatti ascritti al ricorrente, la legge applicabile definisse chiaramente il reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso. La Corte osserva anche che, nella sua sentenza del 25 febbraio 2006, la Corte d'Appello di Palermo, pronunciandosi sull'applicabilità della legge penale in materia di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, si è basata sulle sentenze Demitry, n. 16 del 5 ottobre 1994, Mannino n. 30 del 27 settembre 1995, Carnevale, n. 22327 del 30 ottobre 2002 e Mannino n. 33748 del 17 luglio 2005, tutte posteriori ai fatti ascritti al ricorrente. La Corte fa presente, per di più, che la doglianza del ricorrente relativa alla violazione del principio della irretroattività e della prevedibilità della legge penale, sollevata dinanzi a tutti i gradi di giudizio, non è stata oggetto di un esame approfondito da parte dei giudici nazionali, essendosi questi ultimi limitati ad analizzare in dettaglio l'esistenza stessa del reato di concorso esterno in associazione di tipo mafioso nell'ordinamento giuridico interno senza tuttavia stabilire se un tale reato potesse essere conosciuto dal ricorrente all'epoca dei fatti a lui ascritti. In queste circostanze, la Corte constata che il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. Perciò, all'epoca in cui sono stati commessi i fatti ascritti al ricorrente (1979-1988), il reato in questione non era sufficientemente chiaro e prevedibile per quest'ultimo. Il ricorrente non poteva dunque conoscere nella fattispecie la pena in cui incorreva per la responsabilità penale derivante dagli atti da lui compiuti. In definitiva, la Corte ritiene che questi elementi siano sufficienti per concludere che vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione. Vi è da aggiungere che l'art. 46 CEDU, relativo alla forza vincolante ed all'esecuzione delle sentenze, prevede che "Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti". Si ricorda (vedi supra) che la Corte d'Appello di Caltanissetta ha respinto, in data 18 novembre 2015, la richiesta di revisione del processo presentata da Bruno Contrada proprio in forza della decisione della Corte europea dei diritti dell'uomo. Il punto è che non esiste in Italia un diritto penale di origine giurisprudenziale. Tuttavia, per usare le parole Corte europea per i diritti dell'uomo, il reato in questione è stato il risultato di una evoluzione giurisprudenziale iniziata verso la fine degli anni ottanta del secolo scorso e consolidatasi nel 1994 con la sentenza Demitry. In realtà, il reato esisteva già prima per il semplice fatto che l'art 110 c.p. è norma generale con funzione di estensione della responsabilità penale esistente da quando è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 26 ottobre 1930, n. 251 il codice penale approvato con R.D. 19 ottobre 1930 n.1398, mentre il reato di cui all'art. 416-bis"associazione di tipo mafioso" è stato introdotto con la legge 13 settembre 1982, n. 646 c.d. Rognoni - La Torre, ed è in vigore dal 29/09/1982. I giudici avevano quindi la possibilità di applicare correttamente la legge sin dal 29/09/1982. Allo stesso modo, anche i cittadini avevano la possibilità teorica di comprendere una loro possibile responsabilità penale per il concorso (eventuale/esterno) nel nuovo reato di associazione di tipo mafioso. Senonché, basterebbe constatare che dal 1982 al 1994 (per ben 12 anni) la giurisprudenza di merito e di legittimità non è riuscita a trovare una linea comune sulla configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione di tipo mafioso, per ragionevolmente affermare che un cittadino comune difficilmente poteva avere assoluta e certa consapevolezza dell'esistenza di una possibile responsabilità penale a titolo di concorso nel reato in questione. In definitiva, se si ammette che l'elaborazione giurisprudenziale del reato è "certa" solo a partire dal 1994, tutti i fatti antecedenti non possono essere puniti con la fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 110-416 bis c.p.: da questo punto di vista si può affermare che nel caso Contrada vi è stata violazione dell'articolo 7 della Convenzione (nulla poena sine lege). D'altra parte, sappiamo che l'ignoranza della legge penale non scusa, tranne che si tratti d'ignoranza inevitabile. Si ritiene che l'errore nell'interpretazione della legge possa essere considerato, eccezionalmente, scusabile solo se riconducibile ad una oggettiva oscurità (attestata, eventualmente, da persistenti contrasti interpretativi) della norma violata. Il vero problema è che la Corte europea dei diritti dell'uomo ha considerato le decisioni della Cassazione riguardanti i casi "Demitry", "Carnevale", "Mannino", nella loro dimensione normativa legislativa considerando la nostra Suprema corte quasi un giudice-legislatore (rectius: un giudice che si ponga sul medesimo piano delle assemblee parlamentari). La questione in realtà è molto complessa perché riguarda il Rule of Law, dato che nei sistemi di common Law il giudice è anche fonte del diritto; lo è meno, come risaputo, col principio (continentale) di legalità, dato che nei sistemi di civil Law il giudice è fondamentalmente un applicatore di diritto legislativo. Considerato che la Corte europea è costruita sul modello del giudice di common Law, occorrerebbe verificare quantomeno se ciò sia compatibile col sistema vigente, ovvero debba comportare una ridefinizione del principio di legalità valido in ambito nazionale o, ancora, mettere in crisi la relazione stessa tra diritto legislativo statale e diritto sovranazionale CEDU. Ammesso e non concesso che la fattispecie di reato può essere anche estratta da una base legislativa solo iniziale e successivamente completata da una giurisprudenza integrativa, purchè stabile e risalente, il tutto non sembra collocarsi troppo distante dal concetto di «ignoranza incolpevole» della legge penale di cui ragionava la Corte costituzionale nella sentenza n. 364 del 23-24 marzo 198850 (cfr. La certezza in palio: Un Diritto (penale) per (ogni) Contrada?- Antonio Riviezzo - 14 ottobre 2015). Ma tornando al caso concreto, è un dato di fatto che al momento in cui vennero commessi i fatti ascritti a Contrada (1979-1988), vi era incertezza circa la configurabilità del concorso esterno in associazione di tipo mafioso: un soggetto prudente si sarebbe quantomeno astenuto dal mettere in atto comportamenti di agevolazione di associazioni di tipo mafioso per paura di subire una condanna penale. Fino a che punto la "stessa incertezza interpretativa" doveva mettere in allarme un qualsiasi cittadino, non è facile a stabilirsi anche perché, più correttamente, occorrerebbe valutare le conoscenze e competenze giuridiche di quel particolare cittadino. In altre parole, vi può essere una responsabilità penale se a fronte di una incertezza interpretativa si accetta il rischio di tenere una determinata condotta? Vi è da aggiungere che, per i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della legge Rognoni-La Torre che istituisce il reato in questione, vi era già l'art. 416 c.p. di associazione per delinquere e l'applicazione del concorso eventuale ex art 110 c.p. non era messo in discussione. A tal proposito a pag. 822 e 823 della sentenza di primo grado n. 388/1996, i giudici affermando che:
1) l'illecita condotta dell'imputato è iniziata sin dalla seconda metà degli anni settanta permanendo oltre il 1982 e fino ad epoca recente e, quindi, sotto l'imperio della legge del Settembre 1982 che ha introdotto la fattispecie incriminatrice di cui all'art. 416 bis c.p.;
2) in ordine al divieto del "ne bis in idem" sostanziale che preclude l'applicazione di entrambe le fattispecie di reato contestate in relazione ad una condotta sostanzialmente unitaria, la fattispecie di reato meno grave (p.e p. dagli artt. 110 e 416 c.p.) deve ritenersi assorbita in quella più grave (p.e p. dagli artt. 110 e 416 bis c.p.).
La condotta tenuta dall'imputato, avrebbe comunque configurato il concorso eventuale ex art 110 c.p, nel reato di associazione a delinquere ex art 416 c.p. per i fatti commessi prima del 29/08/1982. (Più o meno come è stato affermato nel caso Andreotti). Si può concludere che la questione è molto più complessa di quella che appare: vi è in gioco il principio di legalità, la riserva di legge e di giurisdizione, il difficile equilibrio tra il diritto interno e il diritto internazionale, la competizione tra common law e civil law. Non è solo una questione di diritto penale, ma di diritto costituzionale innanzitutto. Si verifica una sempre maggiore importanza delle sentenze che, grazie all'influenza del diritto del common law, tendono ad autopromuoversi quali fonti del diritto e ci fanno scivolare verso per il principio dello stare decisis.
Nel caso specifico, siamo in presenza di una situazione paradossale:
Ø applicando il più garantista principio di legalità basato sulle norme esistenti, il concorso eventuale (c.d. esterno) in associazione di tipo mafioso è perfettamente integrato a carico del reo, con la conseguenza che questi ne risulta penalizzato;
Ø applicando il meno garantista principio dell'elaborazione giurisprudenziale, il concorso eventuale in associazione di tipo mafioso non si configura almeno fino al 1994 (data della famosa sentenza Demitry) con la conseguenza di essere più favorevole al reo.
Conoscere dei mafiosi, frequentarli, adoperarsi per fargli qualche favore personale (quale ad es. interessarsi per il disbrigo delle pratiche atte a conseguire la patente di guida o il porto d'armi), non costituisce certamente condotta penalmente rilevante ex art 110 c.p.. L'indeterminatezza della questione deriva sia dalla formula usata dal legislatore nel predetto articolo "Quando più persone concorrono nel medesimo reato", sia dalle parole usate per introdurre il reato di associazione di tipo mafioso di cui all'art. 416-bis o meglio dalla difficoltà concreta di individuare condotte che, anche se svolte da persone "esterne" all'associazione, possono considerarsi "medesimo reato". Informare i mafiosi delle indagini in corso, avvertirli preventivamente nel caso di mandati di cattura al fine di procurargli la fuga, intimidire dei testimoni affinché questi non parlino di fatti che possano nuocere all'associazione mafiosa, contravvenire ai propri doveri d'ufficio di denuncia di fatti penalmente rilevanti, camuffare, dissimulare o il semplice omettere di fare quanto è lecito aspettarsi da un soggetto con una certa posizione giuridica, per un lasso di tempo prolungato, è certamente da considerare un contributo concreto.
Il caso Dell'Utri. La vicenda giudiziaria si riassume nelle seguenti date:
1) l'11/12/2004 la sentenza di primo grado;
2) il 29/06/2010 la sentenza di secondo grado;
3) il 09/03/2012 l'annullamento da parte della Cassazione della sentenza di appello;
4) il 25/03/2013 la seconda sentenza della Corte d'appello;
5) il 09/05/2014 la conferma in Cassazione della sentenza del 25/03/2013.
In data 11 dicembre 2004 il Tribunale di Palermo emetteva sentenza nei confronti degli imputati Dell'Utri Marcello, a piede libero, e Cinà Gaetano, in stato di custodia cautelare in carcere, per i reati loro contestati come in rubrica. In particolare del delitto di cui agli artt. 110 e 416 commi 1, 4 e 5 c.p., per avere concorso nelle attività della associazione di tipo mafioso denominata "cosa nostra", nonché nel perseguimento degli scopi della stessa, mettendo a disposizione della medesima associazione l'influenza ed il potere derivanti dalla sua posizione di esponente del mondo finanziario ed imprenditoriale, nonché dalle relazioni intessute nel corso della sua attività, partecipando in questo modo al mantenimento, al rafforzamento ed alla espansione della associazione medesima, da epoca imprecisata sino al 28.9.1982 e del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis commi 1, 4 e 6 c.p., per le stesse condotte, dal 28.9.1982 alla data del processo di primo grado. Secondo i giudici di primo grado l'imputato aveva avuto rapporti con "cosa nostra" e in particolare sia con Cinà Gaetano che con il Mangano Vittorio, nel frattempo assurto alla guida dell'importante mandamento palermitano di Porta Nuova, palesando allo stesso una disponibilità non meramente fittizia, incontrandolo ripetutamente nel corso del tempo, consentendo, anche grazie a Cinà, che "Cosa Nostra" percepisse lauti guadagni a titolo estorsivo dall'azienda milanese facente capo a Silvio Berlusconi, intervenendo nei momenti di crisi tra l'organizzazione mafiosa ed il gruppo Fininvest (come nella vicenda relativa agli attentati ai magazzini della Standa di Catania e dintorni), chiedendo al Mangano ed ottenendo favori dallo stesso (come nella "vicenda Garraffa") e promettendo appoggio in campo politico e giudiziario. Proseguendo si dice che, la pluralità dell'attività posta in essere, per la rilevanza causale espressa, ha costituito un concreto, volontario, consapevole, specifico e prezioso contributo al mantenimento, consolidamento e rafforzamento di "cosa nostra" alla quale è stata, tra l'altro, offerta l'opportunità, sempre con la mediazione di Marcello Dell'Utri, di entrare in contatto con importanti ambienti dell'economia e della finanza, così agevolandola nel perseguimento dei suoi fini illeciti, sia meramente economici che, lato sensu, politici. In data 25/03/2013 la Corte d'Appello di Palermo, riteneva sussistenti l'elemento oggettivo e soggettivo del reato contestato a Marcello Dell'Utri con riferimento al periodo 1978-1982. A pag. 451 si legge: «Ed invero a seguito della sentenza della Corte di Cassazione (con riguardo al periodo 1974-1977) era stato definitivamente accertato che Dell'Utri, Berlusconi, Cinà, Bontade e Teresi avevano siglato un patto in base al quale l'imprenditore milanese avrebbe effettuato il pagamento di somme di denaro a "cosa nostra" per ricevere in cambio protezione. Tale accordo era stato raggiunto proprio in virtù dell'opera di mediazione svolta da Dell'Utri — che aveva fatto ricorso a Gaetano Cinà - tra l'associazione mafiosa e Berlusconi».
L'assunzione di Vittorio Mangano (all'epoca dei fatti affiliato alla "famiglia" mafiosa di Porta Nuova, formalmente aggregata al mandamento di S. Maria del Gesù, comandato da Stefano Bontade) ad Arcore, nel maggio-giugno del 1974 costituiva l'espressione dell'accordo concluso, grazie alla mediazione di Dell'Utri, tra gli esponenti palermitani di "cosa nostra" e Silvio Berlusconi ed era funzionale a garantire un presidio mafioso all'interno della villa di quest'ultimo. Svolgendo detta attività di mediazione, Dell'Utri, che aveva contatti diretti non solo con l'amico Cinà, ma anche con i boss Teresi e Bontade e anche con Vittorio Mangano (che lui aveva segnalato per farlo assumere ad Arcore), aveva contribuito con assoluta consapevolezza e volontà al rafforzamento dell'associazione mafiosa; quest'ultima, con la costante opera di mediazione di Dell'Utri, aveva realizzato il proprio programma economico essendo entrata in contatto con l'imprenditore Berlusconi dal quale riceveva cospicue somme di denaro. In data 09/05/2014 la corte di Cassazione afferma che assume le vesti di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminosa della medesima. Ed ancora, che la rilevanza e la tipicità della condotte del soggetto "esterno", dotate delle caratteristiche ora indicate, é delimitata dalla funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p. che combina la clausola generale in essa contenuta con le disposizioni di parte speciale che prevedono le ipotesi-base di reato. Ciò postula che sussistano tutti i requisiti strutturali che caratterizzano il nucleo centrale significativo del concorso di persone nel reato. E' necessario, quindi, per un verso, che siano realizzati, nella forma consumata o tentata, tutti gli elementi del fatto tipico di reato descritto dalla norma incriminatrice di parte speciale e che la condotta di concorso sia oggettivamente e soggettivamente collegata con quegli elementi. Per altro verso occorre che il contributo atipico del concorrente esterno (sia esso di natura materiale o morale), diverso ma operante in sinergia con quello dei partecipi interni, abbia avuto una reale efficienza causale per la concreta realizzazione del fatto criminoso collettivo e per la produzione dell'evento lesivo del bene giuridico protetto, costituito, nella specie, dall'integrità dell'ordine pubblico, violata dall'esistenza e dall'operatività del sodalizio e dal diffuso pericolo di attuazione dei delitti-scopo del programma criminoso. La particolare struttura della fattispecie concorsuale comporta, infine, quale essenziale requisito, che il dolo del concorrente esterno investa, nei momenti della rappresentazione e della volizione, sia tutti gli elementi essenziali della figura criminosa tipica sia il contributo causale recato dal proprio comportamento alla realizzazione del fatto concreto, con la consapevolezza e la volontà di interagire, sinergicamente, con le condotte altrui nella produzione dell'evento lesivo del "medesimo reato". Pertanto il concorrente esterno, pur sprovvisto dell'affectio societatis e, cioè, della volontà di far parte dell'associazione, deve essere consapevole dei metodi e dei fini della stessa (a prescindere dalla condivisione, avversione, disinteresse o indifferenza per siffatti metodi e fini, che lo muovono nel foro interno) e si renda compiutamente conto dell'efficacia causale della sua attività di sostegno, vantaggiosa per la conservazione o il rafforzamento dell'associazione. Secondo la Cassazione, la Corte d'Appello di Palermo ha correttamente applicato i principi illustrati dalla stessa corte, dopo un accertamento condotto ex post: difatti, dopo avere descritto le specifiche condotte poste in essere da Marcello Dell'Utri nel periodo1978-1982, ha ricostruito l'effettivo nesso condizionalistico tra le stesse e il fatto di reato storicamente verificatosi nelle sue caratteristiche essenziali sia in positivo che mediante l'operazione controfattuale di eliminazione mentale della condotta materiale atipica dell'imputato quale concorrente esterno, integrata dal criterio di sussunzione sotto leggi di copertura, generalizzazioni e massime di esperienza dotate di affidabile plausibilità empirica.
Il caso Cuffaro. Il caso Cuffaro è interessante per capire cosa (in punto di diritto) non costituisce condotta penalmente punibile per concorso esterno in associazione di tipo mafioso e quando scatta la preclusione processuale del "ne bis in idem". Il procedimento — instaurato a seguito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo in merito alle dichiarazioni rese, a decorrere dal mese di giugno 2002, dal collaboratore Giuffré Antonino, capo mandamento di Caccamo e componente effettivo della Commissione Provinciale di Cosa Nostra, arrestato il precedente 16 aprile 2002 — riguarda fatti attinenti:
1) innanzitutto, a plurimi episodi di propalazioni di notizie riservate in merito alle indagini dirette alla cattura dei due più importanti esponenti dell'associazione mafiosa Cosa Nostra, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, che hanno coinvolto sia infedeli servitori dello Stato sia esponenti politici, tra cui Cuffaro;
2) successivamente, ad indagini concernenti la posizione dell'imprenditore Aiello Michele sia con riferimento alla sua partecipazione all'associazione mafiosa e a rapporti con infedeli servitori dello Stato, sia con riferimento a fatti-reato commessi con danno per la sanità siciliana per decine di miliardi di lire per avere l'Aiello ottenuto, quale proprietario di due società esercenti in Bagheria terapia radio-oncologica di alta tecnologia, rimborsi non dovuti, indagini che hanno coinvolto anche funzionari e impiegati dell'A.U.S.L. di Palermo.
Si procedeva nei confronti di Cuffaro:
a) per il delitto di cui agli artt. 110 e 378 c.p., per avere aiutato Aiello, che sapeva sottoposto ad indagini per più ipotesi delittuose, a eludere le investigazioni, informandolo di notizie riservate;
b) per il delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p. per avere - con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso in concorso con altri soggetti ignoti, rivelato ad Aiello e altri, notizie che dovevano restare segrete perché concernenti i procedimenti e le attività di investigazione in corso nei confronti degli stessi soggetti destinatari delle fughe di notizie.
Il 18 gennaio 2008 nel processo di primo grado per le "talpe' alla Dda" di Palermo, Cuffaro Salvatore viene dichiarato colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione. La pena è di 5 anni di reclusione nonché all'interdizione perpetua dai pubblici uffici. La sentenza veniva impugnata (sentenza n. 187).
Il 23 gennaio 2010 la Corte d'Appello di Palermo riteneva nei confronti di Cuffaro, in relazione ai reati di cui ai capi P e Q (capi d'imputazione nel processo di primo grado per i quali era stata inizialmente esclusa la continuazione interna e l'aggravante di cui all'art. 7 del D.L. 152/2011[13]) la sussistenza della suddetta circostanza aggravante, così come originariamente contestata, per cui elevava la pena inflitta ad anni sette di reclusione (sentenza n. 189).
Il 21 gennaio 2011 con la sentenza 15583 la Cassazione rigetta il ricorso (che si articola in dodici motivi del 5/6/2010, più un motivo ulteriore del 7/6/2010, ad integrazione dei precedenti tre motivi nuovi del 23/12/2010 e cinque motivi nuovi del 30/12/2010) proposto da Cuffaro avverso la menzionata sentenza della Corte di Appello di Palermo del 23 gennaio 2010 (la sentenza di appello diviene irrevocabile). Occorre fare un passo indietro per dire che in origine il Cuffaro era stato iscritto nel registro degli indagati della Procura della Repubblica di Palermo nell'ambito del procedimento n. 2358/99 con l'accusa di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso.
Il 16 marzo 2005 i magistrati requirenti richiedevano l'archiviazione del suddetto procedimento dando atto di avere iniziato nei confronti del Cuffaro (e di altre persone) un diverso procedimento penale con la accusa di rivelazione di segreti di ufficio e favoreggiamento personale aggravato ex art. 7 di cui alla legge 203/91.
Il 21 maggio 2007, su richiesta del medesimo ufficio di Procura, era stata però autorizzata dal G.I.P., ai sensi dell'art. 414 c.p.p., la riapertura delle indagini, in esito alle quali, con richiesta depositata il 20 novembre 2009, era stata poi esercitata l'azione penale nei confronti del Cuffaro in ordine all'imputazione di concorso esterno nell'associazione mafiosa "cosa nostra".
Il 28 giugno 2010 i pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene hanno chiesto la condanna a 10 anni di reclusione per Cuffaro, imputato con l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa in un altro processo con rito abbreviato noto come «Cuffaro bis». Tra le vicende al centro di questo ulteriore processo, quella delle candidature di Mimmo Miceli e Giuseppe Acanto, detto Piero, nelle liste del Cdu e del Biancofiore alle elezioni regionali del 2001. Entrambi, secondo l'accusa, furono sponsorizzati da Cosa nostra e Cuffaro per questo motivo li accettò come candidati nelle liste a lui collegate.
Il 16 febbraio 2011 il GUP al termine del rito abbreviato del secondo processo di Cuffaro, per concorso esterno in associazione mafiosa, emette il non luogo a procedere nei confronti dell'ex Presidente della Regione Siciliana perché per gli stessi reati è già stato giudicato. La decisione è impugnata dalla Procura della Repubblica.
Il 20 giugno 2012, la Corte di Appello di Palermo conferma la decisione del GUP e assolve Cuffaro per "ne bis in idem".
Nonostante ciò, la Procura ricorre in Cassazione, dove, per la terza volte su tre gradi di giudizio, viene affermata la sussistenza del "ne bis in idem", con il conseguente proscioglimento di Salvatore Cuffaro. La Procura sosteneva che la Corte d'Appello avesse affermato l'esistenza della preclusione processuale derivante dal "ne bis in idem" in un'ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati sul solo presupposto dell'identità delle fonti probatorie e una parziale coincidenza delle contestazioni mosse nei capi di imputazione, senza adeguatamente apprezzare l'esistenza di una ontologica diversità delle fattispecie di reato contestate. L'ufficio ricorrente poneva in particolare evidenza come tra il reato di favoreggiamento aggravato dall'art. 7 1egge 203/91 (oggetto dell'imputazione mossa al Cuffaro nel c.d. processo "Talpe" definito con sentenza 15583/2011 della Corte di cassazione) e quello di cui agli artt. 110, 416 bis cp, oggetto di contestazione nella presente sede, pur nella sostanziale identità delle prove, e pur essendo manifestazione di un'ipotesi di concorso formale eterogeneo, intercorrono differenze sostanziali per le quali il giudicato dell'uno non può estendere effetti preclusivi sull'accertamento penale dell'altro. La Procura Generale, a dimostrazione della "diversità" del fatto oggetto di addebito in questa sede rispetto a quello già giudicato, mette ancora in evidenza la non coincidenza del tempsu commissi delicti.
In definitiva, il ricorrente ritiene che la preclusione ex art. 649 c.p.p. si manifesta solo nel caso in cui i fatti contestati nei due diversi procedimenti penali presentino caratteristiche di medesimezza nel senso che devono essere identici la condotta, l'evento e il nesso di casualità da relazionarsi a medesime condizioni di tempo, di luogo, di persona. Nel caso di specie i fatti contestati nei due diversi procedimenti presentano differenze oggettive e tali da non potersi ritenere che ricorra l'applicazione dell'art. 649 c.p.p..
In data 21 marzo 2013 con sentenza n. 18376 la Cassazione stabilisce che:
1) in primo luogo, sul piano ermeneutico, nell'alternativa se per "medesimo fatto" (espressione testualmente adoperata dal legislatore nell'art, 649 c.p.p.) si debba intendere l'idem factum o l'idem legale, va osservato che l'opzione privilegiata nella giurisprudenza di legittimità, è quella c.d. storico-naturalistica (idem fàctum) in base alla quale la preclusione prevista dall'art. 649 c.p.p. opera nella sola ipotesi in cui vi sia (nelle imputazioni formulate in due diversi processi, nei confronti della medesima persona) corrispondenza biunivoca fra gli elementi costitutivi dei reati descritti nelle rispettive contestazioni (condotta, evento, nesso causale) che vanno riguardate anche con riferimento alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Cass. Sez. V L7.2010 n. 28548; Cass. Sez. IV 20.1.2006 n. 15578; Cass. SU 28.6.2005 n. 34655).
E' legittima la prospettazione della "diversità" del fatto anche in ipotesi di concorso formale eterogeneo di reati, con la conseguenza che una persona giudicata per un reato ben può essere sottoposta ad un successivo giudizio per l'ulteriore e diverso reato contestualmente commesso con il primo (Cass. Sez. I 24.1.1995 n. 3354).
2) in secondo luogo, nella perimetrazione del concetto di "fatto" giudicato (ex art. 649 c.p.p.) esso non coincide (secondo criteri puramente formali) solo con quanto descritto nel capo di imputazione, ma conformemente al principio della contestazione sostanziale, il "fatto" (oggetto del giudizio) ricomprende tutti quegli aspetti che, nella progressione della vicenda processuale, sono stati via via oggetto di contestazione e di puntualizzazione della originaria accusa che risulta così compiuta attraverso atti diversi e successivi rispetto a quelli tipicamente preposti a tal fine [v. In tal senso Cass. Sez. 119.9.1995 n. 10684].
Il "fatto" giudicato, va considerato non solo sotto il profilo della sua "materialità storica", ma anche con riferimento alla ritenuta "qualificazione giuridica" conferitagli nel giudizio, con la conseguenza che anche quest'ultima è oggetto di "giudicato"; tale considerazione è il necessario corollario derivante dall'ultima parte del primo comma dell'art. 649 c.p.p. ove è prevista la preclusione del "ne bis in idem" quando il medesimo fatto sia oggetto di un secondo giudizio per un "diverso" titolo. In definitiva, la Cassazione conclude che la preclusione ex art. 649 c.p.p. ricorre ogni qualvolta il "fatto" oggetto di contestazione sostanziale (comprensivo di tutti gli elementi strutturali del reato: condotta evento, nesso causale, circostanze di tempo e di luogo), nei due diversi procedimenti penali, promossi contro la stessa persona, presenta caratteri di identità nei suoi elementi costitutivi, sì che, indipendentemente dal nomen iuris attribuito, i contenuti delle due diverse contestazioni sono pienamente sovrapponibili. Nel caso in specie, la Procura della Repubblica censura la decisione dei giudici di merito affermando che:
1) sarebbero rinvenibili, nelle imputazioni formulate nei due processi, differenze sostanziali determinate da diversità spazio/temporali dei fatti ascritti;
2) sarebbero rinvenibili differenze nel "contenuto delle contestazioni" e che taluni degli "episodi" relativi al delitto di cui all'art. 416 bis c.p. (secondo la formulazione dell'imputazione riportata nell'epigrafe della presente decisione) non sarebbero mai stati contestati.
Entrambe le affermazioni non vengono ritenute fondate dalla Cassazione. La prima viene ritenuta del tutto generica, la seconda non è ritenuta conforme alle risultanze processuali illustrate nelle decisioni di merito: i fatti addebitati vengono in toto richiamati dalla sentenza della Corte d'Appello che le ha recepite, quindi le accuse "sostanziali" sostenute nei due diversi processi vengono a sovrapporsi.
La terza questione di diritto posta dalla Procura riguardava la tesi che l'inammissibilità di un secondo giudizio non preclude di prendere in esame lo stesso fatto storico e di valutarlo liberamente ai fini della prova di un diverso fatto - reato. La premessa è ritenuta corretta dalla Cassazione che, tuttavia, evidenzia come dalla lettura integrata delle sentenze di merito emerge che è stata fatta la ricostruzione comparativa fra le due diverse imputazioni ed è stato accertato che i fatti integranti i delitti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento aggravati (processo talpe) non sono prove dell'ulteriore e diverso delitto di cui agli artt. 110, 416 bis c.p., ma sono i medesimi fatti, solo diversamente qualificati.
Nel caso in esame, il Cuffaro ha compiuto atti di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento personale aggravati ex art. 7 1egge 203/91, non solo nell'interesse di singoli soggetti (collocati in posizione di rilievo) aderenti ad associazione mafiosa, ma anche al fine di agevolare l'attività dell'organizzazione mafiosa "cosa nostra". Il Cuffaro ha agito favorendo persone che, in quanto aderenti all'associazione mafiosa "cosa nostra", stavano compiendo il delitto di cui all'art. 416 bis c.p.; di qui consegue che in virtù del limite posto dal testo dell'art. 378 c.p. (fuori dei casi di concorso), lo stesso Cuffaro non può più essere ritenuto, nel contempo favoreggiatore di coloro che violano l'art. 416 bis c.p. e concorrente esterno nel medesimo delitto associativo. E' necessario che l'azione del c.d. favoreggiatore non si traduca in un atto di sostegno o di incoraggiamento alla prosecuzione dell'attività delittuosa da parte del favorito, perché in tal caso la condotta integrerebbe non già la violazione dell'art. 378 c.p., ma quella di partecipazione al delitto associativo. Le due diverse accuse sono fra loro incompatibili, per cui la loro coesistenza è illegittima. Dato per scontato che l'art. 378 c.p. è una disposizione giuridicamente incompatibile con il concorso con il reato presupposto commesso dal soggetto che viene favorito, si deve allora esaminare se la condotta di favoreggiamento personale dispiegata dal Cuffaro a vantaggio di alcuni soggetti mafiosi ed anche nell'interesse dell'intero sodalizio, abbia esaurito l'intero disvalore penale nei termini statuiti con l'accertamento dibattimentale oramai irrevocabile, ovvero se questa stessa condotta, valutata unitamente al contesto di relazioni e rapporti intrattenuti nel tempo dal Cuffaro nel corso della sua carriera politica, possa essere emblematica (anche) di un comportamento "più radicato" (sintetizzabile nel paradigma dell'accordo politico mafioso instaurato con la consorteria criminale), cioè se tale condotta possa comportare un effetto giuridico ulteriore in modo rilevante per l'integrazione (anche) dell'autonomo reato di concorso esterno nel reato associativo mafioso (sent. Corte di Appello 20 giugno 2012 n. 3824). Il principio del ne bis in idem è previsto anche nell'articolo 4 del protocollo n. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell'Uomo (entrata in vigore l'1 novembre 1988) che, con espressione equivalente a quella del vigente codice di rito, afferma: "Nessuno può essere perseguito o condannato penalmente dalla giurisdizione dello stesso Stato per un reato per il quale è già stato assolto o condannato a seguito di una sentenza definitiva conformemente alla legge e alla procedura penale di tale Stato". In ogni caso, per tornare all'oggetto principale del discorso ossia all'individuazione delle condotte che astrattamente possono configurare il concorso esterno in associazione di tipo mafioso, nella sentenza del 20 giugno 2012, la Corte di Appello di Palermo confermando la decisione del GUP che assolveva Cuffaro per "ne bis in idem", affermava che nel c.d. "processo talpe" "non si è affatto dato atto dell'esistenza di un patto politico — mafioso o di scambio — elettorale nel quale il Cuffaro, in questa sorta di "partita a scacchi" giocata a distanza con il mafioso Guttadauro, ha assunto dei precisi impegni nell'interesse di "cosa nostra" o in favore di questo o quell'altro associato mafioso per soddisfare gli interessi riferibili alla consorteria, né, tanto meno, si è affermato che il predetto imputato si sia successivamente attivato per la realizzazione di quanto concordato in virtù di un simile progetto delittuoso, ma si è unicamente valutato questo inquietante, ma pur sempre circoscritto, fatto (vicenda relativa alla candidatura di Miceli Domenico alle elezioni regionali del 2001) per attribuirgli, unitamente a tutto il resto del coacervo probatorio, un valore di riscontro rispetto alla sussistenza del dolo specifico dell'aggravante dell'art. 7 della legge 203/91 riferita a dei fatti (questi sì assolutamente concreti) come quelli legati alle fughe di notizie investigative ed al favoreggiamento personale in favore del mafioso Guttadauro. Il Cuffaro avrebbe favorito alcuni soggetti (mafiosi o concorrenti esterni) senza che tale iniziativa agevolasse al contempo anche l'organizzazione mafiosa. Il GUP osservava che astrattamente al Cuffaro si sarebbe potuto contestare fin dall'inizio il reato di cui all'art. 110 e 416 bis c.p., così come la contestazione poteva essere modificata nel corso del dibattimento penale ex art. 516 c.p.p., ma certamente ciò che non risulta ammissibile è decidere nuovamente sulla stessa tematica accusatoria per attribuire adesso una diversa valutazione quanto al titolo del reato. Delle due l'una: o si agevola dall'esterno il sodalizio favorendo questo o quel sodale con una condotta tale da integrare il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.; ovvero si favorisce il mafioso agevolando al contempo l'organizzazione integrando il delitto aggravato di cui agli artt. 378 commi 1 e 2 c.p. e 7 Legge 203/91.
Approfondimenti. L'espressione "far parte" indica che il reato in questione è "a forma libera" e che pertanto la condotta del partecipe può assumere forme e contenuti diversi. Non basta la condivisione meramente psicologica del programma criminoso e delle relative metodiche, ma occorre anche una concreta assunzione di un ruolo materiale all'interno della struttura criminosa, manifestato da un impegno reciproco e costante, funzionalmente orientato alla struttura e all'attività dell'organizzazione criminosa (in questo elemento si può cogliere la differenza con l'essere concorrente esterno). La condotta di partecipazione può assumere forme e contenuti diversi e variabili e consiste nel contributo, apprezzabile e concreto sul piano causale, all'esistenza e al rafforzamento dell'associazione. Non è necessario che ciascuno dei partecipanti utilizzi la forza di intimidazione né consegua direttamente, per sé o per altri, il profitto o il vantaggio da realizzare attraverso l'associazione. Far parte dell'associazione significa, sul piano soggettivo, innanzitutto affectio societatis (volontà di essere soci), ma anche dare un consapevole contributo alla vita del sodalizio di cui si conosca le caratteristiche. I contributi che i singoli possono dare all'associazione possono essere i più disparati purché siano apprezzabili, concreti e diretti al mantenimento in vita o al rafforzamento dell'associazione. Va inteso che i contributi devono svilupparsi nel tempo nel senso che non sarebbe sufficiente la volontà di essere soci o un singolo contributo occasionale. Si è puniti per il solo fatto di partecipare ma non è richiesto che ogni singolo compia attività mafiosa come ad esempio la realizzazione di singoli delitti. Ciò che rileva ai fini penali è la situazione di fatto per cui un soggetto risulta affiliato (cioè il ruolo effettivamente svolto), non essendo necessario la prova della sua formale iniziazione. Con la sentenza della Cassazione del 30 gennaio 1992 n. 6992 (maxi processo) si ribadisce quanto affermato dalla Corte di merito e cioè che la distinzione tra appartenenza e partecipazione pur teoricamente configurabile, è superata e ritenuta evanescente. Il concetto di "uomo d'onore", è significativo non già di una semplice adesione morale, ma addirittura, di una formale affiliazione alla cosca mercé apposito rito (la c.d. "legalizzazione"), della coeva ed assoluta accettazione delle regole dell'agire mafioso e della messa a disposizione del sodalizio di ogni energia o risorsa personale per qualsiasi, richiesto impiego criminale, nell'ambito delle finalità di quella. In ciò, va ravvisato non soltanto l'accertata appartenenza alla mafia, nel senso letterale del personale inserimento in un organismo collettivo cui l'associato viene ad appartenere anche sotto il profilo della totale soggezione alle sue regole ed ai suoi comandi, ma anche la prova del contributo causale che, seppure mancante nel caso della semplice adesione non impegnativa, è immanente, invece, nell'obbligo solenne di prestare ogni propria disponibilità al servizio della cosca. Sempre con riguardo all'elemento oggettivo occorre dire che il c.d. metodo mafioso, pur non essendo componente della condotta, è l'elemento caratterizzante il delitto e sostanzialmente si estrinseca in:
1) Forza di intimidazione;
2) Assoggettamento e omertà;
La forza di intimidazione di cui gli associati si avvalgono (c.d. "metodo mafioso") è data dalla capacita di incutere timore di gravi danni, senza che ciò comporti necessariamente la realizzazione di specifiche minacce o violenze. Questa deve essere usata concretamente nel senso che non è sufficiente che l'associazione abbia programmato di avvalersi di essa; inoltre, è sufficiente l'intimidazione indiretta tipo quella che si ottiene con frasi allusive o comportamenti che comunque sono in grado di suscitare una forma di sudditanza psicologica nei destinatari di essa che quindi ritengono il pericolo concreto ed ineludibile. E' necessario che l'associazione abbia conseguito nell'ambiente circostante una reale capacità di intimidazione e che gli aderenti si siano avvalsi in modo effettivo di tale forza al fine di realizzare il loro programma criminoso. Ad esempio, se in una data determinata zona vari componenti il sodalizio criminale hanno realizzato numerose estorsioni, il metodo mafioso sussisterebbe qualora le vittime fossero convinte di essere esposte ad un ineludibile pericolo, anche in assenza di specifiche minacce e violenze nei singoli episodi. In tal caso, infatti, l'associazione criminale si avvarrebbe di una carica intimidatoria già acquisita nel tempo.
La condizione di assoggettamento e quella di omertà, cumulate fra loro, devono entrambe essere conseguenza della forza di intimidazione del vincolo associativo. Non basta l'uso della violenza e della minaccia (tutte le associazioni criminali che se ne servissero diventerebbero di tipo mafioso) ma occorre che la forza intimidatrice crei nel territorio e nei confronti dei terzi una situazione di assoggettamento e di omertà. L'omertà si sostanzia nel rifiuto di collaborare con organi dello Stato scaturente dalla paura di subire una danno alla integrità della persona o anche solo la paura dell'attuazione di minacce che possono comportare danni rilevanti (es. la perdita del lavoro, l'esclusione da una gara d'appalto a favore di altre imprese contigue all'associazione di tipo mafioso). Per quanto riguarda, invece, la mera "promessa" del politico, essa non potrebbe esplicare una reale efficacia in termini di "rafforzamento" dell'associazione, in difetto della concreta esecuzione della prestazione pattuita. A ritenere diversamente, cioè che possa bastare un impegno seriamente assunto dal politico, si finirebbe inevitabilmente con l'ammettere che l'impegno del politico, di concedere benefici all'organizzazione, determinerebbe comunque un aumento del credito del sodalizio nel contesto ambientale di riferimento e, nello stesso tempo, un accrescimento del senso di superiorità e del prestigio dei capi e del sentimento di fiducia dei partecipi.
Giurisprudenza. Differenza tra associazione per delinquere e concorso di persone. L'elemento distintivo tra il delitto di associazione per delinquere e il concorso di persone nel reato continuato va individuato nel carattere dell'accordo criminoso, che nel concorso di persone nel reato continuato si concretizza in via meramente occasionale ed accidentale, essendo diretto alla commissione di uno o più reati – anche nell'ambito di un medesimo disegno criminoso – con la realizzazione dei quali si esaurisce l'accordo e cessa ogni motivo di allarme sociale, mentre nel reato associativo risulta diretto all'attuazione di un più vasto programma criminoso, per la commissione di una serie indeterminata di delitti, con la permanenza di un vincolo associativo tra i partecipanti, anche indipendentemente e al di fuori dell'effettiva commissione dei singoli reati programmata (Cass. Sez. II, Sent. n. 933/2014).
Differenza tra connivenza e concorso nel reato. La distinzione tra connivenza non punibile e concorso nel reato va individuata nel fatto che, mentre la prima postula che l'agente mantenga un comportamento meramente passivo, inidoneo ad apportare alcun contributo alla realizzazione del reato, nel concorso di persona punibile è richiesto, invece, un contributo partecipativo – morale o materiale – alla condotta criminosa altrui, caratterizzato, sotto il profilo psicologico, dalla coscienza e volontà di arrecare un contributo concorsuale alla realizzazione dell'evento illecito. Il concorso ex art. 110 cod. pen. esige infatti un contributo causale in termini, sia pur minimi, di facilitazione della condotta delittuosa, mentre la semplice conoscenza o anche l'adesione morale, l'assistenza inerte e senza iniziative a tale condotta non realizzano la fattispecie concorsuale (Fattispecie nella quale la Corte ha escluso la configurabilità del concorso nell'altrui illecita detenzione di stupefacente di un soggetto che si era limitato ad accompagnare un amico in treno, pur consapevole che quest'ultimo doveva acquistare droga) (Cass. Sez. IV, Sent. n. 4055/2014).
Caratteristiche dell'apporto. In tema di associazione di tipo mafioso, assume il ruolo di "concorrente esterno" il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'"affectio societatis", fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come "condizione necessaria" per la conservazione o il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione (o, per quelle operanti su larga scala come "Cosa nostra", di un suo particolare settore e ramo di attività o articolazione territoriale) e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. (Fattispecie in cui la Corte ha annullato la misura cautelare emessa nei confronti dell'amministratore giudiziario di una società sottoposta a confisca di prevenzione, in quanto il "contributo esterno" non poteva desumersi solo dall'aver consentito al precedente titolare, aderente al sodalizio, di intromettersi nella gestione aziendale, senza verificare l'intenzionalità di tale comportamento e la sua incidenza causale sul contesto associativo) (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 33885 del 18/06/2014).
In tema di concorso esterno in associazione di tipo mafioso, il rafforzamento del sodalizio, quale "evento del contributo" causale del concorrente, può consistere oltre che nell'incremento della potenza finanziaria della cosca, anche nel solo aumento del prestigio e dell'importanza di quest'ultima nell'ambito dei rapporti con le altre consorterie criminali, indipendentemente dai risultati economici conseguiti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17894 del 08/04/2014).
Dolo specifico. L'elemento soggettivo del delitto di associazione di tipo mafioso consiste nel dolo specifico, avente ad oggetto la prestazione di un contributo utile alla vita del sodalizio ed alla realizzazione dei suoi scopi, sia nel caso della partecipazione all'ente associativo che nel caso del cosiddetto "concorso esterno", così accomunando i responsabili nell'intenzione di commettere il "medesimo reato" secondo il postulato dell'art. 110 cod. pen. Il dolo del partecipe si distingue da quello del concorrente sotto il diverso profilo che il primo vuol fornire il descritto contributo dall'interno dell'associazione, mentre il secondo, in corrispondenza del carattere atipico di una condotta rilevante per effetto del citato art. 110, intende prestarlo senza far parte della compagine sociale (Cass. Sentenza n. 4043 del 25/11/2003).
Dolo generico. Ai fini della configurabilità del concorso esterno nel reato di associazione mafiosa, non è richiesto per l'estraneo il dolo specifico proprio del partecipe (consistente nella consapevolezza di essere inserito nel sodalizio e nella volontà di far raggiungere allo stesso gli obiettivi che si è prefisso), bensì quello generico, rappresentato dalla coscienza e volontà di dare il proprio contributo al conseguimento degli scopi dell'associazione, tramite il rapporto col soggetto qualificato, del cui dolo tipico si è al corrente. (Fattispecie relativa alla condotta di imprenditore, che, essendo consapevole della appartenenza di alcuni soggetti ad una associazione mafiosa, aveva posto in essere una attività economica realizzata - di fatto - in società con costoro e con la piena consapevolezza della provenienza del denaro fornito dai suddetti) (Sez. 5, Sentenza n. 6929 del 22/12/2000).
Considerazioni conclusive. In sintesi, il concorso esterno in associazione di tipo mafioso sembra basarsi sui seguenti punti:
1) l'elemento oggettivo consiste nel dare un contributo morale o materiale idoneo al potenziamento ovvero al consolidamento o in generale al mantenimento dell'associazione. Il contributo deve, normalmente, essere episodico, deve riguardare l'intera organizzazione;
2) l'elemento soggettivo è dato dalla consapevolezza e dalla volontà di contribuire ad agevolare e rafforzare l'associazione. Non rileva il contributo dato perseguendo fini propri dell'agente, ma solo il contributo finalizzato ad aiutare l'organizzazione. Il concorrente deve "sapere" e "volere" che il suo contributo è diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso del sodalizio;
3) per sostenere che vi sia "concorso eventuale esterno" all'associazione mafiosa, occorre dimostrare che il contributo sia stato causale alla vita associativa nel senso che il contributo sia condizione necessaria dell'evento (condicio sine qua non) secondo un giudizio ex post (aiuto effettivamente prestato nel caso di "contributo episodico") oppure secondo un giudizio ex ante (aiuto potenziale che deriva da un "apporto stabilmente prestato").
Negli anni che ci separano dall'introduzione della fattispecie penale in materia di mafia, dottrina e giurisprudenza hanno fornito varie soluzioni al problema della delimitazione giuridica del concorso esterno all'organizzazione mafiosa di un soggetto. Come spesso accade in diritto, dopo un certo periodo di tempo si sono consolidate delle posizioni dominanti, che, di fatto, creano una sorta di diritto penale giurisprudenziale. Nel nostro sistema ciò è inaccettabile oltre che per ragioni di principio incorporate nel nullum crimen sine lege, anche per l'assenza di meccanismi ordinamentali in grado di assicurare stabilità e certezza applicativa ai precedenti giurisprudenziali. Nessuno, d'altra parte, potrebbe garantire che un diritto di origine giurisprudenziale sia migliore di un diritto di origine parlamentare.
L'articolo 416 bis del codice penale punisce chi fa parte di un'associazione di tipo mafioso, ma non si occupa di coloro che, pur non essendo membri a pieno titolo dell'organizzazione malavitosa, ne favoriscono o agevolano l'attività. Per questo motivo si è di fatto "creata" una nuova figura di reato, non prevista da una specifica norma di legge, quella di "concorso esterno in associazione di tipo mafioso", che appare in contrasto con il principio di tassatività della norma penale, che è uno dei cardini dello Stato di diritto, come ribadito anche in numerose sentenze della Corte costituzionale.
Dobbiamo accontentarci del combinato disposto di cui all'art. 110 c.p. e 416-bis, delle numerose sentenze di merito e di legittimità, nonché dei pareri della più autorevole dottrina, per capire i confini del concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Ma dobbiamo innanzitutto ricordarci che come insegna la nostra costituzione, "tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge", dove per "tutti" si intendono anche i mafiosi o coloro che con essi concorrono o che semplicemente li agevolano. (02/01/2016 - Giovanni Tringali)
PATTEGGIAMENTO: DA ECONOMIA PROCESSUALE AD AMMISSIONE DI COLPA INDISCUTIBILE.
Addio patteggiamento, ora per la Cassazione è a